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M.T. MOSCATO, Il viaggio come metafora pedagogica.

Introduzione alla pedagogia interculturale, La


Scuola, Brescia 1994.

Capitolo primo – il quadro teorico di riferimento

1) I termini «educazione» e «pedagogia»

▪ Il termine «educazione» in italiano, inglese, francese presenta un’ambiguità semantica: esso rappresenta sia
il processo che il risultato del processo stesso (io vengo educato – io sono una persona educata). In Germania
questo non avviene: esistono infatti i due termini differenti bildung (indica l’esito del processo avvenuto) e
erziehung (l’educazione intesa in senso dinamico, il processo stesso). La radice del processo educativo,
tuttavia, è sempre la stessa: l’educazione mira sempre alla perfezione umana ideale (da qui l’idea che l’uomo
deve «crescere» per raggiungere tale perfezione).

Etimologia: dal latino ex-ducere (estrarre) o dal latino educatio (far crescere, allevare).
Circa la prima etimologia (ex-ducere), sussiste l’idea che l’educazione sia un processo in cui si sviluppano
potenzialità già presenti dentro l’educando e che vengono aiutate ad essere estratte; in realtà c’è anche
un’altra opzione: Radim Palous interpreta «l’estrarre» come «estratte l’educando fuori dalla quotidianità, da
una esistenza legata all’empirismo»: l’educazione, in questo caso, sarebbe illuminazione, conferimento di
senso (al pari del Mito della caverna di Platone).
Per la Moscato è tutto molto più semplice: e-duco contiene infatti al suo interno un senso «ostetrico» poiché,
anche nel mondo animale, significa «far uscire dall’uovo» (infatti anche Cicerone, Terenzio, Tacito e
Varrone lo usano in accezione di «allevare, far crescere»): da qui il significato odierno di «condurre,
guidare».

▪ Il termine «pedagogia» ha origine greca: l’equivalente greco di educatio è paideia, la cui radice è pais
(fanciullo). I latini non acquisirono il termine paideia ma utilizzarono il termine paedagogium (il luogo dove
si educano i figli). I termini «pedagogo» (colui che accompagna il fanciullo) e «pedagogia» riapparvero solo
in epoca rinascimentale; solo alla fine dell’Ottocento, tuttavia, si affermò saldamente la parola «pedagogia»
come «arte di insegnare ai fanciulli» (sia dal punto di vista pratico che teorico).

2) Il costituirsi di un sapere pedagogico

La pedagogia normativa: tradizione religiosa e pensiero laico


Esistono nel mondo diverse posizioni pedagogiche: si può parlare di pedagogia cristiana, marxista,
romantica, positivista, libertaria ecc. Si tratta comunque di posizioni in cui la riflessione pedagogica assume
una posizione subalterna sul piano teorico: essa si trova influenzata da premesse metafisiche o conoscenze
scientifiche che stanno alla base della stessa riflessione; oppure, esse sono considerate «ancillari», ossia
finalizzate a scopi definiti con parametri non pedagogici: la pedagogia, in questo senso, progetterebbe un
modello educativo funzionale o necessario alla salvezza religiosa o per la riprogettazione etico-politica.
Nella tradizione occidentale, perciò, la parola «educazione» cominciò presto a designare un progetto
intenzionale, una meta o un’aspirazione utopica, focalizzando l’attenzione verso il carattere progettuale e
normativo che permettevano il raggiungimento di tale progetto. Flores d’Arcais sottolinea che «tutta la
storia è caratterizzata da un più o meno esplicito contrasto fra i teorici dell’educazione e gli educatori di
professione; si fa chiara la distinzione fra l’educazione come fatto, evento, prassi vissuta nell’esperienza
personale e sociale (la pratica), e la pedagogia come riflessione, consapevolezza e valutazione di quella
prassi (la teoria)». In altre parole, si registra una tensione dialettica tra i processi educativi realizzati e le
riflessioni critiche che sembrano rifiorire nei momenti di crisi sociali e politiche.

