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74/2007

Le storie nelle organizzazioni: un approccio narrativo allo


studio dei processi organizzativi

Antonella Epifanio, Nicola Bigi e Fabrizio Montanari

Il concept di alcune recenti trasmissioni televisive (su tutte Camera Cafè) si fonda sulle storie
raccontate all’interno delle organizzazioni. Nella vita quotidiana delle organizzazioni, infatti,
esistono momenti – le pause caffé o il pranzo – luoghi – le salette fumatori o quelle con i
distributori automatici – oppure relazioni – tra compagni di ufficio, tra colleghi ex compagni di
università – che facilitano il racconto di storie relative a esperienze personali o a fatti e persone
dell’organizzazione di appartenenza. Queste storie sono solo racconti soggettivi oppure possono
diventare un elemento importante per analizzare e comprendere meglio un’organizzazione?
Il presente articolo è finalizzato a esplicitare la valenza della narrazione nel vivere e nell’agire
organizzativo, secondo quanto discusso e dibattuto dall’ampia letteratura in materia. Nei
prossimi numeri verranno presentati casi aziendali analizzati secondo l’approccio narrativo.
Antonella Epifanio, Nicola Bigi, Fabrizio Montanari

1 – Sulla narrazione
La prospettiva narrativa nasce dalla convinzione che la principale modalità
attraverso cui l’individuo organizza la propria conoscenza del mondo e di sé sia
rappresentata dalla narrazione: è attraverso l’atto del raccontare che l’essere
umano, condividendo ed esprimendo agli altri, dopo che a se stesso, il proprio
sapere sulla realtà, struttura il pensiero, definisce la propria identità e attribuisce
significato all’esperienza.

L’idea che la modalità narrativa rappresenta una delle fondamentali declinazioni del
pensiero umano risale allo psicologo Jerome Bruner (1986). Bruner individuò due
stili cognitivi che caratterizzano il pensiero umano: la comprensione paradigmatica
e quella narrativa. Il primo tipo di pensiero produce conoscenze di carattere
generale e sviluppa un tipo di apprendimento finalizzato a verificare i dati della
realtà empirica. È un pensiero che procede per deduzione e induzione, secondo una
logica formale, tesa a puntualizzare il flusso dell’esperienza, a separare,
individualizzare, calcolare e comparare. La comprensione narrativa, invece,
consente una pluralità di rappresentazioni del mondo, in quanto il suo criterio di
validazione non è più quello di verità, ma di plausibilità. In altre parole, la
narratività non considera rilevante la corrispondenza al vero dei fatti raccontati, ma
la valenza del racconto in quanto rappresentazione soggettiva o condivisa di una
certa realtà. In questo modo, la narrazione diventa anche uno strumento di
interazione sociale e di negoziazione di significati, attorno a cui prendono forma
visioni del mondo condivise e istituzionalizzate.

Su un versante più sociologico, Barthes (1969) proclama la centralità sociale della


narrazione, attribuendole un valore di fondazione per l’essere e sostenendo che le
narrazioni consentono agli individui di definire chi sono e cosa stanno facendo.
Coerentemente, la narrazione può essere interpretata come il principio che
organizza l’azione umana e che guida il pensiero all’azione: essa è il processo
tramite cui l’individuo dà forma al proprio essere nel mondo, costruendo significati
rispetto a se stesso e al contesto in cui vive.

Il principio narrativo è riconducibile, dunque, ad ogni espressione umana, poichè:


“noi sogniamo in forma narrativa, immaginiamo in forma narrativa,
ricordiamo, anticipiamo, speriamo e disperiamo, crediamo e
dubitiamo, pianifichiamo, rivediamo, critichiamo, costruiamo,
facciamo pettegolezzi, impariamo, odiamo e amiamo tramite
narrazioni”1.
In questo senso, gli individui sperimenterebbero una sorta di “urgenza narrativa”
(Bruner, 1991), manifestando la necessità di costruire e rappresentare la ricchezza
e la varietà dell’esperienza sotto forma di narrazioni, che eccedono il bisogno di
verità e di verificabilità empirica manifestato dalla scienza positivista.

