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Michele Corsi - L’educazione come relazione educativa

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633).

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Indice

1. L’EPISTEMOLOGIA PEDAGOGICA ......................................................................................................... 3


2. COS’È LA PEDAGOGIA E COSA STUDIA ............................................................................................... 5
3. DALLA PEDAGOGIA ALL’EDUCAZIONE ............................................................................................... 11

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1. L’epistemologia pedagogica

Chi è aduso all’epistemologia pedagogica: e, dunque, a quella “parte” della pedagogia –

meglio: della pedagogia generale –, che “studia i fondamenti, o i “fondamentali” (al pari delle

tabelline per l’aritmetica), dei saperi pedagogici (teorie e “storia”), sa bene che questo suo

inevitabile oscillare tra Scilla e Cariddi (con un’immagine già utilizzata, ma che ne rappresenta

bene lo “sforzo” necessario per “salvarsi” e dunque per “esistere” pienamente): fra “singolare e

plurale” (“in pedagogia” e “sulla pedagogia”, come “in educazione” e sull’ “educazione”), è una

delle maggiori dannazioni della riflessione e dell’agire pedagogici ed educativi.

Che non è però un viaggio “senza vantaggi”. O uno zigzagare, nomade e inquieto, tra due

prospettive inconciliabili.

Rappresentandosi ormai la pedagogia, nella sua interezza, come il “punto di vista” o

l’opportuna “cabina di regia”, teorica e pratica, e metateorica a monte (la meta-teoria è la

riflessione sulla teoria e, per questa via, sulle teorie che compongono la pedagogia nella sua

totalità, e quindi, “sulla pedagogia”) “che è stata capace di unificare progressivamente, dandone

anche le avvedute ragioni, il singolare con il plurale, i suoi tanti saperi “interni” (dalle psicologie alle

sociologie, dalle scienze bio-mediche alle filosofie ecc.) con le scienze di “con-testo” (la storia in

generale come la storia della pedagogia, nella fattispecie; le tante filosofie dell’educazione come

le molteplici ideologie, le teorie di cosiddetto primo livello come la “teoria dei sistemi” e la “teoria

delle catastrofi” ecc.), e così via.

Avendo imparato, in primis, a saper coniugare i “nomi comuni” dell’educatore e

dell’educando, un tempo esclusivi o prevalenti nella traditio pedagogica (Rousseau, ad esempio,

quando scrive l’Emilio, nel XVIIII° secolo, assume Emilio a prototipo, o “rappresentante”

generalizzato o generalistico, di tutte le persone in crescita: dalla nascita all’approdo all’età

adulta), con i “nomi propri”, vivi, concreti, e “non astratti”, delle tante donne e dei tanti uomini

(non di meno: bambini, fanciulli, adolescenti, giovani) di ogni età, appartenenza sociale, latitudini

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e longitudini ecc., che non solo incarnano da sempre l’educazione, ma che sono stati pure

indagati, nel corso del Novecento, “per classi di rapporti educativi”.

Così da addivenire a quella costruzione di teorie pedagogiche “in grado di fornire

spiegazione di un numero abbastanza elevato di fatti” educativi.

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2. Cos’è la pedagogia e cosa studia

Da qui, una prima definizione della pedagogia:

“La pedagogia ha per oggetto i fatti educativi.

I fatti educativi sono, per definizione ed essenza, non oggetti ma eventi.

La pedagogia è una scienza normativa e ha un riferimento empirico.

La pedagogia contiene un nucleo forte costituito dalla strettissima relazione tra normatività

ed empiria.

Il riferimento della norma all’empiria, in altre parole all’esperienza e al vissuto

dell’educazione, è più forte di quanto non sia in qualsiasi altra scienza umana, in quanto le norme

pedagogiche sono ispirate, da sempre, al carattere progettuale del processo educativo” 1.