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► Da qui una prima osservazione: la riflessione pedagogica sembra accompagnare le trasformazioni
sociali.
Tuttavia la riflessione pedagogica in senso stretto viene spesso a trovarsi in condizione di subalternità
rispetto alla sede di riflessione (filosofica o scientifica) in cui vengono definiti gli obiettivi ai quali la
pedagogia deve riferirsi. In questo senso, per esempio, Spadafora parla di «identità negativa del sapere
pedagogico», nel senso di una impossibilità da parte della pedagogia di fondare un’identità autonoma rispetto
alla scienza, alla filosofia o alla politica.
► Una seconda riflessione che merita di essere accolta è che la riflessione pedagogica trova origine nella
sfera religiosa.
Oggi il pensiero positivista tende a separare queste due sfere, rendendo però incomprensibile una larghissima
parte della riflessione pedagogica. Infatti le religioni universali hanno prodotto testi sacri che sono fonti
dirette e molto ricche di riflessioni pedagogiche e di teorizzazioni educative più o meno esplicite,
successivamente confluite nella tradizione pedagogica occidentale (si pensi all’Induismo, all’Ebraismo, al
Buddismo o al Cristianesimo).
È stato più volte affermato che le origini del pensiero pedagogico occidentale debbano collocarsi nell’Atene
del V-IV a.C. Secondo questa prospettiva la riflessione sorgerebbe nel corso di un processo di
«laicizzazione» della cultura greca. Se non ci sono dubbi circa il fatto che Platone sia stato il primo
pensatore che ci ha lasciato una teoria pedagogica di tipo utopistico normativo, la tradizionale attribuzione ai
Sofisti della paternità della pedagogia scientifica va invece precisata: la loro pedagogia si limitava in realtà
ad un complesso di strategie e tecniche didattiche, senza soffermarsi su una vera e propria riflessione del
«fatto educativo». Ad ogni modo le tesi sofistiche sull’educazione ebbero un grande successo, tanto da
influenzare ogni campo del sapere greco, come ad esempio il teatro tragico. In Grecia, pertanto, si sviluppò
una corrente che si domandava non tanto se l’uomo fosse educabile ma ci si chiese fino a che punto l’uomo
potesse essere trasformato per mano dell’educazione. Così, per la prima volta, si sviluppò la percezione della
possibilità di un’educazione (individuale e collettiva) come «progetto» utopico-politico.

A questo punto conviene indicare (e superare) due posizioni pregiudiziali:


Posizione 1: Parlare di processi di «laicizzazione» e di «secolarizzazione» della cultura non può significare
banalmente che la filosofia e la scienza sostituiscono progressivamente le convinzioni religiose.
Semplicemente, la visione religiosa perde l’egemonia culturale della società: ciò significhi che il pensiero
non religioso si affianca a quello religioso della visione del mondo.
Posizione 2: Bisogna tenere presente che il «sapere» pedagogico non può avere avuto inizio solo con la
speculazione di Platone o con le tesi dei Sofisti. La letteratura greca è infatti pena di indizi pedagogici che,
semplicemente, non sono stati sempre correttamente letti o considerati: la letteratura greca possedeva già una
nozione complessa di educazione assai prima di Platone o dei Sofisti (per esempio si pensi alle figure della
«crescita» presenti in Eschilo, Sofocle ed Euripide o nei poemi omerici, come al Centauro o alla Nutrice).

Dalla pedagogia alle scienze dell’educazione


Dietrich Benner riconosce la presenza contemporanea di tre grandi tipologie di riflessione pedagogica:
- Le teorie dell’educazione, che cercano di spiegare e definire il processo educativo; la parola
«educazione» in questo caso indica il processo umano che accompagna la crescita dell’immaturo;
- Le teorie della formazione, che definiscono i compiti e le mete del processo educativo (sono quindi
teorie legate alla pratica); la parola «educazione» indica piuttosto l’esito del processo educativo;
- Le teorie della pedagogia che riflettono sulle condizioni di possibilità di un sapere pedagogico.
Questa triplice articolazione è evidenziata anche da Scurati che rintraccia tre grandi «punti di annodamento
teorico»: filosofia dell’educazione, pedagogia generale e metodologia educativa.
Da questa prospettiva, quindi, la pedagogia resterebbe ancorata a presupposti «filosofici», mentre le scienze
dell’educazione assumerebbero un carattere empirico-positivo delle scienze.

