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ISTITUTO SUPERIORE DI SCIENZE RELIGIOSE “G.

TONIOLO”

Collegato alla Pontificia Università Lateranense

La filosofia dell’educazione

Analisi critica dell’opera di Olivier Reboul

Relatore: Prof. Domenico Di Pietropaolo


Studentessa: Alessandra Ventura

Pescara, A.A. 2016-2017

1
Le teorie speculative che si sono affacciate sul campo della ricerca pedagogica hanno
formulato percorsi specifici di interazione tra scienze dell’educazione e filosofia, la quale,
proprio per la sua natura epistemologica, protende ad un’identità veritativa inerente il
panorama educativo.
L’analisi critica del concetto di educazione, attorno al quale ruota il mio screening
riflessivo, avrà l’obiettivo di dimostrare che la pedagogia non può assolutamente demolire
l’impianto filosofico che la sottende. Anzi, deve far ricorso continuamente al suo statuto
epistemologico, per meglio scegliere, definire ed operare. Ecco allora che la rappresentazione
dell’universo educativo necessita di un corollario filosofico imprescindibile per indagare una
realtà ineffabile e misteriosa quale l’esperienza educativa.
Lo scopo principale del presente lavoro è quello di effettuare una riflessione sul sapere
pedagogico, delineando i fini educativi e gli strumenti atti al suo perseguimento muovendo da
un’analisi critica dell’opera del filosofo francese Olivier Reboul (1925-1992) dal titolo La
filosofia dell’educazione, pubblicato da Armando Editore nella collana I problemi
dell’educazione del 1997. Lo scenario scaturente da questa riflessione, alla luce di un pensiero
critico e valutativo, si propone così di poter meglio meditare sull’agire formativo, traducendo
in assunti fondativi l’esperienza educativa stessa. Oltre a fornire una mappa contenutistica del
libro in esame, proporrò le linee riflessive che orientano la mia analisi critica rispetto ai nuclei
teorici significativi che delineano l’impianto dell’opera.
Partendo da un excursus semantico, peraltro vincolante ai fini del presente lavoro, la
mia riflessione muove dall’analisi del glossema del titolo della presente opera, filosofia
dell’educazione, accezione soggettiva della filosofia che esercita la propria indagine
conoscitiva sul sistema educativo. L’autore, quindi, analizza il vasto campo concettuale e
contenutistico dell’educazione mediante il binario filosofico, tratteggiando una cornice
epistemologica alle scienze pedagogiche. La prospettiva di studio, infatti, ha come chiave
interpretativa la filosofia intesa come riflessione globale, radicale e vitale della componente
educativa, che abbraccia i tempi della formazione umana. Non si ravvisa un rimando
alla didattica del mondo ebraico o collegamenti contenutistici alla Sacra Scrittura: le tre
dimensioni della pedagogia biblica quali la religiosità, l’impronta popolare e il metodo
empirico non sono privilegiate nella riflessione dell’autore. Infatti, i pilastri pedagogici del
libro sono tradizionalmente connessi ai modelli educativi del mondo classico, in particolare
all’Antica Grecia dove il connubio tra la filosofia e la paideia era imprenscindibile per una
lettura antroplogica della realtà. L’autore pone come corollario delle teorizzazioni
pedagogiche non la teologia narrativa del mondo biblico ma le voci filosofiche di Platone,

2
Aristotele, Kant, Rousseau; e da questo panorama ideologico, la filosofia dell’educazione è
divenuta, nel corso del tempo, uno strumento conoscitivo per esplorare gli aspetti specifici
della formazione umana e il configurarsi dell’esperienza educativa.
Si potrebbe osservare, a mio avviso, che la filosofia dell’educazione non è tanto un
costrutto teoretico da applicare alla formazione umana ma un’indagine metafisica che
abbraccia il vissuto esperienziale dell’uomo. Essa non è tanto una risposta quanto un
interrogativo. Per l’autore, invece, la filosofia dell’educazione contempla entrambi gli aspetti
specifici del suo essere: le domande sottese alle scienze dell’educazione e la speculazione
sull’ oggetto di indagine, l’educazione.
Così, nella prima parte dell’opera, il Reboul approda ad una filosofia che esplora
scrupolosamente il senso della parola “educazione” partendo dalla sua etimologia. La tesi
avanzata in queste pagine del libro e destinata a condurre le argomentazioni in essere
approdano ad una radicale distinzione dell’educazione in rapporto a termini interscambiabili
che vengono associati al verbo educare. La prima locuzione utilizzata in senso sinonimico è il
termine “allevare” che, in sensu strictu, si riferisce ad un’educazione spontanea, derivante
generalmente dalla famiglia. Il secondo termine analogico del verbo educare è “insegnare”
che designa un’educazione intenzionale in cui l’attività educativa è codificata con mezzi e
metodi specifici. La terza accezione del termine rimanda alla parola “formare” ossia la
preparazione dell’individuo a funzioni sociali. Per l’autore, i tre termini, apparentemente
equivalenti, hanno tra loro rapporti di esclusione poiché l’apprendimento di un oggetto, nei tre
casi specifici, non avviene allo steso modo: in famiglia si impara spontaneamente, a scuola si
insegna mediante programmi e tecniche adeguate, nella formazione si privilegia la
costruzione specifica professionale e sociale. Di fronte a tale considerazione del Reboul, sorge
spontanea un’osservazione personale: possiamo parlare di unitarietà e armonia in ambito
educativo se la stessa azione è divisa in settori pedagogici così netti?
Sicuramente la dialettica tra allevare, istruire e formare è parte costitutiva del discorso
sull’educazione il cui statuto epistemologico fornisce precisazioni terminologiche nella
cornice teoretica educativa. Ma, come afferma Reboul nelle pagine successive, «i tre termini,
anche se opposti tra loro, mantengono un rapporto di complementarietà»1. Nel momento in
cui ci si immerge in questa ricostruzione semantica, le tre dimensioni educative, unificate
anche dal termine “imparare”, rimandano inevitabilmente all’aspetto umanizzante dell’essere-
uomo poiché

