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(Caronia)
Polifonia e interpretazioni
Terzo pilastro concettuale della pedagogia fenomenologica è il mondo della vita e intersoggettività
storicità e culturalità dell’esperienza. Conviene distinguere due grandi correnti interpretative del pensiero
di Husserl: 1) pensiero del primo Husserl che pone l’interesse sui modi di funzionamento del soggetto
trascendentale e la costituzione della sfera eidetica per cui si considera la fenomenologia alla stregua di
un neo-idealismo trascendentale come una investigazione sulla correlazione tra la pura struttura del
conoscere noesis e il puro oggetto intenzionale corrispondente noema;
2) pone l’enfasi sulle riflessioni sulla temporalità della coscienza, l’orizzonte dell’esperienza (sensi e
significati dell’oggetto) il mondo circostante (esistenza di tutti i giorni)l’atteggiamento personalista retto
dalla categoria della motivazione e non della causalità, la specificità del riconoscimento dell’altro essere
umano come soggetto analogo a sé e dunque intenzionale una filosofia non dell’essenza ma dell’esistenza
non della pura intersoggettività trascendentale ma dell’intersoggettività e del mondo della vita.
Non si ritiene comunque corretto suddividere in due correnti la filosofia husserliana perché bisogna
concepire l’intero quadro teoretico come una evoluzione progressiva da una fenomenologia statica a una
dinamica, da un progetto inteso a delineare il funzionamento della coscienza pura a uno inteso a
descrivere la concretezza del reale.
La pedagogia fenomenologica avanza una interpretazione della fenomenologia husserliana che conferisce
rilievo non solo all’attività intenzionale del soggetto e ai modi di costituzione della conoscenza ma anche
alla dimensione intersoggettiva, storica, e culturale dell’esistenza, dell’esperienza e della conoscenza.
Mondo della vita: un orizzonte costituito
Il termine che Husserl usa per indicare la sfera da cui le scienze e tutte le altre pratiche umane hanno
origine ed entro cui si esplicano è mondo-della-vita,inteso come l’orizzonte di tutte le nostre esperienze,
lo sfondo primario su cui si stagliano e da cui sorgono tutte le cose come esistenti e significative. È
costituito da fatti, oggetti ma soprattutto da significati oggetti dotati di senso fatti intesi come evidenze
per noi. E’ l’intera chiave di volta del suo pensiero.
Con la nozione del mondo-della-vita Husserl profila l’ipotesi che lo stesso funzionamento della coscienza
almeno ad un livello profondo sia esso stesso già radicato e operante all’interno di un mondo di significati
e pregiudizi che sono socialmente, storicamente, culturalmente costituiti. Questo non invalida l’epochè,
non delegittima la necessità di mettere in parentesi i giudizi e credenze predate, la nozione di mondo della
vita trasforma lo studio del conoscere da una indagine sul soggetto trascendentale astorico e i suoi
prodotti a uno studio dei significati e della coscienza all’interno di un contesto.
Tale contesto non va confuso con il mondo materiale né va pensato alla stregua di uno sfondo statico e
immutabile; mondo-della-vita indica l’insieme dei significati che sia come individui singoli che come
collettività abbiamo attribuito e costantemente attribuiamo al mondo circostante è ciò che ne facciamo di
quel mondo indistinto che ci circonda.
Se le cose si offrono a noi con le loro pregnanze oggettive, la salienza di tali pregnanze (cosa conta come
esistente, cosa escludiamo, su cosa giudichiamo) dipende dal nostro sistema di rilevanza.
La Metafora della reteaiuta a capire la relazione tra mondo concretamente esistente indipendentemente
da noi, soggettività e mondo della vita. In quanto soggetti umani gettiamo sul mondo una rete di
rilevanza le cui maglie sono costituite dai nostri atti intenzionali e tali maglie ritagliano e pescano in
relazione alla loro forma dimensione e resistenza ciò che resta nella rete(il mondo della vita) è il prodotto
di tale incontro tra mondo indistinto e soggettività. Noi cogliamo alcuni aspetti della realtà tipicamente
quelli che sono rilevanti per noi per portare avanti la nostra vita quotidiana sia dal punto di vista delle
regole e delle procedure di pensiero accettate e chiamate metodo scientifico.