E avendo saputo nondimeno tessere, per tutte queste “vie”, legami sempre più stretti,

anche se in permanente e fisiologico divenire:

• fra la metateoria (formale, di “sistema pedagogico”, unitaria) e le metateorie

“subordinate” (talora, di “contenuto” – ad esempio, le metateorie, diverse fra loro, della

pedagogia delle famiglie, della pedagogia speciale, della didattica generale ecc.);

• fra la teoria pedagogica (quale teoresi generale di procedimento) e le differenti teorie che

si sono successivamente prodotte (globalmente, così come per i differenti ambiti e settori);

• fra la pratica educativa, quale orizzonte di senso e di significato per la pedagogia

medesima, e le pressoché infinite pratiche educative, che storicamente si realizzano.

Da qui la precisazione della prima connotazione della pedagogia contemporanea: “la

pedagogia come scienza” (si vedano al riguardo pure le slides specifiche di riferimento):

• la pedagogia è una scienza perché:

1 M. CORSI, Come pensare l’educazione. Verso una pedagogia come scienza, La Scuola, Brescia 1997, p. 99.

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1. ha un proprio oggetto di studio che è l’educazione (e che si “traduce”, poi, nei pressoché

infiniti rapporti educativi che storicamente si sono dati, si danno e si daranno) e che non è

l’oggetto di studio di nessuna altra disciplina;

2. e ha propri modelli e proprie teorie con cui la “studia” e li “studia”.

Ugualmente, fra le costellazioni (o i raggruppamenti) degli “eventi” educativi, che

concernono questo composito cristallo teorico disciplinare (poliedrico, sistemico e sistematico)

“che è la pedagogia”, e i casi concreti, o le “cose”, dell’educazione.

In particolare, tra la pedagogia quale scienza dell’educazione e le varie e molteplici

scienze dell’educazione, con cui essa s’interfaccia.

E, tra le molte scienze dell’educazione, ne ricordiamo, qui, due a mo’ di esempio: la

psicologia dell’educazione e la sociologia dell’educazione.

Un rapporto, tra la prima (la pedagogia quale scienza dell’educazione) e le seconde (le

differenti scienze dell’educazione), che De Giacinto stabilì “a valle”, sul versante dell’“oggetto di

studio” (che non è, poi, “unicamente” di studio, ma nondimeno di “intervento” e di

“cambiamento” delle persone e delle situazioni educative in cui le prime crescono e si impegnano

o vengono “impegnate”), operando la distinzione tra “educazione” e “relazione educativa” 2.

Ecco, per questa via, l’ulteriore precisazione della seconda connotazione della pedagogia

contemporanea: “la pedagogia come scienza pratica” (si vedano anche, al riguardo, le slides

specifiche di riferimento):

• la pedagogia è una scienza pratica perché ha l’ambizione non solo di indagare al meglio

(“diagnosi”) i tanti possibili rapporti educativi cui si applica, ma anche di modificarli

(“prognosi” e “terapia”) conducendoli a condizioni “positive” o, con altro linguaggio, di

“successo”.

Una “praticità, questa, della pedagogia che si realizza attraverso il ricorso, o l’utilizzo, del

triplice strumentario prima indicato (al pari della medicina e dei medici): diagnosi, prognosi

(talvolta infausta alla “prima lettura”, ma auspicabilmente “fausta” nel corso dell’intervento

2 Cfr. S. DE GIACINTO, Educazione come sistema. Studio per una formalizzazione della teoria pedagogica, La Scuola,
Brescia 1977.

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pedagogico-educativo) e terapia. Con riferimento, quest’ultima, ai “vari” e diversi “interventi

educativi” da porre in essere e realizzare.

Mentre Dewey (a differenza di De Giacinto) lo aveva, per come dire, risolto “a monte”,

definendo gli altri saperi, utili all’interpretazione pedagogica e alla possibile conduzione educativa,

quali “fonti” della scienza dell’educazione3.

Questa stessa pedagogia che va intesa, attualmente, come un’interrelazione, un

“intreccio” colto e raffinato, di diverse discipline pedagogiche che coabitano al suo interno; ma

che va, altresì, concepita come un “rapporto forte” tra la pedagogia, riguardata come un tutto

strutturale unico, e le altre scienze.

