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Dal punto di vista pedagogico un carattere distintivo dell’ideologia agostiniana è quello che lo porta
a vedere l’infanzia non come una condizione di purezza ma come una semplice fase della crescita
umana, – segnata quindi dal peccato e dalla tendenza ad allontanarsi dalla via del bene.
Sant’Agostino è il fondamento della sapienza cristiana e il suo famoso trattato De Magistro, ovvero Il
maestro, è il fondamento di ogni metodo d’insegnamento autentico. Agostino nel suo De
Magistro un testo complesso sostiene che l’unico vero maestro è Dio, e arriva dunque a porre in
secondo piano la funzione didattica e pedagogica dell’insegnante.
Infatti, se l’insegnamento è volto a portare al raggiungimento della verità, e se la verità proviene da
Dio, la funzione di un buon maestro non sarà quella di imporre dall’esterno l’acquisizione di concetti
specifici, quanto di aiutare gli alunni a trovare la verità.
Pedagogia soggettiva o interiore all’interno dell’anima dello studente, – in quanto la verità per
Agostino sta dentro l’uomo: la verità non viene quindi consegnata dall’insegnante ma viene
riscoperta dall’alunno con la guida del suo formatore.
Riteneva che i modelli culturali e educativi classici fossero pericolosi se utilizzati in sé e per sé,
ma contenessero anche preziose risorse che potevano essere sfruttate per il meglio se
considerate dalla giusta prospettiva.
Interessante l’importanza che Agostino dà all’allievo: egli ritiene, infatti, che qualsiasi nozione per
essere effettivamente appresa debba essere trovata e sentita come vera dagli alunni. Pertanto, il
discepolo deve tracciare al suo interno una via che porta alla conoscenza, deve fare spazio al proprio
maestro interiore (che Agostino identifica con Cristo), il quale, tramite l’illuminazione divina,
permette la comprensione delle cose.
In chiave più attuale, si può affermare che l’educatore deve favorire l’apprendimento favorendo la
ricerca interiore e la crescita intellettuale del discepolo; insegnare, cioè, significa fare memoria.
Riportare alla memoria la verità di cui si è costituti, tutti, motivo per cui tutti siamo sempre “studenti”,
discepoli, e il nostro ammaestramento non è mai finito.
«Il parlare, dunque», osserva Bisogno, «è legato soltanto all’insegnare o al far ricordare, a se stessi o
agli altri. Le due attività, fa intendere da subito Agostino, sono intimamente connesse: non solo infatti
il vero insegnamento si ottiene quando si riporta alla memoria un contenuto profondo, latentemente
presente nell’animo ma, nel particolare e nel quotidiano, ricordare non è altro che insegnare a se
stessi, vale a dire usare segni linguistici per far riaffiorare, dalla memoria, immagini di ciò che si è
conosciuto»
In particolare:
i francescani ritengono che la fede superi, sia in se stessa sia per le possibilità conoscitive,
la ragione e gli strumenti razionali messi in atto dall’uomo. Solo seguendo una via mistica
l’uomo può ascendere nella conoscenza di dio;
i domenicani ribadiscono la priorità della razionalità come strumento conoscitivo della
verità rivelata. ⇒ il campione ed ispiratore dei domenicani è proprio San Tommaso
Ma cosa si insegnava nei conventi? Quali discipline? Quali erano le materie (diremmo oggi le cdc)
che si insegnavano nelle scuole dell’epoca?
Durante questo periodo e durante tutto il medioevo le discipline sono organizzate
nel trivio (grammatica, retorica, logica) e nel quadrivio (aritmetica, geometria, fisica, musica).
La scolastica rappresenta un periodo particolarmente fecondo di riflessione pedagogica:
all’interno delle università, i grandi intellettuali tematizzano il problema dell’educazione e della
formazione che il buon cristiano deve perseguire.
L’idea di pedagogia di san Tommaso va ricercata nel suo pensiero. San Tommaso ritiene infatti che
il fine dell’uomo dia la felicità, alla quale si accede grazie alla conoscenza e alla vita pratica,
anche se per raggiungere completamente questa c’è bisogno della grazia divina. Il percorso da
seguire è quello dell’educazione cristiana che san Tommaso riesce a rendere positivo grazie alle sue
facoltà intellettuali e le proprie disponibilità etiche.
Nell’insieme questo percorso appare come un disegno educativo equilibrato e razionale che include
il “Giusto mezzo” sostenuto da Aristotele e che San Tommaso amplia e arricchisce attraverso la
dimensione religiosa.
Per Ferrante Aporti il problema degli asili stava a cuore era la scuola dell’infanzia, come rinnovarla
e renderla attiva. Egli istituisce un vero e proprio metodo, illustrato nei due volumi nel Manuale,
nella Guida per le scuole infantili di carità (Milano 1836) e in altri scritti.
I rispettivi istituti che sorgevano erano retti secondo i metodi che l’A. aveva esposti e come egli
stesso era per lo più richiesto di lumi e spesso dell’invio di maestre per le singole fondazioni, o
invitato a giudicarne dì presenza l’ordinamento interno, ciò spiega l’abbondante suo carteggio e i
frequenti suoi viaggi pedagogici.
Le vedute educative di Aporti erano progressiste per l’epoca, egli affermava la convenienza dei
metodi informativi per i primi anni di vita, e sulla scia del Comenio e del Pestalozzi applicava alle
varie forme educative, da svolgere armonicamente, il metodo intuitivo.
Come tutti i pedagogisti cattolici era per l’educazione morale fondata sulla religione, purificata però
da superstizioni e legata alla pratica della vita. Etica ed educazione si fondevano.
L’attenzione per la condizione di abbandono dei bambini appartenenti alle classi popolari lo induce
a fondare a Cremona, nel 1828, il secondo “asilo d’infanzia” in Italia, a pagamento, per alunni da due
anni e mezzo a sei anni.
Continuiamo ad ascoltare Don Bosco: “Due sono i sistemi in ogni tempo usati nella educazione della gioventù:
Preventivo e Repressivo. Sistema Repressivo consiste nel far conoscere i trasgressori ed infliggere, ove sia
d’uopo, il meritato castigo […]. Diverso, e direi opposto, è il sistema Preventivo. Esso consiste nel far
conoscere le prescrizioni e i regolamenti di un Istituto e poi sorvegliare in guisa che gli allievi abbiano sempre
sopra di loro l’occhio vigile del Direttore o degli assistenti, che come padri amorosi parlino, servano di guida
ad ogni evento, diano consigli e amorevolmente correggano, che è quanto dire: mettere gli allievi nella
impossibilità di commettere mancanze.
Questo sistema si appoggia tutto sopra la ragione, la religione e sopra l’amorevolezza […].
Il sistema Repressivo può impedire un disordine, ma difficilmente farà migliori i delinquenti […].
Il sistema Preventivo rende avvisato l’allievo in modo che l’educatore potrà parlare con il linguaggio del cuore
sia in tempo dell’educazione, sia dopo di essa. L’educatore, guadagnato il cuore del suo protetto, potrà
esercitare sopra di lui un grande impero, avvisarlo, consigliarlo, e anche correggerlo allora eziandio che si
troverà negli impieghi, negli uffici civili e nel commercio”.
Questa è la magna charta della pedagogia dei salesiani, il concetto che occorre guadagnare il cuore dei giovani
per esercitare una efficace opera educativa, dando al cuore i diversi significati che può assumere nei contesti
più vari. Don Bosco soleva ripetere che l’educazione è un fatto del cuore. Non si educano i giovani se non li
si ama. Amare le cose che i giovani amano e i giovani ameranno le cose che gli educatori amano.
I tre pilastri:
– ragione
– religione
– amore
I tre pilastri dell’educazione salesiana sono la ragione, che poi è la ragionevolezza, senza gli irrazionali
modi di imporre, di reprimere, di castigare; la religione, che per Don Bosco era lo scopo primario, e che nei
figli di Don Bosco è diventato dopo un secolo e mezzo di tempo, educare ai valori fondamentali della vita,
curare la formazione umana, secondo i criteri della libertà, della solidarietà, della dignità personale, della
sensibilità agli altri; amore è il terzo pilastro dell’educazione salesiana, che è detto in modo più espressivo,
completo e comprensibile col termine di “amorevolezza”, espressione sempre ricca di un contenuto attuabile
anche in tempi tanto diversi dai tempi di Don Bosco.
Il discorso sul metodo educativo sarà però nella vita dell’Oratorio di Don Bosco un ritornante discorso ai suoi
figli educatori, scelti tra gli stessi ragazzi dei primissimi anni dell’Oratorio di Valdocco a Torino. E più che un
discorso sarà il modo di vivere tra i giovani, in cortile, nella scuola, nella chiesa, nelle ricreazioni, nelle
passeggiate, nelle recite, nelle premiazioni, nelle feste, nei rari castighi, nello studiare e nel lavorare, sempre
in allegria, l’allegria, il segreto di Don Bosco e dei Salesiani.
Principi che egli mette in pratica nella scuola di Barbiana era un vero e proprio collettivo (diremmo
oggi si usavano metodologie di tutor-mentoring e di peer-tutoring) in quanto chi sapeva di più aiutava
e sosteneva chi sapeva di meno, 365 giorni all’anno.
La scuola suscitò immediatamente molte critiche e ad essa furono rivolti attacchi, sia dal mondo della
chiesa sia da quello laico.
Pubblica “Lettera a una professoressa”, (maggio 1967), in cui i ragazzi della scuola (insieme a don
Milani) denunciavano il sistema scolastico e il metodo didattico che favoriva l’istruzione delle classi
più ricche, mentre permaneva la piaga dell’analfabetismo in gran parte del paese. La Lettera a una
professoressa fu scritta negli anni della malattia di don Milani.
Pubblicato un mese prima della sua morte è diventata uno dei testi di riferimento del movimento
studentesco del ’68. Altre esperienze di scuole popolari sono nate nel corso degli anni basandosi
sull’esperienza di don Lorenzo e sulla Lettera a una professoressa.
Nel testo vi è tutto il clima culturale dell’Italia degli anni Sessanta.I suoi scritti innescarono aspre
polemiche, coinvolgendo la Chiesa cattolica, gli intellettuali e politici dell’epoca; Milani fu un
sostenitore dell’obiezione di coscienza opposta al servizio militare maschile (all’epoca obbligatorio
in Italia); per tale motivo fu processato – e poi assolto – per apologia di reato.
Fu don Milani ad adottare il motto inglese “I care”, letteralmente mi importa, mi interessa, ho a
cuore.
Con don Milani – “I care” ossia “io mi prendo cura” che riassume gli scopi della scuola orientata a
formare i “cittadini sovrani”; si evitano le bocciature, poiché un povero, siccome si trova in una
condizione svantaggiata, se viene bocciato sarà obbligato a frequentare talmente tante ripetizioni che
alla fine si arrenderà e ripeterà lo stesso mestiere del padre senza aver avuto l’opportunità di
migliorare la sua vita, e così vale anche per i voti e le promozioni.
La sua scuola e la sua pedagogia è orientata alla presa di coscienza civile e sociale.
Il testo presenta una durissima critica alla scuola pubblica italiana, definita classista, contro la scuola
dei figli di papà, una scuola che semplicemente perpetua le differenze sociali e di classe, Do Milani
propone una scuola inclusiva per tutti. Ricordiamo che solo proprio pochi anni prima aveva introdotto
la scuola media unica.
Secondo Don Milani, la scuola, invece di combattere le diseguaglianze sociali, sostenendo gli
studenti più bisognosi e in difficoltà, stava amplificando il divario ricchi-poveri, perché premiava
e faceva avanzare i figli della borghesia, respingendo i più poveri.
Per Don Milani la scuola doveva combattere:
Le strategie educative che derivano dalla prospettiva pedagogica del personalismo storico si pongono
la finalità di far manifestare pienamente le potenzialità di ogni essere umano, ossia di promuovere la
libertà, l’originalità e la relazionalità che costituiscono l’essenza della persona.
Ricordiamo brevemente gli autori della tradizione cristiana che abbiamo visto in questo modulo di
Origine, autori come San Tommaso e Sant’Agostino e con pensatori moderni come Maritain,
Stefanini e Casotti, infine Aldo Agazzi questi pensano che la natura dell’uomo non sia solo materiale
ma anche trascendentale, legato a Dio quindi trascendente dell’uomo.
PERSONALISMO PEDAGOGICO: La persona è l’uomo che esercita la propria capacità di senso
riconoscendosi in una relazione di senso. Persona significa rispetto di sé, conoscenza di sé, è la
sollecitudine dell’altro che riconosce a ciascuno il principio della giustizia. Chi ha trattato il
personalismo pedagogico, sono: Maritain, Marell; Stefanini, Ricoeur e Monieur (I° meta del 1900).
Essi danno enfasi alla persona e al come e perché della sua formazione. In Italia Aldo Agazzi.
Una natura libera che non si esaurisce nei limiti dell’individuo, inteso sia come materia sia come
intelletto, ma che si apre costantemente a ciò che il pedagogista bergamasco chiama “le sue
trascendenze”: una orizzontale che permette la costituzione dei legami sociali attraverso la relazione
con gli altri e l’altra verticale che rappresenta la condizione di possibilità del rapporto con il Dio-
persona della tradizione cristiana.
L’uomo, infatti, deve essere considerato come un ente integrale, che si manifesta nella propria
pienezza solo se nessuna delle sue caratteristiche viene ridotta o dimenticata. Per questa ragione,
l’essenza ontologica della persona, libera e trascendente, non è un principio astratto che può essere
analizzato a priori, ma un fondamento che si concretizza necessariamente in uno spazio e in un tempo
determinato attraverso la costruzione di legami sociali, economici e politici. L’uomo è sì libero e
trascendente, ma la sua libertà si deve realizzare nell’esistenza, nella storia, in azioni concrete, nel
suo lavoro e in tutte le dimensioni che permettono di promuovere le caratteristiche di ogni essere
umano. Nella visione cristiana-cattolica, l’educazione, se è veramente tale, ha il compito di sviluppare
tutti gli aspetti dell’uomo, promuovendo quelle attività in cui l’educando riesce a realizzare, in
un’azione concreta e particolare, le diverse potenzialità fisiche e psichiche che lo compongono.
Per questa ragione, il lavoro manuale non può che essere un’attività centrale nei processi formativi.
Un’attività che gli allievi devono incontrare all’interno delle scuole e non solo dopo il completamento
di un percorso d’istruzione.
Per Agazzi il lavoro è educazione, il lavoro assume una funzione educativa in sé, perché permette
al giovane di sviluppare la sua capacità di produrre qualcosa di concreto, confrontandosi con le norme
e i vincoli del contesto operativo, i tempi di produzione, le idee di utile e di interesse, i bisogni della
vita, la fatica fisica e le difficoltà di trasportare un’idea astratta nella pratica.
Egli critica ogni teoria separativa o intellettualista, che pensa la scuola e il sapere teorico come
qualcosa di lontano dall’attività lavorativa.
