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Formazione al gioco
Un parametro che dovrebbe essere contemplato nella progettualità educativa riguarda la visione
ludica della formazione. Essa, in effetti, non riguarda esclusivamente l’educazione rivolta
all’infanzia, ma rappresenta sempre una risorsa capace di stimolare la crescita integrale della
persona lungo tutto l’arco della sua vita. La ragione per la quale il gioco rappresenta una
componente irrinunciabile per la formazione, è dovuta alla sua capacità di suscitare tutte le risorse
di cui il formando dispone in quanto persona, sollecitando la dimensione affettiva ed emotiva, ma
anche quella cognitiva e sociale.
I due grandi domini cui risponde l’esigenza ludica sono , quindi, il dominio del cognitivo e quello
dell’affettivo ed emotivo.
A) Il dominio del cognitivo afferisce alla dimensione dell’uso delle facoltà intellettive. In questo
senso, il gioco rappresenta una opportunità irrinunciabile per affinare le funzioni di tipo esplorativa
(manipolazione e osservazione nell’esperienza); costruttiva ( autonomia nel conoscere e nel fare da
sé); comunicativa (esercizio consapevole di linguaggi verbali e non verbali ed apertura al mondo
attraverso codici relazionali differenti); creativa inventiva (opportunità data al formando di
inventare, innovare, trasfigurare, scomporre, riprogettare la realtà).
B) Il dominio dell’emotivo-affettivo riguarda la facoltà conferita dal gioco alle azioni umane di
simulare, esprimere metafore, interpretare la realtà esercitare ruoli diversi dal proprio per prendere
consapevolezza di modi di essere alternativi al proprio, “mettersi nei panni di”, decentrarsi per
comprendere, di fatto, l’esperienza altrui. Il gioco, inoltre, fornisce l’occasione di manifestare in una
situazione protetta e di contenimento, fenomeni di disagio emotivo.1
L’attenzione pedagogica al gioco, può rientrare in quella sezione della riflessione didattica
definibile come animazione educativa, che è fortemente connotata dall’aspetto relazionale.
L’animazione, di fatto, risulterebbe una particolare metodologia didattica. Tuttavia, come afferma
Calabrese, essa si mette al servizio di una prospettiva pedagogica che individui come sua priorità “
il protagonismo della persona sia del didatta che di colui che usufruisce dell’ azione didattica: per
questo è importante la valorizzazione della dimensione dell’interpersonalità come prospettiva
all’interno della quale collocare l’animazione didattica” 2 In buona sostanza, la metodologia
animativa, si manifesta mediante delle mediazioni educative che a monte contemplano la
formazione come un processo relazionale che si rivolge alla persona nella sua integralità. Ciò
richiede che l’insegnante agisca come persona e non semplicemente in riferimento al proprio ruolo
“ la conseguenza di ciò, è una rivisitazione della propria professionalità, il lavoro verso l’autenticità,
il permanere in un atteggiamento di autoformazione (…) che accetti l’allievo come persona e non
1
cfr. Frabboni F. – Pinto Minerva F. Introduzione alla pedagogia generale, Laterza, Bari, 2003
2
Calabrese G. Animare l’educazione. Per una didattica interattiva. I fondamenti. Franco Angeli, Milano, 2003, pag.21
16
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3
Cerri R. Dimensioni della didattica. Tra riflessione e progettualità, Vita e Pensiero, Milano, 2002, pp.77-78
4
per un approfondimento, vedere gli studi di H. Gardner, Sternberg, sulle diverse intelligenze, De la Garanderie sugli
stili di apprendimento pedagogici e la scuola italiana di Padova di Cornoldi e De Beni relativa agli studi sulla
metacognizione, Goleman per gli aspetti dell’intelligenza emotiva. Per una sintesi, vedere Repetto A. M.
Personalizzazione/individualizzazione in L’evento didattico. Dinamiche e processi, Carocci, 2007, pp. 209-231
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effetti, giocano un ruolo estremamente significativo sui processi educativi, in quanto veicolano
visioni del mondo ed approcci alla conoscenza estremamente variegati e spesso antinomici. La
cultura, infatti, determina la strutturazione di “personalità di base” a partire dalle quali va intrapreso
un discorso ed una prassi pedagogica che in effetti sappia recepire e valorizzare le differenze di
appartenenza etnica, ed affrontarne la loro incidenza nei processi formativi.