“In altre parole, la pedagogia è unica […], anche se si articola in differenti discipline; ma la

pedagogia è pure il rapporto egemonico che la nostra scienza intrattiene con tutte le scienze

umane, nessuna esclusa: dalla psicologia alla sociologia, dall’antropologia culturale alla

psicoanalisi, dalla storia delle religioni alla storia delle idee. Declinare questo rapporto equivale

[non di meno] a porre in evidenza la dimensione pedagogica delle scienze umane”4.

Non dimentichi nemmeno che, se la teoria pedagogica prevede di essere utilizzata a fronte

dell’evento educativo, è anche vero, tuttavia, che l’evento educativo nasce sovente all’interno

della stessa proposta teorica formulata.

Motivo per cui:

“Se oggetto proprio della pedagogia è il rapporto educativo, la sua individuazione

comporta una fatica costante, giacché si tratta di un oggetto che continuamente annega in

specificazioni e in parcellizzazioni […]: il perfezionamento dell’uomo, l’idea della sua moralità, i

condizionamenti psichici del soggetto, le interferenze socio-culturali che scandiscono l’esperienza

dell’educando ecc. Ora, l’educazione non si risolve nella mera somma di questi o altri aspetti, che

pure sono importanti e ineludibili. Nella sua dimensione progettuale, la pedagogia si ripropone

continuamente e insistentemente alla stregua di uno sguardo attento al rapporto tra due individui.

In questa continua riproposizione, la pedagogia avanza le sue condizioni e le sue norme, che

3 Cfr. J. DEWEY, Le fonti di una scienza dell’educazione, trad. it., La Nuova Italia, Firenze 1967.
4 M. CORSI, Come pensare l’educazione, op. cit., p. 100.

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interagiscono, modificandole, con le condizioni storico-empiriche, al cui interno si muovono i due

attori del processo educativo.

Sotto questo punto di vista, la pedagogia è anche la concezione del mondo di un

soggetto studioso in azione, il quale aspira a mettere a punto una costruzione fatta di enunciati

ordinati in un sistema concettuale valido per entrambi i soggetti. Di qui, il carattere ‘tentativo’ della

pedagogia, la quale aspira a migliorare i futuri e possibili rapporti educativi” 5.

Superato, pertanto, l’aspro dibattito che aveva contrassegnato non pochi decenni, nel

secolo appena trascorso, tra una pedagogia come scienza e una pedagogia quale filosofia,

magari pure applicata, implicita o sommersa, e ricreatasi la dovuta sinergia con l’imprescindibile

filosofia dell’educazione, sottesa o sovrastante, il nostro “sapere ricomprende ormai – anche dal

mio punto di vista –, attraverso mediazioni intrinseche di alto valore speculativo, [pure] le filosofie,

rifiutate fino al termine degli anni Sessanta, salvo quella di Dewey e delle teoresi cattoliche, per

timore di ricadute in forme di neoidealismo”6 – come sostiene autorevolmente anche Egle Becchi,

a “commento” degli ultimi 50 anni della pedagogia italiana.

E che esige, parimenti oggi, pure l’intersezione, “alta” e continua, della contemporaneità

“profetica” dei suoi prodotti e processi di ricerca con l’ineliminabile tradizione storica; al pari della

concettualizzazione, non meno raffinata che indispensabile, delle sue elaborazioni teoriche con

l’inevitabile apertura all’esperienza, nella differenza, tutt’altro che banale, tra quest’ultima e la

sperimentazione, e nella direzione, piuttosto, di una ricerca sostenuta, laddove utile, anche da

avvertite e puntuali convalide empiriche.

Ugualmente, se l’educazione è un “sistema” di molteplici aspetti che giustificano, per un

verso, la psicologia dell’educazione come la sociologia dell’educazione, le antropologie

educative di riferimento come le molte ricerche, un tempo di matrice biologica, e attualmente di

neuroscienze ecc. – che produssero, in passato, il fraintendimento epistemologico di una

pedagogia di volta in volta ridotta al rango di psicologia applicata (Piaget), di sociologia

5Ibidem, p. 101.
6E. BECCHI, Commento I. A ritroso di cinquant’anni, in A. MARIANI (a cura di), 25 saggi di pedagogia, FrancoAngeli, Milano
2011, p. 352.