1
O. REBOUL, La filosofia dell’educazione, Armando Editore, Roma 1997, 19.
3
«le domande riguardanti l’essenza della pedagogia e delle scienze dell’educazione […] ci
costringono immediatamente a ripensare l’orizzonte antropologico in una prospettiva filosofica
in cui la responsabilità diviene la cifra autentica dell’umano»2.
Quindi l’educazione ha un aspetto ontologicamente veritativo perché conduce l’individuo a
“diventare” uomo nel suo senso integrale. Condivido pienamente la linea direttiva di
un’educazione che non si discosta dalla prospettiva della maieutica socratica intesa come un
ex-ducere dell’educando. La singolare espressione della filosofia dell'educazione comporta

«L'ammonimento di essere attenti sull'uomo, nell'articolazione delle scienze umane e delle


discipline educative, nella distinzione dei campi e dei metodi. Qui, è ovvio, non intendo
riferirmi a quelle analisi sull'uomo che, per la loro stessa angolatura prospettica, esigono il più
alto livello di astrazione. Ma sì ribadire la diversità delle analisi sull'uomo che danno l'identità
del sapere pedagogico in genere e delle singole scienze dell’educazione. È su questa diversità,
che provvisoriamente si può indicare come speciale attenzione sull'uomo, che bisogna insistere
e scavare per riaffermare non tanto la necessità di una teoresi pedagogica (ricerca ancora
astratta) quanto il suo singolare modo di essere filosofia»3.
L’orizzonte di senso dell’educazione assume l’obiettivo di trasformare la persona in un luogo
per divenire “esseri per”, che si esprimono per quello che sono, con tutto il proprio essere, le
proprie qualità, i propri atteggiamenti, le proprie emozioni e sensazioni, spinti dalla vocazione
ontologica a essere di più4. Questo vertice teoretico costituisce lo snodo per la riflessione delle
pagine successive in cui l’autore finisce con l’approdare ad una dialettica ancorata ad
un’antinomia inerente la formazione della personalità: origine innata o frutto
dell’educazione? Reboul ripercorre le diverse visioni antropologiche sottese a questo dilemma
conoscitivo. Mentre le scienze umane nel corso della storia hanno privilegiato l’aspetto
endogeno della formazione soggettiva, la filosofia, soprattutto empirista, ha favorito la tesi
secondo cui le potenzialità conoscitive dell’essere umano non erano mai innate ma derivavano
dalla cultura e dall’ambiente. A sostegno di questa argomentazione intervenne la teoria del
filosofo Helvétius secondo la quale l'essere umano alla nascita è solo una "tabula rasa" da
plasmare attraverso la cultura e l’educazione.
Ma perché privilegiare, in modo esclusivo, la cultura o la natura dell’uomo? Penso che
la filosofia ci conduce ad esplorare coordinate e strutture portanti della formazione umana ma
dovrebbe introdurci anche nella dimensione imperscrutabile dell’essere umano, sostenuta e
convalidata dall’essere a immagine e somiglianza di Dio. Le dottrine empiriste, basate sul
realismo oggettivo della formazione, sostenevano, invece, il primato della funzione educativa
per il bambino il quale veniva istruito per una finalità sociale . I difensori della dottrina
innatista asserivano, al contrario, che il bambino veniva educato per se stesso, per portare in

