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▪ Il termine «educazione» in italiano, inglese, francese presenta un’ambiguità semantica: esso rappresenta sia
il processo che il risultato del processo stesso (io vengo educato – io sono una persona educata). In Germania
questo non avviene: esistono infatti i due termini differenti bildung (indica l’esito del processo avvenuto) e
erziehung (l’educazione intesa in senso dinamico, il processo stesso). La radice del processo educativo,
tuttavia, è sempre la stessa: l’educazione mira sempre alla perfezione umana ideale (da qui l’idea che l’uomo
deve «crescere» per raggiungere tale perfezione).
Etimologia: dal latino ex-ducere (estrarre) o dal latino educatio (far crescere, allevare).
Circa la prima etimologia (ex-ducere), sussiste l’idea che l’educazione sia un processo in cui si sviluppano
potenzialità già presenti dentro l’educando e che vengono aiutate ad essere estratte; in realtà c’è anche
un’altra opzione: Radim Palous interpreta «l’estrarre» come «estratte l’educando fuori dalla quotidianità, da
una esistenza legata all’empirismo»: l’educazione, in questo caso, sarebbe illuminazione, conferimento di
senso (al pari del Mito della caverna di Platone).
Per la Moscato è tutto molto più semplice: e-duco contiene infatti al suo interno un senso «ostetrico» poiché,
anche nel mondo animale, significa «far uscire dall’uovo» (infatti anche Cicerone, Terenzio, Tacito e
Varrone lo usano in accezione di «allevare, far crescere»): da qui il significato odierno di «condurre,
guidare».
▪ Il termine «pedagogia» ha origine greca: l’equivalente greco di educatio è paideia, la cui radice è pais
(fanciullo). I latini non acquisirono il termine paideia ma utilizzarono il termine paedagogium (il luogo dove
si educano i figli). I termini «pedagogo» (colui che accompagna il fanciullo) e «pedagogia» riapparvero solo
in epoca rinascimentale; solo alla fine dell’Ottocento, tuttavia, si affermò saldamente la parola «pedagogia»
come «arte di insegnare ai fanciulli» (sia dal punto di vista pratico che teorico).
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► Da qui una prima osservazione: la riflessione pedagogica sembra accompagnare le trasformazioni
sociali.
Tuttavia la riflessione pedagogica in senso stretto viene spesso a trovarsi in condizione di subalternità
rispetto alla sede di riflessione (filosofica o scientifica) in cui vengono definiti gli obiettivi ai quali la
pedagogia deve riferirsi. In questo senso, per esempio, Spadafora parla di «identità negativa del sapere
pedagogico», nel senso di una impossibilità da parte della pedagogia di fondare un’identità autonoma rispetto
alla scienza, alla filosofia o alla politica.
► Una seconda riflessione che merita di essere accolta è che la riflessione pedagogica trova origine nella
sfera religiosa.
Oggi il pensiero positivista tende a separare queste due sfere, rendendo però incomprensibile una larghissima
parte della riflessione pedagogica. Infatti le religioni universali hanno prodotto testi sacri che sono fonti
dirette e molto ricche di riflessioni pedagogiche e di teorizzazioni educative più o meno esplicite,
successivamente confluite nella tradizione pedagogica occidentale (si pensi all’Induismo, all’Ebraismo, al
Buddismo o al Cristianesimo).
È stato più volte affermato che le origini del pensiero pedagogico occidentale debbano collocarsi nell’Atene
del V-IV a.C. Secondo questa prospettiva la riflessione sorgerebbe nel corso di un processo di
«laicizzazione» della cultura greca. Se non ci sono dubbi circa il fatto che Platone sia stato il primo
pensatore che ci ha lasciato una teoria pedagogica di tipo utopistico normativo, la tradizionale attribuzione ai
Sofisti della paternità della pedagogia scientifica va invece precisata: la loro pedagogia si limitava in realtà
ad un complesso di strategie e tecniche didattiche, senza soffermarsi su una vera e propria riflessione del
«fatto educativo». Ad ogni modo le tesi sofistiche sull’educazione ebbero un grande successo, tanto da
influenzare ogni campo del sapere greco, come ad esempio il teatro tragico. In Grecia, pertanto, si sviluppò
una corrente che si domandava non tanto se l’uomo fosse educabile ma ci si chiese fino a che punto l’uomo
potesse essere trasformato per mano dell’educazione. Così, per la prima volta, si sviluppò la percezione della
possibilità di un’educazione (individuale e collettiva) come «progetto» utopico-politico.