Il mondo della vita è costituito, è l’insieme delle cose esistenti e significative per noi nonché dalle
procedure che utilizziamo per costituire le cose come esistenti e significative: le procedure del pensare
legittimate sia sul piano della vita quotidiana che sul piano del pensiero scientifico. Ma affinché la vita in
comune sia possibile e la conoscenza sia legittimata e legittimabile è necessario condividere un orizzonte
referenziale comune. Il nostro essere-nel-mondo-con-gli-altri garantisce che quel mondo della vita sia un
destino sociale e non individuale, un con-esserci nella nostra vita quotidiana per cui il mondo è
intersoggettivamente e storicamente costituito.
Il mondo della vita può essere pensato come una sorta di “lingua”: esso è identicamente il prodotto della
vita in comune e ciò che consente la vita in comune.
La relazione che connette la dimensione individuale dell’esperienza e della conoscenza alla dimensione
collettiva e comunitaria, che lega l’io al noi è un altro nodo. Possiamo vedere due prospettive che si
differenziano rispetto all’accento che pongono sull’uno e sull’altro dei termini di relazione. La prima
sottolinea una precedenza all’io rispetto al noi la seconda il contrario. Ciò si trasforma in modi diversi di
pensare l’esperienza umana ed educativa. E questo non solo sul piano della scelta pedagogica o della
formulazione di teorie generali dell’educazione e dello sviluppo ma anche sul piano del pensare e
dell’agire educativo di tutti i giorni.Dal punto di vista dell’educazione la relazione con il mondo-della-vita
può essere intesa in differenti modi a seconda che si dia il primato all’io sul noi o al contrario al noi
sull’io.
Dal soggetto al mondo della vita
La pedagogia fenomenologica ha optato per una rappresentazione della relazione soggettività-mondo
della vita che riconosce il primato alla soggettività. In fenomenologia il termine soggettività sta ad
indicare il funzionamento della coscienza in quanto tale postulato come tipico di tutti gli esseri umani
quella capacità dell’uomo di dare senso agli oggetti che stanno in rapporto con lui e per essere tale la
soggettività ha sempre bisogno di un oggetto cui riferirsi. È proprietà dell’uomo di essere all’origine del
senso del mondo da cui si deduce che essa abbia una sorta di primato genetico rispetto al senso del
mondo. Il mondo-della-vita fa riferimento all’unico mondo reale esperito ed esperibile in cui si realizza la
relazione originaria tra soggettività intenzionale e il mondo esterno che dà senso alle operazioni
conoscitive dell’uomo.
In prima istanza il mondo-della-vita è visto come il prodotto dell’attività intenzionale dei soggetti umani
un mondo comune temporaneamente stabilito, una versione condivisa del mondo, appunto il mondo-
della-vita. Genesi del mondo della vita: soggettività mondo della vita.
Il mondo della vita, l’insieme di significati attribuiti al mondo sono il prodotto dell’attività intenzionale
del soggetto. Secondo questa lettura l’io (ovvero l’intenzionalità della coscienza) precede il noi (tessuto
sovra individuale fatto di significati condivisi e di credenze culturali circa l’esistenza e il significato di
fatti e di cose). Tuttavia tale rappresentazione rischia di sottostimare il ruolo e il peso del mondo della vita
nella costituzione dei modi di funzionamento della mente ma ciò è solo una parte dell’arco del circuito
riflessivo che lega la soggettività e mondo della vita.
Dal mondo della vita al soggetto
Dalla fenomenologia post hussrliana si ha la genesi dell’io a partire dal noi. Il mondo della vita in quanto
intersoggettivamente costruito non è quindi fabbricato dal soggetto ma è ciò da cui il soggetto dipende,
esso in-forma (modella, plasma) leattività del soggetto compresa l’attività intenzionale.