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applicata (Durkheim e Mannheim) o di filosofia applicata (in Italia, con Gentile e Lombardo

Radice) –, allo stesso modo, la pedagogia è un “sistema”.

Ma con quella specificità per cui sostengo che “la pedagogia è la scienza che decodifica

tutte le notizie desunte dalle altre scienze, trasformandole, da notizie, in informazioni e in progetti”,

e accettando, conseguentemente e responsabilmente, “il suo destino di essere equivoca quanto

al suo lessico, dal momento che l’unico contenuto di cui può disporre con assoluta sicurezza è non

già il sapere che cosa sia l’uomo, ma il chiedersi costantemente che cosa l’uomo voglia essere” 7.

E non limitandosi soltanto a chiederselo. Ma “aiutandolo”, pure, a diventare quanto

vorrebbe essere.

Da qui, la definizione della terza connotazione della pedagogia contemporanea: “la

pedagogia come scienza umana” (si vedano sempre, al riguardo, le slides specifiche di

riferimento):

• la pedagogia è una scienza umana perché “studia” (analizza e“modifica”) un rapporto

educativo che “avviene” tra persone.

Sicché il pedagogista, conclusivamente, non è interessato alle altre discipline, ma

unicamente ai loro risultati, in vista della sua “conoscenza per l’azione”, e nella configurazione, non

di meno raggiunta, di una pedagogia intesa essenzialmente quale “teoria per la pratica”.

Infine, l’enunciazione della quarta connotazione della pedagogia contemporanea: “la

pedagogia come scienza autonoma” (con riferimento costante alle slides in proposito):

• la pedagogia è una scienza autonoma perché “autonomamente, liberamente e

responsabilmente”, a seconda degli eventi educativi che “studia”, o delle classi di rapporti

educativi cui “si applica”, sceglie, e seleziona, a quali discipline rivolgersi, fra le tante, per la

diagnosi, la prognosi e la terapia dello specifico campo di indagine “del momento”.

7 M. CORSI, Come pensare l’educazione, op. cit., p. 150.

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La pedagogia:

“mira – infatti – alla costruzione delle teorie, così come mira alla costruzione di una teoria

che giustifichi la produzione delle teorie pedagogiche, proprio perché deve costantemente

inseguire il continuo movimento degli oggetti cui si appresta a dare giustificazione teorica.

In conclusione, la pedagogia è una scienza autonoma dotata di un rango egemonico nei

confronti delle altre scienze umane.

È una scienza pratica, non già per l’impossibilità di acquietarsi nel dominio della teoria, ma

proprio per la sua capacità di formulare e mettere a punto costantemente nuove teorie” 8.

Da questo punto di vista, la pedagogia è anche la “metateoria”, storicamente declinata,

di tutte le possibili teorie pedagogiche, passate, presenti e future.

E, in quanto metateoria, può definirsi pure come:

“quel teorema di rappresentazioni che prefigura l’estrema plasticità e modificabilità degli

insiemi di enunciati di volta in volta messi a punto. Il suo contenuto di verità è minimo, ma

l’aspirazione a pervenirvi è massima. La metateoria va – cioè – in cerca della maggiore

congruenza possibile: essa trasforma il pedagogista in un pescatore che modifica e rammenda

continuamente le reti in cui raccogliere la molteplicità degli eventi educativi”9.

8 Ibidem, p. 108.
9 Ibidem

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3. Dalla pedagogia all’educazione

Da qui, le ulteriori osservazioni procedurali di contenuto e di prospettiva etica (e filosofica).

La pedagogia muove dalla persona, ma non si risolve in essa.

Per misurarsi essenzialmente con le persone.

Il che giustifica, una volta di più, il passaggio da un’interpretazione filosofica della

pedagogia a una sua legittimazione scientifica.