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Hoardy, B., “Towards a poetics of fiction: an approach through narrative”, Novel, No 2,
1968 p.5.

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2 – Le narrazioni nelle e sulle organizzazioni


Così come l’individuo, anche le organizzazioni “si raccontano”, poichè elaborano ed
esprimono racconti di sè (Cortese, 1999). L’approccio narrativo allo studio delle
organizzazioni propone di utilizzare le narrazioni come metodo di ricerca sociale:
dal momento che un’organizzazione può essere concepita come un insieme di
racconti, attraverso la loro analisi è possibile cogliere ogni aspetto della vita e
dell’agire organizzativo. Gli studi organizzativi in tema di narrazione si sono
concentrati su aspetti differenti dello stesso problema.

Ad esempio, la prospettiva costruzionista (Wilkins, 1978, Brown, 1982, McWhinney,


1984, Boyce, 1995) ha attribuito al racconto la funzione di favorire una definizione
condivisa e collettiva della realtà organizzativa, facilitando i processi di
socializzazione e il bisogno di condividere ordine e significati. Tale necessità
spingerebbe gli individui ad impegnarsi in un costante processo di confronto,
negoziazione e integrazione di punti di vista differenti, operando in tal modo una
continua costruzione e ricostruzione della realtà sociale. In tale ottica, le narrazioni
all’interno dei contesti organizzativi sarebbero strumenti attraverso i quali si
concretizza questo tentativo di (ri)costruzione della realtà ad opera degli attori
sociali.
Nell’ambito degli studi sulla cultura, il simbolismo organizzativo si focalizza
sull’analisi delle modalità con cui all’interno delle organizzazioni hanno luogo la
costruzione e la trasmissione di significati. All’interno di tale prospettiva, le
narrazioni sono considerate per la loro valenza di artefatti simbolici, attraverso cui è
possibile avere accesso a significati più profondi e nascosti. I miti e le storie che
vengono raccolti nelle organizzazioni, così come i rituali e le cerimonie che in esse
hanno luogo, non sono analizzati solo in quanto tali, bensì interpretati come simboli
di controllo, adattamento, oppure rinnovamento. In altri termini, essi sono
espressioni che sottolineano il carattere, l’ideologia o il sistema di valori di
un’organizzazione (Dandridge et al. 1980).
L’approccio critico (Boje, 1995, Bowles, 1989) privilegia l’analisi dei processi di
dominio messi in atto nelle organizzazioni, ricercando quelle espressioni o forme
latenti di oppressione culturale, prodotte sia a livello individuale che collettivo nei
contesti organizzativi. Secondo tale prospettiva, le narrazioni verrebbero utilizzate
per rinforzare l’ideologia dominante e sostenere la cultura organizzativa,
scoraggiando la presenza di voci alternative. In questo senso, esse renderebbero
“cieco” l’attore organizzativo: storie e miti, dunque, non hanno un valore neutrale
ma giungono ad avere quasi una connotazione negativa, venendo riconosciuti come
strumenti per sostenere e supportare la cultura dominante.

3 – Le storie nella ricerca organizzativa


Il paradigma della ricerca narrativa si è andato consolidandosi in modo sempre
maggiore nell’ambito degli studi organizzativi. L’idea di base è che i fenomeni
organizzativi possano essere letti e interpretati come storie, all’interno delle quali si
deposita per intero la vita organizzativa. Attraverso le narrazioni, quindi, è possibile
osservare e comprendere tutti i percorsi e i processi che caratterizzano il divenire
organizzativo.