Nasciamo in un mondo già sociale, interpretato, costituito, siamo “gettati” in questo orizzonte di senso
che non abbiamo scelto.
A partire da questo postulato della fenomenologia esistenzialista, l’ipotesi che creare intuire il senso sia
una realizzazione individuale appare debole e fallace. Il ruolo del soggetto nella costituzione degli
oggetti, dei fatti interpretati, va visto come rilettura, elaborazione re-attribuzione di significato ad oggetti
e fatti già dotati di senso L’interpretazione singolare è fin dall’inizio intersoggettiva in quanto avviene
all’interno di e grazie al mondo della vita. Secondo questa versione la direzione costitutiva va dal mondo
delle cose alla soggettività: mondo delle cose soggettività.
Il nostro atteggiamento consiste nel mettere costantemente in parentesi il dubbio circa il fatto che il
mondo sia quale esso ci appare.L’essere umano epochizza epoche’.
Ma nel nostro quotidiano noi non mettiamo ne’ in parentesi, ne’ in discussione ma lo utilizziamo come
fonte di conoscenze che facciamo funzionare come certezze. L’ambito dell’agentività umana (il mio
personale modo di intendere es l’identità di genere e il fatto stesso che io sia capace di pensare all’identità
di genere) è vincolato: gli esseri umani producono senso e cultura ma lo fanno in quanto attori sociali
storicamente situati e in base a condizioni di possibilità del pensare e dell’agire che non hanno scelto. Il
mondo-della-vita è quel sostrato storico culturale da cui in ultimo dipendono le nostre
epistemologie (modi di conoscere e di pensare) e le nostre ontologie (asserzioni circa la realtà).
Mondo delle vita come cultura: dalla fenomenologia al socio-costruzionismo
Il mondo della vita non è così effimero, aleatorio sospeso come la sua origine costituita ci porterebbe a
pensare. Esso si identificherà con quelle concezioni naturali del mondo in base a cui viviamo che da
Husserl è stato poi portato a compimento dalla svolta socio-costruzionista in scienze umane.
La riflessione sul mondo della vita inaugurata da Husserl diventa il pilastro centrale dell’ipotesi che la
realtàsia socialmente costruita e che i nostri modi di intenderla, comprenderla e spiegarla sono fin
dall’inizio culturali.
Il paradigma socio-costruzionista compie un passo in avanti rispetto al postulato che la realtà sia costituita
dalla coscienza che tale mondo costituito è all’origine della nostra attività intenzionale e studia i modi in
cui tale processo si esplica. Questo processo si esplica tutti i giorniattraverso le comuni pratiche
quotidiane: linguaggio e interazione sociale come principali vettori sia della costruzione del mondo della
vita sia del suo solidificarsi in qualcosa di molto simile ad un mondo oggettivamente dato.
La nozione filosofica di mondo della vita si apparenta con quella di cultura. Cultura come visione del
mondo intersoggettivamente costruita e condivisa che è identicamente trasmessa e costruita
attraverso il linguaggio e l’interazione quotidiana.
Qualunque scambio verbale è possibile non solo perché si parla la stessa lingua, ma perché condividono
assunti su come usualmente stanno le cose e le definizioni di realtà implicite e implicate all’uso del
linguaggio. Es di Harvey Sacks, se sento le due frasi “Il bambino piangeva. La mamma lo prese in
braccio”, immediatamente capisco è che la mamma in questione sia la mamma del bimbo e lo prende in
braccio perché piange. Ciò è dovuto alla mia visione del mondo in cui le mamme stanno vivine ai bimbi.
Nei nostri modi di parlare e di usare il linguaggio sono inscritte visioni del mondo date per scontate. In
tale contesto il linguaggio e la conversazione ordinaria sono tra i più potenti e pervasivi strumenti
attraverso cui oggettiviamo e naturalizziamo il mondo della vita trasformandolo in una realtà valida per
tutti; il linguaggio incorpora una interpretazione della realtà che ratifica la pertinenza delle concezioni
locali e la plausibilità delle teorie del mondo di coloro che usano il linguaggio per cui la semplice
costruzione e interpretazione del significato costituisce la conoscenza culturale condivisa necessaria per
produrre enunciati comprensibili e interpretarli.
