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dell’arricchimento culturale
Berta Martini
1
B. Martini, “Il modello dell’arricchimento culturale”, in M. Baldacci, I modelli della
didattica, Carocci, Roma, 2004, pp.155-180.
2
In questo senso, aderiamo all’ipotesi di un educazione affettiva collocata in una
dimensione collaterale all’istruzione, prospettata in M. Baldacci, La dimensione emozionale del
curricolo, Franco Angeli, Milano, 2008.
1
sfondo al modello, mentre dedicheremo la seconda parte ad analizzare
le implicazioni emotive di due pratiche caratteristiche della
trasmissione dei saperi. Poiché il modello si riferisce prevalentemente
ai saperi umanistici prenderemo in considerazione le pratiche della
lettura e dell’ascolto musicale.
«Niente accade nell’animo nostro e niente c’è, se non per opera nostra. Siamo
sempre noi a sentire quel che sentiamo, ad amare quel che amiamo ecc. Nella
coscienza, onde sappiamo qualche cosa, c’è sempre l’autocoscienza che siamo noi a
saperla. E pertanto ogni fatto psichico, in quanto atto, non è se non una certa
determinazione di quell’atto permanente che è l’Io». 4
3
F. Cambi, “I grandi modelli della formazione”, in F. Cambi, E. Frauenfelder, La
Formazione. Studi di pedagogia critica, Unicopli, Milano, 1998 (1994), pp. 37-75.
4
G. Gentile, Pedagogia come scienza filosofica, Laterza, Bari, 1912, p. 27.
2
Non solo. Secondo questa concezione, il perfezionamento umano,
ossia il processo di realizzazione di sé, consiste nel processo dello
spirito attraverso il sapere. E il sapere, lungi dall’essere qualche cosa di
separato o di antecedente all’atto di conoscere, è esso stesso spirito. È
dunque di tipo spirituale il rapporto che lega l’uomo alla cultura: lo
“spirito oggettivo” incarnato soprattutto nei saperi letterari, artistici,
storici e filosofici si fa “spirito soggettivo” per il tramite di un processo
– che pertiene anch’esso all’attività dello spirito – di partecipazione
vissuta con l’opera d’arte. In questa adesione intima del processo dello
spirito al proprio atto, la conoscenza delle cose e quella dell’uomo di sé
stesso si implicano reciprocamente essendo determinate entrambe
dall’attività di svolgimento dello spirito. È possibile riconoscere nel
riferimento che il modello fa alle grandi opere della nostra cultura, il
portato di questa eredità, almeno nel senso di riconoscere in esse il
veicolo privilegiato di quel processo di umanizzazione, e dunque di
formazione umana, che si compie in forza dei processi impliciti nella
loro produzione.
5
D. P. Ausubel, Educazione e processi cognitivi, Franco Angeli, Milano, 1995 (1968); si
veda anche M. Baldacci, “Novak e l’educazione come apprendimento di significati”, in Id. (a
cura di), L’educazione come apprendimento del significato, Franco Angeli, Milano, 2008, pp.
43-62.
3
psicologia culturale. 6 Com’è noto, l’intento di questa prospettiva
psicologica mira a ricercare le proprietà distintive della vita psichica
(potremmo dire, anche, della cognizione e dell’emozione)
nell’esperienza sociale e culturale delle persone. In particolare, nel
modo che esse hanno di pervenire a percezioni e resoconti socialmente
condivisibili di quella. Percezioni e resoconti che in quanto agiscono
come sistemi culturali di interpretazione, sono responsabili della
costruzione di significati pubblici e sociali. Se la realtà è composta di
oggetti ed eventi intersoggettivamente intellegibili, ai quali cioè è
possibile attribuire significati condivisi, allora le narrazioni e le
pratiche sociali in genere, agendo come schemi o modelli
dell’esperienza, costituiscono risorse intellettuali decisive per il
soggetto che cresce. Dunque, la cultura – e l’attività simbolica di cui
essa si sostanzia – gioca un ruolo selettivo su come elaboriamo e
interpretiamo la realtà. In particolare, la contestualizzazione sociale e
culturale dell’emozione caratterizza, secondo Bruner, lo sviluppo
emotivo del soggetto. 7 Nel primo anno di vita, questo avviene in
riferimento al mondo familiare, pensato come prima “cultura” del
bambino. In questo periodo, l’emozione riflette il grado di affinità tra
mondo del bambino e mondo degli adulti. Essi si corrispondono in una
sintonia di gesti e atteggiamenti che contestualizza le emozioni
positive, così come la loro distonia genera quelle negative.
Successivamente, grazie agli scambi sociali e culturali che
caratterizzano il suo mondo, il soggetto elabora delle rappresentazioni
che si fanno responsabili delle differenze qualitative delle emozioni in
rapporto alle diverse situazioni. L’esposizione a situazioni sociali
differenziate provoca, nel tempo, l’adattamento del soggetto alle attese
degli altri e una risposta emotiva sempre più adeguata. Dunque, è
l’interazione con un contesto socialmente definito, cioè con la cultura, a
conferire alle emozioni il loro specifico timbro affettivo. Provare rabbia
per aver ricevuto un’offesa dipende dal riconoscere l’offesa come tale,
sia linguisticamente, sia socialmente. Se non ci fosse un atto simbolico
in relazione al quale costruire un proprio significato, non si darebbero
6
J. Bruner, La cultura dell’educazione, Feltrinelli, Milano, 2001 (1996); Id. La ricerca del
significato, Bollati Boringhieri, Torino, 1992 (1990).
7
Bruner J., La mente a più dimensioni, Laterza, Roma Bari, 2003, in particolare pp. 142-
143.
4
né l’offesa né la rabbia. Ciò significa che la risposta emotiva alle
situazioni è connessa al significato che attribuiamo loro, in forza della
loro appartenenza ad un sistema interrelato di simboli che costituisce la
cultura.