Infatti, il compito dell’educazione non è quello di accentuare le separazioni tra scuola e lavoro, teoria
e pratica, mente e corpo, ma, pur riconoscendo le distinzioni tra le diverse dimensioni umane,
giungere a una composizione armonica dei differenti elementi che permettono alla persona di agire
in modo libero, consapevole e responsabile.
Sono anche previsti una serie di incontri che nel corso dei prossimi mesi e per tutto il 2022 – anno
del centenario della nascita di Lodi – verranno organizzati per approfondire la figura di uno dei
protagonisti del rinnovamento pedagogico della scuola italiana, scrittore di molte storie per ragazzi e
formatore di generazioni di insegnanti.
Lodi è stato rotagonista del rinnovamento pedagogico in chiave democratica della scuola italiana
negli anni Sessanta e Settanta, esponente del Movimento di Cooperazione Educativa, Lodi ha
condensato i capisaldi della propria innovativa esperienza didattica all’interno dei due diari C’è
speranza se questo accade al Vho (1963) e Il paese sbagliato (1970), divenuti nel corso del tempo
due punti di riferimento imprescindibili per chi ritiene che la scuola debba trasmettere una solida
cultura democratica educando a pace, giustizia e uguaglianza.
Lodi è stato anche uno dei più importanti autori di libri per bambini e ragazzi del secondo Novecento:
il suo Cipì, pubblicato per la prima volta nel 1961, è ormai considerato un classico, tradotto in molte
lingue e stampato ancor’oggi con successo da Einaudi Ragazzi.
Mentre poi gli illuministi sottolineano la funzione progressista della conoscenza e gli ideali di libertà
e fratellanza promossi, il pensiero di Rousseau è ispirato da un individualismo radicale, che evolve
poi nel comunitarismo delle opere della maturità.
Emilio è un suo romanzo pedagogico, altre opere il “Contratto sociale” e la “Nuova Eloisa”. Il tema
fondamentale dell’ “Emilio” consiste nella teorizzazione di un’educazione dell’uomo in quanto tale
attraverso un suo “ritorno alla natura”.
I due Discorsi del 1749 e del 1754 sostengono la tesi per cui i beni materiali e il progresso socio-
culturale dell’Occidente non abbiano prodotto un miglioramento della virtù umana, ma abbiamo
piuttosto generato un mondo ingiusto e diseguale.
La riflessione sulla libertà umana prosegue con il romanzo epistolare Giulia, o la nuova Eloisa, che,
attraverso la storia di due giovani amanti osteggiati dalla famiglia, prende in considerazione i rapporti
tra i condizionamenti della società e i desideri dell’individuo, tre le scelte etico-morali e le pulsioni
dell’istinto.
Egli proponeva un’educazione “naturale”, l’autore postula che l’educazione debba
necessariamente essere naturale, senza costrizioni sociali. La natura per Rousseau consiste
nell’insieme delle facoltà umane e intellettive proprie dello stato originario dell’uomo, facoltà, che
come si è già ricordato, vengono sistematicamente corrotte nella società contemporanea da civiltà e
cultura. Il carattere naturale dell’educazione implica dunque che essa non può derivare dai
dettami della società, ma deve necessariamente fondarsi nell’uomo visto come essere autonomo.
Anche il metodo utilizzato dagli insegnanti dovrà essere coerente con l’evoluzione naturale del
soggetto, senza forzarla in alcun modo, e dovrà quindi essere strutturato sulla base dell’evoluzione
psicologica dei fanciulli.
Nella prima e la seconda infanzia, per Rousseau bisogna usare un metodo pedagogico che sia
volto più che a progettare interventi formativi specifici e rispettare lo sviluppo del bambino
evitando interventi contrari a esso. Un educazione libera senza costrizioni, obblighi, etc. Al
contrario egli dovrà impegnarsi molto per impedire che sia influenzato negativamente e per
predisporre al contrario occasioni propizie per uno sviluppo armonico.
Tale squilibrio non è frutto della natura umana (che Rousseau giudica intimamente buona) ma è opera
di un distorcimento dello stato di natura originario dell’uomo a seguito del progresso tecnico-
scientifico e della civilizzazione storica delle società.
Egli insiste molto sull’importanza nel percorso educativo dei bambini delle sensazioni provate dalla
manipolazione degli oggetti e dal movimento. Ritiene invece che si debba escludere in questa fase
ogni forma di educazione morale, in quanto senza il supporto della ragione il bambino non potrebbe
capire ciò che sta dietro a divieti e imposizioni e li considererebbe solo come mere imposizioni,
allontanandosi così dallo stato naturale di libertà.
La seconda fase dell’educazione del bambino si introduce il concetto della libertà anche come
conquista. Il bambino comincerà e rendersi conto dello squilibrio che esiste tra i suoi bisogni e le
capacità che gli sono date di soddisfarli. Su questa dicotomia ci si potrà appoggiare per una prima
educazione morale che non conterrà obblighi o doveri ma partirà appunto dall’osservazione e dal
confronto con la necessità delle cose, metodologia che dovrebbe portare allo sviluppo dell’uomo sulla
base dell’autonomia e dell’autenticità.
Si tratta di un romanzo pedagogico diviso in cinque parti, corrispondenti alle cinque fasi fondamentali
della vita del giovane considerate da Rousseau:
– La prima fase: va dalla nascita fino a quando il bambino è in grado di parlare. Durante questa fase
il fanciullo fa le prime esperienze con le realtà esterne.- La seconda fase: arriva fino ai dodici anni.
Ciò che maggiormente colpisce il giovane in questa fase della vita sono le esperienze sensorali; il
criterio in base a cui valutare tali esperienze è costituito dal piacere e dal dolore.
– La terza fase: dai dodici ai quattordici anni, è quella in cui il ragazzo riceve la sua educazione
sessuale e religiosa. Secondo Rousseau questa è l’età migliore, perché prima non sarebbe in grado di
comprendere il valore degli insegnamenti fornitigli in materia.
– La quarta fase: tratta dell’adolescenza di Emilio. Gli si insegneranno la storia, la morale e la
religione.
– La quinta ed ultima fase: è quella in cui è ormai pronto ad entrare nella società e ricerca la donna
della sua vita, Sofia, educata in maniera da essere la compagna ideale di Emilio.
Accanto al principio fondamentale dell’educazione naturale, Rousseau mostra l’importanza di
almeno altri due concetti.
– Educazione negativa ⇒ Teorizza il non intervento da parte dell’educatore, che deve soltanto
accompagnare la crescita del fanciullo, mantenerlo isolato e al riparo dalle influenze della società
corrotta ed eventualmente correggerlo, ma attraverso l’esempio o l’intervento indiretto. L’importante
è lasciare fare alla natura il suo corso.
– Educazione indiretta⇒ L’uomo viene educato dalla natura, dalle cose e dagli uomini. Una corretta
educazione esige la valorizzazione della natura e delle cose e l’eliminazione dell’influsso degli
uomini. Anzi alle cose è demandato il ruolo di avviare una coercizione sugli istinti e la libertà
infantile, di creare dei limiti alla loro espressione e di avviarne una precisa regolamentazione. Il
fanciullo attraverso i contatti con le cose, cresce moralmente e intellettualmente e lo stesso educatore
dovrà intervenire nella crescita di Emilio solo attraverso le cose, sia che si tratti di una lezione di
economia o di morale, come di una di astronomia.
L’attivismo pedagogico:
1. Introduzione all’attivismo pedagogico. Le Scuole Nuove
Attivismo pedagogico e le scuole nuove
L’attivismo
Da un punto di vista strettamente pedagogico l’attivismo è la più significativa corrente del
rinnovamento delle tematiche dell’educazione nei primi decenni del 900’. Un libro famoso di H. Key:
“Il secolo del bambino” (1901), apre la stagione dell’attivismo europeo e americano, fondata su un
concetto essenziale: il puerocentrismo.
Antiautoritarismo significa messa in discussione della supremazia dell’adulto sul bambino: si tratta
di creare educatori che rinuncino a un tasso forte di “adultismo”. La maestra montessoriana non
insegna ex-cathedra, ma coordina l’attività didattica del gruppo-classe, aspettando la risposta del
bambino rispettandone i tempi di apprendimento, privilegiando il principio dell’autoeducazione.
Ultimo elemento che caratterizza l’opera degli attivisti è l’anti-intellettualismo, ossia la svalutazione
o il ridimensionamento dei programmi formativi esclusivamente culturali, soprattutto se per cultura
si intende un sapere libresco, astratto, lontano dalla realtà, per valorizzare invece un’organizzazione
più libera delle conoscenze da parte del docente e del discente.
L’attivismo rappresenta un movimento che, per la prima volta in ambito pedagogico, si apre alla
psicologia ed alla sociologia, nonché alle discipline biologiche e neurologiche. Ovide Decroly, ad
esempio, avvia la propria riflessione pedagogica con un’esperienza che non è strettamente scolastica
ma è fatta a contatto con i portatori di handicap. Questo è vero anche per la Montessori: i materiali
montessoriani, ancora oggi vanto di questa scuola, furono prodotti non per i bambini cosiddetti
“normali” ma per quelli che presentavano uno sviluppo lento e irregolare, in particolare gli
ortofrenici. Questi metodi, elaborati nell’ambito delle problematiche dell’handicap, verranno poi
ripresentati anche per bambini senza particolari problemi psico-fisici. Questa feconda
compenetrazione di studi medici, neurologici, biologici e pedagogici apporterà una grande ricchezza
agli studi pedagogici dei primi decenni del 900.
L’attivismo pedagogico presenta inoltre, una forte valorizzazione del fare nell’ambito
dell’apprendimento: al centro del lavoro scolastico ci devono essere le attività manuali, il gioco e il
lavoro. Ogni apprendimento deve essere legato ad un interesse da parte del bambino, e quindi deve
essere mosso da una sollecitazione proveniente dai suoi bisogni emotivi, pratici e cognitivi.
Conoscitore profondo delle innumerevoli scuole nuove che fioriscono in Europa e in America all’
inizio del Novecento, divulgatore e propagatore delle loro iniziative «attive», nel 1899 fonda l’Ufficio
internazionale delle scuole nuove al fine «di stabilire rapporti di reciproco aiuto fra le varie “scuole
nuove”, di raccogliere i documenti della loro vita, di mettere in valore le esperienze fatte da questi
laboratori della pedagogia dell’avvenire».
Possiamo sintetizzare alcuni principi fondamentali dell’attivismo pedagogico in:
La vita di gruppo è una straordinaria fonte di esperienze, confronto e crescita comune, sia sotto il
profilo emotivo che sotto quello intellettuale, ma presenta anche caratteri di conflittualità. Tuttavia il
gruppo è in grado di gestire tale conflittualità.
La classe di Cousinet è organizzata con una notevole quantità di materiale e strumenti didattici, in
modo che ogni gruppo possa procedere autonomamente. Poiché il lavoro è basato innanzitutto sulla
ricerca, documenti appositi divisi per materie, sono gli strumenti principali a disposizione dei gruppi.
Il nuovo metodo comporta una “ristrutturazione” della figura dell’insegnante, che non deve più
presentarsi come onnisciente e portatore di autorità, ma come adulto ragionevole e responsabile, che
lavora accanto ai propri allievi sostenendoli nella loro attività.
Egli quindi non dovrà guidare gli allievi nella ricerca, ma solamente aiutare, dovrà riconoscersi il
ruolo di collaboratore dei gruppi.
Fra le opere di Cousinet si ricordano: La vie sociale des enfants (1950) e La vie sociale et le travail
par groupes (1956).
Mutilato di guerra, non potendo usare la voce nell’insegnamento e quindi gridare per farsi capire ed
insegnare pensò ad altre tecniche pedagogiche. Egli fu il fautore di una scuola e di una pedagogia
moderne, che sostituivano all’autorità del maestro, alla netta separazione tra scuola e vita, la libera
espressione dell’alunno e il mantenimento del legame tra realtà scolastica e realtà pre-scolastica.
Alla base di questo movimento innovatore vi furono alcune ragioni. Innanzitutto le condizioni di
salute di Freinet: egli, invalido di guerra per ferite ai polmoni, non poteva praticare quella che definiva
una “pedagogia della saliva“, ovvero la tradizionale conduzione della classe in cui il maestro “domina
con la voce la passività degli scolari”.
Egli sviluppa due concetti fondamentali:
1. quello di una “pedagogia popolare” l’educatore deve coinvolgere tutti i suoi alunni non solo
quelli bravi e che lo seguono, e a dare a tutti gli strumenti per la loro “liberazione”.
2. una “pedagogia del buon senso“, in cui la natura e la realtà rurale danno insegnamenti alla
scuola e ai suoi educatori.
Il docente deve cercare con difficoltà di mantenere viva la loro attenzione e per farlo deve
assecondare il naturale sviluppo del bambino e per suscitare il suo interesse, l’alunno doveva poter
fare e sperimentare, non semplicemente ascoltare e riprodurre modelli già costituiti.
La sua fede marxista, come poi sarà quella di Anton Semenovič Makarenko che fu invece uno dei
fondatori della pedagogia sovietica, lo portava a credere nella scuola come nell’unica possibilità di
riscatto sociale per tutti gli uomini attraverso l’esercizio della parola, la sollecitazione delle strutture
cognitive, l’attività manuale, forma anch’essa di cultura e di sviluppo di conoscenza (la stessa idea
che sarà poi di Don Milani).
Se Makarenko sviluppo ed elaborò la teoria dei collettivi autogestiti e introdusse il concetto di lavoro
produttivo nel sistema educativo, Célestin Freinet credeva che la scuola come nell’unica possibilità
di riscatto sociale per tutti gli uomini attraverso l’esercizio della parola, la sollecitazione delle
strutture cognitive, l’attività manuale, forma anch’essa di cultura e di sviluppo di conoscenza. Egli
poneva al centro del processo educativo il bambino, con i suoi interessi, le sue aspirazioni, i suoi
bisogni; il che non significava spontaneismo, ma concezione dell’educando come soggetto attivo e
interessato.
Per Freinet, inoltre, doveva esserci continuità tra scuola e vita.
Quello che Freinet propone con la sua pedagogia moderna non è un metodo ma delle
tecniche (Freinet, 1969): il metodo appartiene al suo ideatore e non è modificabile, le tecniche sono
dei suggerimenti che gli insegnanti possono variare in base alle loro esigenze. Le tecniche della
proposta Freinet costituiscono «un complesso armonico […] in cui ognuna è lo sviluppo naturale e
necessario della precedente» (ivi, 1969, p. XVI). Esse mettono in luce il ruolo centrale che il
materiale e la sua attenta preparazione hanno per Freinet.
Vedi⇒ le principali tecniche di Freinet
Freinet: le principali tecniche
1. La “lezione passeggiata“: prima tecnica per collegare la scuola alla vita, prevedeva l’uscita da
scuola per andare a osservare la campagna e il villaggio. Al rientro in classe, dopo aver discusso di
quanto osservato, veniva scritto il resoconto della passeggiata.
2. Il “testo libero“: gli alunni lo scrivevano per raccontare propri vissuti, esperienze, emozioni. La
sua forza motivante risiedeva nel fatto che esso veniva scritto per essere letto alla classe. Tra tutti i
testi se ne sceglieva uno che sarebbe stato stampato e utilizzato per la corrispondenza interscolastica.