Il significato, il noema si radica su un tessuto dicredenze condivise come la conversazione che riflette il
sistema di microaccordi, anche una semplice conversazione non solo riflette un sostrato culturale di
assunti condivisi, è anche ratificazione di quegli assunti.
L’ovvietà del mondo sta nel linguaggio e nelle interazioni sociali.
Il mondo della vita ossia la conoscenza culturale condivisa, è il sostrato operante da cui dipendono i
nostri modi di parlare, agire e pensare sono i metodi con cui continuamente costruiamo e
ratifichiamo il mondo della vita quotidiana. Ad esso partecipano anche i saperi scientifici che
contribuiscono a fabbricare questo orizzonte entro cui guardiamo il mondo a stabilire i limiti prospettici
della nostra personale visione del mondo, a fornirci credenze sul mondo che nelle nostre prassi quotidiane
utilizziamo come certezze.
Soggetto e mondo della vita: una co-costruzione
Adottando una prospettiva costruzionista, la pedagogia fenomenologica che avanza una rappresentazione
co-evolutiva di soggettività e mondo della vita.
Mondo della vitaSoggettività
Per cui la relazione io-mondo, soggetto-oggetto, io-noi; se il mondo della vita è un prodotto dell’attività
intenzionale della coscienza, l’intenzionalità della coscienza è a sua volta un prodotto del mondo della
vita. Asserire il primato dell’una o dell’altra porta a una delle due fallacie: l’assolutizzazione dell’io e
derive dell’idealismo, l’etnocentrismo o il determinismo storico, secondo cui gli esseri umani non
potrebbero che restare imprigionati dalle strutture culturali e storiche.
Secondo la pedagogia fenomenologica contemporanea, il mondo della vita è una grande sceneggiatura in
cui siamo al tempo stesso attori perché partecipiamo attivamente alla sua costituzione e destinatari in
quanto lo riceviamo come già “dato”;
La pedagogia fenomenologica si pone fuori da una scelta tra le due alternative insoddisfacenti. Essa
assume la codipendenza e connessione tra genesi attiva(interpretazione, dotazione di senso, costituzione
di oggetti intenzionali) e genesi passiva (condizionamenti, vincoli storici, materiali, culturali) in chiave
evolutiva e non lineare.
L’agentivitàimplica e si nutre di passività ossia di tutto ciòche riceviamo come già dato e che ci porta o ci
permette di fare e pensare quel che facciamo o pensiamo: linguaggio ma è anche l’orizzonte già dato
costantemente ri-fatto, ri-fabbricato dai singoli soggetti nel corso delle loro interazioni quotidiane.
L’agentività: una competenza situata e distribuita
Agentività intesa come competenza tipica se non esclusiva del soggetto a fare la differenza e generare
cambiamento, competenza garantita dall’intenzionalità della coscienza.
Ma individuando i limiti dell’homo faber e della celebrazionedel soggetto per cui artefatti, oggetti, codici,
documenti, norme, architetture non sono solo prodotti, non sono solo dotati di senso, essi sono anche
produttori e dotatori di senso; la loro presenza o assenza in quel mondo della vita quotidiana abitato da
soggetti intenzionali fa la differenza. Tali figure del mondo possono dunque essere concepite come
sensemakers ossia agenti che contribuiscono a definire la situazione nonostante noi o malgrado noi.
Bisogna cogliere la forza degli agenti non umani nel definire le condizioni di possibilità e i margini
dell’agentività dell’essere umano. Es. La nozione di agentività testuale ossia l’idea che noi fabbrichiamo
e usiamo i testi ma una volta fabbricati e costruiti ne siamo al contempo alla merce’, la loro presenza fa
una differenza che condiziona i nostri corsi di azione.
