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5.

Pedagogisti, storia dei processi formativi e psicoterapeuti


Dai classici della pedagogia ai nuovi studiosi dei processi educativi.
Autori e pedagogisti contemporanei
Il metodo Origine della lista permette una maggiore e più rapida capacità di memorizzazione e studio. Gli autori
sono più o meno in ordine cronologico ed organizzati per correnti e teorie. Spesso di un autore basta ricordare la
parola o concetto chiave che lo segue già in questa lista. Per approfondimenti basta poi cliccare.
Ci scusiamo dei tanti nomi proposti ma almeno sapere che si tratta di un pedagogista può aiutare alla
prova preselettiva dove ogni anno vengono chiesti 2/3 pedagogisti, negli ultimi anni contemporanei.

SISTEMA TEORIA ⇒ AUTORE


Si ricorda che può bastare ricordare la scuola/teoria di appartenenza ed il concetto fondamentale
La pedagogia ed il cattolicesimo:
1. Agostino – la pedagogia cristiana
Agostino e la pedagogia cristiana – Dio è il vero Maestro
Agostino (Tagaste, 354 d.C. – Ippona, 430 d.C.) è uno dei maggiori esponenti della pedagogia
cristiana. Egli eredita la tradizione filosofica greca e cerca di rielaborarla alla luce del cristianesimo,
inaugura la pedagogia cristiana. Un fattore che comportò notevoli cambiamenti anche dal punto di vista
educativo nell’impero romano fu l’avvento del cristianesimo, con la sua attenzione alla popolazione
ed ebbe maggior presa soprattutto tra i diseredati, gli schiavi, le persone meno fortunate e più ai
margini della vita sociale – persone che necessariamente avevano modalità di vita e quindi educative
lontane da quelle della società patrizia dominante.
Il cristianesimo con il suo insistere sull’importanza della famiglia, anche dal punto di vista
formativo, e dell’educazione mediante l’esempio e non mediante lo studio teorico di precetti,
trasmetteva indirettamente un modello educativo più simile quello della Roma arcaica che a
quello della Roma dell’epoca. Inoltre la pedagogia promossa dal cristianesimo non si limitava a
proporre modalità di trasmissione di credenze e usanze a livello familiare e “pratico”, ma postulava
anche un modello di formazione “trasversale” attuata dagli appartenenti alla stessa comunità
religiosa.
Questa modalità formativa privata e comunque interna a ristrette comunità era giustificata non solo
sulla base dei valori proposti a livello religioso, ma anche dalla necessità di vivere la propria
appartenenza religiosa nella segretezza, necessità data dalle persecuzioni cui all’epoca i cristiani
erano sottoposti.

Dal punto di vista pedagogico un carattere distintivo dell’ideologia agostiniana è quello che lo porta
a vedere l’infanzia non come una condizione di purezza ma come una semplice fase della crescita
umana, – segnata quindi dal peccato e dalla tendenza ad allontanarsi dalla via del bene.
Sant’Agostino è il fondamento della sapienza cristiana e il suo famoso trattato De Magistro, ovvero Il
maestro, è il fondamento di ogni metodo d’insegnamento autentico. Agostino nel suo De
Magistro un testo complesso sostiene che l’unico vero maestro è Dio, e arriva dunque a porre in
secondo piano la funzione didattica e pedagogica dell’insegnante.
Infatti, se l’insegnamento è volto a portare al raggiungimento della verità, e se la verità proviene da
Dio, la funzione di un buon maestro non sarà quella di imporre dall’esterno l’acquisizione di concetti
specifici, quanto di aiutare gli alunni a trovare la verità.
Pedagogia soggettiva o interiore all’interno dell’anima dello studente, – in quanto la verità per
Agostino sta dentro l’uomo: la verità non viene quindi consegnata dall’insegnante ma viene
riscoperta dall’alunno con la guida del suo formatore.
Riteneva che i modelli culturali e educativi classici fossero pericolosi se utilizzati in sé e per sé,
ma contenessero anche preziose risorse che potevano essere sfruttate per il meglio se
considerate dalla giusta prospettiva.
Interessante l’importanza che Agostino dà all’allievo: egli ritiene, infatti, che qualsiasi nozione per
essere effettivamente appresa debba essere trovata e sentita come vera dagli alunni. Pertanto, il
discepolo deve tracciare al suo interno una via che porta alla conoscenza, deve fare spazio al proprio
maestro interiore (che Agostino identifica con Cristo), il quale, tramite l’illuminazione divina,
permette la comprensione delle cose.
In chiave più attuale, si può affermare che l’educatore deve favorire l’apprendimento favorendo la
ricerca interiore e la crescita intellettuale del discepolo; insegnare, cioè, significa fare memoria.
Riportare alla memoria la verità di cui si è costituti, tutti, motivo per cui tutti siamo sempre “studenti”,
discepoli, e il nostro ammaestramento non è mai finito.

«Il parlare, dunque», osserva Bisogno, «è legato soltanto all’insegnare o al far ricordare, a se stessi o
agli altri. Le due attività, fa intendere da subito Agostino, sono intimamente connesse: non solo infatti
il vero insegnamento si ottiene quando si riporta alla memoria un contenuto profondo, latentemente
presente nell’animo ma, nel particolare e nel quotidiano, ricordare non è altro che insegnare a se
stessi, vale a dire usare segni linguistici per far riaffiorare, dalla memoria, immagini di ciò che si è
conosciuto»

2. San Tommaso – La pedagogia della scolastica – Alto Medioevo


San Tommaso – e la pedagogia medievale (la lectio e la disputatio)
Durante il Medioevo il monopolio dell’istruzione e dell’educazione apparteneva agli ordini religiosi.
Soprattutto i benedettini e gli altri ordini minori o dei francescani. L’educazione avveniva nei
conventi, i docenti erano monaci o ecclesiasti. Il principio educativo era Dio ed il rispetto della legge
naturale riflette la legge eterna secondo la quale dio ordina l’intero mondo.

La riflessione sull’educazione e sulle possibilità conoscitive dell’uomo coinvolge i due più


importanti ordini mendicanti: francescani e domenicani. Essi partecipano al grande dibattito,
tipico del XIII e XIV secolo, sulla contrapposizione tra fede e ragione e su quale fosse la via,
razionale o mistica, per accedere alla conoscenza di Dio.
Non a caso: la dimensione pedagogica di San Tommaso mira ad educare l’uomo in quanto credente.

In particolare:

 i francescani ritengono che la fede superi, sia in se stessa sia per le possibilità conoscitive,
la ragione e gli strumenti razionali messi in atto dall’uomo. Solo seguendo una via mistica
l’uomo può ascendere nella conoscenza di dio;
 i domenicani ribadiscono la priorità della razionalità come strumento conoscitivo della
verità rivelata. ⇒ il campione ed ispiratore dei domenicani è proprio San Tommaso
Ma cosa si insegnava nei conventi? Quali discipline? Quali erano le materie (diremmo oggi le cdc)
che si insegnavano nelle scuole dell’epoca?
Durante questo periodo e durante tutto il medioevo le discipline sono organizzate
nel trivio (grammatica, retorica, logica) e nel quadrivio (aritmetica, geometria, fisica, musica).
La scolastica rappresenta un periodo particolarmente fecondo di riflessione pedagogica:
all’interno delle università, i grandi intellettuali tematizzano il problema dell’educazione e della
formazione che il buon cristiano deve perseguire.
L’idea di pedagogia di san Tommaso va ricercata nel suo pensiero. San Tommaso ritiene infatti che
il fine dell’uomo dia la felicità, alla quale si accede grazie alla conoscenza e alla vita pratica,
anche se per raggiungere completamente questa c’è bisogno della grazia divina. Il percorso da
seguire è quello dell’educazione cristiana che san Tommaso riesce a rendere positivo grazie alle sue
facoltà intellettuali e le proprie disponibilità etiche.
Nell’insieme questo percorso appare come un disegno educativo equilibrato e razionale che include
il “Giusto mezzo” sostenuto da Aristotele e che San Tommaso amplia e arricchisce attraverso la
dimensione religiosa.

Dal punto di vista pedagogico, e in particolare, rispetto al metodo di insegnamento, questo è


strutturato intorno alla lectio (lettura) e alla disputatio (discussione). Oggi sarebbe detta la tecnica
del debate (una metodologia didattica basata sull’argomentare e sulla discussione). Durante questo
periodo, la lettura dei testi di riferimento, accompagnata dall’approfondimento e dal commento,
insieme alla discussione tra allievi e maestri sono i momenti salienti della lezione all’interno delle
università. Al centro del processo di insegnamento vi erano i dogmi della religione
cristiana sono alla base del processo di formazione; tuttavia, con il passare degli anni,
l’insegnamento prevede una maggiore apertura verso questioni legate allo studio delle scienze
naturali, della filosofia politica, dell’etica.
La riflessione pedagogica è imperniata sui modi e sui contenuti da trasmettere per permettere la
conoscenza della verità rivelata e del messaggio cristiano. La religione, la formazione del buon
cristiano, le vie per accedere a ciò che è considerata la verità cristiana sono le tematiche principali
affrontate e dibattute in seno alla Scolastica.
Qui di seguito sono riportate le posizioni dei più influenti movimenti e filosofi che parteciparono al
dibattito sull’educazione-

3. I pedagosti cattolici del Novecento: ⇒ il personalismo


I pedagogisti cristiani del Novecento: il personalismo
Il pensiero cristiano, nel corso dei primi decenni del Novecento, è attraversato da una feconda
riflessione in merito al suo ruolo in campo educativo. L’esperienza più nota, tra le molteplici che
animano la pedagogia cristiana in questo inizio Novecento, è rappresentata dal personalismo. In base
a questa prospettiva, la massima attenzione è rivolta alla persona umana, considerata:
 come un tutto, una realtà integrale e libera;
 il fine di ogni organizzazione sociale o collettiva e non un mezzo.
L’educazione deve essere lo strumento grazie al quale l’uomo può estrinsecare e vivere secondo
i valori spirituali; è un’azione di autocostruzione e di tensione verso la verità e l’etica, come già
avevano detto sia Sant’Agostiono che San Tommaso.
Il personalismo è un riferimento per il mondo educativo cristiano.
Tra gli esponenti principali di questa corrente si possono annoverare:
1. Emmanuel Mounier (1905-1950). È considerato tra le voci più influenti del personalismo.
Di fronte alla crisi del suo tempo, egli immagina un uomo impegnato nella comunità, la cui
unità è fondata sull’amore. L’intervento pedagogico è sinonimo di azione e deve mirare
a “suscitare”, estrinsecare e liberare, la persona, educandone la volontà e
indirizzandola a una vita nella verità.
2. Friedrich W. Förster (1869-1966). È fortemente critico verso la pedagogia tedesca e
pone al centro della sua riflessione l’etica cristiana come principio fondante del
carattere dell’uomo.
In un certo senso sul versante della disciplina egli insiste su obbedienza, responsabilità,
lavoro, impegno sociale sono i precetti da applicarsi nella pratica educativa.
3. Sergej Hessen (1887-1950). La sua opera fu particolarmente conosciuta in Italia nel corso
degli anni Sessanta. Nel suo pensiero, la pedagogia è la disciplina che deve educare
l’individuo a riconoscere e a seguire nella propria vita, in tutte le sue dimensioni, i valori
spirituali. È promotore di una scuola unica e democratica.
4. Jacques Maritain (1882-1973) è un riferimento fondamentale per il personalismo anche
negli anni che seguono la Seconda Guerra Mondiale. Secondo Maritain, l’educatore deve
saper rispettare l’intelligenza e la libera volontà del fanciullo al fine di valorizzare tutte
le sue capacità e guidarlo nello sviluppo della sua persona. La disciplina deve orientare il
ragazzo nell’adesione a una vita ispirata ai valori cristiani. Maritain si fece
anche promotore della parità delle donne e si espresse a favore di un’educazione liberale,
aperta a tutti ed estesa fino ai 18 anni.

4. Ferrante Aporti – etica e carità nell’educazione cattolica


Ferrante Aporti – la scuola nuova
Ferrante Aporti individua la sua missione nell’attività educativa, intesa come lotta all’ignoranza, la
vera ed unica origine dei mali dell’uomo, della società e della patria. Come Comenio e Pestalozzi
innova la tradizione cattolica dell’educazione.
Era un sacerdote ma molto innovativo e progressista, imposta nuove strutture, nuovi metodi, nuovi
modelli educativi; nel giro di pochi anni amplia la sua scuola elementare, tiene corsi per i maestri,
apre le scuole festive di disegno e architettura, presenta un progetto di riforma per creare gli istituti
tecnici, promuove la diffusione di istituzioni educative sul territorio cremonese.

Per Ferrante Aporti il problema degli asili stava a cuore era la scuola dell’infanzia, come rinnovarla
e renderla attiva. Egli istituisce un vero e proprio metodo, illustrato nei due volumi nel Manuale,
nella Guida per le scuole infantili di carità (Milano 1836) e in altri scritti.
I rispettivi istituti che sorgevano erano retti secondo i metodi che l’A. aveva esposti e come egli
stesso era per lo più richiesto di lumi e spesso dell’invio di maestre per le singole fondazioni, o
invitato a giudicarne dì presenza l’ordinamento interno, ciò spiega l’abbondante suo carteggio e i
frequenti suoi viaggi pedagogici.

Le vedute educative di Aporti erano progressiste per l’epoca, egli affermava la convenienza dei
metodi informativi per i primi anni di vita, e sulla scia del Comenio e del Pestalozzi applicava alle
varie forme educative, da svolgere armonicamente, il metodo intuitivo.

Come tutti i pedagogisti cattolici era per l’educazione morale fondata sulla religione, purificata però
da superstizioni e legata alla pratica della vita. Etica ed educazione si fondevano.
L’attenzione per la condizione di abbandono dei bambini appartenenti alle classi popolari lo induce
a fondare a Cremona, nel 1828, il secondo “asilo d’infanzia” in Italia, a pagamento, per alunni da due
anni e mezzo a sei anni.

5. La pedagogia di Don Giovanni Bosco – il metodo preventivo


La pedagogia di Don Giovanni Bosco – il metodo preventivo
E’ il metodo che i Salesiani usano nell’educazione dei giovani.
E’ una invenzione di Don Bosco, che la derivò dalla spiritualità di S. Francesco di Sales, da cui il nome di
salesiani, il santo dell’equilibrio, della serenità, del garbo nel trattare, dell’amorevolezza, dei modi umani e
cordiali, della gioia.
Don Bosco scrisse un opuscolo, che condensava le parole dette a Nizza nel 1877, all’inaugurazione del
Patronage di Saint Pierre di quella città.

Continuiamo ad ascoltare Don Bosco: “Due sono i sistemi in ogni tempo usati nella educazione della gioventù:
Preventivo e Repressivo. Sistema Repressivo consiste nel far conoscere i trasgressori ed infliggere, ove sia
d’uopo, il meritato castigo […]. Diverso, e direi opposto, è il sistema Preventivo. Esso consiste nel far
conoscere le prescrizioni e i regolamenti di un Istituto e poi sorvegliare in guisa che gli allievi abbiano sempre
sopra di loro l’occhio vigile del Direttore o degli assistenti, che come padri amorosi parlino, servano di guida
ad ogni evento, diano consigli e amorevolmente correggano, che è quanto dire: mettere gli allievi nella
impossibilità di commettere mancanze.
Questo sistema si appoggia tutto sopra la ragione, la religione e sopra l’amorevolezza […].

Il sistema Repressivo può impedire un disordine, ma difficilmente farà migliori i delinquenti […].

Il sistema Preventivo rende avvisato l’allievo in modo che l’educatore potrà parlare con il linguaggio del cuore
sia in tempo dell’educazione, sia dopo di essa. L’educatore, guadagnato il cuore del suo protetto, potrà
esercitare sopra di lui un grande impero, avvisarlo, consigliarlo, e anche correggerlo allora eziandio che si
troverà negli impieghi, negli uffici civili e nel commercio”.

Questa è la magna charta della pedagogia dei salesiani, il concetto che occorre guadagnare il cuore dei giovani
per esercitare una efficace opera educativa, dando al cuore i diversi significati che può assumere nei contesti
più vari. Don Bosco soleva ripetere che l’educazione è un fatto del cuore. Non si educano i giovani se non li
si ama. Amare le cose che i giovani amano e i giovani ameranno le cose che gli educatori amano.

I tre pilastri:

– ragione

– religione

– amore
I tre pilastri dell’educazione salesiana sono la ragione, che poi è la ragionevolezza, senza gli irrazionali
modi di imporre, di reprimere, di castigare; la religione, che per Don Bosco era lo scopo primario, e che nei
figli di Don Bosco è diventato dopo un secolo e mezzo di tempo, educare ai valori fondamentali della vita,
curare la formazione umana, secondo i criteri della libertà, della solidarietà, della dignità personale, della
sensibilità agli altri; amore è il terzo pilastro dell’educazione salesiana, che è detto in modo più espressivo,
completo e comprensibile col termine di “amorevolezza”, espressione sempre ricca di un contenuto attuabile
anche in tempi tanto diversi dai tempi di Don Bosco.

Il discorso sul metodo educativo sarà però nella vita dell’Oratorio di Don Bosco un ritornante discorso ai suoi
figli educatori, scelti tra gli stessi ragazzi dei primissimi anni dell’Oratorio di Valdocco a Torino. E più che un
discorso sarà il modo di vivere tra i giovani, in cortile, nella scuola, nella chiesa, nelle ricreazioni, nelle
passeggiate, nelle recite, nelle premiazioni, nelle feste, nei rari castighi, nello studiare e nel lavorare, sempre
in allegria, l’allegria, il segreto di Don Bosco e dei Salesiani.

6. Don Milani ed il suo libro Lettera ad una professoressa


Don Milani – “Lettera a una professoressa”
La figura figura di Don Milani non si può separare a quella di prete ed educatore dei bambini poveri
della Scuola di Barbiana.
Gli ideali di Don Milani sono quelli un’istituzione inclusiva, democratica, con il fine non di
selezionare ma piuttosto di far arrivare, tramite un insegnamento personalizzato, tutti gli alunni a un
livello minimo d’istruzione garantendo l’eguaglianza con la rimozione di quelle differenze che
derivano da censo e condizione sociale.

Principi che egli mette in pratica nella scuola di Barbiana era un vero e proprio collettivo (diremmo
oggi si usavano metodologie di tutor-mentoring e di peer-tutoring) in quanto chi sapeva di più aiutava
e sosteneva chi sapeva di meno, 365 giorni all’anno.

La scuola suscitò immediatamente molte critiche e ad essa furono rivolti attacchi, sia dal mondo della
chiesa sia da quello laico.

Pubblica “Lettera a una professoressa”, (maggio 1967), in cui i ragazzi della scuola (insieme a don
Milani) denunciavano il sistema scolastico e il metodo didattico che favoriva l’istruzione delle classi
più ricche, mentre permaneva la piaga dell’analfabetismo in gran parte del paese. La Lettera a una
professoressa fu scritta negli anni della malattia di don Milani.

Pubblicato un mese prima della sua morte è diventata uno dei testi di riferimento del movimento
studentesco del ’68. Altre esperienze di scuole popolari sono nate nel corso degli anni basandosi
sull’esperienza di don Lorenzo e sulla Lettera a una professoressa.
Nel testo vi è tutto il clima culturale dell’Italia degli anni Sessanta.I suoi scritti innescarono aspre
polemiche, coinvolgendo la Chiesa cattolica, gli intellettuali e politici dell’epoca; Milani fu un
sostenitore dell’obiezione di coscienza opposta al servizio militare maschile (all’epoca obbligatorio
in Italia); per tale motivo fu processato – e poi assolto – per apologia di reato.
Fu don Milani ad adottare il motto inglese “I care”, letteralmente mi importa, mi interessa, ho a
cuore.
Con don Milani – “I care” ossia “io mi prendo cura” che riassume gli scopi della scuola orientata a
formare i “cittadini sovrani”; si evitano le bocciature, poiché un povero, siccome si trova in una
condizione svantaggiata, se viene bocciato sarà obbligato a frequentare talmente tante ripetizioni che
alla fine si arrenderà e ripeterà lo stesso mestiere del padre senza aver avuto l’opportunità di
migliorare la sua vita, e così vale anche per i voti e le promozioni.
La sua scuola e la sua pedagogia è orientata alla presa di coscienza civile e sociale.

Il testo presenta una durissima critica alla scuola pubblica italiana, definita classista, contro la scuola
dei figli di papà, una scuola che semplicemente perpetua le differenze sociali e di classe, Do Milani
propone una scuola inclusiva per tutti. Ricordiamo che solo proprio pochi anni prima aveva introdotto
la scuola media unica.
Secondo Don Milani, la scuola, invece di combattere le diseguaglianze sociali, sostenendo gli
studenti più bisognosi e in difficoltà, stava amplificando il divario ricchi-poveri, perché premiava
e faceva avanzare i figli della borghesia, respingendo i più poveri.
Per Don Milani la scuola doveva combattere:

 il classismo intrinseco all’insegnamento scolastico;


 l’esacerbazione delle differenze sociali: la scuola promuove i privilegiati, i ragazzi più poveri,
provenienti da contesti disagiati, destinati, a suon di bocciature, a non emanciparsi mai e a
non migliorare mai le proprie condizioni di vita.
 l’incapacità della scuola di essere percorso verso l’uguaglianza, il riscatto, l’emancipazione
dei poveri.
Il testo propone tre riforme:
 non bocciare;
 il tempo pieno
 uno scopo pratico per coloro che sono “svogliati”
La colpa dell’insegnante, agli occhi dei ragazzi di Barbiana, è di essere la ligia e ben retribuita
esecutrice di un complotto scientemente ordito dal Sistema. Un complotto che, come si ripete tante
volte nella lettera, mira a ingannare i poveri e i contadini…
È l’idea che ci sia uno Stato, una scuola, una società, in una parola, un Sistema di cui si parla in
terza persona, il cui preciso fine è quello di fregare, appunto, un noi in cui s’includono tutti coloro
che, almeno pro tempore, lottano per il disvelamento del grande inganno (e perciò sono esenti da
qualsiasi colpa) …[Ma] … nell’arco di pochi anni ricchi e poveri saranno indistinguibili, e finiranno
per scambiarsi le parti … Potenti diverranno gl’incensatori dell’altarino di don Milani, mentre gli
odiati laureati, lungi dall’accaparrarsi laticlavi e ministeri…faranno la coda per un posto da
lavapiatti… A restare al suo posto sarà solo la professoressa, composta donna d’ordine che ieri
bocciava troppo e oggi nemmeno può, anche volendo: ieri come oggi, sotto la gragnuola d’insulti di
chi la vuole responsabile di tutti gli analfabetismi, capro espiatorio di ogni delitto.

7. Aldo Agazzi ed il personalismo pedagogico


Aldo Agazzi ed il personalismo pedagogico ed educativo
Aldo Agazzi è il maestro del personalismo educativo passa in rassegna momenti di una vita dedicata
all’educazione e alla cultura. E’ un lucido viaggio nella memoria tra fatti, esperienze, persone e
personaggi che hanno segnato la storia dell’Italia contemporanea.
Si ricorda che il personalismo che mette a centro la persona è tipico del tipo di movimento
pedagogico cristiano.
Sono percorsi quelli del personalismo pedagogico sviluppati dai pedagogisti di ispirazione cristiana
nella seconda metà del Novecento. Essi appaiono contraddistinti in modo del tutto peculiare
dall’affermazione e dalla rilevanza antropologica del concetto di ‘persona’, oggetto e centro di
una continua rielaborazione pedagogica ed educativa.
L’attività pedagogica ed educativa di Aldo Agazzi attraversa l’intero Novecento e rappresenta un
punto di riferimento significativo nel panorama culturale italiano del secolo scorso. L’opera di Aldo
Agazzi si inserisce nella tradizione personalistica di matrice cristiana e può essere definita, come egli
stesso dichiara: «un personalismo pedagogico, storicamente e culturalmente (civilmente) definito;
psicologicamente e socialmente determinato; collocato, con il suo centro nella sostanza dell’uomo
persona, nella realtà delle sue trascendenze».

Le strategie educative che derivano dalla prospettiva pedagogica del personalismo storico si pongono
la finalità di far manifestare pienamente le potenzialità di ogni essere umano, ossia di promuovere la
libertà, l’originalità e la relazionalità che costituiscono l’essenza della persona.

Ricordiamo brevemente gli autori della tradizione cristiana che abbiamo visto in questo modulo di
Origine, autori come San Tommaso e Sant’Agostino e con pensatori moderni come Maritain,
Stefanini e Casotti, infine Aldo Agazzi questi pensano che la natura dell’uomo non sia solo materiale
ma anche trascendentale, legato a Dio quindi trascendente dell’uomo.
PERSONALISMO PEDAGOGICO: La persona è l’uomo che esercita la propria capacità di senso
riconoscendosi in una relazione di senso. Persona significa rispetto di sé, conoscenza di sé, è la
sollecitudine dell’altro che riconosce a ciascuno il principio della giustizia. Chi ha trattato il
personalismo pedagogico, sono: Maritain, Marell; Stefanini, Ricoeur e Monieur (I° meta del 1900).
Essi danno enfasi alla persona e al come e perché della sua formazione. In Italia Aldo Agazzi.

Una natura libera che non si esaurisce nei limiti dell’individuo, inteso sia come materia sia come
intelletto, ma che si apre costantemente a ciò che il pedagogista bergamasco chiama “le sue
trascendenze”: una orizzontale che permette la costituzione dei legami sociali attraverso la relazione
con gli altri e l’altra verticale che rappresenta la condizione di possibilità del rapporto con il Dio-
persona della tradizione cristiana.

L’uomo, infatti, deve essere considerato come un ente integrale, che si manifesta nella propria
pienezza solo se nessuna delle sue caratteristiche viene ridotta o dimenticata. Per questa ragione,
l’essenza ontologica della persona, libera e trascendente, non è un principio astratto che può essere
analizzato a priori, ma un fondamento che si concretizza necessariamente in uno spazio e in un tempo
determinato attraverso la costruzione di legami sociali, economici e politici. L’uomo è sì libero e
trascendente, ma la sua libertà si deve realizzare nell’esistenza, nella storia, in azioni concrete, nel
suo lavoro e in tutte le dimensioni che permettono di promuovere le caratteristiche di ogni essere
umano. Nella visione cristiana-cattolica, l’educazione, se è veramente tale, ha il compito di sviluppare
tutti gli aspetti dell’uomo, promuovendo quelle attività in cui l’educando riesce a realizzare, in
un’azione concreta e particolare, le diverse potenzialità fisiche e psichiche che lo compongono.

Per questa ragione, il lavoro manuale non può che essere un’attività centrale nei processi formativi.
Un’attività che gli allievi devono incontrare all’interno delle scuole e non solo dopo il completamento
di un percorso d’istruzione.
Per Agazzi il lavoro è educazione, il lavoro assume una funzione educativa in sé, perché permette
al giovane di sviluppare la sua capacità di produrre qualcosa di concreto, confrontandosi con le norme
e i vincoli del contesto operativo, i tempi di produzione, le idee di utile e di interesse, i bisogni della
vita, la fatica fisica e le difficoltà di trasportare un’idea astratta nella pratica.
Egli critica ogni teoria separativa o intellettualista, che pensa la scuola e il sapere teorico come
qualcosa di lontano dall’attività lavorativa.
Infatti, il compito dell’educazione non è quello di accentuare le separazioni tra scuola e lavoro, teoria
e pratica, mente e corpo, ma, pur riconoscendo le distinzioni tra le diverse dimensioni umane,
giungere a una composizione armonica dei differenti elementi che permettono alla persona di agire
in modo libero, consapevole e responsabile.

8. Mario Lodi – imparare con le mani

Mario Lodi – imparare con le mani


Mario Lodi ha avuto un ruolo così importante nella scuola e nella pedagogia italiana?
Del celebre maestro e scrittore che dagli anni ’50 in poi ha rivoluzionato la didattica della scuola
primaria vedi come l’INDIRE – ente di ricerca MIUR lo ricorda quest’anno – strategico ed attuale
⇒ La Scuola di Mario Lodi.
Durante l’incontro sarà delineata la figura del grande pedagogista che, con una nuova impostazione
metodologica, ha dimostrato l’importanza del ‘fare’ con le mani e con il corpo, del creare, del lavorare
insieme per aiutare gli allievi a sviluppare abilità sul piano cognitivo e linguistico, ma anche sociale.

Sono anche previsti una serie di incontri che nel corso dei prossimi mesi e per tutto il 2022 – anno
del centenario della nascita di Lodi – verranno organizzati per approfondire la figura di uno dei
protagonisti del rinnovamento pedagogico della scuola italiana, scrittore di molte storie per ragazzi e
formatore di generazioni di insegnanti.
Lodi è stato rotagonista del rinnovamento pedagogico in chiave democratica della scuola italiana
negli anni Sessanta e Settanta, esponente del Movimento di Cooperazione Educativa, Lodi ha
condensato i capisaldi della propria innovativa esperienza didattica all’interno dei due diari C’è
speranza se questo accade al Vho (1963) e Il paese sbagliato (1970), divenuti nel corso del tempo
due punti di riferimento imprescindibili per chi ritiene che la scuola debba trasmettere una solida
cultura democratica educando a pace, giustizia e uguaglianza.
Lodi è stato anche uno dei più importanti autori di libri per bambini e ragazzi del secondo Novecento:
il suo Cipì, pubblicato per la prima volta nel 1961, è ormai considerato un classico, tradotto in molte
lingue e stampato ancor’oggi con successo da Einaudi Ragazzi.

La pedagogia degli illuministi (nel Settecento)


Rousseau ⇒ in ambito pedagogico l’ Emilio o dell’educazione, un trattato pedagogico
sull’educazione dell’individuo anticipa i temi dell’attivismo pedagogico
Rousseau – la pedagogia secondo natura
Jean-Jacques Rousseau distaccandosi in parte dalla visione degli illuministi del suo tempo. Se infatti
l’ideale illuminista identifica la natura umana con la ragione, l’opera di Rousseau si sviluppa intorno
al contrasto tra uomo naturale e uomo artificiale.
Il concetto di “stato di natura” – pur nella consapevolezza della radicale separazione tra questo e
l’uomo contemporaneo – diventa in lui lo strumento per mettere in luce le ipocrisie della società
contemporanea.
Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) promuove una pedagogia secondo natura, un’educazione
naturale capace di preservare nell’uomo la naturale “bontà” e preservarlo dalla corruzione presente
nella società.

Mentre poi gli illuministi sottolineano la funzione progressista della conoscenza e gli ideali di libertà
e fratellanza promossi, il pensiero di Rousseau è ispirato da un individualismo radicale, che evolve
poi nel comunitarismo delle opere della maturità.
Emilio è un suo romanzo pedagogico, altre opere il “Contratto sociale” e la “Nuova Eloisa”. Il tema
fondamentale dell’ “Emilio” consiste nella teorizzazione di un’educazione dell’uomo in quanto tale
attraverso un suo “ritorno alla natura”.

I due Discorsi del 1749 e del 1754 sostengono la tesi per cui i beni materiali e il progresso socio-
culturale dell’Occidente non abbiano prodotto un miglioramento della virtù umana, ma abbiamo
piuttosto generato un mondo ingiusto e diseguale.
La riflessione sulla libertà umana prosegue con il romanzo epistolare Giulia, o la nuova Eloisa, che,
attraverso la storia di due giovani amanti osteggiati dalla famiglia, prende in considerazione i rapporti
tra i condizionamenti della società e i desideri dell’individuo, tre le scelte etico-morali e le pulsioni
dell’istinto.
Egli proponeva un’educazione “naturale”, l’autore postula che l’educazione debba
necessariamente essere naturale, senza costrizioni sociali. La natura per Rousseau consiste
nell’insieme delle facoltà umane e intellettive proprie dello stato originario dell’uomo, facoltà, che
come si è già ricordato, vengono sistematicamente corrotte nella società contemporanea da civiltà e
cultura. Il carattere naturale dell’educazione implica dunque che essa non può derivare dai
dettami della società, ma deve necessariamente fondarsi nell’uomo visto come essere autonomo.
Anche il metodo utilizzato dagli insegnanti dovrà essere coerente con l’evoluzione naturale del
soggetto, senza forzarla in alcun modo, e dovrà quindi essere strutturato sulla base dell’evoluzione
psicologica dei fanciulli.
Nella prima e la seconda infanzia, per Rousseau bisogna usare un metodo pedagogico che sia
volto più che a progettare interventi formativi specifici e rispettare lo sviluppo del bambino
evitando interventi contrari a esso. Un educazione libera senza costrizioni, obblighi, etc. Al
contrario egli dovrà impegnarsi molto per impedire che sia influenzato negativamente e per
predisporre al contrario occasioni propizie per uno sviluppo armonico.
Tale squilibrio non è frutto della natura umana (che Rousseau giudica intimamente buona) ma è opera
di un distorcimento dello stato di natura originario dell’uomo a seguito del progresso tecnico-
scientifico e della civilizzazione storica delle società.
Egli insiste molto sull’importanza nel percorso educativo dei bambini delle sensazioni provate dalla
manipolazione degli oggetti e dal movimento. Ritiene invece che si debba escludere in questa fase
ogni forma di educazione morale, in quanto senza il supporto della ragione il bambino non potrebbe
capire ciò che sta dietro a divieti e imposizioni e li considererebbe solo come mere imposizioni,
allontanandosi così dallo stato naturale di libertà.
La seconda fase dell’educazione del bambino si introduce il concetto della libertà anche come
conquista. Il bambino comincerà e rendersi conto dello squilibrio che esiste tra i suoi bisogni e le
capacità che gli sono date di soddisfarli. Su questa dicotomia ci si potrà appoggiare per una prima
educazione morale che non conterrà obblighi o doveri ma partirà appunto dall’osservazione e dal
confronto con la necessità delle cose, metodologia che dovrebbe portare allo sviluppo dell’uomo sulla
base dell’autonomia e dell’autenticità.

Emilio – romanzo pedagogico di Roussoue


Emilio è un romanzo pedagogico composto da Rousseau a partire dal 1753-54 ed è strettamente
legato ad altre opere rousseauiane, quali il “Contratto sociale” e la “Nuova Eloisa”. Il tema
fondamentale dell’ “Emilio” consiste nella teorizzazione di un’educazione dell’uomo in quanto tale
attraverso un suo “ritorno alla natura”.

Si tratta di un romanzo pedagogico diviso in cinque parti, corrispondenti alle cinque fasi fondamentali
della vita del giovane considerate da Rousseau:

– La prima fase: va dalla nascita fino a quando il bambino è in grado di parlare. Durante questa fase
il fanciullo fa le prime esperienze con le realtà esterne.- La seconda fase: arriva fino ai dodici anni.
Ciò che maggiormente colpisce il giovane in questa fase della vita sono le esperienze sensorali; il
criterio in base a cui valutare tali esperienze è costituito dal piacere e dal dolore.
– La terza fase: dai dodici ai quattordici anni, è quella in cui il ragazzo riceve la sua educazione
sessuale e religiosa. Secondo Rousseau questa è l’età migliore, perché prima non sarebbe in grado di
comprendere il valore degli insegnamenti fornitigli in materia.
– La quarta fase: tratta dell’adolescenza di Emilio. Gli si insegneranno la storia, la morale e la
religione.
– La quinta ed ultima fase: è quella in cui è ormai pronto ad entrare nella società e ricerca la donna
della sua vita, Sofia, educata in maniera da essere la compagna ideale di Emilio.
Accanto al principio fondamentale dell’educazione naturale, Rousseau mostra l’importanza di
almeno altri due concetti.
– Educazione negativa ⇒ Teorizza il non intervento da parte dell’educatore, che deve soltanto
accompagnare la crescita del fanciullo, mantenerlo isolato e al riparo dalle influenze della società
corrotta ed eventualmente correggerlo, ma attraverso l’esempio o l’intervento indiretto. L’importante
è lasciare fare alla natura il suo corso.
– Educazione indiretta⇒ L’uomo viene educato dalla natura, dalle cose e dagli uomini. Una corretta
educazione esige la valorizzazione della natura e delle cose e l’eliminazione dell’influsso degli
uomini. Anzi alle cose è demandato il ruolo di avviare una coercizione sugli istinti e la libertà
infantile, di creare dei limiti alla loro espressione e di avviarne una precisa regolamentazione. Il
fanciullo attraverso i contatti con le cose, cresce moralmente e intellettualmente e lo stesso educatore
dovrà intervenire nella crescita di Emilio solo attraverso le cose, sia che si tratti di una lezione di
economia o di morale, come di una di astronomia.

L’attivismo pedagogico:
1. Introduzione all’attivismo pedagogico. Le Scuole Nuove
Attivismo pedagogico e le scuole nuove

Attivismo e scuole nuove: scheda di sintesi


 L’attivismo si sviluppa tra la fine dell’Ottocento (DEWEY) e gli anni Trenta del Novecento;
 Propone esperienze didattiche innovative che prendono il nome di scuole nuove (diffuse negli Stati
Uniti e nell’Europa occidentale)
 Tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento iniziano ad affermarsi le così dette scuole
nuove, che traggono origine, dal bisogno di rivedere l’organizzazione, i contenuti e i metodi
di una scuola che non appare più rispondente ai bisogni sociali emergenti da un mondo in
rapida trasformazione.
Due esempi e modelli di Scuole Nuove:
 Le prime scuole nuove furono create da Cecil Reddie alla fine dell’800.
 La Casa dei bambini di Maria Montessori e l’asilo delle sorelle Agazzi sono tra gli esempi
più noti dell’attivismo in Italia.
 I principi fondamentali: l’alunno è al centro dell’attività educativa ed è considerato un soggetto
attivo;
 l’apprendimento deve essere costruito a partire dal contesto in cui vive il bambino e dai
suoi interessi;
 lo sviluppo armonico delle facoltà del fanciullo deve essere l’obiettivo dell’educazione (già come
diceva Rossoue);
 le attività manuali e la socializzazione devono essere momenti fondamentali del processo
educativo;
 il docente non è un capo, non comanda ma guida solo è un modello che è contro ogni forma
di autoritarismo ed a favore di una approccio democratico
 I pedagogisti principali ascrivibili a questa corrente furono: Ovide Decroly, Edouard
Claparède, Adolphe Ferrière, Maria Montessori, Roger Cousinet e Célestin Freinet.

2. Dewey – L”attivismo pedagogico americano


Il pensiero filosofico e pedagogico di John Dewey
Il pensiero filosofico e pedagogico di John Dewey (1859 – 1952), considerato il padre
dell’attivismo pedagogico (espresso in molti lavori monografici, tra i quali si possono ricordare Il
mio credo pedagogico [1897], Scuola e società [1899], Come pensiamo [1910], Democrazia e
educazione [1916] e molti altri, fino a pochi anni prima della sua morte), ruota attorno ad una teoria
dell’esperienza, intesa come luogo di relazione e scambio reciproco e biunivoco tra il soggetto e
l’ambiente, uno scambio attivo e trasformativo: «Non può esistere l’individuo senza la relazione con
l’ambiente e, di conseguenza, non può esistere questa relazione senza il processo che lega in modo
significativo l’azione umana all’ambiente, perché ne determina le modificazioni reciproche e cioè
l’educazione. Una relazione, una transazione che è un vicendevole adattamento tra l’individuo e
l’ambiente, deve verificarsi anche nella cultura e nella civiltà umana, che rappresentano appunto
“attività” sia teoretiche che pratiche»

L’attivismo
Da un punto di vista strettamente pedagogico l’attivismo è la più significativa corrente del
rinnovamento delle tematiche dell’educazione nei primi decenni del 900’. Un libro famoso di H. Key:
“Il secolo del bambino” (1901), apre la stagione dell’attivismo europeo e americano, fondata su un
concetto essenziale: il puerocentrismo.

Il puerocentrismo è il riconoscimento essenziale del protagonismo del bambino in ogni processo


educativo. Il bambino deve svolgere le attività in prima persona, sia singolarmente, sia in
collaborazione con altri alunni.
L’attivismo presenta inoltre, una forte valorizzazione del fare nell’ambito dell’apprendimento: al
centro del lavoro scolastico ci devono essere le attività manuali, il gioco e il lavoro. Ogni
apprendimento deve essere legato ad un interesse da parte del bambino, e quindi deve essere mosso
da una sollecitazione proveniente dai suoi bisogni emotivi, pratici e cognitivi.
L’attivismo afferma anche la centralità dello studio dell’ambiente come realtà che circonda il
bambino e da cui il bambino deve ricevere primariamente stimoli per l’apprendimento.
La socializzazione, inoltre, è uno dei bisogni fondamentali del bambino che va non solamente
riconosciuto, ma anche fortemente incrementato (Dewey).
L’anti-autoritarismo è l’altro aspetto che collega insieme le diverse produzioni dell’attivismo.