Il testo libero motivava inoltre all’esercizio della lettura – non più estranea all’interesse di alunni e
maestro – e dava l’avvio ad ulteriori attività.
3. La “stampa“: permetteva di produrre quello che oggi chiameremmo un artefatto, in cui non solo
si concludeva e conservava il lavoro dell’alunno, ma che consentiva l’apertura verso l’esterno, con la
corrispondenza interscolastica.
4. La “corrispondenza interscolastica“: era un’ulteriore fonte di motivazione alla scrittura. Le classi
delle scuole che vi partecipavano si scambiavano settimanalmente un testo libero scelto e stampato.
L’unione dei testi stampati di un anno costituiva il giornale di classe e il “libro di vita” (Freinet, 1969;
1974).
Freinet ⇒ educatore e pedagogista
Nel 1929 pubblicò Il diritto del bambino al rispetto ed il suo celebre manifesto dei diritti dei
bambini: Prawo dziecka do szacunku (Il diritto del bambino al rispetto), un testo ancora insuperato.
Inizia a insegnare Pedagogia all’Università libera di Varsavia e pubblica un “libro scientifico” dai
contenuti molto avanzati: Prawidła życia (Le regole della vita).
Nel 1931 mette in scena al Teatro Ateneum uno spettacolo satirico dirompente: Senat Szalenców (Il
Senato dei folli), con il grande attore Stefan Jaracz nel ruolo principale, che le autorità comuniste del
dopoguerra autorizzeranno a rappresentare solamente nel 1978.
Viene ricordato anche perché è un caso esemplare di dedizione al mestiere di insegnante, egli si rifiutò
di abbandonare i suoi bambini, e accompagnò i bambini ebrei della sua scuola che i nazisti avevano
catturato. Sembra sia morto di dolore durante il trasporto.
Fu deportato nel campo di sterminio di Treblinka insieme a tutti i bambini ospiti dell’orfanotrofio
ebraico del ghetto di Varsavia.
I bambini uscirono dalla loro Casa vestiti con gli abiti migliori, ordinati, mano nella mano.
Il corteo era chiuso dallo stesso Korczak che badava a mantenere i bambini sulla carreggiata.
Il concetto che ad ogni modo rimane centrale nel pensiero di Pestalozzi è il rapporto strettissimo
tra natura ed educazione, come già in Rousseau, è importantissimo che l’educando possa vivere
esperienze nel proprio contesto. La caratteristica prima di queste esperienze sarà che esse siano
fondate sull’intuizione.
Pestalozzi anticipa alcuni temi del cosiddetto attivismo pedagogico ed per altri termini anche la
concezione montessoriana dell’educazione come attività di libertà, fino al novecento quando Rogers
parlerà di “Libertà di apprendimento”.
Cuore, testa e mano possono essere ricondotti, in un linguaggio più moderno, alle tre aree
fondamentali dello sviluppo del bambino, ossia l’area affettiva (cuore), cognitiva (testa) e
psicomotoria (mano).
Se Rousseau riteneva che l’uomo fosse necessariamente buono (infatti parla di “natura inferiore”,
dominata da istinti e passioni animalesche); non era così per Pestalozzi.
Per Pestalozzi si doveva aiutare a tirare fuori il buono dal fanciullo, l’educazione perfezionare la
natura dell’uomo e che l’educatore non avesse che il compito di assisterlo durante la sua naturale
evoluzione secondo un’unità di cuore, mente e mano. Punto chiave del pensiero pedagogico di
Pestalozzi nella formazione spirituale dell’uomo come unità di cuore, mente e mano:
l’educazione morale, quella intellettuale e quella professionale, tra loro strettamente congiunte.
Sosteneva che l’uomo attraversasse tre stadi evolutivi:
Grazie all’esperienza che va concretamente a realizzare nei suoi istituti, Pestalozzi raggiunge una
fama mondiale e influenza moltissima della cultura del suo tempo. Sono gli anni in cui si viaggia
spesso, e proprio da questi viaggi, e dai molti incontri che si sviluppano nuove idee e nuove frontiere
quali i viaggi pedagogici, fatti da pedagogisti alla ricerca delle grandi esperienze educative (o le
migliori) dove potranno toccare con mano l’offerta e le idee di un determinato Pedagogista o corrente
di pensiero.
In Come Gertrude istruisce i suoi figli, del 1801, secondo la quale è necessario sempre partire
dall’intuizione, dal contatto diretto con le diverse esperienze che ogni allievo deve concretamente
compiere nel proprio ambiente. Senza fondamento intuitivo ogni verità è per i ragazzi solo un gioco
noioso ed inadatto alle loro capacità. Partendo dall’intuzione Pestalozzi sviluppa una educazione
elementare che parte dagli elementi della realtà, sia nell’insegnamento linguistico sia in quello
matematico, analizzandoli secondo numero, forma e linguaggio.
Georg Michael Kerschensteiner ⇒ il valore pedagogico del lavoro
Lo Stato si deve far carico dell’educazione attiva e propositiva del fanciullo. Lo Stato doveva
educare al lavoro e non bisognava separare l’educazione intellettuale dall’educazione pratica-
manuale.
Si ricorda che il movimento dell’attivismo pedagogico vede impegnati tra gli altri:
1. John Dewey
2. Georg Michael Kerschensteiner (educare con il lavoro – educare al lavoro)
3. Heinrich Rickert (filosofia dei valori)
4. Paul Natorp (pedagogista sociale)
5. Johann Heinrich Pestalozzi
L’educazione per Kerschensteiner è un processo di cultura attiva. Il rapporto educazione-lavoro non
può essere tralasciato, il modello è quello del Laboratorio, caro ai pedagogisti dell’attivismo
pedagogico. Egli era a favore del lavoro manuale per le scuole primarie e del lavoro inteso come
ricreazione personale nelle scuole superiori. Sottolineava l’importanza di un fondamento concreto
dell’educazione e considerava il lavoro manuale un mezzo per l’acquisizione del senso sociale, e del
rapporto sano tra individuo e società.
Kerschensteiner richiamò l’educazione a un fondamento concreto – contro quello che diceva
HERBERT Johann Friedrich Herbart – è famoso come creatore della “scuola del lavoro”
(Arbeitsschule), nella quale il lavoro manuale è considerato non come fine (nel qual caso avremmo
una scuola di apprendistato) ma come mezzo in quanto sforzo, autoesame e acquisizione del senso
sociale
L’educazione personale diventa anche educazione al lavoro ed educazione sociale (finalità soggettiva
all’educazione), l’attività pratica assume utilità sociale, il lavoro insegna la coscienza del dovere
sociale. Celebre la massima in cui Kerschensteiner dice che si arriva alla cultura tramite il valore del
lavoro: “Formazione dell’essere individuale, acquisita mediante gli influssi della cultura, unitaria,
articolata, evolutiva che rende l’individuo stesso capace di servire alla cultura con un lavoro fornito
di valore obiettivo, e capace di partecipare spiritualmente ai valori obiettivi della cultura”.
I VALORI non si imparano lavorando contro ciò che diceva invece Georg Michael
Kerschensteiner.
Ancora l’importanza dell’etica pone in primo piano il tema dell’educazione morale e del governo da
parte dell’educatore sul giovane studente. La ripartizioni in fasi pensata da Herbart è chiaramente di
origine kantiana, in quanto egli postula un piano di governo dove l’autorità dell’educatore domina
sull’alunno, un piano di istruzione quando si formano le idee e si delinea anche giudizio morale
dell’allievo stesso, per poi arrivare all’autogoverno che coincide con il fine dell’educazione in
quanto rappresenta la sintesi tra volontà e giudizio.
Herbart sostiene che la formazione del carattere del fanciullo dipenda dall’educatore, la moralità
dell’educatore si tramette all’educando, e questo l’educatore deve farlo usando i mezzi più appropriati
e tenendo presente delle circostanze esterne. Egli ha questo compito perché l’istruzione e
l’educazione generale è soprattutto formazione morale.
Se noi vogliamo, come educatori, plasmare il carattere dell’allievo dobbiamo puntare sul suo
desiderio e volontà di miglioramento, dobbiamo educarlo verso grandi ambizioni e grandi idee. Come
si fa a puntare su questo?
Bisogna anche prestare attenzione agli interessi dell’educando, che sono vari. Essendoci diverse aree
di interessi ci saranno anche diverse aree di apprendimento → multilateralità degli interessi: per
ognuno bisogna andare ad individuare la corretta area di apprendimento.
Il curricolo deve incrociare gli interessi dell’allievo. Ci sono 2 gruppi fondamentali di interessi (il
curricolo deve essere basato su):
Herbart immagina che il bambino quando viene al mondo è un essere in preda agli impulsi e senza volontà,
quindi serve un governo qualcuno che governi questi impulsi e aiuti il bambino a sviluppare una sua volontà.
Questo si può fare in 2 modi:
1. sorveglianza e minaccia → semplice ma poco efficace
2. autorità e amore, tipico del contesto famigliare
I. conoscenza: il bambino è interessato a conoscere. Si basa su attività teoretiche (di riflessione sulla
natura: interessi empirici o sulle idee: interessi speculativi) e su valutazione morale ed estetica (il
bimbo può avere degli interessi anche di questo tipo: perché quel quadro è bello?).
II. compartecipazione: rapporto con gli altri uomini e con Dio, andrò quindi a vedere gli interessi
religiosi. Gli uomini li posso considerare come singoli o come collettività → interessi sociali o
“simpatetici” (perché si sviluppa una simpatia per una persona piuttosto che un’altra).
L’allievo deve essere formato all’umanità ed alla moralità, la pedagogia coincide con l’
istruzione sulla base del presupposto che i veri valori etici sono quelli rintracciabili nella storia
culturale dell’umanità. Questa importanza attribuita all’etica porta l’autore a rintracciare lo spazio
proprio di quella che lui definisce scienza dell’educazione (pedagogia), collocato tra l’etica (vista
come il fine dell’educazione) e la psicologia (che fornisce i mezzi necessari a raggiungere i fini
educativi che ci si propone).
Questa tripartizione, e in particolar modo la prima fase del governo, è giustificata sulla base del fatto
che se la moralità dipende dall’istruzione sarà ovvio che prima che l’istruzione stessa sia completata
dovrà intervenire una morale esterna (quella dell’educatore) come guida del giovane formando.
Herbart inoltre pone l’analisi dei dati dell’esperienza al servizio di una struttura metafisica
dell’esperienza, fondata sull’assunzione di enti reali che possiamo cogliere solo nella loro
‘traduzione’ nel linguaggio delle manifestazioni fenomeniche
Herbart valorizza dunque da una parte l‘autorità, vista come autorevolezza e basata sulla superiorità
intellettuale e soprattutto morale dell’educatore, e dall’altra l’amore, che si pone, un po’
paradossalmente, come l’opposto del governo, in quanto volto a instaurare un rapporto di comunione
e non di subordinazione tra i due protagonisti della scena educativa (insegnante e alunno).
la Pedagogia generale
la Didattica
Di rado gli interpreti di Gentile guardano come a un punto di riferimento al suo lavoro di pedagogista,
ma è uscito in una domanda di TFA e per informazione abbiamo deciso di fare questo accenno.
L’indagine pedagogica consentiva infatti a Gentile di chiarire a se stesso le ragioni di un tema
filosofico che, guardando in modo inedito all’uomo e allo spirito chiamato a ritrarne concretamente
il volto. Gentile era un filosofo dell’idealismo.
Gentile riflette «a poco per volta l’intensa meditazione del problema dell’educazione» (Frammenti di
filosofia, a cura di H.A. Cavallera, 1994, p. 38). Nel gergo idealista, formando il fanciullo e l’uomo
si formava lo «spirito universale ed astratto» – erano considerati Filosofi dello Spirito – di cui la
pedagogia esplorava la «formazione» – il «soggetto» pensante che Gentile consapevole di sé nel
«mondo», ove si sprigionava «quell’aria frizzante e vivificante che è la gioia e la serietà della vita nel
suo spontaneo rigoglio» (Sommario, 1° vol., Pedagogia generale, 19344, p. IX) coglieva la Verità.
Propose la cosidetta “scuola serena” dove si criticano i metodi prefabbricati, mentre l’allievo è aperto
ed interessato a tutte le esperienze, è senso concreto di ogni forma di istituzione educativa.
La pedagogia del Lombardo Radice, critico del fascismo dopo il delitto Matteotti, contiene una novità
importante: la critica didattica.
Tre concetti associabili:
1. didattica viva
2. scuola serena
3. didattica critica
opere: le Lezioni di didattica e L’ideale educativo, pone al centro della sua riflessione il rapporto
educativo a processo educativo nello scolaro – e questo «processo» riconducevano poi ad atti
educativi concretamente e tecnicamente determinati.
Non solo questa deve usare metodologie didattiche adeguate ai concreti problemi sociali e culturali
insorgenti da un particolare momento storico.
Bertin ha lavorato sul senso aperto e problematico dell’alternativa pedagogica e della razionalità,
interessata a comprendere istanze conflittuali e problematiche in una continua tensione progettuale,
tenendo conto non la semplificazione e la riduzione del problema educativo ma la sua sostanziale
problematicità.
Ha lavorato alla dimensione del problematicismo in pedagogia al suo senso profondo e conflittuale.
Il problematicismo pedagogico è la formulazione più organica e compiuta della teoria del
problematicismo pedagogico.
Venuto a contatto con la filosofia critico-razionalista di Banfi, ne recepisce gli elementi di base e su
di essi fonda la teoria del problematicismo che trova la sua espressione più organica e matura nel
volume Educazione alla ragione, mentre all’analisi critica del pensiero del milanese dedica il
volume L’idea pedagogica e il principio di ragione in Antonio Banfi che nel 1925 fu tra i firmatari
del Manifesto degli intellettuali antifascisti, redatto da Benedetto Croce.
Senza troppo addentrarci all’interno della riflessione di Bertin, ci sembra utile e opportuno richiamare
la distinzione che egli fa, di carattere puramente metodologico, tra la filosofia dell’educazione e la
pedagogia, e che ricava dall’interpretazione degli scritti pedagogici di Banfi.
In base a questa distinzione, alla filosofia dell’educazione spetta essenzialmente il compito teoretico
della comprensione, mentre alla pedagogia tocca quello pragmatico della scelta educativa. Il modello
si basa sull’unità metodologica tra il momento teoretico e quello pragmatico, teoria e pratica.
Scrive Bertin: “La filosofia dell’educazione, orientata ad un’analisi dell’esperienza educativa in grado
di coglierne le differenti forme strutturali indipendentemente da presupposti e valutazioni particolari,
risponde all’esigenza puramente teoretica della comprensione dell’esperienza suddetta sul piano delle
linee che ne regolano il dinamismo trascendentale”.
Da qui i principi fondamentali del metodo montessoriano sull’educazione del bambino, tratti dal
libro “Educare alla libertà” di Maria Montessori.