Articoleremo ora la riflessione sul nesso tra le emozioni e le
predominanze caratteristiche del modello: l’oggetto della trasmissione
culturale e, successivamente, il processo della sua appropriazione da
parte dell’allievo. 8
Normalmente, tendiamo a pensare che le emozioni siano un fatto
individuale, un aspetto proprio della soggettività umana. In che senso,
allora, esse sono legate agli oggetti culturali?
Occorre chiarire la relazione tra i processi emotivi impliciti
nell’oggetto e quelli emergenti dal soggetto destinatario del modello.
Tendenzialmente, l’oggetto culturale “si riferisce a” o “porta in sé”
un’emozione (anche se le due cose possono verificarsi
contemporaneamente). Nel primo caso essa è, per così dire, un
“contenuto” dell’oggetto. Quest’ultimo può essere pensato come una
forma d’espressione simbolica dell’emozione, una sua rappresentazione
secondo uno dei codici simbolico-culturali. In questo senso, per
esempio, la cavalleresca erranza del Don Chisciotte di Cervantes può
essere interpretata come l’espressione, in prosa, di un eroismo
visionario, oppure di un sentimento di amicizia e di affetto, ancorché
scontroso, tra il Cavaliere e il suo scudiero.9 Analogamente, la cruda
nettezza della visione in bianco e nero della strage di Guernica
nell’omonima opera di Picasso, può essere intesa come l’espressione,
nel linguaggio cubista, del dolore, della paura e della barbarie di quella,
come di ogni altra strage passata e futura. 10 Nel secondo caso, invece,
nell’oggetto prevale l’emozione del suo artefice. Essa si impone al
8
Ciò si giustifica in rimando ad un’impostazione della Didattica come “mappa” di modelli
ideali i quali, nel riferirsi ad una situazione didattica tipica – intesa convenzionalmente come un
“processo” d’interazione tra un “soggetto” che apprende e un “oggetto culturale”, in funzione
di un “prodotto” d’apprendimento – evidenziano delle predominanze. I modelli restano così
individuati dall’incrocio delle distinzioni fra soggetto/oggetto e processo/prodotto. Il modello
dell’arricchimento culturale, in particolare, si situa all’incrocio delle priorità che riconosce
all’“oggetto” e al “processo”.
9
J. C. Gonzáles Faraco, Il cavaliere errante. La poetica educativa di Don Chisciotte,
Franco Angeli, Milano, 2008.
10
S. Schama, Il potere dell’arte, Arnoldo Mondadori, Milano, 2007 (2006).
5
soggetto in quanto implicita nell’atto di creazione, nel processo stesso
di produzione dell’opera. Borges, a proposito dell’uso delle metafore
nella poesia ci dice che «Le metafore non hanno bisogno di essere
credute. La cosa veramente importante è che noi pensiamo che
corrispondano alle emozioni del poeta». 11 Analogamente, l’ascolto
della Sinfonia in do maggiore K551 ci fa partecipare del sentimento di
“vittoriosa affermazione di vita” 12 di un Mozart assillato da continue
difficoltà finanziarie ma capace di slanci di liberazione dai dolori
terreni e di ritrovata energia per il lavoro.
11
J. L. Borges, L’invenzione della poesia, Arnoldo Mondadori, 2004 (2000), p. 92.
12
B. Paumgartner, Mozart, Einaudi, Torino, 1978, p. 396.
13
È noto che l’interpretazione delle emozioni come valutazioni risale all’analisi compiuta
da Aristotele e ripresa nel 1954 da M. Arnold e J. A Gasson. Su questo si può vedere K. Oatley,
Breve storia delle emozioni, Il Mulino, Bologna, 2007 (2004), in particolare pp.64-65.
14
Per una classificazione delle teorie cognitive delle emozioni si può vedere V. D’Urso,
R. Trentin, Introduzione alla psicologia delle emozioni, Laterza, Roma-Bari, 2007 (1998), in
6
specifica struttura di significato o ad una valutazione e questi elementi
cognitivi sono responsabili dell’esperienza emotiva. Alla valutazione
cognitiva è dunque attribuita la funzione di cogliere il significato di
un’esperienza emotiva e ciò è vero, dal nostro punto di vista, anche
quando quest’ultima riguarda il confronto e il dialogo con l’oggetto
culturale. In questa prospettiva, non è l’oggetto in sé a provocare
emozione, bensì la valutazione che il soggetto fa dell’oggetto in
relazione a sé stesso. In particolare, Frijda 15 ipotizza un ciclo causale
che va dalla valutazione alla formazione di tendenze all’azione e infine
all’emozione. Secondo questo autore, le tendenze all’azione sono
avvertite come sollecitazioni ad agire, anche se, anziché in azioni
manifeste, possono essere tradotte in azioni mentali che provocano un
avvicinamento o un allontanamento dall’oggetto dell’emozione,
partecipandone o distaccandosene solo con il pensiero. In questa
disposizione mentale del pensiero all’azione potremmo forse ravvisare
l’implicazione cognitiva di quel processo di “partecipazione vissuta”
(che è indubitabilmente anche partecipazione emotiva) del soggetto
all’oggetto culturale, che caratterizza il modello dal punto di vista
pedagogico.
Non solo. Nei due casi il valore è “personale”, oltre che pubblico. È
“valore per me”. In altri termini, la rilevanza dell’oggetto, per poter
essere riconosciuta dal soggetto, implica di assumere quell’oggetto
come elemento del proprio sistema di fini e di valori. Illuminante, a
questo proposito, il contributo della Nussbaum 16 che interpreta le
emozioni, in senso filosofico, come riconoscimenti di bisogno,
qualcosa che “è in relazione” con l’oggetto, in ragione di un
investimento di valore da parte del soggetto. In questo prospettiva le
emozioni legate all’attivo cogliere nell’oggetto un significato, possono
essere intese come “eudaimonistiche”, ossia rilevanti per sé stessi e il
proprio benessere. «Esse pongono l’accento sulla reale importanza del
loro oggetto, ma abbracciano anche il legame della persona all’oggetto
in quanto elemento del suo complesso di fini». 17
essa sia essenziale per spiegare alcune emozioni – tra le quali includiamo quelle connesse al
confronto e al dialogo del soggetto con oggetti culturali – mentre non lo sia per altre.