Tra tutte le scienze, infatti, la pedagogia è la sola che:

“abbia piena consapevolezza della natura autentica dell’uomo […], se non altro perché,

essendo suo campo specifico l’educazione, è la sola in grado di percepire i singoli individui come

attori di condotte mirate a un fine consaputo. Semmai la difficoltà o l’antinomia della scienza

pedagogica è un’altra: la nostra scienza prende le mosse dal riconoscimento del singolo individuo

umano quale persona, ma, nel contempo, mira a far sì che il singolo individuo umano sia persona.

Come dire che in essa oggetto e fine s’identificano. Quest’antinomia è la dannazione della

scienza pedagogica, ma, per un certo aspetto, è nel contempo la sua gloria e il suo vanto.

Nell’aspirare a creare gli strumenti perché i rapporti educativi pongano concretamente in essere la

persona, la teoria pedagogica è, forse, la sola che si sottrae all’illusione che l’umanità [si] sia già

realizzata. La sottrazione a quest’illusione le conferisce, altresì, una grande libertà e autonomia.

Sempre che il pedagogista ne sia costantemente avvertito, gli è consentito esplorare i continenti

del sapere scientifico, raccogliendo e riportando notizie [come segnalato in precedenza] senza

andare incontro agli incidenti del suo viaggio conoscitivo” 10.

Del resto, come sono solito scrivere da più di due decenni: nemmeno la società è un

avvenimento concluso, per essere, piuttosto, un “progetto” tuttora in divenire.

Con un continuo aggravio, pertanto, dell’impegno pedagogico, e per questa via anche

educativo, costretti, entrambi, a fare la spola permanentemente tra un uomo (e una donna)

10 Ibidem, pp. 167-168.

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vocati, per loro intrinseca essenza, a diventare persone, e un sistema sociale parimenti tenuto a

trasformare i “lupi” hobbesiani in “soci”.

Non di meno, se la persona non è semplicemente un’entità, ma un groviglio di fini, a

maggior titolo gli uomini e le donne sono la mediazione storicamente incarnata e l’accadimento

pressoché infinito del perenne intersecarsi di mezzi e di fini, di opportunità offerte e riconosciute e di

catastrofi benefiche o improvvide.

Da qui, i “modelli”, con cui la pedagogia “lavora”, non possono essere “meccanici”,

utilizzati prevalentemente per i “sistemi non viventi” come le “macchine” ad esempio, ma

unicamente, e squisitamente, “organici” perché, come uno “stampo duttile”, devono interpretare,

e “adattarsi”, a “situazioni viventi” quali sono indiscutibilmente i rapporti educativi.

L’educazione, allora, è, in buona sostanza, cambiamento11. E la pedagogia “governa” il

previsto e l’imprevisto che l’attraversano e la caratterizzano.

Da qui, ancora, il compito della pedagogia (che è sempre provvisoria al pari di ogni altra

scienza, ma non per questo incerta o ambigua) è di accompagnare e precedere il cambiamento

medesimo, così come di non limitarsi soltanto a descriverlo, ma pure a orientarlo, se non addirittura

a prescriverlo, o a tentare di farlo, magari inutilmente, come “voce che urla nel deserto”, in questa

società liquida12, o aerea13, dalle molte emergenze educative.

Una conoscenza e un’azione, dunque, in sistema tra loro.

Non di meno, l’autonomia, la libertà e la responsabilità, che sono i tre macro fini dell’agire e

dell’intenzionalità educativi14 (cui ho dedicato tanti dei miei studi, dal 1980) sono, al tempo stesso,

le coordinate essenziali della teorizzazione pedagogica, che è libera e responsabile, anche nella

sua autonomia, nel momento in cui riconnette il “testo” pedagogico formale, o i molteplici testi

pedagogici di “contenuto”, nel procedimento, tanto graduale quanto interconnesso, dei tre livelli

11 Cfr. M. CORSI, Governare il cambiamento. Le risorse della scuola italiana, Vita e Pensiero, Milano 1993.
12 Cfr. Z. BAUMAN, Paura liquida, trad. it., Laterza, Roma-Bari 2008.
13 Cfr. M. CORSI-M. STRAMAGLIA, Dentro la famiglia. Pedagogia delle relazioni educative familiari, Armando, Roma 2009.
14 Cfr. M. CORSI, Il coraggio di educare, op. cit.