Antiautoritarismo significa messa in discussione della supremazia dell’adulto sul bambino: si tratta
di creare educatori che rinuncino a un tasso forte di “adultismo”. La maestra montessoriana non
insegna ex-cathedra, ma coordina l’attività didattica del gruppo-classe, aspettando la risposta del
bambino rispettandone i tempi di apprendimento, privilegiando il principio dell’autoeducazione.
Ultimo elemento che caratterizza l’opera degli attivisti è l’anti-intellettualismo, ossia la svalutazione
o il ridimensionamento dei programmi formativi esclusivamente culturali, soprattutto se per cultura
si intende un sapere libresco, astratto, lontano dalla realtà, per valorizzare invece un’organizzazione
più libera delle conoscenze da parte del docente e del discente.
L’attivismo rappresenta un movimento che, per la prima volta in ambito pedagogico, si apre alla
psicologia ed alla sociologia, nonché alle discipline biologiche e neurologiche. Ovide Decroly, ad
esempio, avvia la propria riflessione pedagogica con un’esperienza che non è strettamente scolastica
ma è fatta a contatto con i portatori di handicap. Questo è vero anche per la Montessori: i materiali
montessoriani, ancora oggi vanto di questa scuola, furono prodotti non per i bambini cosiddetti
“normali” ma per quelli che presentavano uno sviluppo lento e irregolare, in particolare gli
ortofrenici. Questi metodi, elaborati nell’ambito delle problematiche dell’handicap, verranno poi
ripresentati anche per bambini senza particolari problemi psico-fisici. Questa feconda
compenetrazione di studi medici, neurologici, biologici e pedagogici apporterà una grande ricchezza
agli studi pedagogici dei primi decenni del 900.

Ovide Decroly (⇒ che vedremo poi come iniziatore della psico-pedagogia)


Edouard Claparède ( ⇒ che vedremo poi come iniziatore della psico-pedagogia)
Edouard Claparède -⇒ il riconoscimento dei bisogni

Eduard Claperède – La scuola su misura


Edouard Claparède sul finire dell’Ottocento, si interessò al recupero dei bambini con ritardo
mentale, si occupò pertanto di psicologia dell’educazione come elemento decisivo per il
rinnovamento della scuola e della didattica tradizionali.
Entro in contatto con gli esponenti dell’attivismo pedagogico europeo, come Ovide Decroly, e fondò,
nel 1912, a Ginevra il famoso Istituto Superiore di scienze dell’educazione intitolato a J.J. Rousseau,
allo scopo di migliorare la formazione Pedagogica e Psicologica degli insegnanti, nel quale
lavoreranno anche A. Ferrière e J. Piaget, ⇒ è riconosciuto come il fondatore del Funzionalismo
pedagogico, che si affianca a quello psicologico.
Claparède, con la sua concezione biologica della vita psichica, si interroga sulle “funzioni” (a che
cosa serve?) dei vari processi vitali, fino alla scoperta che l’attività umana, e dunque l’attività
infantile, nascono dai bisogni così come si esprimono negli interessi che alimentano l’intero sviluppo.
L’attività è vitale, significativa per il bambino, se nasce da un bisogno, se è sostenuta da un suo
interesse reale.
È la scuola del bisogno-interesse, della centralità dell’alunno, dell’attivismo radicale che si definisce
con John Dewey negli Stati Uniti, nella Scuola sperimentale di Chicago. Questo il nucleo intorno al
quale deve ruotare l’intero processo educativo secondo Claparède, rappresenta la posizione teorica
più avanzata dell’attivismo europeo.
Le sue opere principali sono: Psicologia del fanciullo e pedagogia sperimentale (1909), la scuola su
misura (1920) e l’educazione funzionale (1931).
In particolare, Claparède riporta nell’ambito della pedagogia gli aspetti della psicologia
funzionalistica e dell’evoluzionismo darwiniano. Pertanto, tutti i comportamenti degli esseri
viventi vanno letti alla luce del soddisfacimento di un bisogno.
Per Claparède la pedagogia è psicologia applicata. È una linea di tendenza, questa, che caratterizza
gran parte del pensiero pedagogico a cavallo tra Otto e Novecento. Se la pedagogia e i processi che
essa teorizza e attiva vogliono uscire dall’ astrattezza e dalle formulazioni generiche, è necessario che
vadano alla ricerca di fondamenti scientifici nelle scienze che stanno nascendo, nella psicologia e in
qualche caso nella sociologia.
Ora, se si pone attenzione alla pedagogia in atto, alla vita di scuola e ai rapporti
di insegnamento/apprendimento, quello che emerge è che il tutto si svolge secondo una tradizione
plurisecolare: l’ambiente sembra costruito apposta per soggetti passivi (disposizione dei banchi, della
cattedra, dei sussidi didattici); la modalità di comunicazione è unidirezionale, caratterizzata dalla
lezione (o, per converso, dalla interrogazione, chiamata a ripetere la lezione); i contenuti di
insegnamento sono uniformi e predeterminati nei programmi scolastici.
Celebre è il suo giudizio sulle scuole tradizionali, quelle prima della rivoluzione educativa proposta
dal movimento dell’attivismo epdagogico: «La storia della pedagogia, colma di tedio e desolazione,
[…] dovrebbe al contrario diventare un’epopea palpitante, quando la si consideri come il quadro
delle rivolte successive che ha fatto nascere, tra ponderati osservatori, contro la visione di un regime
educativo contro natura, che soffoca la vita, andando contro il fine stesso dell’educazione, che è
quello appunto di dischiudere la vita» (L’educazione funzionale).
Vedi anche ⇒ Attivismo fondato su bisogni e interessi

Attivismo fondato su bisogni e interessi


La scuola del passato, dunque, nega la vita e ne nega anche i presupposti. L’attività umana, e quindi
l’attività degli alunni, se è attività motivata ha alle proprie spalle una carenza da colmare, un bisogno
e un interesse da soddisfare: qui l’attività è tutta eterodiretta, si svolge senza partecipazione dei
soggetti, impostata e regolata da altri che non sono il bambino.
Il funzionalismo – chiarisce Claparède – dimostra che la scuola che ci è stata lasciata dalla tradizione
non ha nulla di scientifico, anzi è combinata in una maniera che non potrebbe essere più lontana dalla
scienza. Quando l’attivismo pedagogico sostiene la centralità dell’alunno e vuole costruire
rapporti didattici puerocentrici, esso è nel giusto, e cioè opera secondo le vedute della scienza
psicologica, purché le attività di cui parla l’attivismo siano attività autentiche, vitali, significative per
il bambino, aventi origine dai suoi bisogni e dai suoi interessi.
È come dire che l’attivismo pedagogico deve sviluppare le proprie premesse e deve svilupparle fino
in fondo, non arrestandosi a metà strada per ascoltare le lamentele di chi vi vede compromessi i
contenuti culturali o gli stessi scopi dell’istruzione. Abbiamo scoperto che bisogni e interessi sono
funzionali all’ attività dell’alunno. È un dato scientifico. È la via che la scuola deve intraprendere
con assoluta decisione.
Adolphe Ferrière – i principi dell’attivismo pedagogico
Adolphe Ferriere – attivismo pedagogico europeo e sui principi
Adolphe Ferriere rappresenta la figura di riferimento fondamentale dell’attivismo pedagogico
europeo.
Abbiamo visto cosa si intende per attivismo pedagogico.

L’attivismo pedagogico presenta inoltre, una forte valorizzazione del fare nell’ambito
dell’apprendimento: al centro del lavoro scolastico ci devono essere le attività manuali, il gioco e il
lavoro. Ogni apprendimento deve essere legato ad un interesse da parte del bambino, e quindi deve
essere mosso da una sollecitazione proveniente dai suoi bisogni emotivi, pratici e cognitivi.
Conoscitore profondo delle innumerevoli scuole nuove che fioriscono in Europa e in America all’
inizio del Novecento, divulgatore e propagatore delle loro iniziative «attive», nel 1899 fonda l’Ufficio
internazionale delle scuole nuove al fine «di stabilire rapporti di reciproco aiuto fra le varie “scuole
nuove”, di raccogliere i documenti della loro vita, di mettere in valore le esperienze fatte da questi
laboratori della pedagogia dell’avvenire».
Possiamo sintetizzare alcuni principi fondamentali dell’attivismo pedagogico in:

1. – educazione dell’uomo e del cittadino (legame fortissimo tra attivismo pedagogico e


DEMOCRAZIA)
2. – espressione dell’energia vitale del fanciullo;
3. – rispetto dell’individualità singolare;
4. – spontanea espressione degli interessi
5. – si impara nella situazione concreta e con l’esperienza diretta;
6. – attenzione alle fasi di sviluppo psico-cognitivo (attenzione a quando il bambino può capire
certe cose – come direbbe Piaget;
7. – atteggiamento cooperativo;
8. – coeducazione;
Dalle scuole attive e dalla formalizzazione di Ferrière nasce il termine attivismo.

Adolphe Ferrière ⇒ Lega internazionale per le scuole nuove


Adolphe Ferrière, il padre dell’attivismo pedagogico e Lega
internazionale per le scuole nuove
Adolphe Ferrière, padre dell’attivismo pedagogico europeo, prende ispirazione non solo
da Rousseau e da Dewey, ma anche dal filosofo Bergson, da cui riprende il concetto di slancio vitale.
In occasione del Primo congresso internazionale dell’educazione nuova, tenutosi a Calais nel 1922:
fonda la Lega internazionale per le scuole nuove, che si propone nuovi principi pedagogici:
1. rispetto del fanciullo,
2. rispetto della sua energia vitale e della sua spontaneità;
3. attenzione alle fasi di sviluppo;
4. atteggiamento cooperativo e co-educazione.
A lui si deve la diffusione del termine “scuola attiva“, che fu usato per la prima volta nel 1917 da un
altro pedagogista della scola di Ginevra, Pierre Bovet. Per lui:
 L’educazione attiva deve sviluppare lo slancio vitale spirituale del bambino
 L’evoluzione del bambino ricapitola l’evoluzione della specie. Ossia in essa vengono
ripercorse le tappe dell’evoluzione della specie umana nella sua intera storia
 La capacità di conoscere del bambino è legata all’apprendimento attraverso l’interesse.
L’interesse si sviluppa diversificandosi nelle varie età, secondo un ritmo ed uno svolgimento propri
di tutti gli individui. Attraverso questo sviluppo il bambino conquista la sua autonomia, a patto che
possa esprimere attitudini e capacità spontanee individuali nell’ambito di attività sociali: soltanto la
partecipazione attiva alla vita del gruppo e della comunità lo mette in grado di assumere
iniziative responsabili. Tali iniziative, nella pratica scolastica, si concretano nelle forme
dell’autogoverno e sorgono soprattutto in connessione con le attività manuali.
Vi è quindi nel pensiero di Ferrière l’ideale di impostazione democratica, ideale che si rafforzò poi
in relazione alle vicende storiche del Novecento. Tali principi sono accolti da Claparède, che
dell’attivismo di Ferrière condivide l’esigenza di rovesciare la struttura pedagogica della scuola
tradizionale con una rivoluzione copernicana volta a porre l’alunno al centro del processo
educativo.
Al bambino passivo di ieri egli intende sostituire il bambino attivo e attore del proprio sviluppo; ai
contenuti di programmi predefiniti, il bambino competente e costruttore del proprio sapere; al
verbalismo e all’intellettualismo, il bambino che fa e apprende attraverso il fare.
Claparède, però, rimprovera a Ferrière di non basare la scuola attiva su fondamenti psicologici
scientificamente adeguati e di essere ambiguo su quello che si intende per “attività”. Claparède però
sarà scettico rispetto al concetto di slancio vitale a cui si richiama Ferrière, riprendendolo dal filosofo
Henri Bergson.
Ferrière colloca lo slancio vitale al centro del processo di crescita e di potenziamento individuale
attraverso l’adattamento all’ambiente, e quindi nel cuore dell’educazione. «Fondamenti basilari
della Scuola attiva – dichiara Ferriere – sono dunque lo slancio vitale del fanciullo e la sua attività
spontanea; la meta a cui mira la Scuola nuova è l’infinito accrescimento di questa energia spirituale,
accrescimento non di sola quantità, ma soprattutto di qualità nel contatto sempre più stretto coi
valori universali e permanenti dello spirito. L’educazione si svolge tra quel punto di partenza e
questo punto di arrivo. Essa prende, dunque, le mosse dal fanciullo vivo, cioè non da quello concepito
in abstracto, o visto attraverso le statistiche della psicologia sperimentale».
In queste ultime parole è condensato il senso della diversa visione dei due pedagogisti.

Cousinet: educare in gruppo per favorire la socialità. I gruppi di lavoro


Cousinet: educare in gruppo per favorire la socialità. I gruppi di
lavoro
Cousinet fu un pedagogista francese promotore nel 1920 di un rinnovamento dell’educazione,
denominato nouvelle éducation, e ideò un metodo che da lui prese nome, secondo il quale
l’educazione è un “lavoro armonico da compiere a squadre”.
Il metodo che egli propone si basa sul principio del lavoro di gruppo.

Messo a punto nel 1920, chiaramente influenzato dall’attivismo e dall’educazione nuova di E.


Claparède e A. Ferrière, prevede la formazione di gruppi di lavoro, creati spontaneamente dai
bambini in risposta agli stimoli dell’interes se, in cui le materie di insegnamento si trasformano in
attività libere. Esse vengono distinte in due direttrici principali: attività di creazione (lavoro manuale
in genere) e di conoscenza (lavoro storico, geografico, linguistico, ecc.).
Fondamentale l’importanza data all’attività di socializzazione, tramite cui il bambino può superare
l’iniziale contrasto fra individualità ed essere sociale e giungere alla maturazione attraverso la
spontanea – seppure guidata – collaborazione con i propri compagni.

Secondo Cousinet l’insegnamento tradizionale ha il doppio limite di impedire l’individuazione e di


non favorire la socialità.
Il lavoro scolastico dovrebbe essere compiuto in un ambiente stimolante per la mente, ma anche
adeguato allo sviluppo delle relazioni con gli altri. Il gruppo permette di raggiungere entrambi gli
obbiettivi. Con il metodo di lavoro libero per gruppi, gruppi liberi svolgeranno l’attività di
apprendimento. Una didattica efficace richiede che i gruppi si formino liberamente, secondo le
simpatie e le predisposizioni dei fanciulli, può capitare che inizialmente cambieranno spesso gruppo.

La vita di gruppo è una straordinaria fonte di esperienze, confronto e crescita comune, sia sotto il
profilo emotivo che sotto quello intellettuale, ma presenta anche caratteri di conflittualità. Tuttavia il
gruppo è in grado di gestire tale conflittualità.
La classe di Cousinet è organizzata con una notevole quantità di materiale e strumenti didattici, in
modo che ogni gruppo possa procedere autonomamente. Poiché il lavoro è basato innanzitutto sulla
ricerca, documenti appositi divisi per materie, sono gli strumenti principali a disposizione dei gruppi.

Il nuovo metodo comporta una “ristrutturazione” della figura dell’insegnante, che non deve più
presentarsi come onnisciente e portatore di autorità, ma come adulto ragionevole e responsabile, che
lavora accanto ai propri allievi sostenendoli nella loro attività.

Egli quindi non dovrà guidare gli allievi nella ricerca, ma solamente aiutare, dovrà riconoscersi il
ruolo di collaboratore dei gruppi.

Fra le opere di Cousinet si ricordano: La vie sociale des enfants (1950) e La vie sociale et le travail
par groupes (1956).

Célestin Freinet ⇒ la pedagogia popolare e del buon senso


Célestin Freinet: pedagogia popolare e del buon senso
Célestin Freinet è un esponente dell’attivismo pedagogico francese. Freinet era convinto che la
«liberazione pedagogica» sarebbe partita dal basso, dagli stessi educatori.
Sulla rotta degli altri pedagogisti dell’attivismo e delle scuole nuove quali
ricordiamo Dewey, Claparède, Cousinet, Decroly, Montessori, non volle mai considerarsi
l’esponente di una corrente, ma un semplice maestro.

Mutilato di guerra, non potendo usare la voce nell’insegnamento e quindi gridare per farsi capire ed
insegnare pensò ad altre tecniche pedagogiche. Egli fu il fautore di una scuola e di una pedagogia
moderne, che sostituivano all’autorità del maestro, alla netta separazione tra scuola e vita, la libera
espressione dell’alunno e il mantenimento del legame tra realtà scolastica e realtà pre-scolastica.
Alla base di questo movimento innovatore vi furono alcune ragioni. Innanzitutto le condizioni di
salute di Freinet: egli, invalido di guerra per ferite ai polmoni, non poteva praticare quella che definiva
una “pedagogia della saliva“, ovvero la tradizionale conduzione della classe in cui il maestro “domina
con la voce la passività degli scolari”.
Egli sviluppa due concetti fondamentali:
1. quello di una “pedagogia popolare” l’educatore deve coinvolgere tutti i suoi alunni non solo
quelli bravi e che lo seguono, e a dare a tutti gli strumenti per la loro “liberazione”.
2. una “pedagogia del buon senso“, in cui la natura e la realtà rurale danno insegnamenti alla
scuola e ai suoi educatori.
Il docente deve cercare con difficoltà di mantenere viva la loro attenzione e per farlo deve
assecondare il naturale sviluppo del bambino e per suscitare il suo interesse, l’alunno doveva poter
fare e sperimentare, non semplicemente ascoltare e riprodurre modelli già costituiti.
La sua fede marxista, come poi sarà quella di Anton Semenovič Makarenko che fu invece uno dei
fondatori della pedagogia sovietica, lo portava a credere nella scuola come nell’unica possibilità di
riscatto sociale per tutti gli uomini attraverso l’esercizio della parola, la sollecitazione delle strutture
cognitive, l’attività manuale, forma anch’essa di cultura e di sviluppo di conoscenza (la stessa idea
che sarà poi di Don Milani).
Se Makarenko sviluppo ed elaborò la teoria dei collettivi autogestiti e introdusse il concetto di lavoro
produttivo nel sistema educativo, Célestin Freinet credeva che la scuola come nell’unica possibilità
di riscatto sociale per tutti gli uomini attraverso l’esercizio della parola, la sollecitazione delle
strutture cognitive, l’attività manuale, forma anch’essa di cultura e di sviluppo di conoscenza. Egli
poneva al centro del processo educativo il bambino, con i suoi interessi, le sue aspirazioni, i suoi
bisogni; il che non significava spontaneismo, ma concezione dell’educando come soggetto attivo e
interessato.
Per Freinet, inoltre, doveva esserci continuità tra scuola e vita.
Quello che Freinet propone con la sua pedagogia moderna non è un metodo ma delle
tecniche (Freinet, 1969): il metodo appartiene al suo ideatore e non è modificabile, le tecniche sono
dei suggerimenti che gli insegnanti possono variare in base alle loro esigenze. Le tecniche della
proposta Freinet costituiscono «un complesso armonico […] in cui ognuna è lo sviluppo naturale e
necessario della precedente» (ivi, 1969, p. XVI). Esse mettono in luce il ruolo centrale che il
materiale e la sua attenta preparazione hanno per Freinet.
Vedi⇒ le principali tecniche di Freinet
Freinet: le principali tecniche
1. La “lezione passeggiata“: prima tecnica per collegare la scuola alla vita, prevedeva l’uscita da
scuola per andare a osservare la campagna e il villaggio. Al rientro in classe, dopo aver discusso di
quanto osservato, veniva scritto il resoconto della passeggiata.
2. Il “testo libero“: gli alunni lo scrivevano per raccontare propri vissuti, esperienze, emozioni. La
sua forza motivante risiedeva nel fatto che esso veniva scritto per essere letto alla classe. Tra tutti i
testi se ne sceglieva uno che sarebbe stato stampato e utilizzato per la corrispondenza interscolastica.
Il testo libero motivava inoltre all’esercizio della lettura – non più estranea all’interesse di alunni e
maestro – e dava l’avvio ad ulteriori attività.
3. La “stampa“: permetteva di produrre quello che oggi chiameremmo un artefatto, in cui non solo
si concludeva e conservava il lavoro dell’alunno, ma che consentiva l’apertura verso l’esterno, con la
corrispondenza interscolastica.
4. La “corrispondenza interscolastica“: era un’ulteriore fonte di motivazione alla scrittura. Le classi
delle scuole che vi partecipavano si scambiavano settimanalmente un testo libero scelto e stampato.
L’unione dei testi stampati di un anno costituiva il giornale di classe e il “libro di vita” (Freinet, 1969;
1974).
Freinet ⇒ educatore e pedagogista

Janusz Korczak ⇒ Magna Charta Libertatis dei diritti del bambino

Janusz Korczak – Magna Charta Libertatis dei diritti del bambino


Janusz Korczak – nome d’arte di Henryk Goldszmit – nacque a Varsavia nel 1878 in una famiglia
ebrea ben integrata; ribelle fin dall’infanzia, non sopporta la suddivisione in classi e vuole aiutare
soprattutto i bambini poveri. Pedagogo, ma anche scrittore, autori di testi, fondatore di scuole, lavorò
inoltre alla radio conducendo la trasmissione Le piccole conversazioni del vecchio dottore, durante le
quali rispondeva alle domande di genitori e educatori ed al teatro. Inoltre, scrisse per il teatro.
Korczak richiede la costruzione di una Magna Charta Libertatis dei diritti del bambino anticipando
di molti lustri la Carta Internazionale dei Diritti del Bambino. La pedagogia di Korczak è
caratterizzata dal “bisogno di donare amore”.
Korczak, che fonda un orfanatrofio, pensa che la scuola sia una grande famiglia, di cui fanno parte
collaboratrici, assistenti e molti bambini poveri che hanno perso i genitori. Altra decisione
determinante di Korczak è non sposarsi e di non avere figli, motivata da un’amara considerazione:
«Uno schiavo non ha diritto ad avere bambini. Io, ebreo polacco sotto l’occupazione zarista, (nel
1911) ho scelto di servire il bambino e la sua causa» (come scrive in una lettera a Mieczysław
Zybertal del 30 marzo 1937).
La Casa dell’Orfano (Dom Sierot), fondata da Korczak e inaugurata il 27 febbraio 1913, è una vera
e propria “società dei bambini”, organizzata secondo i principi di giustizia, fraternità,
uguaglianza dei diritti e dei doveri tra alunni ed educatori. Le punizioni corporali vi sono bandite,
come tutti i metodi violenti, che a quel tempo prevedevano anche la privazione del cibo. Korczak nel
1923 definisce tali metodi di correzione “punizioni criminali”. Nel 1914 viene richiamato in
guerra e lascia per un periodo la direzione dell’orfanatrofio alla sua collega.
Nel 1921 istituisce un Centro per le vacanze estive per i ragazzi della Casa dell’Orfano a Gocławek,
vicino a Varsavia. Insegna ai bambini a occuparsi di giardinaggio e di agricoltura, teorizzando
l’importanza del lavoro per la crescita.

Nel 1929 pubblicò Il diritto del bambino al rispetto ed il suo celebre manifesto dei diritti dei
bambini: Prawo dziecka do szacunku (Il diritto del bambino al rispetto), un testo ancora insuperato.
Inizia a insegnare Pedagogia all’Università libera di Varsavia e pubblica un “libro scientifico” dai
contenuti molto avanzati: Prawidła życia (Le regole della vita).
Nel 1931 mette in scena al Teatro Ateneum uno spettacolo satirico dirompente: Senat Szalenców (Il
Senato dei folli), con il grande attore Stefan Jaracz nel ruolo principale, che le autorità comuniste del
dopoguerra autorizzeranno a rappresentare solamente nel 1978.
Viene ricordato anche perché è un caso esemplare di dedizione al mestiere di insegnante, egli si rifiutò
di abbandonare i suoi bambini, e accompagnò i bambini ebrei della sua scuola che i nazisti avevano
catturato. Sembra sia morto di dolore durante il trasporto.
Fu deportato nel campo di sterminio di Treblinka insieme a tutti i bambini ospiti dell’orfanotrofio
ebraico del ghetto di Varsavia.
I bambini uscirono dalla loro Casa vestiti con gli abiti migliori, ordinati, mano nella mano.

Il corteo era chiuso dallo stesso Korczak che badava a mantenere i bambini sulla carreggiata.

Pestolazzi ⇒ l’educazione del cuore


Pestolazzi e l’educazione del cuore – intuizione – cuore-testa-mano
Pestolozzi è uno dei classici della pedagogia. Diresse una scuola in Svizzera, negli istituti aperti da
Pestalozzi, si è formato anche un giovane educatore Frobel, che sarà anch’egli un importante
pedagogista.
Gli istituti di Pestalozzi così, poco alla volta cominciarono a diventare un importante punto di incontro
per tutti i pedagogisti e gli educatori europei.

Il concetto che ad ogni modo rimane centrale nel pensiero di Pestalozzi è il rapporto strettissimo
tra natura ed educazione, come già in Rousseau, è importantissimo che l’educando possa vivere
esperienze nel proprio contesto. La caratteristica prima di queste esperienze sarà che esse siano
fondate sull’intuizione.
Pestalozzi anticipa alcuni temi del cosiddetto attivismo pedagogico ed per altri termini anche la
concezione montessoriana dell’educazione come attività di libertà, fino al novecento quando Rogers
parlerà di “Libertà di apprendimento”.
Cuore, testa e mano possono essere ricondotti, in un linguaggio più moderno, alle tre aree
fondamentali dello sviluppo del bambino, ossia l’area affettiva (cuore), cognitiva (testa) e
psicomotoria (mano).
Se Rousseau riteneva che l’uomo fosse necessariamente buono (infatti parla di “natura inferiore”,
dominata da istinti e passioni animalesche); non era così per Pestalozzi.

Per Pestalozzi si doveva aiutare a tirare fuori il buono dal fanciullo, l’educazione perfezionare la
natura dell’uomo e che l’educatore non avesse che il compito di assisterlo durante la sua naturale
evoluzione secondo un’unità di cuore, mente e mano. Punto chiave del pensiero pedagogico di
Pestalozzi nella formazione spirituale dell’uomo come unità di cuore, mente e mano:
l’educazione morale, quella intellettuale e quella professionale, tra loro strettamente congiunte.
Sosteneva che l’uomo attraversasse tre stadi evolutivi:

 naturale (nel quale segue le proprie forze istintuali),


 sociale (in cui la vita in comune lo obbliga a un riadattamento, non sempre positivo per
l’individuo)
 morale (il fine ultimo dell’uomo e dell’educazione: l’individuo si predispone al bene, alla
solidarietà verso gli altri e all’accoglienza di Dio nel proprio spirito).
Pestalozzi introdusse il concetto di educazione del cuore (educazione all’affettività, del sentimento)
e educazione familiare (es. Leonardo e Geltrude mostra la centralità nel processo educativo). Per lui,
l’ambiente deve essere un ambiente che fa proprie certe caratteristiche dell’educazione familiare e ne
era talmente convinto che ha deciso di riproporlo nella vita vera, aprendo degli istituti dove poter
accogliere dei giovinetti, e poterli istruire.
Per Pestalozzi, l’educazione è una finalità etica, anche perché in quegli anni molti erano i bambini
che a causa della guerra restavano orfani del padre, o erano sbandati o abbandonati. Il pedagogista da
questa esperienza giunge a concludere che non esiste solo un’infanzia materialmente abbandonata
(senza genitori e senza cibo) ma ne esiste anche una moralmente abbandonata (per cui nonostante i
bambini abbiano chi si prende cura di loro, non sono seguiti e non ricevono un’adeguata proposta
educativa) altrettanto pericolosa.

Grazie all’esperienza che va concretamente a realizzare nei suoi istituti, Pestalozzi raggiunge una
fama mondiale e influenza moltissima della cultura del suo tempo. Sono gli anni in cui si viaggia
spesso, e proprio da questi viaggi, e dai molti incontri che si sviluppano nuove idee e nuove frontiere
quali i viaggi pedagogici, fatti da pedagogisti alla ricerca delle grandi esperienze educative (o le
migliori) dove potranno toccare con mano l’offerta e le idee di un determinato Pedagogista o corrente
di pensiero.

In Come Gertrude istruisce i suoi figli, del 1801, secondo la quale è necessario sempre partire
dall’intuizione, dal contatto diretto con le diverse esperienze che ogni allievo deve concretamente
compiere nel proprio ambiente. Senza fondamento intuitivo ogni verità è per i ragazzi solo un gioco
noioso ed inadatto alle loro capacità. Partendo dall’intuzione Pestalozzi sviluppa una educazione
elementare che parte dagli elementi della realtà, sia nell’insegnamento linguistico sia in quello
matematico, analizzandoli secondo numero, forma e linguaggio.
Georg Michael Kerschensteiner ⇒ il valore pedagogico del lavoro

Georg Michael Kerschensteiner ed il lavoro: il valore pedagogico


del lavoro
Georg Michael Kerschensteiner pedagogista ed educatore tedesco.
L’educazione è al centro della relazione tra la persona e la società organizzata dallo Stato.

Lo Stato si deve far carico dell’educazione attiva e propositiva del fanciullo. Lo Stato doveva
educare al lavoro e non bisognava separare l’educazione intellettuale dall’educazione pratica-
manuale.
Si ricorda che il movimento dell’attivismo pedagogico vede impegnati tra gli altri:
1. John Dewey
2. Georg Michael Kerschensteiner (educare con il lavoro – educare al lavoro)
3. Heinrich Rickert (filosofia dei valori)
4. Paul Natorp (pedagogista sociale)
5. Johann Heinrich Pestalozzi
L’educazione per Kerschensteiner è un processo di cultura attiva. Il rapporto educazione-lavoro non
può essere tralasciato, il modello è quello del Laboratorio, caro ai pedagogisti dell’attivismo
pedagogico. Egli era a favore del lavoro manuale per le scuole primarie e del lavoro inteso come
ricreazione personale nelle scuole superiori. Sottolineava l’importanza di un fondamento concreto
dell’educazione e considerava il lavoro manuale un mezzo per l’acquisizione del senso sociale, e del
rapporto sano tra individuo e società.
Kerschensteiner richiamò l’educazione a un fondamento concreto – contro quello che diceva
HERBERT Johann Friedrich Herbart – è famoso come creatore della “scuola del lavoro”
(Arbeitsschule), nella quale il lavoro manuale è considerato non come fine (nel qual caso avremmo
una scuola di apprendistato) ma come mezzo in quanto sforzo, autoesame e acquisizione del senso
sociale
L’educazione personale diventa anche educazione al lavoro ed educazione sociale (finalità soggettiva
all’educazione), l’attività pratica assume utilità sociale, il lavoro insegna la coscienza del dovere
sociale. Celebre la massima in cui Kerschensteiner dice che si arriva alla cultura tramite il valore del
lavoro: “Formazione dell’essere individuale, acquisita mediante gli influssi della cultura, unitaria,
articolata, evolutiva che rende l’individuo stesso capace di servire alla cultura con un lavoro fornito
di valore obiettivo, e capace di partecipare spiritualmente ai valori obiettivi della cultura”.

Herbart e la pedagogia attiva come moralità

Johann Friedrich Herbart e la pedagogia attiva come moralità


Johann Friedrich Herbart (1776-1841) si pone il problema della pedagogia come disciplina
scientifica, autonoma, come le basi nell’etica e nella psicologia. Secondo Herbart bisogna
recuperare idee che sono proprie dell’estetica: libertà interiore, perfezione, benevolenza, diritto,
giustizia, in prativa NON bisogna educare al lavoro come diceva Georg Michael Kerschensteiner ma
ai valori, ai concetti superiori astratti. La pedagogia parte dalla formazione morale.
I valori possono essere imparati dall’istruzione e non dall’esperienza. L’istruzione non deve essere
erudizione (sapere tante cose, non per forza erudizione=saggezza, bontà), ma legata all’educazione
→ “Istruzione Educativa” → centralità dell’insegnante.

I VALORI non si imparano lavorando contro ciò che diceva invece Georg Michael
Kerschensteiner.
Ancora l’importanza dell’etica pone in primo piano il tema dell’educazione morale e del governo da
parte dell’educatore sul giovane studente. La ripartizioni in fasi pensata da Herbart è chiaramente di
origine kantiana, in quanto egli postula un piano di governo dove l’autorità dell’educatore domina
sull’alunno, un piano di istruzione quando si formano le idee e si delinea anche giudizio morale
dell’allievo stesso, per poi arrivare all’autogoverno che coincide con il fine dell’educazione in
quanto rappresenta la sintesi tra volontà e giudizio.
Herbart sostiene che la formazione del carattere del fanciullo dipenda dall’educatore, la moralità
dell’educatore si tramette all’educando, e questo l’educatore deve farlo usando i mezzi più appropriati
e tenendo presente delle circostanze esterne. Egli ha questo compito perché l’istruzione e
l’educazione generale è soprattutto formazione morale.

Se noi vogliamo, come educatori, plasmare il carattere dell’allievo dobbiamo puntare sul suo
desiderio e volontà di miglioramento, dobbiamo educarlo verso grandi ambizioni e grandi idee. Come
si fa a puntare su questo?

Bisogna anche prestare attenzione agli interessi dell’educando, che sono vari. Essendoci diverse aree
di interessi ci saranno anche diverse aree di apprendimento → multilateralità degli interessi: per
ognuno bisogna andare ad individuare la corretta area di apprendimento.

Il curricolo deve incrociare gli interessi dell’allievo. Ci sono 2 gruppi fondamentali di interessi (il
curricolo deve essere basato su):

Herbart immagina che il bambino quando viene al mondo è un essere in preda agli impulsi e senza volontà,
quindi serve un governo qualcuno che governi questi impulsi e aiuti il bambino a sviluppare una sua volontà.
Questo si può fare in 2 modi:
1. sorveglianza e minaccia → semplice ma poco efficace
2. autorità e amore, tipico del contesto famigliare

I. conoscenza: il bambino è interessato a conoscere. Si basa su attività teoretiche (di riflessione sulla
natura: interessi empirici o sulle idee: interessi speculativi) e su valutazione morale ed estetica (il
bimbo può avere degli interessi anche di questo tipo: perché quel quadro è bello?).
II. compartecipazione: rapporto con gli altri uomini e con Dio, andrò quindi a vedere gli interessi
religiosi. Gli uomini li posso considerare come singoli o come collettività → interessi sociali o
“simpatetici” (perché si sviluppa una simpatia per una persona piuttosto che un’altra).

L’allievo deve essere formato all’umanità ed alla moralità, la pedagogia coincide con l’
istruzione sulla base del presupposto che i veri valori etici sono quelli rintracciabili nella storia
culturale dell’umanità. Questa importanza attribuita all’etica porta l’autore a rintracciare lo spazio
proprio di quella che lui definisce scienza dell’educazione (pedagogia), collocato tra l’etica (vista
come il fine dell’educazione) e la psicologia (che fornisce i mezzi necessari a raggiungere i fini
educativi che ci si propone).
Questa tripartizione, e in particolar modo la prima fase del governo, è giustificata sulla base del fatto
che se la moralità dipende dall’istruzione sarà ovvio che prima che l’istruzione stessa sia completata
dovrà intervenire una morale esterna (quella dell’educatore) come guida del giovane formando.
Herbart inoltre pone l’analisi dei dati dell’esperienza al servizio di una struttura metafisica
dell’esperienza, fondata sull’assunzione di enti reali che possiamo cogliere solo nella loro
‘traduzione’ nel linguaggio delle manifestazioni fenomeniche
Herbart valorizza dunque da una parte l‘autorità, vista come autorevolezza e basata sulla superiorità
intellettuale e soprattutto morale dell’educatore, e dall’altra l’amore, che si pone, un po’
paradossalmente, come l’opposto del governo, in quanto volto a instaurare un rapporto di comunione
e non di subordinazione tra i due protagonisti della scena educativa (insegnante e alunno).

I pedagogisti italiani di inizio Novecento

Giovanni Gentile – un filoso che scrive di pedagogia


Tra filosofia e pedagogia di Giovanni Gentile
Giovanni Gentile è stato un filosofo e pensatore, non è un pedagogista, ma ha scritto il Sommario di
pedagogia come scienza filosofica nel 1913, ed è stato Ministro della Pubblica Istruzione durante
l’epoca fascista oltre ad essere uno dei maggiori teorici del fascismo in contrapposizione con
Benedetto Croce. Difficilmente era pensabile di trovarlo in una preselettiva.
Era un filosofo ma scrisse due libri su educazione e didattica:

 la Pedagogia generale
 la Didattica
Di rado gli interpreti di Gentile guardano come a un punto di riferimento al suo lavoro di pedagogista,
ma è uscito in una domanda di TFA e per informazione abbiamo deciso di fare questo accenno.
L’indagine pedagogica consentiva infatti a Gentile di chiarire a se stesso le ragioni di un tema
filosofico che, guardando in modo inedito all’uomo e allo spirito chiamato a ritrarne concretamente
il volto. Gentile era un filosofo dell’idealismo.

Gentile riflette «a poco per volta l’intensa meditazione del problema dell’educazione» (Frammenti di
filosofia, a cura di H.A. Cavallera, 1994, p. 38). Nel gergo idealista, formando il fanciullo e l’uomo
si formava lo «spirito universale ed astratto» – erano considerati Filosofi dello Spirito – di cui la
pedagogia esplorava la «formazione» – il «soggetto» pensante che Gentile consapevole di sé nel
«mondo», ove si sprigionava «quell’aria frizzante e vivificante che è la gioia e la serietà della vita nel
suo spontaneo rigoglio» (Sommario, 1° vol., Pedagogia generale, 19344, p. IX) coglieva la Verità.

Lombardo Radice – scuola serena, didattica viva, idealismo


Lombardo Radice – La scuola serena e la critica didattica
LOMBARDO RADICE – pedagogista – direttore di un nuovo indirizzo pedagogico con la
rivista L’educazione nazionale, si ispirava all’opera del grande filosofo statunitense Ralph Waldo
Emerson, da Lombardo Radice considerato il “profeta dell’educazione nuova”, ha un’impostazione
teorica idealista
L’educazione era auto-educazione, interiorizzazione e sviluppo della vita spirituale; era unità fra
maestro e scolaro; l’autorità doveva agire nella coscienza (doveva essere riconosciuta e
accompagnare lo sviluppo degli altri).

Propose la cosidetta “scuola serena” dove si criticano i metodi prefabbricati, mentre l’allievo è aperto
ed interessato a tutte le esperienze, è senso concreto di ogni forma di istituzione educativa.

La pedagogia del Lombardo Radice, critico del fascismo dopo il delitto Matteotti, contiene una novità
importante: la critica didattica.
Tre concetti associabili:

1. didattica viva
2. scuola serena
3. didattica critica
opere: le Lezioni di didattica e L’ideale educativo, pone al centro della sua riflessione il rapporto
educativo a processo educativo nello scolaro – e questo «processo» riconducevano poi ad atti
educativi concretamente e tecnicamente determinati.

Giovanni Maria Bertin ed il problematicismo pedagogico


Giovanni Maria Bertin ed il problematicismo pedagogico
Giovanni Maria Bertin ha analizzato il problema educativo nella sua complessa fenomenologia,
anche attraverso un serrato confronto con le principali correnti filosofiche e pedagogiche
contemporanee e nella prospettiva di un’etica e pedagogia dell’impegno razionale.
Bertin segui Antonio Banfi nella corrente del Problematicismo filosofico, prima e pedagogico poi,
che usando il concetto kantiano di ragione, considera come la facoltà di un discernimento critico,
analitico, presupposto trascendentale che sistematizza l’esperienza, i dati empirici, non pervenendo a
dogmi. Il problematicismo è la posizione filosofica di quelle dottrine che rifiutano la possibilità per
l’uomo di raggiungere un sapere assoluto di tipo metafisico o la convinzione dogmatica di attingere
verità o principi metastorici ed eterni.
Per Bertin: la pedagogia deve essere orientata ad un’impostazione educativa concreta e determinata,
frutto di una scelta e adatta alla situazione, e pertanto risponde all’esigenza propriamente pragmatica
di determinare precisi obiettivi educativi.

Non solo questa deve usare metodologie didattiche adeguate ai concreti problemi sociali e culturali
insorgenti da un particolare momento storico.

Bertin ha lavorato sul senso aperto e problematico dell’alternativa pedagogica e della razionalità,
interessata a comprendere istanze conflittuali e problematiche in una continua tensione progettuale,
tenendo conto non la semplificazione e la riduzione del problema educativo ma la sua sostanziale
problematicità.

Ha lavorato alla dimensione del problematicismo in pedagogia al suo senso profondo e conflittuale.
Il problematicismo pedagogico è la formulazione più organica e compiuta della teoria del
problematicismo pedagogico.
Venuto a contatto con la filosofia critico-razionalista di Banfi, ne recepisce gli elementi di base e su
di essi fonda la teoria del problematicismo che trova la sua espressione più organica e matura nel
volume Educazione alla ragione, mentre all’analisi critica del pensiero del milanese dedica il
volume L’idea pedagogica e il principio di ragione in Antonio Banfi che nel 1925 fu tra i firmatari
del Manifesto degli intellettuali antifascisti, redatto da Benedetto Croce.
Senza troppo addentrarci all’interno della riflessione di Bertin, ci sembra utile e opportuno richiamare
la distinzione che egli fa, di carattere puramente metodologico, tra la filosofia dell’educazione e la
pedagogia, e che ricava dall’interpretazione degli scritti pedagogici di Banfi.
In base a questa distinzione, alla filosofia dell’educazione spetta essenzialmente il compito teoretico
della comprensione, mentre alla pedagogia tocca quello pragmatico della scelta educativa. Il modello
si basa sull’unità metodologica tra il momento teoretico e quello pragmatico, teoria e pratica.

Scrive Bertin: “La filosofia dell’educazione, orientata ad un’analisi dell’esperienza educativa in grado
di coglierne le differenti forme strutturali indipendentemente da presupposti e valutazioni particolari,
risponde all’esigenza puramente teoretica della comprensione dell’esperienza suddetta sul piano delle
linee che ne regolano il dinamismo trascendentale”.

opere: Introduzione al problematicismo pedagogico (1951); Etica e pedagogia


dell’impegno (1953); Esistenzialismo, marxismo, problematicismo nella pedagogia (1955); L’idea
pedagogica e il principio di ragione in A. Banfi (1961); Educazione alla ragione. Lezioni di
pedagogia generale (1968, 19754).