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Fu infatti con il positivismo che nacque l’esigenza di misurare i processi educativi con un approccio
descrittivo: si dovevano misurare tali processi basandosi su dati precisi, concreti, nella presunzione di
approdare ad una verità «scientifica ed oggettiva»; per la prima volta emerse nella riflessione pedagogica la
necessità di considerare l’educazione come «accadimento», come fenomeno sociale la cui dinamica doveva
essere regolata sicuramente da leggi specifiche.

I limiti del «paradigma delle scienze dell’educazione»


Oggi è difficile legittimare un modello teorico come quello formulato alla fine del secolo scorso e chiamato
«evoluzionismo sociale»: non è infatti possibile sostenere che i nostri modelli concettuali e la nostra prassi
educativa siano per forza «migliori» di quelli degli uomini antichi.
Il problema in realtà è da leggersi sotto un altro punto di vista: è infatti dimostrabile che culture definite
«arcaiche» presentano metodi educativi ormai oggi consolidati, nonostante non abbiano alle spalle
speculazioni o teorizzazioni di sorta. Al contrario, esistono oggi delle teorizzazioni pedagogiche complesse e
scientificamente mature che, però, presentano metodi educativi grossolani e superficiali rispetto a quanto
teorizzato: la pedagogia non si fonda quindi esclusivamente sulle conquiste teoriche precedentemente
ottenute (intese come superamento delle teorie precedenti).
Per quanto riguarda la genesi e lo sviluppo di un sapere pedagogico, è bene ricordare che è solo in presenza
di conflitti interni od esterni che l’uomo comincia ad interrogarsi a fondo sull’efficacia dei propri sistemi
educativi, ed è allora che nascono domande chiave sul «senso» dell’educazione.
► Bisogna pertanto raggiungere un’importante osservazione: la riflessione pedagogica non presenta
parallelismi con lo sviluppo tecnico-scientifico in senso stretto, per il quale alcuni sviluppi sono l’inevitabile
conseguenza delle scoperte precedenti: questo spiega anche perché tutti i tentativi contemporanei di
agganciare la pedagogia alle scienze empiriche per trovare una sua fondazione rigorosa, siano generalmente
falliti.

L’approccio fenomenologico-trascendentale
M. T. Moscato sottolinea che anziché considerare la tripartizione pedagogica citata da Benner e Scurati,
converrebbe concentrarsi innanzitutto su una duplice articolazione: il momento del «teorizzare» ed il
momento del «fare». Questo perché il termine «pedagogia» denomina indifferentemente sia un sapere
descrittivo (teoria) che un sapere normativo (pratica). È fuori ombra di dubbio che una teoria (filosofia)
rimanderà sempre ad una pratica (scienza) e, viceversa, che una pratica avrà sempre un riferimento
filosofico-teorico: bisogna però capire, secondo l’autrice, di quale scienza e di quale filosofia stiamo
parlando.
Bisogna innanzitutto ammettere, come detto dalla Moscato ad inizio paragrafo, la possibilità (o la non
possibilità) di identificare nella pedagogia un sapere descrittivo-interpretativo da distinguere dalla pratica
vera e propria: solo in questo caso il sapere pedagogico potrebbe essere considerato come dotato di effettiva
autonomia filosofica e scientifica.
Ammetterlo significherebbe, per Gino Corallo, riconoscere per la pedagogia un quadro unitario di
riferimento teorico che potrebbe agevolmente essere diviso in «teoria» e «pratica».
Anche Bertin ammette, nel suo approccio fenomenologico-trascendentale, la necessaria distinzione tra
filosofia del’educazione e pedagogia, in modo da poter distinguere tra l’esigenza di «comprendere»
l’esperienza educativa dell’uomo e l’esigenza «pragmatica» di mettere in pratica le riflessioni. Per Bertin la
qualità filosofica (quella che lui chiama «trascendentale») della pedagogia è fondamentale e trova spessore e
spazio attraverso i due processi di riflessione e elaborazione teorica.
- Riflessione: implica la presa di coscienza dell’universalità dei possibili modelli attraverso cui è stata
organizzata la vita educativa. Ciò permette di assumere una posizione antidogmatica, aperta alle
varie posizioni, senza semplificarle o mutilarle arbitrariamente;

