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AFFETTIVITA’ ED ETICA NELLE RELAZIONI EDUCATIVE FAMILIARI

Introduzione

L'infanzia e la pre-adolescenza costituiscono oggi una vera e propria emergenza educativa. Uno
dei caratteri dell'epoca che stiamo vivendo è stata ravvisata nella rottura del patto tra le
generazioni. Quando i genitori di figli non ancora adolescenti si raccontano, esprimono il timore di
fallire e la loro inadeguatezza rispetto al proprio ruolo: si sentono spesso smarriti e impotenti di
fronte a una serie di fenomeni inediti, per affrontare i quali non trovano risorse nel confronto con il
passato recente. Ma cosa significa davvero "tirar su", "far crescere un bambino"? Quali sono in
particolare le difficoltà dell'essere genitori oggi? Quali opportunità nuove vi si nascondono?
Riflettere seriamente su queste domande è l'obiettivo di questo libro. Il libro tratta il tema
dell'educazione alla genitorialità, con un focus particolare sulla seconda e terza infanzia fino alle
soglie della preadolescenza. Il tema viene considerato attraverso la lente di un binomio inscindibile
nella prospettiva dell'educazione: il nesso tra affettività ed etica. Infatti se oggi nell'educare, il
contatto affettivo, implicato in ogni autentica cura educativa, appare altamente desiderabile e
praticabile, meno e a volte persino impraticabili appaiono quelli del controllo e della guida
educativa. Eppure, se questi ultimi mancano, la cura educativa diventa inautentica, perché rimane
al di sotto delle sue possibilità e responsabilità specifiche. Oggi ciò a cui assistiamo è un
emotivismo. Se è facile osservare che rimproverare un bambino oggi viene vissuto da alcuni
genitori come un eccesso da evitare in ogni caso e quasi come una colpa, qualcosa di cui poi
scusarsi con lui, resta poi da chiedersi cosa manchi a un bambino cresciuto in questo modo. Come
scrive Edith Stein, filosofa e pedagogista di formazione fenomenologica, se il bambino non viene
adeguatamente guidato, diventa un piccolo tiranno. Se i desideri vengono appagati dopo che ha
tormentato un po', in breve tempo diviene il padrone della casa: a tormento della famiglia, e
soprattutto a suo proprio nocumento. Egli infatti non è ancora in grado di giudicare cos'è bene per
lui. La fotografia fatta da Edith Stein sembra molto attuale. Ciò che qui ci interessa sottolineare non
sono tanto le caratteristiche del piccolo tiranno che tormenta la famiglia, ma qualcosa di più
profondo: il nocumento, il danno reale che così egli subisce poiché non sa giudicare cosa è bene
per lui. Tuttavia, come la stessa pensatrice ha evidenziato in più occasioni, l'educazione autentica
si lega sempre alla preoccupazione bene-volente per l’altro.

Il paradigma di riferimento del percorso di ricerca presentato nel libro e quello fenomenologico-
ermeneutico.
Per illustrare brevemente e in via preliminare cosa significhi "paradigma fenomenologico-
ermeneutico", occorre precisare che la fenomenologia è innanzitutto quella scuola di pensiero
filosofico avviata all'inizio del Novecento da Edmund Husserl, sulla base dell'esigenza di coltivare
un atteggiamento radicalmente diverso da quello dal filosofo chiamato "naturale", che vive di
certezze ovvie e scontate. Coltivare un atteggiamento fenomenologico significa ridurre, cioè
ricondurre le cose alla loro essenza; significa imparare a vedere, a distinguere e a descrivere ciò
che sta dinanzi agli occhi con evidenza e che pure spesso non viene visto: significa andare alle
cose stesse, quindi verso la verità e il bene, facendo un uso critico e non dogmatico della ragione,
che viene valorizzata perché capace di portare alla luce qualcosa della realtà. Le analisi di Husserl
e

dei suoi allievi si sono concentrate sulla coscienza, intendendo Innanzitutto la coscienza come
intenzionalità. Parlare della intenzionalità della coscienza significa riconoscere che innanzitutto la
coscienza umana è ricerca di senso; al centro della concezione fenomenologica della persona
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umana c'è la sua capacità di intenzionare la realtà, di riconoscerla e darvi senso. L'esortazione
fenomenologica ad andare alle cose stesse richiama la necessità di studiare i fenomeni per
coglierne l'essenziale: è ciò che avviene grazie all'intuizione eidetica, che è visione dell'essenza.
Ora, tale atteggiamento fenomenologico si dischiude a partire dall'epoché, ossia dalla messa tra
parentesi. Mettere tra parentesi le proprie certezze e non dare proprio nulla per scontato
rappresenta un gesto epistemico radicale ma necessario, specie nei contesti che vogliano essere
davvero educativi.

Quando poi parliamo di pedagogia fondamentale di stile fenomenologico-ermeneutico si tratta di


quella scienza pedagogica segnata dall'esigenza di andare alle cose stesse, quindi rivolta alle
questioni essenziali, che sono appunto le questioni di fondo legate all'azione educativa. Si può
anche dire che la pedagogia fondamentale è scienza pratica che mira innanzitutto a rendere
esplicito quanto nelle altre scienze pedagogiche e nell'educazione rimane per lo più implicito e
comunque non viene tematizzato in modo determinato.

FASI RICERCA FENOMENOLOGICA-ERMENEUTICA

1. Il primo momento di una ricerca di pedagogia fondamentale è la “ricognizione empirica”. In


questa prima fase, lo studioso di pedagogia fondamentale deve fare uso innanzitutto di
indagini statistiche e soprattutto psicosociali, che spesso rivelano qualcosa di non
trascurabile dei vissuti dei soggetti considerati e della loro pedagogia spontanea, ovvero le
credenze e le opinioni, spesso cangianti, che sono incorporate nelle pratiche educative:
l’insieme delle sintesi passive e dei pregiudizi che ciascuno porta con sé in modo naturale e
appunto spontaneo; l’insieme delle intuizioni immaginarie e implicite.
2. Il secondo momento di una ricerca di pedagogia fondamentale e la "riflessione di
specificazione". Si tratta di volgersi ai risultati conseguiti dalle altre scienze applicate allo
studio dell'educazione. Sono i contributi di spiegazione dei fenomeni offerti da queste
scienze che aiutano a prendere una prima distanza dall'atteggiamento spontaneo e
naturale, evitando stereotipi e generalizzazioni. Soprattutto, aiutano a meglio determinare
ciò di cui si sta parlando, nella forma specifica che quel tale fenomeno ha assunto grazie
alla considerazione delle precedenti ricerche pedagogiche ma anche grazie alla
considerazione delle altre scienze che, con i loro strumenti e a loro modo, gli hanno rivolto
la loro specifica attenzione.
3. Bisogna compiere un ulteriore passo in avanti e volgersi a una “fondazione pedagogica” e
quindi giungere al terzo momento dell'itinerario della pedagogia fondamentale. Nel codice
della pedagogia fondamentale la fondazione pedagogica consta di due momenti distinti ma
interrelati: quello teoretico e quello prassico- poietico. Infatti, la comprensione pedagogica
si attua innanzitutto come una indagine di senso che rende evidenti i caratteri essenziali e
costitutivi del fenomeno in questione (momento teoretico): è il momento di massima
prossimità con la filosofia dell'educazione. Successivamente però, per riguadagnare quella
prossimità con l'esperienza viva dell'educare da cui l'itinerario ha preso avvio e a cui, come
l'itinerario di una scienza pratica quale la pedagogia è, deve tornare, la comprensione si
approfondisce ulteriormente come articolazione di direzioni metodologiche per la prassi
educativa (momento prassico-poietico). La prossimità all'esperienza non è più a questo
punto quella di un sapere spontaneo, ma quella di un sapere stabile, appunto di una
scienza che, proprio come scienza e non come opinione, parla all’esperienza.
4. Nel codice epistemologico è pensabile anche un'altra tappa, non costitutiva e ineludibile,
ma particolarmente feconda. Parallelamente alla ricognizione empirica, oppure dopo avere

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attraversato la ricognizione empirica e l'analisi empiriologica, è possibile un secondo tipo di
ricognizione. La seconda di ricognizione, mettendo al lavoro sul campo la fenomenologia,
permette di incontrare esperienze vissute in prima persona da soggetti direttamente
coinvolti nel fenomeno studiato. Questo può aiutare a porre domande sulla realtà, le quali
sono formulate non solo nella prospettiva delle altre scienze, ma in quella specifica della
pedagogia; soprattutto può rappresentare, una nuova più specifica possibilità di girare
intorno al fenomeno e coglierne altri profili, quindi una più adeguata introduzione alla
fondazione pedagogica.

CAPITOLO 1

Essere genitori oggi. Una prima ricognizione delle “emergenze” educative

L'espressione "emergenza educativa" è senz'altro tra quelle più frequenti nel quotidiano parlare e
già l'infanzia e la preadolescenza sono percepite oggi come una simile emergenza. Nel lessico
della pedagogia fondamentale parlare di emergenza educativa ha un significato più ampio e più
completo; è emergenza tutto ciò che emerge, ovvero tutto ciò che, in precedenza sommerso e
nascosto, si rende progressivamente più visibile. Qualcuno potrebbe obiettare che "la famiglia"
oggi non esiste più; semmai esistono "le famiglie". Questa non è necessariamente un'emergenza,
cioè una novità propria del nostro tempo tempo. In nessuna epoca infatti è mai esistita “la”
famiglia, per il fatto che non sono mai esistite due o più famiglie uguali tra di loro: ogni qualvolta
una realtà è famiglia, è una struttura di relazioni tra persone e poiché unica, singolare e irripetibile
è ogni persona, analogamente uniche, singolari e irripetibili sono le relazioni tra persone. Pertanto,
anche quando ci si riferisce alla famiglia del passato come famiglia tradizionale si opera una
ipersemplificazione. Spesso l'uso dell'aggettivo "tradizionale" si lega a un dato per scontato mai
messo in discussione. Il presupposto che il nuovo sia, solo perché nuovo, migliore del vecchio e
che specularmente la tradizione sia un fardello negativo di cui disfarsi per essere liberi, l'aggettivo
tradizionale è inteso per lo più come sinonimo di "conservatore", di ciò che rimane sempre
immobile e uguale.

I bambini di oggi non sono più quelli di una volta, ma anche i genitori e le famiglie sono cambiate e
continuano rapidamente a cambiare. D'altro canto, questa prima ricognizione va fatta pur sapendo
che come non esiste la famiglia ma esistono le famiglie allo stesso modo esistono le infanzie e non
l’infanzia.

La cornice statistica

Per avviare la nostra riflessione pedagogica sulle relazioni educative genitoriali del nostro Paese
non si può non partire da un fatto: appare sempre più difficile oggi compiere la scelta di diventare
genitori e si possono scorgere i segni di una vera e propria crisi generativa. L'annuario statistico
dell'istat 2019 registra infatti la conferma di un calo delle nascite, in atto ormai da diversi anni. A
oggi in Italia, nella maggioranza dei nuclei abitativi non sono presenti dei figli e si diventa genitori a
un'età sempre più avanzata. Infatti l'annuario attesta una progressiva posticipazione del cosiddetto
"calendario riproduttivo", che vede l'evento nascita verificarsi in età sempre più avanzata: l'età
media delle madri italiane al primo parto è ormai di 32 anni e il numero medio di componenti è
passato da 2,7 a 2,3. In sintesi si può dire che tra le diverse tipologie di strutture familiari, a
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registrare l'incremento maggiore sono le famiglie senza nucleo. Ciò significa che per i bambini di
oggi è sempre più raro avere fratelli o sorelle.

Per i bambini italiani, se si mette tra parentesi l'esperienza scolastica, le relazioni tra pari non sono
più, come accadeva fino a una quarantina di anni fa, le relazioni prevalenti. I bambini stanno per la
maggior parte del loro tempo veramente libero non con altri bambini, ma soprattutto con adulti.

Altro problema specifico legato ad alcune infanzie è l'instabilità coniugale. I divorzi hanno registrato
un aumento marcato anche se ancora oggi si può dire che la maggior parte dei bambini italiani
continua a vivere in una famiglia unita con una mamma e un papà. Tuttavia, non pochi bambini
fanno l'esperienza della separazione dei propri genitori: si costituisce, per questi genitori chiamati e
rimanere educatori, una sfida nella sfida. Si rende evidente la necessità di un'alleanza educativa
che, per il bene del bambino, vada oltre la rottura del patto coniugale; ma è innegabile che non
sempre questa alleanza si realizza e che, comunque, coltivarla dopo una separazione è più difficile
di quanto già non sia nelle famiglie davvero unite.

Le famiglie sono sempre più segnate non solo da separazioni, ma anche da ricomposizioni, a
monoparentalità, rapporti allargati, dislocazione spaziale di genitori e figli del nucleo originario;
sono altresì da tempo sempre più caratterizzate da un certo protagonismo femminile sia dal punto
di vista del mantenimento dei legami sia della gestione dei figli e dei loro impegni. In Italia stiamo
entrando in una società post-familiare, una società in cui le famiglie si andranno frammentando,
scomponendosi e ricomponendosi sulla base di giochi relazionali che abbandonano la struttura
sociale della famiglia come intreccio tra relazione sponsale e quella genitoriale. Fare coppia ed
essere genitori sono due possibilità che rispondono a progetti diversi di vita.

Il fatto che in una società postfamiliare fare ed essere famiglia sia un'opzione non più una
necessità può essere una buona notizia per l'educazione, nella misura in cui può essere l'inizio di
una vita buona per le persone e per le famiglie. Il fatto che non si possa più considerare
l'educazione dei bambini come frutto di istinto o spontaneismo, ma sia piuttosto percepita come un
problema e come un compito da assumere persino come una sfida, può essere l'inizio di un
autentico cammino educativo per il bene dei bambini e delle bambine, ma anche dei loro genitori e
delle famiglie nel loro insieme.