18
Ivi, pp. 73-74.
8
ad un contenuto emotivo, sia che essa sussista nell’atto di espressione
di chi l’oggetto ha prodotto. In questo senso, il processo ha qualità
estetiche nel senso deweyano. Chiariamo questo punto.
Affinché il confronto con gli oggetti culturali sia “un’esperienza” nel
senso deweyano, occorre che essa sia “compiuta”, ossia che
corrisponda, nel flusso generale dell’esperienza, ad un atto definito: per
esempio, la lettura di un romanzo o l’ascolto attento di un brano
musicale. Ciò che conferisce compiutezza e unità all’esperienza è una
qualità estetica che Dewey definisce “qualità emotiva”19 . Essa è propria
tanto dell’esperienza intellettuale quanto di quella artistica. Tuttavia,
mentre la prima tende alla esposizione dei significati da parte
dell’oggetto, la seconda li esprime. 20 Ciò significa che l’esperienza
scientifica si preoccupa di chiarire le condizioni attraverso le quali
giungere all’esperienza (la scienza, per esempio, descrive il concetto di
velocità come rapporto tra la variazione del tempo e dello spazio e
questo ci fornisce informazioni sulla sua natura, ossia condizioni per
farne esperienza, per esempio calcolandone la misura in una certa
situazione). Diversamente, l’espressione in campo artistico, anziché
condurre ad un’esperienza ne costituisce una. «La poesia o il dipinto,
non opera nella direzione della corretta esposizione descrittiva, ma in
quella dell’esperienza stessa». 21 Scienza e arte, esposizione e
espressione sono dunque entrambe significanti. La differenza riguarda
il genere di “qualità emotiva” dell’esperienza a cui si riferiscono.
In conclusione, concepire il processo come un’esperienza estetica in
senso deweyano comporta di considerarlo come portatore di una qualità
emotiva che esige comprensione e partecipazione, ossia significazione.
Un libro, una rappresentazione teatrale o un brano musicale provocano
emozioni se e nella misura in cui sono materia di esperienza, ossia di
un atto che esprime il valore di ciò che viene letto, visto, udito. Se così
è, gli oggetti culturali reclamano un soggetto impegnato nel processo
della loro interiorizzazione e questo, pratiche didattiche capaci di
trasformare i riferimenti alle emozioni o le forme della loro espressione
in qualcosa che aiuta a comprenderne la natura e a servirsene nella
propria esperienza nel mondo.
19
J. Dewey, Arte come esperienza, La Nuova Italia, Firenze, 1995 (1934), p. 50.
20
Ivi, pp. 98-99.
21
Ivi, p. 100.
9
Dimensione emozionale e pratiche didattiche
La lettura
22
R. Barthes, “La lettura”, in Id., Scritti. Società, testo, comunicazione, Einaudi, Torino,
1998, pp. 261-291.
10
Come abbiamo già osservato in generale, secondo le teorie cognitive
sulle emozioni, queste ultime dipendono dalla formulazione di un
giudizio di valore da parte del soggetto, sulla base di un sistema di
conoscenze, percezioni e credenze. Ci chiediamo che cosa questo
implichi nel caso della lettura, concepita come atto compiuto su un
testo. Anche non tenendo conto dell’operazione di decodificazione dei
segni-simbolo, infatti, la lettura come atto ci impone di considerare due
tipi di processi mentali fondamentali: la comprensione e
l’interpretazione. Assumiamo che tali processi siano entrambi
responsabili delle possibili reazioni del lettore: il suo coinvolgimento,
la passione, il vissuto emotivo, il giudizio critico ecc.
In particolare, la comprensione è il risultato del processo di
elaborazione linguistica delle informazioni che vengono trasformate e
connesse a strutture di conoscenze disponibili, permettendoci di
accedere al significato o, in termini psicologici, ad una
rappresentazione semantica del testo. L’interpretazione allude, invece,
ad un aspetto soggettivo dell’esperienza di lettura. Descritta solo in
base alla comprensione, infatti, non riusciremmo a rendere ragione
delle differenze qualitative dell’esperienza di lettura, né a giustificarne
le implicazioni emotive. Essa dovrebbe avvenire in modo analogo in
tutti gli individui e procurare grossomodo gli stessi esiti.
L’interpretazione, allora, può essere pensata come il processo
responsabile della ricerca sì di significato, ma di un significato
soggettivo e personale, laddove la comprensione ne riconosce uno
oggettivo e universale. Essa è dunque influenzata da quella che
Levorato definisce “l’architettura dei contenuti della mente” 23 , ossia il
sistema integrato e coerente delle conoscenze di base, delle concezioni
del mondo e di quelle del Sé. Anche Barthes, 24 da linguista, opera una
distinzione analoga parlando di due livelli di lettura: il primo coincide
con l’“operazione” di riconoscimento dei segni, mentre il secondo
corrisponde ad un’“attività”: la costruzione del senso che si ritiene essi
trasmettano.
Ciò è molto evidente nella interpretazione dei testi narrativi in
quanto il narrare – come ci insegna Bruner 25 – è la modalità cognitiva
23
M. C. Levorato, Le emozioni della lettura, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 83.
24
R. Barthes, “La lettura”, cit., p. 272.
25
J. Bruner, La mente a più dimensioni, cit.
11
tipicamente umana per dare senso all’esperienza; per mettere in
relazione gli eventi (lo “scenario delle azioni”) con gli stati interni dei
soggetti che le compiono (lo “scenario della coscienza”); per percepire
gli altri come soggettività dotate di intenzioni e di valori. La narrativa,
quindi, in quanto prodotto esemplare del pensiero narrativo, è una
rappresentazione simbolica del mondo, che ci consente di meglio
comprenderlo guardandolo con i nostri occhi. Ciò accade perché la
fruizione di un testo narrativo comporta una proiezione, nel racconto,
dei propri significati e dei propri giudizi. Se il sistema dei contenuti
della mente influenza la fruizione della narrativa, è evidente anche
l’influenza di questa sulle conoscenze e sulle credenze. A patto,
beninteso, che ciò di cui si fruisce sia “rilevante”, cioè suscettibile di
essere incorporato nel nostro personale sistema di fini e tale da poterne
percepire il valore estetico.