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Antonella Epifanio, Nicola Bigi, Fabrizio Montanari

Una storia organizzativa può essere definita come “un resoconto soggettivo,
strutturato in forma di racconto, relativo a un evento passato connesso a una
problematica rilevante, che consente di pervenire ad una attribuzione di
significato”(Cortese, 1999: 55). Una storia organizzativa, in quanto resoconto
soggettivo, facilita il recupero dell’individualità all’interno dell’organizzazione; è un
racconto che consente la rielaborazione dell’esperienza attraverso il confronto e la
condivisione di significati con gli altri attori organizzativi; il suo concentrarsi sul
passato consente la trasmissione di valori, regole e soluzioni, la promozione
dell’apprendimento organizzativo e lo stimolo al cambiamento sia a livello
individuale che collettivo; la narrazione di eventi connessi a problematiche rilevanti
favorisce l’esplicitazione di conflitti significativi presenti all’interno
dell’organizzazione; la storia, in quanto espressione di un bisogno di significato,
rende possibile la costruzione di un senso comune.
Le storie organizzative, dunque, permettono agli attori, nel loro scambio dialogico,
di raggiungere una più profonda consapevolezza del proprio contesto di lavoro, in
particolare dei suoi aspetti problematici e conflittuali, recuperando, condividendo e
negoziando i significati/vissuti che caratterizzano lo stare e il fare
nell’organizzazione, facilitando la trasmissione di valori, regole o soluzioni coerenti
con la cultura organizzativa dominante (o con le sub-culture che hanno la possibilità
di manifestarsi) e promuovendo l’apprendimento individuale e organizzativo.
Le storie, oltre che soddisfare un bisogno di significato e di definizione di valori
condivisi a livello organizzativo, sono espressione del bisogno individuale di
recuperare ed esprimere i mondi soggettivi degli individui che le usano: in questo
senso, le storie sono da considerarsi un elemento di mediazione tra la dimensione
soggettiva e la dimensione collettiva, uno spazio capace di accogliere e contenere al
tempo stesso le immagini che animano la vicenda personale degli individui e la
vicenda complessiva dell’organizzazione.

Le narrazioni possono essere analizzate anche come processi di storytelling. In


questo caso, l’attenzione è rivolta a ciò che accade nell’atto del raccontare e,
attraverso esso, nell’immaginario, nelle emozioni e nella vita che viene così
ricreata. Lo studio sulle narrazioni ha sottolineato la forte correlazione tra i processi
di storytelling e i meccanismi di sensemaking che si realizzano a livello
organizzativo (Weick, 1995): se infatti, la narrazione è lo strumento attraverso cui
l’individuo interiorizza l’esperienza e la elabora in forma linguistica, per poterla
comunicare e condividere con i membri del proprio gruppo, le narrazioni sono
inevitabilmente connesse al modo in cui la conoscenza viene prodotta e trasmessa
all’interno delle organizzazioni. In questo senso, la narratività ha a che fare con i
processi di selezione, legittimazione, codificazione e istituzionalizzazione dei
significati a livello organizzativo. Attraverso le storie, interpretazioni diverse
dell’ambiente si confrontano fino a fondersi in quella condivisa da tutti, oppure
alcuni gruppi o individui cercano di fare accettare le proprie letture della realtà
anche dagli altri individui (sensegiving)

Coerentemente, è possibile descrivere l’organizzazione “narrante” non come una


singola storia, ma come una molteplicità, una pluralità di storie e di interpretazioni
di storie, anche in conflitto l’una con l’altra (Boje, 1995). L’organizzazione, allora,
può essere concepita come un insieme di voci che raccontano storie diverse a
interlocutori diversi e che danno vita a visioni della stessa realtà spesso
contrastanti. Spesso, infatti, esiste una storia “ufficiale” sostenuta e diffusa dai
vertici aziendali, che cerca di creare consenso e motivazione attorno, per esempio,
alla strategia aziendale, promuovendo una certa visione dell’organizzazione e dei

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processi in essa in atto. In questo senso, le storie sarebbero espressione del


“gruppo dominante” e dei processi messi in atto per favorirne l’accettazione da
parte dei restanti membri dell’organizzazione. Le storie “parallele”, produzioni
soggettive degli attori sociali, sarebbero invece il riflesso delle emozioni e dei vissuti
personali rispetto all’ideologia dominante, espressioni del tentativo di sfuggire alle
istanze di conformismo messe in atto dall’organizzazione.