Le povertà delle famiglie

Lo spostamento in avanti della genitorialità è da collegarsi non solo alla difficoltà di natura
economica ma anche al mutamento dei modelli assiologici di riferimento. Ciò si intravede nel
diffondersi di un comune atteggiamento, secondo cui è ormai naturale e indispensabile per ragioni
di lavoro, ma non solo, che i figli si programmino. La famiglia numerosa, con più di due o tre figli,
suscita stupore derisione o perplessità. Le famiglie numerose d'altra parte sono generalmente
quelle a maggior rischio di povertà. Non si può non osservare che le due crisi economiche
dell'ultimo decennio, prima del 2008 e poi nel 2012 hanno avuto uno specifico impatto negativo
soprattutto sui bambini e le loro famiglie. Basti pensare al fatto che nel 2008 appena un minore su
25 (il 3,7%) era in povertà assoluta; un decennio dopo si trova in questa situazione ben 1 minore
su 8 (12,5%). Questi dati appaiono tanto più preoccupanti quanto più si considera che l'Italia ha
finora investito meno in sostegno alle famiglie e all'infanzia, istruzione e politiche giovanili, rispetto
ad altri paesi europei. Così, la recente celebrazione del trentennale della Convenzione sui diritti
dell'infanzia e dell'adolescenza è stata occasione per mettere in luce che molti traguardi sono stati

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raggiunti, molti altri sono ancora lontani. Non basta considerare le risorse e i beni di cui le famiglie
e quindi i bambini dispongono o non dispongono: occorre guardare ciò che effettivamente bambini
e famiglie sono realmente in grado di fare e di essere. L'incipiente crisi economica legata alla
diffusione della pandemia Covid-19 fa temere un ulteriore impoverimento della vita dei bambini e
delle famiglie. La didattica a distanza, conseguenza della chiusura delle scuole per il contenimento
della pandemia, lo mette drammaticamente in evidenza. Molte famiglie sono costrette a
fronteggiare spese impreviste per garantire la prosecuzione dell'attività didattica dei loro figli: molte
famiglie semplicemente non possono farlo e si teme un aumento della dispersione scolastica nelle
zone più fragili del nostro Paese.

Genitori, figli e nuove tecnologie

L'attuale pandemia non ha fatto che rendere ancora più evidente un fatto già da tempo registrato
da diverse indagini: il divario tra nord e sud che è anche un divario digitale. Infatti, poco meno della
metà delle famiglie dispone di un pc portatile, solo il 26,4% di un tablet e il 41,5% dei giovani
italiani compresi tra i 4 e i l 17 anni di età utilizza il pc in famiglia. Analizzando le abitudini delle
famiglie italiane e quindi dei bambini di oggi emerge che nel complesso la televisione è ancora lo
strumento più diffuso nelle case degli italiani. L'uso degli smartphone si sta imponendo sempre di
più e non solo i ragazzi possiedono uno smartphone, ma anche i bambini tra i 4 e i 10 anni ne
possiede uno. D'altra parte i preadolescenti e gli adolescenti di oggi, ovvero gli appartenenti alla
cosiddetta "generazione Z" che si pone subito dopo quella dei Millennials, sono sin dalla nascita
avvezzi all'uso della tecnologia e dei social media, che incidono anche nei loro processi di
socializzazione e di apprendimento. Sempre più non solo i ragazzi, ma preadolescenti e bambini
sono connessi al virtuale, quindi possibili vittime della velocità, che si traduce spesso in quella
pretesa di immediatezza e simultaneità, tipica della globalizzazione e che può diventare facilmente
inaccuratezza, superficialità e standardizzazione delle comunicazioni e degli scambi. Le giovani
generazioni sono cresciute nella velocità e nella simultaneità e fanno fatica a fermarsi e a rimanere
fermi su una cosa sola. Vediamo spesso i bambini impegnati in un continuo multitasking digitale,

ovvero in quel modo di fruire delle informazioni che permette loro per esempio di ascoltare musica,
consultare uno schermo, parlare via WhatsApp, facendo tutto allo stesso tempo, quasi con
l'illusione di essere contemporaneamente ovunque. Bisognerebbe però anche riflettere su quanto
di questa e di altre illusioni generate da una iperconnessione non sono solo i bambini e i ragazzi di
oggi, ma anche i loro genitori siano vittime. Quando infatti le relazioni familiari sono ibridate dalle
tecnologie della comunicazione digitale, ne assumono i caratteri della velocità degli scambi di
informazioni scarne, dell'affidamento a immagini rapide più che argomentazioni accurate, quindi a
sensazioni ed emozioni. Tanto i figli tanto gli stessi genitori scadono nella superficialità e
facilmente si perde il senso stesso del comunicare. Da tempo la riflessione pedagogica mette in
guardia da simili rischi di superficialità, quindi espressioni autoreferenziali, emotivistiche e
narcisiste che sono particolarmente a portata di mano negli ambienti digitali. Non manca però al
contempo di evidenziare le specifiche risorse e virtù. È proprio in questo tempo segnato dalla
pandemia forse abbiamo occasione di riscoprire le potenzialità migliori del digitale, nel suo uso
didattico e non solo.

Possibilità e significati della generatività familiare

Per la mentalità corrente è ormai indispensabile che i figli si programmino. È stato spiegato come
un cambiamento culturale e valoriale decisivo nel tessuto dei legami familiari si è realizzato con la
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diffusione della contraccezione: con essa è stata di fatto molto facilitata la possibilità stessa di
ragionare in termini di scelte riproduttive, poiché ha reso pensabile e possibile scegliere quando
concepire un figlio, ma anche se farlo o escludere la generazione dei propri progetti di coppia.
Alcuni studiosi da tempo intravedono soprattutto in questo genere di denatalità un mutamento
assiologico e pedagogico e, c'è chi ha parlato in tal senso di fine della famiglia. Considerando non
solo il nostro Paese ma l'intero contesto europeo, alcuni studiosi di demografia già alla fine degli
anni Ottanta parlavano di "seconda transizione demografica" con riferimento alle trasformazioni
familiari iniziate negli anni sessanta dello scorso secolo e al progressivo abbassamento della
natalità che a esse si accompagnò. Una prima transizione era avvenuta all'inizio del secolo scorso
quando il dato caratterizzante fu il calo della mortalità, mentre più moderato l'abbassamento della
fecondità. Le motivazioni di tale abbassamento nell'uno e nell'altro caso però sono state diverse:
se all'inizio del secolo scorso avere nuclei familiari sempre meno numerosi permetteva di dare un
avvenire migliore ai figli, a partire dagli anni sessanta, le motivazioni dell'abbassamento della
fecondità cominciano esser sempre più centrate sulle esigenze di realizzazione della coppia. Si
parla di due differenti generazioni di genitori. Le prime cresciute nel clima di insicurezza e di
povertà delle due guerre, avevano come obiettivo il benessere e la sicurezza fisica e materiale. Le
generazioni dei loro figli e nipoti cresciuti nel benessere già raggiunto, sono basate su valori,
chiamati in questi studi, post-materialisti, cioè incentrati non sull'accumulo di beni materiali stabili,
bensì sull'autonomia, sull'espressione e sulla realizzazione individuale. Per un adulto molto
centrato su di sé e sulla sua realizzazione, spesso un bambino costa decisamente troppo. Lo si
comprende meglio anche se si considera che uno dei dogmi del nostro tempo è quello di non
invecchiare, di poter essere considerati e percepirsi sempre giovani. Adulti che non vogliono
diventare davvero tali non riescono a essere davvero generativi, anche se mettono di fatto al
mondo dei figli:

non riescono, cioè a superare sé stessi mettendo al centro del loro interesse il bene di un altro.
Ora, in questo scenario, se e quando un bambino così costoso nasce, è solo perché è stato
estremamente voluto; pertanto, viene al mondo come un prezioso figlio del desiderio.

Il bambino sovrano

Il bambino nasce in un mondo di adulti, infatti nello spazio familiare non ha a disposizione molte
relazioni con coetanei ma trascorre molto più tempo con gli adulti: è lui che fa la famiglia. Mentre
infatti in passato era sempre una famiglia che, faceva un bambino, oggi è la nascita del bambino
che sancisce la realtà effettiva della coppia fino a determinarne il senso. Facilmente poi questo
bambino così prezioso, divenuto nuovo capo famiglia, finisce con l'essere trattato come un
"sovrano". È un bambino senza regole, troppo libero come spesso si dice. Ora, nella prospettiva
dell'educazione, ciò che deve suscitare la nostra attenzione non sono tanto le subito evidenti
difficoltà di organizzazione e gestione, ma il fatto che venga perso di vista il suo bene. Il sovrano
non è rispettato davvero come la persona che è, piuttosto è un bambino capovolto. Gli abbiamo
dato una signoria che non merita, perché merita di più e di meglio. Si può peraltro osservare che,
con una buona probabilità, il bambino sovrano diventerà un "adolescente narciso", spavaldo
perché fragile. Se per molto tempo gli adulti non hanno visto i bambini e l'infanzia era intesa solo
come un tempo da superare il prima possibile per approdare alla vita adulta, oggi invece gli adulti
si vedono attraverso i bambini, si proiettano il loro. Il figlio del desiderio è più adorato che amato,
da genitori che possono essere fieri di lasciarlo libero oppure rivelarsi genitori elicottero, tesi a
eliminare ogni difficoltà o frustrazione che il figlio potrebbe incontrare. I genitori del bambino
sovrano sono perlopiù incapaci di dare regole e rimproverare in modo sereno, fermo e coerente. Il

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bisogno educativo del bambino è bisogno di riconoscimento, di essere sostenuto affettivamente, di
sentirsi unico e prezioso. È questo infatti il significato subito evidente e immediatamente condiviso
oggi dell'espressione "bisogno di riconoscimento": il suo significato affettivo. Ma il bambino ha
bisogno di riconoscimento anche in un altro significato, che individua il versante etico della
relazione educativa e che viene oggi di fatto spesso dimenticato. La tirannia del bambino si lega a
uno sbilanciamento delle relazioni sul loro versante affettivo o, più precisamente, solo emotivo. Da
tempo in effetti gli studi sociologici, psicologici e pedagogici hanno riconosciuto un passaggio da
una famiglia etica e normativa a una famiglia affettiva. Nelle famiglie contemporanee si può
riconoscere quindi un vero e proprio "culto dell'emozione", secondo cui le emozioni vanno sempre
e comunque espresse per essere sé stessi e stare autenticamente con gli altri. Talvolta l'esser
genitori è vissuto perfino in competizione con il contesto circostante e il figlio è condannato a
essere perfetto, migliore e più importante degli altri; di conseguenza le sue esigenze devono venire
sempre prima di tutto.

Il culto delle emozioni e le sue premesse

Nella nostra società di emozioni si scrive e si parla moltissimo e a esse pare venga dato il ruolo di
guida e criterio di senso del nostro stare al mondo. Così, anche la qualità di una relazione
educativa sembra dover essere misurata prevalentemente, se non

esclusivamente, nella capacità di ascolto e contenimento delle emozioni e buoni genitori appaiono
quelli che sanno ascoltare e accettare le emozioni dei loro figli. Le emozioni sono intese come
l'espressione più sincera e in tal senso autentica della soggettività individuale. La genesi di questa
concezione delle emozioni va ricercata in tempi molto lontani dai nostri. La radice antropologica a
noi più prossima di un simile culto delle emozioni è l'idea di essere umano nella tradizione liberale,
ossia l'individuo: dalla modernità a oggi, questa idea è stata progressivamente amplificata. Infatti,
come Lacroix mette bene in evidenza, il culto dell'emozione è una delle forme del culto dell'Io che
si traduce in una sempre più marcata individualizzazione. Se infatti la modernità si è aperta con la
valorizzazione dell'individuo e della sua libertà, oggi tale parabola pare compiuta fino all’estremo.
Possiamo osservare innanzitutto che indubbiamente il pensiero liberale ha avuto il grande merito
di aver fatto emergere e avere costantemente difeso lo spazio della libertà individuale contro tutte
le forme oppressive di potere. La tradizione liberale va in primo luogo considerata per quello che è:
una grande conquista per l’umanità. Essa non va negata, semmai forse va detto che la modernità
non è ancora venuta in luce in tutte le sue potenzialità migliori. L’istanza liberale di partire
dall’individuo e ampliare sempre più il suo raggio di azione, ovvero la sua libertà di conoscenza e
di coscienza, deve rimanere irrinunciabile per le nostre società. La modernità è legata al progetto
di razionalizzazione del mondo, nato con l’Illuminismo, che si basava su una grande fiducia nelle
possibilità della ragione e della scienza e la ragione era intesa quale strumento per raggiungere
l’oggettività e l’universalità, mentre la sfera emotiva veniva intesa come il regno dell’irrazionale e
delle soggettività particolari.

Dall’idea cartesiana della res cogitans e dalla certezza del cogito ergo sum fino all’Illuminismo, la
ragione per riuscire a illuminare la vita umana deve essere liberata da tutte le interferenze emotive
e l’intero campo del sentire è stato allungo guardato con sospetto. Questa linea di pensiero
dominante nella modernità si amplifica proprio con la crisi della modernità e in particolare con il
post-moderno, primo esito di questa crisi. Si è parlato di pensiero debole per definire
l’atteggiamento filosofico che ha preso atto della dissoluzione delle forti certezze e dei valori
assoluti e ha esaltato il nichilismo secondo cui non esistono fatti ma solo interpretazioni e di

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conseguenza la ricerca della verità è impraticabile e comunque insensata. È in questo contesto di
dissoluzione della forza della ragione che si comprende l’impossibilità di comprimere oltre modo la
dimensione emotiva della vita umana. Gradatamente è iniziata una vera e propria lotta contro la
repressione sociale delle emozioni. La rivalutazione della dimensione affettiva dell’essere umano è
sembrato dovesse necessariamente avvenire contro il logos, contro ogni ricerca di senso e di
verità. Si può dire in sintesi che soprattutto quando l’individualismo liberale è sfociato nella
postmoderna crisi di fiducia nella capacità della ragione di costruire visioni epistemologiche ed
etiche universali, all’arretramento del logos a ragione solo strumentale ha fatto da contrappeso una
sempre maggiore esaltazione del pathos, inteso come emozione appunto superficiale e immediata,
esclusivamente soggettiva.