Qui, il riferimento del modello ad oggetti culturali rappresentativi
della nostra cultura è cogente. Se infatti è possibile sintonizzarsi su
qualunque racconto o romanzo, solo un’opera narrativa di alto valore
letterario riverbera nella profondità dell’esperienza di lettura, la sua
maggiore qualità espressiva. È a Bloom che ricorriamo per riassumere
il senso di una tale esperienza, nell’ideale di una “lettura profonda” a
cui incita, idealmente, i lettori delle opere del Canone:
«Vi esorto a trovare quanto si avvicina a voi, quanto può essere usato per
ponderare e riflettere. Leggete in profondità, non per credere, non per accettare, non
per contraddire, bensì per imparare a partecipare dell’unica natura che scrive e
legge». 26
Ciò è vero anche per altri tipi di testo (il saggio, il dialogo filosofico,
il commento) che esigono una lettura attenta, informata e critica. Per
coglierne il potenziale conoscitivo ed espressivo anch’essi vanno
penetrati in profondità. Anch’essi, allora, necessitano di essere
interpretati, di essere letti ad un “secondo livello”. E maggiore è
l’attenzione, la disponibilità di informazioni, la capacità di giudizio in
chi legge, più profondi e più interrelati saranno i sensi corrispondenti
alle diverse implicazioni del testo (storiche, filosofiche, etiche,
estetiche ecc.).
26
H. Bloom, Come si legge un libro e perché, BUR, Milano, 2000, p. 25.
12
In sintesi, la lettura implica parallelamente comprensione e
interpretazione. Da queste scaturisce il senso. Anziché preesistere al
testo, darsi come “verità” cartesiana da disvelare attraverso la lettura,
esso è “produzione” e questa produzione è un valore di cui il soggetto
investe il testo. Da questo punto di vista, l’opera letteraria è, per la
lettura, l’oggetto di un giudizio la cui qualità e rilevanza dipende sia
dall’opera, ossia dal suo potenziale di senso; sia dal lettore, ossia dalle
determinazioni “culturali” della sua soggettività.
Ritenere che il processo di interpretazione sia responsabile – seppur
non esclusivamente – della risposta cognitiva ed emotiva del lettore,
pone il problema dell’arbitrarietà del senso attribuito all’opera e, più in
generale, del rapporto che il lettore intrattiene con l’autore. Dobbiamo
probabilmente a Descartes l’idea, poi divenuta un luogo comune, che la
lettura di buoni libri sia una “conversazione meditata” con le persone
più virtuose (honnestes, nel testo francese) dei secoli passati, che ci
rivelano il meglio dei loro pensieri. 27 Al di là di considerare o meno
questi pensieri una “verità” rivelata, il testo intrattiene – eccezion fatta
forse solo per il testo poetico – un’intenzione di scrittura che la lettura
ricostruisce ma, anche, trasforma in forza del processo di
interpretazione.
«Il testo è intessuto di spazi bianchi (…) e chi lo ha emesso prevedeva che essi
fossero riempiti e li ha lasciati bianchi per due ragioni. Anzitutto perché un testo è un
meccanismo (…) che vive sul plusvalore di senso introdottovi dal destinatario (…). E
in secondo luogo perché, via via che passa dalla funzione didascalica a quella estetica,
un testo vuol lasciare al lettore l’iniziativa interpretativa, anche se di solito desidera
essere interpretato con un margine sufficiente di univocità. Un testo vuole che
qualcuno lo aiuti a funzionare». 28
27
R. Descartes, Discorso sul metodo, trad. it. a cura di L. Urbani Ulivi, Bompiani, Milano,
2002 (1637), p. 95.
28
U. Eco, Lector in fabula, Bompiani, Milano, 2006 (1979), p. 52.
13
architettura dei contenuti della mente a limitare la soggettività
dell’interpretazione, in quanto essi sono definiti in senso culturale. La
mente di chi scrive e di chi narra partecipa degli stessi processi
psicologici propri del pensiero narrativo. Pertanto, la differenza tra i
suoi prodotti è – parafrasando Dewey – di grado, anziché di natura.
L’interpretazione, dunque, ammette un “uso vincolato” del testo e tale
vincolo risiede in parte nel lettore e in parte nell’autore, nella sua
intenzione, così come nella sua strategia compositiva ed espressiva.
Questo impedisce la proiezione sul testo di qualunque significato
personale. Raimondi traduce in una tensione di ordine etico la duplice
esigenza di una ricognizione attenta del testo e del suo trasformarsi
sotto gli occhi del lettore.
29
E. Raimondi, Un’etica del lettore, Il Mulino, Bologna, 2007, p. 19.
14
coincidere con un’emozione, ne definisce la valenza positiva in
rapporto a diverse esperienze. Alla lettura, infatti, possiamo riferire, il
piacere del godimento estetico, dell’immaginazione, della conoscenza,
della curiosità soddisfatta, 30 mentre le emozioni qualificano il tono
affettivo di quelle esperienze. La Levorato chiama “emozioni della
mente” 31 quelle che inducono il piacere della mente durante la lettura.
Tra queste, annovera l’interesse, la curiosità e la sorpresa. Più che di
emozioni, si tratta di stati della mente caratterizzati da una componente
sia cognitiva (che provvede alla elaborazione delle informazioni
disponibili) sia emotiva (che induce perseveranza nella lettura per
ottenere informazioni nuove). In questo senso, il piacere della mente
durante la lettura è un caso paradigmatico di interazione tra cognizione
ed emozione.