2
F. MIANO, Dimensioni del soggetto, AVE, Roma 2003, 35.
3
E. DUCCI, “Quale formazione si importa dell’uomo?” in IDEM, Il margine ineffabile della paideia. Un bene da
salvaguardare, Anicia, Roma 2007, 11.
4
Cfr. P. FREIRE, La pedagogia degli oppressi, EGA Editore, Torino 2002, 63.
4
luce la propria natura. Se, allora, la filosofia dell’educazione deve affrontare la dialettica
“natura o cultura” alla radice della riflessione sull’educabilità umana, la risposta dovrebbe
sfociare in una soluzione arbitraria? Secondo il Reboul la risposta è rinviata ad un terzo
termine che si traduce, semanticamente, con una sola parola: umanità. «Si educa un cittadino
per farne un uomo. […] Il fine dell’educazione è quello di permettere ad ognuno di
completare la propria natura in seno ad una cultura che sia veramente umana»5. Per Reboul, è
questo il senso fondamentale dell’umano che fa sì che l’educazione sia altra cosa rispetto
all’addestramento o alla maturazione spontanea. Essere uomo significa, allora, imparare a
diventarlo. Per l’autore, quindi, due sono i sistemi che ci permettono di imparare: un processo
spontaneo e un insieme di metodi intenzionali.
Quindi, credo che il concetto di educabilità umana presuppone uno spessore esistenziale
che conduce l’io a diventare quello che si è. È in tale contesto che l’autore definisce
l’educazione come l’insieme dei processi che permettono a qualsiasi bambino di accedere
progressivamente alla cultura, dato che l’accesso alla cultura è ciò che distingue l’uomo
dall’animale.
Allora potremmo sciogliere l’enigma filosofico sotto un nuovo prospetto messo in luce
dal Reboul: l’uomo sarebbe naturale in quanto animale, ma culturale in quanto umano. Se il
contenuto dell’educazione è variabile, la necessità di essere educato è universale perché
inerente alla struttura costitutiva dell’uomo. La natura umana, quindi, richiede di essere
formata e questa componente fa sì che l’educazione non può tutto. Viceversa se l’educazione
non può tutto, è vero che non si può niente senza educazione. Personalmente, condivido la
visione esposta dall’autore e credo che un’antropologia filosofica basata sul binomio di natura
e cultura deve costituire l’impianto teoretico del progetto educativo. La pedagogia,
naturalmente, deve porre le proprie basi su un fondamento filosofico inerente l'agire
educativo, per portare in luce il senso autentico della formazione umana che richiede di dare
compimento all’essere umano nel proprio cammino esistenziale, nei diversi contesti di vita.
Secondo Reboul, all’educazione spetta il delicato compito di formare il “genio unico”
dell’uomo che permette di sprigionare la personalità insita del suo essere. Tuttavia l’educatore
deve considerare la struttura psicologica del bambino nei diversi stadi del suo sviluppo
cognitivo. Ecco perché l’autore, nelle pagine del libro, ripercorre il pensiero psicologico e i
contributi di importanti studiosi come Piaget, Freud, Wallon, Vygotskij proprio alla radice
delle riflessioni sull’aspetto educativo. È in questo spazio che egli introduce un ulteriore

5
O. REBOUL, La filosofia dell’educazione, op.cit., 24.

5
provocazione: se l’uomo è il prodotto dell’azione educativa attenta e riflessiva, chi formerà gli
educatori? È davvero necessario l’apporto pedagogico degli esperti del campo educativo?
Così, nelle pagine successive, Reboul introduce la visione educativa del filosofo
Rousseau che propriamente dovrebbe definirsi una educazione inattiva. Secondo tale
prospettiva, la legge di natura è l’unica che permette di liberare l’uomo e di realizzarlo e
l’educatore non è chiamato a fornisce insegnamenti ma a rimuovere le cattive influenze. La
libertà dell’educando incontra l’ostacolo dell’educazione o, propriamente, del dominio
dell’educatore che rappresenta la peggiore forma di schiavitù.
Alla luce di queste considerazioni, credo che la necessità di un’azione pedagogica sia,
invece, determinante per sviluppare la personalità di ognuno: è nella propria educabilità che il
singolo uomo può sviluppare le potenzialità costitutive che lo rendono “essere persona”, come
parte di un mistero che lo trascende.
Al fine di approfondire questa direttrice riflessiva, vorrei riportare il pensiero di J.
Maritain che, nella fondazione filosofica di una pedagogia cristiana basata sull’umanesimo
integrale, concepiva l’attività educativa come un «abituare l’anima alla vita interiore e al
raccoglimento, e a fare crescere in essa il vigore personale della coscienza»6.
Con l’intento di esaminare il cerchio riflessivo intorno al panorama educativo, nella
terza parte, Reboul riconosce la necessità di analizzare ulteriori variabili inerenti alla
formazione umana: il binomio educatore-educando, i metodi attuabili, le funzioni e le finalità
sottese all’agire formativo. Pur nella consapevolezza di una complessità operativa, l’autore
ritiene necessario che l’educazione sia affidata ad una realtà specifica di formazione che
prende il nome di istituzione. Essa si configura come una entità umana relativamente
autonoma, stabile o regolare, vincolante secondo delle regole, che si specifica attraverso una
funzione sociale.
La filosofia dell’educazione, nel suo compito di riflessione critica sulle problematiche
educative, cerca, tramite le sue fonti, di individuare i fini dell’azione formativa di tali agenzie
educative. La famiglia è la prima istituzione che provvede a preparare l’educazione formando
le abitudini, le emozioni, i sentimenti. È la realtà umana deputata ad allevare il bambino,
secondo la prima accezione del verbo educare. A parere del nostro autore, la famiglia non si
limita a trasmettere un uso neutrale dei contenuti ma fornisce al bambino anche un codice
determinato di regole. Nella repubblica ideale di Platone, invece, l’educazione era affidata alla
polis poiché la famiglia era una organizzazione schiavista che si occupava solo dei bisogni
corporei e materiali. Anche altri pensatori come Sartre e Gide hanno diretto le loro critiche