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di ricerca: applicata, contenutistica e pura 15, con tutti i possibili “con-testi” scientifici, umani e

sociali.

Una considerazione, quest’ultima, che apre, almeno, ad altre tre osservazioni.

La prima è quella che concerne la precisazione del cosiddetto schema concettuale di

riferimento. Di solito, infatti:

“si tende a pensare che l’osservazione empirica o, per meglio dire, la descrizione dei fatti

sia un semplice censimento delle evidenze osservazionali e che, pertanto, si risolva in una pura e

semplice riproduzione della realtà esterna. In realtà, le cose non stanno così, giacché, a guidare

l’osservazione empirica, è quello che Talcott Parsons chiama orientamento selettivo, come dire

che si osservano soltanto le cose che pregiudizialmente si vogliono osservare”16.

Parimenti (ed è il secondo rilievo), nelle scienze umane (e, nel nostro caso, in pedagogia)

compare immancabilmente un elemento valutativo di cui lo scienziato in questione non può non

tener conto (un “passaggio”, questo, ampiamente dibattuto nelle “Premesse”), per il fatto che i

contenuti di queste discipline “sono per così dire value laden, vale a dire pregni di valore”17.

Né è trascurabile che lo studioso delle scienze sociali corra, tra l’altro, il rischio

d’immedesimarsi con l’oggetto del suo studio.

Si tratta di una circostanza di cui, peraltro, va sottolineata la positività.

L’abilità di entrare in empatia con gli esseri umani può avere, infatti, una grande fruibilità

euristica. “L’empatia, in altre parole, può aiutarlo ad aumentare il numero delle ipotesi adatte a

studiare il processo. D’altronde, l’identificazione empatica è essa stessa conoscenza”.

Motivo per cui lo scienziato umano e sociale, e, nel caso di specie, il pedagogista, sono

sempre “osservatori partecipi” 18 di ciò che indagano e promuovono.

15 Cfr. S. DE GIACINTO, Un modello di T. Parsons applicato alla pedagogia, “Pedagogia e Vita”, XXX (1968), 5, pp. 509-519.
16 M. CORSI, Come pensare l’educazione, op. cit., p. 67.
17 Ibidem, p. 83.
18 Cfr. M. CORSI, Il ruolo dello psicologo nel consultorio familiare, op. cit., pp. 75-101. “Empatia” e impossibile “neutralità

valutativa” che sono stati altri due temi da me costantemente analizzati in quarant’anni di ricerche.

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Da qui, definitivamente, l’assunzione di un diverso punto di vista, che è quello

rappresentato dall’“oggettività relazionale”, e l’esigenza del “controllo di qualità” della teoria,

nelle scienze umane, come in pedagogia.

E, ugualmente, dei modelli diagnostici e prognostici, interpretativi e predittivi, di

quest’ultima.

Che sono, però – si intende sottolinearlo ancora una volta –, sempre organici.

E che è la terza “dannazione” della nostra disciplina, proprio perché “storici”, non

riproducibili, né tali da essere sottoposti a verifiche o a indagini di laboratorio, se non, addirittura, a

“experimenta crucis”.

Lo scavo epistemologico è pressoché terminato.

Con il messaggio “finale” che lo “sguardo” del pedagogista, disciplinarmente “attento”

all’educazione, non può non trascorrere, e debitamente soffermarsi, su quanti “abitano

l’educazione”: tutti, nessuno escluso.

E, per questa via, di nuovo alla storia, come alle persone e ai loro linguaggi.

Perché, se la pedagogia perdesse di vista la storia e la “concretezza” dell’educazione,

perderebbe il suo stesso diritto all’esistenza.