Incertezze dell’etica nella tarda modernità

La ragione critica, quella che animava il progetto illuministico, ha approfondito le sue potenzialità
fino all'estremo e oggi risulta fortemente messa in discussione la validità di saperi enorme che
aspirano ad essere oggettivi e universali. Oggi se ci sono certezze,

appaiono solo soggettive, contendenti, frammentate. Oggi si parla del declino della verità a
beneficio di una post-verità: così la verità diventa un prodotto umano e quindi niente impedisce che
soggetti diversi producano verità diverse, avanzando le stesse pretese di legittimità. Per descrivere
la situazione attuale Giddens parla del nostro tempo come tarda modernità. Infatti non basta più la
categoria interpretativa della post-modernità è sebbene alcuni atteggiamenti postmoderni siano
ancora diffusamente presenti nel senso comune, se ne cominciano a scorgere anche alcuni limiti.
L'epoca che stiamo vivendo ha piuttosto i caratteri di una "seconda modernità", epoca
ultramoderna o appunto "tardo moderna”. Sempre più forti sono la desacralizzazione delle
istituzioni e le l'emancipazione del singolo dalle appartenenze tradizionali. Sempre più netto,
parallelamente, è l'espandersi di un atteggiamento disincantato nei confronti delle certezze morali,
religiose e politiche ma anche pedagogiche. La diffusa incertezza di molti genitori e la percezione
di difficoltà nella trasmissione educativa è una manifestazione della generale crisi delle certezze,
sul presente ma anche sul futuro, che caratterizza il nostro tempo. Il celebre sociologo Bauman ha
parlato di retrotopia: "nel vago ricordo di un passato apprezzato per la sua presunta stabilità e
affidabilità si trasforma il futuro, da habitat naturale di speranze e aspettative legittime, in sede di
incubi: dal terrore di perdere il lavoro e lo status sociale che esso conferisce, a quello di rimanere
impotenti a guardare mentre i propri figli scivolano giù per il pendio del binomio benessere
prestigio, di ritrovarsi con abilità che, sebbene faticosamente apprese assimilate, hanno perso
qualsiasi valore di mercato”. Il futuro è ormai percepito soprattutto dai più giovani non come
promessa ma come minaccia; dilagano le passioni tristi, le emozioni immediate ed effimere e
questo non è considerato come un difetto anzi la sensibilità contemporanea apprezza la rinuncia a
qualunque ambizione di durare nel tempo; così non si corre il rischio di rimanere prigionieri e si è
aperti a nuove esperienze. Se tutti i riferimenti condivisi sono solo convenzioni sociali che ci
imprigionano e da cui ci siamo definitivamente affrancati, possiamo chiederci: che cosa ci rimane
del vero? La risposta sta nell’unica esperienza autentica che è quella di colui che, andando al di là
del bene e del male, incontra la verità di sé stesso, coincidente nell'intreccio tra pulsione vitale,
fisicità dell'istante e densità emozionale e sensoriale. Il problema è che interpretate in un’ottica
pulsionale e soggettivistica, senza più alcuna relazione con il logos, la sfera del pathos è
semplicemente indeterminata e quindi ben poco in grado di sostenere una qualche stabile
soggettività. In certi contesti anche educativi è diventato sempre più decisivo difendere una società
liberale. Lo sfondo delle incertezze della tarda modernità è in ultima istanza un vasto scetticismo

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etico, considerato l'unico atteggiamento razionale e adeguato per rispettare e promuovere la
libertà di tutti. In un tempo come il nostro che ci offre spesso un eccesso di stimoli sensoriali ed
emotivi, la crescita diventa sempre più difficile e il rischio è quello di rendere alla fine il nostro
sentire atrofico e vano. Soprattutto i giovani rimangono abbandonati a sé stessi: nonostante il culto
delle emozioni, o forse proprio a causa di esso, molti si aggirano indifferenti in un “deserto
emotivo” dove gli eventi passano loro a canto senza che essi siano capaci di darvi una adeguata
risposta di sentimento.

La dispercezione della storia

C'è ancora un altro aspetto del nostro tempo su cui è opportuno soffermarsi in ragione delle sue
ricadute sulle pratiche educative. Si tratta di un carattere del nostro tempo che possiamo chiamare
dispercezione della storia o, più semplicemente, perdita di senso storico. La forza e la vitalità
dell'esperienza, intesa solo come esperienza sensoriale, sta nell'immediatezza e viene apprezzata
come pregio l'incapacità di durare nel tempo. Il culto delle emozioni e appunto culto
dell'immediatezza quindi del presente. Si diceva prima del giovanilismo che ostacola la
generatività. Più in generale ora possiamo dire che il soggetto contemporaneo vive per lo più
ripiegato sul presente individuale, nell’incapacità da una parte di credere nel futuro e dall'altra di
riconoscere i doni del passato. A questo punto della nostra analisi appare chiaro che si tratta di
due facce della stessa medaglia: è proprio perché non si riconosce l'importanza del passato che si
diventa sempre meno capaci di guardare con fiducia verso il futuro. Anche alcune delle letture del
nostro tempo di cui ci siamo serviti in questo capitolo lo confermano. Per esempio, secondo
Giddens, l'incertezza che lo caratterizza sarebbe radicata proprio nel declino del valore proprio
delle autorità del passato e delle tradizioni. Egli osserva infatti che, nelle società premoderne,
autorità e tradizioni avevano un peso innegabile, che era tanto più rilevante quanto meno la
tradizione veniva compresa come tale. Anche le istituzioni moderne nel loro stadio iniziale
dipendevano dalle tradizioni pre-esistenti. La nostra società postindustriale, invece, è una società
post-tradizionale dove le tradizioni vengono rinnegate attraverso un vero e proprio sradicamento
dei rapporti sociali, dei contesti locali e dagli orizzonti culturali che in essi avevano luogo. Ciò non
può che aprire inediti e promettenti spazi per le relazioni interpersonali che possono finalmente
raggiungere una libertà e una purezza mai godute. Nei suoi termini, infatti, la relazione pura è
quella che viene costituita in virtù dei vantaggi che ciascuna delle parti può trarre dal rapporto
continuativo con l'altro. La nostra ricerca pedagogica ci porta a innestare qualche dubbio in questa
certezza circa una possibilità di libertà pensata come sganciamento della tradizione. Bauman
lamenta la cecità morale del nostro tempo parlando del bisogno di etica nella società
dell’incertezza. In un mondo come il nostro, caratterizzato da frammentazione e discontinuità,
sembra saggio è prudente non fare progetti a lungo termine, non legarsi agli altri e nemmeno a
una stabile immagine di sé. Bauman prosegue dicendo che si vive non come il “pellegrino in
cammino” verso una meta, ma come “il turista” che tratta ogni luogo e ogni incontro come una
tappa temporanea. Soprattutto si pretende di azzerare le proprie responsabilità morali, come se
questo atteggiamento non avesse conseguenze sugli altri, su sé stessi e sul futuro. L'esito di una
società post-tradizionale priva di senso storico è allora una neutralizzazione morale, che Bauman
specifica come obliterazione del senso di responsabilità. In modo analogo Taylor parla della
perdita di senso della storia collegandola al progressivo disancoramento dell'individuo dal gruppo,
ovvero il progressivo indebolimento del legame sociale. L'individuo contemporaneo avendo perso il
senso del tempo storico finisce col restare solo nella ricerca maniacale di sé stesso e l'esito
antropologico di tali atteggiamenti è un individualità debole. Da un punto di vista pedagogico poi
non si può non rilevare che con la dispercezione della storia sembra smarrita una evidenza

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elementare dell'umano: nessuna generazione può pensarsi in modo “autopoietico”, come inizio
assoluto perché sempre nella storia dell'umanità ogni generazione ha vissuto nel rapporto con le
generazioni precedenti; gli stili di vita e quindi di educazione del presente si radicano nel passato.
Alle soglie degli anni ’90 del secolo scorso si cominciava a

parlare di una famiglia autopoietica, ovvero di un modo di intendere la famiglia in cui carattere
centrale diventava la tendenza a farsi norma a sé stessa, una tendenza che negli anni successivi
sarebbe diventata sempre più marcata. Così oggi si riscontra una cecità circa la dimensione
transgenerazionale dei legami familiari e, di conseguenza, si può affermare che la crisi generativa
che attraversa la nostra società non è solo la crisi che riguarda la scelta di generare; questa crisi
ne sottende un'altra più originaria, che è la crisi della coscienza di esseri generati. Un'emergenza
tutt'altro che trascurabile nella prospettiva dell’educazione.

CAPITOLO 2

Un atteggiamento naturale per essere genitori oggi non basta più, per questo si tende a
intraprendere innumerevoli riflessioni sul concetto di competenza genitoriale e su come diventare
ed essere buoni genitori. Nei genitori è sempre più diffusa la paura di risultare inadeguati agli occhi
dei figli e a un futuro incerto e inaffidabile che ha determinato il fenomeno della retrotopia. In
particolare la dispercezione della storia sembra tracciare l'avvento di un periodo di “oscurantismo” i
cui segni sono leggibili nelle cronache di ogni giorno. Un’evidente rottura del patto tra le
generazioni è indicata proprio da una retrotopia, in cui le dimensioni del passato e del presente
non sembrano più avere alcun legame con il futuro e la trasmissione intergenerazionale si
interrompe tragicamente. In una società definita “della comunicazione”, genitori e figli non riescono
più a trovare un registro comunicativo e questa incomunicabilità non si presenta soltanto durante
l'adolescenza, ma ancor prima nel corso dell'infanzia in cui il bambino "sovrano", come già
anticipato, detta le regole della famiglia che non è più in grado di contenerlo. Già diversi anni fa, in
Frankenstein educatore, Philippe Meirieu, con riferimento al romanzo di Mary Shelley, porta alla
luce la connessione tra l'incertezza educativa degli adulti e il loro atteggiamento nei confronti dei
bambini e degli adolescenti che appare come quello del dottor Frankenstein nei confronti della sua
creatura: prima la vuole plasmare e costruire secondo le sue aspettative, e i suoi bisogni e poi non
riesce a contenere la sua violenta richiesta di umanizzazione. La ricerca di figli perfetti, di bambini
che primeggiano sugli altri, indica un desiderio di rispecchiamento. Ciò rappresenta una grande
fragilità nell'assumere i compiti educativi relativi alle diverse età dei minori. Misurare la propria
“riuscita” educativa dai successi dai figli, indica una mancanza di riconoscimento del bambino.
Molti adolescenti sperimentano relazioni poco autentiche con le figure genitoriali, in cui il bisogno
di rispecchiamento è stato bloccato dai meccanismi proiettivi dei genitori, dal non riconoscimento
di sé come altro. Lo stile di ricerca proprio che guida il nostro lavoro prevede che uno studio
sull'educazione si configuri come un logos integrato, in cui il dialogo con le scienze dell'educazione
e con le altre scienze pedagogiche rimane necessario. Si tratta, dopo aver tracciato nella
ricognizione empirica quelle che potremmo definire alcune delle emergenze educative del nostro
tempo legate in particolar modo all’essere genitori oggi, di avviare una ricognizione empiriologica
che chiarisca le prospettive delle altre Scienze Umane sul fenomeno indagato.