La pedagogia attivista italiana:


Maria Montessori – la manipolazione
Maria Montessori ed i principi fondamentali dell’educazione attiva
Maria Montessori fu solo una pedagogista, medico, scienziata, e soprattutto educatrice. Maria
Montessori divulga nel 1909 un volume che rimarrà alla base della pedagogia moderna: “Il metodo
della pedagogia scientifica applicato all’educazione infantile nelle Case dei Bambini”, incentrato
sull’ attenzione per la naturalezze del bambino.
È stata un’interprete dell’attivismo pedagogico; ha rivoluzionayo l’ambiente scolastico e rendere i
bambini liberi ed autonomi, rivelando in questo modo le loro grandi potenzialità.
Ha proposto e fondato sia le scuole che il Metodo Montessori utilizzato in diverse scuole materne,
elementari, medie, superiori in tutto il mondo.
Nel processo educativo, la Montessori parte da una critica della scuola del tempo e
dal riconoscimento della centralità del bambino. Vengono riconosciute al bambino capacità
creative e potenzialità morali. Occorre costruire un ambiente su misura del bambino, con materiali
adatti al suo sviluppo. La scuola montessoriana è un ambiente fatto su misura del bambino, anche
nei particolari dell’arredamento, con l’impiego di adeguati materiali di sviluppo.
“Il piccolo” scrive la Montessori, “rivela se stesso solo quando è lasciato libero di esprimersi, non
quando viene coartato da qualche schema educativo o da una disciplina puramente esteriore”.

Da qui i principi fondamentali del metodo montessoriano sull’educazione del bambino, tratti dal
libro “Educare alla libertà” di Maria Montessori.
10 principi basilari del Metodo montessoriano sull’educazione del bambino

1. Educare il bambino all’indipendenza


Il compito degli educatori e dei genitori è aiutarli a compiere da soli le loro conquiste. “La madre
che imbocca il bambino senza compiere lo sforzo per insegnargli a tenere il cucchiaio, non lo sta
educando.. Insegnare a mangiare, a lavarsi, è un lavoro ben più difficile che imboccarlo, lavarlo..”
2. Mai impedire a un bambino di fare qualcosa perché è troppo piccolo
Dimostrare fiducia e lasciargli svolgere i compiti più facili. I bambini sono appagati quando hanno
dato il massimo di cui sono capaci e vedono la possibilità di esercitarsi.
3. Abituare un bambino a fare con precisione è un ottimo esercizio per sviluppare l’armonia del
corpo.
I bambini sono istintivamente attratti dal compiere con esattezza determinate abilità. Uno degli
esercizi più adeguati proposti dalla Montessori è insegnare ai piccoli ad apparecchiare con
scrupolosità, servire a tavola, mangiare composti, lavare piatti e ricollocare le stoviglie.
4. L’educatore montessoriano deve essere un angelo custode che osserva e non interviene quasi
mai.
L’educatore deve rispettare il bambino che commette errori e guidarlo a migliorarsi da solo.
Palesemente l’educatore deve intercedere in modo deciso e fermo quando il bambino esegue
qualcosa di rischioso per sé e per gli altri.
5. Mai forzare un bambino a fare qualcosa.
Rispettare il bambino che si vuole rilassare da un’attività e si limita a osservare gli altri bambini
lavorare.
6. Educare al contatto con la natura.
Il sentimento della natura matura con l’esercizio.
“Se fate una passeggiata in montagna non prendete il piccolo in braccio, ma lasciatelo libero,
mettetevi voi al suo passo, aspettate con pazienza che raccolga un fiore, che osservi un uccellino…”
7. Innaffiare le piante e prendersi cura degli animali abitua alla previdenza.
Formate il bambino a prendersi cura degli esseri viventi. Le cure attente verso animali e piante sono
l’ appagamento di una delle inclinazioni più vivide.
8. Sviluppare i talenti e mai parlar male di un bambino.
Il maestro deve consolidare e accrescere ciò che c’è di positivo nel bambino, le sue qualità e i suoi
talenti, in modo che possa abbandonare sempre più i difetti. Mai parlare male del bambino, sia in sua
presenza che assenza.
9. L’ambiente scolastico deve essere a misura di bambino.
La scuola dev’essere un ambiente confortevole e familiare in cui tutto è configurato sulle necessità
dei piccoli. I materiali didattici devono essere intenzionalmente studiati affinchè ne incoraggiano lo
sviluppo intellettuale.
10. I bambini sono i viaggiatori della vita e noi adulti i suoi ciceroni.
Il bambino scruta le cose nuove e desidera capire il linguaggio a lui sconosciuto di chi lo circonda.
Gli adulti dovrebbero sostenere e incoraggiare questa loro predisposizione.
E’ più importante educare prima i sensi e poi l’intelletto. Il bambino deve avere la libertà di scegliere
che cosa vuole fare. Per far questo è necessario un ambiente ben preparato ed educatori pronti ad
aiutare il processo di crescita e di sviluppo.
Il concetto di esperienza, quale momento fondamentale del processo educativo, è anche per la
Montessori condizione ineliminabile per lo sviluppo del bambino.
Il ruolo dell’insegnante deve essere quello di aiutare il percorso educativo, preparando l’ambiente
in cui l’esperienza si compie. Come per il bambino, il cui apprendimento migliore avviene quando è
pronto per apprendere, così anche l’insegnante deve essere pronto a sua volta, sempre attento ai
segnali che riceve, per presentare nuovi materiali didattici. Maria Montessori è profondamente
convinta che ogni bambino abbia un potenziale umano che aspetta di trovare un proprio sbocco, se
sollecitato e valorizzato.

Il metodo Montessori e l’educazione cosmica


Nasce inizialmente per ragazzi in difficoltà, sia da un punto di vista sociale, sia da un punto di vista
strettamente cognitivo. In seguito, la Montessori estenderà l’applicazione del metodo a ragazzi che
non presentano particolari aspetti problematici.
La stesura de Il Metodo avvenne nell’estate del 1909 a Città di Castello, a seguire ci furono altre
edizioni (1913, 1926, 1935, e l’ultima nel 1950), in cui si presentava un’immagine positiva del
bambino, era stato individuato il metodo utile al suo sviluppo spontaneo e dimostrata una disponibilità
all’apprendimento culturale.
Secondo M. Montessori, vi sono delle caratteristiche universali e innate bio-antropoevolutive definite
dal figlio suo collaboratore, “tendenze umane”; quale ad esempio orientamento nell’ambiente, istinto
di conservazione, esattezza ed esplorazione.

Il segreto del successo del metodo Montessori è: fornire agli studenti il giusto materiale che possono
usare loro stessi, un tipo di materiale che stimoli il loro apprendimento autonomo con lo scopo di
educare l’intera personalità dello studente e ampliare il loro modo di pensare, in un ambiente sereno
e privo di fattori di stress. Il lavoro nelle Case dei Bambini si basa sul movimento all’interno di un
ambiente costruito a misura di bambino, con oggetti fabbricati per la sua forza ed il suo sviluppo,
adatti per l’utilizzo autonomo. Il bambino è libero di scegliere quale attività svolgere seguendo il suo
istinto, l’interesse e la concentrazione sono costantemente sostenuti.

L’adulto che rispetta la libertà del bambino si presta a diventare rispettoso della libertà in generale,
quindi il bambino diviene educatore dell’adulto.

L’educazione montessoriana è considerata, giustamente, “l’educazione per la vita”, un bagaglio


culturale da preservare dentro di noi.

Il metodo educativo Montessori illustra la libera attività all’interno di un “ambiente preparato”,


ovvero un ambiente educativo su misura per le caratteristiche umane di base e per le specifiche
caratteristiche dei bambini in età diverse. La funzione dell’ambiente è quello di permettere al
bambino di sviluppare l’autonomia in tutte le aree, in base alle proprie direttive evolutive
interne. Tutto deve scaturire dall’interesse spontaneo del bambino, sviluppando così un processo
di autoeducazione e di autocontrollo. La Montessori realizza del materiale di sviluppo cognitivo
specifico per l’educazione sensoriale e motoria del bambino e lo suddivide in:
 materiale analitico (peso, forma e dimensioni): educa i sensi isolatamente;
 materiale autocorrettivo: educa il bambino all’autocorrezione dell’errore e al controllo
dell’errore, senza l’intervento dell’educatore;
 materiale attraente (oggetti di facile manipolazione e uso): per invogliare il bambino
all’attività di gioco-lavoro.
Le attività di vita pratica sono adattate ai bisogni e alle manine dei bambini. Non è tanto importante
l’attività in se stessa quanto lo sviluppo (concentrazione, coordinamento, autonomia) che essa
consente al bambino in un ambiente predisposto. Le attività offrono al bambino occasioni uniche
per fortificare, rendere più precisi i suoi movimenti e pianificarli in modo ordinato. Il ruolo del
movimento è primario per lo sviluppo armonico del bambino piccolo.
Ai maestri consigliava di tenere lezioni individuali semplici e di breve durata in modo tale che i
bambini non si stancassero, ed insegnare ai bimbi a rispettare il silenzio (nelle cosiddette “lezioni di
silenzio”, il bambino impara a stare fermo e a sentire il suono del suo nome da lontano, a muoversi
piano in modo da non urtare altri oggetti.

Quando sarà in grado di orientare la sua volontà verso uno scopo, allora sarà obbediente e
disciplinato). I bambini dovevano fare ginnastica, in particolare all’aperto; si trattava più che altro di
un momento della giornata dedicata allo svago visto come gioco che li rendeva agili e robusti. Maria
Montessori conclude (Montessori, 1950: 681-682):

Diretti da un’intelligente maestra – per la Montessori – tanto nello sviluppo fisico come in quello
intellettuale e morale, i bambini possono con i nostri metodi, raggiungere non solo uno splendido e
rigoglioso organismo fisico, ma anche la magnificenza dell’anima umana.

Non a caso la Montessori sviluppa il concetto di educazione cosmica.


Durante il suo percorso formativo il bambino viene guidato attraverso delle tappe d’insegnamento
ben scandite e delineate. Dallo sviluppo sensoriale viene successivamente e progressivamente
introdotto l’insegnamento dell’Educazione Cosmica. L’educazione cosmica è un concetto
attraverso il quale si vuol condurre il bambino verso la scoperta della vita e l’amore per tutte le
creature e tutto il mondo. La conoscenza della cultura generale deve avvenire attraverso una serie
di scoperte che permettono per stadi di conoscenza ulteriori al bambino di capire i concetti astratti
complessi (ad esempio, a partire dall’esplorazione delle pietre, la meteorologia; delle sostanze, la
chimica, fisica; diremmo oggi di apprendimento significativo e dato dall’esplorazione delle realtà
terresti: ecologia, biologia, botanica, o siderali: astronomia; o di viaggio: geologia; geografia, etc.).
Questi e molti altri concetti vengono spiegati al bambino fino ad arrivare, progressivamente, agli
insegnamenti di storia, scrittura, lettura, matematica, geometria.

E’ un percorso formativo, quindi, che iniziando proprio dalle origini dell’Universo mostra al
bambino le varie nozioni di cultura. Educare sulla nascita degli esseri viventi e dell’uomo, sull’inizio
della scrittura e dei numeri sono tutte tappe ben organizzate nel tempo e vengono proposte al
bambino in modo tale da trasmetterglieli un vero interesse nel scoprirle e assimilarle
I nostri bambini sono notevolmente diversi da tutti gli altri fin qui conosciuti fra il gregge domo delle
scuole: essi hanno l’aspetto sereno di chi è felice e la disinvoltura di chi si sente il padrone delle
proprie azioni. Quand’essi corrono incontro ai visitatori, parlano loro con franchezza, stendono con
gravità la manina minuscola per una cordiale stretta di mano, quando ringraziano della visita ricevuta
più col brillare degli occhi che con la voce squillante: danno l’illusione di piccoli uomini straordinari.
Quando mostrano le loro abilità sono commoventi in modo, che scuotono veramente le anime”.

⇒ La pedagogia incarnata da Montessori alle ricerche contemporanee


La pedagogia incarnata e l’educazione dei sensi
La pedagogia incarnata – Cognizione “incarnata” ed educazione dei sensi
La pedagogia e la didattica del Novecento è legata alla educazione dei sensi del bambino piccolo,
quale via maestra verso lo sviluppo dell’intelligenza adulta; e, per altro verso, alla messa a punto di
un materiale strutturato volto a sottrarre l’apprendimento dei bambini alla casualità, orientandolo
bensì all’acquisizione di abilità analiticamente individuate.
Gli studi condotti da Montessori nel campo della medicina e della psicologia sperimentale nonché il
lavoro di ricerca e di educazione con i bambini mentalmente deficienti l’avevano convinta che,
nell’infanzia, la costruzione della mente e della conoscenza si realizza in modo affatto diverso rispetto
a quel che accade per l’intelligenza adulta. Si realizza, cioè, attraverso processi complessi
di assorbimento dell’ambiente all’interno della vita psichica del bambino. L’esplorazione
dell’ambiente e l’esperienza multisensoriale e logica al suo interno consentono al bambino di
acquisire fatti, parole e idee del proprio mondo. Tale acquisizione si realizza dapprima in modo
inconscio, perché subordinata al contemporaneo processo che il bambino sta realizzando di
costruzione delle proprie facoltà mentali: “Il bambino subisce (…) una trasformazione: le impressioni
non solo penetrano nella sua mente, ma la formano. Esse si incarnano in lui. Il bambino crea la propria
“carne mentale”, usando le cose che sono nel suo ambiente.” (Montessori 1952, 1999, p. 25)
Successivamente, grazie all’esercizio auto-costruttivo che egli compie attraverso il proprio corpo,
operando direttamente – attraverso i sensi e il movimento – sulle cose del proprio ambiente di vita, il
bambino trasforma gradualmente le conoscenze assorbite prima in forma confusa e inconsapevole in
conoscenze organizzate e pienamente coscienti.

In questo quadro, si staglia la grande intuizione montessoriana che fa da sfondo necessario alla
ideazione del “materiale di sviluppo” per l’educazione dei sensi, ossia che ogni apprendimento
è apprendimento incarnato in azioni situate in un determinato ambiente.
È, questa, una intuizione che senz’altro prendeva le mosse dall’idea deweyana del “learning by doing”
ma che – a mio avviso – giunge a produrre i suoi frutti maturi solo alla luce della profonda sensibilità
ed esperienza biomedica e antropologica che da sempre permeavano l’attenzione pedagogica di Maria
Montessori.

Non è forse un caso che tali convinzioni siano tornate in primo piano, imponendosi alfine
all’attenzione della pedagogia e della didattica del Ventunesimo secolo, nelle nuove formulazioni
argomentate – a partire dagli ultimi decenni del Novecento – nell’ambito degli studi biologici,
neurobiologici, neuropsicologici e robotici (2).

Al cuore della proposta di Montessori non vi è tanto il fatto di riconoscere come l’affinamento dei
sensi costituisca parte irrinunciabile del patrimonio conoscitivo di ogni essere umano. Vi è, piuttosto,
e più profondamente, il riconoscere la funzione evolutiva svolta dal corpo in azione sull’asse dei
processi auto-costruttivi dell’intelligenza.
In altri termini, potremmo dire che gli apprendimenti sensoriali fungano per il bambino, sin dalla
nascita, da organizzatori cognitivi: tasselli preziosi e irrinunciabili per attivare, orientare e affinare
progressivamente l’intero apparato delle funzioni cognitive specie-specifiche.
Tutti i bambini, afferma Montessori, utilizzano comunemente e spontaneamente i sensi
come organizzatori cognitivi ma è compito della scuola, attraverso opportuni strumenti
scientificamente testati, facilitare, promuovere e ottimizzare tali processi auto-costruttivi: “(…) a
questo punto, comincia il processo di autoeducazione. Lo scopo non è esteriore; sarebbe a dire, non
è che il bambino impari a mettere a posto i cilindri e che egli impari ad eseguire un esercizio. Lo
scopo (…) è che il bambino si eserciti ad osservare; che gli sia permesso di fare confronti fra gli
oggetti, formare giudizi, ragionare, decidere; ed è nell’indefinita ripetizione di questo esercizio di
attenzione e di intelligenza, che si compie il vero sviluppo”. (Montessori 1921, 1970, p. 58)
Si tratta di osservazioni che – è cosa nota – hanno fatto la storia della pedagogia scientifica oltreché
permeare profondamente e indelebilmente la didattica contemporanea.

Tuttavia, i principi dell’educazione multisensoriale di Maria Montessori si prestano oggi a inedite


attualizzazioni.

Difatti, tali principi – come già detto, messi a punto da Maria Montessori partendo dagli studi
pionieristici di Itard e Séguin sui minorati psichici e poi affinati nel corso dei lunghi anni passati dalla
studiosa a perfezionare un metodo rivolto ai bambini normali – si stanno rivelando negli ultimi
decenni particolarmente ricchi di importanti ricadute nel campo del trattamento dei soggetti adulti
con demenza.
Gli studi in questo campo pongono il focus sulla possibilità di utilizzare i principi della didattica
montessoriana con gli adulti e con gli anziani, nella prospettiva di una formazione volta alla
promozione della salute per tutti e per tutta la vita.

Svariate ricerche, all’incirca a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, documentano come il
ricorso ai principi della didattica montessoriana sia in grado, accanto ad altre tecniche, di compensare
i danni cognitivi determinati da patologie neurodegenerative come la malattia di Alzheimer e altre
demenze nei bambini e nei disabili.

⇒ Alla luce della originaria, sinergica interazione, proposta da Maria Montessori, tra didattica
speciale e didattica tout-court e alla luce, anche, degli studi contemporanei sulla evolutività
intellettiva aperta degli anziani, molti sono gli studiosi che hanno studiato l’intima connessione tra
esercizio senso-percettivo e cinestesico (con l’insieme di cognizioni implicite e non dichiarative ad
esso connesso) ed elaborazione intellettuale appare non solo terreno quanto mai fecondo per il
trattamento non farmacologico delle demenze, ma anche irrinunciabile campo di ricerca e di
intervento per la formazione rivolta all’età adulta.

Lillard (2005) individua tali principi nella: inclusione del movimento e dell’apprendimento
sensoriale e motorio negli esercizi e nelle attività di rutine; garanzia di libertà e scelta da parte del
paziente all’interno di ambienti opportunamente strutturati per fornire un sistema ordinato di
sollecitazioni oltre che di sostegni sempre rispettosi del soggetto in azione; offerta di contesti e
opportunità d’azione rilevanti e significativi per la persona, ricchi a livello di relazioni empatiche,
collaborative tra paziente e trainer nonché tra gli stessi pazienti.
Cameron J. Camp è tra i primi studiosi che si sono avventurati nel campo della sperimentazione di
interventi non farmacologici, da affiancare a quelli farmacologici, per il trattamento delle persone con
deficit cognitivi. Egli, in un suo recente articolo (Camp, 2010), ripercorre la sua più che trentennale
attività, sintetizzando le tappe che hanno condotto alla messa a punto della versione finale del
Programma Montessori per la Demenza (MPD) (3).
I dati che offre alla comunità scientifica appaiono chiari: le tecniche Montessori sembrano molto
adeguate per le persone con demenza. Ogni lezione viene prima presentata al suo livello più semplice
e ogni successiva lezione, aumentando in complessità, implica un mutamento nei concetti/capacità
precedentemente appresi. I materiali vengono tratti essenzialmente dall’ambiente quotidiano e sono
progettati per sollecitare e sostenere il soggetto che li utilizza a incrementare le proprie capacità di
vita indipendente. Le persone affette da demenza, infatti, hanno bisogno ambienti e attività strutturati
e ordinati in modo da essere aiutate a focalizzare la propria attenzione, via via, sugli aspetti particolari
rispetto ai quali sviluppare conoscenze e abilità. In tale prospettiva, le attività programmate sono
scomposte in passaggi più semplici che possono essere appresi e poi messi in sequenza (secondo la
progressione semplice-complesso, concreto-astratto), comportano un feedback immediato e un’alta
probabilità di successo, prevedono procedure di ripetizione guidata. Tale programmazione, inoltre si
avvale del ricorso alla memoria procedurale/non-dichiarativa/implicita piuttosto che alla memoria
dichiarativa/esplicita.

Tutto questo – in linea con il presupposto montessoriano di una educazione all’autonomia e alla
libertà dell’educando – è inserito in un quadro complessivo in cui ciascun soggetto è considerato nella
sua unicità di persona, da rispettare e valorizzare per quello che sono le sue propensioni e i suoi
interessi.
Lo strumento creato da Camp e dal suo staff per la valutazione degli effetti prodotti dal MPD è
costituito dalle MPES (Menorah Parco Engagement Scale) destinate a cogliere le caratteristiche
dell’impegno del soggetto durante le attività. Sono state individuate quattro categorie di impegno:
impegno Costruttivo (CE), che implica l’interazione diretta – verbale o fisica – tra la persona con
demenza e l’attività target (per es. il parlare sull’attività al direttore dell’attività); impegno Passivo
(PE) comporta il guardare l’attività senza prendere direttamente parte in essa. Sia l’impegno
costruttivo che l’impegno passivo sono considerati forme positive di impegno in quanto le persone
con demenza a volte hanno bisogno di guardare semplicemente un’attività prima di ottenere la fiducia
necessaria per iniziare a partecipare attivamente in un secondo momento. Il self-impegno (SE) è stato
definito come l’impegno con se stessi, piuttosto che l’attività target, come ad esempio il raccogliere
i propri vestiti, il parlare a te stesso, ecc. Il non impegno (NE) è stato definito come il sonno o sguardo
fisso nel vuoto per 10 secondi o più.
In uno studio iniziale, sono state effettuate osservazioni di 10 minuti ciascuna su nove persone con
demenza durante la programmazione basata sul metodo di Montessori e su dieci persone con demenza
durante la regolare programmazione di attività presso un centro sanitario diurno per adulti. Le persone
osservate durante la programmazione hanno mostrato una tipologia di impegno molto più costruttiva
e di impegno meno passivo di quanto non abbiano fatto le persone che seguono una comune
programmazione di recupero.

In un secondo studio, oltre a utilizzare i MPES, è stato adottato il Affect Rating Scale (ARS),
sviluppato da Lawton, Van Haitsma, e Klapper (1996), una misura standardizzata e validata del
piacere, rabbia, ansia/paura e tristezza. Ogni sessione di registrazione dei dati era focalizzata su una
sola persona. Questi pazienti con demenza avanzata hanno mostrato impegno molto più costruttivo e
impegno meno passivo, così come più piacere, durante le attività basate sul metodo, rispetto al gruppo
di controllo.
Questi risultati sono stati ulteriormente confermati (Cohen-Mansfield, Dakheel-Ali e Marx, 2009),
portando a ribadire che l’impegno è l’elemento cruciale nel qualificare la vita dei pazienti e,
conseguentemente, per valutare il successo degli interventi loro diretti.

Diversi sono gli studi successivi a questi primi di Camp, volti a sviluppare programmi di intervento
capaci di attualizzare le potenzialità dei principi della didattica montessoriana con pazienti affetti da
svariati tipi di demenza. Il più delle volte, si tratta di studi il cui limite riconosciuto è rappresentato
dal basso campione di pazienti preso in esame ma, nel complesso, essi costituiscono un punto di
riferimento assai interessante per la ricerca futura.

Lee, er (con basso e medio livello di demenza: 1 uomo e 5 donne, con età compresa tra 75 e 93 anni).
I leader sono stati utilizzati come guida nei gruppi presi in esame. Lo studio ha dimostrato che
pazienti con livello basso e medio di demenza possono con successo guidare le attività di piccoli
gruppi di pazienti.

Jarrott, Gozali, & Gigliotti (2008) hanno condotto una studio per vedere gli effetti dei metodi
montessoriani sui pazienti affetti da ADRD, di età compresa tra i 74 e 97 anni. Statisticamente si è
notato che il tempo riservato all’impegno e all’attenzione da parte dei pazienti, rispetto ai tempi di
impegno ed attenzione presenti durante altri tipi di attività, è significativamente più alto. Si è notato,
inoltre, che il tempo di non-attività da parte dei pazienti con demenza è diminuito.
Giroux, Robichaud, & Paradis (2010) hanno condotto uno studio su alcuni pazienti con moderata e
avanzata demenza coinvolti in programmazioni montessoriane. Essi hanno osservato che, quando le
attività proposte corrispondevano alle propensioni e ai bisogni delle persone trattate, si sono
verificate: una maggiore attività, il miglioramento della cura di se stessi, maggiori segni di
gradimento e di piacere.

Lin, Huang, Su, Watson, Tsai, & Wu (2010) hanno condotto uno studio su 82 pazienti affetti da
demenza per vedere se l’utilizzo dei metodi montessoriani contribuisse a rallentare le loro difficoltà
nell’alimentazione. I risultati dello studio hanno mostrato un significativo rallentamento delle
difficoltà nell’alimentazione e una conseguente diminuzione del bisogno di assistenza durante i pasti.

Mahendra, Hopper, Bayles, Azuma, Cleary, & Kim (2006) analizzano cinque articoli centrati
sull’utilizzazione dell’approccio montessoriano nel trattamento della demenza senile di Alzheimer.

I risultati clinici mostrano che le attività montessoriane apportano maggiori benefici sulle
performance cognitive dei pazienti, rispetto ai comuni programmi di riabilitazione. Dei cinque articoli
presi in esame, solo uno esegue test standardizzati e solo tre stabiliscono diagnosi affidabili di
demenza senile riconducibile ad Alzheimer. La conclusione cui pervengono gli autori è che il metodo
montessoriano risulta più efficace nei casi di demenza senile moderata e con soggetti con abilità visive
e uditive affidabili.

Camp e Lee (2011) hanno condotto una review di numerosi studi sull’utilizzazione di attività
montessoriane in programmazioni intergenerazionali che prevedono che anziani con demenza
svolgano il ruolo di insegnanti o mentori di bambini o il ruolo di collaboratori di persone con demenza
più severa. L’idea originale dell’approccio proposto deriva dall’osservazione condotta nelle scuole
montessoriane su bambini più grandi che danno lezione a bambini più piccoli. L’obiettivo è quello di
implementare ruoli sociali significativi per persone con demenza, di consentire agli adulti di utilizzare
con soddisfazione la loro esperienza e le loro capacità residue e di sollecitare adulti e bambini a fare
esperienza positiva dei processi di la trasmissione di conoscenza e capacità da una generazione
all’altra. Gli studi esaminati mostrato che persone con demenza possono svolgere con successo il
ruolo di insegnanti e mentori, interagendo efficacemente con bambini in età prescolare.
I principali aspetti della didattica montessoriana che si sono rivelati sinora efficaci nel condurre
pazienti con qualche tipo di demenza a ottimizzare le funzioni residue e a capitalizzare diverse altre
abilità.

I casi esaminati presentano programmi in cui un posto rilevante è assegnato, da una parte, all’attività
motoria e all’esercizio sensoriale; dall’altra parte, ad ambienti formativi significativi, in cui le persone
con demenza possono ricoprire ruoli sociali riconosciuti e valorizzati dalla collettività in cui operano,
mettendo a frutto le loro restanti abilità e competenze.
Tali esperienze ripropongono, oggi, con forza l’opportunità di lavorare attorno alle potenzialità
didattiche insite nei principi dell’educazione montessoriana.
Montessori: Il metodo Montessori ⇒ Parallelismi e affinità tra Dewey e Montessori

Maria Montessori ed i principi fondamentali dell’educazione attiva


Maria Montessori fu solo una pedagogista, medico, scienziata, e soprattutto educatrice. Maria
Montessori divulga nel 1909 un volume che rimarrà alla base della pedagogia moderna: “Il metodo
della pedagogia scientifica applicato all’educazione infantile nelle Case dei Bambini”, incentrato
sull’ attenzione per la naturalezze del bambino.
È stata un’interprete dell’attivismo pedagogico; ha rivoluzionayo l’ambiente scolastico e rendere i
bambini liberi ed autonomi, rivelando in questo modo le loro grandi potenzialità.
Ha proposto e fondato sia le scuole che il Metodo Montessori utilizzato in diverse scuole materne,
elementari, medie, superiori in tutto il mondo.
Nel processo educativo, la Montessori parte da una critica della scuola del tempo e
dal riconoscimento della centralità del bambino. Vengono riconosciute al bambino capacità
creative e potenzialità morali. Occorre costruire un ambiente su misura del bambino, con materiali
adatti al suo sviluppo. La scuola montessoriana è un ambiente fatto su misura del bambino, anche
nei particolari dell’arredamento, con l’impiego di adeguati materiali di sviluppo.
“Il piccolo” scrive la Montessori, “rivela se stesso solo quando è lasciato libero di esprimersi, non
quando viene coartato da qualche schema educativo o da una disciplina puramente esteriore”.

Da qui i principi fondamentali del metodo montessoriano sull’educazione del bambino, tratti dal
libro “Educare alla libertà” di Maria Montessori.
10 principi basilari del Metodo montessoriano sull’educazione del bambino

1. Educare il bambino all’indipendenza


Il compito degli educatori e dei genitori è aiutarli a compiere da soli le loro conquiste. “La madre
che imbocca il bambino senza compiere lo sforzo per insegnargli a tenere il cucchiaio, non lo sta
educando.. Insegnare a mangiare, a lavarsi, è un lavoro ben più difficile che imboccarlo, lavarlo..”
2. Mai impedire a un bambino di fare qualcosa perché è troppo piccolo
Dimostrare fiducia e lasciargli svolgere i compiti più facili. I bambini sono appagati quando hanno
dato il massimo di cui sono capaci e vedono la possibilità di esercitarsi.
3. Abituare un bambino a fare con precisione è un ottimo esercizio per sviluppare l’armonia del
corpo.
I bambini sono istintivamente attratti dal compiere con esattezza determinate abilità. Uno degli
esercizi più adeguati proposti dalla Montessori è insegnare ai piccoli ad apparecchiare con
scrupolosità, servire a tavola, mangiare composti, lavare piatti e ricollocare le stoviglie.
4. L’educatore montessoriano deve essere un angelo custode che osserva e non interviene quasi
mai.
L’educatore deve rispettare il bambino che commette errori e guidarlo a migliorarsi da solo.
Palesemente l’educatore deve intercedere in modo deciso e fermo quando il bambino esegue
qualcosa di rischioso per sé e per gli altri.
5. Mai forzare un bambino a fare qualcosa.
Rispettare il bambino che si vuole rilassare da un’attività e si limita a osservare gli altri bambini
lavorare.
6. Educare al contatto con la natura.
Il sentimento della natura matura con l’esercizio.
“Se fate una passeggiata in montagna non prendete il piccolo in braccio, ma lasciatelo libero,
mettetevi voi al suo passo, aspettate con pazienza che raccolga un fiore, che osservi un uccellino…”
7. Innaffiare le piante e prendersi cura degli animali abitua alla previdenza.
Formate il bambino a prendersi cura degli esseri viventi. Le cure attente verso animali e piante sono
l’ appagamento di una delle inclinazioni più vivide.
8. Sviluppare i talenti e mai parlar male di un bambino.
Il maestro deve consolidare e accrescere ciò che c’è di positivo nel bambino, le sue qualità e i suoi
talenti, in modo che possa abbandonare sempre più i difetti. Mai parlare male del bambino, sia in sua
presenza che assenza.
9. L’ambiente scolastico deve essere a misura di bambino.
La scuola dev’essere un ambiente confortevole e familiare in cui tutto è configurato sulle necessità
dei piccoli. I materiali didattici devono essere intenzionalmente studiati affinchè ne incoraggiano lo
sviluppo intellettuale.
10. I bambini sono i viaggiatori della vita e noi adulti i suoi ciceroni.
Il bambino scruta le cose nuove e desidera capire il linguaggio a lui sconosciuto di chi lo circonda.
Gli adulti dovrebbero sostenere e incoraggiare questa loro predisposizione.
E’ più importante educare prima i sensi e poi l’intelletto. Il bambino deve avere la libertà di scegliere
che cosa vuole fare. Per far questo è necessario un ambiente ben preparato ed educatori pronti ad
aiutare il processo di crescita e di sviluppo.
Il concetto di esperienza, quale momento fondamentale del processo educativo, è anche per la
Montessori condizione ineliminabile per lo sviluppo del bambino.
Il ruolo dell’insegnante deve essere quello di aiutare il percorso educativo, preparando l’ambiente
in cui l’esperienza si compie. Come per il bambino, il cui apprendimento migliore avviene quando è
pronto per apprendere, così anche l’insegnante deve essere pronto a sua volta, sempre attento ai
segnali che riceve, per presentare nuovi materiali didattici. Maria Montessori è profondamente
convinta che ogni bambino abbia un potenziale umano che aspetta di trovare un proprio sbocco, se
sollecitato e valorizzato.

Parallelismi e affinità tra Dewey e Montessori


1) entrambi sovvertono i modelli di scuola tradizionale, in quanto autoritaria e non attenta alle
potenzialità dell’allievo;
2) entrambi lavorano alla costruzione di una scuola nuova, democratica, dove tutti possano
sviluppare liberamente le loro specifiche potenzialità;
3) entrambi affermano la centralità del bambino, esaltandone la dignità e le caratteristiche
peculiari;
4) entrambi ispirano la loro pedagogia al concetto di esperienza concreta, nel significato profondo
di cui si è parlato in precedenza, quale momento essenziale per lo sviluppo della personalità;
5) entrambi rompono lo schema tradizionale docente-discente, che prevede una trasmissione del
sapere di tipo autoritario. A questo modello subentra quello dell’apprendimento attraverso
l’esperienza. La profonda fede nella scuola dell’esperienza è il messaggio
che Dewey e Montessori hanno consegnato al futuro dell’umanità.
Il pensiero filosofico e pedagogico di John Dewey
Il pensiero filosofico e pedagogico di John Dewey (1859 – 1952), considerato il padre
dell’attivismo pedagogico (espresso in molti lavori monografici, tra i quali si possono ricordare Il
mio credo pedagogico [1897], Scuola e società [1899], Come pensiamo [1910], Democrazia e
educazione [1916] e molti altri, fino a pochi anni prima della sua morte), ruota attorno ad una teoria
dell’esperienza, intesa come luogo di relazione e scambio reciproco e biunivoco tra il soggetto e
l’ambiente, uno scambio attivo e trasformativo: «Non può esistere l’individuo senza la relazione con
l’ambiente e, di conseguenza, non può esistere questa relazione senza il processo che lega in modo
significativo l’azione umana all’ambiente, perché ne determina le modificazioni reciproche e cioè
l’educazione. Una relazione, una transazione che è un vicendevole adattamento tra l’individuo e
l’ambiente, deve verificarsi anche nella cultura e nella civiltà umana, che rappresentano appunto
“attività” sia teoretiche che pratiche»

Agazzi: L’esperienza di educazione dei bambini di Agazzi: la pedagogia dell’infanzia italiana


Due pedagogiste italiane: le sorelle Agazzi e la scuola “materna”
Le sorelle Rosa Agazzi e Carolina Agazzi sono state due pedagogiste ed educatrici sperimentali
note come sorelle Agazzi.

Su suggerimento di Pietro Pasquali decidono di fondare una nuova scuola


materna a Mompiano nel 1896. Il modello della loro scuola ebbe molto successo e servì come
modello per la nascita di scuole successive che sorsero con il nome di sorelle Agazzi.

Promossero un metodo intuitivo e nuovi materiali didattici introdotti dalle sorelle Agazzi
I materiali didattici della scuola dell’infanzia proposti dalle sorelle
Agazzi
Materiale didattico:
 un giardino: con animali e piante.
 museo delle cianfrusaglie: una sala adibita a museo che raccoglie materiali ritrovati dai bambini come
spaghi, rocchetti e sassolini. Queste venivano definite dalle due sorelle “cianfrusaglie senza brevetto”,
perché erano materiali che i bambini stessi ritrovavano e che servivano affinché anche il materiale
didattico stesso non fosse preordinato e prestabilito, come invece avveniva nel metodo didattico
pensato da Maria Montessori.
 contrassegni: immagini di oggetti di uso comune che contrassegnano le proprietà dei beni individuali
dei bambini; hanno lo scopo di abituare il bambino a parole sempre più lunghe e complesse.

Il metodo intuitivo detto poi anche metodo Agazzi diviene il percorso principale dell’apprendimento:
l’educatore osserva il comportamento dei bambini e non impone regole a prescindere dall’ambiente
di apprendimento, dalla specificità della situazione e dell’allievo. L’educatrice agisce indirettamente
e pur rispettando la spontaneità del bambino, organizza e predispone ambienti e situazioni. Il metodo
intuitivo identifica l’insegnamento come un metodo per favorire le esperienze, in cui i bambini
apprendono direttamente e spontaneamente con il loro fare e osservare.
Il loro lavoro pedagogico, la loro sperimentazione ed esperienza didattica, ispirò la riforma
del 1968 con la legge n°444, che istituirà le scuole di Stato per l’infanzia.
Malaguzzi: Il metodo Malaguzzi: i bambini al centro del processo educativo

Il metodo Malaguzzi: gli studenti apprendono da se stessi


Il pedagogista italiano Loris Malaguzzi riteneva che quello che i bambini apprendono nei primi anni
di scuola è opera degli stessi bambini, che imparano ad utilizzare le risorse di cui sono dotati
naturalmente: “i bambini costruiscono la propria intelligenza. Gli adulti devono fornire loro le
attività ed il contesto e soprattutto devono essere in grado di ascoltare“.
I bambini sono considerati soggetti attivi e pensanti e, per questo, deve essere data a loro la
possibilità di mettere in pratica la loro inventiva. Non sono semplicemente i destinatari “di un sapere
imposto dall’alto”.
La scuola è per MALAGUZZI un cantiere aperto e laboratoriale nel quale i processi di ricerca tanto
dei bambini quanto degli adulti s’intersecano fortemente e, nello stesso tempo, si arricchiscono
reciprocamente.

Per questo nelle scuole che seguono il metodo pedagogico Malaguzzi, gli studenti vengono posti al
centro dell’organizzazione e coinvolti nella scelta di cosa fare giorno dopo giorno. Malaguzzi
ritiene che ogni studente, come creatore e portatore di conoscenze, è capace di costruirsi con le sue
potenzialità l’apprendimento futuro. Non possono, allora, essere imposte, nei nidi e nelle scuole
dell’infanzia, metodologie o strategie per far acquisire conoscenze.
I bambini imparano la realtà che li circonda, agendo e facendo, in maniera spontanea e naturale,
operazioni mentali di verifica, conferma o confutazione.

L’approccio di Malaguzzi come di tutto l’attivismo pedagogico, è l’idea, che è il soggetto che si
costruisce da solo la propria conoscenza, la conoscenza non si trasmette, ma si costruisce. Non è
qualcosa che passa da un adulto ad un bambino, ma che si ricrea negli ambienti di apprendimento.

Questo metodo è molto usato nelle scuole primarie: dove i bambini, che vengono riuniti in piccoli
gruppi, sono seguiti dalle maestre ed educatrici, ma allo stesso tempo sono lasciati liberi di ragionare
ed inventare nuovi giochi. Gli insegnanti ascoltano le loro proposte e collaborano tutti insieme per
aiutarli a realizzarli.
Per MALAGUZZI l’acquisizione della conoscenza è una costruzione personale di ogni bambino
attraverso l’impiego delle risorse di cui è dotato. Per MALAGUZZI ad esempio come scrive egli
stesso “i bambini costruiscono la propria intelligenza. Gli adulti devono fornire loro le attività e il
contesto e soprattutto devono essere in grado di ascoltare”.

Il costruttivismo ci dice che gli alunni operano un ruolo attivo nella costruzione e nell’acquisizione
della conoscenza e della comprensione della realtà. Come abbiamo visto nel modulo sulle teorie
dell’apprendimento, la teoria costruttivista ha messo in evidenza il valore dell’interazione sociale,
nel costruire le conoscenze, e il carattere situato dell’apprendimento, in rapporto all’ambiente entro
cui avviene, è stato soprattutto il costruttivismo.

I 4 principi di Malaguzzi:

1. – costruzione sociale della conoscenza;


2. – diversità e sulla molteplicità delle strategie nei processi dell’apprendere
3. – contesto di apprendimento;
4. – sulla centralità del soggetto che apprende;
L’apprendimento, di conseguenza, produttivo ed efficace solo con una pedagogia attiva.

Egli arriverà a scrivere che l’apprendimento è un piacere. La conoscenza è un piacere dell’essere.

“Il piacere dell’apprendere, del conoscere e del capire è, per come sostiene MALAGUZZI, una delle
prime fondamentali sensazioni che ogni bambino si aspetta dall’esperienza che affronta da solo o con
i coetanei e con gli adulti. Una sensazione decisiva che va rafforzata perché il piacere sopravviva
anche quando la realtà dirà che l’apprendere, il conoscere, il capire possono costare difficoltà e fatica.
È in questa sua capacità di sopravvivere che il piacere può sconfinare nella gioia”.

Il piacere di apprendere diventa, in tal modo, la nostalgia del futuro.

Le scuole basate sul metodo Malaguzzi sono in genere luminose, aperte e comunicanti tra loro.
Sono dotate di tavoli luminosi al nido, su cui i bambini possono “lavorare”, mentre nelle classi della
materna, viene installato un laboratorio creativo, con un educatore specializzato in attività artistiche
e manuali. Vi è infine una partecipazione attiva delle famiglie in tutte le attività della scuola.