Ancora a questo proposito, nel paragrafo precedente abbiamo
asserito, riprendendo un’idea della Nussbaum, che le emozioni sono
riconoscimenti di bisogno. A quali bisogni, allora, risponde la lettura?
Ne indichiamo tre. Il bisogno di evasione dalla vita reale legato al
piacere di farsi coinvolgere in una realtà fittizia e immaginaria. La
lettura, in questo caso, è attività voluttuaria, 32 pratica di godimento –
come limpidamente ci descrive Proust 33 – via privilegiata per
l’immaginazione. Il bisogno di accrescimento delle proprie conoscenze
è invece legato al piacere di meglio comprendere la realtà. Qui la
lettura è metodo intellettuale, attività alla quale educare poiché
vincolata ai requisiti della partecipazione attenta, informata,
consapevole. Finalizzata all’apprensione e alla organizzazione del
sapere, essa è “metodo” perché esercizio di razionalità, mezzo per lo
sviluppo del pensiero critico. Infine, il bisogno di mettere alla prova le
proprie concezioni del mondo è riferito al piacere di essere rassicurati o
confermati in ciò che pensiamo o in cui crediamo. In questo caso,
30
Su questo si può vedere M. C. Levorato, Le emozioni della lettura, cit., in particolare
pp. 124-128.
31
M. C. Levorato, Le emozioni della lettura, cit., in particolare pp. 155-196.
32
Riprendiamo da Barthes la distinzione delle pratiche di lettura, in Id., “La lettura”, cit.,
in particolare pp. 261-265.
33
“Sur la lecture” apparve per la pria volta su La Renaissance Latine il 15 giugno 1905.
Prost utilizzò il testo l’anno successivo come prefazione alla traduzione che egli fece di
un’opera di John Ruskin, Sésame et les Lys.
15
leggere è cammino verso la saggezza (nella accezione del tri-vium e
quadri-vium medioevali) in quanto confronto con autori e opere illustri,
con “tesori di conoscenza o di pensiero” che ci sollecitano, o ci
costringono, a rivedere le nostre concezioni, a renderle più adeguate o
più aderenti alla realtà.
Accanto alle “emozioni della mente” vi sono emozioni che nascono
dalla partecipazione del lettore all’oggetto della lettura. A tal punto da
ritenere che tra gli scopi di un’opera letteraria ci sia quello di far vivere
emozioni ai propri lettori e di farli riflettere su di esse. Una risposta
partecipatoria molto frequente, soprattutto di fronte a testi narrativi, è
l’empatia. La ragione più evidente della nostra partecipazione cognitiva
ed emotiva riguarda la natura universale delle emozioni. Un romanzo,
un racconto o un testo teatrale fanno proprie le ansie e le gioie
dell’umanità. In quelle riconosciamo noi stessi, le nostre esistenze
possibili. La concentrazione intensa sulla paura, sul sentimento di pietà
o d’amore dei personaggi ai quali ci rivolgiamo con la lettura, tuttavia,
non dipende da un impulso indiscriminato di condivisione, ma da un
giudizio di importanza e di valore circa ciò che noi riteniamo
desiderabile o giusto. E questo accade sia che i nostri giudizi si
avvicinino a quelli dei personaggi di cui leggiamo le storie, sia che se
ne distanzino. È infatti ammissibile avere una risposta partecipatoria,
per esempio sintonizzandosi sulle emozioni di dolore, di angoscia o di
rabbia del protagonista, pur non essendo in accordo con lui sulle
ragioni che le hanno provocate. Questo modo di intendere la risposta
empatica è coerente con la teoria di Frijda 34 secondo la quale la
struttura motivazionale (concern) da cui origina l’empatia è l’altruismo,
ossia il desiderare che l’altro ottenga ciò che desidera ed eviti ciò che
non desidera. Tuttavia, non tutte le risposte partecipatorie sono uguali.
Ciò sembra dipendere dal diverso contributo delle componenti emotiva
e cognitiva.
Sulla base del presupposto teorico enunciato da Frijda, altri autori 35
hanno distinto su base evolutiva diverse forme di empatia. Tra queste,
la forma meno evoluta è il contagio. Essa si manifesta, per esempio,
nell’assumere inconsapevolmente le espressioni facciali o le posture
dell’altro). Essa non è considerata una vera e propria risposta empatica
34
N. H. Frijda, Emozioni, Il Mulino, Bologna 1990 (1986).
35
Si veda M. C. Levorato, Le emozioni della lettura, cit., in particolare pp. 201-206.
16
in quanto priva della differenziazione tra Sé e l’altro. Una forma più
evoluta rispetto a questa include la differenziazione rispetto all’altro e il
riconoscimento del suo stato emotivo. Essa si manifesta, per esempio,
quando la percezione di tristezza sul volto dell’altro evoca tristezza. Le
forme più evolute di empatia, infine, sono quella mediata dal
linguaggio e il role taking. La prima è caratterizzata da un’intensa
attività cognitiva a causa della mediazione simbolica per mezzo della
quale si coglie lo stato emotivo dell’altro. Ciò comporta l’attivazione
dei sistemi di conoscenze e, in generale, dei contenuti della mente. La
seconda consiste nell’immaginare sé stessi nel ruolo di colui che prova
l’emozione. Lo stimolo può essere verbale anche in questo caso, ma
l’attività cognitiva è diversa in quanto finalizzata ad una
rappresentazione mentale della situazione. Anche la risposta
partecipatoria è diversa, più lenta nella sua emergenza, ma più intensa e
volontaria. Sono queste forme più evolute di empatia ad interessare la
lettura.