10 principi basilari del Metodo montessoriano sull’educazione del bambino
Il segreto del successo del metodo Montessori è: fornire agli studenti il giusto materiale che possono
usare loro stessi, un tipo di materiale che stimoli il loro apprendimento autonomo con lo scopo di
educare l’intera personalità dello studente e ampliare il loro modo di pensare, in un ambiente sereno
e privo di fattori di stress. Il lavoro nelle Case dei Bambini si basa sul movimento all’interno di un
ambiente costruito a misura di bambino, con oggetti fabbricati per la sua forza ed il suo sviluppo,
adatti per l’utilizzo autonomo. Il bambino è libero di scegliere quale attività svolgere seguendo il suo
istinto, l’interesse e la concentrazione sono costantemente sostenuti.
L’adulto che rispetta la libertà del bambino si presta a diventare rispettoso della libertà in generale,
quindi il bambino diviene educatore dell’adulto.
Quando sarà in grado di orientare la sua volontà verso uno scopo, allora sarà obbediente e
disciplinato). I bambini dovevano fare ginnastica, in particolare all’aperto; si trattava più che altro di
un momento della giornata dedicata allo svago visto come gioco che li rendeva agili e robusti. Maria
Montessori conclude (Montessori, 1950: 681-682):
Diretti da un’intelligente maestra – per la Montessori – tanto nello sviluppo fisico come in quello
intellettuale e morale, i bambini possono con i nostri metodi, raggiungere non solo uno splendido e
rigoglioso organismo fisico, ma anche la magnificenza dell’anima umana.
E’ un percorso formativo, quindi, che iniziando proprio dalle origini dell’Universo mostra al
bambino le varie nozioni di cultura. Educare sulla nascita degli esseri viventi e dell’uomo, sull’inizio
della scrittura e dei numeri sono tutte tappe ben organizzate nel tempo e vengono proposte al
bambino in modo tale da trasmetterglieli un vero interesse nel scoprirle e assimilarle
I nostri bambini sono notevolmente diversi da tutti gli altri fin qui conosciuti fra il gregge domo delle
scuole: essi hanno l’aspetto sereno di chi è felice e la disinvoltura di chi si sente il padrone delle
proprie azioni. Quand’essi corrono incontro ai visitatori, parlano loro con franchezza, stendono con
gravità la manina minuscola per una cordiale stretta di mano, quando ringraziano della visita ricevuta
più col brillare degli occhi che con la voce squillante: danno l’illusione di piccoli uomini straordinari.
Quando mostrano le loro abilità sono commoventi in modo, che scuotono veramente le anime”.
In questo quadro, si staglia la grande intuizione montessoriana che fa da sfondo necessario alla
ideazione del “materiale di sviluppo” per l’educazione dei sensi, ossia che ogni apprendimento
è apprendimento incarnato in azioni situate in un determinato ambiente.
È, questa, una intuizione che senz’altro prendeva le mosse dall’idea deweyana del “learning by doing”
ma che – a mio avviso – giunge a produrre i suoi frutti maturi solo alla luce della profonda sensibilità
ed esperienza biomedica e antropologica che da sempre permeavano l’attenzione pedagogica di Maria
Montessori.
Non è forse un caso che tali convinzioni siano tornate in primo piano, imponendosi alfine
all’attenzione della pedagogia e della didattica del Ventunesimo secolo, nelle nuove formulazioni
argomentate – a partire dagli ultimi decenni del Novecento – nell’ambito degli studi biologici,
neurobiologici, neuropsicologici e robotici (2).
Al cuore della proposta di Montessori non vi è tanto il fatto di riconoscere come l’affinamento dei
sensi costituisca parte irrinunciabile del patrimonio conoscitivo di ogni essere umano. Vi è, piuttosto,
e più profondamente, il riconoscere la funzione evolutiva svolta dal corpo in azione sull’asse dei
processi auto-costruttivi dell’intelligenza.
In altri termini, potremmo dire che gli apprendimenti sensoriali fungano per il bambino, sin dalla
nascita, da organizzatori cognitivi: tasselli preziosi e irrinunciabili per attivare, orientare e affinare
progressivamente l’intero apparato delle funzioni cognitive specie-specifiche.
Tutti i bambini, afferma Montessori, utilizzano comunemente e spontaneamente i sensi
come organizzatori cognitivi ma è compito della scuola, attraverso opportuni strumenti
scientificamente testati, facilitare, promuovere e ottimizzare tali processi auto-costruttivi: “(…) a
questo punto, comincia il processo di autoeducazione. Lo scopo non è esteriore; sarebbe a dire, non
è che il bambino impari a mettere a posto i cilindri e che egli impari ad eseguire un esercizio. Lo
scopo (…) è che il bambino si eserciti ad osservare; che gli sia permesso di fare confronti fra gli
oggetti, formare giudizi, ragionare, decidere; ed è nell’indefinita ripetizione di questo esercizio di
attenzione e di intelligenza, che si compie il vero sviluppo”. (Montessori 1921, 1970, p. 58)
Si tratta di osservazioni che – è cosa nota – hanno fatto la storia della pedagogia scientifica oltreché
permeare profondamente e indelebilmente la didattica contemporanea.
Difatti, tali principi – come già detto, messi a punto da Maria Montessori partendo dagli studi
pionieristici di Itard e Séguin sui minorati psichici e poi affinati nel corso dei lunghi anni passati dalla
studiosa a perfezionare un metodo rivolto ai bambini normali – si stanno rivelando negli ultimi
decenni particolarmente ricchi di importanti ricadute nel campo del trattamento dei soggetti adulti
con demenza.
Gli studi in questo campo pongono il focus sulla possibilità di utilizzare i principi della didattica
montessoriana con gli adulti e con gli anziani, nella prospettiva di una formazione volta alla
promozione della salute per tutti e per tutta la vita.
Svariate ricerche, all’incirca a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, documentano come il
ricorso ai principi della didattica montessoriana sia in grado, accanto ad altre tecniche, di compensare
i danni cognitivi determinati da patologie neurodegenerative come la malattia di Alzheimer e altre
demenze nei bambini e nei disabili.
⇒ Alla luce della originaria, sinergica interazione, proposta da Maria Montessori, tra didattica
speciale e didattica tout-court e alla luce, anche, degli studi contemporanei sulla evolutività
intellettiva aperta degli anziani, molti sono gli studiosi che hanno studiato l’intima connessione tra
esercizio senso-percettivo e cinestesico (con l’insieme di cognizioni implicite e non dichiarative ad
esso connesso) ed elaborazione intellettuale appare non solo terreno quanto mai fecondo per il
trattamento non farmacologico delle demenze, ma anche irrinunciabile campo di ricerca e di
intervento per la formazione rivolta all’età adulta.
Lillard (2005) individua tali principi nella: inclusione del movimento e dell’apprendimento
sensoriale e motorio negli esercizi e nelle attività di rutine; garanzia di libertà e scelta da parte del
paziente all’interno di ambienti opportunamente strutturati per fornire un sistema ordinato di
sollecitazioni oltre che di sostegni sempre rispettosi del soggetto in azione; offerta di contesti e
opportunità d’azione rilevanti e significativi per la persona, ricchi a livello di relazioni empatiche,
collaborative tra paziente e trainer nonché tra gli stessi pazienti.
Cameron J. Camp è tra i primi studiosi che si sono avventurati nel campo della sperimentazione di
interventi non farmacologici, da affiancare a quelli farmacologici, per il trattamento delle persone con
deficit cognitivi. Egli, in un suo recente articolo (Camp, 2010), ripercorre la sua più che trentennale
attività, sintetizzando le tappe che hanno condotto alla messa a punto della versione finale del
Programma Montessori per la Demenza (MPD) (3).
I dati che offre alla comunità scientifica appaiono chiari: le tecniche Montessori sembrano molto
adeguate per le persone con demenza. Ogni lezione viene prima presentata al suo livello più semplice
e ogni successiva lezione, aumentando in complessità, implica un mutamento nei concetti/capacità
precedentemente appresi. I materiali vengono tratti essenzialmente dall’ambiente quotidiano e sono
progettati per sollecitare e sostenere il soggetto che li utilizza a incrementare le proprie capacità di
vita indipendente. Le persone affette da demenza, infatti, hanno bisogno ambienti e attività strutturati
e ordinati in modo da essere aiutate a focalizzare la propria attenzione, via via, sugli aspetti particolari
rispetto ai quali sviluppare conoscenze e abilità. In tale prospettiva, le attività programmate sono
scomposte in passaggi più semplici che possono essere appresi e poi messi in sequenza (secondo la
progressione semplice-complesso, concreto-astratto), comportano un feedback immediato e un’alta
probabilità di successo, prevedono procedure di ripetizione guidata. Tale programmazione, inoltre si
avvale del ricorso alla memoria procedurale/non-dichiarativa/implicita piuttosto che alla memoria
dichiarativa/esplicita.
Tutto questo – in linea con il presupposto montessoriano di una educazione all’autonomia e alla
libertà dell’educando – è inserito in un quadro complessivo in cui ciascun soggetto è considerato nella
sua unicità di persona, da rispettare e valorizzare per quello che sono le sue propensioni e i suoi
interessi.
Lo strumento creato da Camp e dal suo staff per la valutazione degli effetti prodotti dal MPD è
costituito dalle MPES (Menorah Parco Engagement Scale) destinate a cogliere le caratteristiche
dell’impegno del soggetto durante le attività. Sono state individuate quattro categorie di impegno:
impegno Costruttivo (CE), che implica l’interazione diretta – verbale o fisica – tra la persona con
demenza e l’attività target (per es. il parlare sull’attività al direttore dell’attività); impegno Passivo
(PE) comporta il guardare l’attività senza prendere direttamente parte in essa. Sia l’impegno
costruttivo che l’impegno passivo sono considerati forme positive di impegno in quanto le persone
con demenza a volte hanno bisogno di guardare semplicemente un’attività prima di ottenere la fiducia
necessaria per iniziare a partecipare attivamente in un secondo momento. Il self-impegno (SE) è stato
definito come l’impegno con se stessi, piuttosto che l’attività target, come ad esempio il raccogliere
i propri vestiti, il parlare a te stesso, ecc. Il non impegno (NE) è stato definito come il sonno o sguardo
fisso nel vuoto per 10 secondi o più.
In uno studio iniziale, sono state effettuate osservazioni di 10 minuti ciascuna su nove persone con
demenza durante la programmazione basata sul metodo di Montessori e su dieci persone con demenza
durante la regolare programmazione di attività presso un centro sanitario diurno per adulti. Le persone
osservate durante la programmazione hanno mostrato una tipologia di impegno molto più costruttiva
e di impegno meno passivo di quanto non abbiano fatto le persone che seguono una comune
programmazione di recupero.
In un secondo studio, oltre a utilizzare i MPES, è stato adottato il Affect Rating Scale (ARS),
sviluppato da Lawton, Van Haitsma, e Klapper (1996), una misura standardizzata e validata del
piacere, rabbia, ansia/paura e tristezza. Ogni sessione di registrazione dei dati era focalizzata su una
sola persona. Questi pazienti con demenza avanzata hanno mostrato impegno molto più costruttivo e
impegno meno passivo, così come più piacere, durante le attività basate sul metodo, rispetto al gruppo
di controllo.
Questi risultati sono stati ulteriormente confermati (Cohen-Mansfield, Dakheel-Ali e Marx, 2009),
portando a ribadire che l’impegno è l’elemento cruciale nel qualificare la vita dei pazienti e,
conseguentemente, per valutare il successo degli interventi loro diretti.
Diversi sono gli studi successivi a questi primi di Camp, volti a sviluppare programmi di intervento
capaci di attualizzare le potenzialità dei principi della didattica montessoriana con pazienti affetti da
svariati tipi di demenza. Il più delle volte, si tratta di studi il cui limite riconosciuto è rappresentato
dal basso campione di pazienti preso in esame ma, nel complesso, essi costituiscono un punto di
riferimento assai interessante per la ricerca futura.
Lee, er (con basso e medio livello di demenza: 1 uomo e 5 donne, con età compresa tra 75 e 93 anni).
I leader sono stati utilizzati come guida nei gruppi presi in esame. Lo studio ha dimostrato che
pazienti con livello basso e medio di demenza possono con successo guidare le attività di piccoli
gruppi di pazienti.
Jarrott, Gozali, & Gigliotti (2008) hanno condotto una studio per vedere gli effetti dei metodi
montessoriani sui pazienti affetti da ADRD, di età compresa tra i 74 e 97 anni. Statisticamente si è
notato che il tempo riservato all’impegno e all’attenzione da parte dei pazienti, rispetto ai tempi di
impegno ed attenzione presenti durante altri tipi di attività, è significativamente più alto. Si è notato,
inoltre, che il tempo di non-attività da parte dei pazienti con demenza è diminuito.
Giroux, Robichaud, & Paradis (2010) hanno condotto uno studio su alcuni pazienti con moderata e
avanzata demenza coinvolti in programmazioni montessoriane. Essi hanno osservato che, quando le
attività proposte corrispondevano alle propensioni e ai bisogni delle persone trattate, si sono
verificate: una maggiore attività, il miglioramento della cura di se stessi, maggiori segni di
gradimento e di piacere.
Lin, Huang, Su, Watson, Tsai, & Wu (2010) hanno condotto uno studio su 82 pazienti affetti da
demenza per vedere se l’utilizzo dei metodi montessoriani contribuisse a rallentare le loro difficoltà
nell’alimentazione. I risultati dello studio hanno mostrato un significativo rallentamento delle
difficoltà nell’alimentazione e una conseguente diminuzione del bisogno di assistenza durante i pasti.
Mahendra, Hopper, Bayles, Azuma, Cleary, & Kim (2006) analizzano cinque articoli centrati
sull’utilizzazione dell’approccio montessoriano nel trattamento della demenza senile di Alzheimer.
I risultati clinici mostrano che le attività montessoriane apportano maggiori benefici sulle
performance cognitive dei pazienti, rispetto ai comuni programmi di riabilitazione. Dei cinque articoli
presi in esame, solo uno esegue test standardizzati e solo tre stabiliscono diagnosi affidabili di
demenza senile riconducibile ad Alzheimer. La conclusione cui pervengono gli autori è che il metodo
montessoriano risulta più efficace nei casi di demenza senile moderata e con soggetti con abilità visive
e uditive affidabili.
Camp e Lee (2011) hanno condotto una review di numerosi studi sull’utilizzazione di attività
montessoriane in programmazioni intergenerazionali che prevedono che anziani con demenza
svolgano il ruolo di insegnanti o mentori di bambini o il ruolo di collaboratori di persone con demenza
più severa. L’idea originale dell’approccio proposto deriva dall’osservazione condotta nelle scuole
montessoriane su bambini più grandi che danno lezione a bambini più piccoli. L’obiettivo è quello di
implementare ruoli sociali significativi per persone con demenza, di consentire agli adulti di utilizzare
con soddisfazione la loro esperienza e le loro capacità residue e di sollecitare adulti e bambini a fare
esperienza positiva dei processi di la trasmissione di conoscenza e capacità da una generazione
all’altra. Gli studi esaminati mostrato che persone con demenza possono svolgere con successo il
ruolo di insegnanti e mentori, interagendo efficacemente con bambini in età prescolare.