Compiti di sviluppo e compiti educativi nella terza infanzia e nella pre-adolescenza

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Ogni famiglia nell'arco della sua storia deve affrontare eventi critici che consistono in momenti di
passaggio, in cui cambiamenti rilevanti nel nucleo familiare causano necessariamente una
ridefinizione dei ruoli e dei compiti di ciascun membro: la relazione di coppia, quella tra genitori e
figli, il rapporto tra fratelli, e quello con le famiglie di origine dei due coniugi. Tali eventi critici
possono essere normativi, proprio perché attesi: la formazione della coppia coniugale, la nascita
dei figli, la loro infanzia, l'inserimento a scuola e poi l'adolescenza, i figli adulti che lasciano la
famiglia d'origine, l'invecchiamento dei genitori e così via; oppure, possano accadere eventi critici
non normativi o inattesi, come la malattia o la morte di uno dei membri della famiglia, l'uscita di
casa di uno dei due coniugi, per esempio nel caso di separazione o divorzio, la migrazione, ecc.
Eventi pertanto non prevedibili o non previsti al momento della costituzione della famiglia stessa. A
un primo sguardo si potrebbe pensare che gli eventi critici normativi, proprio in quanto attesi, siano
più facili da affrontare. Invece si intravede una profonda difficoltà della famiglia della tarda
modernità ad affrontare il cambiamento, che invece sta al cuore di ogni processo che voglia dirsi
educativo o formativo. Pertanto spesso assistiamo a transizioni che, seppur normative, mettono a
dura prova le relazioni educative della famiglia impegnata nel tentativo di attivare nuove risorse per
fronteggiare il cambiamento. In tal senso si tratta della capacità della famiglia di attivare le sue
risorse per affrontare il cambiamento in corso. Questo significa che il cambiamento è vitale per il
sistema familiare ed è una sfida educativa importante rendere consapevoli le famiglie che per
rimanere unite anche nel compito genitoriale è necessario affrontare le trasformazioni che il
trascorrere del tempo richiede ai legami familiari. Nessuna transizione familiare può essere
considerata un lavoro del singolo, ma piuttosto si tratta sempre di una complessa trasformazione
che riguarda l'intero sistema familiare coinvolto, di un compito evolutivo ed educativo congiunto.
Infatti, potremmo descrivere il compito educativo come obiettivo di perfezionamento personale,
coniugale e familiare che, nato da un bisogno educativo appunto, si cerca di perseguire e
raggiungere insieme. Scegliendo di soffermarci sulla fascia d'età dei bambini che abbiamo
incontrato nel corso della nostra ricerca tratteggeremmo brevemente i compiti di sviluppo e compiti
educativi delle famiglie con bambini dai 6 agli 11 anni. Si tratta di un periodo in cui lo sviluppo
cognitivo, emotivo e sociale attraversa importanti cambiamenti. Già all'inizio della terza infanzia,
intorno ai 6-7 anni, il bambino ha una vita mentale più complessa che gli consente la nascita dell'Io
psicologico, un nucleo mentale che consente lo sviluppo di una propria individualità e
successivamente, durante l’adolescenza, di una propria identità. Il bisogno di affermare sé stessi
comporta la necessità di uno sviluppo della competenza emotiva che aiuta il bambino nella
strutturazione del suo livello di autostima ma anche dello sviluppo morale. In particolare la terza
infanzia coincide con l'esperienza scolastica in cui il bambino entra in un mondo più vasto di
relazioni. Il bambino è così in grado di comprendere che il modo di stare dentro questi nuovi mondi
della vita dipende anche dalla sua volontà e dallo sviluppo della sua capacità di saper fare,
acquisendo nuove competenze. Sviluppo cognitivo affettivo e sociale si intrecciano in questa fase
dell'età evolutiva. La teoria dello sviluppo psicosociale di Erikson descrive questa fase dello
sviluppo come caratterizzata dall’industriosità, la cui polarità negativa è rappresentata
dall’inferiorità. In questa fase il bambino impara a ottenere il riconoscimento degli altri realizzando
compiti grazie allo

sviluppo di determinate abilità: “io sono ciò che riesco a fare grazie a ciò che apprendo”. Il bambino
dovrebbe sviluppare appunto un senso di industriosità, il suo ego si estende fino a includere le sue
capacità: imparare a svolgere il lavoro cui è chiamato gli insegna il piacere del lavoro. Il rischio
però in questa fase consiste in un senso di inadeguatezza e inferiorità, in quanto il bambino
potrebbe disperarsi proprio per la frustrazione che subentra quando egli non riesce a svolgere i
compiti a cui è chiamato a rispondere e il bambino potrebbe abbandonare la speranza di acquisire

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le abilità necessarie e il confronto con i pari, che si applicano alla stessa area di apprendimento,
potrebbe rappresentare un ulteriore fattore di demotivazione. Sempre secondo Erickson ciò che
può compromettere in modo particolare lo sviluppo di un bambino in questa fase è una vita
familiare che non lo ha preparato alla vita scolastica non tanto in termini di prerequisiti di
apprendimento, quanto rispetto ai processi di socializzazione e di gestione delle emozioni a cui il
bambino è chiamato soprattutto con l'inserimento a scuola. È chiaro dunque che per Erickson la
virtù che caratterizza questa fase dello sviluppo è la competenza, intendendo dunque diversi tipi di
competenza: cognitiva, sociale, emotiva. Risulta di particolare rilievo l'azione educativa di supporto
e di guida che i genitori saranno in grado di fornire al figlio perché possa acquisire fiducia
nell'incremento delle sue capacità cognitive e linguistiche e utilizzare in modo adeguato le nuove
competenze acquisite. La terza infanzia coincide anche con il momento in cui cambia il modo di
relazionarsi con gli altri e i processi di socializzazione subiscono una nuova spinta grazie allo
sviluppo di una capacità di pensiero sempre più allocentrica, che dovrebbe essere adeguatamente
stimolata e potenziata per consentire al bambino un graduale superamento dell'egocentrismo
tipico della prima e seconda infanzia. Gli educatori sono chiamati ad accompagnare il bambino in
questo percorso di crescita perché essere inseriti all'interno di una società può creare nei bambini
un senso di inadeguatezza, un senso di inferiorità, la paura di non essere all'altezza, di non essere
accettati. Durante la pre-adolescenza e l'adolescenza, i compiti di sviluppo dei genitori e dei figli
saranno nuovamente ridefiniti, i genitori sono chiamati a sostenere i propri figli verso l'autonomia e
l'indipendenza, sperimentando nuovi modelli educativi. Il compito evolutivo fondamentale durante
l'adolescenza e lo sviluppo di un concetto di sé stabile. Per affrontare questo compito di sviluppo
gli adolescenti hanno bisogno del sostegno dei genitori come guida sicura, ma devono sentire
contestualmente che l'intervento dei propri genitori non è di ostacolo allo sviluppo della propria
autonomia, secondo una "impresa evolutiva congiunta". Se da un lato i compiti di sviluppo
dell'adolescenza comportano l'esigenza di concentrarsi sul processo di individuazione, dall'altro
lato la coppia genitoriale dovrà impegnarsi a gestire in maniera adeguata i processi di svincolo,
che richiedono alla famiglia cambiamenti d'altro genere rispetto a quelli sollecitati durante l'infanzia
del figlio. Ed è proprio sulle "ragioni dello svincolo" che i genitori di oggi sembrano avere maggiori
difficoltà. È qui riconoscibile un desiderio genitoriale di perpetuare la protezione e la dipendenza
dei figli anziché promuoverne e favorirne l'autonomia e l'indipendenza; ciò spiegherebbe perché
alcuni studi si riferiscono a un "reciproco vantaggio” quando descrivono le dinamiche di
funzionamento che connotano il fenomeno della "famiglia lunga", ovvero la famiglia caratterizzata
da giovani adulti che continuano a vivere con i genitori oltre i 35 anni, che ha sostituito la fase della
"famiglia trampolino” che accompagnava il giovane verso l'uscita dal nucleo familiare d'origine e
verso la conquista di una sempre maggiore autonomia. Ciò comporta confusione nei giovani che
non si sentono né contenuti, né guidati in un mondo complesso e pieno di contraddizioni come

quello contemporaneo. Si tratta di un disorientamento dei giovani nei confronti di un mondo


esterno che diventa a tratti incomprensibile e in cui diviene sempre più difficile interpretare qual è il
posto da occuparvi. Erickson si esprime prospettando una dispersione dell’identità in adolescenza,
se la famiglia non è in grado di accompagnare un adeguato sviluppo psicosociale del soggetto. I
compiti educativi nella fase dell'adolescenza richiamano ancora una volta una risposta a un
bisogno di sentirsi amati e accolti che accompagna la nostra intera esistenza e che in questo
momento della crescita comincia a trasformarsi da una forma passiva a una più attiva: la fiducia
incondizionata che il bambino ripone nei confronti di entrambi i genitori durante l'infanzia si
trasforma gradualmente nell'esigenza di avere fiducia da parte dei genitori. Il compito educativo
per eccellenza dei genitori nel periodo della pre-adolescenza e adolescenza dei figli è quello di
accompagnare il giovane ha verso la costruzione di un proprio essere nel mondo. La finalità del

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compito educativo a differenza di quello evolutivo non è solo lo sviluppo di una personalità sana ed
equilibrata ma piuttosto la crescita in pienezza della persona ovvero il bene della persona. Il
passaggio evolutivo dall'infanzia all'adolescenza include un compito educativo che richiede un
passaggio ulteriore che è quello dell'appropriazione unica e singolare, cioè personale di un modo
specifico di significare il mondo e di imparare ad abitarlo.

Competenza genitoriale ed educazione dei genitori

Ai genitori è rivolta la richiesta sociale di essere competenti, tanto che l'azione dei genitori e ormai
da diversi anni oggetto di valutazione degli operatori sociali e giuridici. In altre parole la genitorialità
è sempre più valutata in termini di efficacia secondo un principio che nei termini della psicologia
valuta relazioni familiari "funzionali vs disfunzionali". La funzione genitoriale è quella di accudire
fisicamente i figli, organizzare l'ambiente di crescita, sostenere i figli nello sviluppo sociale e
affettivo, guidare i figli nell'interpretazione della realtà. Il concetto di funzione genitoriale può trarci
in inganno. Infatti, funzionale e disfunzionale sono due termini che ci rimandano immediatamente a
qualcosa che funziona in modo corretto vs qualcosa che non funziona. Se diamo a questi due
termini un'accezione troppo deterministica di cosa origina una buona o una cattiva genitorialità ci
allontaniamo da una concezione multifattoriale dell'educazione. Per la psicologia essere genitori
competenti significa rientrare in un quadro di “funzionalità", intesa nei termini di un genitore in
grado di facilitare lo sviluppo e il successo dei figli. La competenza può essere definita per
esempio da dimensioni quali la percettività, la responsività e la flessibilità. La competenza
genitoriale dunque deve rispondere a criteri di valutazione sempre più "oggettivi", osservabili,
visibili, perché se ne possa intrecciare la loro presenza vs assenza nel comportamento. Ci sono
diverse definizioni del termine competenza, alcune legate alle abilità che il soggetto è in grado di
mettere in campo quando necessario, ovvero quelle interpersonali o sociali, affettivo-cognitive,
comunicative, di problem solving, di coping. In questo senso il concetto di competenza si riferisce
alle performance che hanno origine dalla capacità di utilizzare le proprie risorse e gestire le
informazioni di cui si dispone. Si tratta dunque di valutare una performance ed essere genitori oggi
sembra trasformarsi in un mestiere in cui esercitare le proprie funzioni ed esibire al meglio le
proprie performances.

Ma il parenting (la genitorialità) non può risolversi in un mero fare, si tratta piuttosto di tematizzare
una rinnovata attenzione alla dimensione della co-genitorialità. L'essenza del concetto di
competenza genitoriale è la costruzione di alleanze educative, prima fra tutte quella coniugale. Si
tratta dunque di promuovere e sostenere la competenza genitoriale a partire da un “affidamento
reciproco delle rispettive competenze educative” dei due genitori. Ciò implica un mettere in
comune le proprie esperienze, parteciparsi reciprocamente speranze, timori, attese di cui è
costruita la preoccupazione educativa. Se volessimo dare una definizione del concetto di
competenza educativa genitoriale, dovremmo dire che essa si sostanzia nelle capacità del
caregiver di riequilibrare gli errori commessi, individuando consapevolmente l'eventualità di fallire
di nuovo nel proprio compito genitoriale. Essere genitori competenti infatti significa riconoscere e
accettare i propri limiti. La competenza genitoriale è segnata tanto dalla consapevolezza che non
ci si può sentire competenti una volta per tutte, quanto che non si e competenti da soli ma nella
relazione con l'altro genitore. Si è genitori nella misura in cui si è capaci di essere co-genitori. In
altre parole si è “genitori di” un figlio se si è “genitori-con” l'altro co- genitore. In tale impostazione
nessun co-genitore vince e nessuno perde: vince la crescita del figlio e la sua educazione. Se ci
riferiamo alla monogenitorialità, a situazioni di separazione coniugale e/o divorzio, alle famiglie
divise dalla migrazione, alla genitorialità resa possibile dalle tecniche di fecondazione

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medicalmente assistita e alle tante altre forme familiari, poiché il patto educativo genitoriale è
duale, la presenza dell'altro genitore ha un impatto sull'educazione anche quando questi è assente
o addirittura inesistente. Ciò implica che, anche quando uno dei genitori è assente, questa istanza
di condivisione della responsabilità genitoriale e divisione dei compiti educativi è sempre
emergente nel caregiver presente. Pensare a una educazione alla genitorialità significa richiamare
anche aspetti etici e politici: l'educazione che si riceve in famiglia non è una responsabilità
esclusiva dei genitori ma di un'intera comunità educante. Si tratta di attivare reti di sostegno e di
reciprocità. In altre parole, un’educazione alla genitorialità deve promuovere relazioni tra genitori,
tra genitori e insegnanti, tra genitori e servizi territoriali, tra genitori e comunità. Evidente il richiamo
a un lavoro educativo che si basi sulla promozione dell’empowerment familiare, cioè una
formazione per genitori intesa come uno spazio in cui sia possibile trasformare i problemi in
risorsa. Il processo di empowerment mette bene in luce il rapporto tra responsabilità e opportunità
e richiama la dimensione relazionale della famiglia nei suoi aspetti di forza e di “resilienza”. Il
concetto di resilienza familiare fa riferimento alle risorse e alle strategie adattive con cui la famiglia
affronta i cambiamenti richiesti nei momenti critici. Quanto più la coppia all'interno della famiglia
sarà capace di affrontare con successo le crisi evolutive normative o non normative, tanto migliori
saranno le possibilità di formarsi come caregiver supportivi. Così come i bambini per crescere e
sviluppare una loro capacità di mentalizzazione hanno bisogno di appoggiarsi alla mente dei
genitori allo stesso modo i genitori per acquisire una loro competenza genitoriale hanno bisogno
anche della mente degli adulti educatori (in primo luogo l’altro genitore) con cui condividere
l'esperienza della genitorialità imparando a crescere come genitori. Bisognerebbe accompagnare i
genitori nello scenario della corresponsabilità e del riconoscimento reciproco tra educatori, a
partire dalla promozione delle potenzialità educative presenti nella coppia genitoriale per favorire
una sinergia educativa tra adulti educatori da coltivare nei mondi della vita.