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- Elaborazione teorica: costituisce la pedagogia vera e propria, che esprime la pratica e, di
conseguenza, il rischio esistenziale che il soggetto dovrà correre nei diversi momenti della sua storia
nel progettare l’educazione.
Anche Colicchi sottolinea l’importanza della storia per quanto riguarda l’elaborazione teorica pedagogica: in
ogni momento storico ci sono pedagogie diverse. Proprio per questo, si deve fare attenzione al fatto che
anche la storicizzazione presuppone l’uso di categorie soggettive.
Come fare quindi? La Moscato suggerisce di:
1. Assumere come ipotesi di partenza l’idea che esiste un fenomeno, diffuso e ricorrente
nell’esperienza umana, comunemente definito «educazione»;
2. Riconoscere che quindi esiste attorno a tale idea un’unità di senso che attraversa tutta la storia
umana;
3. Di conseguenza, si deve comprendere che nelle varie epoche si è data un’interpretazione di tale
«educazione»;
4. Bisogna tuttavia riconoscere che ogni punto di vista storico determina l’angolatura con la quale si
guarda all’educazione, senza la quale la realtà dell’oggetto di studio resterebbe piatta,
bidimensionale;
5. I punti di vista, comunque, non sono tutti uguali (rischieremmo il relativismo): bisogna riconoscere
che è migliore la prospettiva che permette di avere una più profonda visione della realtà educativa
(profonda non significa «più ampia»).

Capitolo secondo – le regioni del soggetto

1) La biografia: una «lavagna piena di segni»

In questa piccola introduzione l’autrice racconta la sua biografia, spinta da una premessa importante anche la
pedagogia: ognuno di noi cerca ciò che in realtà ha già trovato, o almeno intuito, e seleziona gli elementi
empirici che giustificano la teoria di cui si è già convinto. In altre parole, in virtù della sua collocazione
storica, della sua personale educazione, delle sue esperienze adulte, della sua sensibilità culturale ed
affettiva, ognuno di noi presenta una forte connotazione soggettiva (è quella che Anitiseri definisce «una
lavagna piena di segni»). Uno studioso, quindi, non dovrebbe solo chiarire le proprie premesse teorico-
metodologiche, ma anche gli orientamenti personali, i vissuti e le esperienze che potrebbero aver determinato
selettivamente i suoi interessi di ricerca. Da questa consapevolezza critica, ne deriva a rigor di logica che il
primo oggetto di indagine di qualsiasi studioso dovrebbe essere la propria biografia.

2) Le premesse metafisico-gnoseologiche1

Dal realismo alla fenomenologia


La conoscenza umana non è immediata ma è «mediata», cioè rappresentata nella coscienza. Il problema
gnoseologico, quindi, è di grande interesse, soprattutto per uno dei maestri della Moscato, ossia Corallo. Per
quest’ultimo è importante definire innanzitutto il rapporto che sussiste tra il pensiero e la realtà, facendo
attenzione però a non cadere nelle morse del soggettivismo o dell’oggettivismo estremi. Egli disse nel 1966
che «il primo servizio da rendere alla verità è quello di farla esistere». E siccome la verità esiste solo nella
mente, si vede subito come lo studio del reale e la conquista conoscitiva del mondo siano una vera e propria
produzione di verità.

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GNOSEOLOGICO: conoscitivo.
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La costanza oggettuale
Anche Romano Guardini entra nel vivo del discorso, indicando che «gli oggetti di studio sono le idee, le
norme ed i valori che hanno validità in sé stessi, non perché abbiano per me una qualche importanza. Gli
oggetti sono realtà concrete; cose, avvenimenti, relazioni, tutto ciò che esiste ed accade, così come in sé è e
diviene. Tutto ciò deve essere visto nella sua propria peculiarità, nella sua teleologia 2, che possiede in se
stessa il proprio centro e fa sì che l’oggetto non esista per amor mio ma in sé e per sé».
A partire da questo presupposto, per Corallo gli oggetti sono quindi, metafisicamente parlando, esistenze
gravide di significato.