Il role taking, in particolare, è anche la forma di empatia più vicina
al sentimento morale. Se infatti estendiamo l’oggetto dell’empatia,
dalla singola emozione dell’altro alla sua condizione esistenziale,
l’altro diventa il rappresentante di una condizione di esistenza
dell’umanità che reclama la nostra solidarietà e la nostra attenzione
morale. Ciò ha fatto ritenere ad alcuni che il fondamento della moralità
non sia nella conoscenza di ciò che bisogna o non bisogna fare, ma in
un’intrinseca motivazione ad aiutare gli altri o ad evitare di
danneggiarli, che nasce dalla partecipazione emotiva alla loro
condizione. 36 Se l’empatia è una delle basi del comportamento morale e
la lettura è la modalità privilegiata per farne esperienza e per riflettere
su di essa, allora leggere ci educa anche ad un sentimento
imprescindibile di partecipazione e condivisione umana. È in questo
senso che l’arte, giacché non tutte le letture hanno questo potere, dilata
la nostra esperienza e affina la nostra sensibilità oltre i confini ristretti
delle nostre personali convinzioni.
36
A. Berti, “Emozioni e sviluppo morale”, in V. D’Urso, R. Trentin, Introduzione alla
psicologia delle emozioni, cit., pp. 119-120.
17
di emozioni c’è quello, fondamentale, di riconoscere nella realtà
elementi che possono essere incorporati nei propri schemi mentali. 37
Questo tipo di bisogno è particolarmente rilevante in rapporto
all’emozione estetica. I contenuti della mente sono soggetti a due
tendenze contrapposte: da una parte essi tendono a conservarsi, a
mantenersi stabili nel tempo; dall’altro essi tendono a modificarsi e ad
evolvere. Stabilità e plasticità riflettono, in questo senso, i concetti di
assimilazione e accomodamento piagettiani in base ai quali il soggetto
realizza un equilibrio dinamico di interazione con la realtà. Ciò che ci
preme mettere in evidenza ai fini del nostro discorso, è che a ciascuna
di queste tendenze corrisponde una particolare forma di piacere: piacere
per ciò che è facile e prevedibile nel primo caso; per ciò che invece è
nuovo e difficile nel secondo. La tendenza alla stabilità, infatti, fa sì che
le nuove informazioni siano facilmente incorporate negli schemi
precedenti, laddove la tendenza alla plasticità fa sì che gli schemi già
disponibili si espandano attraverso lo sforzo di comprensione e
interpretazione di ciò che è nuovo e difficile, in quanto non
riconducibile a schemi già disponibili. Ciò comporta un adattamento
dei sistemi di conoscenze e credenze. A questa idea di “sforzo”
conoscitivo e partecipatorio all’oggetto di conoscenza si collega
l’emozione estetica. «Il valore estetico – dice Bloom – sgorga dalla
memoria e pertanto (…) dal dolore, il dolore di rinunciare a piaceri più
facili a favore di altri molti più ardui». 38 L’opera d’arte reclama il
nostro impegno perché esprime la realtà conosciuta in modo da farci
vedere ciò che senza di essa non avremmo visto. Porta la nostra
attenzione su ciò su cui in assenza dell’osservazione creativa
dell’artista non ci saremmo soffermati. E ciò vale per tutte le “grandi
opere”, perché quando sono tali esse non riproducono la familiarità del
mondo: o ne rivelano la bellezza o la sovvertono. Generano
disorientamento, pretendono il nostro impegno conoscitivo e
interpretativo, ma siamo ripagati dall’emozione estetica che ci
procurano. Né questo deve sorprenderci, se pensiamo che esse
incarnano le convinzioni più essenziali di chi le ha compiute.
37
Ci riferiamo ancora alla teoria elaborata da Frijda in Id., Emozioni, cit.
38
H. Bloom, Il canone occidentale, Bompiani, Milano, 2000 (1994), p. 33.
18
L’ascolto musicale
39
Intendiamo l’ascolto nel senso precisato da M. Della Casa, come atto psicologico
rivolto coscientemente e intenzionalmente verso uno stimolo, in cui sono coinvolti sia gli
organi sensoriali che l’intelligenza. M. Della Casa, Educazione musicale e curricolo,
Zanichelli, Bologna, 2002 (1985), p. 51-53 e 64-65.
19
dispiace, che commuove o lascia indifferenti» 40 .
Ciò che ci induce a sentire un’emozione ha dunque a che vedere con
il significato della musica. Più difficile, invece, stabilire in che cosa
esso risieda o da che cosa sia determinato. La musica, infatti, è arte non
denotativa, o autoreferenziale, ossia non rinvia in termini referenziali
ad alcuna realtà esterna. 41 Ciò non vuol dire che essa non abbia
significato, ma che a differenza di quanto è espresso nel linguaggio con
la coppia parola-significato, non esiste una corrispondenza definita e
arbitraria tra suono e significato.
L’estetica musicale ha dibattuto a lungo sull’alternativa tra carattere
referenziale e non referenziale del linguaggio musicale. Ossia,
sinteticamente, sul fatto che il significato della musica risieda nella
“forma”, nella struttura del brano musicale, oppure nel “contenuto”, nel
senso profondo che esso incorpora e che è legato, ben oltre le
determinazioni strutturali, alla funzione, al contesto storico e culturale
della sua produzione e fruizione.