L’agentività come competenza a fare la differenza,il così detto polo attivo di una relazione è dunque
situata e distribuita in una catena di enti. Il soggetto umano è ovviamente uno tra questi enti agenti. Non
l’unico: la sua stessa agentività è in continua negoziazione con le agentività circostanti e con ciò che cose,
artefatti, norme, documenti costantemente fanno.
Oltre il soggetto: pedagogia e fenomenologia postumanista
Alla radice della pedagogia fenomenologica contemporanea vi sta una postumanista che ricolora il ruolo
delle cose (oggetti, strumenti, spazi, testi, norme, passioni, valori) e ridistribuisce l’agentività sulle varie
figure che popolano la vita quotidiana. Ivi comprese le istanze non cognitive.
Questa concezione postumanista di agentività non si discosta da alcune tradizioni pedagogiche che hanno
focalizzato il ruolo delle componenti non umane e non cognitive dell’educazione, apprendimento e
sviluppo per cui la ricerca scientifica in educazione è lungi dall’essere riduzionisticamente soggettivista.
Quando si parla di agentività in educazione in genere si fa riferimento ai soggetti: nella pedagogia di
senso comune intesa come processo centrato sulla relazione tra soggetti umani, l’agentività è per esempio
ciò che insegnanti o educatori dovrebbero promuovere o conferire agli allievi o ancora, essa è ciò che gli
allievi dovrebbero giungere a realizzare diventando grazie al processo educativo attori sociali morali e
politici tanto nella sfera pubblica quanto nella sfera privata. È sempre sul pino della pedagogia di senso
comune, l’educazione è generalmente centrata sulla relazione educativa tra soggetti umani. Malgrado sia
vista come qualcosa da contestualizzare, il contesto di contro è generalmente visto come uno sfondo
inoperante. È la relazione ad essere il focus dell’attenzione per cui sono i soggetti ad essere visti come
l’origine dell’educazione come se la responsabilità della generazione di cambiamento fossero predicati
attribuibili solo ed esclusivamente al soggetto.
Sottolineando la ricorsività tra mondo della vita e intenzionalità della coscienza e riconoscendo anche
l’agentitività dell’ordine materiale delle cose, la pedagogia fenomenologica relativizza una certa visione
prometeica inscritta nelle pedagogie di senso comune e soprattutto si discosta da una lettura in chiave
soggettivistica della stessa pedagogia fenomenologica.
L’idea di una mutua costituzione tra conoscenza e prassi, tra cultura condivisa e interazione
situata, tra il senso inscritto nelle cose e il senso fabbricato dal soggetto, tra discorso e discorso è al
cuore della pedagogia fenomenologica come teoria generale dell’educazione storicamente situata e
delinea l’insecuritas della conoscenza pedagogica come tratto costitutivo di un sapere che riconosce
la dipendenza dei predicati scientifici dalle premesse culturali su cui si fondano, una prassi che
presuppone e persegue la muta costituzione tra intenzionalità e cultura, tra persona e comunità
attraverso l’interazione e il linguaggio.
Cap. 5 Scienze, teorie o versioni dell’educazione?
Questione della scrittura, attenzione ai metodi con cui raccogliamo i dati sul campo. Metodi e tecniche
quantitativi e qualitativi, sperimentali, etnografici, osservativi e dialogici guardano i fenomeni educativi
da differenti versanti epistemologici, costruendo differenti versioni dei fenomeni.
La scelta tra diverse pratiche di scrittura colora una precisa zona di responsabilità. Lungi dall’essere
appannaggio del singolo ricercatore, tale responsabilità deve essere condivisa con almeno due altri attori:
la comunità scientifica e i destinatari dei resoconti di ricerca che definiscono quale tipo di conoscenza
richiedono e si aspettano da un resoconto scientifico e dunque orientano le scelte di scrittura dei
ricercatori.