Ciascun discorso culturale determina, infatti, “forme mentali” che attribuiscono significati e modelli
simbolici diversi della realtà. La prospettiva della diversità, tiene conto, delle specificità personali
legate all’appartenenza etnica e culturale. Sono queste le tematiche affrontate dalla pedagogia
interculturale. Suo obiettivo è, infatti, quello di avvalorare la prospettiva del confronto attraverso
l’uso di pratiche che favoriscano il decentramento cognitivo e sociale per combattere pregiudizi e
stereotipi che ancora condizionano i comportamenti rispetto a forme di pensiero e stili di vita
diversi dai propri. La diversità, allora, si pone come categoria che salvaguarda le differenze,
considerandone l’uguale dignità etica.
Il pedagogista Antonio Nanni5, attento lettore della categoria interculturale in educazione, parla di
interculturalità, come nuova normalità. Tale obiettivo, implica che nel contesto formativo si
predispongano :
-la ridefinizione di obiettivi formativi, cognitivi, socio-affettivi e comportamentali;
- un approccio metodologico che faccia riferimento alle metodologie attive;
-la centralità dell’alunno e quindi la revisione dello stile relazionale dell’insegnante in classe;
-la flessibilità dell’organizzazione scolastica, la selezione dei contenuti, il rapporto con ciò che è
definito “extra-scuola”. L’approccio interculturale in educazione, pone in essere dei modelli che
sappiano porre in interazione critica due soggettualità, che appartengano a culture diverse od
omogenee ed ha il fine esplicito di interfecondare tramite una sintesi aperta e dialogica, valori
comuni possibili e creare codici culturali originali6.
A suggello di queste riflessioni, pongo questa definizione sempre di Nanni sull’interculturalità:
“L’interculturalità è un movimento di reciprocità e dunque superamento del processo
unidirezionale di trasmissione del sapere. Si dà interculturalità quando la ricerca non è un viaggio
a senso unico ma con l’altro e verso l’altro, con attenzione al suo punto di vista, alla sua memoria
storica, alle sue fonti, alle sue narrazioni,al suo sistema di attese rispetto al futuro”7
5
Nanni A., Curci S., Buone pratiche per fare intercultura, EMI , Bologna 2005
6
cfr. Contadini M. Bevilacqua G. La sfida della mondialità e dell’interculturalità, Ellenici, Torino 2000
7
Nanni A. Abbruciati S. Per capire l’interculturalità. Parole chiave, quaderni dell’interculturalità (QI)n.12. EMI,
Bologna, 1999
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Anna Maria Repetto Appunti di Pedagogia Generale
L’attenzione pedagogica alla vita affettiva e relazionale, ha le sue radici nel riconoscimento dovuto
soprattutto alle teorie psicoanalitiche di accordare, già a partire dalla prima infanzia, contesti di
crescita e formazione capaci di maturare corretti processi di attaccamento in riferimento alla vita
adulta. Bowlby, Winnicott, Spitz, hanno evidenziato come le carenze affettive possano
compromettere l’equilbrio psicofisico del bambino ed alterare il senso di sicurezza per la propria
vita e nei confronti degli altri.
L’educazione affettiva, mira a promuovere la maturazione del sentimento di sicurezza, appunto, per
poter serenamente sperimentare l’intera gamma delle emozioni, delle passioni e riconoscere i propri
desideri. Nel percorso di crescita, il bambino sviluppa via via capacità di decentramento affettivo, si
mette in relazione con gli altri, rafforza la propria tensione affettiva in direzioni molteplici. Il ruolo
della scuola come agenzia educativa, facente parte del Sistema Formativo integrato, svolge un
importantissimo ruolo di aggregazione e socializzazione essenziale all’esistenza della persona, per
sua natura essere dialogico. Con Goleman, assistiamo ad una rivalutazione della dimensione
emotiva in quanto essa rappresenta una componente significativa della cognitività e ne influisce
consistentemente sul suo esercizio.