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J. MARITAIN, L’educazione della persona, La Scuola Editrice, Brescia 1962, 143.
6
alla famiglia come istituzione educativa poiché essa tendeva ad acquisire una forma di
dominio sui propri figli determinandone il destino. Studiosi così diversi tra loro come Freud e
Comte individuavano nell’educazione familiare la repressione dello sviluppo del Super-io.
Rispetto al passato, qual è il ruolo educativo della famiglia? Secondo Reboul essa
rappresenta la sola istituzione capace di formare i sentimenti: in primis come spazio della
socializzazione principale e, poi, come terreno della formazione dell’identità di base. Nello
stesso tempo, diviene un campo formativo per i genitori attraverso l’interazione di legami e
affetti profondi.
Credo che le considerazioni del nostro autore siano innegabili di fronte ad
un’emergenza educativa insita nel nostro panorama sociale. E a tal proposito vorrei riportare
le parole di Edward Bach che segnano profondamente l’importanza del nucleo educativo
familiare: «Il compito dei genitori è essenzialmente il […] privilegio divino di permettere ad
un’anima di entrare in contatto col mondo al fine di evolversi»7.
Queste parole segnano il terreno riflessivo per presentare la seconda istituzione
delineata dal Reboul: la scuola, primariamente intesa come ambiente di apprendimento. La
società moderna attribuisce maggiore importanza a questa realtà apprenditiva rispetto alla
famiglia poiché l’istituzione scolastica fornisce un insegnamento collettivo mediante la
distribuzione di contenuti basilari per l’apprendimento umano. La scuola quindi è
un’espressione ellittica? Bisogna partire dalle critiche filosofiche mosse alla sua
concettualizzazione. L’autore porta in campo il pensiero di Ivan Illich secondo cui la scuola è
un’istituzione inefficace perché fornisce un indottrinamento sterile, limitante e vuoto: essendo
obbligatoria attua forme manipolatorie delle coscienze per la produzione industriale. Da cosa
è caratterizzata allora l’esperienza scolastica e il sapere formativo? Per Illich, la scuola
trasmette una sintassi organizzata ossia un insieme di regole e conoscenze disinteressate e non
una semantica esperienziale ricca di significato.
Ma cosa succederebbe se si sopprimesse l’obbligatorietà scolastica? Reboul,
contrariamente a Illich, ribadisce l’importanza della scuola come «formazione morale
specifica che insegna dei valori che non si trovano né nella famiglia né nel mondo del lavoro:
l’uguaglianza, la giustizia, l’impegno, lo spirito critico»8. Personalmente ritengo che la
formazione scolastica, oltre ad essere necessaria, sia fondamentale per il processo formativo
del ragazzo ma urge una riconsiderazione sistematica dei modelli a cui essa si ispira. Occorre
maggiore impegno nel promuovere questa realtà educativa che deve mirare a migliorare
l’originalità di ogni individuo.

7
E. BACH, Guarire con i fiori, Macro Edizioni, Torino 1981, 15.
8
O. REBOUL, La filosofia dell’educazione, op.cit., 36.
7
Proseguendo nella lettura del libro, il filosofo inserisce un’altra struttura visibile di
formazione culturale e professionale: l’università. Ma cosa fa sì che un insegnamento sia
universitario? Per l’autore un’istruzione è specializzata quando non vi sono scuole di livelli
superiori, è diretto al lavoro professionale ed è oggetto di ricerca approfondita. Ma questa
formazione ci riguarda ancora? Senza dubbio. Poiché «l’università è la memoria intellettuale e
critica di una società, trasmette un’eredità culturale sacra»9. La funzione di questa istituzione
è quindi la riflessione che la contraddistingue rispetto a tutti gli altri canali educativi.
Ma esiste una funzione comune a tutte le istituzioni? Per Reboul è solo la fiducia alla
vita sociale. Tuttavia, a mio parere, questa netta suddivisione si rivela portatrice di una forma
di rivalità e forse anche confronto competitivo tra le varie istituzioni educative. Allora una
considerazione personale in merito vuole condurre questa tricotomia ad un’interrelazione
pedagogica che abbraccia tutte le agenzie educative, individuali o collettive, che
contraddistinguono una data realtà storica.
Il nostro approfondimento ora, seguendo i capitoli successivi del libro, volge lo sguardo
al nucleo concettuale della pedagogia. Credo infatti che questo sia doveroso per una filosofia
educativa: un approccio solo scientifico potrebbe congetturare solo dimensioni misurabili
mentre un orientamento filosofico-metafisico porterebbe all’evidenza l’esperienza
esclusivamente trascendente a prescindere dall’aspetto immanente. Reboul, a tal proposito,
definisce l’assioma “pedagogia” secondo due orientamenti: il primo riguarda l’arte del
pedagogo e il secondo fa riferimento alla teoria di quest’arte che è una dottrina pratica. Il
nostro obiettivo è analizzare le riflessioni del nostro autore riflettendo sulle antinomie
pedagogiche inerenti gli apparati epistemologici della filosofia dell’educazione. Il Reboul a
riguardo afferma che la prima antinomia sorge con la pedagogia stessa. In effetti, dal
momento che esiste una pedagogia non si è forse spinti ad opporre il contenuto alla sua
forma? La prima pedagogia conosciuta fu quella dei sofisti greci i quali si definivano
paidagogoi e sostenevano l’importanza del processo di un cammino educativo piuttosto che il
suo punto di arrivo. Da qui la rilevanza del pragmatismo nella formazione che conduceva la
pedagogia ad una struttura dogmatica per la forma educativa e ad un netto relativismo per il
suo contenuto. Tuttavia l’elaborazione, nel corso della storia, di un’epistemologia
dell’educazione ha condotto alla formulazione di una pedagogia intesa come arte ragionata
che fornisce il desiderio e i mezzi per apprendere il vissuto esistenziale. Per Reboul, bisogna
prendere coscienza che ci sono diverse pedagogie che si raggruppano in tre grandi correnti. La
corrente classica, legata ai modelli e meno preoccupata delle modalità di trasmissione

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Ivi, 39.