L’apertura del vaso di pandora: decostruzionismo e testualismo
Le interazioni verbali con gli informatori sono sempre state uno dei principali strumenti della ricerca sul
campo. Per quanto alcuni evitino di usarle come una fonte di info, le interviste, i dialoghi a tema, i gruppi
di discussione, le conversazioni informali sono considerate parte integrante dell’attività del ricercatore
qualitativo. Il dialogo è la prima fonte di info di molte indagini statistiche.
L’idea postmoderna secondo cui i dialoghi sul campo producono rappresentazioni della realtà situate,
locali e inevitabilmente interattive è stato il primo scossone alla nostra fiducia nella possibilità che il
resoconto scientifico possa dire qualcosa su un mondo là fuori.
Il secondo è stato la consapevolezza del ruolo della scrittura nel ricreare questa realtà costruita. Ciò ha
portato a una riflessione critica su come rappresentare tali dialoghi in quel testo scritto che è l’ultimo atto
del fare ricerca. Le pratiche di scrittura scientifica necessarie a trasformare una ricerca sul campo in una
pubblicazione sono diventate oggetto di analisi in se’. La ricerca era concepita come un processo che
avveniva e si concludeva prima e indipendentemente dalla scrittura. Il testo scritto era visto come una
presentazione delle procedure e dei risultati della ricerca.
La svolta decostruzionista in letteratura e scienze sociali ha inaugurato un sospetto circa l’idea stessa della
rappresentazione come specchio della realtà; i ricercatori postmoderni avevano svelato il ruolo della
scrittura scientifica nel costruire la realtà che essa avrebbe dovuto limitarsi a presentare. La prospettiva
epistemologica inscritta in questo quadro teoretico concepisce l’oggetto (i dati) come radicalmente
interno al testo, qualcosa di fabbricato attraverso le procedure di testualizzazione, atto a dare risposte
chiare e distinte. Questo sguardo sulle pratiche di scrittura del ricercatore ha dissolto l’idea stessa di
ricercatore come soggetto unitario.
Decostruire il ricercatore
Ricercatore non è altro che un termine ombrello che copre e nasconde diverse persone che recitano
diversi ruoli della ricerca; è una persona comune, scienziato, membro della comunità, ciascuna di queste
persone ha la propria teoria del linguaggio orale e scritto.
Il ricercatore prende decisioni epistemiche circa i modi con cui le parole si riferiscono alla realtà che
diventano indizio della posizione etica ed epistemica del ricercatore rispetto a quanto accade sul campo
per cui il modo con cui un ricercatore decide di rappresentare i dialoghi svolti sul campo passa dal regno
del dato per scontato al regno di ciò di cui si deve tener conto.
La natura dialogica dei dialoghi: un effetto del testo
La scrittura dialogica tenta di rappresentare e preservare la natura dialogica dei dati e le radici interattive e
interpersonali della conoscenza scientifica; la politica sottostante a tale poetica concerne soprattutto
l’impegno del ricercatore nel dare voce ai suoi informatori e nel distribuire l’agentività della creazione del
significatoe della costruzione della conoscenza, spezzando il monologo sovrano consacrato dalla scrittura
scientifica per creare al suo posto un testo polifonico che dà rappresentazione non solo degli enunciati ma
anche delle enunciazioni da cui hanno origine i dati di ricerca.
La rappresentazione dialogica dei fatti è una strategia retorica attraverso cui il ricercatore rappresenta se
stesso come più rispettoso del parlato originario e più sensibile alla natura interattiva e situata dei propri
dati. Anche l’uso del discorso diretto, le trascrizioni e citazioni sono forme di testualizzazione e
dispositivi che producono effetti di senso.
Si può pensare alla parola scientifica scritta come un pharmacon: è tossica in quanto nel momento in cui
si testualizza i fatti li ricrea; è rimedio dal momento che non si può dare conoscenza del mondo se non
attraverso una sua qualche testualizzazione. Le scelte di scrittura sono indizi testuali dell’identità teoretica
del ricercatore; creano dati differenti a partire dallo stesso materiale in campo; forniscono evidenze e
supporti empirici per diversi tipi di conoscenza scientifica.