Infatti, mentre è la persona a costituire, fuor di dubbio, il primum ontologico

dell’educazione19, sono proprio le persone, in relazione educativa tra loro, e poste in determinati

ambienti, a giustificare la pedagogia.

Da qui, la definizione “statica”, o formale, del rapporto educativo come struttura

tridimensionale di incontro, sempre e comunque, tra almeno un educatore, almeno un educando

in un ambiente caratterizzato da uno spazio specifico e da un tempo altrettanto specifico.

La specificità o, meglio, l’evidente molteplicità dei tanti possibili spazi (casa, scuola,

università, “muretto”, “affetti” ecc.) e dei tempi (1800 piuttosto che 1900 o il 2018) fanno sì che, dal

punto di vista “dinamico”, poi, i rapporti educativi – si ripete – non possano che essere pressoché

infinti.

19 Cfr. M. STRAMAGLIA, I nuovi padri. Per una pedagogia della tenerezza, EUM, Macerata 2009.

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Ma che la “perdita”, la messa tra parentesi o l’esclusione, di una di queste tre dimensioni:

l’educatore, l’educando o l’ambiente, finirebbe col distruggere l’“oggetto” della pedagogia –

che diventerebbe, parzialmente, il campo di analisi di altre discipline (dalla psicologia alla

sociologia ecc.). Con la conseguente eclisse della pedagogia, venendo meno il suo stesso

oggetto che la sostanzia, e le dà “vita” e rilievo.

L’educazione come “nome collettivo e generale” si articola, infine, in varie sue dimensioni

“applicative” riconoscibili: nell’informazione come nella formazione (ma mai nella “con-

formazione”), aprendosi pure all’istruzione, all’insegnamento ecc.

Essa richiede dunque, obbligatoriamente, la “capacità” di essere e farsi “prossimo” all’altro

(quella prossimità in precedenza riguardata quale empatia), così come la competenza di sé e

dell’altro, per sé e per l’altro (di cui alle successive, molteplici e necessarie “competenze”).

Prima, o essenzialmente, nell’educatore, ma, nondimeno, nell’educando.

Riguardati, entrambi, tanto singolarmente che pluralmente, sia come “funzioni”, ma anche

quali “ruoli”, storicamente incarnati.

Quella stessa educazione che pretende intuito e saggezza: e che diventano, per questa

via, la sapienza del cuore e la prudenza della mente.

E che, nell’ultima stagione della sua vita, personale e scientifica, De Giacinto declinò sui

crinali dell’amore: l’educazione come amore.

Un amore che, però, egli sapeva bene non potersi risolvere nel semplice moto degli affetti,

edotto com’era dell’antica e insuperabile “lezione” di Bettelheim, da lui ampiamente studiato.

Un amore, piuttosto, consapevole e consaputo, maturo e adulto, un amore come “dono”,

e, per questo, intriso di virtù, di apertura e di generosità, di pazienza e di attesa, secondo la

“misura” della gradualità, ma, al tempo stesso, mai dimentico del bene reale della persona, da

additare costantemente20.

20 Virtù educative, queste come altre, che ho indagato pure in diversi miei contributi, a muovere sempre dal 1980.

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E che lo portò, persino, a reinterpretare la sua stessa pedagogia “metateorica” quale

“poesia”; e, cioè, come interpretazione, ultima e definitiva, di un’accezione idiografica, e non

nomotetica, della scienza dell’educazione21.

Una pedagogia, in fin dei conti, nobilmente sospesa tra scienza e arte (nella metafora, pure

avveduta e brillante, di Mauro Laeng22), tra libertà (pensante e pesante) e autonomia (ma non

autarchia, né della scienza né degli attori dell’educazione), in vista, piuttosto, della comune

responsabilità da assumere e incrementare sia da parte della disciplina che delle persone che

l’agiscono e la vivono: “pensando ed educando”.

Dove soltanto la riflessività permanente del “pensare il proprio pensiero” 23 – in prospettiva

heideggeriana, sorretta e nutrita costantemente da un’esperienza avvertita, può coprire la

distanza che separa la realtà dell’educazione dalla teoria pedagogica, così da scendere in essa e

validarla. E poi risalirvi, per educare e “con-vincere” assieme: l’educatore e l’educando, in

asimmetrica reciprocità, per mezzo di quella “retorica” della prossimità, dispiegata, e resa possibile,

appunto dalla competenza.