Un’allieva americana della Montessori: Helen Parkhurst ed il piano DALTON


Helen Parkhurst ed il piano DALTON
Helen Parkhurst è stata una pedagogista e educatrice statunitense allieva di Maria Montessori, che
conobbe in Italia conobbe Maria Montessori e ne frequentò i corsi. Condivide con la Montessori
metodo e progetto educativo.
Fu la prima ad organizzare i programmi per compiti mensili, perché ogni mese le attività cambiano e
anche gli obiettivi cambiano, quindi deve essere molto importante e molto dettagliata.
La sua programmazione didattica era precisa, scientifica (ricordiamo che la sua maestra Maria
Montessori era laureata in medicina ed era un medico), la divisione degli obiettivi didattici fatta per
ore da dedicare ad ogni obiettivo. Per Helen Parkhurst tutto deve essere suddiviso in piccole parti
da spartire nelle varie ore e all’interno del mese stesso. Questo nella forma di un vero e proprio
accordo-contratto docente-alunno-insegnante.
Dopo il contratto per quanto riguarda il processo di individualizzazione ogni alunno potrà poi seguire
i propri ritmi e scegliere in quali orari della giornata lavorare, con quali materiali e come muoversi
anche all’interno della scuola e quali strumenti utilizzare. La cosa importante è che comunque poi
consegni il compito.

Propose il modello che venne poi teorizzato in numerose opere del piano Dalton, la prima delle quali
del 1922 “l’educazione secondo il piano Dalton” poi anche altre due opere “esplorando il mondo del
fanciullo” del 1951 e “la fatica di crescere” del 1967.
Grazie alle osservazioni empiriche fatte sui bambini e sui bambini in rapporto con la società, come vi
dicevo prima, l’autrice approda poi a delle linee guida, dei principi guida: il primo è quello di tenere
sempre a mente l’importanza di elaborare dei curricoli adatti ad ogni singolo individuo, quindi ad
ogni singolo bambino, anche per poi salvaguardarne l’autonomia; il secondo è quello della
responsabilizzazione dell’alunno, quindi aiutarlo a tenere sempre il focus attento sul proprio percorso
di apprendimento.
Questo programma riguarda tutte le discipline e tutti quelli che sono i compiti che deve svolgere
all’interno del mese un alunno e altro non è che una sorta di contratto che verrà stipulato tra insegnante
ed alunno; in pratica è proprio un contratto nel quale l’insegnante e l’alunno pattuiscono quelli che
sono gli obiettivi da raggiungere nel proprio piano di apprendimento. Propose una sorta di contratto
di insegnamento o di programmazione didattico, ogni alunno, insieme all’insegnante, era obbligato a
firmare questo documento, questo contratto che prevede una formula simile a “io sottoscritto alunno
della classe ecc. mi impegno a portare a termine l’assegnazione di questo compito entro la fine del
mese, data e firma”.

Ogni contratto terminerà dopo un mese e alla fine del mese si stipulerà un nuovo contratto con
l’assegnazione dei nuovi obiettivi da raggiungere.

Questo piano Dalton studiato dalla pedagogista, da una parte favorisce l’individualizzazione
attraverso la scelta di curricoli fatti ad hoc per ogni singolo alunno e dall’altra invece favorisce la
responsabilizzazione perché attraverso il contratto ogni ragazzo si sente in qualche modo coinvolto
nel piano didattico di apprendimento e, come un lavoratore dipendente sotto contratto, deve portare
a termine il proprio compito.

Gli psico-pedagostisti e lo sperimentalismo pedagogico:


Jean-Ovide Decroly ed il concetto di centro di interesse
Jean-Ovide Decroly ed il concetto di centro di interesse
Jean-Ovide Decroly pedagogista ma anche neurolgo.
Autore uscito nei primi anni del TFA sopratutto ad Infanzia e Primaria.

CONCETTO FONDAMENTALE: La creazione di un centro d’interesse faceva in modo che


tutte le attività fossero finalizzate all’acquisizione di una nozione.
Nessuna distinzione tra l’insegnamento dei bambini anormali e dei bambini normali, considerava
l’educazione un fenomeno unico e che può differenziare soltanto per quanto riguarda il metodo in
rapporto alle esigenze dell’alunno (METODO ADATTIVO DELLA PEDAGOGIA AL SINGOLO
INDIVIDUO). Decroly criticava i metodi d’insegnamento delle scuole tradizionali (critiva
dell‘attivismo pedagogico), in quanto non andavano incontro alle capacità ricettive ed elaboratrici
dell’alunno, oppure le sviluppava separatamente. Inoltre si opponeva ai dettami della psicoanalisi,
contrapponendo ad essi il “principio della globalizzazione”, che governa non solo le percezioni ma
anche le attività dell’essere umano, e quello di “interesse” o “bisogno”. Preferiva la campagna, lo
spazio all’aperto ed il verde come luogo di crescita.
Dopo aver fatto riconoscere al bambino i propri bisogni fondamentali, Decroly stabiliva un’idea-
perno principale collegata ad uno di tali bisogni, e lo faceva diventare un centro d’interesse attorno
al quale si sviluppava l’attività scolastica.

Egli individua 4 assi della pedagogia:

1. rappresentazione teatrale
2. igiene
3. morale
4. calcolo.
Correlati a:
 osservazione: attività didattica basata su lezioni interne ed esterne alla scuola, in cui gli alunni
apprendono i concetti scientifici tramite i sensi e l’osservazione diretta.
 associazione: lezioni in cui i bambini associano nello spazio e nel tempo ciò che hanno osservato
nella fase precedente. Attivando in questo modo conoscenze geografiche e storiche.
 espressione: in questa fase il bambino è in grado di esprimere quanto acquisito attraverso attività
concrete come lavori manuali, disegno e giochi, e attività astratte come la lettura, la lingua, il canto e
il teatro.
Nella sua scuola l’aula come luogo d’insegnamento viene sostituito dall’ambiente esterno all’edificio,
un nuovo spazio in cui l’alunno può coltivare tutti gli aspetti della propria individualità e facilitare
l’adattamento naturale e sociale. Riprende il pensiero pedagogico di Spencer, di Darwin e di Dewey.
Egli stesso riteneva che la campagna era l’ambiente naturale del bambino, perché egli deve
ripercorrere lo stesso processo evolutivo della specie umana.

La scuola come diceva l’attivismo pedagogico stesso insegna a vivere mediante la vita stessa,
era indirizzato alla vita e non al nozionismo sterile. L’unità della proposta didattica è quindi
garantita da un programma di idee associate attraverso il riferimento al centro d’interesse.

In questo vedi anche la propsta dei teorici dell’attivismo pedagogico rispetto agli ambienti di
apprendimento.
I bambini devono adeguare i loro bisogni individuali alle loro esigenze naturali e sociali, per mezzo
di un insegnamento unitario delle materie.

Decroly elencava quelli che sono i bisogni fondamentali che il fanciullo deve riconoscere e
soddisfare:

 nutrirsi
 lottare contro le intemperie
 difendersi dai nemici e dai pericoli
 lavorare con gli altri, riposarsi e ricrearsi
Il programma scolastico doveva convergere al centro d’interesse e faceva perno attorno a quattro
principi principali:
 unità: programma deve tendere all’unità, tutti gli argomenti trattati devono essere collegati tra loro.
 individualizzazione dell’apprendimento: ogni allievo deve essere messo in grado di raggiungere il
massimo profitto dall’educazione.
 adattamento all’ambiente: deve dare al bambino la possibilità di raggiungere le conoscenze che gli
consentano di inserirsi nell’ambiente sociale in cui sarà destinato a vivere.
 integrità dello sviluppo: deve coltivare e rafforzare tutti gli aspetti dell’individualità infantile.

Ovide Decroly e lo sperimentalismo pedagogico ed il metodo globale nell’apprendimento della lettura


Ovide Decroly e lo sperimentalismo pedagogico
Ovide Decroly non solo è un rappresentante della pedagogia attivista, ma soprattutto il promotore di
un metodo scientifico, oggettivo e sperimentale, è uno degli iniziatori dello sperimentalismo
pedagogico o anche psico-pedagogismo che vedrà anni dopo una delle maggiori rappresentati
italiani in Cecilia Metelli.
Con Decroloy ha avuto inizio la pedagogia sperimentale e quantitativa, che utilizza cioè procedimenti
scientifici moderni di tipo statistico e matematico nella determinazione dei risultati dell’azione
didattica.

Egli ispirandosi anche alla scuola logica della Gestalt, afferma che il bambino coglie “globalmente”
nella percezione l’oggetto che gli si presenta in situazioni concrete, in cui, oltre all’attività percettiva,
entrano in gioco anche le emozioni, gli interessi, gli “stati d’animo”.
La percezione degli elementi semplici avviene solo successivamente attraverso un processo di analisi.

Tra gli interessi del soggetto che sono di maggior stimolo alla funzione globalizzatrice sono quelli
che si innestano sui quattro “bisogni” fondamentali:
1. di nutrirsi
2. di ripararsi, coprirsi e proteggersi dalle intemperie
3. di difendersi dai pericoli
4. di lavorare in comune
Dal concetto di interesse dello studente di curiosità individuale discende per il Decroly un’importante
innovazione didattica ormai largamente diffusa in tutto il mondo, quella del “metodo globale”
applicato all’apprendimento del leggere e dello scrivere, che avviene non per singoli elementi (lettere,
vocali, sillabe), di nessun interesse, ma per frasi intere o per parole che abbiano un significato
compiuto, e che quindi si leghino all’ “interesse”, alla curiosità ed al desiderio di conoscere
dell’allievo.

Claparede: sperimentazione e funzionalismo pedagogico

Édouard Claparède: sperimentazione e funzionalismo pedagogico


Édouard Claparède, con la sua concezione biologica della vita psichica, si interroga sulle “funzioni”
(a che cosa serve?) dei vari processi vitali, fino alla scoperta che l’attività umana, e dunque l’attività
infantile, nascono dai bisogni così come si esprimono negli interessi che alimentano l’intero sviluppo.
La sua critica alla scuola prima dell’attivismo pedagogico è radicale.
Claparède scrive «La storia della pedagogia, colma di tedio e desolazione, […] dovrebbe al contrario
diventare un’epopea palpitante, quando la si consideri come il quadro delle rivolte successive che ha
fatto nascere, tra ponderati osservatori, contro la visione di un regime educativo contro natura, che
soffoca la vita, andando contro il fine stesso dell’educazione, che è quello appunto di dischiudere la
vita» (L’educazione funzionale)

L’attività educativa deve essere vitale e significativa per lo studente e lo è solo se nasce da un
bisogno, se è sostenuta da un suo interesse reale. Pertanto, il contesto educativo deve essere una scuola
del bisogno-interesse, della centralità dell’alunno, dell’attivismo radicale come era nell’attivismo
pedagogico di John Dewey negli Stati Uniti, nella Scuola sperimentale di Chicago.

Claparede si inserisce nella linea di tendenza, questa, che caratterizza gran parte del pensiero
pedagogico a cavallo tra Otto e Novecento. Se la pedagogia e i processi che essa teorizza e attiva
vogliono uscire dall’astrattezza e dalle formulazioni generiche, è necessario che vadano alla ricerca
di fondamenti scientifici nelle scienze che stanno nascendo, nella psicologia e in qualche caso nella
sociologia.

Per Claparède la pedagogia è psicologia applicata. Egli è uno dei maggiori esperti
del funzionalismo psicologico europeo
Prima di vedere la concezione funzionalista, vediamo le altre due precedenti, che spesso erano le
uniche considerate.

Per Claparède «L’attività mentale può essere considerata da punti di vista differenti, che rispondono
ciascuno a differenti preoccupazioni e a problemi diversi posti dagli scienziati, ma che convergono
verso un unico scopo che è la concezione della condotta (il modo di spiegare la condotta) e delle sue
leggi”, come scrive nel suo Nel suo L’educazione funzionale nel 1931.
1) La concezione strutturale.

È la concezione analitica, anatomica, vorrei dire. Quali sono gli elementi della vita mentale? Qual è
la natura del meccanismo della condotta? L’indagine strutturale (centrata sui singoli elementi della
vita mentale) sta alla psicologia, come l’anatomia sta alla scienza della vita organica. Per esempio:
quando si chiede di che cosa è costituito il substrato del pensiero (immagini verbali, coscienza di
relazioni, ecc.)? Quali sono i sentimenti elementari? Quale la struttura (le componenti elementari)
dell’emozione?
2) La concezione meccanicistica.

Troviamo anche qui l’analisi, ma applicata alle operazioni mentali (dunque: non analisi delle
componenti della condotta, ma analisi delle operazioni mentali che intervengono nella condotta).
Come fanno i meccanismi, che l’analisi strutturale ci ha mostrato, a collegarsi strettamente tra loro?
Queste indagini corrispondono a ciò che è la fisiologia (nel senso stretto della parola) per la vita
organica. Esempi: quando risolviamo un problema di aritmetica che cosa avviene? Come si
succedono le varie parti di questa operazione? O ancora: come il sentimento agisce sulle operazioni
dell’intelligenza?
3) La concezione funzionale di Calparede invece è quella che NON si basa sull’importanza di questo
o quel processo (psichico) nella vita dell’individuo ma sulla vita nel suo insieme. In tal modo si
considerano i fenomeni sotto un aspetto piuttosto sintetico, in rapporto all’insieme dell’organismo, e
al significato che essi hanno per il singolo alunno e studente.
Édouard Claparède ha sviluppato anche il concetto di adattamento, in tal senso sperimentazione
e funzionalismo pedagogico acquistano un nuovo concetto di adattamento all’ambiente fisico e
sociale.
Per esempio: qual è il significato del gioco, dell’emozione, dell’ostinazione, dell’esaltazione della
potenza? Cioè: a quali bisogni rispondono questi fenomeni? (In ultima istanza: quale è la loro
funzione? A che cosa servono?).
Cleparde sviluppa un parallelo con la scienza della vita organica, possiamo dire che è questo l’aspetto
biologico del problema (in opposizione a quello dell’anatomia e della fisiologia), perché il grande
problema
della biologia è proprio quello dell’adattamento.

Esempio: qual è la funzione del pensiero, del sentimento, della volontà.


La psicologia come spiegazione dei processi di adattamento Claparède – sulla scia del
funzionalismo – riconosce alla psicologia una sua base biologica, che ricava dai presupposti
dell’evoluzionismo.
La vita organica si dispone su un’unica linea evolutiva, al culmine della quale compare (come direbbe
Dewey) l’individuo-con-mente.
L’organismo va assunto, così, come una realtà unitaria (e non come somma di elementi separati, del
tipo corpo/anima) e il problema che si pone alla psicologia è quello di spiegare i processi di
adattamento dell’organismo all’ambiente. L’organismo ha una sua autonomia psichica in equilibrio;
se però l’equilibrio viene alterato, se dunque si manifesta una qualche carenza (e dunque un bisogno),
esso reagisce con processi che hanno la funzione di ristabilire l’equilibrio.
Questa la rivelazione del funzionalismo: l’attività dell’organismo ha inizio dal momento in cui si
verifica una carenza, quando si manifestano un bisogno e il corrispondente interesse, per cui si può
anche dire che bisogni e interessi stanno a fondamento di ogni attività messa in atto
dall’organismo. Gli individui agiscono sulla base di una motivazione, sulla spinta di bisogni e
interessi.
Egli pone attenzione alla pedagogia in atto, alla vita di scuola e ai rapporti di
insegnamento/apprendimento, all’ambiente che invece di essere costruito per soggetti attivi sembra
essere costruito per soggetti passivi (disposizione dei banchi, della cattedra, dei sussidi didattici); la
modalità di comunicazione è unidirezionale, caratterizzata dalla lezione (o, per converso, dalla
interrogazione, chiamata a ripetere la lezione); i contenuti di insegnamento sono uniformi e
predeterminati nei programmi scolastici.

Maggiori teorici contemporanei dell’antropologia pedagogica:


Definizione di antropologia
Antropologia
Il termine antropologia deriva dal greco ànthropos ⇒ “uomo, genere umano”
e lògos ⇒ “parola,discorso”. Èla scienza che ha per oggetto di studio l’uomo. Nello specifico,
l’antropologia studia l’uomo da un punto di vista culturale ed analizza idee e comportamenti che
caratterizzano gli esseri umani che vivono in società lontane e diverse per tradizioni, costumi e stili
di vita.
Tale scienza assume come oggetto di studio 4 elementi fondamentali:
1. analisi dei codici culturali;
2. analisi degli apparati simbolici;
3. analisi delle pratiche rituali;
4. analisi degli orizzonti normativi di una cultura.

Antropologia educativa e pedagogica


L’antropologia educativa e pedagogica
L’antropologia dell’educazione oggi fa capo a diverse teorie e metodologie, richiama molteplici
approcci e modelli di indagine rintracciabili nell’ etnometodologia, nella sociolinguistica, nell’
interazionismo simbolico, che si intrecciano spesso tra loro cercando possibili soluzioni a problemi
che riguardano la realtà educativa e scolastica.
In ambito nazionale, accanto all’antropologia culturale si è venuto sviluppando un altro filone,
l‘antropologia pedagogica, caratterizzata da una riflessione più pedagogica. A porre le basi di questa
riflessione furono i pedagogisti del passato, quali Rousseau, teorico dell’educazione naturale e del
mito del buon selvaggio, Pestalozzi, la Montessori, etc. Quest’ultima, in particolare, scrisse
un’opera “Pedagogical Anthropology“, nella quale paragonava l’antropologia ad un serbatoio di
conoscenze e metodi dotati di un alto potenziale di autoeducazione, autocorrezione e quindi di
autorealizzazione, indispensabili per prevenire gli errori pedagogici e sociali che affliggevano
l’infanzia dei bambini della nascente società industriale. Ella concepì l’antropologia come una
scienza multidisciplinare che, attraverso metodi e contenuti attinti dall’antropologia generale,
poteva capire le autentiche potenzialità del bambino, sia quello svantaggiato o con handicap, sia di
quello normale, aiutandolo così ad autorealizzarsi.

I N.A.I. e la pedagogia interculturale nelle società multiculturali e multi-etniche


LA PEDAGOGIA INTERCULTURALE ed i NAI
Dall’etnocentrismo culturale alla pedagogia interculturale.
Sin dagli anni Ottanta del secolo appena passato, la pedagogia è interessata da una serie di “nuove
emergenze”, di nuove esigenze e di nuove formule educative. La pedagogia stessa si fa interculturale
nel momento in cui accetta la sfida della multiculturalità, della diversità e rimette in discussione il
proprio sistema di significati, prestando attenzione alle suggestioni e ai segnali del tempo presente.

La Scuola Italiana continua ad assumere sempre più un aspetto ‘multiculturale’ alle differenze già
presenti sui territori (migrazioni interne, minoranze, differenze, si aggiungono i consistenti flussi
migratori che hanno riproposto, in maniera urgente, le questioni dell’integrazione con il diverso e
dell’alterità. La pedagogia interculturale si deve porre in dialogo non solo con la riflessione
pedagogica generale, ma anche con i diversi settori della stessa. PEDAGOGIA dinamica ed
evolutiva del pluriculturalismo – della differenza, dell’altro, delle minoranze – un problema. Ora,
il vero problema è piuttosto l’unicità». Si tratta, quindi, di mettere in discussione l’etnocentrismo
della pedagogia e smascherarne i caratteri di “razzismo” e di intolleranza, nella società. Così si apre
alla pedagogia un compito arduo, urgente ed epocale, che essa deve cercare di risolvere (non da sola
certo, ma con un ruolo prioritario).
La riflessione interculturale affronta quelle contraddizioni e antinomie che percorrono tutta la
riflessione pedagogica, nel tentativo di cogliere nuove possibili complementarità. Se la pedagogia,
intesa in senso generale, si preoccupa della formazione dell’identità personale, la pedagogia
interculturale approfondisce l’apertura nei confronti dell’altro e della sua cultura. In questa direzione
la prospettiva interculturale riceve dalla pedagogia generale gli strumenti concettuali necessari al suo
costituirsi come pedagogia relazionale; ma soprattutto ne riceve l’oggetto precipuo di riflessione:
l’uomo, la sua educabilità e la sua educazione.

Il costituirsi della nostra società in senso multietnico ne ha messo alla prova i modelli di convivenza
e ha generato disorientamento. Di fronte ad una così ampia serie di questioni specifiche, si avverte
l’urgenza di rafforzare il fondamento critico e di precisare l’aspetto teorico di una riflessione
interculturale. La pedagogia pone attenzione allo sviluppo dell’attenzione per le differenze e per i
contesti multiculturali, iniziato negli ultimi decenni anche in ambito educativo, rappresenta un
segnale significativo di un cambiamento di tendenza.
La pedagogia interculturale prende in considerazione l’influsso esercitato dal contesto culturale
identitario e dall’ambiente sui processi formativi.
Le società europee sono divenute pluri-culturali già parecchie decine di anni fa e il recente arrivo di
nuovi immigrati ha solamente aggiunto altre minoranze, accentuando un pluralismo sociale e
culturale già esistente. La diversità, all’interno delle società europee, è radicata nella storia dei singoli
Paesi, piuttosto che dovuta alle recenti immigrazioni. Se in passato, la pedagogia e l’educazione
ponessero al centro della loro indagine soprattutto le questioni legate all’identità (individuale e
collettiva), ai rapporti fra gli uomini (individui con individui, individui con gruppi, gruppi con
gruppi), alla nostra capacità (o meno) di vivere insieme nel rispetto delle reciproche libertà.

La scuola oggi è sempre più interculturale e multistratificata, al centro del dibattito pensiamo ai
NAI, tema del rapporto con la diversità si sono mobilitate numerose discipline, tra cui, appunto, la
pedagogia. Gli alunni NAI sono gli studenti neoarrivati in Italia che non parlano italiano o lo
parlano poco, o coloro i quali sono inseriti a scuola da meno di due anni.
Gli alunni stranieri NAI, per periodi più o meno lunghi, a seconda dell’età, della provenienza, delle
lingue di origine, della scolarità pregressa, dei tratti personali e di elementi contestuali, si possono
annoverare nella categoria di alunni con Bisogni Educativi Speciali (BES).

Da una prospettiva monoculturale si passa alla didattica multiculturale, con una nuova sensibilità
verso il tema delle differenze culturale, dell’approccio tra culture diverse, «generalmente risolto dal
mondo occidentale, ma non soltanto da esso, con atteggiamenti etnocentrici, pretendendo di imporre
il proprio punto di vista come l’unico valido, coincidente con quello naturale e razionale»

La conseguenza di ritenere la propria cultura come modello universalmente superiore è stata quella
di collocare le altre espressioni
culturali nella subalternità e nell’inferiorità, dando legittimazione ad un’opera di indottrinamento. I
gruppi ritenuti superiori si sentivano in “dovere”, cioè, di aiutare i popoli stimati come inferiori nello
sviluppo, inculcando le verità oggettive del pensiero scientifico-razionale al posto delle forme mitiche
e popolari, ritenute errate.

La pedagogia interculturale, si può liberare di tutte le sue ‘catene ideologiche’, recuperando


interamente sia l’autonomia epistemologica sia la sua portata etica e pratica. Le teorizzazioni e le
prassi educative tradizionali, messe a dura prova dalla complessità e dalla multiculturalità, si sono
rivelate profondamente monoculturali e inadeguate a soddisfare le istanze che giungono dalla società
contemporanea. Ecco che l’opzione interculturale vuole essere una sorta di revisione attualizzata del
discorso pedagogico generale, pur sempre riprendendone gli orientamenti, la direzione di senso,
l’orizzonte axiologico.

Margaret Mead – antropologa

L’interazionismo simbolico di Margaret Mead analizza, in specifico, il rapporto fra


organizzazione del collettivo sociale – nei suoi aspetti relativi all’eventuale condivisione dei
comportamenti, dei codici di interpretazioni culturali, dei valori e degli stili di vita – e
costruzione dell’identità personale.

Carmela Metelli Di Lallo: la psicopedagogia – la pedagogia come scienza esatta

Metelli Di Lallo e la psico-pedagogia o la pedagogia scientifica


Tra i pedagogisti italiani contemporanei può essere utile ricordare anche Carmèla Metèlli di
Lallo che mette insieme psicologia e pedagogia. Impegnata a fare della pedagogia una vera e propria
scienza esatta.
La psicopedagogia, i cui antesignani sono O. Decroly ed E. Claparède, ha in comune con la psicologia
dell’apprendimento una parte notevole del suo campo d’indagine; essa inoltre investe campi relativi
alla psicologia sociale (problemi dell’adattamento), alla caratterologia (particolarmente per quanto
riguarda lo studio degli interessi e della personalità degli allievi) e in genere alla psicologia dell’età
evolutiva (maturazione intellettuale e affettiva). Esperienze e sperimentazioni della psicopedagogia
si svolgono anche nei laboratori, ma soprattutto nelle scuole, dove è possibile compiere esami ed
esperimenti collettivi e comunque su un numero di soggetti sufficientemente ampio.

Nel suo testo L’analisi del discorso pedagogico, Carmèla Metèlli di Lallo rileva l’esistenza di diverse
antropologie sottese alle tante pedagogie presenti in letteratura si concentra sulla revisione della
pedagogia sul piano logico e della verificabilità empirica, vuole sviluppare in maniera
interdisciplinare la metodologia di ricerca di tutte quelle discipline che sono investite dal discorso
psico-pedagogico (psicologia, sociologia, antropologia culturale, ecc.), tanto da farla riflettere in
funzione di una vera e propria psicopedagogia,
SHEDA: Carmela Metèlli di Lallo [Fonte Trecani] (Termoli 1914 – Padova 1976); ha insegnato
psicopedagogia nell’univ. di Padova. L’esigenza di una caratterizzazione scientifica della pedagogia
si è concretata in un indirizzo epistemologico attento all’analisi del discorso pedagogico nelle sue
diverse componenti e alla verificabilità empirica dei paradigmi utilizzati nella ricerca
educativa.
In pratica Metelli vuole fare della pedagogia una scienza esatta e misurabile.
La sua opera più significativa è Analisi del discorso pedagogico (1966).
Di rilievo anche i suoi studî di psicologia dell’educazione, che peraltro s’inseriscono in una
prospettiva più ampia, interessata soprattutto alle dimensioni formative dell’intelligenza e della
creatività scientifica. Fra i suoi scritti: La dinamica dell’esperienza nel pensiero di J.
Dewey (1958); Problemi psicopedagogici (1964); Componenti anarchiche nel pensiero di J.-J.
Rousseau (1970).

Franco Cambi – la filosofia dell’educazione


Franco Cambi – pedagogista italiano
Cambi ora in pensione, è stato professore ordinario di Pedagogia generale. Ha svolto il suo
insegnamento presso gli Atenei di Lecce, di Siena e di Firenze. Origine cerca di prevedere qualche
studioso italiano. Autore di numerosi libri di filosofia dell’educazione.

Si interroga sulla necessità di definire qual è l’idea precisa di uomo che deve guidare l’agire educativo
rispetto al profilo di uomo che la pedagogia intende formare.

Giuseppe Acone – Antropologia dell’educazione


Giuseppe Acone – antropologia dell’educazione
Per Acone, la pedagogia è una scienza ontologicamente fondata su un’ antropologia umana, culturale
ed educativa. Giusto ricordare il nome.
Nella sua opera Antropologia dell’educazione (1977), diventata ormai un classico della pedagogia
italiana, distingue le antropologie pedagogiche connotate in senso più filosofico-culturale dalle
antropologie scientifiche, basate su un sapere più tecnico e sperimentale.
Esse si confrontano continuamente cercando di far valere i loro rispettivi punti di vista
sull’educazione, che si distinguono sulla base delle diverse filosofie umane che fanno loro da sfondo.
Carlo Nanni – autore di L’antropologia pedagogica
Carlo Nanni – l’antropologia pedagogica
Lo ricordiamo solo perché studioso italiano ed autori di un testo dal titolo l’ Antropologia
pedagogica (2002).
E’ un pedagogista attento alla necessità, dinanzi al cambiamento degli scenari odierni e alla messa in
discussione dei fondamenti antropologici e del quadro di riferimento ideale dell’azione educativa, di
tornare ad interrogarsi sul senso dell’educazione e della formazione, e di cercare le risposte in
un’antropologia pedagogica che è cifra dell’esistenza individuale e comunitaria, nella globalità delle
sue dimensioni.

La pedagogia istituzionale:
La pedagogia istituzionale in Francia: Jean Oury, Aïda Vasquez, Tosquelles;
La pedagogia istituzionale in Francia ed in Italia: Jean Oury ed Aïda
Vasquez, Tosquelles;
Il termine pedagogia istituzionale è stato utilizzato, per la prima volta, in Francia, da Jean Oury, nel
1958, nell’ambito di un convegno con l’intento di evidenziare la dimensione complessa della
pedagogia che non riguarda solo i singoli rapporti educativi, ma la struttura stessa dell’organizzazione
educativa e le dinamiche dei gruppi in un contesto.

parole chiavi sono: gruppi, fattori, contesto, strategie, organizzazione educativa, tutti gli strumenti
favoriscano l’adeguamento dell’azione educativa e didattica del gruppo agli scopi prefissati e
condivisi. In pratica, sono fattori esterni e interni, collettivi piuttosto che soggettivi ed individuali
che determinano il funzionamento della scuola.

NON E’ PIU’ IL PROBLEMA SOGGETTIVO DELLA PERSONA MA IL CONTESTO IN


CUI ESSA E’ IMMERSA.
La proposta-teoria della scuola istituzionale si è sviluppata soprattutto in Francia, dove può essere
ricollegata soprattutto ai nomi di Vasquez, Oury e Tosquelles; anche in ambito anglosassone, però,
possono esser rintracciati alcuni interessanti studi, come ad esempio il classico studio di Lortie sulle
rappresentazioni degli insegnanti oppure l’analisi del contesto scolastico statunitense attuato da
Goodlad.
La proposta-teoria della scuola istituzionale prende in esame la mappa dei valori e delle aspettative
sociali e culturali, le risorse umane e amministrative, il quadro normativo, il panorama delle
conoscenze degli allievi e i loro bisogni, l’organizzazione di spazi, tempi e modalità didattiche,
nonché degli stili comunicativi, di insegnamento e di valutazione del sistema scolastico statunitense.

La pedagogia istituzionale “tende a sostituire l’azione permanente e l’intervento diretto del maestro
con un sistema di attività, di mediazioni diverse, di istituzioni che assicuri in maniera continua
l’obbligo della reciprocità e degli scambi nel e fuori dal gruppo. In base ad una idea dell’istituzione
scolastica in termini di “sistema di costanti spazio-temporali, relazionali e valoriali che permettono
gli scambi in un gruppo sociale”, la finalità ultima dell’evento educativo e didattico, secondo la
pedagogia istituzionale, è quella di rendere ogni soggetto il più possibile protagonista del processo di
cui fa parte: secondo questo approccio, dunque, solo la conoscenza da parte di tutti membri del
contesto istituzionale, dell’organizzazione e delle regole che strutturano gli scambi nel gruppo
garantisce il rispetto delle singole individualità.
In Francia, la pedagogia istituzionale è stata sviluppata, in direzione dell’intervento educativo e
didattico, soprattutto da Aïda Vasquez e da Fernand Oury. Le istituzioni dell’educazione formale
devono tener conto dei principi della psicopedagogia nella stesura del progetto educativo. Per guidare
e gestire l’azione didattica in modo efficace e rispettoso delle individualità, è necessario porsi tre
quesiti:

 quali sono le funzioni di un certo gruppo, nell’ambito del quale di svolge l’azione didattica
stessa
 quali sono i fattori esterni e interni, collettivi piuttosto che soggettivi ed individuali che ne
determinano il funzionamento
 quali interventi, strategie
Una diversa posizione, nell’ambito della pedagogia istituzionale francese, è rappresentata
da Georges Lapassade, che ha utilizzato il termine autogestione pedagogica, volendo accentuare gli
aspetti di azione contro i condizionamenti istituzionali della scuola, sia sul piano della prassi didattica,
sia sul piano, più in generale, dei rapporti sociali.

Si possono ricordare magari in una preselettiva potrebbe essere fatto un riferimento: anche René
Lourau, mentre Georges Lapassade può essere considerato il padre dell’analisi istituzionale.

La pedagogia istituzionale in Italia: introduzione (Paolo Zanelli, Andrea Canevaro, Vittorio Severi, Giampietro
Lippi).
La pedagogia istituzionale in Italia: Zanelli, Canevaro, Sereni, Lippi

La pedagogia istituzionale in Italia è stato seguita da Paolo Zanelli ed Andrea Canevaro (altri
studiosi fra i quali, Vittorio Severi, Giampietro Lippi, che ha ripreso e sviluppato, in maniera originale
i temi della pedagogia istituzionale). Ma anche in Italia alle ricerche di Carugati autore di un manuale
oggi molto usato di Psicologia dell’educazione, scritto insieme a Patrizia Selleri.
La versione italiana della pedagogia istituzionale tende a presentarla come una pedagogia della
complessità: il rapporto educativo è sempre un rapporto che si muove nell’ambito di un contesto
educativo che ha risvolti sia relazionali che organizzativo-istituzionali; diviene, allora, determinante,
per gli studiosi che si riconoscono nella prospettiva della pedagogia istituzionale, pensare
l’organizzazione del contesto educativo in modo tale da favorire l’autonomia dei singoli.

La pedagogia istituzionale italiana ha sviluppato diversi filoni di ricerca in una prospettiva di ricerca
– azione. Gli ambiti di ricerca si sono, finora, concentrati in tre direzioni principali:

 la direzione dell’integrazione scolastica, sviluppata negli anni 1970 e 1980 attraverso


l’attività di Andrea Canevaro e del gruppo di Pedagogia speciale dell’Ateneo di Bologna;
 le ricerche sull’organizzazione dello sfondo educativo, con lo studio degli strumenti
organizzatori del contesto educativo e con il concetto di sfondo integratore, sviluppato
soprattutto da Paolo Zanelli
 le ricerche sull’autovalutazione nei servizi educativi per l’infanzia, sviluppate, a partire dalla
seconda metà degli anni 1990, da Paolo Zanelli e dal gruppo di pedagogisti
del Coordinamento pedagogico provinciale della Provincia di Forlì-Cesena.
Andrea Canevaro, inclusione e delega paradossa
Andrea Canevaro è stato un docente di pedagogia speciale e didattica della disabilità, e di un
particolare ambito di ricerca pedagogica che si occupa dell’educazione di persone in situazione di
handicap (con l’aggettivo speciale si intende proprio questo ambito). La S è la S di Bes, bisogno
educativo speciale.
Per Canevaro agire in prospettiva inclusiva non significa dimenticare o sopprimere il deficit. La
menomazione, fisica o mentale, rimane una componente della persona disabile, ma tale caratteristica
non serve a rimarcare una diversità rispetto alla maggioranza: si tratta piuttosto dell’espressione
della naturale diversità umana.
Per Andrea Canevaro bisogna agire nella prospettiva non solo dell’integrazione ma anche
dell’inclusione per capire le conseguenze e gli effetti di questo radicale cambiamento di
atteggiamenti.
In pratica, Andrea Canevaro studia l’ambiente di vita e la percezione di come viene vissuto nella
società il soggetto disabile.
Canevaro si è impegnato in prima persona in tutti i progetti a favore dei “portatore di deficit”, o di
come la persona disabile venendo al mondo trovi un handicap esterno, che risulta essere il prodotto
del deficit e dei suoi effetti derivati dalle risposte dell’ambiente e dalla psicologia dell’individuo.

Lavorare per la riduzione dell’handicap significa allora ricercare l’elemento dato, che è il deficit, e
scoprire come tutte le altre variabili possono essere ridotte.

Per Canevaro, la Pedagogia speciale deve rispondere ai bisogni della persona disabile in modo
specifico e personalizzato, dando luce all’unicità di ognuno, il compito dell’educatore è quello di
trovare i giusti strumenti e contesti per dare luce ad ognuno nella sua peculiarità.
Nel fare ciò, vi è anche una complessa operazione sociale, volta al superamento delle barriere, anche
psicologiche, che comunemente vengono erette nei confronti di chi è diverso.

La pedagogia speciale deve combattere l’esclusione sociale delle persone con disabilità in modo
dinamico e interattivo, non statico, come una continua composizione elementi diversi. Il compito
della Pedagogia speciale, nella prospettiva sottolineata dall’Autore, è quello di connettersi con
diverse discipline in modo da far nascere e diffondere una nuova visione e nuove pratiche nell’ambito
della disabilità e, più in generale, delle differenze.
Bisogna favorire il processo sono intervenute anche legislazioni specifiche e sicuramente la ricerca
scientifica ha favorito ed aiutato questo percorso. Andrea Canevaro sottolinea la difficoltà del
processo di comprensione ed accettazione: al tempo solo in alcuni casi si è verificata la vera e propria
voglia di comprendere le situazioni, in altri invece ha prevalso più la voglia di difendersi e di voler
ergere barriere verso il diverso.

In seguito all’evolversi degli studi nell’ambito della pedagogia speciale si abbandona la parola
“integrazione”: tale termine rimarca infatti l’esistenza di un contesto o ambiente con determinate
caratteristiche e parametri di “normalità “, a cui viene “integrato” qualcosa di diverso, che prima non
c’era, e che viene adattato al contesto preesistente, si parla oggi invece di inclusione.

Quando si “integra”, per definizione, ci si riferisce infatti all’inserimento di qualcosa di esterno in


una realtà già formata e preesistente. In quest’ottica, non vengono valorizzate le differenze come una
naturale varianza dell’umanità, ma sembra che la persona disabile sia un corpo esterno inserito in una
società composta da normodotati avente di fatto caratteristiche proprie.

Si è passati quindi dal termine integrazione a quello di inclusione. Questo termine amplia l’approccio,
inserendo la diversità (e la disabilità) nella naturale variazione delle personalità umane: non si tratta
di qualcosa di esterno o da inserire in una società già esistente, cambiando qualcosa, ma fa parte della
società stessa. Un elemento incluso in un gruppo, per definizione, fa parte di quella realtà esattamente
come tutti gli altri.

Delega paradossa: delegare


Delegare, nel senso che pur comportando un allontanamento transitorio della persona con disabilità,
successivamente la riavvicina alle persone del suo contesto
Per definizione, la delega è un atto che si formalizza quando un soggetto delega ad un altro un
qualcosa o un compito, in questo modo dice a qualcun altro di fare qualcosa al posto suo. Un
compito proprio di un soggetto viene delegato ad un altro soggetto. Chi delega vuole riportare a sé il
risultato, in un’ottica di allontanamento solo temporaneo. Si è costretti a delegare a qualcuno, un
compito o un’qualcosa sono legati al fatto che in prima persona non possiamo fare quella cosa, o non
sappiamo farla o non abbiamo le competenze tecniche o professionali per farla.
Questo avviene anche nella scuola, la famiglia e la società delega alla scuola alcuni compiti. Ad
esempio, se si ha un guasto alla macchina, si delega al meccanico il compito di ripararla, separandosi
dalla macchina e lasciandola in custodia al meccanico, ma ci si aspetta che poi la macchina torni da
noi in buone condizioni. Quindi l’educatore deve migliorare le capacità cognitivi e sociale dello
studente BES. Così come se si ha mal di denti si va dal dentista, se si sta male si va dal medico e via
dicendo. Il pedagogista è una sorta di medico dell’educazione.

Ogni azione educativa deve mirare quindi a essere temporanea, cercando di rendere l’educando
autonomo e farlo reimpossessare dell’oggetto delegato, che sia esso la propria salute, la propria
autonomia o qualsiasi altro aspetto della propria persona. Ma la delega non può essere per sempre
o a tempo indeterminato. Eccone il paradosso, ti delego ma non posso delegarti completamente.
Si tratta però di un “allontanare per riavvicinare”, e da qui nasce il termine “paradossa (paradosso)”:
ci si aspetta infatti che l’intervento sia temporaneo, e l’azione delegante nasce solo dal fatto che da
soli non si è in grado di gestire una certa problematica.

Ciò può ritornare utile anche in campo pedagogico: come sottolinea Canevaro, la delega dovrebbe
allontanare per un tempo utile a risolvere il problema, riassumendo al più presto su di sé la padronanza
dell’oggetto che viene delegato. Se invece il tempo si prolunga troppo, e diventa quasi definitivo, non
dovremmo più parlare di delega ma di alienazione.

In pratica la delega comporta un allontanamento transitoria dalla persona con disabilità mentre
successivamente la ri-avvicina alle persone del suo contesto.

Nella prospettiva di Andrea Canevaro il pedagogista, la “situazione di handicap” non considera


primariamente il danno in sé, come sarebbe facile presupporre, ma si tratta di un concetto
multifattoriale, strettamente collegato anche al contesto storico, culturale e ambientale: la situazione
di handicap si costituisce infatti dalla combinazione di molti elementi.
La disabilità è frutto dell’interazione di diversi fattori: vi è senza dubbio una componente personale,
legata al deficit in sé, ma tale aspetto si può esprimere in molti modi a seconda delle caratteristiche
del contesto con cui ci si relaziona. Canevaro parla di “vettore di handicap” in quanto la disabilità è
l’insieme della menomazione fisica o psichica e delle conseguenze che una situazione socioculturale
aggiunge ad essa. Il contesto può infatti aumentare o ridurre le difficoltà per una persona disabile a
seconda di come si presenta: possono esserci dispositivi materiali che facilitano o inibiscono la
persona disabile (discese o scalini, ascensori o scale, percorsi per ipovedenti…), ma
anche atteggiamenti valori e comportamenti possono influire sul grado di disabilità di una persona.
Si tratta quindi di una condizione dinamica, che dialoga con il contesto e che può assumere
caratteristiche differenti a seconda delle risposte che la realtà restituisce alla persona stessa.