Il pensiero come mediatore «interessato»


Nella sua produzione culturale continua, l’essere umano inventa sempre forme e rituali, attribuisce significati
e valori alle norme ed alle consuetudini, ma lo fa sempre alla luce di quei significati globali della realtà che
egli ha scoperto fino a quel punto del suo cammino: non c’è quindi mai un processo lineare, neutro e
distaccato; la natura umana è il «farsi» di una relazione stretta a profondamente interessata tra il soggetto e
l’oggetto. In tale processo, gli uomini possono ragionevolmente sperare che il loro cammino approdi a verità
sempre più adeguate e sempre più giuste.
Gli uomini sperano perché consapevoli che la permanenza oggettiva del Reale è soltanto meditato dal mio
pensiero e non è prodotto dal mio pensiero (ciò permette il superamento di quello che la psicologia definisce
egocentrismo o narcisismo, e che in filosofia si definisce con il termine di «idealismo metafisico»).
In questo senso, è facilmente comprensibile come la verità risulti sempre la conseguenza di un profondo
«interesse» e l’oggetto si manifesta nella misura in cui è già investito di un senso e quindi di un valore da
parte di “quel” soggetto interessato.
Perciò per Corallo il primo compito etico della vita umana è riconoscere (o inventare) i significati delle cose,
e contemporaneamente indagare il proprio significato personale. In questo risiede l’originalità della creatura
umana: nell’essere un’esistenza progressivamente resa consapevole del suo proprio significato (una
dinamica che potremmo definire autotrascendimento).
Proiettando tutto questo discorso sull’educazione, possiamo dire che essa mira sempre a rendere l’uomo
«umano», ma l’interpretazione culturale di tale «umanità» differisce ampiamente quanto alle forme storiche,
ai contenuti etici, alle abilità intellettuali e sociali che vengono di fatto perseguiti o idealmente progettati nei
processi educativi concreti.

3) l’approccio al problema dell’educazione nell’interculturalità

L’approccio che ma Moscato propone, pur avendo un costante riferimento empirico, non è di stampo
empirico-positivista; inoltre, pur tenendo conto dei riferimenti storici, non è neppure di tipo empirico-storico.
Questa posizione nasce da un dato di fatto: è innegabile che tutte le prospettive scientifiche che hanno
cercato di applicare al campo dell’educazione i metodi quantitativi e rigorosamente empirici, hanno
contribuito a dare una parziale e riduttiva definizione del fenomeno educativo. L’approccio descrittivo in
chiave fenomenologica consente invece di assumere l’esperienza educativa dell’essere umano come «dato
originario». Tale dato, tuttavia, diventa possibile solo in relazione ad una interpretazione: è l’osservatore,
infatti, che categorizza il fenomeno in termini educativi, che costituisce progressivamente il concetto di
educazione. Come dice Cassirer: «Il concetto non è tanto il prodotto, quanto la condizione preliminare».

La soggettività interpretativa della percezione


La prima cosa che si potrebbe obiettare della posizione sopra descritta è che essa non risolve il problema del
soggettivismo e che, anzi, lo rinforza. In ogni caso, non è possibile negare in toto la soggettività: infatti
l’oggetto di studio (ogni oggetto di studio) provoca sempre l’interpretazione del soggetto già nel momento in

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TELEOLOGIA: concezione filosofica secondo la quale l’universo intero è organizzato in vista di un fine.
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cui richiede di essere almeno percepito [per una migliore comprensione di tale aspetto si legga la storiella
“Ognuno vede gli elefanti a modo suo” presente a pag. 73 del testo].
Il problema non è l’inevitabile soggettività della percezione, che è data per scontata, ma l’impossibilità del
confronto di essa in un dialogo che escluda la violenza della discussione e il «gettarsi le cose in faccia»:
infatti, il fatto che gli esseri umani non si limitano mai ad osservare e descrivere la realtà, ma che in una certa
misura la interpretano in base a parametri soggettivi è ravvisabile fin dalla prima infanzia.