Educazione ragione e sentimento8
Basti leggere trasversalmente lo sviluppo della storia della pedagogia dalla cultura greca a quella
odierna, per evidenziare modelli di sapere e di trasmissione del sapere che si alternavano con un
andamento ciclico di corsi e ricorsi storici, propendendo talora per istanze favorevoli alla ragione e
propensioni dichiaratamente esplicite per la dimensione dell’immaginazione, dell’emozione. 9 Per lo
più, è significativo, appunto concentrare la nostra attenzione sull’antinomia
RAGIONE/SENTIMENTO, in ordine alla quale si sono alternate le vicende del pensiero educativo
nel corso della storia.
Sarà in particolare compito della riflessione della filosofia fenomenologica, rivalutare la dimensione
soggettiva e quindi anche del sentire della persona, per riconoscere e rendere tangibili
nell’esperienza vissuta, la comprensione autentica di tutti gli aspetti della vita.
Dal punto di vista pedagogico la dimensione dell’attenzione al sentire si pone come via essenziale.
Il benessere emotivo degli insegnanti, così come quello degli alunni rappresenta una condizione
insopprimibile per riconoscere processi di comprensione della realtà educativa e relazionale.
Comprendere, infatti, significa “porre e lasciarsi porre la domanda di senso nelle situazione
dell’esistenza più dense di emozioni dove gli operatori come persone, sono chiamati a legittimare
l’affettività per non snaturare la relazione svuotandola di senso.” 10 Ecco che, allora secondo questa
8
Cfr. Iori V. Quando i sentimenti interrogano l’esistenza, Guerini Studio, Milano, 2006
9
Cfr. Iori V. Quando i sentimenti interrogano l’esistenza, Guerini Studio, Milano, 2006
10
ibidem, pag. 86
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Formazione all’Autonomia
La formazione, soprattutto intesa nel contesto contemporaneo, mostra una forte propensione a
garantire all’allievo la capacità di autogovernare i propri processi di apprendimento ed essere in
grado di gestire autonomamente le conoscenze. L’autonomia, tuttavia, non corrisponde
all’indipendenza della persona dall’ambiente nel quale si muove, ma significa acquisire
responsabilità circa il modo di entrare in relazione con la realtà e gli altri con i quali entra in
relazione. Per questo motivo, obiettivo della formazione risulta proprio essere l’emancipazione
materiale, intellettuale, relazionale del formando per tutta la vita. Raggiungere un buon grado di
autonomia, pertanto, comporta pedagogicamente conseguire un buon grado di emancipazione dalle
situazioni problematiche e quindi imparare ad affrontare l’incertezza, ma anche riconoscere e
rispettare le regole di convivenza civile, esercizio che può essere promosso da metodologie
didattiche di tipo cooperativo.
11
ibidem, pag.87
12
ibide,m pag.91
13
L. Boella Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia, Raffaello Cortina, 2006, pag.14
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Anna Maria Repetto Appunti di Pedagogia Generale
limitante l’esperienza dello spirito e quindi peso da cui emanciparsi e in definitiva, liberarsi.
L’educazione prevedeva un suo attento controllo sulle sue pulsioni ed espressioni, sui suoi desideri
ed oggetto educativo era proprio la regolazione ed il disciplinamento di tutto ciò che del corpo era
manifestazione: sguardo, movenze, posture, perfino abbigliamento.
Il nostro sistema scolastico è ancora, in effetti, definito da un marcato dualismo mente-corpo-
spirito/anima – corpo, che vede con attribuzioni positive l’elevazione dello spirito e l’esercizio
dell’intelletto e con spregio tutto quanto concerne il vil lavoro materiale, nel quale il corpo è
implicato. Infatti, se l’educazione si rivolge tradizionalmente alla mente, il corpo va, per contro,
controllato legittimato a “sfogarsi”. La struttura stessa degli spazi educativi scolastici, infatti, ha
subito questo condizionamento, privilegiando l’attenzione alla concentrazione propedeutica
all’esercizio della mente ed allo studio.
Nella lingua tedesca, abbiamo la differenziazione dei termini LEIB e KORPER. Il primo fa
riferimento al concetto di corpo vissuto e vivente, corpo proprio, punto zero dal quale si osserva il
mondo, lo si definisce nella sua dimensione esistenziale, mentre la seconda inerisce al corpo fisico,
inanimato, corpo-cosa.