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culturale; la corrente innovatrice che chiede di adattare quello che si spiega ai destinatari
dell’insegnamento stesso; la corrente funzionale o tecnicista che tende a fare della pedagogia
una scienza esatta. E proprio qui, credo, si salda la valutazione critica della filosofia
dell’educazione intorno a dei principi che ben vagliati e determinati tendono a ribaltare la
pedagogia dalla sua posizione usuale.
Ma le pagine successive forniscono l’esplicitazione di una seconda antinomia, ossia la
dialettica tra coercizione e desiderio che si collega nel binomio necessità e desiderio di
imparare. Il filosofo Dewey, cercando di superare questa forma di conflitto formativo,
sosteneva che l’arte del pedagogo deve suscitare un interesse profondo tale da suscitare
nell’alunno il desiderio immediato rispetto allo sforzo imposto. Qualsiasi insegnamento deve
essere una risposta poiché il maestro provoca l’apprendimento non esponendo le proprie
conoscenze ma nascondendole. La pedagogia del segreto implica l’esistenza di un enigma su
cui riflettere fino a suscitare l’interrogativo o la percezione che il segreto si trova in loro
stessi. Secondo il Reboul teoria e pratica pedagogica potranno fare molta strada se, anche per
merito della filosofia dell’educazione e del suo rigore critico, sapranno maturare la
consapevolezza un cammino condiviso, nonostante le costitutive tensioni e problematicità
inerenti il vissuto educativo.
Assistiamo, a mio avviso, ad un ribaltamento di prospettiva ideologica e metodologica
soprattutto in riferimento ai molteplici preconcetti che sottendono l’immagine della teoria e
della pratica educativa. Credo personalmente che il sapere dell’educazione, anche se è fondato
su uno statuto epistemologico poco definito, è collegato intrinsecamente con le più specifiche
scienze dell’educazione che da sole sarebbero sterili e vuote. In tal modo la ricchezza di
legami teoretici, operativi e metodologici rende la dimensione educativa ricca di significato
per la formazione dell’essere.
La terza antinomia delineata da Reboul deriva dal rapporto tra trasmissione e
spontaneità. Il termine trasmissione è una metafora linguistica che presenta la conoscenza
come un qualcosa di inerte e concepisce l’allievo al pari di un ricettore passivo. L’autore,
invece, oppone la visione di un insegnamento fondato sull’interazione dinamica tra maestro e
alunno riallacciando aspetti formativi formali ed intrinseci, nel loro carattere costitutivo.
Proprio su questo terreno riflessivo Reboul introduce l’antitesi tra l’incertezza e la
tecnicità come postulato della quarta antinomia. Le riflessioni odierne della filosofia
dell’educazione, infatti, fanno riferimento alla scientificità della pedagogia che cerca di
ridurre l’insegnamento a solo ciò che è misurabile e osservabile. L’autore pone, così, un
interrogativo critico: «Bisogna allora abbandonare la metafora industriale a favore della

9
metafora agricola?10». Ecco, a mio parere, un binomio inquieto, che interroga i dettami della
filosofia dell’educazione sull’azione di Dio e l’azione dell’uomo. Come afferma Reboul , il
vero educatore-agricoltore è colui che perfeziona i metodi e le tecniche educative pur sapendo
che l’essenziale veritativo sia in un ambito trascendente che nessuno può programmare.
Questa tesi ha due meriti: un vantaggio etico perché rispetta l’essere di colui che viene
educato rifiutando di farne un prodotto e un vantaggio pratico perché rispetta il globale
rispetto all’analitico. A guardar bene i termini, ai fini di un’analisi critica, i due costrutti sono
piuttosto intercambiabili: l’aspetto formativo dell’uomo non comprende il lavoro
dell’educando su se stesso accanto a forme di educazione esterna? Pur ritenendo necessario il
valore della formazione estrinseca, è Reboul stesso ad avvertire l’intrinseca problematicità tra
l’autoformazione dell’educando e le pratiche tecnicistiche delle istituzioni educative.
Se si volesse sollevare un rilievo critico a riguardo, si potrebbe osservare che, nel
volume, la riflessione sull’autoformazione dell’educando è poco sviluppata. È un aspetto
importante da considerare poiché l’autoformazione permette al soggetto di prendere in mano
la propria esistenza; ma parlare di educazione vuol dire anche trovarsi di fronte ad un essere
spirituale che necessita dell’aiuto dell’educatore per il raggiungimento di quel grado di
consapevolezza che gli permetterà di proseguire nell’autoformazione per tutto il resto della
propria vita.
Un’ulteriore dicotomia educativa che l’autore pone sul terreno del dibattito è
l’antinomia tra rottura e continuità. Ci spostiamo così sul terreno dei conflitti metodologici
educativi che vedono in contrasto la corrente classica basata sulla necessità delle rotture in
educazione e la corrente innovatrice che propugna la continuità educativa rispetto a ciò che è
stato insegnato. Si rilevano per Reboul risultati negativi in ambito pedagogico: negli alunni
abili una conoscenza appiattita e negli allievi incapaci la disattenzione e la pigrizia. Per questo
nessuna delle due tesi è accettabile perché “una rottura forzata sfocia nel fallimento […] e la
continuità ignora il valore positivo dell’educazione”11.
L’atteggiamento suggerito dal nostro autore è il superamento del dualismo rottura-
continuità con il ritorno alla vita attiva di adulti coscienti mediante un impegno responsabile
che costruisca azioni positive nella società. In questo senso la pedagogia è legata alla politica
e all’amministrazione della comunità. Nessun atteggiamento allo stato puro è accettabile:
«una rottura forzata non può sfociare che nel fallimento o nell’indottrinamento. […] la
continuità però ignora il valore positivo dell’educazione».