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Fu infatti con il positivismo che nacque l’esigenza di misurare i processi educativi con un approccio
descrittivo: si dovevano misurare tali processi basandosi su dati precisi, concreti, nella presunzione di
approdare ad una verità «scientifica ed oggettiva»; per la prima volta emerse nella riflessione pedagogica la
necessità di considerare l’educazione come «accadimento», come fenomeno sociale la cui dinamica doveva
essere regolata sicuramente da leggi specifiche.
L’approccio fenomenologico-trascendentale
M. T. Moscato sottolinea che anziché considerare la tripartizione pedagogica citata da Benner e Scurati,
converrebbe concentrarsi innanzitutto su una duplice articolazione: il momento del «teorizzare» ed il
momento del «fare». Questo perché il termine «pedagogia» denomina indifferentemente sia un sapere
descrittivo (teoria) che un sapere normativo (pratica). È fuori ombra di dubbio che una teoria (filosofia)
rimanderà sempre ad una pratica (scienza) e, viceversa, che una pratica avrà sempre un riferimento
filosofico-teorico: bisogna però capire, secondo l’autrice, di quale scienza e di quale filosofia stiamo
parlando.
Bisogna innanzitutto ammettere, come detto dalla Moscato ad inizio paragrafo, la possibilità (o la non
possibilità) di identificare nella pedagogia un sapere descrittivo-interpretativo da distinguere dalla pratica
vera e propria: solo in questo caso il sapere pedagogico potrebbe essere considerato come dotato di effettiva
autonomia filosofica e scientifica.
Ammetterlo significherebbe, per Gino Corallo, riconoscere per la pedagogia un quadro unitario di
riferimento teorico che potrebbe agevolmente essere diviso in «teoria» e «pratica».
Anche Bertin ammette, nel suo approccio fenomenologico-trascendentale, la necessaria distinzione tra
filosofia del’educazione e pedagogia, in modo da poter distinguere tra l’esigenza di «comprendere»
l’esperienza educativa dell’uomo e l’esigenza «pragmatica» di mettere in pratica le riflessioni. Per Bertin la
qualità filosofica (quella che lui chiama «trascendentale») della pedagogia è fondamentale e trova spessore e
spazio attraverso i due processi di riflessione e elaborazione teorica.
- Riflessione: implica la presa di coscienza dell’universalità dei possibili modelli attraverso cui è stata
organizzata la vita educativa. Ciò permette di assumere una posizione antidogmatica, aperta alle
varie posizioni, senza semplificarle o mutilarle arbitrariamente;
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- Elaborazione teorica: costituisce la pedagogia vera e propria, che esprime la pratica e, di
conseguenza, il rischio esistenziale che il soggetto dovrà correre nei diversi momenti della sua storia
nel progettare l’educazione.
Anche Colicchi sottolinea l’importanza della storia per quanto riguarda l’elaborazione teorica pedagogica: in
ogni momento storico ci sono pedagogie diverse. Proprio per questo, si deve fare attenzione al fatto che
anche la storicizzazione presuppone l’uso di categorie soggettive.