In base all’approccio fenomenologico, la dimensione corporea è quella che consente di fatto la
relazione con il mondo, incontrarlo, conoscerlo. Per dirla con Merleau Ponty, “io non sono di fronte
al mio corpo, ma sono nel mio corpo, o meglio, sono il mio corpo”. Ciò significa, che partendo dal
corpo si esprime in tutta la sua autenticità la possibilità dell’esistenza. La datità del corpo rende
possibile non solo lo sperimentare il mondo nel limite delle modalità di quel corpo, ma altresì la
costruzione di un progetto proprio di corpo, coerente con le sue costitutive peculiarità. 14 Si tratta,
allora di un oggetto educativo! L’elaborazione di un progetto per il corpo, consente di fare
esperienza della propria identità, secondo una duplice caratterizzazione: percepire se stessi come
unità organica e non come semplice giustapposizione di parti ed altresì riconoscere se stessi
nell’immagine che avvertiamo di noi e quella che rimandiamo agli altri. Nell’incontro con le cose, il
corpo, diventa luogo di scambio con il mondo, che su di lui esercita un’alterazione. Il corpo si
caratterizza per l’intenzionalità con la quale si muove verso l’esterno, con la quale esprime la
tensione a conoscere.
Oltre alla dimensione del corpo inteso come corpo proprio, il corpo va inteso anche nella sua
accezione di corpo in movimento, movimento mediante cui si attiva quella ricerca di senso che
rende possibile la lettura delle esperienze di vita. Secondo la lettura fenomenologica, il corpo si
pone in una dimensione spazio-temporale ben definita e pertanto, si misura con la dimensione del
possibile. Il corpo, per esempio, esprimerebbe il nostro ancoraggio al mondo, tramite specifiche
14
cfr.Bertolini P. Per un lessico di pedagogia fenomenologica, Erickson, Trento, 2006
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funzioni semivolontarie che ci consentono senza riflettervi troppo, di abitare il mondo, in maniera
immediata. In ambito educativo, l’azione motoria prevede, allora una vera e propria intenzionalità
da promuovere nel formando, intenzionalità che non corrisponde esclusivamente alla promozione di
movimenti caratterizzati da funzionalità e finalizzazione estrema (come nello sport agonistico), ma
anche al suscitare movenze astratte, ossia non legate a modelli da riprodurre, ma protese a suscitare
espressioni libere della persona, che così manifesta la propria esigenza esistenziale di esercitare
eventi ludici e simbolici, che esprimono cultura, un vero e proprio linguaggio, che comunicano.
Nel 900 pedagogico, l’attenzione al corpo acquista un’impennata diversa e gli viene riconosciuto un
valore imprescindibile sia sotto il profilo dell’apprendimento che della vita di relazione.
L’educazione corporea, dovendo rispondere a questa dimensione olistica della persona che la
pedagogia moderna ha recepito come fondativa della sua riflessione, va pertanto declinata secondo
riflessioni pedagogiche e mediazioni didattiche che non si esprimano nei termini di un allenamento
del corpo che trova negli interessi di mercato i suoi obiettivi principali, trascurando le autentiche
esigenze di crescita e sviluppo della persona, dettate sia dal contesto sociale di appartenenza dei
formandi che dalle loro istanze biologiche (l’età, il genere) ed attitudinali.
L’uso consapevole ed espressivo del corpo in educazione, presenta, invece, presenta una tipica
intenzionalità pedagogica nei seguenti punti:
1. insegnamento all’uso intenzionale e creativo del corpo, quindi va sollecitata la
comprensione dei meccanismi di funzionamento del corpo, per comprenderne le
implicazioni psico-fisiche sulla persona e necessariamente, il loro condizionarne corrette
abitudini alimentari
2. insegnamento delle pratiche sociali e di corretti atteggiamenti di confronto
interpersonale, legate alla sua applicazione in esperienze di gruppo, competitive o di
squadra
3. insegnamento delle differenze presenti nei diversi ambiti sportivi, delle loro origini
culturali
In buona sostanza, secondo Frabboni, la formazione del corpo e del movimento contribuirebbe:
formazione intellettuale, affinando capacità sensopercettive, sviluppando gli schemi
corporei,
formazione etico-sociale, educando conoscenza e padronanza delle regole della
comunicazione sociale e della convivenza democratica
formazione affettiva, insegnando a controllare forme di aggressività e di
prevaricazione e favorendo l’incontro con l’altro nell’ambito di un contesto
collaborativo e di attenzione verso le attitudini altrui.