La narratività si offre allora come alternativa allo studio classico dell’organizzazione,


consentendo il superamento di le visioni più oggettive delle organizzazioni,
allargando lo sguardo verso nuove prospettive, secondo cui esse prendono forma
anche nel mondo del pensiero e nelle conversazioni che si svolgono tra testi diversi
e voci diverse (Czarniawska, 1997).
Rispetto alla discontinuità evidente dei fatti organizzativi, alle scansioni artificiose
delle agende, alle rotture dei tempi imposte dagli obiettivi e dai progetti, i racconti
rappresentano un flusso continuo, capace di restituire libertà alle dimensioni del
passato e del futuro, sottraendole al dominio sempre più soffocante del tempo
unico, del “sempre presente”, dominato dalla crescente velocizzazione e
dall’imperativo “dell’urgenza assoluta” (Cortese, 1999). Il raccontare restituisce
continuità, spessore e densità alla vita organizzativa. La narrazione trascina con sé
ogni evento; è nel racconto che si deposita per intero la vita organizzativa.
Emerge allora la rilevanza della capacità d’ascolto dell’organizzazione, la necessità,
da parte di quest’ultima, di accogliere la voce narrante degli uomini e delle donne
senza distacco e superficialità, e con la consapevolezza che il raccontare possa
rianimare la vita organizzativa, restituendo un universo di significato nuovo e più
ricco al divenire aziendale, valorizzandone tutta la complessità e la mutevolezza.
Sul piano strettamente operativo, la ricerca narrativa si caratterizza per l’utilizzo di
un insieme variegato di metodologie differenti: alcune più classiche come le
interviste in profondità, i racconti introspettivi e autobiografici, i diari di vita; altre
più innovative, come le drammatizzazioni, la visione e la discussione di filmati, lo
scatto e il commento di fotografie, l’esecuzione e l’analisi di disegni. La maggior
parte di questi strumenti presuppone processi indotti di storytelling: in altre parole,
le narrazioni vengono suscitate in modi diversi dall’intervento del ricercatore, che
successivamente le analizzerà ai fini della propria ricerca. Un altro filone di studi
narrativi si avvale invece di racconti che nascono in modo estemporaneo: le storie
non vengono suscitate ma raccolte così come nascono spontaneamente durante le
conversazioni quotidiane tra gli attori organizzativi. Questo tipo di studio
presuppone un’osservazione partecipata del ricercatore che, prendendo parte al
quotidiano vivere organizzativo, cerca di cogliere e raccogliere i processi di
storytelling che prendono vita spontaneamente.

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Antonella Epifanio, Nicola Bigi, Fabrizio Montanari

BIBLIOGRAFIA
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Bruner, J., Actual mind, possible worlds, Harvard University Press, Cambridge Mass.,
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Czarniawska, B., Narrare l’organizzazione, Torino, Edizioni di Comunità, 1997.
Dandridge, T.C., Mitroff , I., Joyce, W.F. “Organizational symbolism: a topic to expand
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Hoardy, B., “Towards a poetics of fiction: an approach through narrative”, Novel, No. 2,
1968.
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of Humanistic Psychology, Vol.24, No. 4, 1984.
Weick, K.E., Sensemaking in Organizations, Thousand Oaks, CA, Sage, 1995.
Wilkins, A., Organizational stories as an expression of management philosophy,
Doctoral Dissertation, Stanford University, Standford (CA), 1978.

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