Una rassegna sull’educazione genitoriale

L'area del sostegno alla genitorialità viene chiamata anche parenting support e si presenta come
una forma di educazione genitoriale che può riguardare sia l'area della promozione, sia quella
della prevenzione oppure nei casi di presa in carico istituzionale anche l'area della prevenzione
terziaria o protezione che si qualifica come tutela del minore e recupero della competenza
genitoriale in quelle situazioni in cui sono accertate gravi problematiche nel contesto familiare. Si
tratta dunque di percorsi di accompagnamento della genitorialità che privilegiano un lavoro sui
processi educativi. Si tratta di interventi di matrice psicologica, psicoterapeutica, psichiatrica,
neuropsichiatrica, riabilitativa e assistenziale. L'educazione familiare può essere suddivisa
secondo tre macro aree: la promozione o prevenzione primaria, la promozione secondaria e la
prevenzione terziaria o protezione.

L'area della promozione o prevenzione primaria

L’area della promozione o prevenzione primaria offre occasioni di incontro o percorsi formativi a
genitori che non stanno sperimentando situazioni di difficoltà particolari e hanno lo scopo di
potenziare le competenze educative familiari. L'obiettivo è quello di offrire uno spazio in cui
possano imparare a condividere pratiche educative e riflettere insieme ad altri genitori. Tra gli
interventi di promozione o prevenzione primaria troviamo in primo luogo le campagne informative
di educazione familiare che hanno un carattere informativo e di sensibilizzazione. Ma gli interventi
di informazione possono svolgersi anche attraverso incontri formali nella formula di conferenze o
lezioni. L'obiettivo di questa tipologia di incontri è un'azione sul livello cognitivo dei partecipanti, il

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tentativo ed innescare nuovi apprendimenti sulle tematiche trattate, offrendo spesso anche la
possibilità di un dibattito tematico. Esistono anche altre tipologie di intervento di promozione tra cui
i gruppi di auto-mutuo aiuto e i parent-training. Nel primo caso i membri del gruppo sono insieme
"aiutanti" e “aiutati", quindi la logica alla base di queste esperienze è il confronto rispetto a vissuti e
questioni educative che si presentano analoghe. Nel secondo caso ci riferiamo al lavoro svolto dai
percorsi di parent training che hanno promosso forme di sostegno alla genitorialità secondo un
modello formativo finalizzato all'acquisizione di specifiche abilità e all'apprendimento di
competenze pratiche per la gestione del rapporto quotidiano con i figli. I limiti di questi percorsi
formativi di parent training nascono dal significato sotteso che esista un modo giusto di essere
genitori e che basti acquisirlo. Così la formalizzazione dell'educazione, la riduzione della
genitorialità a competenza tecnica e l'eccessiva dipendenza dagli esperti sono stati individuati
come i limiti più evidenti. Tutti questi aspetti si riferiscono a una sorta di tecnicizzazione
dell'educazione ed emerge la necessità di pensare a percorsi educativi diversificati, personalizzati
e centrati sui bisogni educativi specifici. Un tipo di intervento di promozione delle competenze
genitoriali è rappresentato dalla formula delle "scuole per genitori". Ci si riferisce agli incontri di
gruppi di genitori che possono avere un carattere specifico di informazione, di discussione o di
formazione, cioè diversi livelli approfondimento. Si tratta di contesti in cui è possibile attingere
all’esperienza che altri genitori hanno vissuto, è un modello basato sulla reciprocità e sulla co-
educazione. L'attenzione a interventi o percorsi educativi personalizzati e al centro del lavoro
svolto dai due servizi ovvero i “consultori familiari” e i "centri per le famiglie” i quali sono però meno
diffusi. Ci sono altri contesti sociali che possono diventare luoghi in cui attivare

percorsi di promozione delle competenze genitoriali, ad esempio associazioni, parrocchie e anche


le scuole di ogni ordine e grado che possono rappresentare i luoghi privilegiati per promuovere
percorsi che abbiano come finalità una prevenzione primaria. In tempi più recenti, in alcuni contesti
europei, sono state sperimentate altre formule di promozione delle competenze genitoriali come ad
esempio "caffè-genitori" e in particolare il "caffè per mamme e bambini”.

La prevenzione secondaria

L'azione dell'aria della prevenzione secondaria è rivolta a tutte quelle situazioni di rischio che nei
tempi di crescita della famiglia possono determinare un danno allo sviluppo dei minori. In
particolare la prevenzione secondaria attenziona le problematiche connesse ai maltrattamenti e
agli abusi di minori, ma anche ai casi di negligenza e di povertà. In Italia gli interventi di
prevenzione secondaria sono individuati prevalentemente come Family preservation per
sottolineare l'azione di prevenzione dell'allontanamento dei bambini dalla famiglia di origine,
garantendo supporto ai genitori e coinvolgendo attivamente le famiglie. Si tratta di interventi che
ancora una volta mirano a promuovere empowerment familiare, potenziando appunto le capacità
educative dei genitori. È necessario attenzionare un intero contesto debole e poco supportivo per
le famiglie in difficoltà. Bisogna restituire fiducia e senso di auto-efficacia ai genitori in condizioni di
vulnerabilità, significa quindi restituire fiducia nel futuro ai bambini, che spesso invece
percepiscono i loro genitori come incompetenti o tutt'al più rassegnati. Un primo problema che la
prevenzione secondaria deve affrontare è dunque quello di attivare strategie per intercettare le
famiglie che potrebbero beneficiare di interventi di prevenzione. Giocano un ruolo di primo piano i
servizi sociali, ma anche le scuole e tutti i servizi educativi destinati allo 0-6. La finalità
dell'intervento di prevenzione secondaria è di agire precocemente su un problema specifico,
intercettando le famiglie segnate da molteplici problematicità e particolarmente svantaggiate. In
quest'ultimo caso l'azione politica dovrebbe intervenire a fianco di quelle educativa ma a volte la

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riflessione pedagogica intravede un rischio educativo laddove ai più sembra del tutto assente. Gli
interventi di prevenzione secondaria mirano a creare sistemi e reti sociali che possono favorire lo
scambio fra i diversi contesti di vita dei bambini (familiare, scolastico, sociale), cercando di
promuovere una "genitorialità positiva" a favore dello sviluppo del bambino. Questo tipo di
interventi di aria preventiva sono stati chiamati anche di "vicinanza solidale" per sottolineare il
carattere di aiuto non solo per le famiglie più vulnerabili ma anche per le "famiglie che aiutano
famiglie”. Le strategie di intervento utilizzate nell'area della prevenzione secondaria sono in
accordo con quelle descritte per l'area della promozione. Infatti alcune coincidono con quelle già
prese in esame, come i “parent training” e i “gruppi di auto-aiuto”, altre invece sono specifiche di
questo ambito di intervento, come home-visiting o tutoring-familiare, conosciuto in Italia come
servizio di "educazione domiciliare”. L’home-visiting offre la possibilità di osservare la relazione
genitori-figli nella quotidianità ed evidenziare le difficoltà e i potenziali rischi. Infine, richiamiamo le
esperienze dei "gruppi di parola" per genitori in situazioni di vulnerabilità. Si tratta di gruppi di
discussione che prevedono la condivisione delle proprie esperienze educative. L’idea di fondo è
che per una riflessione da condividere con altri genitori è necessario partire dai propri vissuti e
dalle proprie esperienze educative esplicitandole e problematizzandone.

L'area della prevenzione terziaria o protezione

L’area della prevenzione terziaria o protezione comprende gli interventi di recupero per tutte quelle
famiglie già prese in carico dai servizi di protezione e tutela dei minori e per le quali spesso già
sono in atto disposizioni predisposte dal Tribunale dei Minorenni. Molti di questi dispositivi
prevedono un allontanamento temporaneo o permanente dalla famiglia di origine e quindi
chiamano in causa l'istituto dell'affidamento familiare. Si tenta di tutelare il minore ma anche di
preservare la continuità dei legami familiari e il senso di appartenenza del bambino. Nell'area della
prevenzione terziaria si realizzano programmi di Family reunification, che si riferiscono a percorsi
di intervento rivolti alle famiglie d'origine, ai minori e alle famiglie affidatarie o comunità residenziali,
con l'obiettivo di creare le condizioni per il rientro del minore nella famiglia d'origine. I programmi di
Family reunification possono prevedere diverse fasi di intervento: prima dell'allontanamento del
minore, durante l'allontanamento e dopo il rientro del minore nella famiglia d'origine. Le pratiche
prevedono colloqui e visite domiciliari, sostegno psicologico, psicoterapeutico o psichiatrico, a
questa è possibile affiancare anche i gruppi di parola. I servizi territoriali coinvolti sono numerosi: si
tratta dei servizi di tutela e protezione degli enti locali o ASL, servizi di psicologia per l'età
evolutiva, servizi di neuropsichiatria infantile, tribunale per i minorenni, centri per l'affido, comunità
residenziali per bambini e ragazzi, servizi legati all'adozione. Le criticità di questo tipo di intervento
sono molteplici. In primo luogo già da tempo viene denunciata la lunghezza dei procedimenti di
presa in carico che spesso rischiano di divenire sine die. In secondo luogo, si sente l'esigenza di
riformulare in direzione di una maggiore omogeneità e trasparenza i percorsi formativi rivolti alle
famiglie affidatarie. Rimane infine una nota dolente: l'alta percentuale di presa in carico di famiglie
con figli preadolescenti o adolescenti, indice di una fragilità del sistema di prevenzione secondaria
che ritarda gli interventi precoci. Tra le criticità delle tre macro-aree di intervento presentate si
riscontra una minore presenza dei padri rispetto al coinvolgimento delle madri che è sempre
maggiore. Naturalmente questa diversa partecipazione influenza gli esiti dei processi formativi
attivati e non sempre si riesce a lavorare sul tema della differenza, cioè sul diverso modo in cui
padri e le madri e educano.

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CAPITOLO 3

Un percorso di ricerca-intervento con la Philosophy for Children and Community

La ricerca-intervento che verrà presentata in questo capitolo si colloca all'interno di quei percorsi di
educazione alla genitorialità che appartengono all'area della promozione o della prevenzione
primaria. Si è deciso di lavorare non solo con i genitori ma anche innanzitutto con i loro figli. Da un
lato si è ipotizzato di offrire ai genitori uno spazio/tempo per interrogarsi insieme agli altri genitori
sugli aspetti delle relazioni familiari, dall’altro lato la stessa tipologia di incontri, è stata utilizzata
anche i bambini e i ragazzi quindi è stato offerto uno spazio di riflessione in cui confrontarsi con i
loro coetanei. Al termine di ogni anno scolastico, sono state offerte possibilità di incontro e di
dialogo tra le due generazioni; in particolare per favorire tale confronto è stata proposta una
restituzione, una sorta di debriefing, ovvero giornate di incontro tra genitori e figli per riflettere
insieme sul lavoro svolto.

Ipotesi, finalità e obiettivi

Il metodo di ricerca e formazione utilizzato è la Philosophy for Children che non viene impiegato
solo con bambini, ma anche nella forma analoga di una Philosophy for Community, utilizzato ormai
ampiamente in svariati contesti di formazione degli adulti. Questo metodo di ricerca e di
formazione è stato scelto per i genitori anche in considerazione di un'altra emergenza educativa
del nostro tempo: la famiglia di oggi è sempre più privatizzata. La proposta pedagogica della
Philosophy for Children and Community rappresenta un invito a rallentare, perfino a fermarsi e ad
affidarsi al tempo disteso del dialogo e della riflessione. L’idea è stata di far riflettere i genitori su
alcuni elementi essenziali della consegna educativa e, al contempo, utilizzare lo stesso metodo
con i loro figli, portando i bambini e i preadolescenti ad utilizzare lo stesso metodo con i loro figli. Si
tratta di un disegno emergente della ricerca, nel senso che non è precostituito, ma si va a
strutturando nel corso del processo epistemico e formativo. Potremmo definirlo anche disegno
evolutivo in quanto “si modula in rapporto all'evolversi del sistema”. Il ricercatore deve assumere
una postura allocentrica e riflessiva e un atteggiamento di apertura al nuovo. Se i partecipanti sono
ascoltati e rispettati e i loro saperi e le loro capacità non vengono trascurate ma propriamente
curate, ogni percorso di ricerca diventa un percorso formativo. Non solo non si tratta di fare ricerca
su un oggetto quale nessuna famiglia è, ma con le famiglie, e altresì per le famiglie, cioè ai fini di
una loro più piena fioritura. Gli obiettivi dell'intervento con i genitori sono stati: promuovere una
riflessione in gruppo sugli aspetti affettivi e su quelli etici delle relazioni familiari; riflettere sul
proprio modo di stabilire le regole come genitori; interrogarsi sui fondamenti costitutivi dei legami
familiari; acquisire consapevolezza, grazie a una riflessione insieme agli altri; accogliere e
riconoscere il figlio nella sua alterità. Gli obiettivi con i figli sono stati: imparare a dialogare in un
clima di rispetto e collaborazione; lavorare sulle abilità di ragionamento, diventare disponibili a
filosofare con i propri pari riconoscendo i pregi e il valore del pensiero degli altri; promuovere una
riflessione insieme agli altri sui legami familiari; acquisire consapevolezza grazie al confronto con
gli altri; interrogarsi sui fondamenti costitutivi dei legami familiari.

Il contesto dell'intervento e i partecipanti

Il progetto di formazione e ricerca è stato avviato in due differenti istituti di scuola primaria è in un
istituto di scuola secondaria di primo grado della città di Palermo, nel corso degli anni scolastici

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2016/2017, 2017/2018. L’adesione al progetto è stata proposta dalle scuole a tutti i genitori dei
suddetti alunni, anche se ovviamente non tutti hanno aderito, infatti complessivamente hanno
partecipato 312 bambini.