Come fare quindi? La Moscato suggerisce di:
1. Assumere come ipotesi di partenza l’idea che esiste un fenomeno, diffuso e ricorrente
nell’esperienza umana, comunemente definito «educazione»;
2. Riconoscere che quindi esiste attorno a tale idea un’unità di senso che attraversa tutta la storia
umana;
3. Di conseguenza, si deve comprendere che nelle varie epoche si è data un’interpretazione di tale
«educazione»;
4. Bisogna tuttavia riconoscere che ogni punto di vista storico determina l’angolatura con la quale si
guarda all’educazione, senza la quale la realtà dell’oggetto di studio resterebbe piatta,
bidimensionale;
5. I punti di vista, comunque, non sono tutti uguali (rischieremmo il relativismo): bisogna riconoscere
che è migliore la prospettiva che permette di avere una più profonda visione della realtà educativa
(profonda non significa «più ampia»).
In questa piccola introduzione l’autrice racconta la sua biografia, spinta da una premessa importante anche la
pedagogia: ognuno di noi cerca ciò che in realtà ha già trovato, o almeno intuito, e seleziona gli elementi
empirici che giustificano la teoria di cui si è già convinto. In altre parole, in virtù della sua collocazione
storica, della sua personale educazione, delle sue esperienze adulte, della sua sensibilità culturale ed
affettiva, ognuno di noi presenta una forte connotazione soggettiva (è quella che Anitiseri definisce «una
lavagna piena di segni»). Uno studioso, quindi, non dovrebbe solo chiarire le proprie premesse teorico-
metodologiche, ma anche gli orientamenti personali, i vissuti e le esperienze che potrebbero aver determinato
selettivamente i suoi interessi di ricerca. Da questa consapevolezza critica, ne deriva a rigor di logica che il
primo oggetto di indagine di qualsiasi studioso dovrebbe essere la propria biografia.
2) Le premesse metafisico-gnoseologiche1
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GNOSEOLOGICO: conoscitivo.
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La costanza oggettuale
Anche Romano Guardini entra nel vivo del discorso, indicando che «gli oggetti di studio sono le idee, le
norme ed i valori che hanno validità in sé stessi, non perché abbiano per me una qualche importanza. Gli
oggetti sono realtà concrete; cose, avvenimenti, relazioni, tutto ciò che esiste ed accade, così come in sé è e
diviene. Tutto ciò deve essere visto nella sua propria peculiarità, nella sua teleologia 2, che possiede in se
stessa il proprio centro e fa sì che l’oggetto non esista per amor mio ma in sé e per sé».
A partire da questo presupposto, per Corallo gli oggetti sono quindi, metafisicamente parlando, esistenze
gravide di significato.
L’approccio che ma Moscato propone, pur avendo un costante riferimento empirico, non è di stampo
empirico-positivista; inoltre, pur tenendo conto dei riferimenti storici, non è neppure di tipo empirico-storico.
Questa posizione nasce da un dato di fatto: è innegabile che tutte le prospettive scientifiche che hanno
cercato di applicare al campo dell’educazione i metodi quantitativi e rigorosamente empirici, hanno
contribuito a dare una parziale e riduttiva definizione del fenomeno educativo. L’approccio descrittivo in
chiave fenomenologica consente invece di assumere l’esperienza educativa dell’essere umano come «dato
originario». Tale dato, tuttavia, diventa possibile solo in relazione ad una interpretazione: è l’osservatore,
infatti, che categorizza il fenomeno in termini educativi, che costituisce progressivamente il concetto di
educazione. Come dice Cassirer: «Il concetto non è tanto il prodotto, quanto la condizione preliminare».
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TELEOLOGIA: concezione filosofica secondo la quale l’universo intero è organizzato in vista di un fine.
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cui richiede di essere almeno percepito [per una migliore comprensione di tale aspetto si legga la storiella
“Ognuno vede gli elefanti a modo suo” presente a pag. 73 del testo].
Il problema non è l’inevitabile soggettività della percezione, che è data per scontata, ma l’impossibilità del
confronto di essa in un dialogo che escluda la violenza della discussione e il «gettarsi le cose in faccia»:
infatti, il fatto che gli esseri umani non si limitano mai ad osservare e descrivere la realtà, ma che in una certa
misura la interpretano in base a parametri soggettivi è ravvisabile fin dalla prima infanzia.