I principali aspetti della didattica montessoriana che si sono rivelati sinora efficaci nel condurre
pazienti con qualche tipo di demenza a ottimizzare le funzioni residue e a capitalizzare diverse altre
abilità.
I casi esaminati presentano programmi in cui un posto rilevante è assegnato, da una parte, all’attività
motoria e all’esercizio sensoriale; dall’altra parte, ad ambienti formativi significativi, in cui le persone
con demenza possono ricoprire ruoli sociali riconosciuti e valorizzati dalla collettività in cui operano,
mettendo a frutto le loro restanti abilità e competenze.
Tali esperienze ripropongono, oggi, con forza l’opportunità di lavorare attorno alle potenzialità
didattiche insite nei principi dell’educazione montessoriana.
Montessori: Il metodo Montessori ⇒ Parallelismi e affinità tra Dewey e Montessori
Da qui i principi fondamentali del metodo montessoriano sull’educazione del bambino, tratti dal
libro “Educare alla libertà” di Maria Montessori.
10 principi basilari del Metodo montessoriano sull’educazione del bambino
Promossero un metodo intuitivo e nuovi materiali didattici introdotti dalle sorelle Agazzi
I materiali didattici della scuola dell’infanzia proposti dalle sorelle
Agazzi
Materiale didattico:
un giardino: con animali e piante.
museo delle cianfrusaglie: una sala adibita a museo che raccoglie materiali ritrovati dai bambini come
spaghi, rocchetti e sassolini. Queste venivano definite dalle due sorelle “cianfrusaglie senza brevetto”,
perché erano materiali che i bambini stessi ritrovavano e che servivano affinché anche il materiale
didattico stesso non fosse preordinato e prestabilito, come invece avveniva nel metodo didattico
pensato da Maria Montessori.
contrassegni: immagini di oggetti di uso comune che contrassegnano le proprietà dei beni individuali
dei bambini; hanno lo scopo di abituare il bambino a parole sempre più lunghe e complesse.
Il metodo intuitivo detto poi anche metodo Agazzi diviene il percorso principale dell’apprendimento:
l’educatore osserva il comportamento dei bambini e non impone regole a prescindere dall’ambiente
di apprendimento, dalla specificità della situazione e dell’allievo. L’educatrice agisce indirettamente
e pur rispettando la spontaneità del bambino, organizza e predispone ambienti e situazioni. Il metodo
intuitivo identifica l’insegnamento come un metodo per favorire le esperienze, in cui i bambini
apprendono direttamente e spontaneamente con il loro fare e osservare.
Il loro lavoro pedagogico, la loro sperimentazione ed esperienza didattica, ispirò la riforma
del 1968 con la legge n°444, che istituirà le scuole di Stato per l’infanzia.
Malaguzzi: Il metodo Malaguzzi: i bambini al centro del processo educativo
Per questo nelle scuole che seguono il metodo pedagogico Malaguzzi, gli studenti vengono posti al
centro dell’organizzazione e coinvolti nella scelta di cosa fare giorno dopo giorno. Malaguzzi
ritiene che ogni studente, come creatore e portatore di conoscenze, è capace di costruirsi con le sue
potenzialità l’apprendimento futuro. Non possono, allora, essere imposte, nei nidi e nelle scuole
dell’infanzia, metodologie o strategie per far acquisire conoscenze.
I bambini imparano la realtà che li circonda, agendo e facendo, in maniera spontanea e naturale,
operazioni mentali di verifica, conferma o confutazione.
L’approccio di Malaguzzi come di tutto l’attivismo pedagogico, è l’idea, che è il soggetto che si
costruisce da solo la propria conoscenza, la conoscenza non si trasmette, ma si costruisce. Non è
qualcosa che passa da un adulto ad un bambino, ma che si ricrea negli ambienti di apprendimento.
Questo metodo è molto usato nelle scuole primarie: dove i bambini, che vengono riuniti in piccoli
gruppi, sono seguiti dalle maestre ed educatrici, ma allo stesso tempo sono lasciati liberi di ragionare
ed inventare nuovi giochi. Gli insegnanti ascoltano le loro proposte e collaborano tutti insieme per
aiutarli a realizzarli.
Per MALAGUZZI l’acquisizione della conoscenza è una costruzione personale di ogni bambino
attraverso l’impiego delle risorse di cui è dotato. Per MALAGUZZI ad esempio come scrive egli
stesso “i bambini costruiscono la propria intelligenza. Gli adulti devono fornire loro le attività e il
contesto e soprattutto devono essere in grado di ascoltare”.
Il costruttivismo ci dice che gli alunni operano un ruolo attivo nella costruzione e nell’acquisizione
della conoscenza e della comprensione della realtà. Come abbiamo visto nel modulo sulle teorie
dell’apprendimento, la teoria costruttivista ha messo in evidenza il valore dell’interazione sociale,
nel costruire le conoscenze, e il carattere situato dell’apprendimento, in rapporto all’ambiente entro
cui avviene, è stato soprattutto il costruttivismo.
I 4 principi di Malaguzzi:
“Il piacere dell’apprendere, del conoscere e del capire è, per come sostiene MALAGUZZI, una delle
prime fondamentali sensazioni che ogni bambino si aspetta dall’esperienza che affronta da solo o con
i coetanei e con gli adulti. Una sensazione decisiva che va rafforzata perché il piacere sopravviva
anche quando la realtà dirà che l’apprendere, il conoscere, il capire possono costare difficoltà e fatica.
È in questa sua capacità di sopravvivere che il piacere può sconfinare nella gioia”.
Le scuole basate sul metodo Malaguzzi sono in genere luminose, aperte e comunicanti tra loro.
Sono dotate di tavoli luminosi al nido, su cui i bambini possono “lavorare”, mentre nelle classi della
materna, viene installato un laboratorio creativo, con un educatore specializzato in attività artistiche
e manuali. Vi è infine una partecipazione attiva delle famiglie in tutte le attività della scuola.
Propose il modello che venne poi teorizzato in numerose opere del piano Dalton, la prima delle quali
del 1922 “l’educazione secondo il piano Dalton” poi anche altre due opere “esplorando il mondo del
fanciullo” del 1951 e “la fatica di crescere” del 1967.
Grazie alle osservazioni empiriche fatte sui bambini e sui bambini in rapporto con la società, come vi
dicevo prima, l’autrice approda poi a delle linee guida, dei principi guida: il primo è quello di tenere
sempre a mente l’importanza di elaborare dei curricoli adatti ad ogni singolo individuo, quindi ad
ogni singolo bambino, anche per poi salvaguardarne l’autonomia; il secondo è quello della
responsabilizzazione dell’alunno, quindi aiutarlo a tenere sempre il focus attento sul proprio percorso
di apprendimento.
Questo programma riguarda tutte le discipline e tutti quelli che sono i compiti che deve svolgere
all’interno del mese un alunno e altro non è che una sorta di contratto che verrà stipulato tra insegnante
ed alunno; in pratica è proprio un contratto nel quale l’insegnante e l’alunno pattuiscono quelli che
sono gli obiettivi da raggiungere nel proprio piano di apprendimento. Propose una sorta di contratto
di insegnamento o di programmazione didattico, ogni alunno, insieme all’insegnante, era obbligato a
firmare questo documento, questo contratto che prevede una formula simile a “io sottoscritto alunno
della classe ecc. mi impegno a portare a termine l’assegnazione di questo compito entro la fine del
mese, data e firma”.
Ogni contratto terminerà dopo un mese e alla fine del mese si stipulerà un nuovo contratto con
l’assegnazione dei nuovi obiettivi da raggiungere.
Questo piano Dalton studiato dalla pedagogista, da una parte favorisce l’individualizzazione
attraverso la scelta di curricoli fatti ad hoc per ogni singolo alunno e dall’altra invece favorisce la
responsabilizzazione perché attraverso il contratto ogni ragazzo si sente in qualche modo coinvolto
nel piano didattico di apprendimento e, come un lavoratore dipendente sotto contratto, deve portare
a termine il proprio compito.
1. rappresentazione teatrale
2. igiene
3. morale
4. calcolo.
Correlati a:
osservazione: attività didattica basata su lezioni interne ed esterne alla scuola, in cui gli alunni
apprendono i concetti scientifici tramite i sensi e l’osservazione diretta.
associazione: lezioni in cui i bambini associano nello spazio e nel tempo ciò che hanno osservato
nella fase precedente. Attivando in questo modo conoscenze geografiche e storiche.
espressione: in questa fase il bambino è in grado di esprimere quanto acquisito attraverso attività
concrete come lavori manuali, disegno e giochi, e attività astratte come la lettura, la lingua, il canto e
il teatro.
Nella sua scuola l’aula come luogo d’insegnamento viene sostituito dall’ambiente esterno all’edificio,
un nuovo spazio in cui l’alunno può coltivare tutti gli aspetti della propria individualità e facilitare
l’adattamento naturale e sociale. Riprende il pensiero pedagogico di Spencer, di Darwin e di Dewey.
Egli stesso riteneva che la campagna era l’ambiente naturale del bambino, perché egli deve
ripercorrere lo stesso processo evolutivo della specie umana.
La scuola come diceva l’attivismo pedagogico stesso insegna a vivere mediante la vita stessa,
era indirizzato alla vita e non al nozionismo sterile. L’unità della proposta didattica è quindi
garantita da un programma di idee associate attraverso il riferimento al centro d’interesse.
In questo vedi anche la propsta dei teorici dell’attivismo pedagogico rispetto agli ambienti di
apprendimento.
I bambini devono adeguare i loro bisogni individuali alle loro esigenze naturali e sociali, per mezzo
di un insegnamento unitario delle materie.
Decroly elencava quelli che sono i bisogni fondamentali che il fanciullo deve riconoscere e
soddisfare:
nutrirsi
lottare contro le intemperie
difendersi dai nemici e dai pericoli
lavorare con gli altri, riposarsi e ricrearsi
Il programma scolastico doveva convergere al centro d’interesse e faceva perno attorno a quattro
principi principali:
unità: programma deve tendere all’unità, tutti gli argomenti trattati devono essere collegati tra loro.
individualizzazione dell’apprendimento: ogni allievo deve essere messo in grado di raggiungere il
massimo profitto dall’educazione.
adattamento all’ambiente: deve dare al bambino la possibilità di raggiungere le conoscenze che gli
consentano di inserirsi nell’ambiente sociale in cui sarà destinato a vivere.
integrità dello sviluppo: deve coltivare e rafforzare tutti gli aspetti dell’individualità infantile.
Egli ispirandosi anche alla scuola logica della Gestalt, afferma che il bambino coglie “globalmente”
nella percezione l’oggetto che gli si presenta in situazioni concrete, in cui, oltre all’attività percettiva,
entrano in gioco anche le emozioni, gli interessi, gli “stati d’animo”.
La percezione degli elementi semplici avviene solo successivamente attraverso un processo di analisi.
Tra gli interessi del soggetto che sono di maggior stimolo alla funzione globalizzatrice sono quelli
che si innestano sui quattro “bisogni” fondamentali:
1. di nutrirsi
2. di ripararsi, coprirsi e proteggersi dalle intemperie
3. di difendersi dai pericoli
4. di lavorare in comune
Dal concetto di interesse dello studente di curiosità individuale discende per il Decroly un’importante
innovazione didattica ormai largamente diffusa in tutto il mondo, quella del “metodo globale”
applicato all’apprendimento del leggere e dello scrivere, che avviene non per singoli elementi (lettere,
vocali, sillabe), di nessun interesse, ma per frasi intere o per parole che abbiano un significato
compiuto, e che quindi si leghino all’ “interesse”, alla curiosità ed al desiderio di conoscere
dell’allievo.
L’attività educativa deve essere vitale e significativa per lo studente e lo è solo se nasce da un
bisogno, se è sostenuta da un suo interesse reale. Pertanto, il contesto educativo deve essere una scuola
del bisogno-interesse, della centralità dell’alunno, dell’attivismo radicale come era nell’attivismo
pedagogico di John Dewey negli Stati Uniti, nella Scuola sperimentale di Chicago.
Claparede si inserisce nella linea di tendenza, questa, che caratterizza gran parte del pensiero
pedagogico a cavallo tra Otto e Novecento. Se la pedagogia e i processi che essa teorizza e attiva
vogliono uscire dall’astrattezza e dalle formulazioni generiche, è necessario che vadano alla ricerca
di fondamenti scientifici nelle scienze che stanno nascendo, nella psicologia e in qualche caso nella
sociologia.
Per Claparède la pedagogia è psicologia applicata. Egli è uno dei maggiori esperti
del funzionalismo psicologico europeo
Prima di vedere la concezione funzionalista, vediamo le altre due precedenti, che spesso erano le
uniche considerate.
Per Claparède «L’attività mentale può essere considerata da punti di vista differenti, che rispondono
ciascuno a differenti preoccupazioni e a problemi diversi posti dagli scienziati, ma che convergono
verso un unico scopo che è la concezione della condotta (il modo di spiegare la condotta) e delle sue
leggi”, come scrive nel suo Nel suo L’educazione funzionale nel 1931.
1) La concezione strutturale.
È la concezione analitica, anatomica, vorrei dire. Quali sono gli elementi della vita mentale? Qual è
la natura del meccanismo della condotta? L’indagine strutturale (centrata sui singoli elementi della
vita mentale) sta alla psicologia, come l’anatomia sta alla scienza della vita organica. Per esempio:
quando si chiede di che cosa è costituito il substrato del pensiero (immagini verbali, coscienza di
relazioni, ecc.)? Quali sono i sentimenti elementari? Quale la struttura (le componenti elementari)
dell’emozione?
2) La concezione meccanicistica.
Troviamo anche qui l’analisi, ma applicata alle operazioni mentali (dunque: non analisi delle
componenti della condotta, ma analisi delle operazioni mentali che intervengono nella condotta).
Come fanno i meccanismi, che l’analisi strutturale ci ha mostrato, a collegarsi strettamente tra loro?
Queste indagini corrispondono a ciò che è la fisiologia (nel senso stretto della parola) per la vita
organica. Esempi: quando risolviamo un problema di aritmetica che cosa avviene? Come si
succedono le varie parti di questa operazione? O ancora: come il sentimento agisce sulle operazioni
dell’intelligenza?
3) La concezione funzionale di Calparede invece è quella che NON si basa sull’importanza di questo
o quel processo (psichico) nella vita dell’individuo ma sulla vita nel suo insieme. In tal modo si
considerano i fenomeni sotto un aspetto piuttosto sintetico, in rapporto all’insieme dell’organismo, e
al significato che essi hanno per il singolo alunno e studente.
Édouard Claparède ha sviluppato anche il concetto di adattamento, in tal senso sperimentazione
e funzionalismo pedagogico acquistano un nuovo concetto di adattamento all’ambiente fisico e
sociale.
Per esempio: qual è il significato del gioco, dell’emozione, dell’ostinazione, dell’esaltazione della
potenza? Cioè: a quali bisogni rispondono questi fenomeni? (In ultima istanza: quale è la loro
funzione? A che cosa servono?).
Cleparde sviluppa un parallelo con la scienza della vita organica, possiamo dire che è questo l’aspetto
biologico del problema (in opposizione a quello dell’anatomia e della fisiologia), perché il grande
problema
della biologia è proprio quello dell’adattamento.