Oggi la questione si pone in termini integrativi, anziché alternativi. Da
un punto di vista didattico (ma anche musicologico) si rinuncia alla
contrapposizione tra posizioni “assolutiste” e “referenzialiste” a
vantaggio di una concezione che interpreta il significato come qualcosa
che è allo stesso tempo “interno” (in quanto “risiede nella musica
stessa”) ed “esterno” (in quanto risiede in elementi della realtà denotati
dai suoni). È evidente la rilevanza delle implicazioni di questo modo di
intendere il significato, in vista dell’educazione musicale come forma
di arricchimento culturale. Ciò che fa sì che la musica ci procuri
un’emozione sembra dipendere dalla nostra capacità di attribuirle un
significato e questa, dalla capacità che abbiamo di ricostruire i
significati “interno” ed “esterno” e di integrarli tra loro: maggiore è
l’integrazione, più intensa e significativa sarà la risposta emotiva. 42
40
J. A. Sloboda, La mente musicale, Il Mulino, Bologna, 1998 (1985), p. 24.
41
Giuseppina La Face Bianconi rintraccia in questa caratteristica della musica, insieme a
quella di essere arte temporale, due difficoltà specifiche dell’educazione ad un ascolto musicale
attento e consapevole. Id. “Le pedate di Pierrot: la comprensione musicale e la didattica
dell’ascolto”, in F. Comploi (a cura di), Musikalische Bildung. Erfahrungen und Reflexionen,
Weger, Brixen, 2005, pp. 40-60, in particolare p. 42.
42
Utile, in questa direzione, la distinzione tra “comprensione globale” (di sintesi) e
“comprensione allargata (di analisi) di M. Della Casa, Educazione musicale e curricolo, cit. Si
veda anche G. La Face Bianconi, M. Della Casa, “Musica e cultura a scuola”, Il Saggiatore
20
Già Meyer 43 aveva ribadito la distinzione fondamentale tra
concezioni “formaliste” e “assolutiste”, insieme a quella tra concezioni
“espressioniste” e “referenzialiste”:
46
D. Schön, L. Akiva.Kabiri, T. Vecchi, Psicologia della musica, Carocci, Roma, 2007,
in particolare pp. 85-87.
47
C. Casini, L’arte di ascoltare la musica, Bompiani, Milano 2005, in particolare pp. 100-
102.
48
Esempio discusso in J. A. Sloboda, La mente musicale, cit., in particolare pp. 109-115.
22
Ciò che ci preme evidenziare, è che in tutti questi casi vale l’idea di
una relazione analogica tra musica e dominii extramusicali. Del resto,
càpita spesso, dopo l’ascolto di un brano musicale lungo e complesso di
rievocarlo attraverso il ricorso ad aggettivi o a metafore (“è dolce”, “fa
venire nostalgia”), piuttosto che ad elementi descrittivi (“è forte”, “il
tempo è veloce”). Ciò significa che alla musica attribuiamo, più o meno
spontaneamente e più o meno consapevolmente, un significato
extramusicale.
L’esempio forse più eloquente della rappresentazione delle emozioni
in musica riguarda l’opera. Bianconi definisce il teatro d’opera “scuola
dei sentimenti” 49 , in quanto capace di promuovere nei suoi spettatori,
attraverso la “rappresentazione formalizzata delle passioni” una vera e
propria educazione sentimentale. In particolare, l’autore risolve la
funzione formativa primaria di questa forma d’arte rintracciando una
corrispondenza tra la rappresentazione specifica di ogni singola
passione e un modello formale preordinato (l’aria col d’accapo
nell’opera metastasiana e la lyric form nel melodramma romantico) o
comunque una forma musicale (come nei dispositivi non standardizzati
descritti nel Naso di Šostakovic) che traspongono simbolicamente
specifiche passioni. A queste forme musicali – sebbene non solo ad
esse 50 – immediatamente suggestive ma suscettibili di essere comprese
razionalmente ed esplicitate tecnicamente è affidato il discernimento
delle emozioni, la capacità di distanziarsene, nonché l’affinamento
della sensibilità emotiva, quindi, l’educazione sentimentale
dell’ascoltatore.
49
L. Bianconi, “La forma musicale come scuola dei sentimenti”, in G. La Face Bianconi,
F. Frabboni, Educazione musicale e formazione, Franco Angeli, Milano, 2008, pp. 85-120, p.
85.
50
Su questo si veda L. Bianconi, “Parola, azione, musica: Don Alonso vs Don Bartolo”, Il
saggiatore musicale, XII, 2005, 35-76.
23
esempio, alla complessità armonica e ritmica e disponibili solo a
persone musicalmente esperte. 51
51
Sloboda ipotizza l’esistenza di una gerarchia di indici emotivi ai quali le persone
sarebbero più o meno sensibili in rapporto alla profondità delle loro capacità analitiche per la
musica. J. A. Sloboda, La mente musicale, cit., p. 113.
52
Ivi, pp. 24-26.
24
scelte legate alla forma e al contenuto, ha inteso esprimere dolore,
nostalgia, gioia, eccitazione o, più propriamente, una determinazione
emotiva della propria visione del mondo.
53
Il contributo di J. A. Sloboda si colloca proprio in questo àmbito. Accanto a Sloboda, in
questo campo importanti gli studi della Deliège. Citiamo, in particolare: I. Deliège, M. Mélen,
“Cue Abstraction in the Representation of Musical Form”, in I. Deliège e J. A. Sloboda (eds),
Perception and Cognition of Musica, Psychology Press, Hove, 1997, pp.387-412; I. Deliège,
“L’analogia: un supporto creativo nell’educazione all’ascolto musicale”, in G. La Face
Bianconi, F. Frabboni (a cura di), Educazione musicale e formazione, Franco Angeli, Milano,
2008, pp.253-264.
54
J. A. Sloboda, La mente musicale, cit., p. 29. Per una descrizione delle teorie cognitive
rappresentazionali delle emozioni si può vedere V. D’Urso, R. Trentin, Introduzione alla
psicologia delle emozioni, Laterza, Roma-Bari, 2007 (1998), in particolare pp. 101-106.
25
musica dipende dalla comprensione, a mezzo della capacità di
rappresentazione interna.
Ricci Bitti 55 distingue tra la risposta emotiva e il riconoscimento
della qualità espressiva legata alle emozioni. La prima è immediata,
spontanea, reattiva e indipendente dal riconoscimento della
connotazione emozionale del brano. La seconda, invece, può non essere
immediata né spontanea e non implica necessariamente una risposta
emotiva. Al contrario, essa è il prodotto di un’elaborazione cognitiva
che si fonda su un’analisi della struttura del brano musicale.