È possibile quindi agire sul contesto diminuendo le barriere alla partecipazione: l’educatore, o la
società in genere, può agire su caratteristiche ambientali al fine di creare un contesto inclusivo che
faciliti la partecipazione di tutti, anche di chi ha caratteristiche psicofisiche diverse dalla maggioranza.

Disabilità ed identità plurale, l’identità senza “l’etichetta” di disabile


Andrea Canevaro ritiene che l’identità sia uno degli aspetti più interessanti da considerare quando si
opera a contatto con persone disabili. Canevaro conia il concetto ossimoro di “identità plurale”, non
statica, aperta ad accogliere sempre nuovi elementi. Troppo spesso, quando ci si relaziona con persone
affette da disabilità, si rischia di semplificare troppo la loro identità, senza considerarne la
complessità. Un errore di questo tipo porta a rapportarsi con la persona disabile usando tecniche e
approcci specifici e prestabiliti per ciascun deficit (ad esempio in condizione di cecità si pensa quasi
sempre e solo al Braille). L’identità del disabile viene intesa come assoluta, cioè statica e strettamente
legata alla “categoria” determinata dal deficit. Ne normalizzare, ne stigmatizzare, ne pensare che la
persona disabile abbia una identità “normale”, cercando di “minimizzare” il soggetto disabile, nè
etichettarlo alla luce di una diversità irriducibile e quasi disumanizzata.
L’identità assoluta e identità della normalità costituiscono, secondo l’Autore, la tragedia dell’identità:
un approccio di questo tipo impedisce infatti di vedere la persona nella sua unicità, per ciò che
veramente è, andando oltre i preconcetti.

La disabilità spesso è associata al pregiudizio, Canevaro sostiene come a volte siano il nostro credere
e le nostre certezze a determinare la qualità della relazione interpersonale e la percezione che il
soggetto disabile ha di se stesso: spesso gli atteggiamenti che si assumono con le persone disabili
sono fortemente influenzati da stereotipi e pregiudizi riguardo all’handicap, dalle paure e dalla
disinformazione legati a ciò. Tali relazioni vengono infatti vissute con un atteggiamento spesso
pregiudizievole e generalizzato, e non di rado rischiano di assumere un carattere drammatico o
tragico.

Dall’integrazione all’inclusione
Raggiungere appunto l’integrazione delle persone disabili, un inserimento sociale volto a sconfiggere
stereotipi, pregiudizi e segregazione nei confronti del diverso, elementi fino a non molti anni fa
profondamente radicati. Infatti, fino alla seconda metà del ‘900, le persone con disabilità fisica e
psichica erano solite vivere fin dalla prima infanzia in contesti separati rispetto ai percorsi dedicati
alle persone normodotate: ai portatori di handicap erano riservate scuole speciali e istituti
specializzati, ospedali psichiatrici, manicomi.
Gli psicologi-pedagogisti e le ricerche del novecento:
Lewin – il modello della Ricerca – Azione
Il modello della Ricerca-azione di Kurt Lewin
Spesso nella scuola si manifestano problemi la cui soluzione non è sempre conseguenza di una precisa
diagnosi, anzi, più frequentemente si procede per prove ed errori, o nella logica emergenziale e senza
una reale analisi dello studente, dell’ambiente di apprendimento, della situazione ambientale, etc.
Non solo insegnare ma capire e fare ricerca attiva dei problemi. Pur di rispondere alla situazione, e
vista l’urgenza delle risposte da costruire in tempo reale, si dimentica di fare un’accurata analisi dei
problemi. La ricerca-azione ci dice però che bisogna prima capire e poi agire e non solo a livello
didattico.
1. percezione del problema
2. individuazione del problema
3. descrizione e definizione del problema
4. scelta della metodologia di raccolta dei dati
5. l’analisi degli stessi
6. formulazione delle ipotesi di intervento
Seconda fase post-intervento

7. verifica dell’intervento formativo

Lewin e gli stili di leadership di gruppo


La teoria dei gruppi ed i modelli di leadership secondo Kurt Lewin
La teoria dei gruppi di Kurt Lewin è legato all’idea di campo.
⇒ Si inserisce all’interno della scuola della Gestalt e quindi cerca di inserire il comportamento
dell’individuo all’interno delle dinamiche di un gruppo. Vediamo più nel dettaglio quale chiave
di lettura ci offre.
Un gruppo, per Lewin, è a sua volta un campo dove gli individui si amalgamo per creare qualcosa di
più grande, una totalità con caratteristiche proprie. L’obiettivo è quello di trovare un equilibrio tra
il dentro e il fuori; così come accade per l’individuo anche il gruppo è in costante contatto con
l’ambiente e cerca di trovare un equilibrio tra richieste interne ed esterne. Il gruppo è una realtà
dinamica che si muove continuamente, perché la staticità ne decreta la fine. L’elemento chiave di un
gruppo, ciò che lo tiene insieme e ne caratterizza l’identità è l’Interdipendenza, cioè il legame tra
gli elementi che non possono vivere gli uni senza gli altri.
Esistono due tipi di interdipendenza che qualificano due tipologie di gruppo:
1. interdipendenza del compito: i gruppi nascono perché devono portare a termine un obiettivo per cui
è necessaria la collaborazione di molti;
2. interdipendenza del destino: il gruppo nasce e tiene al suo interno individui che condividono
un’esperienza o una condizione esistenziale che li rende uniti perché hanno un destino comune.
La ricerca di Lewin ha portato questo pioniere a descrivere tre diversi tipi di leadership negli
ambienti di gestione organizzativa : l’autoritario, che ha un carattere dittatoriale, quello
democratico, in cui il processo decisionale è collettivo, e il “laissez-faire”, in cui la supervisione
svolta dal leader dei compiti eseguiti dai suoi subordinati è minima.
Lewin parla di:
 una leadership di tipo permissivo (laissez-faire) abbassa la produttività del gruppo.
 una leadership di tipo autoritario induce nei componenti del gruppo sia atteggiamenti aggressivi sia
atteggiamenti apatici.
 una leadership di tipo democratico dove non si prendono decisioni da soli, ma nascono come
risultato di un processo di dibattito collettivo;
Ognuno di questi stili di leadership è legato a modelli comportamentali, dinamiche di interazione e
un diverso ambiente socio-emotivo. I tre tipi di leader hanno i loro vantaggi e svantaggi, e nessuno
può dirsi superiore in tutti gli aspetti.

Tuttavia, Lewin ha detto che il democratico è il più efficace dei tre .


1. Autoritario – gli stili autoritario
Gli ambienti di studio ed apprendimento autoritari sono caratterizzati dal fatto che il leader/insegnante
monopolizza il processo decisionale. È questa persona che determina i ruoli dei subalterni, le tecniche
e i metodi che devono seguire per completare i loro compiti e le condizioni in cui viene svolto. È uno
stile di leadership molto esteso nella maggior parte delle organizzazioni.
Nonostante le connotazioni negative della parola “autoritario”, Lewin insiste sul fatto che questo tipo
di leader non genera sempre uno spiacevole ambiente socio-emotivo; le critiche ai dipendenti sono
comuni, ma lo sono anche le lodi.
I leader autoritari sono anche caratterizzati da una scarsa partecipazione allo svolgimento dei compiti
di lavoro stessi.
Secondo le osservazioni di Lewin, la leadership di stile autoritaria comporta il rischio di una
“rivoluzione” da parte dei subordinati.
La probabilità che ciò accada sarà tanto maggiore quanto più marcato è il carattere autoritario del
leader.

2. Democratico – lo stile democratico


Lo stile democratico descritto da Lewin è molto diverso dalla leadership autoritaria. I docenti
democratici seguono questo modello non prendono decisioni da soli, ma nascono come risultato di
un processo di dibattito collettivo; in questo il leader agisce in un ruolo di esperto che consiglia gli
studenti, una sorta di consulente al servizio dei compiti degli studenti, naturalmente, può intervenire
nella decisione finale se necessario.
La maggior parte delle persone tende a preferire la leadership democratica sopra l’autoritario e
il “laissez-faire”, specialmente quando hanno avuto brutte esperienze con uno di questi stili. Tuttavia,
la leadership democratica comporta il rischio di una perdita di efficienza, soprattutto in relazione al
processo decisionale collettivo.
3. Laissez-faire – o leader del lasciar fare o permissivo
Al polo opposto, invece, lo stile laissez faire contraddistinto da una mancanza di autorevolezza da
parte dell’insegnante che rinuncia a porre regole e vincoli forti agli alunni. In entrambi i casi gli allievi
non possono contare sul docente come punto di riferimento attento alle dinamiche interne alla classe
e l’insegnante non promuove un dialogo costruttivo con gli alunni.
Il concetto francese “laissez-faire” potrebbe essere approssimativamente tradotto come “lasciar fare”,
“non-interventismo”.
I docenti di questo tipo lasciano che gli studenti prendano le proprie decisioni, sebbene non siano
necessariamente responsabili dei risultati di questi. Al contrario, gli stili autoritario e laissez
faire appaiono poco funzionali per la conduzione della classe.
Infatti, lo stile autoritario caratterizzato da un’assunzione di responsabilità forte da parte
dell’insegnante, invece lascia scarsa autonomia decisionale ai bambini e gestisce in modo direttivo
l’interazione di classe.
Nel caso poi dello stile autoritario alcuni atteggiamenti e comportamenti del docente possono
risultare eccessivamente rigidi e generare nel sentimenti di disagio. In effetti, in casi estremi, anche
in classe si possono strutturare relazioni adulto-studente disfunzionali.

Duccio Demetrio ed il metodo autobiografico

Duccio Demetri e l’autobiografia – la scrittura di se stessi, La libera


Università dell’Autobiografia
Duccio Demetrio ha promosso ricerche sulla scrittura di se stessi, sia per lo sviluppo del pensiero
interiore e auto-analitico.
Egli ha promosso l’autobiografia come pratica psico-sociale. Scrivere di sé: scrivere la propria storia
per Demetrio significa addentrarsi in un labirinto: strade intricate da percorrere, senza una mappa,
senza un traguardo certo.
Il suo è un metodo autobiografico, anche uno studente raccontandosi entra in contatto con il proprio
sè gestisce le proprie emozioni ed esperienze.
Un percorso psicologico e pedagogico autobiografico dentro il proprio sè.
In tal senso, la scrittura autobiografica o il racconto di sè come autobiografia diventa un metodo per
avere consapevolezza di chi si è, di cosa si pensa e si è pensato, di chi si è stato ed anche di chi si
vuole essere.
I METODI DIDATTICI BIOGRAFICI O AUTO-BIOGRAFICI SI BASANO SULL’UTILIZZO
SPESSO DI DIARI O DIARI DI APPRENDIMENTO, dove i soggetti scrivono di se stessi e della
propria vita per apprendere a gestire meglio emozioni passate e future.

Il diario autobiografico si connette con l’autobiografia e permette e sviluppa CONOSCENZE


 Conoscere elementi, scopo e tipologie dello scrivere di sé: il diario personale e il diario in letteratura;
le lettere reali, le lettere aperte e la narrativa epistolare; il genere autobiografico
 Conoscere le diverse tecniche narrative e le peculiarità del linguaggio e le scelte lessicali di questi
generi
 Conoscere l’origine e l’evoluzione dei tre generi
Permette e sviluppa competenze
 Leggere e comprendere un testo autobiografico o diaristico
 Riconoscere l’intento o lo scopo del testo individuando le informazioni principali e secondarie
 Riconoscere e usare correttamente la forma epistolare o diaristica, prestando attenzione ai diversi
registri espressivi
 Riflettere sulla composizione di questo tipo di testi, sulla loro coerenza interna e la loro correttezza
morfosintattica e lessicale
 Apprendere a produrre testi narrativi di questo tipo
Ogni identità è una dimensione autobiografica continuamente ri-raccontata dal soggetto a se
stesso.
Scrivendo il soggetto si rivela a se stesso, i muri dell’incomunicabilità interiore cadono e si iniziano a riconosce
i propri desideri, le proprie debolezze e le proprie paure. Demetrio è stato docenti di Filosofia dell’educazione e
di Teorie e pratiche della narrazione all’Università degli Studi di Milano-Bicocca, ma soprattutto ha fondato
la Libera università dell’Autobiografia di Anghiari (da lui fondata nel 1998 insieme a Saverio Tutino) e di
“Accademia del silenzio”.

Duccio Demetrio ha fondato la Libera Università dell’Autobiografia organizza anche una serie di laboratori
di approfondimento: laboratori di sensibilizzazione e di scrittura autobiografica, laboratorio sul tema della
scuola e narrazione.

Ha scritto numerosi libri anche in collaborazione con altri, tra cui ricordiamo:

 Demetrio Duccio e Mariangela Giusti, Preparare e scrivere la tesi in Scienze dell’Educazione,


 Demetrio Duccio e Aureliana Alberici, Istituzioni di educazione degli adulti. Vol. 1: Il metodo
autobiografico
 Demetrio Duccio e Aureliana Alberici, Istituzioni di educazione degli adulti,
 Album di famiglia. Scrivere i ricordi di casa,
 Scritture erranti. L’autobiografia come viaggio del se nel mondo,
 Ricordare a scuola. Fare memoria e didattica autobiografica
 Manuale di educazione degli adulti,
 Filosofia dell’educazione ed età adulta. Simbologie, miti e immagini di sé, Torino

Loris Malaguzzi ed il suo metodo per un apprendimento costruttivo


Il metodo Malaguzzi: gli studenti apprendono da se stessi
Il pedagogista italiano Loris Malaguzzi riteneva che quello che i bambini apprendono nei primi anni
di scuola è opera degli stessi bambini, che imparano ad utilizzare le risorse di cui sono dotati
naturalmente: “i bambini costruiscono la propria intelligenza. Gli adulti devono fornire loro le
attività ed il contesto e soprattutto devono essere in grado di ascoltare“.
I bambini sono considerati soggetti attivi e pensanti e, per questo, deve essere data a loro la
possibilità di mettere in pratica la loro inventiva. Non sono semplicemente i destinatari “di un sapere
imposto dall’alto”.
La scuola è per MALAGUZZI un cantiere aperto e laboratoriale nel quale i processi di ricerca tanto
dei bambini quanto degli adulti s’intersecano fortemente e, nello stesso tempo, si arricchiscono
reciprocamente.

Per questo nelle scuole che seguono il metodo pedagogico Malaguzzi, gli studenti vengono posti al
centro dell’organizzazione e coinvolti nella scelta di cosa fare giorno dopo giorno. Malaguzzi
ritiene che ogni studente, come creatore e portatore di conoscenze, è capace di costruirsi con le sue
potenzialità l’apprendimento futuro. Non possono, allora, essere imposte, nei nidi e nelle scuole
dell’infanzia, metodologie o strategie per far acquisire conoscenze.
I bambini imparano la realtà che li circonda, agendo e facendo, in maniera spontanea e naturale,
operazioni mentali di verifica, conferma o confutazione.

L’approccio di Malaguzzi come di tutto l’attivismo pedagogico, è l’idea, che è il soggetto che si
costruisce da solo la propria conoscenza, la conoscenza non si trasmette, ma si costruisce. Non è
qualcosa che passa da un adulto ad un bambino, ma che si ricrea negli ambienti di apprendimento.
Questo metodo è molto usato nelle scuole primarie: dove i bambini, che vengono riuniti in piccoli
gruppi, sono seguiti dalle maestre ed educatrici, ma allo stesso tempo sono lasciati liberi di ragionare
ed inventare nuovi giochi. Gli insegnanti ascoltano le loro proposte e collaborano tutti insieme per
aiutarli a realizzarli.
Per MALAGUZZI l’acquisizione della conoscenza è una costruzione personale di ogni bambino
attraverso l’impiego delle risorse di cui è dotato. Per MALAGUZZI ad esempio come scrive egli
stesso “i bambini costruiscono la propria intelligenza. Gli adulti devono fornire loro le attività e il
contesto e soprattutto devono essere in grado di ascoltare”.

Il costruttivismo ci dice che gli alunni operano un ruolo attivo nella costruzione e nell’acquisizione
della conoscenza e della comprensione della realtà. Come abbiamo visto nel modulo sulle teorie
dell’apprendimento, la teoria costruttivista ha messo in evidenza il valore dell’interazione sociale,
nel costruire le conoscenze, e il carattere situato dell’apprendimento, in rapporto all’ambiente entro
cui avviene, è stato soprattutto il costruttivismo.

I 4 principi di Malaguzzi:

1. – costruzione sociale della conoscenza;


2. – diversità e sulla molteplicità delle strategie nei processi dell’apprendere
3. – contesto di apprendimento;
4. – sulla centralità del soggetto che apprende;
L’apprendimento, di conseguenza, produttivo ed efficace solo con una pedagogia attiva.

Egli arriverà a scrivere che l’apprendimento è un piacere. La conoscenza è un piacere dell’essere.

“Il piacere dell’apprendere, del conoscere e del capire è, per come sostiene MALAGUZZI, una delle
prime fondamentali sensazioni che ogni bambino si aspetta dall’esperienza che affronta da solo o con
i coetanei e con gli adulti. Una sensazione decisiva che va rafforzata perché il piacere sopravviva
anche quando la realtà dirà che l’apprendere, il conoscere, il capire possono costare difficoltà e fatica.
È in questa sua capacità di sopravvivere che il piacere può sconfinare nella gioia”.

Il piacere di apprendere diventa, in tal modo, la nostalgia del futuro.

Le scuole basate sul metodo Malaguzzi sono in genere luminose, aperte e comunicanti tra loro.
Sono dotate di tavoli luminosi al nido, su cui i bambini possono “lavorare”, mentre nelle classi della
materna, viene installato un laboratorio creativo, con un educatore specializzato in attività artistiche
e manuali. Vi è infine una partecipazione attiva delle famiglie in tutte le attività della scuola.

Bell e Lancaster ed il metodo del mutuo insegnamento


Bell e Lancaster ed il mutuo insegnamento
Bell e Lancaster produsseroun metodo che fù chiamato di Mutuo Insegnamento sono tra gli
antesignani della peer education.
I pedagogisti-pedagoghi Joseph Lancaster e dal reverendo Andrew Bell, proposero il metodo
del Mutuo insegnamento, indicato anche come insegnamento reciproco, è un metodo didattico
elaborato che risale quanto meno al Medioevo, ripreso da alcuni pedagogisti rinascimentali, come
Castellino da Castello e Comenio, ed applicato anche, tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo,
in alcune scuole primarie per poveri.

Ebbe sviluppo e applicazione sistematica solo a partire dalla fine del 18° sec., quando i due
inglesi A. Bell e J. Lancaster organizzarono, l’uno indipendentemente dall’altro, scuole fondate su
tale principio.
Il loro metodo fu utilizzato anche da Don Milani nella scuola da lui formata a Barbiana nel 1954.

Ricordiamo che anche Don Milano aveva un’idea sociale di educazione, educazione per tutti a favore
soprattutto dei figli degli operai e dei contadini.

Con tale metodo, l’insegnamento del docente non viene impartito simultaneamente a tutti i suoi
discenti, ma viene impartito inizialmente al gruppo dei discenti più capaci, individuati come ripetitori
delle lezioni, che a loro volta comunicano agli altri allievi -divisi in squadre o classi- quanto hanno
appreso.

Lancaster, Joseph apri una scuola elementare per bambini poveri, ricorrendo, per sopperire alla
scarsezza di mezzi, a quel metodo d’insegnamento che fu detto lancasteriano o mutuo, per il quale
gli scolari migliori vengono utilizzati come “monitori” o ripetitori delle lezioni agli altri. E’ un
metodo che usa la didattica del tutoraggio tra pari. Nel senso che in mancanza di docenti formati,
sono gli allievi della classe migliori o della classe avanzata che fanno da tutor o aiutano gli alunni più
in difficoltà.
Opera fondamentale: Improvements in education as it respects the industrious classes of the
community (1803), la quale poi (1810) comparve col nuovo titolo di The British system of education.
Il mutuo insegnamento viene presto applicato anche in Italia; ad esempio, nel 1819 viene fondata,
a Forlì, una scuola di mutuo insegnamento da Carlo Cicognani e Pietro Bofondi; il metodo è poi
ripreso anche da Raffaello Lambruschini.

Come è stato fatto notare, tale metodo ritorna oggi in quella che viene chiamata Peer education

Meirieu – il docente pensatore / allievi in scacco ed allievi in difficoltà


Meirieu – il docente pensatore / studenti in scacco Vs studenti in
difficoltà
Un pedagogista contemporaneo [negli ultimi anni al TFA sostegno escono questi pedagogisti
contemporanei] da ricordare è Meirieu, per il quale: gestione, relazione e disciplina si fondono in un
tutt’uno nell’ “edu-didattica”.
Meirieu è ora professore emerito di Scienze dell’Educazione all’Università Lumière Lyon
II appartiene alla scuola francese della pedagogia attiva, impegnata nel sociale.
Meirieu ha anche studiato e ripreso concetti e pratiche degli esponenti principali dell’Educazione
nuova, che abbiamo già visto in questo modulo di Origine, da Parkhurst a Kilpatrick, ma per altri
versi anche da Demolins a Claparède, da Montessori a Freinet, da Korczak fino a Makarenko, non
per fare della semplice ricostruzione storica ma perché, attraverso quel patrimonio di idee ed
esperienze, si possono affrontare i temi e le contraddizioni dell’educazione di oggi. La pedagogia
classica aiuta l’educatore e l’insegnante a comprendere le sfide che stanno dietro i “luoghi comuni”,
offrir loro le armi del mestiere e i “concetti chiave” per poter condurre nel modo migliore l’attività
pedagogica e didattica.
Per Meirieu bisogna sempre trovare un punto di appoggio legato a progetti personali dello studente
stesso, favorire progetti individuali significa favorire l’apprendimento sul piano senso-motorio,
cognitivo e affettivo dello studente. I progetti personali rendono lo studente “attento e motivato” ha
un progetto di uso futuro, ha delle immagini mentali di tale risultato.
Egli inoltre, propone di valutare bene e quindi nel caso di gestire e variare la distanza pedagogica che
considera fondamentale per una buona gestione; in alcuni momenti il docente meta-cognitivamente
pensa per essere vicino e “quasi amico” dello studente in altri “lontano”, tenendo una certa distanza.
Meirieu individua 4 operazioni cognitive fondamentali:

 indurre
 dedurre
 dialettizzare (fare interagire-dialogare le leggi e i concetti)
 pensiero divergente.
E 3 tipologie di situazione problema:

 problema di comunicazione
 situazione di risoluzione
 problema di utilizzo.
La situazione problema deve basarsi su una tripla valutazione diagnostica: del sapere, del saper fare
e del saper essere. L’ostacolo da superare durante la risoluzione è più importante del risultato.
Meirieu afferma che la valutazione ¨è un mezzo di decontestualizzazione” ovvero che permette di
capire quando l’allievo sa applicare la conoscenza in un’altra situazione.

I criteri di valutazione devono essere condivisi e costruiti insieme agli studenti, egli infatti propone
consigli pratici come scrivere a fine giornata di cosa gli studenti in una logica di partecipazione stessa
al progetto di apprendimento vogliono ricordare e fare magari delle schede o preparare dei cartelloni.
In tal modo si possono identificare per ogni studenti i punti deboli su cui concentrarsi nel lavoro, in
modo da costruire un vero e proprio quaderno o libretto di autovalutazione.

Abbiamo visto nel modulo uno di Origine, l’importante di individuare e capire le strategie di
apprendimento degli allievi-studenti; sono quindi da considerare i diversi stili di apprendimento. Gli
allievi apprendono con stili di apprendimento diversi e questo porta il docente a utilizzare metodi,
situazioni didattiche e situazioni problema differenziate.
 Approccio verbale o scritto
 Strategia visiva o uditiva
 Contatto o rappresentazione dell’oggetto
 Impulsività verso riflessione
 Dipendenza dall’interazione sociale o indipendenza
 Conformismo o pensiero divergente
 Raccolta anticipata di tutta l’informazione verso integrazione progressiva
 Lavoro con una solo stesura verso lavoro segmentato o a strati.
 Approccio settoriale o globale
 Comprensione per analisi o confronto
 Appoggio sulle differenze o sulle similitudini
 Intolleranza all’incertezza o tolleranza all’incertezza
 Bisogno di supporto/aiuto o di indipendenza
Meirieu pone particolare attenzione agli studenti in “scacco” e in “difficoltà”. Egli dice che mentre
lo studente in difficoltà necessita di cambiamenti di metodo e di nuove strategie di apprendimento.
Lo studente in scacco deve ritrovare il senso dell’apprendimento; con lui bisogna agire su un piano
pedagogico e relazionale profondo, della motivazione, dell’incentivo, del far capire il valore ed il
senso dell’apprendimento.

Malcolm Shepherd Knowles e l’andragogia (la scienze dell’educazione degli adulti)


Malcolm Shepherd Knowles e l’andragogia
Malcolm Shepherd Knowles è uno studioso dell’apprendimento degli adulti, ha proposto il concetto
di andragogia, cioè la scienza di aiutare gli adulti ad apprendere, distinta dalla pedagogia, ovvero
l’arte e la scienza di insegnare ai bambini e ai ragazzi, dalla radice greca pedagogia.
Tecniche e strategie di educazione che riguardano nello specifico la formazione dei soggetti adulti,
non sono solo i bambini ed i ragazzi a dover apprendere ma anche gli adulti.

Knowles abbracciò l’idea secondo cui la scuola andava modernizzata valorizzando le attività pratiche
e mettendo al centro dei processi formativi l’esperienza degli allievi. Argomenti che la pedagogia
attivista aveva fatto propri da tempo, pensiamo alla proposta di Dewey.

Il modo e gli stili di apprendimenti dell’adulto e le sue esperienze e strategie dell’adulto sono diverse
da quelle di bambini e ragazzi e che quindi non è sufficiente trasporre i principi pedagogici alla
formazione degli adulti, ma sono necessari metodologie, docenti e assunti filosofici speciali.

L’andragogia si propone come risposta alla debolezza di un apprendimento scuola-centrico, distante


dai problemi reali dei soggetti, difeso da una pedagogia tradizionale altrettanto debole nelle sue
teorizzazioni.

I sei principi individuati da Knowles sono:

1. Il bisogno di conoscere: un soggetto adulto ha bisogno di associare i contenuti


dell’apprendimento alla loro spendibilità nella vita reale;
2. il concetto di sé: se l’adulto non può esercitare autonomia e controllo su se stesso reagisce
opponendo una sorta di resistenza all’apprendimento;
3. il ruolo dell’esperienza.
4. la disponibilità ad apprendere
5. l’orientamento verso l’apprendimento: gli adulti sono disposti ad investire
nell’apprendimento nella misura in cui questo potrà aiutarli ad affrontare meglio compiti e
problemi
6. la motivazione: un soggetto adulto si sente attivato e motivato molto più da fattori quali
l’autostima, la qualità della vita, la soddisfazione personale, il senso del dovere ecc., quindi
da motivazioni intrinseche.
Richard Mayer, apprendimento multimediale o e-learning
Richard Mayer, apprendimento multimediale o e-learning –
Multimedia Learning
La teoria dell’apprendimento multimediale di Richard Mayer, rientra negli approcci centrati sulla
tecnologia e sull’utente, sulle nuove modalità didattiche online. Egli infatti scrive Multimedia
Learning, un libro in cui discute i principi alla base della progettazione multimediale. Si tratta di
principi validi anche come guida per la creazione di contenuti eLearning efficaci e i 12 principi alla
base del suo modello sono un punto di riferimento per la progettazione educativa.
Egli individua 12 principi dell’apprendimento multimediale:

1. Principio di coerenza
2. Principio di segnalazione
3. Principio di ridondanza
4. Principio di Contiguità spaziale
5. Principio di Contiguità temporale
6. Principio di segmentazione
7. Principio della pre-formazione
8. Principio di modalità
9. Principio Multimediale
10. Principio di personalizzazione
11. Principio della voce
12. Principio dell’immagine
L’efficacia dell’e-Learning, dell’apprendimento elettronico, si basa su processi di progettazione
appropriati: il contesto di apprendimento mediato da un mezzo digitale è ben diverso dal contesto
tradizionale d’aula. I mezzi tecnologici che permettono di sviluppare elementi formativi multimediali
sono molteplici e occorre saper scegliere tra molti elementi per creare un impatto adeguato ed
aumentare l’attrattività del contenuto. In base a questi principi il progettista educativo sceglie i media
più opportuni per l’eLearning. Vediamo gli elementi caratteristici di questa teoria cognitivista
dell’apprendimento, essendo una lista qualche principio si presta per un’eventuale prova preselettiva
a risposta multipla.
L’obiettivo finale è quello di trasferire quanto appreso al di fuori del contesto della formazione.
Secondo la teoria dell’apprendimento multimediale, i principali approcci per migliorare
l’apprendimento sono due: l’approccio technology-centered e quello learner-centered.

Vediamo una sintesi dei due approcci alla base dell’apprendimento multimediale:

1. L’approccio technology-centered – centrato sulla tecnologia come sfruttare le funzionalità


tecnologiche per progettare una presentazione multimediale.
2. L’approccio learner-centered o detto anche centrato sull’utente sposta il focus
sulla conoscenza della mente umana e di come la tecnologia può essere di supporto nel
processo di raccolta delle informazioni, della loro memorizzazione e comprensione.
Approccio Scopo Problema da risolvere

Incentrato sulla Facilitare l’accesso

tecnologia all’informazione Come possiamo usare la tecnologia per fare una lezione multime

Come possiamo adattare la tecnologia multimediale per aiutare l

Incentrato sull’utente Aiutare la comprensione umana umana

La pedagogia della complessità contemporanea:


Il paradigma della complessità (Bateson, Lewin, Foucault)
Il paradigma della complessità (Bateson, Lewin, Foucault)
La prima ricaduta del paradigma della complessità sulla riflessione didattica, riguarda la nuova attenzione al
contesto, nelle sue espressioni organizzativo-istituzionali, socio-relazionali e comunicative.Per lungo tempo il
contesto è stato considerato “ciò che sta intorno all’individuo”, senza tenere conto della “tessitura delle parti”,
delle relazioni che si sono stabilite con e fra tutti gli altri elementi del sistema: sono queste relazioni ne
costituiscono la caratteristica fondamentale, la “qualità emergente” di cui parla Bateson, che dà significato ai
singoli elementi, ai singoli soggetti, alle singole azioni.

Già Dewey aveva sancito il rapporto irrinunciabile fra scuola e contesto sociale, affermando che
l’apprendimento dell’individuo avviene all’interno e grazie al gruppo di cui fa parte e che il sistema scolastico
non poteva essere deputato solo alla trasmissione dei contenuti disciplinari, ma doveva veicolare i valori
democratici della società da cui riceveva il suo mandato educativo.

Lewin, con la sua teoria di campo afferma che si possono ottenere e/o incrementare i risultati di un processo
sociale e/o educativo, operando sullo spazio vitale dell’individuo, ossia predisponendo strutture e contesti
adeguati agli interventi di insegnamento-apprendimento: secondo questa teoria, il processo di apprendimento
è condizionato dal mondo esperienziale del soggetto, dai precedenti condizionamenti educativi e dai fenomeni
adattivi con cui il soggetto integra i nuovi input conoscitivi nel mondo precedentemente elaborato e
interiorizzato mentalmente.

Per lungo tempo il contesto è stato considerato “ciò che sta intorno all’individuo” senza tenere conto della
“tessitura delle parti”, delle relazioni che si sono stabilite con e fra tutti gli altri elementi del sistema: sono
queste relazioni ne costituiscono la caratteristica fondamentale, la “qualità emergente” di cui parla Bateson,
che dà significato ai singoli elementi, ai singoli soggetti, alle singole azioni.

Per poter conoscere, comprendere e dunque progettare e condurre consapevolmente l’evento educativo e – più
specificamente – l’azione didattica, è necessario collocarli e analizzarli in relazione ad uno “sfondo integratore,
un “contesto di significati”, una rappresentazione di senso che dà significato a gesti, parole, fatti”, dove il
contesto può essere definito un insieme di norme e relazioni che ne regolano il funzionamento e danno
significato agli atti comunicativi e ai comportamenti che si esplicano al suo interno.
“Gli insegnanti e gli allievi non producono semplici comportamenti di reazione reciproca, né semplici
attività materiali, ma elaborano condotte che assumono significati per coloro che le producono e per
coloro ai quali sono dirette; le relazioni fra di esse e i rispettivi significati si concretizzano in luoghi
e tempi che sono caratterizzati nei termini del sistema culturale dell’istituzione scolastica” .

Per Foucault “ogni epoca ha il suo épistémé, la radice silenziosa ma reale che sostiene il suo
linguaggio, che organizza la vita dei soggetti, sia dal punto di vista sociale che culturale, contribuendo
a costruire un orizzonte di senso, un continuum sensoriale, affettivo-pratico, socio-culturale e
istituzionale entro cui collocare, classificare, spiegare, interpretare i fenomeni biologici, sociali
umani”.

In questo senso, si ricollega agli studi antropologici avviati da Levy Strass, Benedict, Mead, sviluppati
poi dall’antropologia interpretativa di Geertz, secondo cui i processi conoscitivi e dello sviluppo
avvengono in riferimento al contesto culturale di appartenenza, ossia al codice di interpretazione della
realtà del gruppo di cui si fa parte (antropologia culturale ed integrazione studenti stranieri)
“Gli insegnanti e gli allievi non producono semplici comportamenti di reazione reciproca, né semplici
attività materiali, ma elaborano condotte che assumono significati per coloro che le producono e per
coloro ai quali sono dirette; le relazioni fra di esse e i rispettivi significati si concretizzano in luoghi
e tempi che sono caratterizzati nei termini del sistema culturale dell’istituzione scolastica” .

Il gioco di mediazione (Rogers)


Il gioco di mediazione (Rogers)
Il gioco di mediazione fra l’accadere casuale, storico e contingente degli avvenimenti in classe e a
scuola da un lato e le connessioni e, dall’altro lato, le previsioni teoriche che il docente deduce
scientificamente e sensatamente, costituisce la trama caratteristica di ogni evento educativo e
didattico, il punto di partenza e di arrivo di ogni intervento didattico. Meglio, rappresenta il compito
principale dell’insegnante.

Proprio per prepararsi ad accogliere e gestire l’imprevisto, il caso, la storia didattica come essa si
svolge, il docente dovrà predisporre contesti spazio-temporali, organizzativo-istituzionali e socio-
culturali pensati e realizzati in modo sufficientemente variegato, articolato e flessibile da valorizzare
le risorse individuali e collettive presenti e, al tempo stesso, far fronte a vincoli, ostacoli, imprevisti
non desiderabili.

L’ambito culturale in cui sono state elaborate le proposte più adeguate per poter attuare questa
mediazione istituzionale e relazionale è quello della psicologia istituzionale (per quanto riguarda più
specificamente il campo scolastico) e della pedagogia istituzionale (relativamente soprattutto al
campo dei servizi extrascolastici).
Questa scuola di pensiero fa riferimento alle esperienze maturate nell’ambito dell’educazione attiva,
alle ricerche relative alle dinamiche dei gruppi (Lewin, Moreno e Bion), all’analisi della dialettica fra
organizzazione, gruppi e identità individuali condotti nell’ambito della fenomenologia, nonché al
concetto di educazione indiretta rintracciabile già in Rousseau e nella Montessori e ripreso poi dalla
psicologia non direttiva di Rogers.
Per poter conoscere, comprendere e dunque progettare e condurre consapevolmente l’evento
educativo e – più specificamente – l’azione didattica, è necessario collocarli e analizzarli in relazione
ad uno “sfondo integratore, un “contesto di significati”, una rappresentazione di senso che dà
significato a gesti, parole, fatti”, dove il contesto può essere definito un insieme di norme e relazioni
che ne regolano il funzionamento e danno significato agli atti comunicativi e ai comportamenti che
si esplicano al suo interno.

Goffman e Mead: l’approccio pedagogico di tipo ecologico e di contesto


Goffman e Mead: l’approccio pedagogico di tipo ecologico e di
contesto
Approccio socio-antropologico:

1. Erving GOFFMANN
2. Mead
Goffman, attraverso lo studio delle istituzioni totali (manicomi, istituti per minori abbandonati,…)
evidenzia come l’organizzazione dei sistemi istituzionali determinano le relazioni, i ruoli, le posizioni
e le ‘facce’ (identità) dei soggetti che vi fanno parte, connotando di significato metacomunicativo
gesti , parole, azioni e comportamenti. Secondo questo autore, ogni soggetto di un certo
sistema/contesto è allo stesso tempo osservatore e attore, che ‘recita’ le proprie parti/facce, i propri
ruoli, in base alla rete di norme e regole del sistema e in base alla rappresentazione che si è costruito
della propria identità e di quella altrui.

Ogni soggetto cerca al tempo stesso di essere all’altezza delle norme sociali e morali esplicite e
implicite, molto spesso ambigue, che gli vengono imposte, pur cercando di rimanere fedele al suo
personaggio e alle sue qualità positive, cioè cercando di non perdere la sua ‘faccia’.

E’ attraverso il reale simbolizzato che gli esseri umani entrano in contatto e si costruiscono un sistema
di riferimento che permette di discutere, scegliere e modificare i propri comportamenti.

L’interazionismo simbolico di Margaret Mead analizza, in specifico, il rapporto fra


organizzazione del collettivo sociale – nei suoi aspetti relativi all’eventuale condivisione dei
comportamenti, dei codici di interpretazioni culturali, dei valori e degli stili di vita – e costruzione
dell’identità personale.

La didattica dell’inatteso di Urie Bronfebrenner


La didattica dell’inatteso di Urie Bronfebrenner
Lo psicologo dello sviluppo Urie Bronfebrenner parla di ecologia dello sviluppo per indicare come
lo sviluppo dello studente non possa essere considerato un processo unicamente biologico, innato o
psicogenetico, e nemmeno possa essere pensato come il risultato deterministico di interventi educativi
e didattici predefiniti; lo sviluppo cognitivo e psicologico si definirà proprio in relazione al sistema
di riferimento simbolico, culturale, relazionale e istituzionale dei contesti di riferimento del bambino.
Più specificamente lo sviluppo dello studente risentirà e sarà determinato dalla complessa
interconnessione fra i diversi sistemi di cui il soggetto fa parte:
1. i microsistemi, ossia i contesti relazionali con cui entra direttamente in contatto (la famiglia, la scuola,
il gruppo dei pari,…
2. l’eso-sistema, i contesti con cui non ha diretto contatto, ma di cui fanno parte i genitori ( ad esempio
il contesto lavorativo dei genitori);
3. il macrosistema ( il codice culturale di interpretazione della realtà dominante (ad esempio, la cultura
occidentale dei paesi industrializzati);
4. il mesosistema (le transazioni fra i diversi sottosistemi: ad esempio, il rapporto fra la scuola e la
famiglia, o la famiglia e il gruppo di pari.
In base a questo approccio ecologico e contestualistico, l’azione didattica non potrà limitarsi a pensare
ai contenuti disciplinari o, nei casi più avvertiti, alle attività, alle strategie o agli strumenti con cui
proporli; per garantire a tutti i bambini il conseguimento di risultati soddisfacenti e permettere uno
sviluppo equilibrato l’insegnante dovrà tener conto, di volta in volta, dell’influenza del gruppo
generazionale, della famiglia, del mondo rappresentazionale e simbolico entro cui il bambino filtra e
interpreta le conoscenze proposte, negoziando le strategie educative con la famiglia.

Bronfebrenner, però, non descrive queste connessioni sistemiche di cui il docente dovrà tener conto
come processi lineari-causali che, se considerati, assicurano risultati positivi; piuttosto il responsabile
del processo di insegnamento potrà muoversi all’interno del loro complesso intreccio, senza però
trascurare il ruolo del caso, dell’evento inaspettato, di quegli ‘attesi imprevisti’ di cui parla Perticari,
che costellano e costruiscono la storia delle relazioni educative e delle azioni didattiche, così come di
ogni atto umano.

“La didattica dell’inatteso” non si fonda “sull’uso tranquillizzante delle metodiche oggettivanti e sulla
riduzione a codici standardizzati”, ignorando “tutti quegli aspetti non conformi agli schemi
precostituiti”. Secondo l’epistemologia della complessità, l’inatteso è “un segnale irrinunciabile di
informazione su ciò che sta accadendo nell’interazione reale”, così come le regolarità relazionali,
organizzativo-istituzionali, che caratterizzano il contesto educativo e didattico.