Una pedagogia, ancora, innervata dalla storia, attraversata dalle ideologie, irrobustita

dalla filosofia, quale “linguaggio dei linguaggi” 24.

Da quegli stessi molteplici linguaggi, fatti di parole e di non parole, dove anche la non

parola è talvolta parola (come nel caso dell’adolescenza)25, mentre la parola, spesso, non sa dire,

o ri-dire, tutte le non parole che pure sottintende26.

Una pedagogia, infine, come poesia, per “comprendere la persona” (intuendola), e una

pedagogia quale scienza, per “spiegare il rapporto”.

21 Cfr. S. DE GIACINTO, Pedagogia come poesia, a cura di E. BARDULLA, Università degli Studi-Istituto di Pedagogia, Parma
1993.
22 Cfr. M. LAENG, Problemi di struttura della pedagogia, La Scuola, Brescia 1960.
23 M. CORSI, Governare il cambiamento, op. cit., p. 117.
24 Cfr. S. DE GIACINTO, Linguaggio dell’educazione e della pedagogia, in M. LAENG (a cura di), Enciclopedia pedagogica,

vol. IV, La Scuola, Brescia 1989, coll. 6945-6950.


25 Cfr. M. MANNONI, Il bambino ritardato e la madre, trad. it., Boringhieri, Torino 1971.
26 Cfr. P. WATZLAWICK-P.H. BEAVIN-D.D. JACKSON, Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi,

delle patologie e dei paradossi, trad.it, Astrolabio, Roma 1971.

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Ed entrambe, per migliorare la storia e l’umanità, la società e le persone, attraverso l’offerta

e la maturazione delle competenze dei pensieri, come dei sentimenti, al pari di quelle del giudizio.

Dunque: l’educazione “da interpretare, per cambiarla”.

Perché tanto la pedagogia quanto l’educazione è fatta da persone, per le persone.

Per una conclusione: il sistema formativo integrato

Nell’ultimo capitolo del libro, si analizza il “sistema formativo integrato”.

Un approccio e una teorizzazione, questi, che la pedagogia italiana ha iniziato ad

approfondire particolarmente dagli anni ’80 del secolo scorso in avanti.

A fonte dell’evidente dispersione e frammentazione – per non dire della loro sovente

palpabile contrapposizione – rilevabili fra le molte agenzie educative in essere: dalla scuola alla

famiglia, dalla Chiesa Cattolica alle Chiese, per spingersi sino alle imprese (anch’esse comunque,

implicitamente o esplicitamente educative: basti pensare alla disarmonia, talora esistente, tra i

tempi del lavoro e quelli delle persone e delle loro famiglie).

Quando non anche all’interno di ciascuna di esse (il padre contro la madre, le Chiese – o

“parti” di esse – fra loro ecc.

Con la finalità, appunto, di porre in essere tutti gli accorgimenti e gli interventi possibili per

“ridurre a unità” – o, per lo meno, ridurne al massimo – la divaricazione.

Da qui, la definizione di “sistema formativo integrato” come “obiettivo” verso cui tendere,

pedagogicamente ed educativamente.

Al riguardo si contrappongono, nondimeno, due scuole di “pensiero”.

L’una, “scuola-centrica”, che pone al centro di tale sistema: la scuola.

L’altra: “persona-centrica” (che è il mio orientamento, ed è quello rappresentato nel testo),

che, non privilegiando di fatto alcuna agenzia “educativa” (imprese o volontariato compresi),

perché tutte concorrono all’educazione delle persone, dalla nascita alla morte – che l’educazione

è tale: un processo perenne dall’alfa all’omega dell’esistenza, “life-long-learning” – individua quale

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nucleo nevralgico e obiettivo di “valore” del sistema: la persona, le persone concrete: “in carne e

ossa”.

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