Il metodo della Philosophy for Children

Andremo adesso a descrivere brevemente le caratteristiche e le fasi del metodo della Philosophy
for Children and Community che ha rappresentato il principale strumento di lavoro della ricerca-
intervento. La prima fase consiste nella costituzione del gruppo chiamato a diventare una comunità
di ricerca. Esso deve essere costituito da un massimo di 15-18 persone in modo da poter dare a
tutti la possibilità di intervenire nel tempo della sessione, che dura circa 45 minuti. Allo scopo di
dare il tempo al gruppo di volgere verso

un atteggiamento che vada nella direzione della formazione di una "comunità di ricerca", le
sessioni filosofiche sono precedute da un'attività di warming up finalizzata appunto a un
“riscaldamento”; si tratta di un momento in cui membri del gruppo cominciano a interagire tra loro
in modo nuovo. Segue la lettura di un brano scelto dal curricolo della Philosophy for Children; dopo
la lettura ad alta voce del brano si procede con la suddivisione del gruppo in più sottogruppi che
proporranno delle domande a partire dal brano, le cui risposte verranno trascritte durante la
compilazione dell’agenda. Dopo aver rintracciato il tema della riflessione filosofica, si procede ad
argomentare secondo le regole di un vero e proprio dialogo filosofico. Infatti i racconti forniscono il
materiale per la riflessione e fungono da pretesti per il confronto dialogico e la discussione
filosofica in gruppo. Nella presente ricerca-intervento sono stati scelti episodi estrapolati dai
seguenti racconti: L'ospedale delle bambole, Elfie, Kio e Gus, Pixie. L'agenda si arricchisce mentre
la comunità di ricerca procede nel suo lavoro, in quanto vengono segnati i collegamenti tra le
domande individuate dai partecipanti e le questioni nodali che emergono nel corso della
discussione, attraverso le quali gradualmente si va definendo il piano di discussione. La comunità
sceglie consensualmente un tema, una questione o una particolare domanda verso cui la maggior
parte dei partecipanti mostra un certo interesse e si avvia il dialogo filosofico per circa 45 minuti.
Queste diverse fasi in cui si articola la discussione devono essere ben chiare al facilitatore che ha
il compito appunto di guidare i partecipanti della sessione verso un vero e proprio dialogo
filosofico. Il facilitatore riveste un ruolo specifico, un'azione di mediazione all'interno della
comunità, in cui egli dovrebbe favorire il dialogo senza dirigerlo. Il facilitatore non deve entrare nel
merito dei contenuti degli argomenti anzi deve mettere tra parentesi il contenuto, il suo parere, per
consentire che la pratica filosofica sia realmente affidata alla libera iniziativa dei partecipanti. La
sua postura deve essere quella di un educatore maieutico e di un ricercatore allocentrico. Lo
scopo non è quello di trovare una risposta definitiva alle domande poste, ma semmai imparare a
domandare e a pensare.

Tempi e modalità dell'intervento

La ricerca-intervento ha previsto sei incontri per ogni gruppo di bambini e tre incontri per ogni
gruppo di genitori. Ogni incontro sia con i figli che con i genitori e iniziato con un'attività di warming
up che ha avuto lo scopo di mettere in movimento le comunità di ricerca ed esercitare un pensiero
riflessivo e l'argomentare filosofico. In particolare le attività di warming up hanno previsto la
somministrazione di alcuni item a completamento poi condivisi con gli altri, allo scopo di creare un
clima di partecipazione e curiosità e stimolare primi spunti di riflessione. Ogni incontro dunque a
previsto una diversa attività iniziale differente per i figli e i genitori. Durante il primo incontro con i
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bambini è stato richiesto di scrivere su un foglio colorato appeso poi nell’agenda: il mio giocattolo
preferito è...; nel corso del secondo incontro invece è stato chiesto ai figli di indicare: la mia
mamma è..., la mia mamma pensa che io sia...; nel terzo i bambini hanno giocato a: se io fossi...;
nel quarto: il mio papà è...; nel quinto incontro è stato chiesto: a casa mia c'è... a casa mia non
c'è...; infine durante il sesto incontro è stato domandato di dare una definizione di cosa sia un
fratello, una sorella: un fratello o una sorella è... Le attività di warming up negli incontri con i
genitori invece sono riferite tutte ad aspetti legati alle relazioni familiari; infatti nel primo incontro è
stato chiesto ai genitori: mio/mia figlio figlia è... mio figlio pensa che io sia... io come mamma/papà
sono...; nel secondo incontro è

stato introdotto il tema delle regole: la regola più importante è che ho dato ai miei figli è... mi sono
sentita mamma papà quando...; nel terzo incontro è stato chiesto in modo esplicito ai genitori che
cosa significa per loro essere genitori e che cosa sia una famiglia, ma anche cosa una famiglia non
è: essere genitore significa... la famiglia è... la famiglia non è...

Un processo di analisi fenomenologica

I materiali dopo essere stati raccolti (tramite l’attività di warming up e agende delle sessioni
filosofiche) sono stati analizzati con lo scopo di evidenziare la presenza di nuclei intenzionali
ricorrenti. In questo processo di analisi il ricercatore deve assumere un atteggiamento e un metodo
fenomenologico nella valutazione dei suoi dati di ricerca, partendo da una postura riflessiva e da
un atteggiamento di apertura al nuovo e deve essere capace di spingersi oltre il già noto e di non
lasciarsi guidare dalle proprie precomprensioni. Il ricercatore deve quindi momentaneamente
sospendere il giudizio e mettere tra parentesi i propri presupposti epistemologici; questa è una
condizione epistemologica essenziale affinché la ricerca fenomenologica sia efficiente e rigorosa.
Nello specifico, per svolgere la ricerca, è stato utilizzato un riadattamento dell'analisi
fenomenologica di Giorgi ripresa anche da Sità, che prevede cinque frasi fasi di analisi e
valutazione del materiale raccolto durante una ricerca.

1. La prima fase consiste in una lettura di ciascuna agenda che consente un’iniziale visione
globale e d’insieme.
2. La seconda fase comporta una rilettura più analitica in cui si presta attenzione non solo ai
temi emergenti ma anche alle argomentazioni e allo sviluppo della riflessione.
3. Nel corso della terza fase, eliminate le ridondanze, si è passati all'elaborazione del
significato di ogni unità individuata per poi procedere con la ricerca di relazioni fra le unità
di significato.
4. Nella quarta fase si prendono ancora in esame le singole unità di significato per cercare di
cogliere il senso di ciò che ciascuna di esse rivela.
5. Infine l'ultima fase è dedicata alla stesura di una descrizione, sintetizzando ed integrando i
significati identificati da tutti i partecipanti, confrontando i diversi profili, al fine di costruire
una descrizione generale che consiste per molti ricercatori d'ispirazione fenomenologica, in
un testo che dovrebbe dare conto in modo accurato, chiaro e articolato dell'esperienza
oggetto di indagine.

Nel nostro caso specifico, dopo un'attenta analisi delle riflessioni elaborate dalle comunità dei
genitori e da quella dei figli sono state rintracciate le unità di significato emerse in entrambi i
gruppi. In questo modo, è stato possibile, da un lato evidenziare aspetti che dicono qualcosa del
fenomeno “relazioni educative familiari", dall'altro lato, far luce anche sulle profonde differenze nei

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core meaning presenti tra i due gruppi; così nelle agende di genitori e figli sono state individuate
delle unità di significato ricorrenti, alcune presenti in tutte le agende dei genitori da un lato, e dei
figli dall'altro. Le differenze evidenziate sono estremamente rilevanti sul piano dell'educazione dei
genitori; in altre parole, tali differenze sono state elemento chiave dell'esperienza formativa dei
genitori, che nel confronto tra le loro agende quelle dei figli hanno potuto vedere con sguardo
nuovo, cioè hanno preso maggiore consapevolezza dell'implicito che caratterizza molto dell'agire
educativo quotidiano.

Nuclei di senso nelle agende delle sessioni filosofiche

Il primo momento dell’analisi fenomenologica è stato dedicato alla lettura di tutto il materiale
raccolto durante le attività di warming up. Dalle risposte agli item a completamento usati per le
attività di warming up nasce lo sviluppo di diversi dialoghi filosofici. L’obiettivo degli item a
completamento proposti è infatti quello di facilitare nei genitori il passaggio da un atteggiamento
naturale, a un atteggiamento fenomenologico. Il dialogo filosofico dei genitori aiuta indubbiamente
a problematizzare anche ciò che alle prime risposte fornite durante le attività di warming up è dato
per scontato. Infatti, mentre le risposte date agli item a completamento sono state proposte come
un’iniziale riflessione individuale, la riflessione partecipata in cui i genitori sono coinvolti durante lo
svolgimento delle sessioni si arricchisce del valore aggiunto di una riflessione comune, che
favorisce il confronto con posizioni diverse dalle proprie e la possibilità di acquisire una maggiore
consapevolezza dei temi argomentati nella comunità di ricerca. Sono messi così veri e propri
nuclei intenzionali, quei core meaning di cui si è parlato prima. Il metodo fenomenologico infatti ha
consentito di individuare delle macro-aree tematiche, dei nuclei intenzionali ricorrenti che sono
stati: famiglia, maschile-femminile, bisogni, verità, cose- persone, insegnare-imparare, domande e
risposte, essere persona, andare d’accordo/ non andare d'accordo, regole.

Famiglia

I bambini della scuola primaria pensano che la famiglia sia il luogo in cui sentirsi a casa, costituita
da persone che “vengono da altre persone” all'interno della famiglia e per questo si conoscono
dalla nascita e vivono nella stessa casa. Si tratta per i più piccoli di un gruppo di persone che si
vogliono bene, che si amano e che si aiutano. Un altro aspetto è la distinzione dei ruoli materno e
paterno. Nelle rappresentazioni dei bambini le mamme si prendono cura dei loro figli e i papà li
fanno crescere; ma pare emergere anche l'idea che le famiglie sono differenti l'una dall'altra per
tradizioni, per le diverse persone che le compongono e che hanno formate, per il modo in cui
esprimono l'affetto. Nelle agende dei figli preadolescenti emerge chiaramente l'idea che i genitori
debbano educare ad affrontare la vita, ma nello stesso tempo devono rappresentare un porto
sicuro in cui sentirsi liberi. Ma la famiglia è anche il luogo in cui "essere guardati”, essere visti per
ciò che realmente si è, che in una pedagogia fondamentale potremmo dire “essere riconosciuti”. I
genitori tendono a non dare una definizione di cosa sia una famiglia o di come sia composta,
piuttosto si concentrano sulla sua funzione: grazie alla famiglia è possibile raggiungere traguardi,
mete, nella famiglia si cresce e dovrebbe essere caratterizzata da equilibrio e rispetto. Si nota a
tratti anche un'idealizzazione della famiglia stessa: “quello che viene dalla famiglia non può essere
che buono”. Ma soprattutto la famiglia sembra essere caratterizzata dalla dimensione affettiva:
nella famiglia si sperimentano amore, sentimenti, volersi bene, fiducia, sostegno, vicinanza. La

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relazione familiare si traduce quindi in comportamenti che denotano fiducia, affettività, stima,
reciprocità e la famiglia risponde a un bisogno affettivo, di supporto e di appartenenza a un gruppo.

Il maschile e il femminile: riflessioni sul paterno

Nelle agende genitori e figli riportano riflessioni sul paterno e materno. In particolare, gli uomini
nella relazione con i loro figli sono visti come più concreti, più diplomatici, più

giocherelloni, ma volte più superficiale rispetto alle donne che sono descritte come più protettive,
più amorevoli, più accudenti, parlano di più con i figli e fanno loro più domande. Questi diversi
aspetti che connotano maschile e femminile influenzeranno inevitabilmente la relazione educativa
con i figli. Anche ciò che pensano i genitori della figura paterna è degno di attenzione: il padre
insegna a darsi delle risposte; porta a capire il limite per permettere i figli di accettarsi; riporta il
figlio alla relazione essenziale con la madre; mette i figli di fronte alla vita; insegna a ragionare per
percepire e riconoscere, li inserisce nelle relazioni sociali. Le agende dei figli presentano delle
definizioni più precise della differenza tra maschile e femminile: maschi e femmine sono diversi nel
corpo, nel carattere, nei gusti, nel modo di vestire, nel comportamento, nella scelta dei giochi, degli
sport e di come trascorrere il tempo libero. Per i figli il padre è più affidabile, le mamme invece a
volte non vogliono offendere e così facendo non mettono i figli di fronte alla realtà. Le mamme
hanno più confidenza con i figli e più tempo a disposizione rispetto i padri, ma sono percepite
come più deboli. I padri invece sono percepiti come più forti delle madri, simpatici, impegnati nel
lavoro, più coccoloni, viziano di più ma sono anche meno disponibili e sempre di fretta.

Bisogni e bisogni educativi

Partendo dalle argomentazioni delle comunità di ricerca dei figli, il bisogno è percepito in primo
luogo come “bisogno di sicurezza, appartenenza, conferme, verità”. I primi bisogni elencati
possono rientrare in quello che chiamiamo bisogno di intimità, cioè la risposta o un bisogno
affettivo. Ma l'ultimo dei bisogni elencato quello di verità ed altro genere; si tratta di un bisogno di
significato. Per i genitori, invece, i figli presentano bisogni fisiologici, psicologici, di identificarsi,
indotti, educativi e di verità; la distinzione in questi vari tipi di bisogni si traduce per i genitori in
bisogno di ascolto, comprensione, di ricevere attenzioni e risposte sul piano delle emozioni.