Approccio fenomenologico ed intercultura


Le pre-categorizzazioni che governano la nostra esperienza non rispondono però ad una soggettività
esistenziale ed emotiva, quanto piuttosto al dettato di un più ampio orizzonte culturale: qualsiasi cultura, in
quanto creazione umana, assolve una fondamentale funzione di mediazione e interpretazione della realtà
empirica; essa costituisce sempre una rete concettuale, per mezzo della quale si costruisce una particolare
visione del mondo. In quest’ottica, quindi, ogni cultura è «orizzonte di senso» e un «punto di osservazione»,
inevitabilmente parziale e conseguentemente soggettivo.
Il processo educativo, tuttavia, sembra realizzarsi solo nell’inconsapevolezza di questa inevitabile
soggettività: in esso l’immaturo aderisce progressivamente ad un unico «oggetto» (l’educazione) forniti dalla
sua sociocultura d’origine e quando il contesto esterno non gli permette di comprendere l’orizzonte di senso
sul quale orientarsi, il soggetto opera nuove sintesi unificanti sul piano individuale. È il caso, quest’ultimo,
dei migranti di seconda generazione, per esempio, che attuano una sintesi tra la cultura ospitante e quella
d’origine.

Verità e dialogo nell’incontro fra le culture


L’interpretazione può essere anche superamento, revisione, demistificazione e perciò la crescita personale
dettata da tale azione può causare anche dolore, separazione. L’incontro fra le culture accelera sempre i
processi di crescita personale, i superamenti dell’originario orizzonte di senso in cui gli uomini vivono. Ciò
accade perché, nella misura in cui ogni orizzonte culturale si propone come «alternativo» ad un altro, esso
disvela i limiti e le ricchezze di ogni visione del mondo. Tale relativizzazione, tuttavia, non impedisce di
riconoscere pari dignità delle culture: ogni uomo realizza infatti la sua moralità nell’orizzonte di riferimento
che gli è proprio. a conseguenza di ciò, è naturale quindi sottolineare che nessun prodotto della cultura
umana può essere sottratto a priori ad un giudizio critico.
Il tutto, detto in altri termini: è inevitabile che il «dialogo» fra le culture abbia una funzione «destabilizzante»
nelle società umane; in questo senso, l’interculturalismo si contrappone all’etnocentrismo, a tutti i
dogmatismi ed alle connesse forme di autoritarismo.
Questa forza «destabilizzante» può avere due tipologie di esito:
1. L’incontro-scontro tra le culture può generare disorientamento etico, incertezze, smarrimenti
esistenziali (ciò accade generalmente ai migranti di seconda generazione);
2. Negli adulti migranti, invece, la coscienza morale si fa più acuta, la libertà etica e la responsabilità
assumono contorni più netti, l’autonomia rispetto al contesto sociale è maggiore.
Ciò accade perché chi attraversa personalmente un’esperienza di multi-cultura acquisisce una nuova positiva
consapevolezza etica: l’umile riconoscimento dei limiti di ciascun sistema di significati diventa possibile e
psicologicamente sostenibile solo dentro una rinnovata tensione verso un consenso sempre più ampio. In
questo senso profondo il «dialogo» interculturale tende alla Verità e la Verità «si fa nel dialogo».

Ricapitolando, il nucleo del capitolo è il seguente:


è importante comprendere che un itinerario di ricerca deve inevitabilmente prendere le mosse da un punto di
partenza e tale punto è dato da quella particolare intersezione spazio-temporale (antropologicamente e
storicamente connotata) in cui si dispiega l’esistenza personale del ricercatore e la comunità sociale nella
quale egli vive. Si deve quindi partire necessariamente dalla consapevolezza che «siamo tutti in cammino» e
tale posizione è un buon punto di partenza solo a condizione che ci si munisca di una almeno provvisoria
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ipotesi circa la direzione del cammino, altrimenti – diversamente – si naviga nel deserto con il rischio di
perdersi (l’esempio perfetto è quello dei Magi, che camminarono senza sapere dove andavano ma in forza di
un’ipotesi, ad essi aperta dalla cometa, che almeno ci fosse un luogo da raggiungere).

Capitolo terzo – le costanti nella rappresentazione dell’educazione

1) la lettura delle costanti educative in alcuni autori

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