Esercizi di stile o modi di fare il mondo?
La forma testuale data dalla scrittura al materiale di campo orienta l’analisi in quanto apre e chiude
diversi corsi di interpretazione, legittima diverse inferenze, diverse versioni di cosa è successo e perchè.
Le trascrizioni fanno molto di più che fornire i testi su cui si applicano le procedure di analisi, sono esse
stesse una procedura di analisi.
Vengono esaminatedue tipi di scritture ispirate a un modello dialogico di scrittura scientifica e in tutti e
due i casi lo scrittore ha evitato la parafrasi a favore di una citazione diretta delle parole originarie. Ma
presentano differenze nei modi con cui è stata data rappresentazione dialogica dei dialoghi.
Qualunque trascrizione è una traduzione nel senso stretto del termine, è selettiva e interpretativa e non
può pretendere di essere altro che una versione di quel che è accaduto, comunque una volta accettata
questa conclusione postmoderna, dobbiamo forse concludere che queste diverse forme di rifare il dialogo
originale sono equivalenti in quanto nessuna può pretendere di rispecchiare l’evento originale?
Creare un mondo permanete
Il primo estratto è un esempio classico di riportare il discorso dei partecipanti alla ricerca: dopo una breve
prefazione in cui viene evocata la domanda del ricercatore e vengono introdotte le parole dell’insegnante,
il ricercatore utilizza la citazione diretta, il discorso diretto ha lo scopo retorico di creare un effetto di
verosimiglianza.
Anche questo modo di rappresentare il dialogo ha delle regole. Lo scrittore fa un lavoro di editing sul
parlato originario, rende le frasi pronunciate più comprensibili alla lettura e le grammaticalizza.
Ripetizioni ed errori sono omessi. Questa rappresentazione scritta si focalizza sul che cosa è detto e lascia
il come è detto sullo sfondo degli elementi irrilevanti. Le principali conseguenze di questa modalità
tradizionale di trascrivere i dialoghi di ricerca:
- Queste pratiche di editing non purificano affatto il discorso né fanno emergere il puro significato:
quel che è detto (piano semantico) è collegato e condizionato dal come è detto (piano pragmatico);
- Cancellando le tracce dei segnali con cui il parlante indica come deve essere interpretato quel che
sta dicendo, l’autore perde di vista la posizione epistemologica del parlante rispetto ai suoi stessi
enunciati, le parole vengono ricostruite come fossero asserzioni dichiarative;
- Eliminando le parole e la maggior parte delle azioni conversazionali compiute dal ricercatore dal
testo scritto, queste pratiche di editing trasformano un dialogo in un monologo la cui autorialità e
responsabilità sembra appartenere solo all’informatore.
È sulla base di questa pratiche di scrittura che diventa possibile trattare il materiale verbale come un
esempio o indizio di quel che i partecipanti pensano, questa testualizzaizone trasforma il parlante
originario in un personaggio del tutto peculiare: un soggetto unitario e permanente impegnato a produrre
asserzioni chiare ed evidenti e enunciati dichiarativi sul mondo.
Una volta trasformato in questo tipo di testo, il dialogo acquista un effetto di significato: sembra riportare
un’idea che era nella mente del parlante fatta e finita prima dell’interazione di ricerca. Il ruolo del
ricercatore si rappresenta come una pinza che tira fuori tale idea dalla mente, il dato di ricerca èreso
equivalente al contenuto proposizionale degli enunciati ed è attribuito all’informatore come se fosse
l’unico parlante sulla scena della ricerca. Alla fine di questo processo questo dato diventa qualcosa da
interpretare, spiegare o la base empirica per formulare alcune inferenze.
Ma quello che non è lì non può essere ne’ interpretato ne’ spiegato o diventare il supporto empirico per
una qualche inferenza o ipotesi; le asserzioni riportano l’interpretazione del ricercatore che appare
plausibile grazie alla rappresentazione delle parole originarie.