Verità e bisogno di verità

In alcune delle agende, sia dei genitori che dei bambini, la verità viene intesa nel senso più
comune del termine cioè come corrispondenza della realtà materiale e sensibile, contraria alla
bugia, a ciò che è falso. In altre sessioni viene colto il significato più astratto del termine, cioè con
riferimento a un contenuto ideale, da un punto di vista etico, religioso o storico. A partire dalle
riflessioni dei genitori si evince la consapevolezza del fatto che non solo i figli hanno bisogno di
verità, ma la cercano nei genitori o meglio hanno bisogno dei genitori per imparare a cercarla. Dai
genitori la verità viene definita come un concetto soggettivo e relativo. Ma se rimaniamo su questo
piano della definizione di verità allora nessuna verità può essere consegnata da un educatore a un
educando, neanche un genitore al proprio figlio, soprattutto se ciò si lega un'idea di verità come
esattezza, oggettiva solo se verificabile empiricamente e dimostrabile scientificamente.
Considerando le riflessioni che hanno sviluppato i figli sul concetto di verità, è emerso che i bimbi
più piccoli si concentrano sul tema della sincerità e della bugia, ovvero su "quando non si dice la
verità è perché". Per un bambino la bugia nasce quasi sempre dalla paura di affrontare le
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conseguenze delle proprie azioni: perché si ha paura di essere rimproverati, per non mettersi nei
guai. C'è però la consapevolezza che anche dire bugie può comportare conseguenze negative: se
le diciamo gli altri non ci possono aiutare, possiamo essere scoperti. I figli inoltre percepiscono
chiaramente una difficoltà dei genitori a dire loro la verità perché fortemente condizionati dalla loro

affettività: "i genitori non sempre dicono la verità per amore, per proteggere i figli, per non
offenderli...”.

Domandare/rispondere e insegnare/imparare

Focalizzandosi sul tema “Domandare e rispondere”, i genitori affermano che alle domande dei
bambini che nascono da una richiesta di relazione e dai loro dubbi, rispondono per rassicurare,
proteggere, tutelare, mediare, fino anche a mentire per proteggere i figli. Di contro, i figli
percepiscono e interpretano le risposte dei genitori come inattendibili, non adeguate al loro
bisogno di sapere, di conoscere la verità, di trovare risposte nei genitori.

Focalizzandosi sul tema “Insegnare e rispondere”, i figli pensano che hanno bisogno di imparare
essere autonomi e a condividere con gli altri, i genitori invece pensano che devono insegnare loro
figli essere responsabili a gestire le emozioni. Rimaniamo sempre dunque nel registro
emotivo/affettivo in cui il compito del genitore è quello di insegnare a gestire le emozioni, ma
soprattutto imparare a distinguere il momento di contatto con il figlio (la coccola) da quello in cui è
necessario un controllo (il capriccio).

Andare d’accordo/non andare d’accordo

Secondo i figli è normale litigare anche con le persone a cui vogliamo bene, ma è l'adulto che deve
dire e decidere e dare torto o ragione quando si presenta un conflitto all’interno della famiglia.
I genitori pensano, al contrario dei figli, di non dover svolgere un ruolo decisivo nel conflitto tra
fratelli ma stimolano i figli a trovare una soluzione in modo autonomo, anche se alcuni genitori
intuiscono che “riflettere insieme ai figli” allo scopo di rafforzare la loro alleanza, può rappresentare
un via di mezzo tra l'imparzialità e il ruolo di “giudici”.

Le regole

I genitori riflettono insieme sulle regole che hanno introdotto nell'educazione dei loro figli,
sottolineando che queste sono necessarie all'interno della famiglia ma devono essere condivise e
negoziate con i figli, devono essere spiegate ai figli e non essere troppo rigide. Per alcuni genitori è
faticoso far rispettare le regole, che rappresentano comunque un limite alla libertà.

Nei preadolescenti invece emerge un'intuizione di grande rilievo per un discorso sull'educazione: la
regola può essere veicolo di libertà, le regole ci possono liberare. Per i figli le regole sono
necessarie perché soprattutto per i bambini le regole proteggono dai pericoli, aiutano, servono a
essere guidati. Il rispetto delle regole per i figli assume anche un forte valore etico: rispettare le
regole significa rispettare i genitori ma anche gli altri.

Cose e persone

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Un altro tema ricorrente sia nei dialoghi dei genitori sia in quelli dei figli e la differenza tra “cose e
persone” e il significato “dell’esser persona”. I figli distinguono che la relazione con le cose è
unidirezionale, invece la relazione con le persone è bidirezionale; i genitori si concentrano più sul
pensiero dei figli, sottolineando

che i bambini danno un valore diverso alle cose rispetto agli adulti, cioè si identificano
maggiormente con le cose che restituiscono loro un senso di sicurezza. Per quanto riguarda cosa
significhi “l'esser persona”, i figli richiamano la distinzione con le cose: la persona è un essere
vivente, ciascuna persona è unica al mondo e bisogna averne cura.

Questa è un'intuizione carica di senso soprattutto se la pensiamo come fioritura umana: infatti
prendersi cura dell’altro significa aiutarlo a raggiungere la sua forma migliore, il suo sé più
autentico e pieno.

CAPITOLO 4

Per una fondazione pedagogica della responsabilità genitoriale

Facciamo quindi ingresso in una ricognizione dell'esperienza, propriamente fenomenologico-


ermeneutico. Dall'analisi fenomenologica delle direzioni e dei nuclei intenzionali, emerge in modo
preponderante una grande attenzione alla cura delle emozioni. I genitori descrivono i loro figli
come sensibili, bisognosi di particolare protezione. Hanno per lo più fatto riferimento al loro dover
dare ascolto, comprensione, in risposta alle emozioni dei figli. Inoltre la maggior parte dei genitori
in queste attività introduttive, a scelto che la regola più importante è una regola che potremmo
chiamare emotivo-espressiva: ciò che essi desiderano regoli il comportamento dei loro figli è la
sincerità, la possibilità di espressione di sé. La relazione familiare è intesa e vissuta innanzitutto
come finalizzata a rispondere principalmente a un bisogno affettivo di supporto e di
appartenenza.di fronte a questa prima evidenza possiamo fare subito due osservazioni:

- la prima riguarda l'educazione in famiglia che non può essere ridotta al luogo di performance, a
esercizio di funzioni;

- la seconda che richiama la criticità e disagi legati al culto delle emozioni.

Non solo i genitori, ma anche i figli fanno spesso riferimento alle funzioni emotive-affettive dei
legami familiari e sottolineano che la famiglia è il luogo in cui essere guidati, essere visti per ciò
che si è e come si è trovando in questo sguardo conferma del proprio valore personale. Al
contempo, è emerso un’altra intuizione: i figli esprimono anche un bisogno di altro genere,
descritto precisamente nei termini di un bisogno di verità. Sono però questi stessi figli che si dicono
scettici sulla capacità dei genitori di dire loro il vero, poiché i genitori appaiono ai loro occhi troppo
condizionati dall'affettività e dalla costante volontà di non generare in loro emozioni negative. Nella
prospettiva della pedagogia fondamentale di stile fenomenologico-ermeneutico è possibile vedere
che ciascuno di noi ha bisogno di essere visto o meglio di vedersi nello sguardo di stima di un
altro, cioè ha bisogno di essere riconosciuto e se ciò non accade si genera una ferita profonda.
Ciascuno di noi ha sempre contemporaneamente però anche il bisogno di riconoscimento in

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un'altra accezione, non più al passivo, ma all'attivo: ogni persona ha bisogno di riconoscere,
ovvero di comprendere di trovare un senso per l’esistenza.

Bisogni di riconoscimento e cura emotiva

Una considerazione attenta e globale della prima infanzia permette di vedere che i bisogni della
persona sono diversi, non omogenei per qualità e profondità e che non sono tutti immediatamente
percepibili, poiché è solo dopo aver risposta ai bisogni basilari che i bisogni fondamentali
dell'essere umano si mostrano.

Il bisogno di intimità e la responsabilità affettiva

Guardando innanzitutto un neonato, è evidente che molti sono i suoi bisogni. Ogni bambino che
nasce chiede innanzitutto, con la stessa insistenza e decisione con cui chiede il nutrimento fisico,
un altro nutrimento: chiede di essere riconosciuto nell'essere, chiamato per nome, sentirsi
prezioso. Possiamo denominare questo bisogno che il bambino manifesta per primo come bisogno
di intimità. Il bambino aspetta risposta a questa prima domanda di riconoscimento in un certo
senso “passivamente”, poiché non ha fatto nulla per meritarla eppure, proprio in quanto persona, la
attende e la merita in modo incondizionato e assoluto. Come scrive Ricoeur, per ogni persona
essere riconosciuti significa ricevere da un'altra persona la piena assicurazione della propria
identità. Esistere come persona significa in primo luogo riceversi, sin dalla nascita e poi lungo il
corso della vita, come un dono di riconoscimento, che è innanzitutto un dono d’amore. È evidente
che l'amore non è un'emozione o un istinto ma una scelta, un atto della volontà da rinnovare
costantemente. Già la disponibilità emotiva, che si manifesta nel piacere di stare con il proprio
bambino è un nutrimento importante: il bambino acquista una prima certezza del suo valore
quando sente che i genitori dedicano del tempo semplicemente a stargli vicino, quando avverte
che innanzitutto il suo corpo è accolto e amato. Così pian piano, gesto dopo gesto, parola dopo
parola, non solo i genitori imparano a leggere i bisogni del bambino e rispondervi, ma il bambino si
rispecchia in loro e si sintonizza con loro. Genitori e bambino iniziano a conoscersi e imparano a
riconoscersi reciprocamente. Condizione imprescindibile affinché si dia una buona crescita è
quella della differenziazione educativa. Infatti sin dal suo venire al mondo l'essere umano è
chiamato intraprendere un cammino di costante distinzione dagli altri e dalle cose del suo
ambiente: solo grazie a questo percorso non semplice, che comincia con la differenziazione dalla
figura materna, l'essere umano si avvia alla costruzione del proprio sé. Nessun lavoro di
riconoscimento e messa in relazione delle differenze è semplice: si tratta infatti di riconoscere e
valorizzare l'altro negli aspetti che non lo rendono riconducibile a me. Quindi ciò che nutre la
persona e la fa crescere è fare esperienza di relazioni affidabili e coerenti, ma anche flessibili e
riparabili, dove cioè, se qualcuno ha sbagliato, c'è lo spazio per rimediare. Così, passando
attraverso momenti di rottura e di riparazione, si impara a regolarsi e soprattutto ad accogliersi
reciprocamente, imparando l'uno dall’altro.

Il bisogno di dignità e la responsabilità morale

La considerazione sul bambino ci aiuta a vedere che non si può diventare persona e voler
intraprendere un cammino di personalizzazione dell'esistenza senza essere innanzitutto accolti in
una relazione di cura affettiva densa. Anche l'educazione delle abitudini è importante: le buone
routine educano soprattutto nei primi anni di vita. È chiaro che crescendo, il senso di certe routine
dovrà essere spiegato, argomentato e compreso. Per essere buoni genitori non basta ascoltare e
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accettare le emozioni dei loro figli. Mentre il genitore delle generazioni precedenti era per lo più
autoritario, oggi molti genitori sono permissivi e spesso il dare regole è qualcosa che
espressamente rifuggono, presentandosi come amici dei figli, cioè come loro pari. Vi è quindi
un'immagine distorta dell'amore genitoriale. Abbiamo osservato fin dall'inizio che è sempre più
diffusa una famiglia affettiva, troppo o esclusivamente affettiva, dove la cura dei figli è guidata da
quella che è stata chiamata un'etica dell'autorealizzazione, a spese di un’etica della
responsabilizzazione. È facile intuire che sono i genitori permissivi quelli incapaci di dire dei no e di
rimproverare in modo sereno, fermo e coerente il proprio figlio, per lo più fieri del loro lasciarlo
libero e convinti di farlo crescere autonomia; appaiono altresì incapaci di dare dei in modo
coerente e stabile. Nello stile permissivo c'è una regola che vale in modo assoluto: le emozioni
vanno sempre comunque espresse seguite. È la regola che abbiamo chiamato “espressiva”. In
generale, per alcuni genitori, risulta difficile e alla lunga insostenibile segnare differenze e limiti,
quindi stabilire regole e tenervi fede. Ma oggi molti bambini e ragazzi appaiono spesso senza
controllo e questa è la manifestazione più evidente di un problema più profondo che non riguarda
innanzitutto loro, ma loro educatori. Infatti, contrariamente a quello che spesso si crede, un
bambino senza regola risulta un bambino molto insicuro, quasi paralizzato. Non si educa
all’autonomia né con la rigida sorveglianza né, con il permissivismo. I primi studi sull’attaccamento
e in parti oltre i testi di Winnicott, non mancano di sottolineare che compito di chi si prende cura di
un bambino è non solo essergli vicino dal punto di vista affettivo ma anche mettere a sua
disposizione un codice morale. Hildebrand ha evidenziato che il valore morale è importante in sé e
importante per me, in quanto esperienza morale e luogo di una duplice attuazione: appunto
attuazione del valore morale, che ha bisogno di un soggetto che in prima persona lo realizzi e lo
faccia essere nel mondo, ma anche attuazione di quel soggetto che si realizza come persona. Ora
se la persona ha bisogno non solo di un nutrimento fisico e affettivo ma anche morale, compito
proprio dell'educatore è dare una consegna come un dono da far crescere, offrire un contenuto di
valore per la persona, cioè un ideale etico di umanità. Nel dare in consegna, l'educatore assume
una responsabilità etica facendo differenze di persone. Il dono di una medesima mappa di
significato, in un medesimo ideale di umanità, va rinnovato ogni volta per il bene di quel figlio, di
quella figlia: ogni nome proprio, in quanto unico, merita un dono specifico e unico. La consegna è
un dono personalizzato e personalizzante. Ogni genitore che voglia non trasmettere, ma
propriamente consegnare un valore deve apprestare le condizioni perché esso sia interiorizzato e
quindi innanzitutto scoperto da quella persona come risposta al suo desiderio di felicità. Il figlio
deve poter intuire e poi sempre meglio comprendere che quel valore può aiutarlo a trovare se
stesso in un progetto di vita possibile. Infatti, per una persona che fa questa scoperta assiologica,
nasce l’urgenza di un impegno che chiamiamo propriamente etico nel senso Husserliano e
ricoeuriano del termine: l'impegno di una scelta concreta che realizzi il valore come strada per
raggiungere il compimento di sé. Più cresce, più la persona mette a fuoco come l'impegno di far
vivere quel valore coincida con un'approssimazione continua dal suo personale compimento,
ovvero al proprio sé più vero. La pedagogia fondamentale descrive questo percorso di scoperta,
lettura e costruzione di sé come evento della persona.