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Ivi, 52.
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Ne deriva che la filosofia dell’educazione deve riflettere anche sul rapporto verticale
che si instaura tra maestro e allievo. Reboul, infatti, indica un problema di particolare attualità
per la filosofia dell’educazione: il dibattito sull’autorità. Nell’ambito del contesto pedagogico,
l’autorità si configura come un potere fondato su una legittimazione conferita che può indurre
un soggetto ad obbedire ad un determinato comando. Quella più tradizionale si fonda su un
vincolo contrattuale in cui ognuna delle parti è legata dal proprio consenso. Vi è anche
un’autorità fondata sulla competenza di un esperto che attua il proprio potere solo in una
determinata materia. La terza forma è quella arbitraria perché ha la caratteristica di troncare il
conflitto con una decisione: generalmente ha una connotazione giuridica. Vi è poi un’autorità
basata sul prestigio di un modello (artista, politico…) avente la peculiarità di essere duratura.
La quinta forma di autorità è rappresentata dal leader, la cui caratteristica è basata sulla
popolarità in una duplice occorrenza: l’ammirazione e l’obbedienza.
Così, il panorama conoscitivo delle forme autoritative delineano un nesso fortemente
critico tra pedagogia e politica; da qui si innerva la sfida speculativa sull’agire educativo,
rivolta particolarmente alla filosofia dell’educazione. E in ogni modo, in base al pensiero di
Reboul, non esiste una sola figura autoritaria. Allora, ci chiediamo, qual è l’autorità più adatta
nel campo formativo umano? L’autore porta in luce la fisionomia di un’educazione classica
basata sull’antico ideale della paideia che libera l’uomo da un triplice obbligo: l’obbligo di
conquistare la propria vita, l’obbligo familiare, l’obbligo interiore da pregiudizi e passioni che
impediscono di essere se stessi. L’educazione classica rifiutando l’autorità del Re-Padre,
insiste su quella dell’esperto e dell’arbitro ma soprattutto su quella del modello. Non ci sono
più strutture imposte e gli allievi scelgono ciò che vogliono imparare. Quindi, per Reboul,
l’imposizione in sé non è un male ma l’autorità che impone l’obbligo con la forza ha un
aspetto altamente negativo. In questo contesto riemerge il fine dell’educazione che, in realtà,
dovrebbe portare il bambino all’autoformazione, effettuando il salto dall’imposizione
all’autoimposizione. Tali considerazioni indirizzano lo sguardo verso il rapporto tra
pedagogia e politica poiché se l’insegnamento è determinato dalla società esso a sua volta la
determina.
Il Reboul traccia a tal proposito tre principi basilari per democratizzare l’insegnamento.
Il primo principio inerisce alla democratizzazione di una società che è tale se la scuola rifiuta
ogni forma di autoritarismo verso individui sottomessi e ribelli. Il secondo principio si fonda
sulla lungimiranza dell’insegnamento per evitare l’ingresso anticipato dei giovani nel mondo
del lavoro. Il terzo principio sostiene la tesi dell’obiettività di un insegnamento democratico
perché il maestro deve trasmettere conoscenze e valori che non dipendono dalla sua

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soggettività ma che lo trascendono. Quindi il ruolo di uno stato democratico è di permettere
ad ogni individuo di trovare da solo il senso della propria vita da adulto e lo Stato deve
controllare l’insegnamento per evitare la repressione del pensiero.
Ammesso questo costrutto ideologico che caratterizza l’educazione, a riguardo, vorrei
sottolineare che la democratizzazione dell’insegnamento molto spesso si tramuta in canale di
massificazione, contraria all’essenza stessa dell’agire educativo. L'egualitarismo con cui si
regola l'insegnamento, infatti, non deve condurre all'annientamento della cultura e della
società.
Dopo aver delineato i principi dell’autorità, il Reboul si sofferma ad analizzare l’ambito
applicativo della stessa attraverso la nozione di rigore che è connessa fortemente al concetto
di educazione. Il termine rigore è ambivalente, ambiguo e polisemantico. L’autore individua
due significati principali connessi con il suo senso concettuale: il rigore come severità e il
rigore come coerenza.
La storia filosofica ci insegna che in molte culture tradizionali la formazione di un
individuo non può prescindere dal rigore. Un rimando, in questo contesto, può essere
collegato alla cultura semitica o egiziana in cui nella scuola il rigore-severità era fortemente
connesso con il rigore-coerenza. La visione rousseauiana, invece, insorgeva contro
un’educazione correttiva e negava qualsiasi istituzione educativa. L’unico rigore propugnato
ineriva la necessità delle cose: mai comandare, punire, impedire. Per Rousseau il rigore
plausibile era la constatazione del fallimento educativo chiamato “la pedagogia della riuscita”
perché incoraggiava gli allievi a migliorare la loro fiducia interiore.
Sicuramente per l’autore il rigore è un valore, non spontaneo ma esigito. Esso permette
di crescere e diventare adulti nel processo formativo della propria persona. «Ma il rigore ha
valore soltanto se un principio opposto lo equilibra per dare significato autentico alla sua
polisemia»12. Quale valore potrebbe essere “altro” dal rigore? Per Reboul, l’autentico
antirigore è la grazia. Così il pensiero mi conduce inevitabilmente alla pedagogia preventiva
di don Bosco secondo cui ogni ragazzo ha la grazia e la predisposizione necessarie per
ricevere una buona educazione. Ed è nella propria educabilità che la persona può costruire
quell’io che si trascende. Quindi educare è fare grazia. La tentazione della pedagogia
moderna, a mio avviso, è di frequente rivolta all’aspetto manualistico del come fare
educazione senza considerare il principio ideologico della formazione umana. Ma
l’educazione può assolvere questo compito mediante la scientificità? Questa, per Reboul, è la
tentazione del positivismo. Sappiamo che il carattere scientifico di una disciplina richiede