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Formazione estetica, prestando attenzione alla eleganza del gesto, alla sua
armonizzazione simbolica, in quanto linguaggio comunicativo dotato di una propria
forza ed autenticità, che trova nell’immediatezza del gesto un’efficacia senza pari.
Educazione, dichiara Frabboni, “alla vitalità, alla gioia del movimento, ad un uso libero ed
armonioso del corpo”15, in cui si assiste ad una commistione di diversi elementi simbolici.
15
cfr. Frabboni F. – Pinto Minerva F. Introduzione alla pedagogia generale, Laterza, Bari, 2003
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Paulo Freire
Nato a Recife, il 19 settembre 1921 da una famiglia della classe media, Freire frequenta con
risultati modesti la facoltà di giurisprudenza, e nel contempo affronta la lettura di autori legati
all’esistenzialismo cristiano, Maritain, Bernanos, Mounier. L’incontro con colei che diverrà sua
moglie, Elza Maria Costa Oliveira, insegnante e successivamente direttrice didattica, lo orienta a
praticare l’insegnamento della lingua portoghese e a ragionare sulle questioni pedagogiche . Dal
1946 al 1954 dirige il Centro di Educazione e di Cultura del Servizio sociale di Pernambuco e fonda
nel 1961 a Recife il Movimento di Cultura Popolare, coordinando il Piano per l’Educazione degli
adulti del Nord Est del Brasile. Dopo il colpo di Stato Militare del 1964, Freire è costretto all’esilio.
Dal 1965 al 1970 continua la sua opera in Cile e poi negli Stati Uniti e successivamente entra a far
parte in Svizzera nel Consiglio Mondiale delle Chiese Come esperto di problemi pedagogici per il
Terzo Mondo. Tornerà in Brasile nel 1980.
Freire arriva ad insistere che tale dicotomia debba essere completamente abolita. Ciò che Freire
suggerisce è una profonda reciprocità che va inserita nella nostra idea di docente e studente. Freire
cerca di pensarli in termini di docente-studente e studente-docente, cioè un insegnante che impara e
uno studente che insegna, come ruoli interscambiabili nella vita del contesto educativo. Non
sussiste insegnamento senza apprendimento e viceversa: in questo sta il messaggio freiriano. Nel
riconoscere paradigmaticamente che l’educando è sorgente di conoscenza anche per il docente. Egli
parla, infatti di do-discenza (docente-discente), mettendo in gioco un modello circolare di
vicendevole contaminazione ed estendendo ad insegnante ed allievo indistintamente sia il ruolo di
chi apprende che quello di chi insegna.
Dialogo ed Antidialogo
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Il secondo modello comunicativo, appunto quello relativo all’antidialogo, invece, rappresenta uno
strumento di oppressione e di assoggettamento del popolo, in quanto si rifà a modelli che
scoraggiano la comunicazione orizzontale, lo scambio e determina manipolazione del pensiero,
divisioni interne alla società, “dividi et impera”. Il non dialogo degli oppressori, si poggerebbe su
alcuni assunti tra i quali è possibile annoverare i seguenti:
Manipolazione
Patti fra classi, che non rappresentano esempi di dialogo autentico, bensì
strumenti di cui si avvalgono i dominanti per assoggettare il popolo, fornendo essi
stessi gli obiettivi e non consentendo l’assunzione responsabile delle scelte da
parte dei sottomessi.
La traduzione del principio dialogico nella pratica educativa, comporta, come già detto, la
promozione di strategie negoziali per conseguire il sapere (l’insegnante non è più depositario della
conoscenza!!), la dimensione dello scoprire insieme, ascoltare attivamente (cfr. Rogers), favorire
l’emersione, la valorizzazione delle potenzialità dei soggetti coinvolti. Come operatori educativi,
non temere il coinvolgimento emotivo, che è sintomo di autenticità e di congruenza educativa.
Capace di generare altri atti creativi, di prendere parte attivamente alle decisioni, di intervenire.