EDGAR MORIN – una testa ben fatta è meglio di una testa ben piena
Edgar Morin – una testa ben fatta e 7 saperi per l’educazione del
futuro
Edgar Morin ha dedicato gran parte della sua opera ai problemi di una “riforma del pensiero”,
affrontando le questioni alla base delle sue riflessioni sull’umanità e sul mondo.
Una delle idee centrali del pensiero di Morin è che la separazione delle discipline consente il
progresso individuale di ciascuna di esse, ma limita la conoscenza a livello globale, che viene
decontestualizzata.
La sua opera I sette saperi necessari all’educazione del futuro, pubblicata nel 2000, propone sette
condizioni o categorie per riorganizzare in modo transdisciplinare il pensiero e l’educazione di ogni
società e cultura. Nel corso del XX secolo, scienze come la microfisica e la cosmologia ci hanno
mostrato che la conoscenza contiene incertezze che l’insegnamento dovrebbe considerare. Educare
a predisporre la mente ad aspettarsi l’inatteso è fondamentale per affrontare i rischi che le
incertezze comportano. Non va dimenticato che tutte le decisioni che potremo prendere, sia
personalmente che politicamente, non sono altro che scommesse, scrive Morin. Morin distingue
tra “una testa nel quale il sapere è accumulato e non dispone di un principio di selezione e di
organizzazione che gli dia senso” e una “testa ben fatta”, che comporta “un’attitudine generale a
porre e a trattare i problemi; principi organizzatori che permettano di collegare i saperi e di dare loro
senso”. Secondo Morin, una “testa ben fatta”, mettendo fine alla separazione tra le due culture,
consentirebbe di rispondere alle formidabili sfide della globalità e della complessità nella vita
quotidiana, sociale, politica, nazionale e mondiale.
Che cosa significhi essere umani, comprendere la nostra connessione con il mondo naturale, ma
anche le nostre differenze, confrontarsi con le incertezze, sviluppare la propria capacità di vivere
l’aspetto poetico della vita, essere consapevoli della complessità del reale, sono solo alcuni dei punti
che l’educazione del futuro dovrebbe considerare.
1. Le cecità della conoscenza: l’errore e l’illusione
Per questo il primo dei “sette saperi” è proprio conoscere la conoscenza, invitando a
potenziare nell’insegnamento lo studio dei caratteri cerebrali, mentali e culturali della
conoscenza umana, dei suoi processi e delle sue propensioni naturali all’errore e
all’illusione.
2. I principi di una conoscenza pertinente.ù
Morin esprime tutta la sua diffidenza nei confronti della separazione delle discipline, sottolineando
come una conoscenza altamente specializzata ma frammentata, come è quella del nostro tempo, renda
spesso incapaci di effettuare il legame tra le parti e le totalità. È necessario dunque promuovere una
conoscenza capace di cogliere i problemi globali e gli oggetti nei loro insiemi, sviluppando
quell’attitudine naturale della mente umana a situare le informazioni in un contesto.
3. Insegnare la condizione umana Uno dei limiti dell’educazione attuale è il fatto di non insegnare
ciò che significa essere umano, conoscere il carattere complesso della propria identità e
dell’identità che si ha in comune con tutti gli altri umani. Secondo Morin, è possibile riconoscere
l’unità e la complessità dell’essere umano riunendo e riorganizzando le conoscenze disperse nelle
scienze della natura, nelle scienze umane, nella letteratura e nella filosofia.
4. Insegnare l’identità terrestre – L’idea di destino planetario è attualmente ignorata
dall’insegnamento. Gli snodi dell’era planetaria, iniziata nel XVI secolo con la comunicazione fra
tutti i continenti ed il complesso di crisi planetaria che segna il XX secolo sono spunti importanti per
educare alla riflessione su come tutte le parti del mondo condividano un passato di reciproca
solidarietà, ma anche di oppressione e devastazione. Dal momento che il destino del pianeta riguarda
tutti gli uomini, per Morin è fondamentale sottolineare quanto l’educazione possa dunque contribuire
alla creazione di un’ipotetica “cittadinanza terrestre”.
5. Affrontare le incertezze.
6. Insegnare la comprensione Il pianeta ha bisogno in tutti i sensi di reciproche comprensioni, al
punto che Morin sostiene che sia necessaria una riforma della mentalità che educhi anche
all’incomprensione.
7. L’etica del genere umano -L’insegnamento deve far riconoscere la triplice realtà umana, così che
l’etica si formi nelle menti a partire dalla coscienza che l’uomo è allo stesso tempo individuo, parte
di una società, parte di una specie.

I sette saperi necessari all’educazione del futuro


Nel testo I sette saperi necessari all’educazione del futuro Morin esplicita i sette argomenti che
devono, a suo parere, diventare fondamentali nell’insegnamento e che l’educazione dovrebbe trattare
in ogni società e in ogni cultura.
1- Le cecità della conoscenza. L’errore e l’illusione: “E’ sorprendente che l’educazione, che mira
a comunicare conoscenze, sia cieca su ciò che è la conoscenza umana, (…), le sue propensioni all’
errore e all’ illusione, e che non si preoccupi affatto di far conoscere che cosa è conoscere”.
2- I principi di una conoscenza pertinente. In questo libro, Morin afferma che è necessario
“promuovere una conoscenza capace di cogliere i problemi globali e fondamentali”. “E’ necessario
–continua Morin- sviluppare l’attitudine naturale della mente umana a situare tutte le informazioni in
un contesto e in un insieme”. E ancora: “E’ necessario insegnare i metodi che permettano di cogliere
le mutue relazioni e le influenze reciproche tra le parti e il tutto in un mondo complesso”.
3- Insegnare la condizione umana. “L’essere umano è nel contempo fisico, biologico, psichico,
culturale, sociale, storico. Questa unità complessa della natura umana è completamente disintegrata
nell’insegnamento, attraverso le discipline”. Secondo Morin, ciascuno “dovrebbe prendere
conoscenza e coscienza sia del carattere complesso della propria identità sia dell’identità che ha in
comune con tutti gli altri umani”.
4- Insegnare l’identità terrestre. E’ opportuno –afferma Morin- “insegnare la storia dell’era
planetaria, che inizia nel XVI secolo (…) e mostrare come tutte le parti del mondo siano divenute
inter-solidali, senza tuttavia occultare le oppressioni e le dominazioni che hanno devastato e ancora
devastano l’umanità”.
5- Affrontare le incertezze. Le scienze, nel corso del XX secolo, “ci hanno rivelato innumerevoli
campi d’incertezza”. “L’insegnamento dovrebbe comprendere un insegnamento delle incertezze che
sono apparse nelle scienze fisiche (…), nelle scienze dell’evoluzione biologica e nelle scienze
storiche”. Secondo Morin, si dovrebbero insegnare “principi di strategia che permettano di affrontare
i rischi, l’inatteso e l’incerto e di modificarne l’evoluzione grazie alle informazioni acquisite nel
corso dell’azione. Bisogna apprendere a navigare in un oceano d’ incertezze attraverso arcipelaghi
di certezza” .
6– Insegnare la comprensione, che “è nel contempo il mezzo e il fine della comunicazione umana”.
L’educazione alla comprensione è assente dai nostri insegnamenti, mentre “il pianeta ha bisogno in
tutti i sensi di reciproche comprensioni”. Pertanto, “data l’importanza dell’educazione alla
comprensione, a tutti i livelli educativi e a tutte le età, lo sviluppo della comprensione richiede una
riforma delle mentalità. Questo deve essere il compito per l’educazione del futuro”. La reciproca
comprensione fra gli uomini, vicini a noi o lontani, “è ormai vitale affinché le relazioni umane escano
dal loro stato barbaro di incomprensione”. E’ necessario, quindi, studiare l’incomprensione “nelle
sue radici, nelle sue modalità e nei suoi effetti”. Tale studio sarebbe tanto più importante “in quanto
verterebbe non sui sintomi, ma sulle radici dei razzismi, delle xenofobie, delle forme di disprezzo”. E
tale studio “costituirebbe nello stesso tempo una delle basi più sicure dell’educazione alla pace”.
7- L’etica del genere umano. “L’insegnamento deve produrre una <> capace di riconoscere il
carattere ternario della condizione umana “, che consiste nell’essere contemporaneamente:
individuo, specie e società. (…) ”… ogni sviluppo veramente umano deve comportare il
potenziamento congiunto delle autonomie individuali, delle partecipazioni comunitarie e della
coscienza di appartenere alla specie umana”. Morin individua due grandi finalità etico-politiche del
nuovo millennio: “stabilire una relazione di reciproco controllo fra la società e gli individui
attraverso la democrazia; portare a compimento l’Umanità come comunità planetaria”.

I pedagogisti marxisti e critici


La pedagogia Marxista: Scuola di Francoforte, Althusser, Marcuse, Adorno ed Horkheimer
La pedagogia Marxista: Scuola di Francoforte, Althusser, Marcuse,
Adorno ed Horkheimer
Per i pedagogisti marxisti, l‘istruzione è un’arma nelle classi dei proprietari dei mezzi di
produzione, che se ne servono per mantenere l’ordine sociale esistente.
Studiosi marxisti (dagli anni ’70) pensano che per capire come sono nati, come operano e perché
possono cambiare i sistemi scolastici moderni è necessario guardare non ai “bisogni del sistema
sociale o alla domanda di qualificazione, ma ai rapporti di produzione e alla lotta fra classi sociali.
La scuola perpetua infatti le disuguaglianze esistenti tra classi, la scuola è assoggettamento dei
borghesi e dei capitalisti delle masse per renderle docili alla produzione.

Sulla scorta dei presupposti filosofici del materialismo dialettico, i cardini generali dell’orientamento
pedagogico marxista possono essere rinvenuti in un collegamento dinamico e dialettico tra
educazione e società e tra teoria/prassi pedagogica e teoria/prassi rivoluzionaria, sia da un punto di
vista analitico (poiché ogni ideale formativo non può essere considerato come svincolato nè dal
sostrato socio-economico su cui si articola, né dalle pressioni ideologiche della classe dominante),
che di prospettiva d’azione, organicamente interconnessa all’emancipazione dell’uomo sul piano
individuale e sociale e, pertanto, ad una formazione “onnilaterale” e integralmente umana che sia
strumento rivoluzionario, di liberazione rispetto a qualsivoglia forma di subalternità ed alienazione.

La centralità del lavoro all’interno della pedagogia marxista, o più precisamente dell’unificazione tra
lavoro manuale ed intellettuale, abbatte la scissione patogena tra teoria e prassi, trova i propri
presupposti storico-filosofici nella “divisione del lavoro” come fondamento della divisione della
società in classi (e quindi prepara il terreno per il superamento di una tale società, e conseguentemente
per l’edificazione di un nuovo modello sociale, democratico e organizzato in modo razionale, che
permetta una reale e libera espansione delle facoltà umane), e contribuisce ad una formazione
genuinamente integrale ed integrata di ogni individuo.

Si tratta anche di una pedagogia che rifiuta lo spontaneismo e il naturalismo ingenuo, per abbracciare
la dimensione della disciplina come presupposto per la libera espressione dell’individuo e del gruppo;
come fondamento genuino di libertà basata sull’eguaglianza e sulla cooperazione, non sulla
prevaricazione altrui.

Althusser –> nella società capitalista la riproduzione dei rapporti di produzione viene assicurata
dall’esercizio del potere di stato negli apparati di stati: repressivi (governo, amministrazione…) e
ideologici (scuola, Chiesa…).

I teorici della Scuola di Francoforte criticano le forme di dominio della società capitalista, dove gli
individui vengono sottomessi dalla classi dominanti.

La teoria critica della Scuola di Francoforte ha influenzato alcuni frangenti della sinistra e del suo
pensiero (in particolare la nuova sinistra). Herbert Marcuse è spesso citato come il teorizzatore o
progenitore della nuova sinistra. Nel suo libro L’uomo a una dimensione (titolo originale: One-
Dimensional Man: Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society) Herbert Marcuse, in cui
l’autore propone una critica ad ampio raggio sia del capitalismo contemporaneo che della società
comunista dell’Unione Sovietica, documentando l’ascesa parallela di nuove forme di repressione
sociale in entrambe queste società, così come il declino del potenziale rivoluzionario in Occidente.
Ciò si traduce in un universo “unidimensionale” di pensiero e comportamento, in cui l’attitudine e
l’abilità per il pensiero critico e il comportamento di opposizione si allontanano. Contro questo clima
prevalente, Marcuse promuove il “grande rifiuto” (descritto a lungo nel libro) come l’unica
opposizione adeguata ai metodi onnicomprensivi di controllo.
Gran parte del libro è una difesa del “pensiero negativo” come forza dirompente contro il positivismo
prevalente.

La pedagogia di Makarenko e l’educazione alla lotta

MAKARENKO e l’educazione alla lotta


MAKARENKO pedagogo russo -proviene dalla teoria dei collettivi autogestiti e introdusse il
concetto di lavoro produttivo nel sistema educativo, autore della PEDAGOGIA DELLA LOTTA –
quando, sul finire del 1921, il giovane potere sovietico decise di espandere scuola e formazione a tutti
i ragazzi di quell’immenso territorio conquistando a quella causa – insieme a Makarenko – migliaia
di insegnati e giovani docenti che uscivano dalle scuole di pedagogia, si calcolavano in 8 milioni i
besprizornye (“bambini e ragazzi senza tutela”) vaganti nelle strade e senza tetto.
Per Makarenko come per gli altri pedagogisti marxisti e socialisti bisogna lavorare con la socialità
dell’individuale. L’identità non è un dato fisso. E neppure un dono gratuito.

L’identità è un crocevia e dipende dalla classe sociale e dalle possibilità che l’ambiente culturale e
sociale offre al bambino ed al ragazzo. Mentre altri pedagogisti si limitano all’individuale, Makarenko
fa della pedagogia strumento eminentemente politico, una lotta di potere e per il potere, bisogna
educare i ragazzi a rivendicare i loro diritti sociali. Perché l’uomo è sì natura, ma anche storia.
Non si dà problema dell’individuo che si esaurisca nei suoi termini individuali. Senza esserne
un passivo o scontato epifenomeno, l’individuo chiama in causa il sociale. I suoi problemi
possono essere segnali di un disagio più grande. Contrario al progetto educativo descritto
nell’Emilio di Jean-Jacques Rousseau e, quindi, all’educazione libera e spontanea sostenuta da alcuni
pensatori e pedagoghi impegnati all’indomani della rivoluzione nelle iniziative d’istruzione popolare
e di educazione rivoluzionaria, Makarenko ritiene che la mancanza di una prospettiva e di uno scopo
sociale nel programma educativo, sebbene dialogico e flessibile, porti solo alla ricerca individuale,
all’assenza di spirito collettivo e alla perdita del senso di fratellanza e solidarietà umana. Per questo
motivo l’educazione è il processo di socializzazione dell’uomo, che deve avere luogo dentro il
“collettivo”.
Il fondamento della pedagogia di Makarenko è il seguente: l’educazione alla lotta.

Nei primi decenni del Novecento, il pedagogista sovietico Makarenko voleva realizzare nella
Repubblica dei Soviet la formazione dell’homo novus necessario alla costruzione del socialismo.

Makarenko scommetteva su di un’educazione intesa come strumento di cambiamento e


progresso civile costituisce.
Attraverso le opere di Makarenko, a cominciare dal Poema Pedagogico (l’opera più tradotta e
studiata), possiamo scoprire un metodo originale di emancipazione e riscatto della gioventù, che
liberato del peso dei suoi eccessi ideologici e camerateschi può trovare rispondenza nel mondo
attuale.
Makarenko s’immerge negli abissi umani e psicologici di una comunità di piccoli ex-delinquenti, con
lo scopo di restituire loro la vita, concepita sostanzialmente quest’ultima come “esistenza in comune”.
E proprio da quest’idea si deve partire per cogliere l’essenza stessa del suo insegnamento, così come
si ricava dai suoi lavori, nei quali fa costantemente eco il pensiero di un’altra grande personalità del
tempo, Maksim Gor’kij, che si può condensare nella massima “un uomo solo, per quanto grande, è
pur sempre solo”.
I ragazzi delle colonie di Makarenko partono da condizioni disagiate, e le loro storie sono la prova
concreta che il compito educativo e formativo può essere positivamente svolto, pur nelle difficoltà
degli svantaggi di partenza, a condizione però che si sappia reinventare le affermazioni più efficaci
del pedagogo: l’amore per la vita e per l’uomo, l’ottimismo nella costruzione del futuro,
l’“avanzare il più possibile richieste all’uomo e il più possibile avere rispetto per lui”.
I personaggi del Poema Pedagogico, figure realisticamente vissute, sono l’esempio della
costruzione di forti personalità giovanili, fiduciose, ottimiste, aperte alle prospettive del
cambiamento, attente a riconoscere nel loro educatore un’alta capacità progettuale e attiva di elevata
tensione morale. Questo riconoscimento è importante per l’accettazione e la preservazione da parte
dell’educando di principi quali la pratica del lavoro mentale e manuale, la maturazione della
solidarietà e della socialità.
Il modello educativo di Makarenko tende alla trasformazione del soggetto verso ideali capaci di
realizzare quella che il grande pedagogista polacco di orientamento marxista Bogdan Suchodolski
definiva “umana felicità”, e che si basa sullo sforzo individuale e sociale, sul lavoro produttivo,
sulla responsabilità personale e collettiva.

Per Makarenko la vita singola acquista valore e completezza se l’uomo partecipa all’edificazione di
una valida vita sociale, e che quest’ultima, a sua volta, prospera e si fortifica solo se riesce a
compenetrarsi con l’agire individuale.
Da tutte queste premesse, Makarenko costruisce le sue colonie ponendo al centro il lavoro
organizzato e associato. Intanto perché esso risponde al nuovo programma politico del governo di
Mosca e dall’altro perché contiene quegli elementi di solidarietà e di coesione sociale necessari per
affrontare la drammatica situazione seguita alla guerra civile.
L’esperienza delle colonie e delle comuni per ragazzi in stato di abbandono proseguirà anche nel
lavoro successivo di edificazione del socialismo, sia nella fase della Nep sia in quella del primo
periodo della pianificazione e del primo piano quinquennale (pjatiletka). Quella stagione sarebbe
presto finita, come gli studiosi sanno, ma le opere che Makarenko ha ricavato da quella
straordinaria esperienza restano per sempre una mirabile testimonianza umana, sociale e politica.

Il Poema pedagogico rappresenta universalmente il “poema” dell’illimitata fiducia nell’educabilità


umana, della responsabilità personale, della formazione e della vita del collettivo, attraverso il
contributo di ogni singolo individuo, della fertilità del nesso studio-lavoro, dell’“uomo nuovo” e
delle “prospettive”. L’ottimismo makarenkiano si traduce nella fede che possiede colui che vuole
modificare la realtà e lottare per un futuro migliore. Gli uomini devono però porsi delle prospettive.
L’educazione alle prospettive avviene con l’applicazione del principio già enunciato: “avanzare il
più possibile richieste all’uomo e il più possibile avere rispetto per lui”.

Le richieste sono un segno di fiducia verso i ragazzi, che si liberano nell’attività pratica e mentale
delle loro precedenti condizioni d’inferiorità e subalternità, dandosi delle nuove prospettive da
raggiungere, assaporando la gioia della conquista. Un sistema che è risultato potentemente efficace
nei collettivi diretti da Makarenko, e che non esclude la famiglia dell’educando.

Attraverso l’applicazione, in ambito familiare, del sistema delle “linee prospettiche”, il maestro
sprona i genitori a guardare e traguardare la prospettiva sociale, lo scopo sociale: “Non state
educando i figli soltanto per la vostra gioia di genitori (…) su di loro ricade la responsabilità
morale dello sviluppo del futuro cittadino. (…) La vostra attività nella società e nel lavoro deve
riflettersi anche nella famiglia; la vostra famiglia deve mostrare il proprio volto politico e civile, e
non separarlo dal volto di genitore”.

Manifesto sovietico, 1920: «La conoscenza spezzerà le catene della schiavitù».

La didattica di Makarenko è una didattica dell’“azione parallela”: famiglia, collettivo, educatori ed


educando devono positivamente interagire. Inoltre, nella concezione del maestro, la gioia di vivere
deve essere priva della smisurata ambizione ai beni materiali.
Per Makarenko, i sistemi basati sul feticismo delle merci e sull’alienazione avvelenano la
coscienza dei giovani. Bisogna formare dei produttori e non plasmare dei consumatori.

L’eredità che ci ha lasciato Makarenko è l’idea della lotta dell’uomo contro gli errori e i pregiudizi,
della possibilità che egli ha di creare da sé il futuro, per mezzo del collettivo e del lavoro produttivo.
Un’idea che rende Makarenko il più autorevole rappresentante di quella che può essere definita una
“pedagogia della praxis”. Il lavoro produttivo è la componente essenziale della sua concezione
pedagogica rivolta al recupero dei ragazzi difficili, finalizzata alla formazione dell’uomo nuovo per
contribuire alla costruzione della società socialista e per essere partecipe e protagonista dello
slancio e del processo rivoluzionari.

Nel progetto di Anton Semenovic Makarenko e nell’esperienza delle colonie e delle comuni, il
lavoro non è fine a se stesso, strumento per impiegare e fare trascorrere il tempo, espediente per
tenere occupati i ragazzi distogliendoli dall’ozio, ma assume i caratteri di una vera e propria attività
produttiva. Il lavoro è il mezzo per creare beni materiali e, quindi, ricchezza, nel senso socialista del
termine.

Ecco, dunque, il progetto per la coltivazione di terreni agricoli o per costruire macchine fotografiche
e altri beni materiali, attuato dai ragazzi anche con l’aiuto di collaboratori esperti. Nasce una
contabilità dettagliata dei costi di produzione per ciascun prodotto finito, confrontata con quella di
aziende similari per essere competitivi, accanto ai prezzi praticati nella vendita alle società
commerciali. Si crea un circuito virtuoso di emulazione nell’organizzazione del lavoro e nella
produttività, secondo l’espressione moderna, che vede entusiasti e protagonisti responsabili i
ragazzi delle colonie, sotto la vigile guida del direttore delle strutture, ovvero dello stesso
Makarenko.

Alcuni di questi giovani passeranno alla rabfak (facoltà operaia), costituendo il primo nucleo di una
schiera di migliaia di ex delinquenti e vagabondi che diventeranno intellettuali, insegnanti, soldati e
medici. Quasi tutti gli educandi si salveranno e si svilupperanno come lavoratori e cittadini.

Certo l’esperienza di Makarenko – così come ogni esperienza educativa “di frontiera” – avviene
entro uno specifico contesto pedagogico, che non consente facili soluzioni e rassicurazioni date da
assetti ripetitivi, standardizzati. Bisogna ogni volta provare che le cose funzionino. E non in astratto,
ma nel migliore modo possibile ed entro le “condizioni date”. Non c’è modo di pensare ad un
metodo alternativo, semplicemente perché le circostanze non lo consentono. Chi opera deve
costantemente ricercare, sperimentare.

La ricerca spontanea dell’educando si fa ricerca razionale della propria autonomia e libertà solo se
acquisita gradualmente nel contatto sociale, nello scontro/incontro dialettico di posizioni e idealità
anche diverse. Il cammino e le modalità d’apprendimento possono trovare concretezza nell’accorto
equilibrio tra ciò che la società esige e ciò che l’individuo può dare.
Il puerocentrismo e la pedagogia del “laissez faire”, assurti a mito, creano percorsi educativi
senza obiettivi sicuri e senza precisi traguardi.

La palingesi comunista implica che il ragazzo deve comprendere e accettare il superamento delle
posizioni individualistiche (“non è un male l’abbandono di piccoli privilegi e il sacrificio di fare
cose diverse da quelle che si vorrebbero, in caso di bisogno”) e, contemporaneamente, l’educatore
deve infondergli massima stima e fiducia nelle sue forze e possibilità.
Il ragazzo va, inoltre, educato verso obiettivi che puntino alla costruzione di un mondo, dove gli
uomini siano in grado di stabilire un rapporto armonico tra la realtà della natura e quella umana.
Questo ideale di società può avverarsi anche su questa terra, a patto che si alimenti nelle nuove
generazioni l’ottimismo nella costruzione del futuro. Questo ottimismo, che può e deve basarsi sui
lati positivi dell’uomo, sulla sua intelligenza, creatività e sulla sua socialità come punti di partenza,
non è tuttavia senza condizioni.
E se dalla teoria si passa alla pratica e si osservano attentamente la pedagogia sociale di Elena
Radlinska, di O. Decroly, i settlements di Sciaski e via via ovunque si possa realizzare questo
postulato fondamentale: scuola ed educazione non devono mai isolarsi dalla vita.

Le peculiarità della “pedagogia della lotta” non si basano sulla nuova tesi educativa di Makarenko,
ma sulla scala dei compiti che spettano ai giovani. Il Poema Pedagogico non è, tuttavia, solo una
“grande narrazione” dell’educazione nella sua versione estrema. In qualche modo travalica il campo
di azione proprio di chi si occupa in particolare delle persone più escluse e più deboli. E investe tutto
il mondo educativo.
Nel passato recente, il paradigma didattico makarenkiano è stato valido punto di riferimento per Don
Bosco, per la Scuola di Barbiana di don Lorenzo Milani e per le straordinarie esperienze di Paulo
Freire in alcuni paesi dell’America latina.

Foucault: il dispositivo, la curà di sè, la microfisica del potere


Foucault: il contesto sociale dell’apprendimento ed il dispositivo
pedagogico
Come già evidenziato da Goffman, il sociologo e pensatore francese Foucault prende in esame nella
seconda parte del testo, l’organizzazione degli spazi assume una funzione simbolica e di controllo,
che veicola significati relazionali e distinzioni di ruoli, così come la predisposizione di spazi e
materiali può costituire un elemento di stimolo all’azione e all’apprendimento, promuovendo, di volta
in volta, autonomia o dipendenza.

1. il dispositivo pedagogico
2. la scuola come microfisica dei poteri
3. la cura di sè come pedagogia
Allo stesso modo, come studiato dalle ricerche che si sono concentrate sugli stili comunicativi e di
insegnamento, i ruoli, le relazioni e il sistema di controllo educativo sono determinati dai modi con
cui l’insegnante distribuisce i tempi dedicati alle varie attività, agli interventi verbali di adulti e
ragazzi, così come dalle modalità con cui modula e alterna la comunicazione di tipo burocratico o di
tipo personale.
La riflessione di Foucault sull’educazione è presente nel testo 1975 Surveiller et punir.
Naissance de la prison e, in particolare, la terza parte dedicata alla “disciplina”. Prima di
analizzare la posizione foucaultiana è bene sgombrare il campo da un equivoco.
Foucault utilizza con una certa predisposizione alla generalizzazione i termini pedagogia,
educazione, sistema educativo, sistema scolastico. Essi, senza dubbio, appartengono allo
stesso orizzonte semantico. È opportuno tuttavia distinguere con chiarezza, in una maniera
certo criticabile ma che appare funzionale (excusatio non petita…), pedagogia e sistemi
educativi.
Tale controllo del dettaglio comporta una diversa concezione dello spazio, articolato in modo
da permettere una presa del potere sul singolo corpo. Tale nuova formulazione dello spazio
in un senso analitico, che funziona mediante una serie di regole (clausura-quadrillage-
ubicazioni funzionali-unità di rango), è evidente nello spazio disciplinare che costituisce i
collegi e le scuole nella Francia del XVIII secolo: la classe rappresenta lo spazio disciplinare
per eccellenza. Attraverso la costruzione di uno spazio seriale, che poneva il maestro nelle
condizioni di controllare contemporaneamente ogni allievo, il corpo dell’allievo viene
catturato in una fitta rete di dispositivi “microfisici” che lo modellano

Intendiamo con pedagogia «la trasmissione di una verità che ha la funzione di dotare un
soggetto qualunque di attitudini, di capacità, di saperi, e così via, che in precedenza non
possedeva, e che al termine di tale rapporto pedagogico dovrà invece possedere».

Il problema della pedagogia stricto sensu occuperà l’ultima fase del pensiero di Foucault,
dedicata alla analisi delle forme di soggettivazione e al tema antico della cura di sé. Il primo
Foucault dedica piuttosto una serie di riflessioni ai sistemi educativi, tant’è che potremmo
avanzare l’ipotesi che le fasi del pensiero foucaultiano si articolino, anche ma certamente
non solo, intorno allo slittamento dai sistemi educativi alle pratiche pedagogiche. Intendiamo
con sistema educativo una qualunque istituzione (caserma, fabbrica e per quello che
interessa al nostro discorso soprattutto scuola) i cui metodi di funzionamento permettano «il
controllo minuzioso delle operazioni del corpo»: i sistemi educativi sono, in questo senso,
procedimenti disciplinari e la disciplina altro non è che una fabbrica di «corpi sottomessi ed
esercitati, corpi docili», dove per corpo docile Foucault intende «un corpo che può essere
sottomesso, che può essere utilizzato, che può essere trasformato e perfezionato».
È proprio nei collegi e nelle scuole elementari che Foucault individua il primo terreno di
coltura di questa nuova tecnica politica che nel momento stesso in cui massimizza in termini
utilitaristici le potenzialità del corpo, ne diminuisce le potenzialità resistenti rendendoli
obbedienti. In questa nuova tecnologia del corpo, che sostituisce storicamente il supplizio
(il corpo mostrato) e la punizione (il corpo torturato), è in atto quella che Foucault definirà
felicemente una “microfisica del potere, una sorta di ossessiva razionalità nell’uso dei corpi
modellata sul dettaglio: «Una minuziosa osservazione del dettaglio e, nello stesso tempo,
un’assunzione politica delle piccole cose, per il controllo e l’utilizzazione degli uomini,
percorrono l’età classica, portando con sé tutto un insieme di tecniche, tutto un corpus di
procedimenti e di sapere, di descrizioni, di ricette e di dati».
Cos’è un dispositivo pedagogico? Cosa significa pensare la formazione come un dispositivo? Quali
conseguenze ha sulla teoria e sulle pratiche formative ripensare lo spazio, il tempo, il corpo e la cura
come dimensioni fondamentali dell’esperienza? Il discorso che fa fronte a queste interrogazioni ha
un debito verso il pensiero di Michel Foucault.

La ricerca espone cosa Foucault ci ha aiutato a pensare e cosa ha cambiato del nostro modo di agire.
Foucault parla di dispositivo pedagogico, di cosa significa pensare la formazione come un
dispositivo?
Quali conseguenze ha sulla teoria e sulle pratiche formative ripensare lo spazio, il tempo, il corpo e
la cura come dimensioni fondamentali dell’esperienza? Qual è la posizione del soggetto, che forma e
che si forma, rispetto a questo dispositivo?
Il discorso che fa fronte a queste interrogazioni ha un debito verso il pensiero di Michel Foucault, si
può parlare di una vera e propria teoria della formazione. A partire dal campo di forze aperto
dall’esperienza formativa, che cosa Foucault ci ha aiutato a pensare e che cosa ha cambiato del nostro
modo di agire. La scuola come luogo dell’assoggettamento e dell’obbedienza.La scuola dunque si
definisce come un dispositivo di distribuzione spaziale dei corpi, che ricevono il loro statuto dalla
loro collocazione, in modo da essere facilmente controllabili, premiabili, punibili, dal maestro.
Insomma, lo spazio scolare non è soltanto «una macchina per apprendere», bensì anche e soprattutto
«per sorvegliare, gerarchizzare, ricompensare». Tale ripartizione micrologica dei corpi nello spazio
permette quell’operazione di massimizzazione dell’utile che è l’obbiettivo ultimo delle procedure
disciplinari e, soprattutto, una educazione del corpo dello studente necessaria alla massimizzazione
delle sue potenzialità e contemporaneamente alla sua obbedienza.

tecniche, tutto un corpus di procedimenti e di sapere, di descrizioni, di ricette e di dati».


A questi risultati raggiunti dalla pedagogia e dalla psicologia istituzionale si ricollegano le
ricerche relative al rapporto fra risultati scolastici e analisi del contesto didattico e
istituzionale.

Queste ricerche e questa nuova prospettiva contestualistica conducono anche agli studi di
Levy dell’Unesco, alle indicazioni dell’OECD del 1992 sulla riforma del curricolo, in funzione
di una nuova attenzione al contesto culturale e alla necessità di pluralismo in questo settore;
in Italia alle ricerche di Carugati e alle proposte di Canevaro. In quest’ottica, usando le parole
di L. Galliani, l’azione didattica verrebbe intesa come “organizzazione sistemica delle
azioni formative dell’insegnare” finalizzate “all’ottimizzazione dei processi di
apprendimento”.

Riccardo Massa e la clinica della formazione


Riccardo Massa e la pedagogia di sinistra in Italia
Riccardo Massa è stato un filosofo dell’educazione e pedagogista, ideatore, fondatore e primo
preside della facoltà di Scienze della formazione, oggi dipartimento di Scienze umane per la
formazione della Bicocca di Milano.
Portatore di un pensiero di sinistra radicale, non era un estremista ma si rifaceva a un pensiero
libertario, di matrice marxista e nettamente antistalinista. Rifacendosi al pensiero di Michel
Foucault, considerava l’educazione come potere e dispositivo, come condizionamento. Per questo
riteneva necessario andare alle radici pedagogiche della relazione educativa.
L’educazione per Massat apre uno spazio infinito di possibilità e stimola il soggetto a prenderle in
considerazione per scegliere come avventurarti in esso. In questo si rifaceva anche all’educazione
liberante di Paulo Freire: l’educazione non cambia il mondo ma ti fa vedere il mondo e le possibilità
per cambiarlo (concetto questo caro a tutti i pedagogisti di sinistra).
Il concetto di dispositivo educativo, ripreso dallo studio appassionato di Michel Foucault, apriva la
possibilità di una indagine teorica ed empirica dei processi formativi. Questa prospettiva ha
preso corpo nella Clinica della formazione, come approccio di ricerca, come metodologia di
formazione e di consulenza nell’educazione degli adulti.
Nel segno di questa prospettiva metodologica, gli anni Novanta sono stati caratterizzati da importanti
ricerche sull’adolescenza, sulla formazione dei migranti, sulle storie di formazione dei giovani, sulla
formazione dei medici, sui dispositivi scolastici.
Testi come Teoria pedagogica e prassi educativa (1979), Le tecniche e i corpi (1983), Educare o
istruire? La fine della pedagogia nella cultura contemporanea (1987), Istituzioni di pedagogia e
scienze dell’educazione (1990), Cambiare la scuola (1997). Tra le ricerche, La clinica della
formazione (1992), Le vite normali. Una ricerca sulle storie di formazione dei giovani (1991),
Adolescenza: immagine e trattamento (1988), La migrazione educativa (1994), Imparare errando
(1996), Sottobanco, Le dimensioni nascoste della vita scolastica (1999).

Per primo si interessò a La scuola, l’adolescenza, i migranti. Ha messo a fuoco politiche


dell’accoglienza quando ancora il fenomeno migratorio non aveva i numeri odierni”.

Tra pedagogia e scienze sociali i teorici contemporanei:


Goffman – interazionismo simbolico
Goffman – La vita quotidiana come rappresentazione
Goffman è un autore dell’interazionismo simbolico, scrive La vita quotidiana come
rappresentazione (The Presentation of Self in Everyday Life).

Concetto di copione sociale e gioco di faccia.

Goffman indica che la vita è un teatro, dove il comportamento individuale è interpretabile alla luce
dell’ampio contesto sottostante all’interazione simbolica faccia a faccia.

David Kolb: ed il Circle


David Kolb il Learning cycle – Experience Based Systems Learning
David Kolb:

1. l’apprendimento esperienziale
2. il cambiamento individuale e sociale
3. lo sviluppo di carriera
4. la formazione professionale

Per David Kolb si ricorda il modello del Learning cycle (in realtà un concetto del già ricordato Kurt
Lewin Vedi Concetto ed Audio-lezione sulla ricerca -azione). Il concetto della circolarità
dell’informazione fonda principalmente la sua teoria.
L’apprendimento secondo Kolb è circolare.
Nel 1985 ha fondato un istituto di ricerca sull’apprendimento esperienziale (Experience Based
Systems Learning) e dal 1991 insegna Comportamento Organizzativo nell’Università di Cleveland.
Da ciò ne deriva il suo learning cycle, il quale non solo delinea le fasi dell’apprendimento
esperienziale ma offre anche un modello di pratica formativa. Esso si articola in 4 fasi sequenziali:

 esperienza concreta (concrete experience – CE)


 osservazione riflessiva (reflective observation – RO)
 concettualizzazione astratta (abstract conceptualization – AC)
 sperimentazione attiva (active sperimentation – AS)

Ognuna di queste quattro fasi identifica un diverso stile di apprendimento:

 stile adattivo/accomodante
 stile divergente
 stile convergente
 stile assimilativo
Kolb prende spunto da Dewey (autore fondamentale dell’attivismo pedagogico) che pensava che
bisognava lavorare sul ciclo “esperienza-riflessione-apprendimento”. Secondo Dewey la conoscenza
– sia essa di tipo esperienziale o scientifico – si realizzerebbe come processo di soluzione di un
problema, di uno stato di ‘turbamento’ e giunge alla soluzione chiarificatrice attraverso l’osservazione
dei dati della realtà e l’elaborazione di ipotesi.
Dagli studi di Piaget, invece, mutua l’importanza dell’interazione dell’uomo con l’ambiente che
indurrebbe schemi di azione e modelli mentali, in un processo continuo di assimilazione e
adattamento reciproci

Da Lewin, invece, eredita il concetto di interdipendenza, tipico dei processi di apprendimento di tipo
sociale. Secondo Lewin, infatti, vi sarebbe un rapporto di interdipendenza tra i membri del gruppo
che modifica, adattandole, le azioni dei singoli e del gruppo stesso e che tende ad uno stato di
equilibrio delle forze di disaggregazione.

Kolb arriva, così, ad elaborare il suo noto modello conoscitivo del learning cycle (fig. 1), in cui ogni
anello della spirale presenta quattro fasi distinte in ogni ciclo:
 esperienza concreta: l’individuo è coinvolgimento pienamente nella percezione e nella
sperimentazione dei dati dell’esperienza;
 osservazione riflessiva: l’individuo attiva un’osservazione sulla realtà, di tipo riflessivo in quanto ne
favorisce una prima concettualizzazione operativa;
 concettualizzazione astratta: sulla concettualizzazione precedente l’individuo elabora ulteriori
astrazioni che permettono di inferire relazioni di funzionamento;
 sperimentazione attiva: l’individuo è ormai in grado di produrre concetti esplicativi e teorie di azione
sull’esperienza che, come un nuovo livello di conoscenza, potranno sempre essere testati ancora una
volta dall’esperienza concreta.

Gli stili di apprendimento secondo Kolb


Gli stili di apprendimento secondo Kolb
Gli stili dell’apprendimento
David Kolb elabora anche il concetto di stile di apprendimento, frutto delle riflessioni scaturite dal
modello del learning cycle. L’autore sostiene che l’individuo, nel corso della vita, sviluppi la
propensione per particolari stili di apprendimento di base, posti agli assi di convergenza dei quattro
momenti del ciclo di apprendimento.
David Kolb sostiene che le persone, nel corso della loro vita, possono sviluppare 4 stili di
apprendimento di base.
Difficile è pensare che un soggetto possa possederli completamente tutti e quattro. Per questo motivo
Kolb afferma che le persone possono sviluppare una propensione maggiore verso l’esperienza
concreta, oppure, l’osservazione riflessiva, o concettualizzazione astratta o, infine, la sperimentazione
attiva.
Questi sono:

 lo stile divergente (diverger), di chi predilige l’esperienza concreta e l’osservazione riflessiva, di chi
possiede capacità di immaginazione e di generazione di idee ed è in grado, per questo, di organizzare
la complessità delle relazioni in una visione sistemica;
 lo stile convergente (converger), chi propende per la concettualizzazione astratta e la sperimentazione
attiva e processi di ragionamento deduttivi e, per questo, capace di lavorare per obiettivi pratici
attraverso procedure di soluzione di tipo analitico;
 lo stile accomodante (accomodator), di chi nel processo di apprendimento predilige la sperimentazione
attiva e l’esperienza concreta, di chi risolvere i problemi in modo intuitivo e immediato e sa gestire le
emergenze;
 lo stile assimilativo (assimilator), di chi predilige le fasi dell’osservazione riflessiva e della
concettualizzazione astratta, chi possiede capacità di modellizzazione teorica, opta per processi
induttivi di ragionamento.

I CONVERGENTI sviluppano solitamente abilità nell’applicazione pratica delle idee. Sono orientati
all’azione e propendono per la messa in pratica delle idee il più rapidamente possibile. Una
discussione troppo lunga e con molte variabili rischia di renderli impazienti. Questo stile è stato
definito “convergente” perché risponde al profilo di una persona che si trova a suo agio in quelle
situazioni in cui si converge verso una singola opzione (o verso un numero limitato di opzioni). Si
tratta di un profilo efficiente nell’operatività ma rigido che apprende per prove ed errori e predilige,
di conseguenza, un ambiente che favorisce la sperimentazione e non penalizza gli sbagli.

I DIVERGENTI hanno delle strategie opposte a quelle che caratterizzano lo stile convergente.
Preferiscono l’esperienza concreta e l’osservazione riflessiva, sono interessati alle persone e
investono molto sul piano relazionale ed emotivo. Sono sempre alla ricerca di ulteriori
approfondimenti e significati ed hanno solitamente interessi vari e interdisciplinari. Hanno maggiore
facilità ad uscire dagli
schemi e necessitano di dialogo e generazione di idee alternative.

Gli ASSIMILATORI sono abili nella sistematizzazione dei concetti e nell’elaborazione di modelli
teorici costruiti attraverso ragionamenti induttivi. Assimilano le conoscenze raccogliendo dati e
informazioni. Sono obiettivi, razionali e logici e manifestano un forte orientamento al compito e un
basso orientamento alla relazione. Il loro eloquio è logico e razionale. Individuano l’esperto come
figura di riferimento in ottica di apprendimento.

Gli ADATTIVI (o ACCOMODATORI) hanno delle caratteristiche opposte agli “assimilatori”.