12
Ivi, 73.

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l’esposizione obiettiva di determinati principi sociali esulando i giudizi di valore su di essa. In
questo caso l’educazione è equiparata a una specie di ammaestramento: è la soluzione
strumentale che conferisce alle tecniche pedagogiche una qualità in termini di efficacia.
Oltre alla corrente positivista, Per Reboul il concetto di valore nell’ambito educativo è
fortemente inquinato da due forme di relativismo: il culturalismo che sfocia in una critica
radicale del nostro patrimonio di conoscenze e il marxismo estremista per il quale la cultura è
un sapere borghese a servizio della classe dominante. Resta una terza corrente che non rifiuta
i valori in sé ma la loro autorità: è l’umanesimo che privilegia l’empatia, lo sviluppo
spontaneo, il rispetto delle differenze, la tolleranza.
Per Reboul, allora, sorge un paradosso: come educare a determinati valori senza
indottrinare? Inoltre, qualsiasi virtù si colloca in una gerarchia di valori: cosa vale la pena di
essere insegnato? Per il filosofo la risposta è contenuta in un doppio binario: «vale la pena di
essere insegnato quello che unisce e quello che libera»13. Partendo dal primo presupposto, ciò
che è fondamentale in ambito formativo è tutto ciò che integra ogni individuo in modo
duraturo nella società di riferimento. Il secondo principio esposto dal nostro autore inerisce la
libertà: un insegnamento libera nella misura in cui è attivo e nella misura in cui fa agire.
Insegnare non significa fare sapere ma fare imparare e si esplicita nell’unione del rigore e
della grazia. Credo a tal proposito, che la pedagogia del post moderno dovrebbe definire le
basi valoriali dell’educazione per porre le coordinate esistenziali di un cammino personale in
un contesto privo di punti di riferimento. E notiamo che l’autore tralascia il patrimonio
teologico, catechetico, spirituale della pedagogia patristica o anche della dottrina della Chiesa.
Un rimando alla dimensione Trascendente, seppur in maniera tenue, si intravede
nell’ultima parte dell’opera quando il Reboul introduce la componente della sacralità come
elemento costitutivo dell’educazione. Sappiamo che la sacralità ha sempre accompagnato
l’uomo nel suo essere costitutivo votato al Trascendente ma la storia della filosofia ci narra il
tentativo dell’uomo di liberarsi dal sacro, soprattutto ancestrale, poiché nelle ierofanie molto
spesso esso era mescolato a rappresentazioni profane. Per Socrate il sacro trascendeva il
momento solipsistico dell’ego e per i profeti biblici identificava la ritualità del culto. L’uomo
moderno ha tentato di essere giudice del sacro provocando una rotta progressiva verso
l’indifferenza religiosa constatata soprattutto oggi, nel contesto di una società liquida, in cui la
parola sacro suona in modo strano nelle coscienze individuali. Secondo Reboul, invece, il fine
dell’educazione non è più distruggere nel bambino il senso del sacro ma di purificarlo ed
elevarlo nel suo significato profondo. In che cosa, dunque, egli riconosce il sacro? In primo