La Scuola Italiana continua ad assumere sempre più un aspetto ‘multiculturale’ alle differenze già
presenti sui territori (migrazioni interne, minoranze, differenze, si aggiungono i consistenti flussi
migratori che hanno riproposto, in maniera urgente, le questioni dell’integrazione con il diverso e
dell’alterità. La pedagogia interculturale si deve porre in dialogo non solo con la riflessione
pedagogica generale, ma anche con i diversi settori della stessa. PEDAGOGIA dinamica ed
evolutiva del pluriculturalismo – della differenza, dell’altro, delle minoranze – un problema. Ora,
il vero problema è piuttosto l’unicità». Si tratta, quindi, di mettere in discussione l’etnocentrismo
della pedagogia e smascherarne i caratteri di “razzismo” e di intolleranza, nella società. Così si apre
alla pedagogia un compito arduo, urgente ed epocale, che essa deve cercare di risolvere (non da sola
certo, ma con un ruolo prioritario).
La riflessione interculturale affronta quelle contraddizioni e antinomie che percorrono tutta la
riflessione pedagogica, nel tentativo di cogliere nuove possibili complementarità. Se la pedagogia,
intesa in senso generale, si preoccupa della formazione dell’identità personale, la pedagogia
interculturale approfondisce l’apertura nei confronti dell’altro e della sua cultura. In questa direzione
la prospettiva interculturale riceve dalla pedagogia generale gli strumenti concettuali necessari al suo
costituirsi come pedagogia relazionale; ma soprattutto ne riceve l’oggetto precipuo di riflessione:
l’uomo, la sua educabilità e la sua educazione.
Il costituirsi della nostra società in senso multietnico ne ha messo alla prova i modelli di convivenza
e ha generato disorientamento. Di fronte ad una così ampia serie di questioni specifiche, si avverte
l’urgenza di rafforzare il fondamento critico e di precisare l’aspetto teorico di una riflessione
interculturale. La pedagogia pone attenzione allo sviluppo dell’attenzione per le differenze e per i
contesti multiculturali, iniziato negli ultimi decenni anche in ambito educativo, rappresenta un
segnale significativo di un cambiamento di tendenza.
La pedagogia interculturale prende in considerazione l’influsso esercitato dal contesto culturale
identitario e dall’ambiente sui processi formativi.
Le società europee sono divenute pluri-culturali già parecchie decine di anni fa e il recente arrivo di
nuovi immigrati ha solamente aggiunto altre minoranze, accentuando un pluralismo sociale e
culturale già esistente. La diversità, all’interno delle società europee, è radicata nella storia dei singoli
Paesi, piuttosto che dovuta alle recenti immigrazioni. Se in passato, la pedagogia e l’educazione
ponessero al centro della loro indagine soprattutto le questioni legate all’identità (individuale e
collettiva), ai rapporti fra gli uomini (individui con individui, individui con gruppi, gruppi con
gruppi), alla nostra capacità (o meno) di vivere insieme nel rispetto delle reciproche libertà.
La scuola oggi è sempre più interculturale e multistratificata, al centro del dibattito pensiamo ai
NAI, tema del rapporto con la diversità si sono mobilitate numerose discipline, tra cui, appunto, la
pedagogia. Gli alunni NAI sono gli studenti neoarrivati in Italia che non parlano italiano o lo
parlano poco, o coloro i quali sono inseriti a scuola da meno di due anni.
Gli alunni stranieri NAI, per periodi più o meno lunghi, a seconda dell’età, della provenienza, delle
lingue di origine, della scolarità pregressa, dei tratti personali e di elementi contestuali, si possono
annoverare nella categoria di alunni con Bisogni Educativi Speciali (BES).
Da una prospettiva monoculturale si passa alla didattica multiculturale, con una nuova sensibilità
verso il tema delle differenze culturale, dell’approccio tra culture diverse, «generalmente risolto dal
mondo occidentale, ma non soltanto da esso, con atteggiamenti etnocentrici, pretendendo di imporre
il proprio punto di vista come l’unico valido, coincidente con quello naturale e razionale»
La conseguenza di ritenere la propria cultura come modello universalmente superiore è stata quella
di collocare le altre espressioni
culturali nella subalternità e nell’inferiorità, dando legittimazione ad un’opera di indottrinamento. I
gruppi ritenuti superiori si sentivano in “dovere”, cioè, di aiutare i popoli stimati come inferiori nello
sviluppo, inculcando le verità oggettive del pensiero scientifico-razionale al posto delle forme mitiche
e popolari, ritenute errate.
Nel suo testo L’analisi del discorso pedagogico, Carmèla Metèlli di Lallo rileva l’esistenza di diverse
antropologie sottese alle tante pedagogie presenti in letteratura si concentra sulla revisione della
pedagogia sul piano logico e della verificabilità empirica, vuole sviluppare in maniera
interdisciplinare la metodologia di ricerca di tutte quelle discipline che sono investite dal discorso
psico-pedagogico (psicologia, sociologia, antropologia culturale, ecc.), tanto da farla riflettere in
funzione di una vera e propria psicopedagogia,
SHEDA: Carmela Metèlli di Lallo [Fonte Trecani] (Termoli 1914 – Padova 1976); ha insegnato
psicopedagogia nell’univ. di Padova. L’esigenza di una caratterizzazione scientifica della pedagogia
si è concretata in un indirizzo epistemologico attento all’analisi del discorso pedagogico nelle sue
diverse componenti e alla verificabilità empirica dei paradigmi utilizzati nella ricerca
educativa.
In pratica Metelli vuole fare della pedagogia una scienza esatta e misurabile.
La sua opera più significativa è Analisi del discorso pedagogico (1966).
Di rilievo anche i suoi studî di psicologia dell’educazione, che peraltro s’inseriscono in una
prospettiva più ampia, interessata soprattutto alle dimensioni formative dell’intelligenza e della
creatività scientifica. Fra i suoi scritti: La dinamica dell’esperienza nel pensiero di J.
Dewey (1958); Problemi psicopedagogici (1964); Componenti anarchiche nel pensiero di J.-J.
Rousseau (1970).
Si interroga sulla necessità di definire qual è l’idea precisa di uomo che deve guidare l’agire educativo
rispetto al profilo di uomo che la pedagogia intende formare.
La pedagogia istituzionale:
La pedagogia istituzionale in Francia: Jean Oury, Aïda Vasquez, Tosquelles;
La pedagogia istituzionale in Francia ed in Italia: Jean Oury ed Aïda
Vasquez, Tosquelles;
Il termine pedagogia istituzionale è stato utilizzato, per la prima volta, in Francia, da Jean Oury, nel
1958, nell’ambito di un convegno con l’intento di evidenziare la dimensione complessa della
pedagogia che non riguarda solo i singoli rapporti educativi, ma la struttura stessa dell’organizzazione
educativa e le dinamiche dei gruppi in un contesto.
parole chiavi sono: gruppi, fattori, contesto, strategie, organizzazione educativa, tutti gli strumenti
favoriscano l’adeguamento dell’azione educativa e didattica del gruppo agli scopi prefissati e
condivisi. In pratica, sono fattori esterni e interni, collettivi piuttosto che soggettivi ed individuali
che determinano il funzionamento della scuola.
La pedagogia istituzionale “tende a sostituire l’azione permanente e l’intervento diretto del maestro
con un sistema di attività, di mediazioni diverse, di istituzioni che assicuri in maniera continua
l’obbligo della reciprocità e degli scambi nel e fuori dal gruppo. In base ad una idea dell’istituzione
scolastica in termini di “sistema di costanti spazio-temporali, relazionali e valoriali che permettono
gli scambi in un gruppo sociale”, la finalità ultima dell’evento educativo e didattico, secondo la
pedagogia istituzionale, è quella di rendere ogni soggetto il più possibile protagonista del processo di
cui fa parte: secondo questo approccio, dunque, solo la conoscenza da parte di tutti membri del
contesto istituzionale, dell’organizzazione e delle regole che strutturano gli scambi nel gruppo
garantisce il rispetto delle singole individualità.
In Francia, la pedagogia istituzionale è stata sviluppata, in direzione dell’intervento educativo e
didattico, soprattutto da Aïda Vasquez e da Fernand Oury. Le istituzioni dell’educazione formale
devono tener conto dei principi della psicopedagogia nella stesura del progetto educativo. Per guidare
e gestire l’azione didattica in modo efficace e rispettoso delle individualità, è necessario porsi tre
quesiti:
quali sono le funzioni di un certo gruppo, nell’ambito del quale di svolge l’azione didattica
stessa
quali sono i fattori esterni e interni, collettivi piuttosto che soggettivi ed individuali che ne
determinano il funzionamento
quali interventi, strategie
Una diversa posizione, nell’ambito della pedagogia istituzionale francese, è rappresentata
da Georges Lapassade, che ha utilizzato il termine autogestione pedagogica, volendo accentuare gli
aspetti di azione contro i condizionamenti istituzionali della scuola, sia sul piano della prassi didattica,
sia sul piano, più in generale, dei rapporti sociali.
Si possono ricordare magari in una preselettiva potrebbe essere fatto un riferimento: anche René
Lourau, mentre Georges Lapassade può essere considerato il padre dell’analisi istituzionale.
La pedagogia istituzionale in Italia: introduzione (Paolo Zanelli, Andrea Canevaro, Vittorio Severi, Giampietro
Lippi).
La pedagogia istituzionale in Italia: Zanelli, Canevaro, Sereni, Lippi
La pedagogia istituzionale in Italia è stato seguita da Paolo Zanelli ed Andrea Canevaro (altri
studiosi fra i quali, Vittorio Severi, Giampietro Lippi, che ha ripreso e sviluppato, in maniera originale
i temi della pedagogia istituzionale). Ma anche in Italia alle ricerche di Carugati autore di un manuale
oggi molto usato di Psicologia dell’educazione, scritto insieme a Patrizia Selleri.
La versione italiana della pedagogia istituzionale tende a presentarla come una pedagogia della
complessità: il rapporto educativo è sempre un rapporto che si muove nell’ambito di un contesto
educativo che ha risvolti sia relazionali che organizzativo-istituzionali; diviene, allora, determinante,
per gli studiosi che si riconoscono nella prospettiva della pedagogia istituzionale, pensare
l’organizzazione del contesto educativo in modo tale da favorire l’autonomia dei singoli.
La pedagogia istituzionale italiana ha sviluppato diversi filoni di ricerca in una prospettiva di ricerca
– azione. Gli ambiti di ricerca si sono, finora, concentrati in tre direzioni principali:
Lavorare per la riduzione dell’handicap significa allora ricercare l’elemento dato, che è il deficit, e
scoprire come tutte le altre variabili possono essere ridotte.
Per Canevaro, la Pedagogia speciale deve rispondere ai bisogni della persona disabile in modo
specifico e personalizzato, dando luce all’unicità di ognuno, il compito dell’educatore è quello di
trovare i giusti strumenti e contesti per dare luce ad ognuno nella sua peculiarità.
Nel fare ciò, vi è anche una complessa operazione sociale, volta al superamento delle barriere, anche
psicologiche, che comunemente vengono erette nei confronti di chi è diverso.
La pedagogia speciale deve combattere l’esclusione sociale delle persone con disabilità in modo
dinamico e interattivo, non statico, come una continua composizione elementi diversi. Il compito
della Pedagogia speciale, nella prospettiva sottolineata dall’Autore, è quello di connettersi con
diverse discipline in modo da far nascere e diffondere una nuova visione e nuove pratiche nell’ambito
della disabilità e, più in generale, delle differenze.
Bisogna favorire il processo sono intervenute anche legislazioni specifiche e sicuramente la ricerca
scientifica ha favorito ed aiutato questo percorso. Andrea Canevaro sottolinea la difficoltà del
processo di comprensione ed accettazione: al tempo solo in alcuni casi si è verificata la vera e propria
voglia di comprendere le situazioni, in altri invece ha prevalso più la voglia di difendersi e di voler
ergere barriere verso il diverso.
In seguito all’evolversi degli studi nell’ambito della pedagogia speciale si abbandona la parola
“integrazione”: tale termine rimarca infatti l’esistenza di un contesto o ambiente con determinate
caratteristiche e parametri di “normalità “, a cui viene “integrato” qualcosa di diverso, che prima non
c’era, e che viene adattato al contesto preesistente, si parla oggi invece di inclusione.
Si è passati quindi dal termine integrazione a quello di inclusione. Questo termine amplia l’approccio,
inserendo la diversità (e la disabilità) nella naturale variazione delle personalità umane: non si tratta
di qualcosa di esterno o da inserire in una società già esistente, cambiando qualcosa, ma fa parte della
società stessa. Un elemento incluso in un gruppo, per definizione, fa parte di quella realtà esattamente
come tutti gli altri.
Ogni azione educativa deve mirare quindi a essere temporanea, cercando di rendere l’educando
autonomo e farlo reimpossessare dell’oggetto delegato, che sia esso la propria salute, la propria
autonomia o qualsiasi altro aspetto della propria persona. Ma la delega non può essere per sempre
o a tempo indeterminato. Eccone il paradosso, ti delego ma non posso delegarti completamente.
Si tratta però di un “allontanare per riavvicinare”, e da qui nasce il termine “paradossa (paradosso)”:
ci si aspetta infatti che l’intervento sia temporaneo, e l’azione delegante nasce solo dal fatto che da
soli non si è in grado di gestire una certa problematica.
Ciò può ritornare utile anche in campo pedagogico: come sottolinea Canevaro, la delega dovrebbe
allontanare per un tempo utile a risolvere il problema, riassumendo al più presto su di sé la padronanza
dell’oggetto che viene delegato. Se invece il tempo si prolunga troppo, e diventa quasi definitivo, non
dovremmo più parlare di delega ma di alienazione.
In pratica la delega comporta un allontanamento transitoria dalla persona con disabilità mentre
successivamente la ri-avvicina alle persone del suo contesto.
È possibile quindi agire sul contesto diminuendo le barriere alla partecipazione: l’educatore, o la
società in genere, può agire su caratteristiche ambientali al fine di creare un contesto inclusivo che
faciliti la partecipazione di tutti, anche di chi ha caratteristiche psicofisiche diverse dalla maggioranza.
La disabilità spesso è associata al pregiudizio, Canevaro sostiene come a volte siano il nostro credere
e le nostre certezze a determinare la qualità della relazione interpersonale e la percezione che il
soggetto disabile ha di se stesso: spesso gli atteggiamenti che si assumono con le persone disabili
sono fortemente influenzati da stereotipi e pregiudizi riguardo all’handicap, dalle paure e dalla
disinformazione legati a ciò. Tali relazioni vengono infatti vissute con un atteggiamento spesso
pregiudizievole e generalizzato, e non di rado rischiano di assumere un carattere drammatico o
tragico.