Preferiscono l’esperienza concreta e sono in grado di adattamenti intuitivi alle situazioni. Mostrano
difficoltà nel decodificare a posteriori i processi che loro stessi hanno attivato e prediligono ripetersi
apportando nuove modifiche ai comportamenti. Sono fortemente orientati ai risultati e il loro focus è
diretto alle
conseguenze delle loro azioni. Solitamente propendono per l’assunzione di responsabilità e l’agire
per obiettivi li stimola. Sono disposti a sacrificare l’efficienza di una soluzione per l’ottimizzazione
del risultato

Ciclo di apprendimento esperienzale Pfeiffer e Jones

Il modello di apprendimento esperienziale di Pfeiffer e Jones


Le riflessioni viste sulle modalità di costruzione di competenze, possono essere collegate ai modelli
di apprendimento esperienziale di tipo sequenziale. Pfeiffer e Jones presentano un modello di
apprendimento attivo in cui l’allievo svolge attività “autentiche” (ossia tratte da problemi concreti
riferiti a contesti reali) e che prevede l’interazione degli allievi in un contesto sociale, a cui
partecipano l’insegnante e i compagni, all’interno del quale l’esperienza assume significato anche
attraverso processi di negoziazione sociale.

Tale modello prevede un processo di apprendimento di tipo circolare, basato su cinque momenti
caratteristici.

Utilizzando in classe questo modello bisogna iniziare un problema aperto, sfidante, nuovo e che gli
studenti non hanno mai affrontato in precedenza. Un problema che permette non una sola soluzione,
ma più soluzioni, ognuna delle quali presenta punti di forza e punti di debolezza.

La tabella seguente illustra la corrispondenza tra lo schema di Pfeiffer e Jones e quello di Le Boterf.

Pfeiffer e Jones Le Boterf (2000) Descrizione


(1975)

1. Esperienza 1. Esperienza vissuta Facciamo un compito!


La fase di esperienza è un compito proposto
dall’insegnante, ad esempio:

a) leggere un testo ed individuare ed esplicitando concetti


chiave e relazioni che li legano;

b) costruire classificazioni, tipologie e tassonomie;

c) compiere esercitazioni che implichino operazioni


di problem solving, rispondendo a domande proposte
dall’insegnante, ma anche di problem posing, ad esempio
individuare le possibili domande che l’insegnante potrebbe
porre a partire da un testo e formulare le possibili risposte,
oppure i problemi che potrebbero sorgere in una situazione
concreta tratta dalla vita reale e le soluzioni plausibili;

d) mettere a punto relazioni di ricerca su argomenti


specifici, attraverso la raccolta, l’organizzazione, la
rielaborazione di materiali;

e) creare resoconti di sperimentazioni e simulazioni


operate in laboratorio (anche con laboratori virtuali e
strumenti di simulazione)

f) attività di role playing.


2. 2. Esplicitazione e narrazione Adesso vi racconto cosa ho fatto, come l’ho fatto
Comunicazione dell’esperienza e perché ho fatto così …

Nella fase di comunicazione vengono resi pubblici sia il


prodotto dell’esperienza dell’allievo sia il processo che lo
ha generato. E’ questo il momento di condivisione,
ripensamento collettivo, di discussione, di confronto dei
propri processi/prodotti con i processi/prodotti dei
compagni. L’insegnante deve puntare ad incoraggiare la
diversità, favorire la diffusione di una pluralità di modi di
pensare, e soprattutto mettere in luce le buone pratiche,
sulla base di criteri condivisi dall’intera classe.

3. Analisi 3a. Concettualizzazione o Cosa ho fatto “giusto”? Cosa ho sbagliato? Quali sono i
modellazione. punti di forza del mio lavoro? Quali sono i punti di
Formalizzazione degli schemi- debolezza?
modelli.
Il momento di analisi è il momento in cui l’allievo valuta
la propria esperienza, riflettendo su di essa.

Oggetti di analisi possono essere:

a) la propria interpretazione del compito proposto e le


possibili interpretazioni alternative; b) le proprie strategie
operative e le possibili strategie alternative;
c) le dinamiche personali ed interpersonali insorte nello
svolgimento dell’esperienza, quali ad esempio il proprio
atteggiamento verso il compito, i rapporti con i compagni
che in qualche modo hanno partecipato alla sua esperienza.

E’ un momento personale di rielaborazione originale e


creativa, volto a delineare possibili linee di integrazione tra
i propri modelli operativi e i modelli visti mettere in atto
dai compagni. L’analisi è tanto più efficace quanto più
l’allievo ha un atteggiamento “aperto” verso i modelli degli
altri.
4. 3b. Decontestualizzazione Come posso fare meglio la prossima volta?
Generalizzazione degli schemi-modelli.
Questo è il momento in cui a partire dai risultati
dell’analisi vengono elaborati nuovi modelli operativi,
l’adozione dei quali porterà a modificare la propria
struttura di pensiero. E’ un momento di
concettualizzazione e di decontestualizzazione, in cui
l’allievo estrapola schemi, regole e sistemi di regole,
generali, non legati alla specifica situazione proposta
dall’esperienza, ma applicabili anche a problemi e contesti
diversi.

I nuovi modelli elaborati potranno poi essere testati nel


corso di nuove esperienze.

E’ questo il momento cruciale del processo. Un allievo che


non è disposto a mettere in gioco le proprie strutture di
pensiero, di interpretazione e di azione, non accetterà,
consapevolmente o inconsapevolmente, di incorporare
nella sua struttura di pensiero elementi provenienti
dall’esperienza compiuta, propria e di altri. La fase di
generalizzazione produrrà quindi solo cambiamenti
superficiali, non significativi.

5. Applicazione 4. Ritorno alla messa in Adesso che devo rifare la stessa cosa, come la faccio?
pratica. Ricontestualizzazione
di schemi-modelli, anche con
Nel momento di applicazione l’allievo viene chiamato a
apporti
ricontestualizzare in una nuova situazione-problema,
di conoscenze teoriche, nuovi
quanto ha decontestualizzato nella fase di
concetti ed esperienze altrui.
generalizzazione, utilizzando i costrutti, vecchi e nuovi, dal
lui prodotti per delineare un nuovo piano di azione, che poi
testerà in una successiva fase di esperienza (da qui la
ciclicità del processo). E’ questo il momento della
responsabilizzazione e della concretezza: l’allievo ritorna
sul già fatto per dimostrare che ora può farlo meglio, per
acquisire consapevolezza dello scarto tra le sue
competenze all’inizio del processo, prima della fase di
esperienza, e al termine dello stesso quando una nuova fase
di esperienza sta per iniziare.

Gordon Allport – i “tratti di personalità” ed analisi del pregiudizio


VI ciclo – Gordon Willard Allport – Tratti comuni e tratti persona –
ANALISI DEL PREGIUDIZIO
Il termine personalità deriva dalla parola latina “persona”, con cui si indicavano le maschere che gli
attori indossavano per rappresentare parti diverse. In tal senso, il termine latino “persona” da una
parte fa riferimento ai ruoli che possono essere giocati da diversi attori, dall’altro richiama alcuni
modi di sentire e di agire che possono essere simili in più individui. Quindi, i tratti rappresentano
variabili latenti (ossia non osservabili direttamente) che spiegano il comportamento umano manifesto.
Concetto di tratti comuni e tratti di personalità ⇒ ANALISI DEL PREGIUDIZIO
Gordon Willard Allport individuo due tipi:
1. tratti comuni
2. tratti personali
⇒ per un gruppo di persone o categoria (ad es., i pugili definiti come “aggressivi”)
⇒ propri di ogni singolo individuo, e non possono essere definiti in una sola parola

Allport distinse, inoltre, i tratti personali in tre tipologie differenti:

1. Tratti cardinali: hanno l’influenza fondamentale e determinante sulla personalità e sul comportamento
– decisivi
2. Tratti centrali: sono quelli che colgono l’essenza di un individuo, parti caratteristiche ed influenzano
buona parte del nostro comportamento;
3. Tratti secondari: sono estremamente specifici, e sono legati anche alla crescita e si manifestano solo
in circostanze particolari.
Fondamentali i suoi successivi studi sul pregiudizio, secondo processi di categorizzazione e
di generalizzazione.
La definizione data da Allport è la seguente:

“Il pregiudizio (etnico) è un sentimento di antipatia fondato su una generalizzazione falsa


e inflessibile. Può essere sentito internamente o espresso. Può essere diretto verso un
gruppo nel suo complesso o verso un individuo in quanto membro di quel gruppo”.

⇒ Tramite il primo, l’essere umano seleziona ed organizza le differenti realtà che lo circondano; con
il secondo, invece, l’uomo tende ad attribuire ad eventi di tipo generale dei significati derivanti dalle
poche osservazioni effettuate sugli eventi disponibili.

Questi due processi evidenziano la limitatezza funzionale della mente umana, e producono
valutazioni di tipo errato (“bias“) che possono portare, talvolta, all’etichettamento (labelling) degli
individui.

Il pregiudizio è quindi il mantenimento di atteggiamenti sociali o credenze cognitive squalificanti, o


negativi, l’espressione di emozioni negative o la messa in atto di comportamenti ostili o
discriminatori nei confronti dei membri di un gruppo per la loro sola appartenenza ad esso. Possiamo
concludere che la personalità è data dalla somma dei tratti di un individuo che sarebbero in grado di
spiegare il comportamento osservato.

Gordon Willard Allport e la teoria dell’etichettamento e la devianza sociale

Gordon Willard Allport e la teoria dell’eticchettamento e la devianza


sociale
La teoria dell’etichettamento (o della reazione sociale) è sia una teoria di costruzione delle
personalità sociali, ma anche una teoria sociologica della devianza che focalizza l’attenzione sul
processo di costruzione dell’identità non occasionale che sarebbe favorito, in maniera involontaria e
paradossale, proprio dalla reazione della collettività e delle istituzioni.

⇒ il termine deriva dall’inglese Labelling Theory

concetto da ricordare ⇒ teoria dell’etichettamento


La teoria dell’etichettamento potrebbe indurre l’effetto profezia che si auto avvera.
Nel senso che nel momento che diamo del criminale, marchiamo di ladro ad esempio un soggetto in
un certo qual modo lo rendiamo ladro, gli diamo lo stigma sociale di ladro. C
oncetto di stigma sociale e di pregiudizio.
Come se fosse una profezia che si auto-adempie, o che si auto-avvera, o che si
autodetermina o che si autorealizza, è una previsione che si realizza per il solo fatto di essere stata
espressa. Predizione ed evento sono in un rapporto circolare, secondo il quale la predizione genera
l’evento e l’evento verifica la predizione.
Ad esempio: attraverso l’assegnazione dell’etichetta di criminale all’autore di un reato, secondo la
teoria, si innescherebbe un processo in grado di trasformare l’autore vero (o presunto) di un singolo
reato in un delinquente cronico. Influirebbero su questo processo sia le conseguenze della diffidenza,
della disistima e della stigmatizzazione della collettività, in grado di ristrutturare la percezione di sé
da parte del “criminale” (“convincendolo”), sia l’isolamento e l’esclusione sociale che materialmente
le istituzioni totali (ad esempio le strutture carcerarie) provocano

L’etichettamento produrrebbe quindi conseguenze deleterie sia a livello di rappresentazione sociale


e di auto-percezione che di opportunità e di frequentazioni.

Secondo la teoria dell’etichettamento sarebbero vittime dell’etichettamento soprattutto coloro che


compiono alcuni tipi di reati che suscitano “allarme sociale” e che non dispongono di mezzi materiali
né di una reputazione o di uno status consolidato in grado di contrastare la penetrazione dell’etichetta
di criminale.

Inoltre la definizione stessa dei comportamenti da stigmatizzare (reati, o anche atti non penalmente
rilevanti come il consumo di droghe), sarebbe influenzata dal diverso potere di influire sull’opinione
pubblica e sulle leggi detenuto dagli strati più agiati.

Ma pensiamolo nella scuola: se convinciamo un ragazzo che non è portato per l’italiano, o la
matematica, per tutta la vita gli mettiamo in testa di non avere attitudini per tali materie.

Di conseguenza la reazione sociale non è attivata in maniera uguale per tutti i tipi di reato, ma è più
severa e dannosa nei confronti della microcriminalità e dei reati associati alle minoranze, ai poveri,
ai presunti recidivi o a chi ha un determinato aspetto.

Serge Moscovici – e le rappresentazioni sociali


Moscovici e “Teoria delle Rappresentazioni sociali”
Moscovici sostiene che le rappresentazioni sociali sono la sintesi di valori condivisi ma anche di
stereotipi e di costruzioni immaginari su persone, cose, disabilità, vi è una stretta connessione tra
rappresentazione sociali e stereotipi.

Le persone e le comunità sia a livello singolo sia a livello di immaginario sociale si fanno
condizionare da immagini sociali che hanno poi effetti psicologici. I processi mentali condizionano
le dinamiche sociali, e viceversa. Tutta la produzione intellettuale di Moscovici sarà dedicata proprio
alla riabilitazione delle conoscenze di senso comune, che pervadono la nostra esperienza ordinaria, il
nostro linguaggio di ogni giorno così come le nostre pratiche quotidiane.

Moscovici è autore della “Teoria delle Rappresentazioni sociali”, secondo la quale la


rappresentazione della realtà è costruita e condivisa socialmente.

La teoria ecologica di Urie Bronfenbrenner: e lo sviluppo


Urie Bronfenbrenner e la teoria ecologica: detta anche modello
ecologico dello sviluppo
La teoria di Urie Bronfenbrenner è detta anche modello ecologico dello sviluppo di
Bronfenbrenner. Il suo modello si basa su tre concetti:

1. persona
2. sistema
3. processo.
Tali sistemi di interazione, che compongono la totalità dell’ambiente ecologico di cui fa parte
il bambino, si riconoscono nelle strutture denominate microsistema, mesosistema,
esosistema e macrosistema.

Il microsistema è composto da tutte le relazioni che influiscono in modo diretto sull’individuo


e in maniera indiretta sui suoi caregiver, il mesosistema comprende le inter-relazioni tra le
varie situazioni ambientali alle quali l’individuo in via di sviluppo partecipa attivamente. Il
concetto stesso di sistema richiama una circolarità insita nel processo, per cui l’individuo è
influenzato dal sistema ma a sua volta lo influenza e modifica attraverso i suoi agiti.

Gli altri due sistemi non vedono la partecipazione attiva della persona che cresce, ma hanno
un’influenza indiretta su di lei.
L’esosistema è costituito dalle strutture ambientali di cui l’individuo non può far parte, ma
che tramite una sequenza di tipo causale influenzano prima il microsistema e poi il processo
evolutivo del bambino, infine il macrosistema è costituito dalla cultura che produce i sistemi.
Esso mette in movimento tutti i sistemi che lo compongono fino al livello della persona
singola.

Il bios Bronfenbrenner, con il suo “modello ecologico” (Ecological systems theory), intende
l’ambiente di sviluppo del bambino come una serie di cerchi concentrici, legati tra loro da
relazioni.

 Il Microsistema è il livello centrale, entro il quale le unità interpersonali minime costituite da


diadi (es. madre-bambino) si rapportano al loro interno e con altre diadi con significative
interazioni dirette. Un microsistema è dunque un pattern organizzato di relazioni
interpersonali, attività condivise, ruoli e regole, che si svolgono perlopiù entro luoghi definiti.
La famiglia, la rete della parentela più estesa, la scuola, sono esempi di microsistemi.
 Il Mesosistema è un sistema di microsistemi: si riferisce a due o più contesti cui il soggetto
partecipa direttamente in modo attivo ed alle loro interconnessioni.
 L’Esosistema è costituito dall’interconnessione tra due o più contesti sociali, almeno uno dei
quali è esterno all’azione diretta del soggetto. Un esempio di esosistema è costituito dal
rapporto tra la vita familiare e il lavoro dei genitori.
 Il Macrosistema comprende le istituzioni politiche ed economiche, i valori della società, la
sua cultura: i complessi di credenze e comportamenti che caratterizzano il macrosistema sono
trasmessi da una generazione a quella successiva attraverso i processi di socializzazione
condotti dalle varie istituzioni culturali, come la famiglia, la scuola, la chiesa, il luogo di
lavoro e le strutture politico-amministrative.
Introduce il concetto di “famiglie”, al plurale, volendo in questo modo problematizzare i
cambiamenti culturali e sociali in atto: infatti la sua è una teoria ecodinamica (movimento
dell’ambiente, che possiamo definire un cambiamento della società).

La pedagogia degli oppressi. Il problem posing contro il modello della banking education in Freire

La pedagogia degli oppressi. Il problem posing contro il modello


della banking education in Freire
Con il metodo problem-posing si chiede allo studente di essere egli stesso a porre il problema.
Rispetto alla didattica tradizionale, dove il docente diceva e poneva un problema che poi lo studente
doveva risolvere, questa volta il docente dice allo studente di essere egli stesso a formulare un
problema. Poniti un problema e magari lo risolviamo insieme, oppure in una peer-education costruisci
un problema che poi a risolvere dovrà essere il tuo amico di classe.

Il metodo fù ripreso anche da Ira Shor.

Quando gli insegnanti mettono in pratica l’educazione secondo il problem-posing, si avvicinano agli
apprendenti quali compagni dialoganti, il che crea un’atmosfera di umiltà e di fiducia. Invece di essere
visto il docente come qualcuno che impone dei problemi agli studenti, problemi spesso senza senso
pratico, il problem posing li spinge a trovare soluzione a partire da problemi concreti.
Il problem-posing si collega ad un metodo d’insegnamento che sottolinea l’importanza del pensiero
critico per affrancarsi. Il problem posing contro il modello della banking education in Freire

Era stato Freire usò tale metodo quale alternativa all’educazione secondo il modello educativo
tradizionale o banking education, secondo cui chi apprende è un contenitore da riempire con le
conoscenze.
Paulo Freire parla del modello di istruzione bancario ( portoghese : modelo bancário de educação)
per descrivere e criticare il sistema educativo tradizionale. Il nome fa riferimento alla metafora degli
studenti come contenitori in cui gli educatori devono mettere la conoscenza. Contro la teoria della
trasmissione della conoscenze, per cui gli studenti erano solo riceventi, come delle banche che
raccogliessero informazioni, ora invece è diverso.

Freire ha sostenuto che questo modello rafforza la mancanza di pensiero critico e di proprietà della
conoscenza negli studenti, il che a sua volta rafforza l’ oppressione , in contrasto con la comprensione
di Freire della conoscenza come risultato di un processo creativo umano. Contro questo modello egli
propone il problem solving.

Paulo Freire, oggi ricordato in modo particolare per aver introdotto i concetti di problem
posing all’interno del processo/progetto educativo, ha contribuito a una filosofia dell’educazione
proveniente non solo dal più classico approccio riferito a Platone, ma anche dai pensatori moderni
marxisti e anticolonialisti.
Di fatto, in diversi modi la sua “pedagogia degli oppressi” può essere meglio letta come
un’estensione o una risposta a I dannati della Terra di Frantz Fanon, che poneva una forte enfasi sulla
necessità di fornire ai popoli nativi un’educazione che fosse, al tempo stesso, nuova e moderna,
piuttosto che tradizionale, e anticoloniale (cioè, che non fosse semplicemente un’estensione della
cultura del colonizzatore).

Bateson ed il deutero-apprendimento
La pedagogia degli oppressi. Il problem posing contro il modello
della banking education in Freire
Con il metodo problem-posing si chiede allo studente di essere egli stesso a porre il problema.
Rispetto alla didattica tradizionale, dove il docente diceva e poneva un problema che poi lo studente
doveva risolvere, questa volta il docente dice allo studente di essere egli stesso a formulare un
problema. Poniti un problema e magari lo risolviamo insieme, oppure in una peer-education costruisci
un problema che poi a risolvere dovrà essere il tuo amico di classe.

Il metodo fù ripreso anche da Ira Shor.

Quando gli insegnanti mettono in pratica l’educazione secondo il problem-posing, si avvicinano agli
apprendenti quali compagni dialoganti, il che crea un’atmosfera di umiltà e di fiducia. Invece di essere
visto il docente come qualcuno che impone dei problemi agli studenti, problemi spesso senza senso
pratico, il problem posing li spinge a trovare soluzione a partire da problemi concreti.
Il problem-posing si collega ad un metodo d’insegnamento che sottolinea l’importanza del pensiero
critico per affrancarsi. Il problem posing contro il modello della banking education in Freire

Era stato Freire usò tale metodo quale alternativa all’educazione secondo il modello educativo
tradizionale o banking education, secondo cui chi apprende è un contenitore da riempire con le
conoscenze.
Paulo Freire parla del modello di istruzione bancario ( portoghese : modelo bancário de educação)
per descrivere e criticare il sistema educativo tradizionale. Il nome fa riferimento alla metafora degli
studenti come contenitori in cui gli educatori devono mettere la conoscenza. Contro la teoria della
trasmissione della conoscenze, per cui gli studenti erano solo riceventi, come delle banche che
raccogliessero informazioni, ora invece è diverso.

Freire ha sostenuto che questo modello rafforza la mancanza di pensiero critico e di proprietà della
conoscenza negli studenti, il che a sua volta rafforza l’ oppressione , in contrasto con la comprensione
di Freire della conoscenza come risultato di un processo creativo umano. Contro questo modello egli
propone il problem solving.

Paulo Freire, oggi ricordato in modo particolare per aver introdotto i concetti di problem
posing all’interno del processo/progetto educativo, ha contribuito a una filosofia dell’educazione
proveniente non solo dal più classico approccio riferito a Platone, ma anche dai pensatori moderni
marxisti e anticolonialisti.

Di fatto, in diversi modi la sua “pedagogia degli oppressi” può essere meglio letta come
un’estensione o una risposta a I dannati della Terra di Frantz Fanon, che poneva una forte enfasi sulla
necessità di fornire ai popoli nativi un’educazione che fosse, al tempo stesso, nuova e moderna,
piuttosto che tradizionale, e anticoloniale (cioè, che non fosse semplicemente un’estensione della
cultura del colonizzatore).

Elio Damiano e la mediazione didattica ed ermeneutica


Elio Damiano e la mediazione didattica
Lo studioso Elio Damiano riporta il concetto di Aristotele secondo cui nell’azione umana ci deve
essere sia un fine etico che risiede nella praxis, sia un fine pratico che risiede nella poihsis, e che dà
origine ad un prodotto finito. Questa doppia valenza deve esserci anche nell’azione di insegnamento
che deve essere pratico-poietica: pratica per la valenza educativa dell’insegnamento, e poietica per le
qualità tecnico-professionali dell’insegnante.
La programmazione didattica riporta i traguardi formativi precisi, cioè la valenza poietica. Invece, la
programmazione educativa ha finalità formative più ampie e quindi si presenta come pratica.

Per Elio Damiano ci deve essere una ⇒ Mediazione Didattica, teorizzata da Damiano, cioè una
regolazione della distanza tra i contenuti culturali da trasmettere e i soggetti in apprendimento, tra la
struttura logica dei contenuti e la struttura psicologica dei soggetti in apprendimento.
Questa mediazione deve comportare una forma di meta-forizzazione della realtà, una meta-
forizzazione attraverso la quale la realtà di cui si parla (es. bosco) viene sostituita con dei simulati
allo scopo di facilitare l’apprendimento.

La mediazione quindi è un processo di trasformazione di determinati contenuti culturali in contenuti


accessibili all’apprendimento per un determinato gruppo di allievi in funzione di un determinato
scopo. Questa trasformazione ha la doppia funzione di proteggere il soggetto dall’esperienza diretta
con la realtà e di sostituire il contenuto di realtà con segni appropriati. Il prodotto dell’azione di
insegnamento sono i risultati di apprendimento.

Tra i due intercorre un rapporto probabilistico. Ci deve essere una disponibilità ad apprendere,
responsabilità sia dell’insegnante sia dell’allievo. I meccanismi di simulazione e di semplificazione
che quindi rientrano all’interno di questa mediazione didattica rappresentano allo stesso tempo un
punto di forza e un punto di criticità per l’istituzione scolastica formale: di forza perché possono
rappresentare condizioni facilitanti l’apprendimento e costituiscono una peculiarità dell’ambiente
scolastico di potersi collocare tra parentesi rispetto alla realtà; di criticità in quanto tale
distanziamento dalla realtà costituisce un rischio per la scuola, un pericolo di autoreferenzialità e di
separazione.

La dimensione metodologica diventa quindi, secondo Damiano, il campo su cui si può ragionare sui
metodi comunicativi per collegare i soggetti in apprendimento con gli oggetti di apprendimento:

 Mediatori attivi: gite scolastiche, esperimenti, osservazioni di fenomeni.

 Metodi analogici: drammatizzazioni, giochi di ruolo, simulazioni.

 Mediatori iconici: disegni, schemi, modelli, figure.


La qualità dell’insegnamento ovviamente è determinata dalla pluralità di linguaggi comunicativi(tesi
sostenuta dagli studi di Bruner e di Gardner).

D’Alonzo, la pedagogia speciale come modello di inclusione e l’attuale normalità


Luigi D’Alonzo: il modello di inclusione della pedagogia speciale
Professore alla Cattolica di Milano, ha affrontato tematiche che vanno della
pedagogia speciale, soprattutto di campo sperimentali a questioni più prettamente
educative riferite a bambini, giovani e adulti che presentano problematiche
personali particolari, specifiche, differenti, propriamente “speciali”.
Rientra negli studiosi contemporanei della pedagogia speciale.

Ha studiato i processi educativi in studenti con disturbi più o meno gravi con situazioni di vita
marginali e che non riescono ad adattarsi ai normali canoni di convivenza civile.

Situazioni di vita evolutiva, sempre più diffuse, dove la sofferenza personale e sociale e il disturbo
individuale possono tramutarsi, se non sorretti da un’azione educativa capace e competente, in
disadattamento o in devianza.

D’Alonso ha sviluppato il concetto dell’attuale “normalità” della presenza, in diversi contesti, del
soggetto con disabilità e con problemi pone alla nostra attenzione un elemento di riflessione.
La pedagogia speciale può rispondere a questa esigenza e merita di essere assunta alla base di ogni
percorso di formazione dei formatori. Di più: può contribuire a nutrire la cultura dell’attenzione alla
persona più debole, la sola in grado di portare benefici duraturi per tutti coloro che, a causa di
condizioni esogene ed endogene, non riescono a stare al passo con i ritmi cognitivi e le esigenze di
un mondo sempre più complesso e difficile. Per preparare alla vita non basta l’amore, ma occorre,
unita ad esso, la competenza.
Numerosi sono i libri ed i manuali di D’Alonso per cui richiamiamo ad una ricerca in rete o nei
principali siti di vendita di testi online, qui Origine Concorsi vuole ricordare il rapporto tra didattica
speciale e tecnologie dell’informazione e della comunicazione, e con la cosiddetta Media
EDUCATION in una prospettiva di didattica inclusiva; le nuove tecnologie didattiche necessarie
soddisfare i bisogni particolari degli allievi assumono oggi un’importanza decisiva nelle scuole dove
stanno esplodendo le problematiche personali.
Per MEDIA EDUCATION s’intende un’attività educativa e didattica, finalizzata a sviluppare nei
giovani una informazione e comprensione critica circa la natura e le categorie dei media, le tecniche
da loro impiegate per costruire messaggi e produrre senso, i generi e i linguaggi specifici.

La proposta pedagogico-didattica di Canevaro e Zanelli [già vista nel modulo 1]


Lo sfondo integratore nella proposta di Canevaro e Zanelli
Il concetto di sfondo integratore è uno strumento usato nella didattica. Si tratta di un metodo, utilizzato
all’interno dei percorsi scolastici, di apprendimento contestualizzato. Tale proposta venne
formalizzata negli anni ottanta da Andrea Canevaro con la partecipazione di Paolo Zanelli. Si tratta
infatti del risultato dell’integrazione di un insieme di teorie e ricerche avvenute negli anni: tutte
accomunate dalla volontà di recuperare un senso di unitarietà nella didattica.
Due autori importanti sul contemporaneo sono:
Andrea Canavero Paolo Zanelli
Lo sfondo integratore è uno strumento utile per rapportare l’organizzazione didattica al processo di
sviluppo evolutivo dello studente.
Paolo Zanelli dice: “Quando si parla di sfondo integratore si parla in primo luogo di uno sfondo
istituzionale (particolare organizzazione contestuale di spazi, tempi, mediazioni, regole di
comunicazione) che favorisca l’autonoma organizzazione, da parte del bambino, delle proprie
strategie di costruzione del mondo, favorendo l’auto motivazione e il vissuto di connessione spazio
temporale.

A livello pedagogico generale e come proposta possiamo dire che lo sfondo integratore è anche
uno sfondo istituzionale. Consiste nell’organizzazione degli elementi dell’ambiente di
apprendimento (risorse, spazi, materiali, tempi) e nell’utilizzo di elementi mediatori o organizzatori
delle attività (in linea con la pedagogia istituzionale). Canevero parla di didattica per sfondi e di
progettare con la metodologia del contesto integratore.

La programmazione dei percorsi didattici per sfondi integratori sorge prevalentemente dall’esigenza
di integrare nei programmi scolastici gli alunni “diversamente abili”, di favorire la loro integrazione.
Infatti ha avuto molta diffusione nella scuola dell’infanzia.

Inserendo i vari ostacoli che gli alunni all’interno di uno “sfondo” comune e a loro famigliare (che
può essere un medium, come i social network o la radio) permette a questi ultimi di combattere la
dissonanza cognitiva verso l’ostacolo, e così di affrontarlo e superarlo. La programmazione per sfondi
integratori è elastica ed aperta a contaminazioni da altre metodologie.

Questo, per combattere la dispersione, il frammentario e la nozionistica parziale, stimolando processi


motivazionali nel momento in cui cerca di rendere la didattica coerente col modo in cui i ragazzi
vedono la realtà (assonanza cognitiva).

Prospettiva storica
Lo sfondo integratore è:

 un contenitore di percorsi didattici per migliorare l’apprendimento dei discenti


 un insieme di pratiche ed attività e che deve essere condiviso da tutti;
 uno stimolatore/sollecitatore di situazioni problematiche;
 un facilitatore dell’apprendimento dei discenTI

La psico-pedagogia umanistica americana del Novecento: Carl Rogers e Thomas Gordon


Carl Rogers e la psicologia umanista: crescita, maturazione, divenire nei soggetti
Carl Rogers e la psicologia umanista non-direttiva (3. Audiolezioni)
Carl Rogers ha sviluppato una metodologia d’aiuto basata sul concetto di non direttività.
Lo studioso americano è uno dei massimi esponenti della corrente umanistica della Psicologia.
Questa fu da lui stesso definita la terza forza della psicologia (accanto a psicanalisi e
comportamentismo) perché si interessa finalmente di temi, quali: educazione, formazione,
relazione, il divenire, la naturalezza, empatia, l’autonomia. Al centro della teoria di Rogers
troviamo il concetto del Sé, struttura fondamentale della personalità, che si muove alla ricerca del
suo ideale. In parte anche in Italia studiosi come Galimberti cercano di mettere insieme tradizione
umanistica e pensiero analitico e psicologico.
Tale approccio, definito da egli stesso, come “non direttivo” e “centrato sulla persona”, propone la
maturazione sia del singolo che dei gruppi attraverso una modificazione sana e costruttiva dei
rapporti interpersonali, basata sulla empatia, sulla creatività e sulla assunzione di responsabilità di
ciascun individuo nella propria vita. Secondo Rogers ogni persona è unica, come uniche sono le sue
esperienze, le sue conoscenze e le capacità di comprendere i bisogni.
“Il vecchio concetto di “terapia centrata sul cliente” ha lasciato il posto” all’ approccio centrato
sulla persona”, che parte dal presupposto che ogni individuo possiede la capacità di auto-
comprendersi, migliorare e trovare soluzioni alle proprie difficoltà.
⇒ Tale approccio si fonda sul valore predominante dell’esperienza di ogni essere umano e stimola
ogni individuo ad assumersi la responsabilità delle proprie scelte e dei propri vissuti.
Se noi avessimo parlato di paziente avremmo visto in ogni soggetto un malato quindi egli preferisce
parlare di cliente. Non paziente ma cliente, abbiamo bisogno della psicologia ma non perché siamo
pazzi o malati, ma per avere un dialogo interiore con noi stessi, capirci, accompagnare il nostro
processo di crescita singolare ed umana.

Rogers fu il primo a formulare un approccio psicoterapico centrato sul processo


di attualizzazione con una visione della natura umana, basata sulla fiducia nella capacità innata
di ciascun individuo a tendere alla salute e all’autoregolazione (tendenza attualizzante): l’essere
umano ha in sé una forza, “una energia” finalizzata allo sviluppo delle capacità utili al suo
mantenimento.
Carl Rogers la terapia centrata sul cliente
Carl Rogers la terapia centrata sul cliente
Carl Rogers ideò un modello psicoterapeutico definito terapia centrata sul cliente detta anche non
direttiva e terapia rogersiana, che nacque all’interno dalla psicologia umanistica. La parola
cliente serve per non usare quello di “paziente”, che implica una persona malata, un concetto
di bisogno.
Secondo tale approccio non sono le pulsioni istintuali a motivare il soggetto, ma il bisogno di
conoscere, e autorealizzarsi.

Secondo Rogers le persone sane sono aperte mentalmente verso nuove esperienze, vivono
liberamente ogni momento e sono in grado di ascoltare sia se stessi che gli altri perseguendo i propri
bisogni o obiettivi.
Il pensiero di Carl Rogers era in netto contrasto con quello psicoanalitico, egli fu il primo a
considerare la natura umana come una capacità innata volta al raggiungimento e al mantenimento
della salute e dell’autoregolazione.
Partendo da questo presupposto, rifiutò il termine paziente, poiché lo considerava viziato dal concetto
di malattia e lo sostituì con il termine “Cliente”. Rogers dunque partiva dal presupposto che non
esiste una malattia mentale da curare ma tutti possiamo incappare in momenti difficili da affrontare
e per questo, grazie alle risorse personali, è possibile superare questi stati liberamente. I problemi che
possono verificarsi durante l’arco della vita derivano da una distorsione della tendenza attualizzante
e lo scopo è ripristinare questa funzione ciclica e continuativa.
Rogers sostiene che bisogna superare il pessimismo antropologico Freudiano secondo il quale
l’uomo risponde agli impulsi non razionali e guardare come il comportamento è dato da un naturale
fluire di stadi. Infatti, il comportamento umano è razionale ed è determinato dagli obiettivi che ognuno
si prefigge di raggiungere. Lo scopo della psicoterapia dunque è quello di consentire alla tendenza
attualizzante di agire liberamente, eliminando gli ostacoli che impediscono l’autorealizzazione della
persona.
L’individuo possiede in se stesso le risorse necessarie per guarire e per questo è esso stesso a dover
lavorare in terapia. Per queste ragioni, la psicoterapia rogersiana si definisce “centrata sul cliente”.
La terapia centrata sul cliente è determinata dalla relazione che si instaura tra terapeuta e cliente.
Secondo tale approccio lo psicoterapeuta non possiede delle tecniche di intervento protocollari e per
questo è libero di interagire con l’individualità del cliente.

La relazione, però, deve seguire un determinato schema:

 Non-direttività: la relazione che si instaura tra terapeuta e cliente è di tipo paritetica, il terapeuta
incita il cliente a utilizzare le sue risorse personali per individuare una soluzione al problema
presentato.
 Empatia: affinché la relazione possa portare a dei risultati è necessario che il terapeuta vesta i panni
del cliente e tenti di vedere il mondo con i suoi occhi, abbandonando i propri schemi personali.
 Accettazione: il terapeuta accetta i pensieri e i comportamenti del cliente in maniera incondizionata e
per questo ascolta attivamente e senza mettere in atto pregiudizi.
La terapia centrata sul cliente è particolarmente indicata nei casi in cui non si riesca a entrare in
contatto con le proprie esperienze e a riconoscere le proprie emozioni. Si determina in questo modo
una sorta di conflitto interiore e inautenticità, che porta la persona a non essere pienamente se stessa
nella relazione.
Carl Rogers definisce questo stato “incongruenza”, che non permette all’individuo di crescere
positivamente o di effettuare le proprie scelte in maniera ottimale.
La terapia centrata sul cliente ha come obiettivo l’aprirsi liberamente all’altro in maniera autentica.
Inoltre, attraverso tale processo terapeutico è possibile comprendere empaticamente come l’altro
costruisce il proprio rapporto con se stesso, gli altri, il mondo.
Questo concetto rappresenta la base dell’epistemologia della Psicoterapia Centrata sul Cliente e
della sua pratica psicoterapeutica. In riferimento alla terapia centrata sulla persona di C. Rogers, le
tre condizioni necessarie per una buona relazione d’aiuto sono l’empatia, l’accettazione positiva
incondizionata dell’altro e l’autenticità

L’empatia per Rogers – un modello di relazione sè ed altro da sè


L’empatia nella relazione docente-allievo per Rogers
Insegnare significa condividere.
L’altro, l’allievo o lo studente, può cogliere la dimensione della condivisione dell’esperienza. Ciò è
di per sé una esperienza nutriente, sia sul livello cognitivo che emotivo.
La funzione del docente, in passato, era considerata essenzialmente “un’attività di trasmissione” della
cultura. Rogers ritiene che il processo di acquisizione delle conoscenze richiede la partecipazione
attiva del soggetto.
L’empatia è alla base della relazione docente-allievo.
1. L’empatia è attenzione e sensibilità nell’accogliere i vissuti dell’ interlocutore, anche quando questi
possono divergere profondamente per esperienza, valori o idee dai nostri.
2. L’empatia produce dei cambiamenti e porta ad una maggiore auto-accettazione.
3. L’empatia è la capacità di sentire il mondo dell’altro e accettarlo come unico e irripetibile.
4. L’empatia è strettamente connessa alla sospensione del giudizio e di ogni forma di interpretazione.
Rogers sostiene che l’empatia dissolve l’alienazione riportando l’essere umano al centro della sua
esperienza.
Rogers ritiene fondamentale, nel processo educativo, la relazione tra insegnante e alunno basata sulla
stima reciproca e sul rispetto. Nell’insegnamento egli considera fondamentale, non tanto il contenuto
culturale, destinato a cambiare grazie alle scoperte scientifiche, ma l’acquisizione delle abilità di
ricercare, documentarsi, osservare ecc., di “imparare ad imparare”.
Comunicare l’empatia è molto importante per Rogers, perché genera quel particolare senso di
riconoscimento della propria esperienza, che fa sentire l’altro alleviato dalla solitudine esistenziale.

Se il non ottiene nella fase di crescita un’accettazione incondizionata (cioè viene amato per chi è e
non rifiutato perchè non si comporta secondo un modello presente nella mente dei genitori) allora il
suo Sè crescerà su basi sicure.
L’individuo sa di avere già del buono e i miglioramenti saranno misurati e raggiungibili. Se da
bambino il suo comportamento non è mai stato abbastanza, anche da adulto tenderà ad Ideale
irraggiungibile che causerà sofferenza.
Voi, che Ideale avete?
(si veda anche ⇒ Martin Buber ed i tre tipi di dialogo).
-
Martin Buber ed i tre tipi di dialogo
Sono gli atteggiamenti e i sentimenti del docente, piuttosto che i suoi orientamenti teorici, ad
essere importanti nella relazione educativa. È la percezione che ne ha lo studente, ad essere cruciale
per la riuscita della relazione educativa. Se negarsi come persona, e trattare l’altro come un oggetto,
non ha probabilità di portare alcun aiuto, ne consegue che l’insegnante dovrà porsi alcuni problemi:
 sono tale da essere percepito dall’altro degno di fiducia e leale nel senso più profondo del
termine?
 sono così espressivo da comunicare i miei reali stati d’animo, belli o brutti, in modo
inequivocabile? Ovvero occorre accettare di essere quello che si è e lasciarlo trasparire
all’altro.
 posso permettermi di sperimentare per un altro essere umano calore, simpatia, interesse,
rispetto? Posso farmi coinvolgere senza scuotere la mia sicurezza?
 sono abbastanza forte da non essere distrutto dalla sua ira, lusingato dal suo bisogno di
dipendenza, asservito dal suo amore?
 sono abbastanza sicuro di me da permettere all’altro di essere da me distinto, di essere quello
che è, oppure sento che dovrebbe seguire i miei consigli, rimanere dipendente da me,
modellarsi su di me?
 posso permettermi di non valutare?
 posso riconoscere l’altro come un essere umano impegnato in un processo in divenire anziché
ancorarlo al suo o al mio passato?
Occorre “confermare” l’altro come una persona che vive (Martin Buber), ponendosi in un
rapporto Io-Tu e non in uno del tipo Io-Esso (l’altro da sè inteso come oggetto manipolabile).
Dice Martin Buber nel chiedersi in che modo può aversi una genuina vita interumana. Distingue tre
tipi di dialogo:
1. il dialogo autentico – non importa se parlato o silenzioso – in cui ciascuno dei partecipanti
intende l’altro nella sua esistenza e particolarità, e gli si rivolge con l’intento di fa nascere tra
loro una vivente reciprocità;
2. il dialogo tecnico, proposto solo dal bisogno dell’intesa oggettiva;
3. il monologo travestito da dialogo, in cui gli uomini parlano solo per se stessi. Due uomini,
la cui vita sia dominata da apparenze, seduti a chiacchierare tra loro. C’è Pietro, così come
egli desidera apparire a Paolo, e Paolo come egli desidera apparire a Pietro. Poi c’è Pietro così
come egli appare realmente a Paolo, vale a dire l’immagine che Paolo ha di Pietro. Inoltre c’è
Pietro così come egli appare a se stesso, e Paolo così come egli appare a se stesso. Infine ci
sono il Pietro corporeo e il Paolo corporeo: due esseri viventi e sei apparizioni-fantasma che
si mescolano in molti modi nel corso della conversazione tra i due.
La relazione è reciprocanza: i discepoli contribuiscono alla nostra formazione, bambini e animali ci
educano. Il bambino che stringe l’orsacchiotto di pelo, dice Buber, entra in rapporto con l’altro-da-
sè, e non si tratta di fantasia (dar anima a tutto, mondo magico) ma istinto: l’oggetto che non è vivente
è simbolo, riceve “vita” dalla pienezza del bambino. La relazione è la categoria, l’a priori dell’essere,
il Tu innato. Se l’Esso si può ordinare (connessione spaziale, temporale, causale), per il Tu lo spazio
è altro: il tempo è il processo, la durata è puramente intensiva, la forza non è dovuta a una causa ma
a un′ interazione con l’Io, ogni misura e confronto scompaiono.
Occorre occuparsi e aver cura non dell’altra persona ma della propria, del volere: il Tu mi si fa
incontro ma Io entro nella relazione con lui, vengo scelto e scelgo, passione e azione.
La relazione non si può insegnare: è accettazione del presente. Il buon maestro (Budda) non vuole
mostrare un’opinione ma la via: il significato della vita non si può indicare e determinare, non vuole
essere
chiarito ma attuato in questa vita, in questo mondo: la conferma del significato ricevuto è nell’
unicità del proprio essere, della propria vita.
Non è avvicinandoci agli altri a dire loro “dovete conoscere questo, dovete compiere quest’altro”, ma
solo andare e recare la nostra testimonianza, perché la relazione può essere solo attuata. Ancora una
volta si delinea come la precondizione per facilitare la crescita altrui come persone distinte è data
dalla crescita che ho raggiunto in me: è la qualità dell’incontro interpersonale con l’altro
l’elemento più significativo nel determinare l’efficacia e la riuscita tanto della psicoterapia che
dell’insegnamento o dell’assistenza sociale.
Da una serie di ricerche emerge che:

1. sono gli atteggiamenti del docente, l’atmosfera psicologica in gran parte da lui creata, che
provocano realmente le modificazioni che daranno vita a uno sviluppo produttivo della personalità;
2. valutando precocemente un rapporto, possiamo prevederne uno sviluppo costruttivo con lo
studente;
3. un rapporto interpersonale non adeguato può avere un effetto negativo sull’evoluzione della
personalità.