Emozioni, affetti e sentimenti; l'antropologia fenomenologica per l'educazione


contemporanea

Dal percorso di indagine fin qui svolto è emerso come oggi sfondo dell'essere genitori sia spesso
un soggettivismo morale a cui si lega un emotivismo. Però, il bisogno educativo di riconoscimento
del bambino non può essere inteso come assolutizzante del bisogno di riconoscimento delle
emozioni, perché le emozioni stesse devono essere messe relazione con le altre dimensioni della
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vita personale fino ad arrivare alla profondità della vita spirituale, che è anche il luogo
dell'esperienza morale. Infatti, ogni persona è una totalità dove si integrano più dimensioni: il
corpo, la psiche e lo spirito. Queste tre dimensioni individuano diversi livelli possibili di profondità
dei vissuti della persona che non sono tra loro rigidamente separati: sono dimensioni di noi che
sempre interagiscono e si influenzano. Il primo cerchio quello più esterno è il corpo. Infatti,
ciascuno di noi, innanzitutto ha un corpo, ma più correttamente dovrebbe dirsi è corpo. Stando
all'antropologia fenomenologica, si coglie come il corpo sia la condizione di possibilità della nostra
esperienza. Tuttavia, ciò non deve far perdere di vista che il corpo è per ciascuno di noi, anche
soprattutto corpo vissuto, animato dall'interno, ed è corpo della persona. Infatti del corpo umano,
come di ogni corpo fisico, è evidente l'estensione nello spazio, quindi quelle caratteristiche che
fanno di noi qualcosa di considerabile anche come un oggetto tra gli altri; ma soprattutto il corpo
umano va considerato come il primo strato nella struttura della persona umana. In molti testi
fenomenologici troviamo descrizioni accurate dell'incontro interpersonale, come incontro
intercorporale: ciascuno di noi incontra l'altra persona, riconoscendola proprio come una persona e
non confondendola con una cosa o un animale, incontrandone innanzitutto il corpo e intuendolo
subito come corpo animato vivente simile al proprio. Secondo l'antropologia fenomenologica il
corpo animato vivente racchiude ed esprime una dimensione più interna non percepibile con gli
organi di senso, ma riconoscibile in una serie di comportamenti osservabili: la realtà psichica. La
fenomenologia rende attenti a considerare che ogni persona è capace, a differenza degli altri
viventi, anche di un'esistenza spirituale, in quanto possiede una dimensione interiore. Edit Stein ha
efficacemente chiamato la psiche anche anima e lo spirito anima dell'anima. Per Husserl e per i
suoi allievi è lo spirito che permette di mettersi alla ricerca della verità, di imparare a vedere il
fenomeno nella sua essenza e darvi senso. Ora, se educare è aiutare un'altra persona a diventare
davvero e pienamente persona e davvero e pienamente se stessa, l'educazione deve essere cura
della crescita di tutte le dimensioni della vita personale, ma soprattutto della sua crescita spirituale.
D'altra parte l'accesso al nucleo spirituale dell'altro avviene solo a patto di impegnarsi in una
relazione davvero interpersonale, dove l'altro non è ridotto a cosa quantificabile e anche io mi
metto in gioco con tutte le dimensioni del mio essere.

Come abbiamo visto, la contemporanea esaltazione delle emozioni è sganciata da ogni possibile
ricerca della verità, ed esse hanno solo un potenziale espressivo. Per la fenomenologia invece non
hanno solo un valore espressivo, ma propriamente intenzionale: mentre dicono qualcosa di noi,
dischiudono anche qualcosa del mondo; ci dicono qualcosa della realtà, qualcosa che spesso
senza di loro ci rimarrebbe nascosta. Stando all'antropologia fenomenologica le emozioni possono
approfondirsi ed entrare in relazione con le dimensioni più profonde di noi: le emozioni possono
portare luce alla nostra ragione lì dove essa non arriva. Va ribadito che da solo l'impero delle
emozioni è fragile, soprattutto è troppo fragile per affidargli il compito di dare felicità alla persona.
Quando incontriamo una persona questo suscita in noi certe emozioni; se un'emozione di segno
positivo nei confronti di questa persona tende a permanere in noi e si salda diventa affetto; un
affetto modifica in qualche modo la nostra esperienza di noi stessi e del mondo. Inoltre l’affetto può
approfondirsi diventando sentimento; ciò accade quando l'affetto, acquistando ulteriore tempo e
spazio nella nostra esistenza, giunge al nucleo di noi, al nostro spirito. Questo fonda l'affermazione
che l'amore non è un'emozione e richiede impegno.

Significati della libertà

Dall'analisi fenomenologica delle agende spesso emerge come il concentrarsi sulle regole, senza
interrogarsi sul loro senso, vada di pari passo con l'idea che esse siano limiti alla libertà. Nel

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paradigma moderno e post moderno, il fulcro della persona sta nella sua autonomia, nella sua
capacità di esprimere preferenze, scegliere e tracciare il proprio piano di vita, senza essere
ostacolato da altri. Se l’Io è l'individuo, l'essere umano è pensato sul modello del self-made-man,
l'uomo che si è fatto da solo, che non ha bisogno delle relazioni per essere se stesso e ,quindi, ai
rapporti con gli altri ricorre eventualmente dopo, se utile per raggiungere i suoi obiettivi: esito del
liberalismo e il contrattualismo. Quello del contratto è diventato un modello molto diffuso per
pensare alle relazioni, anche a quelle familiari: travolta tra i partner della coppia, ma anche tra
genitori e figli e tra le diverse generazioni il modello non è quello del dono ma quello del do ut des.
La libertà non è mai di uno solo ma è sempre anche degli altri e con gli altri. Dunque non c'è prima
la mia libertà, ne c'è solo la mia libertà. La libertà di ciascuno chiama sempre in causa la
responsabilità per gli altri e per le altre generazioni.con la This percezione della storia rischia di
venir meno la possibilità di consegnare un'eredità di senso. Per un soggetto che pretende di
essere fatto da sé che non vuole sentirsi in debito con nessuno e nessuno sempre di dover
ringraziare, questo fatto della nostra umanità non è facile da vedere accettare.

Riprendere il filo della storia e dell'autorità educativa

Ogni persona è un erede. Hanna Arendt in una raccolta di saggi intitolata “Tra passato e futuro: la
nostra eredità non è preceduta da alcun testamento”, spiega che il testamento è ciò che lega i beni
del passato a un momento futuro. Pertanto, quando manca il testamento non c'è più né passato né
futuro. Raggiungiamo qui la profondità di senso della dispercezione della storia. È a questo livello
di profondità che può esser colta la denuncia atrendtiana della perdita di memoria: si tratta di un
problema politico e pedagogico da considerare non guardando gli eredi ma, ma chi avrebbe
dovuto lasciare in eredità, in consegna. Nella raccolta arendtiana ci sono alcuni saggi che
interpellano in tal senso la riflessione pedagogica. Uno è dedicato alla crisi dell’autorità. “Autorità”
è una parola che oggi pare quasi un tabù, perché spesso confusa con autoritarismo violento.
Tuttavia l'autorità a differenza del potere non si radica nella forza o nella violenza. Oggi in un
tempo in cui oscilliamo tra l’autoritarismo, che è l'abuso di autorità, e lo sbandamento, che è
perdita di ogni riferimento, facciamo fatica a vedere che l'autorità è ciò che ci aiuta a leggere la
realtà donando un ordine simbolico, cioè portatore di senso. Investiti di autorità erano gli anziani o i
Patres, che avevano ricevuto l'autorità stessa dagli antenati che perciò erano detti maiores. Nelle
sue analisi Arend osserva che più volte il legame con il passato, quello che la chiama “il filo della
tradizione”, che legava tra loro le generazioni, si è fatto sempre più sottile con il progredire dell'età
moderna, fino a spezzarsi. In tal senso l'autrice riconosce nel suo tempo una crisi dell'educazione
come crisi della tradizione e, appunto, dell'autorità. Infatti oggi la storia rimane in attesa di ricevere
compiutezza da una mente che eredita e mette in discussione. Queste parole sono
particolarmente importanti per la nostra riflessione in quanto ci aiutano a chiarire che parlare di
autorità educativa non significa parlare di un immobile rimanere ancorati al passato e negare la
libertà personale: si tratta semmai di fondarla. Parlare di autorità e di consegna educativa significa
lasciare un'eredità all'erede, chiedendo di rinnovarla. Dinanzi al dono di una eredità di senso, si
tratta per la persona di accogliere, riconoscere ma anche di intraprendere un cammino di
personalizzazione dell'esistenza che lo condurrà verso una autentica appropriazione; premessa
necessaria dell'appropriazione è la distanziazione: solo mettendo le cose a distanza, come in una
forma di epoché, è possibile per quel soggetto appropriarsi interiormente o definitivamente
distaccarsi dalle proprie appartenenze e così cominciare quel cammino verso il compimento di sé
che è l'educazione. Comprendersi eredi significa quindi assumere il compito etico di mettere in
discussione cioè personalizzare le eredità ricevuta, con consapevolezza e libertà che però non
sono da ritenersi talenti spontanei, ma frutto di un'adeguata educazione.

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Sull'oggettività in educazione

C'è ancora un altro aspetto della riflessione di Arendt sull'autorità che va sottolineato nella
prospettiva dell'educazione dei genitori. Arendt scrive che la auctoritas maiorum corrispondeva al
fatto di incarnare autorevoli modelli del comportamento etico-politico. Ciò significa che l'educatore
deve essere il modello e testimone, inoltre è responsabilità dell'educatore cercare di apprestare
tutte le condizioni affinché l'educando impari a guardare altrove. Solo se il padre la madre riescono
non solo a dire a parole, ma far vedere quell'ideale che consegnano, allora insieme scoprono di
essere definiti da un orizzonte comune di senso che supera entrambi. Così chi educa e chi viene
educato, riconoscerà che la loro relazione è radicata nel riferimento di questo bene condiviso. Il
genitore educatore per essere davvero tale deve avere una sorgente di senso da cui è irrorato e
grazie alla quale poi irrorare gli altri. Dal canto suo l'educando così irrigato, deve impegnarsi per
portare frutto. Tutto ciò significa anche l'educatore non è un se-duttore, proprio perché non intende
condurre a sé, ma altrove, più lontano. Quindi il genitore non può coltivare un atteggiamento
egocentrico, non può mettersi al centro, ma nemmeno solo allocentrico, mettendo al centro solo la
persona del figlio: deve essere piuttosto ontocentrico, teso a mettere al centro una realtà di bene.

Il fatto che sia essenziale il ruolo della testimonianza e che non bastino o spesso e non siano
necessarie le parole, non ci deve far perdere di vista il valore della buona argomentazione, il valore
del dialogo. Nella vita di famiglia le regole vanno spiegate e argomentate per almeno due ragioni:
per una ragione di efficacia pratica, ovvero se ne vuole coltivare la speranza che le regole
condivise vengano seguite anche in assenza di sorveglianza e senza la minaccia/promessa di
premi e punizioni; per una più profonda ragione di natura etica, ovvero per il rispetto dovuto al
bisogno di dignità dei figli. Ciò significa che nella pratica educativa bisogna impegnarsi a rendere
chiaro, anche a parole, che nel perdono ciò che viene perdonato non è lo sbaglio, ma chi ha
sbagliato: l'errore rimane oggettivamente un errore e merita quindi il nostro fermo dissenso.

La fatica della reciprocità: note sul dialogo tra il maschile e il femminile al cuore
della responsabilità genitoriale

Il nostro tempo è il tempo della evaporazione o addirittura della morte dei padri. Se consideriamo
che la variabile del contratto effettivo è corrispondente al codice materno, mentre quella del
controllo e dell'introduzione della norma etica al codice paterno, sarebbe quindi il padre secondo la
psicanalisi il grande assente del nostro tempo. La funzione paterna si specifica come incarnazione
della legge, essendo il padre la testimonianza vivente che non si può avere tutto, non si può fare
tutto: compito specifico del padre è allora insegnare il limite, quindi consegnare il senso di quelle
regole, rispettare le quali permette un sano e costruttivo ingresso nel mondo. Se è un fatto
ricorrente che al primo appello del bambino, che è una richiesta di contatto e vicinanza affettiva,
risponde innanzitutto e per lo più la madre, ella lo fa instaurando con il figlio o con la figlia, proprio
come donna un peculiare rapporto intercorporale, che è sin dall'inizio e sarà sempre diverso da
quello del padre. Levinas afferma che al primo bisogno di riconoscimento del bambino risponde
l’eccomi della madre. Ma qual è il significato di quell’eccomi? Significa ecco me, quella persona
che io e nessun altro sono. D'altra parte si può anche dire che al bisogno etico di riconoscimento
risponde innanzitutto l’eccomi del padre, che con la presenza della sua persona rende possibile
l'ingresso del bambino nel mondo. È responsabilità paterna quella del dono di un'eredità di
significato, cioè propriamente di valori. Il padre fa un lavoro simbolico: con la nascita e la crescita
di un figlio riscrive giorno dopo giorno la sua identità, sempre i sigme alla madre. Molti sono i
genitori che non restano insieme, molti di più quelli che restano insieme ma facendo i genitori l'uno
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contro l’altro. Senza riconoscimento reciproco tra i genitori, non ci sarà il riconoscimento del valore
della genitorialità da padre dei figli. Un bambino viene sempre danneggiato se manca una alleanza
educativa. La responsabilità paterna e quella materna si richiamano a vicenda quasi come se i due
eccomi non potessero che risuonare l'uno e il timbro dell’altro.

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