Dall’integrazione all’inclusione
Raggiungere appunto l’integrazione delle persone disabili, un inserimento sociale volto a sconfiggere
stereotipi, pregiudizi e segregazione nei confronti del diverso, elementi fino a non molti anni fa
profondamente radicati. Infatti, fino alla seconda metà del ‘900, le persone con disabilità fisica e
psichica erano solite vivere fin dalla prima infanzia in contesti separati rispetto ai percorsi dedicati
alle persone normodotate: ai portatori di handicap erano riservate scuole speciali e istituti
specializzati, ospedali psichiatrici, manicomi.
Gli psicologi-pedagogisti e le ricerche del novecento:
Lewin – il modello della Ricerca – Azione
Il modello della Ricerca-azione di Kurt Lewin
Spesso nella scuola si manifestano problemi la cui soluzione non è sempre conseguenza di una precisa
diagnosi, anzi, più frequentemente si procede per prove ed errori, o nella logica emergenziale e senza
una reale analisi dello studente, dell’ambiente di apprendimento, della situazione ambientale, etc.
Non solo insegnare ma capire e fare ricerca attiva dei problemi. Pur di rispondere alla situazione, e
vista l’urgenza delle risposte da costruire in tempo reale, si dimentica di fare un’accurata analisi dei
problemi. La ricerca-azione ci dice però che bisogna prima capire e poi agire e non solo a livello
didattico.
1. percezione del problema
2. individuazione del problema
3. descrizione e definizione del problema
4. scelta della metodologia di raccolta dei dati
5. l’analisi degli stessi
6. formulazione delle ipotesi di intervento
Seconda fase post-intervento
Duccio Demetrio ha fondato la Libera Università dell’Autobiografia organizza anche una serie di laboratori
di approfondimento: laboratori di sensibilizzazione e di scrittura autobiografica, laboratorio sul tema della
scuola e narrazione.
Ha scritto numerosi libri anche in collaborazione con altri, tra cui ricordiamo:
Per questo nelle scuole che seguono il metodo pedagogico Malaguzzi, gli studenti vengono posti al
centro dell’organizzazione e coinvolti nella scelta di cosa fare giorno dopo giorno. Malaguzzi
ritiene che ogni studente, come creatore e portatore di conoscenze, è capace di costruirsi con le sue
potenzialità l’apprendimento futuro. Non possono, allora, essere imposte, nei nidi e nelle scuole
dell’infanzia, metodologie o strategie per far acquisire conoscenze.
I bambini imparano la realtà che li circonda, agendo e facendo, in maniera spontanea e naturale,
operazioni mentali di verifica, conferma o confutazione.
L’approccio di Malaguzzi come di tutto l’attivismo pedagogico, è l’idea, che è il soggetto che si
costruisce da solo la propria conoscenza, la conoscenza non si trasmette, ma si costruisce. Non è
qualcosa che passa da un adulto ad un bambino, ma che si ricrea negli ambienti di apprendimento.
Questo metodo è molto usato nelle scuole primarie: dove i bambini, che vengono riuniti in piccoli
gruppi, sono seguiti dalle maestre ed educatrici, ma allo stesso tempo sono lasciati liberi di ragionare
ed inventare nuovi giochi. Gli insegnanti ascoltano le loro proposte e collaborano tutti insieme per
aiutarli a realizzarli.
Per MALAGUZZI l’acquisizione della conoscenza è una costruzione personale di ogni bambino
attraverso l’impiego delle risorse di cui è dotato. Per MALAGUZZI ad esempio come scrive egli
stesso “i bambini costruiscono la propria intelligenza. Gli adulti devono fornire loro le attività e il
contesto e soprattutto devono essere in grado di ascoltare”.
Il costruttivismo ci dice che gli alunni operano un ruolo attivo nella costruzione e nell’acquisizione
della conoscenza e della comprensione della realtà. Come abbiamo visto nel modulo sulle teorie
dell’apprendimento, la teoria costruttivista ha messo in evidenza il valore dell’interazione sociale,
nel costruire le conoscenze, e il carattere situato dell’apprendimento, in rapporto all’ambiente entro
cui avviene, è stato soprattutto il costruttivismo.
I 4 principi di Malaguzzi:
“Il piacere dell’apprendere, del conoscere e del capire è, per come sostiene MALAGUZZI, una delle
prime fondamentali sensazioni che ogni bambino si aspetta dall’esperienza che affronta da solo o con
i coetanei e con gli adulti. Una sensazione decisiva che va rafforzata perché il piacere sopravviva
anche quando la realtà dirà che l’apprendere, il conoscere, il capire possono costare difficoltà e fatica.
È in questa sua capacità di sopravvivere che il piacere può sconfinare nella gioia”.
Le scuole basate sul metodo Malaguzzi sono in genere luminose, aperte e comunicanti tra loro.
Sono dotate di tavoli luminosi al nido, su cui i bambini possono “lavorare”, mentre nelle classi della
materna, viene installato un laboratorio creativo, con un educatore specializzato in attività artistiche
e manuali. Vi è infine una partecipazione attiva delle famiglie in tutte le attività della scuola.
Ebbe sviluppo e applicazione sistematica solo a partire dalla fine del 18° sec., quando i due
inglesi A. Bell e J. Lancaster organizzarono, l’uno indipendentemente dall’altro, scuole fondate su
tale principio.
Il loro metodo fu utilizzato anche da Don Milani nella scuola da lui formata a Barbiana nel 1954.
Ricordiamo che anche Don Milano aveva un’idea sociale di educazione, educazione per tutti a favore
soprattutto dei figli degli operai e dei contadini.
Con tale metodo, l’insegnamento del docente non viene impartito simultaneamente a tutti i suoi
discenti, ma viene impartito inizialmente al gruppo dei discenti più capaci, individuati come ripetitori
delle lezioni, che a loro volta comunicano agli altri allievi -divisi in squadre o classi- quanto hanno
appreso.
Lancaster, Joseph apri una scuola elementare per bambini poveri, ricorrendo, per sopperire alla
scarsezza di mezzi, a quel metodo d’insegnamento che fu detto lancasteriano o mutuo, per il quale
gli scolari migliori vengono utilizzati come “monitori” o ripetitori delle lezioni agli altri. E’ un
metodo che usa la didattica del tutoraggio tra pari. Nel senso che in mancanza di docenti formati,
sono gli allievi della classe migliori o della classe avanzata che fanno da tutor o aiutano gli alunni più
in difficoltà.
Opera fondamentale: Improvements in education as it respects the industrious classes of the
community (1803), la quale poi (1810) comparve col nuovo titolo di The British system of education.
Il mutuo insegnamento viene presto applicato anche in Italia; ad esempio, nel 1819 viene fondata,
a Forlì, una scuola di mutuo insegnamento da Carlo Cicognani e Pietro Bofondi; il metodo è poi
ripreso anche da Raffaello Lambruschini.
Come è stato fatto notare, tale metodo ritorna oggi in quella che viene chiamata Peer education
indurre
dedurre
dialettizzare (fare interagire-dialogare le leggi e i concetti)
pensiero divergente.
E 3 tipologie di situazione problema:
problema di comunicazione
situazione di risoluzione
problema di utilizzo.
La situazione problema deve basarsi su una tripla valutazione diagnostica: del sapere, del saper fare
e del saper essere. L’ostacolo da superare durante la risoluzione è più importante del risultato.
Meirieu afferma che la valutazione ¨è un mezzo di decontestualizzazione” ovvero che permette di
capire quando l’allievo sa applicare la conoscenza in un’altra situazione.
I criteri di valutazione devono essere condivisi e costruiti insieme agli studenti, egli infatti propone
consigli pratici come scrivere a fine giornata di cosa gli studenti in una logica di partecipazione stessa
al progetto di apprendimento vogliono ricordare e fare magari delle schede o preparare dei cartelloni.
In tal modo si possono identificare per ogni studenti i punti deboli su cui concentrarsi nel lavoro, in
modo da costruire un vero e proprio quaderno o libretto di autovalutazione.
Abbiamo visto nel modulo uno di Origine, l’importante di individuare e capire le strategie di
apprendimento degli allievi-studenti; sono quindi da considerare i diversi stili di apprendimento. Gli
allievi apprendono con stili di apprendimento diversi e questo porta il docente a utilizzare metodi,
situazioni didattiche e situazioni problema differenziate.
Approccio verbale o scritto
Strategia visiva o uditiva
Contatto o rappresentazione dell’oggetto
Impulsività verso riflessione
Dipendenza dall’interazione sociale o indipendenza
Conformismo o pensiero divergente
Raccolta anticipata di tutta l’informazione verso integrazione progressiva
Lavoro con una solo stesura verso lavoro segmentato o a strati.
Approccio settoriale o globale
Comprensione per analisi o confronto
Appoggio sulle differenze o sulle similitudini
Intolleranza all’incertezza o tolleranza all’incertezza
Bisogno di supporto/aiuto o di indipendenza
Meirieu pone particolare attenzione agli studenti in “scacco” e in “difficoltà”. Egli dice che mentre
lo studente in difficoltà necessita di cambiamenti di metodo e di nuove strategie di apprendimento.
Lo studente in scacco deve ritrovare il senso dell’apprendimento; con lui bisogna agire su un piano
pedagogico e relazionale profondo, della motivazione, dell’incentivo, del far capire il valore ed il
senso dell’apprendimento.
Knowles abbracciò l’idea secondo cui la scuola andava modernizzata valorizzando le attività pratiche
e mettendo al centro dei processi formativi l’esperienza degli allievi. Argomenti che la pedagogia
attivista aveva fatto propri da tempo, pensiamo alla proposta di Dewey.
Il modo e gli stili di apprendimenti dell’adulto e le sue esperienze e strategie dell’adulto sono diverse
da quelle di bambini e ragazzi e che quindi non è sufficiente trasporre i principi pedagogici alla
formazione degli adulti, ma sono necessari metodologie, docenti e assunti filosofici speciali.
1. Principio di coerenza
2. Principio di segnalazione
3. Principio di ridondanza
4. Principio di Contiguità spaziale
5. Principio di Contiguità temporale
6. Principio di segmentazione
7. Principio della pre-formazione
8. Principio di modalità
9. Principio Multimediale
10. Principio di personalizzazione
11. Principio della voce
12. Principio dell’immagine
L’efficacia dell’e-Learning, dell’apprendimento elettronico, si basa su processi di progettazione
appropriati: il contesto di apprendimento mediato da un mezzo digitale è ben diverso dal contesto
tradizionale d’aula. I mezzi tecnologici che permettono di sviluppare elementi formativi multimediali
sono molteplici e occorre saper scegliere tra molti elementi per creare un impatto adeguato ed
aumentare l’attrattività del contenuto. In base a questi principi il progettista educativo sceglie i media
più opportuni per l’eLearning. Vediamo gli elementi caratteristici di questa teoria cognitivista
dell’apprendimento, essendo una lista qualche principio si presta per un’eventuale prova preselettiva
a risposta multipla.
L’obiettivo finale è quello di trasferire quanto appreso al di fuori del contesto della formazione.
Secondo la teoria dell’apprendimento multimediale, i principali approcci per migliorare
l’apprendimento sono due: l’approccio technology-centered e quello learner-centered.
Vediamo una sintesi dei due approcci alla base dell’apprendimento multimediale:
tecnologia all’informazione Come possiamo usare la tecnologia per fare una lezione multime
Già Dewey aveva sancito il rapporto irrinunciabile fra scuola e contesto sociale, affermando che
l’apprendimento dell’individuo avviene all’interno e grazie al gruppo di cui fa parte e che il sistema scolastico
non poteva essere deputato solo alla trasmissione dei contenuti disciplinari, ma doveva veicolare i valori
democratici della società da cui riceveva il suo mandato educativo.
Lewin, con la sua teoria di campo afferma che si possono ottenere e/o incrementare i risultati di un processo
sociale e/o educativo, operando sullo spazio vitale dell’individuo, ossia predisponendo strutture e contesti
adeguati agli interventi di insegnamento-apprendimento: secondo questa teoria, il processo di apprendimento
è condizionato dal mondo esperienziale del soggetto, dai precedenti condizionamenti educativi e dai fenomeni
adattivi con cui il soggetto integra i nuovi input conoscitivi nel mondo precedentemente elaborato e
interiorizzato mentalmente.
Per lungo tempo il contesto è stato considerato “ciò che sta intorno all’individuo” senza tenere conto della
“tessitura delle parti”, delle relazioni che si sono stabilite con e fra tutti gli altri elementi del sistema: sono
queste relazioni ne costituiscono la caratteristica fondamentale, la “qualità emergente” di cui parla Bateson,
che dà significato ai singoli elementi, ai singoli soggetti, alle singole azioni.
Per poter conoscere, comprendere e dunque progettare e condurre consapevolmente l’evento educativo e – più
specificamente – l’azione didattica, è necessario collocarli e analizzarli in relazione ad uno “sfondo integratore,
un “contesto di significati”, una rappresentazione di senso che dà significato a gesti, parole, fatti”, dove il
contesto può essere definito un insieme di norme e relazioni che ne regolano il funzionamento e danno
significato agli atti comunicativi e ai comportamenti che si esplicano al suo interno.
“Gli insegnanti e gli allievi non producono semplici comportamenti di reazione reciproca, né semplici
attività materiali, ma elaborano condotte che assumono significati per coloro che le producono e per
coloro ai quali sono dirette; le relazioni fra di esse e i rispettivi significati si concretizzano in luoghi
e tempi che sono caratterizzati nei termini del sistema culturale dell’istituzione scolastica” .
Per Foucault “ogni epoca ha il suo épistémé, la radice silenziosa ma reale che sostiene il suo
linguaggio, che organizza la vita dei soggetti, sia dal punto di vista sociale che culturale, contribuendo
a costruire un orizzonte di senso, un continuum sensoriale, affettivo-pratico, socio-culturale e
istituzionale entro cui collocare, classificare, spiegare, interpretare i fenomeni biologici, sociali
umani”.
In questo senso, si ricollega agli studi antropologici avviati da Levy Strass, Benedict, Mead, sviluppati
poi dall’antropologia interpretativa di Geertz, secondo cui i processi conoscitivi e dello sviluppo
avvengono in riferimento al contesto culturale di appartenenza, ossia al codice di interpretazione della
realtà del gruppo di cui si fa parte (antropologia culturale ed integrazione studenti stranieri)
“Gli insegnanti e gli allievi non producono semplici comportamenti di reazione reciproca, né semplici
attività materiali, ma elaborano condotte che assumono significati per coloro che le producono e per
coloro ai quali sono dirette; le relazioni fra di esse e i rispettivi significati si concretizzano in luoghi
e tempi che sono caratterizzati nei termini del sistema culturale dell’istituzione scolastica” .
Proprio per prepararsi ad accogliere e gestire l’imprevisto, il caso, la storia didattica come essa si
svolge, il docente dovrà predisporre contesti spazio-temporali, organizzativo-istituzionali e socio-
culturali pensati e realizzati in modo sufficientemente variegato, articolato e flessibile da valorizzare
le risorse individuali e collettive presenti e, al tempo stesso, far fronte a vincoli, ostacoli, imprevisti
non desiderabili.
L’ambito culturale in cui sono state elaborate le proposte più adeguate per poter attuare questa
mediazione istituzionale e relazionale è quello della psicologia istituzionale (per quanto riguarda più
specificamente il campo scolastico) e della pedagogia istituzionale (relativamente soprattutto al
campo dei servizi extrascolastici).