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luogo dal sacrificio poiché dal momento in cui un valore richiede una fatica o uno sforzo esso
diventa sacro; in secondo luogo, il sacro è identificato dal sacrilegio poiché, nel momento in
cui un valore appare come un errore o una violenza, esso è uno scandalo per l’uomo stesso.
Per Reboul questo è il cuore dell’educazione: l’uomo stesso è sacro. Credo che la fondazione
epistemologica della progettualità pedagogica deve far riferimento a questa componente
poiché, per usare le parole di Aceti,
«l’educazione al sacro è un’educazione alla relazione […] in cui l’altro permea tutta la persona
con un’esperienza che lascia tracce nell’umano. Intuiamo già che l’educazione al sacro
comprende l’educazione alla relazione con tutto ciò che questo comporta in termini di
esperienza e di valori»14.
Dunque, l’oceano sconfinato del sacro non appartiene solo al noumenico ma irrompe
nell’intera storia dell’uomo:
«Non c’è più un tempo sacro e un tempo profano, un tempo di Dio e un tempo dell’uomo, ma
un unico tempo, in cui sia Dio sia l’uomo concorrono alla redenzione del mondo. Ciò significa
che tutto il tempo è stato sacralizzato o, che è lo stesso, che tutto il sacro è stato profanato»15.
Così, nelle pagine successive, il Reboul introduce, nel concetto di costruzione della
sacralità umana, l’importanza dei simboli in ambito educativo. Il legame simbolico è
determinante nell’aspetto formativo dell’uomo perché il simbolo racchiude il valore di ciò che
racchiude. Tuttavia, egli mette in guardia il lettore da due rischi ricorrenti: se l’educazione si
assoggetta ai simboli cade nel conformismo; se li ignora si recide una componente
apprenditiva fondamentale dato che l’uomo non può fare a meno del simbolo.
Personalmente riconosco che ogni processo formativo non può prescindere dal
linguaggio simbolico che è sotteso al proprio vissuto esistenziale, necessario alle proprie
capacità cognitivo-volitive. Così questa forma di linguaggio espressiva introduce l’essere-
persona al senso della sacralità, legittimazione valoriale alla pedagogia, incentrata sul
contenuto misterico e trascendente dell’uomo. Proprio questo tema sacro fa da cornice
risolutiva all’opera del nostro autore.
Ebbene, a conclusione del nostro “viaggio” letterario-critico nelle pagine di questo
libro, qualunque sia l’interesse valoriale che si voglia attribuire all’opera del Reboul, resta in
ogni caso indubbio il fatto che esso abbia sviluppato delle problematiche connesse alla
filosofia dell’educazione, che ripensa criticamente le coordinate del paradigma pedagogico.
Ciò che colpisce positivamente il mio apparato critico è il rilancio della dimensione
filosofica nel multiforme terreno educativo, che molto spesso, esulando dalla riflessione,
assume una connotazione disciplinare meccanica e semplicistica.

14
E.ACETI, Educare al sacro, Una risposta alla crisi della società post-moderna, Città Nuova, Roma 2011, 27.
15
U. GALIMBERTI, Orme del Sacro, La Feltrinelli, Milano 2000, 23.
14
Tuttavia, nella cornice di questo quadro, l’autore ha accentuato in maniera asimmetrica
più la natura metafisica dell’espressione educativa che la dimensione empirica, la quale viene
dissimulata da costruzioni di idealità e valori poco incarnati nel vissuto umano.
Evidentemente, manca nell’opera, la riflessione sul paradigma relazionale il cui intento è
orientare l’educazione verso l’agire comunicativo. Ne deriva che la filosofia dell’educazione
deve qualificarsi anche come una filosofia umana, attenta al cammino soggettivo che si
compone anche e soprattutto di esperienza antropica.
La riflessività filosofica dell’opera non ha condotto l’autore a sviluppare
compiutamente la pratica educativa e metodologica. Le definizioni hanno sicuramente un
nucleo fondativo necessario per l’agire formativo ma le riflessioni filosofiche acquistano
significato soltanto se si integrano con il dato esperienziale di vita attraverso cui sorgono
molto spesso le aporie e i limiti del sapere.
A mio avviso, nelle pagine del libro, emerge una filosofia dell’educazione più
incanalata verso la schematizzazione di concetti valoriali che in una riflessione critica sulle
argomentazioni educative e formative. Ma soprattutto nella funzione metariflessiva della
filosofia dell’educazione l’autore non esplicita chiaramente l’aspetto religioso e cristiano della
formazione limitandosi a supporre il rimando al senso del sacro. Come ho già esposto in
chiave introduttiva, non si ravvisa un rimando alla pedagogia biblica o alla dottrina del
Magistero, quale fondamento di un servizio educativo di matrice evangelica.
Il tipo di narrazione è contraddistinta, inoltre, da un insistente alternarsi di concetti non
sviluppati compiutamente ma abbozzati in forma di quesito che lascia al lettore la sua
personale interpretazione in un senso di incompiutezza. Inoltre, non ho individuato una
connessione logica tra i vari argomenti proposti che, a mio giudizio, non stimolano l’interesse
del lettore. Il volume, infatti, non ha una caratterizzazione discorsiva e non si presta ad una
lettura fluida e continua. Con un linguaggio classico e primigenio, si ha la sensazione di
inoltrarsi in un groviglio di ragionamenti incanalati verso discorsi retorici. È, tuttavia, un libro
che risponde e sollecita interrogativi profondi del vissuto esperienziale formativo, e, se non
altro, mette a nudo la maturità del pensiero pedagogico dell’autore.

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BIBLIOGRAFIA

FONTI
REBOUL O., La filosofia dell’educazione, Armando Editore, Roma 1997.

STUDI

ACETI E., Educare al sacro, Una risposta alla crisi della società post-moderna, Città Nuova,
Roma 2011.

BACH E., Guarire con i fiori, Macro Edizioni, Torino 1981.

DUCCI E., “Quale formazione si importa dell’uomo?” in IDEM, Il margine ineffabile della
paideia. Un bene da salvaguardare, Anicia, Roma 2007.

FREIRE P., La pedagogia degli oppressi, EGA Editore, Torino 2002.

GALIMBERTI U., Orme del Sacro, La Feltrinelli, Milano 2000.

MARITAIN J., L’educazione della persona, La Scuola Editrice, Brescia 1962.

MIANO F., Dimensioni del soggetto, AVE, Roma 2003.

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