Quindi al concetto di ignoranza intesa nell’accezione di mancanza di conoscenza e di saperi, si
sovrappone un’idea di ignoranza come inadeguatezza ad esercitare competenze critiche.
L’educazione, allora, diventa un processo di riscatto, che abilita ad agire responsabilmente entro
il proprio contesto di vita, assumendo delle decisioni, discutendo coraggiosamente, infine,
prendendo consapevolezza di sé e di sviluppo delle proprie aree di libertà.
16
cfr. le considerazioni presenti nel saggio di E. Morin La testa ben fatta, Raffaello Cortina 2000
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Il processo di liberazione non può derivare che da una presa di coscienza che ha radice in se
stessi. Il potere che nasce dalla debolezza degli oppressi, sarà abbastanza forte per liberare sia
gli oppressi che gli oppressori da loro stessi.
Aver fiducia nel popolo, traslata nell’ambiente educativo, comporta l’avere fiducia
nell’educando e nella sua facoltà di essere protagonista del proprio apprendimento. Si parla,
infatti, di autoapprendimento.
dal suo modo di concepire e vedere il mondo e riconosce la sua capacità di creare l’educazione a
partire da sé
Stralci“La gente del MCP sapeva che tutte le persone, ogni famiglia, tutte le comunità, tutti
avevano la propria cultura. Puoi andare fino in "fondo al mondo", puoi andare là nel "nulla del
Sertao" e là vive qualcuno. E vive come persona: le persone parlano le une con le altre e si
capiscono, creano famiglie. Coltivano la terra e raccolgono. Cucinano e conoscono preghiere
che si recitano prima di mangiare. Dipingono recipienti di argilla, fanno belle canzoni e
bellissimi copriletto ricamati.”(…) “Nessun popolo, dagli indios dell’Amazzonia alla gente di
San Paolo o Rio de Janeiro vive senza convivere con tutto ciò ed è così che si dice che ogni
gente, ogni popolo del Brasile e del mondo possiede una propria CULTURA.
Essendo questa gente le donne e gli uomini delle classi lavoratrici del Brasile, gli insegnanti e
gli artisti del MCP hanno iniziato a dare a tutto quello che le persone semplici della campagna e
della città sentivano, pensavano, vivevano, facevano e creavano, il nome di "cultura popolare".
“In questo modo, essendo tutti uguali e senza che nessuno si senta maggiore o migliore degli
altri, noi possiamo anche essere diversi. Possiamo entrare nella conversazione-del-dialogo
ognuno pensando con la propria testa, avendo delle idee che ognuno ha creato e dicendo ciò che
sente, ciò che crede e ciò che pensa alle altre persone in tutta libertà.
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Allora è possibile costruire insieme un modo di essere e di vivere, di sentire e pensare, una
maniera di fare e di creare che sia più nostra e più creativa, per davvero.”
La prassi.
Rappresenta una modalità tipicamente umana di relazionarsi col mondo. Corrisponde all’agire e
riflettere insieme. Supera così l’estremizzazione del verbalismo vuoto e teorico che è incapace
di incidere sulla realtà e l’eccessivo attivismo che esclude il pensiero critico sull’agire e si
traduce ben presto in pseudo - credenze che totalizzano l’intervenire umano come panacea di
tutti i mali. Per Freire, la teoria può corrispondere alla contemplazione, e deriva da una capacità
analitica per la qual penetrare la realtà, ma è necessario non eccedere in astrazione. “azione e
riflessione, riflessione e azione si verificano simultaneamente. L’adozione di una prassi coerente
comporta, in educazione, la capacità di agire nel rispetto delle proprie ed altrui finalità,
adottando metodi e contenuti non autoritari, evitando, cioè, il “liberare dominando”.