Il processo educativo per Carl Rogers: Empatia, Autenticità ed Accettazione incondizionata


Il processo educativo per Carl Rogers: Empatia, Autenticità ed
Accettazione incondizionata
Il processo educativo dovrebbe promuovere, per Rogers (1969) ⇒ la “facilitazione
dell’apprendimento”, in modo tale che, grazie alla relazione con l’educatore, il discente possa
sviluppare strategie di apprendimento autonomo. Una condizione di facilitazione dell’apprendimento
prevede un ruolo attivo dello studente, che viene coinvolto nel percorso educativo e
responsabilizzato rispetto agli obiettivi formativi da raggiungere.
Se l’individuo svilupperà la capacità di apprendere in modo autonomo, sarà in grado di fronteggiare
i cambiamenti e le eventuali difficoltà che incontrerà nel suo percorso esistenziale.

Carl Rogers individua tre condizioni fondamentali per la relazione docente-studente,


indispensabile al fine dell’apprendimento per procedere verso una chiarificazione e accettazione dei
vissuti emotivi e dell’esperienza dello studente. Queste condizioni sono:
 Empatia
 Autenticità
 Accettazione incondizionata
Empatia⇒ è la capacità di sintonizzarsi e comprendere gli stati emotivi e cognitivi dello
studente. 〈Vedi anche da Glossario → empatia〉
La facilitazione dell’apprendimento, finalità principale dell’educazione, è possibile solo all’ interno
di un contesto scolastico improntato alla collaborazione tra i suoi membri, uniti da uno spirito di
gruppo e di crescita comune e non divisi da spinte competitive e individualistiche.

Autenticità ⇒ il concetto di autenticità riguarda la capacità di essere spontanei e trasparenti nelle


relazioni. Mostrare ciò che realmente c’è, senza, ad esempio, nascondersi dietro il ruolo che in quel
momento stiamo ricoprendo. Essere autentici vuol dire esprimere solo ciò che realmente
corrisponde al proprio sentire, evitando frasi stereotipate e restando in contatto empatico con il
nostro interlocutore.
Accettazione incondizionata ⇒ l’accettazione dei vissuti e delle esperienze, astenendosi da ogni
forma di interpretazione e /o giudizio, accettare la realtà esistenziale dell’altro e valorizzare l’altro
per ciò che è. Accettazione non vuol dire condivisione o approvazione incondizionata di idee,
opinioni e sentimenti diversi dai nostri, bensì il riconoscere all’ altro la libertà di provarli; è una
forma di rispetto profondo dell’altro da sé, un modo di essere dell’ agevolatore che contribuisce a
dare alla relazione la qualità imprescindibile della comprensione profonda.
Le tecniche sono utili ma non efficaci se disgiunte dalle qualità umane di chi ascolta.

L’esperienza dell’ascolto e della presenza rende più nutriente il nostro modo di essere al mondo
e di vivere le relazioni non soltanto professionali ma anche personali.

Carl Rogers e la Libertà di Apprendimento e la Teoria del sè – Sè ideale Vs Sè reale


Carl Rogers – la teoria del sè e la “Libertà nell’apprendimento”
Per Rogers ⇒ l’educazione e lo sviluppo hanno una dimensione strettamente personale.
Per Rogers l’apprendimento rappresenta ⇒ un’esperienza profondamente diversa da persona a
persona.
Ogni individuo trova, attraverso un itinerario personale, il modo per lui migliore per imparare.
Per Rogers in noi convivono due immagini il Sé Reale e il Sé ideale. Il Sè è una rete concettuale che
ingloba le conoscenze circa il nostro Io: insomma quello che conosciamo di noi stessi. Secondo
Rogers il Sé Ideale rappresenta una meta, ciò a cui vogliamo tendere attraverso la tendenza
attualizzante, ma deve essere raggiungibile ⇒ da qui anche l’idea di teoria del sè.
In quello reale convergono le caratteristiche reale che ci attribuiamo mentre il Sé ideale rappresenta
ciò che vorremmo essere, include tutte quelle sfumature positive che ci piacerebbe possedere.
Quando il nostro Ideale diventa solo un modo per ricordarci che non potremo mai essere così,
diventa fonte di sofferenza psichica. Il conflitto tra chi siamo e chi vogliamo essere diventa insanabile.
Carl Rogers ha espresso i caratteri fondamentali della sua pedagogia nell’opera “Libertà
nell’apprendimento“:
I presupposti sono:
1. Gli esseri umani sono dotati di una naturale tendenza a conoscere a capire e ad
apprendere (motivazione cognitiva).
2. L’apprendimento auto-promosso e auto-gestito, quello che coinvolge il sentimento oltre
che l’intelletto, è il più duraturo e pervasivo.
3. L’autovalutazione e l’autocritica facilitano molto di più lo sviluppo dell’autonomia,
dell’auto-fiducia e della creatività della valutazione esterna.
4. L’apprendimento più utile nel contesto socio-culturale attuale è quello che riguarda il
processo stesso dell’apprendere, l’essere costantemente aperti all’esperienza e integrare il
processo del cambiamento.
I risultati:
1. L’apprendimento è veramente significativo quando il “contenuto” è vissuto dallo studente
come rilevante per la soddisfazione dei suoi bisogni e la realizzazione delle sue finalità
personali.
2. L’apprendimento che implica un cambiamento nella percezione di sé e nei propri
atteggiamenti è avvertito come una minaccia e tende a suscitare resistenze.
3. Quando le minacce dall’esterno sono ridotte al minimo, l’apprendimento avviene più
facilmente ed efficacemente.
4. L’apprendimento significativo nasce dall’esperienza e dal fare ⇒ quando lo studente è parte
attiva del processo di insegnamento-apprendimento.
Rogers centra l’educazione sull’impegno personale e la capacità di iniziativa e auto valutazione
dello studente, la congruenza dell’insegnante come persona genuina e reale, la sua capacità di
empatia e di facilitazione del processo di maturazione dei suoi studenti, la significatività
essenzialmente verificabile dei contenuti proposti, la soluzione democratica e collaborativa dei
problemi.
L‘insegnante-educatore discute con ogni alunno il programma e definisce il contratto di lavoro,
fornisce il materiale e le informazioni di cui dispone, resta a disposizione per ogni richiesta di
supporto e collaborazione; infine verifica e valuta con gli alunni l’esito dei vari contratti, ripropone
nuovi cicli di apprendimento.
Lo studente è al corrente delle motivazioni che sono alla base del programma e dei metodi di
lavoro, sceglie il taglio personale che vuole dare al suo apprendimento, valuta l’iter di studio e si
impegna nel contratto di lavoro e nella verifica dei risultati concretamente raggiunti.
Psicologia ,pedagogia e didattica Rogersiane affermano in modo coerente il primato
dell’apprendimento sull’insegnamento, dell’interiore sull’esteriore, dell’autonomia sull’eteronomia.

Autenticità o congruenza; considerazione/accettazione positiva incondizionata; comprensione empatica


Vi ciclo – Rogers: autenticità o congruenza;
considerazione/accettazione positiva incondizionata;
comprensione empatica
Rogers, famoso a livello internazionale per i suoi studi sul counseling, la relazione educativa
necessita di tre atteggiamenti-chiave:
 autenticità o congruenza;
 considerazione positiva incondizionata;
 comprensione empatica
Sono tradotte dall’inglese ed anche sintetizzate con la formula:
 Empatia
 Autenticità
 Accettazione incondizionata
Il testo originale parla di (1) congruence (genuineness or realness), (2) unconditional positive regard
(acceptance and caring), and (3) accurate empathic.

Della comprensione empatica abbiamo già parlato. Per quanto riguarda, invece, l’autenticità o
congruenza, va detto che l’apertura fiduciosa dell’apprendente verso l’insegnante può avvenire a
condizione che quest’ultimo manifesti un comportamento comprensivo autentico, cioè costante
nel tempo e coerente, in modo da produrre sicurezza emotiva.

L’insegnante, pur non lesinando rimproveri quando sono necessari, deve sempre manifestare agli
alunni la sua fiducia nella loro capacità di agire bene (considerazione positiva incondizionata).

Per chiarire ulteriormente le caratteristiche del ruolo educativo dell’insegnante ricordiamo che la
capacità di porsi in ascolto ed essere comprensivi deve accompagnarsi:

 all’assertività educativa;
 all’autorevolezza;
 alla capacità di contenimento del gruppo classe in un contesto di regole e di impegni.
Il decentramento è funzionale all’accoglienza e all’individuazione dei bisogni formativi degli alunni,
non va confuso con un atteggiamento passivo, volto ad assecondare i loro desideri. Ciò che gli alunni
desiderano non coincide quasi mai con ciò di cui hanno bisogno.

Se volessimo fare leva sui desideri degli alunni, ci troveremmo di fronte ad un sicuro fallimento
educativo. L’insegnante, dunque, deve individuare i bisogni educativi di ognuno, guidare con
fermezza verso il loro perseguimento e sostenere i suoi interventi con autorevolezza e non con
autoritarismo.

L’insegnante come facilitatore e il modello dell’apprendimento diretto di Rogers


L’insegnante come facilitatore e il modello dell’apprendimento
diretto di Rogers
Secondo Rogers l’insegnante deve diventare “facilitatore” dell’apprendimento la cui qualità
principe sarà la capacità di stabilire un efficace rapporto interpersonale con gli allievi e a tal fine è
importante che il docente piuttosto che essere un pozzo di scienza “sappia ascoltare”.
Al docente spetta il non facile compito di “entrare” nel privato mondo percettivo dell’altro e di starci
comodo; di essere sensibile, attimo per attimo, ai cambiamenti di percezione, sentimenti e significati
che fluiscono dall’altro; dalla rabbia alla tenerezza, dalla confusione all’insight.
Queste idee saranno poi riprese da Gordon allievo di Rogers e pensate per la scuola.

L’insegnante come facilitatore:

1) Crea il clima positivo – clima classe sano


2) Chiarisce gli scopi

3) Scopre le motivazioni individuali

4) Modula la gamma delle modalità di apprendimento

5) è egli stesso una risorsa del gruppo


Rogers ha espresso i caratteri fondamentali della sua pedagogia nell’ opera “Libertà nell’apprendimento”:
 Gli esseri umani sono dotati di una naturale tendenza a conoscere, a capire e ad apprendere (motivazione
cognitiva).
 L’apprendimento auto-promosso e auto-gestito, quello che coinvolge il sentimento oltre che l’intelletto, è
il più duraturo e pervasivo.
 L’autovalutazione e l’autocritica facilitano molto di più lo sviluppo dell’autonomia, dell’ autofiducia e
della creatività della valutazione esterna.
 L’apprendimento è veramente significativo quando il “contenuto” è vissuto dallo studente come rilevante
per la soddisfazione dei suoi bisogni e la realizzazione delle sue finalità personali.
 L’apprendimento che implica un cambiamento nella percezione di sé e nei propri atteggiamenti è avvertito
come una minaccia e tende a suscitare resistenze.
 Quando le minacce dall’ esterno sono ridotte al minimo, l’apprendimento avviene più facilmente ed
efficacemente.
 L’apprendimento significativo nasce dall’esperienza e dal fare: quando lo studente è parte attiva del
processo di insegnamento-apprendimento.
 L’apprendimento più utile nel contesto socio-culturale attuale è quello che riguarda il processo stesso
dell’apprendere, l’essere costantemente aperti all’ esperienza e integrare il processo del cambiamento.
La condizione educativa ideale è allora quella in cui rispetto, empatia e congruenza facilitano il
conseguimento di quel livello di autoconsapevolezza che permette all’alunno di cogliere dall’interno
il suo processo formativo e di sintonizzarsi su di esso per tendere in modo efficace verso
l’autorealizzazione.

Il learn to learn: meta-cognizione ed apprendimento


Psicologia, pedagogia e didattica Rogersiane affermano in modo coerente il primato
dell’apprendimento sull’insegnamento, dell’interiore sull’esteriore, dell’autonomia
sull’eteronomia.
Tra le principali emergono le strategie meta cognitive, le opinioni e le convinzioni sulla natura e sul
funzionamento del processo di apprendimento e aspetti relativi alla motivazione ad apprendere. Tutti
questi aspetti si riferiscono al modo in cui vengono selezionati, organizzati e gestiti i processi di tipo
cognitivo e psicologico messi in atto quando si è impegnati ad imparare.
Un “learn to learn” che si esercita principalmente su oggetti e materie che rivestono comunque un
significato personale per colui che apprende, collegato a finalità considerate importanti.
La meta-cognizione riguarda la conoscenza relativa al modo in cui funzionano i processi cognitivi:
capire e conoscere come opera la propria mente (e più in generale, la mente umana) mentre si è
impegnati a imparare, permette di rendere più efficace il processo cognitivo attraverso l’utilizzo di
tecniche di controllo e regolazione dell’apprendimento.
All’interno di questo clima di libertà, autenticità e accettazione, è poi possibile lavorare per acquisire
l’atteggiamento che dovrebbe essere alla base di ogni apprendimento: non tanto la tendenza a
trasmettere o assorbire un determinato contenuto culturale, quanto un’attitudine alla ricerca, definita
come la capacità di “imparare ad imparare”, costituita dall’integrazione di diverse abilità
(dall’osservazione e acquisizione di dati, alla loro comparazione etc).
Rogers centra l’educazione sull’impegno personale e la capacità di iniziativa e auto valutazione dello
studente, la congruenza dell’insegnante come persona genuina e reale, la sua capacità di empatia e di
facilitazione del processo di maturazione dei suoi studenti, la significatività essenzialmente
verificabile dei contenuti proposti, la soluzione democratica e collaborativa dei problemi.
L’insegnante-educatore discute con ogni alunno il programma e definisce il contratto di lavoro,
fornisce il materiale e le informazioni di cui dispone, resta a disposizione per ogni richiesta di
supporto e collaborazione; infine verifica e valuta con gli alunni l’esito dei vari contratti, ripropone
nuovi cicli di apprendimento.
Lo studente è al corrente delle motivazioni che sono alla base del programma e dei metodi di lavoro,
sceglie il taglio personale che vuole dare al suo apprendimento, valuta l’iter di studio e si impegna
nel contratto di lavoro e nella verifica dei risultati concretamente raggiunti.
L’ apprendimento, a livello individuale, deve essere significativo e il suo collocarsi in una cornice
di senso e funzionale ai propri scopi garantisce la sua efficacia e maggiore incisività. Al contrario, se
l’apprendimento è percepito come una costrizione o una minaccia, ecco che si dovrà fare i conti con
delle resistenze che rallenteranno, ostacoleranno o addirittura interromperanno il percorso.
Più precisamente, possedere un certo livello di consapevolezza riguardo al modo in cui si comprende
del materiale nuovo, si ricordano dei contenuti memorizzati, si affronta un compito mai eseguito
prima e, più in generale, si apprende, consente di pianificare un percorso di apprendimento, che
prevede una continua e costante verifica (ed eventuale correzione) dell’efficacia dei processi che si
stanno mettendo in atto.

Il metodo e la proposta di Gordon


Vi ciclo – Thomas Gordon: ascolto attivo
Thomas Gordon è un teorico dell’educazione socio-affettiva.
Thomas Gordon collaboratore di Carl Rogers propone infatti una serie di tecniche operative
soprattutto invita i docenti e la comunità scolastica ad usare tale tecniche, che come vedremo sono
l’ascolto attivo. Gordon mette a punto dei “training brevi” sulla abilità di comunicazione e di
risoluzione dei conflitti interpersonali che, attraverso un approccio strutturato, rendono le persone e i
gruppi più efficaci. Gordon, considera che genitori ed insegnanti, pur mossi da buone intenzioni,
tuttavia non sempre riescono ad aiutare i ragazzi nel risolvere le loro difficoltà, poiché si rapportano
in modo sbagliato, ne bloccano la creatività, ne diminuiscono la fiducia in sé stessi.
Egli scrive un programma per i genitori Parents Effectiveness Training, cioè “Genitori efficaci” in
cui indica le condizioni necessarie per favorire lo sviluppo integrale della persona, cioè:
a. congruenza;

b. empatia;

c. attenzione positiva e incondizionata;


che diventano:
a. chiarezza dei messaggi espressi in prima persona;

b. attitudine all’ascolto;

c. rispetto dei valori e delle aree di libertà delle persone.


In seguito si rivolge al mondo scolastico e nel suo libro “Teacher Effectiveness Training” , di cui il
volume “Insegnanti Efficaci” è la fedele traduzione, propone alcune metodologie utili in classe per
creare un’efficace relazione fra insegnante e allievo e fra gli allievi stessi.

Per Gordon importanza crescente rivestono l’accettazione, l’autenticità, l’empatia, la corretta


comunicazione nel rapporto fra adulti e giovani al fine di promuovere l’autofiducia, l’autocontrollo,
l’autodisciplina, la creatività, sviluppando così negli studenti il senso di autonomia e di responsabilità,
nonché la capacità di contribuire nel definire le regole che governano la vita della classe.
Gli educatori finiscono col favorire la dipendenza anziché l’autonomia e con il controllare l’azione
anziché promuovere lo sviluppo e l’iniziativa personale.

Genitori, maestri e professori non sono stati preparati a comunicare efficacemente, e a


trovare tecniche per facilitare la comunicazione e renderla efficacie nel rapporto tra
alunno/insegnante.

Gordon: ascolto attivo, messaggio io, e messaggi di responsabilità

Gordon: ascolto attivo, messaggio io, e messaggi di responsabilità


Thomas Gordon illustra delle strategie di comunicazione efficace che l’insegnante con l’obiettivo di
sviluppare competenze empatiche e potenziare le abilità per risolvere problemi. Le tecniche che
propone sono: l’ascolto attivo, il messaggio Io anziché Tu, i messaggi di responsabilità che possono
migliorare la comunicazione tra docente e studente.

Un docente attento, secondo il metodo Gordon, deve essere in possesso di alcune competenze
fondamentali:

 l’ascolto attivo;
 il messaggio io.
Sono delle tecniche tanto semplice quanto indispensabili per la buona comunicazione. Non si tratta
semplicemente di star zitti ed ascoltare. Chi ascolta attivamente lo fa con gli occhi, con la mente e
con il cuore e comunica a chi parla che ciò che in quel momento l’altro dice, è importante per
l’ascoltatore. L’ascolto attivo è una tecnica di empatia totale tra docente e discente. L’empatia è forse
la più importante: ci si immedesima nell’altra persona per coglierne i pensieri e gli stati d’animo.
Questo permette di condividere emotivamente la sua esperienza pur non perdendo il senso della
propria identità. L’empatia prepara, inoltre, ai valori dell’accoglienza e dell’accettazione del diverso
e dell’altro.
Gli step grazie ai quali si comunica all’interlocutore l’ascolto attivo sono 4:

 ascolto passivo durante la fase iniziale. L’ascoltatore lo fa in silenzio e non interrompe; in


questo modo fa sapere all’interlocutore che si è interessati all’argomento e predisposti per
l’ascolto;
 messaggi di accoglimento verbali e non verbali. “Sto cercando di capire” o “Ti ascolto”
sono frasi importanti da utilizzare, ma non devono mancare nemmeno cenni del capo, sorrisi
e sguardi che comunicano palesemente la propria attenzione;
 inviti all’approfondimento. Si tratta chiaramente di messaggi verbali che incoraggiano chi
parla ad approfondire l’argomento senza che l’ascoltatore giudichi o commenti quel che è
stato detto. “Spiegami meglio” o “Dimmi” sono frasi che si dovrebbe utilizzare spesso;
 l’ascolto attivo è l’ultimo step durante il quale chi ascolta ripropone il contenuto del
messaggio condiviso dall’altro con parole diverse. In questa fase però non entrano in gioco
solo le parole, ma anche le emozioni ed i sentimenti.
Esistono inoltre altre manifestazioni importanti che comunicano l’ascolto attivo.

Altro aspetto importante è la considerazione positiva incondizionata che indica una globale
accettazione della persona, pur nel caso in cui questa abbia valori e atteggiamenti diversi dai nostri:
in questo caso l’interlocutore non verrà giudicato e quel che eventualmente si metterà in discussione
non sarà tanto la persona quanto piuttosto il suo comportamento.
Infine non da meno la congruenza con se stessi. Ciò non significa assumere un atteggiamento
difensivo quanto piuttosto agire in maniera tale da riflettere quel che si sente dentro.
L’ascolto attivo si attua attraverso domande aperte volte a mostrare attenzione e interesse per favorire
l’apertura dell’alunno, la restituzione dei sentimenti e delle emozioni che esprime, la sospensione del
giudizio personale per evitare la chiusura. Lavorare in direzione delle competenze empatiche a livello
scolastico, dove gli alunni possano essere accolti nelle loro difficoltà e in cui imparino a riconoscere
le emozioni proprie e altrui, è fondamentale per contrastare condotte altamente critiche come il
bullismo e la violenza diffusa.

Il messaggio io è una tecnica di comunicazione efficace sviluppata dallo psicologo Thomas


Gordon. Citata per la prima volta in un suo scritto del 1970, in cui spiegava il suo metodo per formare
genitori a comunicare con i figli. Viene definita anche ‘tecnica del confronto‘. La tecnica del
messaggio io può essere tradotta come tecnica del parlare in prima persona. Con questo semplice
accorgimento infatti è possibile evitare reazioni negative negli altri.
Il messaggio “io”invece è utile quando l’insegnante si trova a relazionarsi con un alunno che mostra
un comportamento indisciplinato e inadeguato, mettendo in primo piano i propri sentimenti al
cospetto di tale comportamento, piuttosto che giudicarlo. In questo modo si evitano la critica, il
rimprovero, l’alunno ha la possibilità di spostare la sua attenzione dal giudizio negativo su di lui alle
emozioni che determina negli altri il proprio agire. Spesso il docente usa il ‘messaggio tu’ senza farci
caso. Siamo molto bravi a fare osservazioni come:
 ‘Sei in ritardo’
 ‘Mi dovevi mandare quella mail’
 ‘Non hai portato fuori la spazzatura’
 ‘Hai fatto un errore’
 ‘Mi fai arrabbiare’
La tecnica del “Messaggio Io” può essere un valido aiuto per comunicare in maniera più efficace in
ogni situazione. Diventa particolarmente efficace per gestire comunicazioni difficili oppure
persone che ti mettono particolarmente in difficoltà.
Con questa tecnica si possono affrontare argomenti e temi delicati, senza offendere l’altra
persona, mantenendo un atteggiamento aperto e diretto. Un esempio è dire ‘ti ho aspettato da
mezz’ora e la cosa mi ha proprio dato fastidio’ rispetto a ‘tu sei un ritardatario, mi hai fatto aspettare
mezz’ora’.
Il messaggio io si basa sul dichiarare i propri sentimenti rispetto a ciò che crea disagio. Ma
anche nell’esplicitare i nostri desideri e alle nostre aspettative, parlando di ciò che vuoi tu e non
di cosa si dovrebbe fare. In tale tecnica non vi è alcuna valutazione della persona che compie
l’azione (contrariamente al ‘messaggio tu’), ma la semplice informazione rispetto agli effetti del
suo comportamento e dei sentimenti, delle emozioni e delle reazioni che provoca in noi.
Il nome deriva da una traduzione letterale dell’inglese dove viene sempre utilizzato il pronome. Per
un inglese è normale iniziare le frasi con ‘I’, ovvero ‘io’. In italiano invece è meglio evitare di ripetere
e affermare ‘io’. Oltre a essere poco cortese può indispettire l’altra persona. Se, ad esempio, sei un
po’ infastidito è facile porre troppa enfasi maggiormente su ‘io’ piuttosto che sul messaggio.
Per questo motivo, in italiano sarebbe meglio parlare semplicemente dell’importanza di esprimersi
in prima persona. Quindi…
 ‘Sei arrabbiato’ diventerà: ‘mi sembri arrabbiato’
 ‘Si potrebbe parlare a Marco del problema’ diventerà: ‘potrei parlare a Marco del
problema’ o ‘puoi parlare a Marco del problema?’
 ‘Devi darmi quei documenti’ diventerà: ‘ho bisogno di quei documenti’
Questa tecnica veniva chiamata anche frase ternaria proprio perché si compone di tre parti:
1. Descrizione del comportamento che crea problemi senza esprimere giudizi (‘quando
tu…’)
2. Descrizione dell’effetto concreto che provoca su di te il comportamento (‘succede
che…’)
3. Descrizione degli effetti soggettivi del problema su di te (‘io…’)
Così ‘sei sempre in ritardo!’ può diventare:
‘Quando arrivi in ritardo, dobbiamo ripetere quello che abbiamo detto e finiamo per perdere
tempo, rischiando di fare meno oppure finire più tardi del previsto. Questo mi irrita e mi lascia anche
di cattivo umore perché devo rivedere i miei piani della giornata’.
Questi vengono anche detti messaggi di responsabilità. Perché se ti esprimi così, ti assumi la
responsabilità di come ti senti, della tua situazione, dei tuoi pensieri e delle tue emozioni. Senza
colpevolizzare gli altri di come ti fanno sentire. Prendendo l’abitudine di esprimerti in prima persona,
sei anche portato a fare un’analisi della tua situazione. Anche solo nel momento in cui ti esprimi in
prima persona, sei costretto a trasformare la tua frase. Questo ti porta a essere consapevole del tuo
modo di sentirti e di assumertene la responsabilità. Facendo così non colpevolizzi l’altro. Però
fai una richiesta adulta e diretta di cosa vuoi, dicendolo in maniera esplicita. Questo scarica solo la
giusta parte di responsabilità sugli altri, però provoca una maggiore collaborazione rispetto ad altri
modi di esprimersi.
Infatti quando impari a esprimerti in prima persona, gli altri invece che arrabbiarsi come succede
con i messaggi in seconda persona, si sentono considerati e utili. Di conseguenza sono più
disponibili e collaborativi.
Quindi…
 ‘Non ti sopporto più’ diventerà ‘quando tieni il volume alto, il suono non mi permette di
lavorare e io mi innervosisco’.
 ‘Non puoi sempre fare finta di niente’ diventerà ‘ho l’impressione che tu non ti voglia
esprimere ma vorrei sapere la tua opinione. Quando ti chiedo spiegazioni e mi dici di
lasciar perdere mi sento frustrato e deluso’.
Come puoi notare dall’ultimo esempio, il semplice iniziare a parlare in prima persona ti porterà
a cambiare completamente ciò che dici. Riuscirai a esprimerti in maniera molto più chiara
affermando ciò che pensi e che vuoi.
Mentre allo stesso tempo riuscirai a esprimere critiche costruttive facendoti però carico di quello
che tu pensi e di come tu ti senti. In questo modo non scarichi addosso la responsabilità all’altro di
come lui ti fa sentire. Questo aspetto riuscirà a portare due grandi vantaggi:
1. Nessuno ti può dire che non è vero che tu ti senta così; mentre se dici ‘mi fai
arrabbiare’ l’altro si sente accusato e inizierà a sostenere che non è vero che ti fa arrabbiare.
2. Crei un clima collaborativo in cui non dai la colpa di come ti senti all’altro, ma lo informi
semplicemente delle conseguenze del suo comportamento mentre ti ritieni comunque
responsabile del modo in cui reagisci.

T.E.T. Teacher Effettiveness Training


Al training per i genitori Gordon fa seguire quello per gli insegnanti: il T.E.T. – Teacher
Effettiveness Training.
Gordon ancora una volta vuole aiutare chi lavora con soggetti in età evolutiva a comunicare in
modo efficace, a facilitare l’autoapprendimento, a condurre democraticamente un gruppo di
discussione, di lavoro o di incontro finalizzato alla soluzione di problemi o conflitti, a dare il
massimo spazio reale alle attività di insegnamento e apprendimento.
Il clima è sempre quello Rogersiano ⇒ si promuove l’auto-fiducia, la creatività, l’autocontrollo e
l’autodisciplina; si sviluppa il senso di autonomia e quello di responsabilità, si invitano gli studenti a
partecipare al processo attraverso il quale si definiscono le regole che governano la vita della classe.
Numerosi altri training sono stati ideati e sperimentati da Gordon e dai suoi collaboratori allo scopo
di dare la più ampia diffusione possibile a questo modello democratico di comunicazione e
collaborazione.

Gordon concorda con Rogers sulle condizioni necessario e sufficienti per facilitare lo sviluppo della
tendenza attualizzante presente in ogni persona:
1. rispetto, empatia e congruenza

⇒ per apprenderle in modo efficace e sceglie un training e una metodologia didattica fortemente
strutturata.

Gordon mette appunto una metodologia fenomenologico-esperienziale e simpatizza sempre più


con l’abilità cognitivista e gestaltica.
Le attitudini terapeutiche sono tradotte da Gordon in operazioni concrete e segmentate in una serie
graduale di apprendimenti che costituiscono i contenuti-obiettivi di “training brevi” sulle abilità di
comunicazione e di risoluzione dei conflitti interpersonali. In questo modo egli riesce a rendere
accessibili ai “non-professionisti” delle relazioni di aiuto le conoscenze e le abilità utilizzate in campo
psicoterapeutico.

il P.E.T. (Parent Effectiveness Training) di Gordon


Il primo programma realizzato da Thomas Gordon era rivolto ai genitori.
Si trattava del P.E.T. (Parent Effectiveness Training) che divenne presto un best seller e consentì a
Gordon di diffondere le idee di Rogers presso un vastissimo pubblico evitando nel contempo che esse
venissero recepite in modo distorto o che venissero applicate in modo errato.
Nel P.E.T. la congruenza diventa chiarezza di messaggi espressi in prima persona,
l’empatia diventa attitudine all’ascolto nelle sue varie forme passive e attive, l’accettazione positiva
senza condizioni diventa rispetto dei valori e delle aree di libertà delle persone. Gordon chiarisce ai
genitori le tecniche di rilevazione dei problemi e le modalità di intervento che ne facilitano la
soluzione. Distingue le abilità necessarie per aiutare gli altri che chiedono il nostro supporto da
quelle necessarie per responsabilizzare gli altri quando il loro comportamento ostacola la
soddisfazione dei nostri bisogni. Ordina e analizza le modalità comunicative e interattive che
ostacolano la comunicazione ed il processo di risoluzione di problemi e conflitti. Di tutto da numerose
esemplificazioni e schemi esplicativi.
Mentre Rogers ha scelto di lavorare in modo totalmente fluido e aperto al processo, valorizzando
molto l’intuizione e la creatività anche in gruppi molto numerosi, Thomas Gordon si orienta verso un
approccio più strutturato. Egli predispone dei “training brevi”, mirati a facilitare il processo di
apprendimento delle competenze che rendono le persone e i gruppi più efficaci nelle relazioni
interpersonali e nella soluzione di problemi e conflitti.

AUDIOLEZIONI
Karl Rogers – Approccio, idee, proposta didattica
Karl Rogers – La terapia centrata sul cliente

TRACCIA DI CONCORSO
Un nuovo obiettivo dell’istruzione: lo studente autononomo
Il processo educativo dovrebbe promuovere, secondo Rogers, la facilitazione all’apprendimento e
renderli autonomi il più possibile. L’attività educativa che ha luogo in ambito scolastico ha diversi
obiettivi, all’ interno dei quali l’apprendimento dei contenuti disciplinari ne rappresenta solo una
parte.
La natura di tali obiettivi può dipendere da vari fattori (storici, culturali, sociali, economici); per le
società democratiche Carl Rogers (1989) propone un approccio all’istruzione basato, appunto, su un
obiettivo educativo di tipo democratico. Secondo tale approccio, i sistemi educativi dovrebbero
contribuire alla formazione di cittadini consapevoli e responsabili, in grado di prendere decisioni in
autonomia e di partecipare e contribuire attivamente alla vita collettiva della società di appartenenza.
In tale contesto, la principale finalità delle istituzioni scolastiche dovrebbe essere quella di offrire agli
studenti il supporto necessario al pieno sviluppo delle proprie potenzialità, nel rispetto delle loro
caratteristiche psicologiche e di personalità e delle loro convinzioni e opinioni sociali, culturali e
religiose.
Strategie meta cognitive, conoscenza del modo in cui si sviluppa l’apprendimento nelle diverse
discipline e sviluppo di un atteggiamento motivato rispetto all’ apprendimento andrebbero tenuti in
considerazione nella riflessione relativa agli obiettivi dell’istruzione, che dovrebbe essere ampliata
per includere i vari aspetti cognitivi, psicologici, esperienziali ed emozionali che contraddistinguono
il processo di apprendimento.

Molto spesso il dibattito sulla funzione delle istituzioni scolastiche porta a chiedersi quale sia
l’obiettivo principale dell’istruzione, soprattutto in un contesto storico-culturale in continuo e rapido
mutamento come quello attuale: la tecnologia diventa velocemente obsoleta; l’economia si trasforma
rapidamente, e ciò che funziona oggi può non essere più efficace domani; la società muta e si evolve,
non senza scontri e contrapposizioni interne.

Che cosa può offrire la scuola a bambini e ragazzi? Di quali strumenti dotarli per affrontare un
futuro che non siamo in grado di definire con certezza?
La stessa capacità di ascolto e comprensione esercitata dal docente può, secondo lo psicologo
americano, maturare all’interno del gruppo degli allievi, grazie all’esercizio di determinati strumenti.
Ad esempio il “gruppo di incontro” rappresenta uno spazio e un tempo in cui gli alunni, riuniti
insieme, possano godere della libertà di esprimersi e di ascoltare. Strumenti di questo tipo, volti
all’espressione della propria affettività e all’accettazione del mondo emotivo altrui, sono indicati da
Rogers come una chance di rinnovamento per il sistema scolastico.

La vita della scuola può rappresentare un fattore di piacere per un l’allievo che sia incoraggiato e
sostenuto, orientato a un’autovalutazione e non motivato dal timore della valutazione altrui. Le abilità
dell’alunno possono essere scoperte e sviluppate in autonomia, in una costruzione progressiva del
senso di fiducia in se stesso, e in un clima di libertà interiore conquistata quotidianamente. Un
apprendimento generato in tali condizioni si rifletterà nella capacità esistenziale di pensare e agire in
modo autonomo, di manifestarsi nella propria vera essenza e nella possibilità di scegliere. È questo
il traguardo della scuola nuova che Rogers ritiene debba ancora davvero realizzarsi.

A partire da questi quesiti si possono sviluppare alcune riflessioni come piccolo spunto per ampliare
il dibattito educativo e psicologico.

Il processo educativo dovrebbe promuovere, per Rogers (1969), la “facilitazione


dell’apprendimento”, in modo tale che, grazie alla relazione con l’educatore, il discente possa
sviluppare strategie di apprendimento autonomo. Una condizione di facilitazione
dell’apprendimento prevede un ruolo attivo dello studente, che viene coinvolto nel percorso
educativo e responsabilizzato rispetto agli obiettivi formativi da raggiungere. Se l’individuo
svilupperà la capacità di apprendere in modo autonomo, sarà in grado di fronteggiare i
cambiamenti e le eventuali difficoltà che incontrerà nel suo percorso esistenziale.
Stimolare l’autonomia nell’apprendimento implica favorire lo sviluppo di individui che saranno in
grado di imparare e formarsi lungo tutto il corso di vita, contribuendo ad accrescere non solo il loro
livello di conoscenza e di expertise, ma anche quello della comunità in cui vivono. Apprendere una
lingua straniera, aggiornarsi professionalmente, utilizzare un nuovo dispositivo elettronico, imparare
a eseguire nuovi compiti o modificare l’esecuzione di attività già note: ci sono numerose occasioni in
cui a ogni individuo è richiesto di progettare e attuare un processo di apprendimento, più o meno a
lungo termine. A questo proposito, la scuola assume una funzione rilevante, in quando dovrebbe
offrire adeguato supporto allo sviluppo di alcune abilità particolari, indispensabili per apprendere in
modo efficace.

La dimensione meta cognitiva sembra avere un ruolo rilevante nel processo e nei risultati di
apprendimento.
Friso, Palladino e Cornoldi (2006) hanno sottolineato che abilità meta cognitive e prestazione
di apprendimento si influenzano reciprocamente, per cui maggiori competenze in ambito meta
cognitivo portano a risultati di apprendimento migliori e progressi nell’apprendimento
contribuiscono all’acquisizione di abilità meta cognitive sempre più articolate ed efficaci.
Le opinioni che le persone sviluppano in relazione all’apprendimento e al modo in cui si forma la
conoscenza sono stati definite “credenze epistemologiche”.
Vi sono delle strutture di opinioni emergono quattro dimensioni fondamentali, che consentono di
sviluppare delle spiegazioni informali riguardanti il livello di certezza della conoscenza (se la
conoscenza è certa in assoluto oppure se assume valore relativo in determinati contesti), la semplicità
della conoscenza (se la conoscenza consta di concetti isolati oppure presenta una struttura più
complessa e articolata), la fonte della conoscenza (se la conoscenza deve essere divulgata da
un’autorità, da individui ritenuti esperti oppure se può essere co-costruita) e giustificazione della
conoscenza.

Tali gruppi di credenze hanno impatto sul processo di apprendimento, favorendolo o ostacolandolo:
un esempio molto noto è quello per cui le credenze relative all’apprendimento della matematica
sembrano influenzare le prestazioni accademiche relative a questa disciplina e lo sviluppo di abilità
di problem solving (Leder, Pehkonen, Töner, 2006). Se si ritiene che per riuscire in matematica sia
indispensabile possedere una certa dose di “talento innato” e che, senza di questo, qualsiasi sforzo
cognitivo sia inutile, esperienze che fanno ritenere di “non essere portati” per la materia
influenzeranno l’attività formativa e ridimensioneranno gli obiettivi di apprendimento.

Infine, la motivazione all’ apprendimento include un insieme di aspetti relativi all’ esperienza
individuale nell’ apprendimento (De Beni e Moé, 2000): tale complessa struttura cognitiva,
psicologica ed emozionale definisce la direzione e l’intensità dei comportamenti di
apprendimento che vengono messi in atto. Non si può quindi ridurre la motivazione a “avere più o
meno voglia di imparare”, ma va considerata la complessità degli aspetti che vi entrano in gioco,
legati alle passate esperienze, agli obiettivi educativi che si perseguono, alle credenze
epistemologiche sviluppate, alla percezione della propria efficacia come individuo in grado di
apprendere in specifiche aree di conoscenza.
La dimensione motivazionale rivolta all’ apprendimento si struttura a partire da tutte queste
dimensioni e risente, inoltre, di elementi legati al contesto di apprendimento o istruzione e alle
relazione o scambio sociale all’ interno della classe, tra compagni e tra studente e
docente. Proprio per questi aspetti, lo studente “svogliato” non dovrebbe essere considerato
colpevole di mancanza di buona volontà, ma andrebbero ricercate le cause sottostanti che hanno
contribuito allo stabilizzarsi di un atteggiamento di disimpegno.
Per concludere questa breve riflessione, l’attività formativa offerta dalla scuola non dovrebbe
esaurirsi nella mera trasmissione di conoscenze. In un contesto in rapida evoluzione e di fronte
ad un futuro, per certi aspetti, alquanto imprevedibile, è possibile ipotizzare l’importanza di
favorire, in ogni studente e nel rispetto delle sue caratteristiche personali, lo sviluppo di abilità
che gli o le consentano di raggiungere una condizione di autonomia nell’ apprendimento.

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