Ovviamente, entrambe le reazioni possono essere presenti nei soggetti
in momenti diversi, tuttavia, è evidente che il riconoscimento della
qualità espressiva emozionale dipende fortemente dal livello di
educazione musicale.
Osserviamo che la risposta emotiva sembra corrispondere al
processo di identificazione della connotazione emozionale 56 che, come
la risposta emotiva, avviene in tempi brevissimi, senza sforzo e in
modo automatico, laddove il riconoscimento della qualità espressiva
allude più ad una risposta cognitiva a riferimenti emozionali o – come
dice Pagannone 57 – ad una “consapevolezza affettiva”.
La complementarità dei due tipi di risposta risulta evidente anche dal
carattere temporale della musica: il suo svolgersi nel tempo
comporterebbe modifiche continue nello stato emotivo di chi ascolta se
egli non fosse capace di ricondurre tale connotazione emozionale agli
aspetti compositivi (strutture ritmiche, armoniche o tonali). Di più.
Secondo il modello proposto da Meyer, 58 durante l’ascolto la musica
genera ad ogni istante un sistema di attese più o meno probabili a
seconda di quanto abbiamo consapevolmente ascoltato fino a quel
momento e del livello di analisi di cui siamo capaci. In altre parole, si
ha una risposta estetica, e dunque emozionale, ogni qualvolta le attese
destate nell’ascoltatore sono deluse nei tempi o nelle modalità che si
erano previste. Sebbene ciò sia funzionale a Meyer ad affermare la
natura intra- ed extramusicale del significato, la sua ipotesi interpreta
55
A. Nuzzaci, G. Pagannone (a cura di), Musica Ricerca e Didattica, Pensa Multimedia,
Lecce, 2008, pp. 129-130.
56
D. Schön, L. Akiva.Kabiri, T. Vecchi, Psicologia della musica, cit., p.85.
57
A. Nuzzaci, G. Pagannone (a cura di), Musica Ricerca e Didattica, cit., p. 131.
58
L. Meyer, Emozione e significato della musica, cit.
26
gli elementi affettivo e cognitivo come concorrenti a definire
l’esperienza musicale nel suo complesso.
59
Ivi, pp. 71-72.
60
L. Bianconi, “La forma musicale come scuola dei sentimenti”, cit., p.97.
61
M. Della Casa, Educazione musicale e curricolo, cit., p. 65.
27
sul brano musicale, indipendentemente dalla sua decifrazione. L’opera
non viene recepita in quanto tale ma come oggetto della propria
identificazione e partecipazione. Non a caso l’autore attribuisce a
questo tipo di ascolto la funzione di “far vivere sensazioni, emozioni
immagini”, mentre finalizza alla “comprensione della musica nella sua
intrinsecità” l’ascolto “obiettivo” o “riflessivo” che interpreta l’opera
musicale come oggetto culturale col quale istituire un confronto e un
dialogo.
62
Sul modello di Didattica dell’ascolto, dell’autrice si può vedere: “Musica e cultura a
scuola”, (in collaborazione con M. Della Casa), Il Saggiatore musicale, X, 1, 2003, pp. 119-
133; Id. “Le pedate di Pierrot: la comprensione musicale e la didattica dell’ascolto”, in F.
Comploi (a cura di), Musikalische Bildung. Erfahrungen und Reflexionen, Weger, Brixen,
2005, pp. 40-60; segnaliamo inoltre il numero monografico di Musica e storia, XIV, 3, 2006,
interamente dedicato alla Didattica dell’ascolto.
28
ricostruzione sociogenetica 63 del significato dell’opera musicale in
forza di elementi extramusicali, ossia situandola nel contesto storico-
culturale di origine. Si guarda all’opera nelle sue determinazioni
storiche e sociali, dunque pragmatiche, che ne svelano la funzione, il
valore artistico, estetico o epistemologico. La seconda fase, dedicata
all’ascolto vero e proprio, compie direttamente una ricostruzione
psicogenetica del significato in forza del riconoscimento degli elementi
strutturali dell’opera, secondo l’impostazione dei modelli cognitivi
rappresentazionali. In particolare, l’operazione didattica che permette
questa rielaborazione è la segmentazione della composizione musicale.
Essa infatti favorisce processi psicologici (percettivi e della memoria)
di “ancoraggio” a configurazioni riconoscibili e, con essi, i processi di
“schematizzazione” che secondo la teoria della Deliège 64 – alla quale il
modello della Didattica dell’ascolto si riferisce – coagulano intorno ad
indices o cues, cioè ad elementi che il soggetto percepisce dalla
superficie della musica e che lasciano un’impronta nella memoria. È
attorno a questi indizi che l’ascoltatore elabora la rappresentazione
della forma musicale e il suo svolgersi nel tempo.
Ciò detto, possiamo sostenere che la Didattica dell’ascolto, in quanto
istituisce una modalità organizzata di accesso al “senso” dell’opera
musicale e lo fa ricostruendone le componenti “interna” ed “esterna” ed
integrandole fra loro, costituisce la pratica privilegiata per la
conoscenza e la comprensione musicale. Conoscenza e comprensione
sulle quali costruire il significato (personale ma non arbitrario), per
ancorare ad esso, anziché un’emozione immediata e momentanea, un
ulteriore elemento conoscitivo, magari proprio di tipo emozionale,
dell’opera o di sé stessi.
63
Termine utilizzato per indicare il processo di storicizzazione dei saperi da insegnare,
che insieme a quello di ricostruzione psicogenetica compongono il processo di mediazione
didattica all’interno della trasposizione didattica del sapere.
64
Per una sintesi della teoria di Irène Deliège con numerosi riferimenti ai suoi scritti, ci si
può riferire a G. La Face Bianconi, La casa del mugnaio. Ascolto e interpretazione della
“Shöne Müllerin”, Olschki, Firenze, 2003, in particolare pp. 28-33 e 62-64.
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