Freire rifiuta la prospettiva educativa pre-digerita dall’insegnante, nel senso che solo
attraverso una educazione che problematizzi si ha la promozione della coscienza, di ciò che
veramente è della persona, nel rispetto della sua condizione esistenziale. Essa, infatti,
stimola la riflessione e l’azione dell’uomo sulla realtà, rispondendo alla sua vocazione che è
autentica solo in quanto rivolta a realizzare una trasformazione. L’obiettivo della pedagogia
degli oppressi, appunto, è l’umanizzazione di oppressi ed oppressori, perché mira ad una
liberazione dell’individuo in generale. L’educazione è tale se conduce l’uomo a porsi a
servizio di se stesso, ad assumere un ruolo di generatore di cultura, in quanto inserito nel
processo storico. Ogni epoca, si legge ne La pedagogia degli oppressi “è caratterizzata da
un insieme di idee, di concezioni, di speranze, dubbi, valori, sfide, in interazione dialettica
con i loro contrari, alla ricerca di una pienezza. La rappresentazione concreta di queste idee,
valori, concezioni e speranze, come pure gli ostacoli ad essere di più per gli uomini,
costituiscono i temi per l’epoca” che chiamano l’uomo ad inverare pienamente se stesso, il
suo “essere di più”, in quanto persona irripetibile ed unica.
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Don Milani, lo si può definire, uno degli autori della pedagogia del dissenso. Anche lui, come
Freire, vede nel processo di alfabetizzazione uno strumento di promozione del riscatto sociale,
proprio perché la cultura ed in particolare l’uso consapevole e corretto delle parole, del codice,
rappresenta un’opportunità imprescindibile per rendersi autonomi e non soggetti a manipolazione
da chi detiene la cultura dominante.
La scuola
Essa era una piccola comunità a tempo pieno , dove l’insegnante era stimolante, suscitava
interrogativi, ma era anche molto autoritario, imponeva disciplina rigorosa. Nella scuola di
Barbiana l’idea principale era quella per cui solo la lingua rende davvero uguali. A scuola,
afferma Don Milani con i suoi ragazzi, ci si vanta di operare con equità, adottando principi uguali
per tutti, ma, sottolineano gli autori, ciò significa fare parti uguali fra disuguali, mentre sarebbe
compito del professore “rimuovere gli ostacoli” affinché tutti possano avere le stesse opportunità
per apprendere. Al contrario, i professori delle medie, “curano i sani e respingono i malati”.
Metodo
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sintetizza l’idea fondamentale di un’istruzione che va perseguita per il bene della persona, per
consentirle di prendere parte ai processi di vita della comunità e della società.
È metodo cooperativo, che riconosce a tutti il diritto di parola “dai problemi è bene uscire
assieme”.
Don Milani rifiuta con ferrea fermezza qualunque tipo di mediazione, considerandola come un
evento inautentico che si frappone tra il formando e la cultura e che nasconde il rischio di
manipolarlo e condizionarlo. Dalle lettere si legge, “non consegneremo loro dunque le cose che
abbiamo costruito e che stanno cadendo da tutte le parti, ma solo gli arnesi del mestiere (cioè più
che altro la lingua, le lingue) perché costruiscano loro cose tutte diverse dalle nostre e non sotto il
nostro alto patronato né paterna compiacenza”.
Il problema del linguaggio in Don Milani, allora, assumeva una duplice attenzione: si rivolgeva da
una parte a polemizzare contro un modello didattico che si avvaleva di una lingua non accessibile
ai ragazzi e quindi che precludeva loro l’accesso alla conoscenza. D’altra parte, riconosceva che
fosse fondamentale portare i ragazzi ad acquisire un linguaggio consono per esercitare la loro
funzione di cittadini. In “Lettera ad una Professoressa”, si parla proprio di avvantaggiarsi
attraverso l’uso della lingua per diventare sovrani, così come è presentato nella Costituzione.
La questione della lingua va vista sotto diversi aspetti. Innanzi tutto, a scuola lo strumento
linguistico rappresenta il media principale per veicolare l’insegnamento. Questo significa che
l’utilizzare il codice lingua richiede questo prerequisito generale per qualunque forma di
apprendimento scolastico. Apprendere attraverso il linguaggio, comporta sia l’ampliamento delle
capacità linguistiche, che dei contenuti specifici da esso comunicati. Ciò fa si che il fare ampio
impiego di logiche e metodiche discorsive in ambito didattico, generi un uso privilegiato di
modelli descrittivi ed espositivi fortemente connotati dall’uso del linguaggio e delle sue strutture,
con l’esito di migliorare sempre più il padroneggiamento del medium linguistico.
17
Cfr. Baldacci M. Personalizzazione o Individualizzazione?, Erickson, 2005
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trattamento delle informazioni, privilegiando una particolare forma mentale che risulta soprattutto
essere quella linguistica, determinata cioè dal media verbale.18 In tal senso, le riflessioni maturate
da Don Milani nella scuola di Barbiana circa l’utilizzo di un determinato tipo di codice a scuola,
sono illuminanti: mettono in guardia da un’ eccessiva estremizzazione dell’uso del codice
linguistico, che se considerato esclusivo medium didattico, rischia di escludere dal processo di
insegnamento apprendimento coloro che ne sono carenti o che dispongono di approcci cognitivi
non prioritariamente linguistici19
Il processo comunicativo nei contesti formativi rappresenta, allora, una dimensione cui è
necessario rivolgere una dovuta attenzione: comunicare significa, infatti, non solamente inviare un
messaggio e riceverlo avvalendosi di un canale che collega emittente e destinatario. La
comunicazione rappresenta un evento di per sé estremamente complesso, perché riguarda la
dimensione del significato percepito dagli interlocutori ed il modo in cui questo possa essere
condizionato dal contesto nel quale si celebra la comunicazione. Quando si considerino irrilevanti
questi ultimi aspetti, si può a ragione parlare della metafora del canale (Lakoff e Johnson, 2004).
Secondo questa prospettiva, il significato rappresenta uno dei tanti plausibili oggetti comunicabili
nell’interazione tra gli interlocutori. La metafora regge nella misura in cui i parlanti dispongono di
codici omogenei ed il contesto non presenti rischi particolari e non condizioni eccessivamente il
senso dei messaggi comunicati. Laddove, invece, ci si misuri con ambienti di apprendimento
particolarmente critici e capaci di influenzare ed alterare i significati trasmessi e qualora tali
ambienti siano connotati da evidenti eterogeneità tra gli allievi (pensiamo alla differenza tra
l’insegnare storia in un quartiere popolare ad alto rischio, con elevata densità di popolazione
straniera e l’insegnare la stessa disciplina in un contesto scolastico di alunni provenienti dall’alta
borghesia e tutti di nazionalità italiana), la comunicazione va riconosciuta anche nella sua
dimensione di interpretazione del messaggio, inteso sia nella accezione della sua traduzione
letterale, che dei significati culturali che implicitamente sono veicolati. Quello della “metafora del
canale” rappresenta, allora, un problema didattico. In ambito pedagogico è sempre bene fare
proprio il problema del significato del messaggio e della capacità dell’alunno di comprenderlo.
Come affermava Sant’Agostino, infatti, la parola non è segno in sé, ma ha senso solo nella misura
in cui riesce a suscitare senso nell’ascoltatore. Nella misura, cioè, per cui si imprime, nella mente
dell’ascoltatore, allora, a partire dalla sua capacità di interpretarla. Si può, estremizzando un po’,
affermare, allora che non si ha insegnamento, se non si realizza questa condizione!20
18
Baldacci M. Personalizzazione o Individualizzazione?, Erickson, 2005
19
cfr. Gardner H. Formae mentis, Feltrinelli, 2000
20
cfr. Baldacci M. Personalizzazione o Individualizzazione?, Erickson, 2005. pag.70
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Anna Maria Repetto Appunti di Pedagogia Generale
A tal proposito, è significativa la considerazione che fa Bernstein circa due codici diversi che
sarebbero posseduti da alunni aventi background esperienziali e culturali differenti. Chi proviene
da un contesto socioculturale ricco, padroneggerà un codice elaborato. Chi, al contrario avrà
vissuto esperienze carenti sotto il profilo degli stimoli cognitivi e culturali, adotterà codice
linguistico ristretto. La scuola spesso, si serve di modelli comunicativi verbali riconducibili
perlopiù a forme linguistiche elaborate, che comportano per chi è detentore di codici ristretti, di
vere e proprie traduzioni dell’espressione verbale del docente nelle categorie linguistiche di cui
egli è detentore, quasi si trattasse di linguaggi diversi. Mentre per gli altri alunni che dispongono,
invece, di codici analoghi a quelli comunicati dall’insegnante il lavoro di traduzione sarebbe
limitato essenzialmente a semplici aggiustamenti. Ciò mette in luce il rischio di mediazioni
pedagogico didattiche discriminanti.
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