Questa scuola di pensiero fa riferimento alle esperienze maturate nell’ambito dell’educazione attiva,
alle ricerche relative alle dinamiche dei gruppi (Lewin, Moreno e Bion), all’analisi della dialettica fra
organizzazione, gruppi e identità individuali condotti nell’ambito della fenomenologia, nonché al
concetto di educazione indiretta rintracciabile già in Rousseau e nella Montessori e ripreso poi dalla
psicologia non direttiva di Rogers.
Per poter conoscere, comprendere e dunque progettare e condurre consapevolmente l’evento
educativo e – più specificamente – l’azione didattica, è necessario collocarli e analizzarli in relazione
ad uno “sfondo integratore, un “contesto di significati”, una rappresentazione di senso che dà
significato a gesti, parole, fatti”, dove il contesto può essere definito un insieme di norme e relazioni
che ne regolano il funzionamento e danno significato agli atti comunicativi e ai comportamenti che
si esplicano al suo interno.
1. Erving GOFFMANN
2. Mead
Goffman, attraverso lo studio delle istituzioni totali (manicomi, istituti per minori abbandonati,…)
evidenzia come l’organizzazione dei sistemi istituzionali determinano le relazioni, i ruoli, le posizioni
e le ‘facce’ (identità) dei soggetti che vi fanno parte, connotando di significato metacomunicativo
gesti , parole, azioni e comportamenti. Secondo questo autore, ogni soggetto di un certo
sistema/contesto è allo stesso tempo osservatore e attore, che ‘recita’ le proprie parti/facce, i propri
ruoli, in base alla rete di norme e regole del sistema e in base alla rappresentazione che si è costruito
della propria identità e di quella altrui.
Ogni soggetto cerca al tempo stesso di essere all’altezza delle norme sociali e morali esplicite e
implicite, molto spesso ambigue, che gli vengono imposte, pur cercando di rimanere fedele al suo
personaggio e alle sue qualità positive, cioè cercando di non perdere la sua ‘faccia’.
E’ attraverso il reale simbolizzato che gli esseri umani entrano in contatto e si costruiscono un sistema
di riferimento che permette di discutere, scegliere e modificare i propri comportamenti.
Bronfebrenner, però, non descrive queste connessioni sistemiche di cui il docente dovrà tener conto
come processi lineari-causali che, se considerati, assicurano risultati positivi; piuttosto il responsabile
del processo di insegnamento potrà muoversi all’interno del loro complesso intreccio, senza però
trascurare il ruolo del caso, dell’evento inaspettato, di quegli ‘attesi imprevisti’ di cui parla Perticari,
che costellano e costruiscono la storia delle relazioni educative e delle azioni didattiche, così come di
ogni atto umano.
“La didattica dell’inatteso” non si fonda “sull’uso tranquillizzante delle metodiche oggettivanti e sulla
riduzione a codici standardizzati”, ignorando “tutti quegli aspetti non conformi agli schemi
precostituiti”. Secondo l’epistemologia della complessità, l’inatteso è “un segnale irrinunciabile di
informazione su ciò che sta accadendo nell’interazione reale”, così come le regolarità relazionali,
organizzativo-istituzionali, che caratterizzano il contesto educativo e didattico.
EDGAR MORIN – una testa ben fatta è meglio di una testa ben piena
Edgar Morin – una testa ben fatta e 7 saperi per l’educazione del
futuro
Edgar Morin ha dedicato gran parte della sua opera ai problemi di una “riforma del pensiero”,
affrontando le questioni alla base delle sue riflessioni sull’umanità e sul mondo.
Una delle idee centrali del pensiero di Morin è che la separazione delle discipline consente il
progresso individuale di ciascuna di esse, ma limita la conoscenza a livello globale, che viene
decontestualizzata.
La sua opera I sette saperi necessari all’educazione del futuro, pubblicata nel 2000, propone sette
condizioni o categorie per riorganizzare in modo transdisciplinare il pensiero e l’educazione di ogni
società e cultura. Nel corso del XX secolo, scienze come la microfisica e la cosmologia ci hanno
mostrato che la conoscenza contiene incertezze che l’insegnamento dovrebbe considerare. Educare
a predisporre la mente ad aspettarsi l’inatteso è fondamentale per affrontare i rischi che le
incertezze comportano. Non va dimenticato che tutte le decisioni che potremo prendere, sia
personalmente che politicamente, non sono altro che scommesse, scrive Morin. Morin distingue
tra “una testa nel quale il sapere è accumulato e non dispone di un principio di selezione e di
organizzazione che gli dia senso” e una “testa ben fatta”, che comporta “un’attitudine generale a
porre e a trattare i problemi; principi organizzatori che permettano di collegare i saperi e di dare loro
senso”. Secondo Morin, una “testa ben fatta”, mettendo fine alla separazione tra le due culture,
consentirebbe di rispondere alle formidabili sfide della globalità e della complessità nella vita
quotidiana, sociale, politica, nazionale e mondiale.
Che cosa significhi essere umani, comprendere la nostra connessione con il mondo naturale, ma
anche le nostre differenze, confrontarsi con le incertezze, sviluppare la propria capacità di vivere
l’aspetto poetico della vita, essere consapevoli della complessità del reale, sono solo alcuni dei punti
che l’educazione del futuro dovrebbe considerare.
1. Le cecità della conoscenza: l’errore e l’illusione
Per questo il primo dei “sette saperi” è proprio conoscere la conoscenza, invitando a
potenziare nell’insegnamento lo studio dei caratteri cerebrali, mentali e culturali della
conoscenza umana, dei suoi processi e delle sue propensioni naturali all’errore e
all’illusione.
2. I principi di una conoscenza pertinente.ù
Morin esprime tutta la sua diffidenza nei confronti della separazione delle discipline, sottolineando
come una conoscenza altamente specializzata ma frammentata, come è quella del nostro tempo, renda
spesso incapaci di effettuare il legame tra le parti e le totalità. È necessario dunque promuovere una
conoscenza capace di cogliere i problemi globali e gli oggetti nei loro insiemi, sviluppando
quell’attitudine naturale della mente umana a situare le informazioni in un contesto.
3. Insegnare la condizione umana Uno dei limiti dell’educazione attuale è il fatto di non insegnare
ciò che significa essere umano, conoscere il carattere complesso della propria identità e
dell’identità che si ha in comune con tutti gli altri umani. Secondo Morin, è possibile riconoscere
l’unità e la complessità dell’essere umano riunendo e riorganizzando le conoscenze disperse nelle
scienze della natura, nelle scienze umane, nella letteratura e nella filosofia.
4. Insegnare l’identità terrestre – L’idea di destino planetario è attualmente ignorata
dall’insegnamento. Gli snodi dell’era planetaria, iniziata nel XVI secolo con la comunicazione fra
tutti i continenti ed il complesso di crisi planetaria che segna il XX secolo sono spunti importanti per
educare alla riflessione su come tutte le parti del mondo condividano un passato di reciproca
solidarietà, ma anche di oppressione e devastazione. Dal momento che il destino del pianeta riguarda
tutti gli uomini, per Morin è fondamentale sottolineare quanto l’educazione possa dunque contribuire
alla creazione di un’ipotetica “cittadinanza terrestre”.
5. Affrontare le incertezze.
6. Insegnare la comprensione Il pianeta ha bisogno in tutti i sensi di reciproche comprensioni, al
punto che Morin sostiene che sia necessaria una riforma della mentalità che educhi anche
all’incomprensione.
7. L’etica del genere umano -L’insegnamento deve far riconoscere la triplice realtà umana, così che
l’etica si formi nelle menti a partire dalla coscienza che l’uomo è allo stesso tempo individuo, parte
di una società, parte di una specie.
Sulla scorta dei presupposti filosofici del materialismo dialettico, i cardini generali dell’orientamento
pedagogico marxista possono essere rinvenuti in un collegamento dinamico e dialettico tra
educazione e società e tra teoria/prassi pedagogica e teoria/prassi rivoluzionaria, sia da un punto di
vista analitico (poiché ogni ideale formativo non può essere considerato come svincolato nè dal
sostrato socio-economico su cui si articola, né dalle pressioni ideologiche della classe dominante),
che di prospettiva d’azione, organicamente interconnessa all’emancipazione dell’uomo sul piano
individuale e sociale e, pertanto, ad una formazione “onnilaterale” e integralmente umana che sia
strumento rivoluzionario, di liberazione rispetto a qualsivoglia forma di subalternità ed alienazione.
La centralità del lavoro all’interno della pedagogia marxista, o più precisamente dell’unificazione tra
lavoro manuale ed intellettuale, abbatte la scissione patogena tra teoria e prassi, trova i propri
presupposti storico-filosofici nella “divisione del lavoro” come fondamento della divisione della
società in classi (e quindi prepara il terreno per il superamento di una tale società, e conseguentemente
per l’edificazione di un nuovo modello sociale, democratico e organizzato in modo razionale, che
permetta una reale e libera espansione delle facoltà umane), e contribuisce ad una formazione
genuinamente integrale ed integrata di ogni individuo.
Si tratta anche di una pedagogia che rifiuta lo spontaneismo e il naturalismo ingenuo, per abbracciare
la dimensione della disciplina come presupposto per la libera espressione dell’individuo e del gruppo;
come fondamento genuino di libertà basata sull’eguaglianza e sulla cooperazione, non sulla
prevaricazione altrui.
Althusser –> nella società capitalista la riproduzione dei rapporti di produzione viene assicurata
dall’esercizio del potere di stato negli apparati di stati: repressivi (governo, amministrazione…) e
ideologici (scuola, Chiesa…).
I teorici della Scuola di Francoforte criticano le forme di dominio della società capitalista, dove gli
individui vengono sottomessi dalla classi dominanti.
La teoria critica della Scuola di Francoforte ha influenzato alcuni frangenti della sinistra e del suo
pensiero (in particolare la nuova sinistra). Herbert Marcuse è spesso citato come il teorizzatore o
progenitore della nuova sinistra. Nel suo libro L’uomo a una dimensione (titolo originale: One-
Dimensional Man: Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society) Herbert Marcuse, in cui
l’autore propone una critica ad ampio raggio sia del capitalismo contemporaneo che della società
comunista dell’Unione Sovietica, documentando l’ascesa parallela di nuove forme di repressione
sociale in entrambe queste società, così come il declino del potenziale rivoluzionario in Occidente.
Ciò si traduce in un universo “unidimensionale” di pensiero e comportamento, in cui l’attitudine e
l’abilità per il pensiero critico e il comportamento di opposizione si allontanano. Contro questo clima
prevalente, Marcuse promuove il “grande rifiuto” (descritto a lungo nel libro) come l’unica
opposizione adeguata ai metodi onnicomprensivi di controllo.
Gran parte del libro è una difesa del “pensiero negativo” come forza dirompente contro il positivismo
prevalente.
L’identità è un crocevia e dipende dalla classe sociale e dalle possibilità che l’ambiente culturale e
sociale offre al bambino ed al ragazzo. Mentre altri pedagogisti si limitano all’individuale, Makarenko
fa della pedagogia strumento eminentemente politico, una lotta di potere e per il potere, bisogna
educare i ragazzi a rivendicare i loro diritti sociali. Perché l’uomo è sì natura, ma anche storia.
Non si dà problema dell’individuo che si esaurisca nei suoi termini individuali. Senza esserne
un passivo o scontato epifenomeno, l’individuo chiama in causa il sociale. I suoi problemi
possono essere segnali di un disagio più grande. Contrario al progetto educativo descritto
nell’Emilio di Jean-Jacques Rousseau e, quindi, all’educazione libera e spontanea sostenuta da alcuni
pensatori e pedagoghi impegnati all’indomani della rivoluzione nelle iniziative d’istruzione popolare
e di educazione rivoluzionaria, Makarenko ritiene che la mancanza di una prospettiva e di uno scopo
sociale nel programma educativo, sebbene dialogico e flessibile, porti solo alla ricerca individuale,
all’assenza di spirito collettivo e alla perdita del senso di fratellanza e solidarietà umana. Per questo
motivo l’educazione è il processo di socializzazione dell’uomo, che deve avere luogo dentro il
“collettivo”.
Il fondamento della pedagogia di Makarenko è il seguente: l’educazione alla lotta.
Nei primi decenni del Novecento, il pedagogista sovietico Makarenko voleva realizzare nella
Repubblica dei Soviet la formazione dell’homo novus necessario alla costruzione del socialismo.
Per Makarenko la vita singola acquista valore e completezza se l’uomo partecipa all’edificazione di
una valida vita sociale, e che quest’ultima, a sua volta, prospera e si fortifica solo se riesce a
compenetrarsi con l’agire individuale.
Da tutte queste premesse, Makarenko costruisce le sue colonie ponendo al centro il lavoro
organizzato e associato. Intanto perché esso risponde al nuovo programma politico del governo di
Mosca e dall’altro perché contiene quegli elementi di solidarietà e di coesione sociale necessari per
affrontare la drammatica situazione seguita alla guerra civile.
L’esperienza delle colonie e delle comuni per ragazzi in stato di abbandono proseguirà anche nel
lavoro successivo di edificazione del socialismo, sia nella fase della Nep sia in quella del primo
periodo della pianificazione e del primo piano quinquennale (pjatiletka). Quella stagione sarebbe
presto finita, come gli studiosi sanno, ma le opere che Makarenko ha ricavato da quella
straordinaria esperienza restano per sempre una mirabile testimonianza umana, sociale e politica.
Le richieste sono un segno di fiducia verso i ragazzi, che si liberano nell’attività pratica e mentale
delle loro precedenti condizioni d’inferiorità e subalternità, dandosi delle nuove prospettive da
raggiungere, assaporando la gioia della conquista. Un sistema che è risultato potentemente efficace
nei collettivi diretti da Makarenko, e che non esclude la famiglia dell’educando.
Attraverso l’applicazione, in ambito familiare, del sistema delle “linee prospettiche”, il maestro
sprona i genitori a guardare e traguardare la prospettiva sociale, lo scopo sociale: “Non state
educando i figli soltanto per la vostra gioia di genitori (…) su di loro ricade la responsabilità
morale dello sviluppo del futuro cittadino. (…) La vostra attività nella società e nel lavoro deve
riflettersi anche nella famiglia; la vostra famiglia deve mostrare il proprio volto politico e civile, e
non separarlo dal volto di genitore”.
L’eredità che ci ha lasciato Makarenko è l’idea della lotta dell’uomo contro gli errori e i pregiudizi,
della possibilità che egli ha di creare da sé il futuro, per mezzo del collettivo e del lavoro produttivo.
Un’idea che rende Makarenko il più autorevole rappresentante di quella che può essere definita una
“pedagogia della praxis”. Il lavoro produttivo è la componente essenziale della sua concezione
pedagogica rivolta al recupero dei ragazzi difficili, finalizzata alla formazione dell’uomo nuovo per
contribuire alla costruzione della società socialista e per essere partecipe e protagonista dello
slancio e del processo rivoluzionari.
Nel progetto di Anton Semenovic Makarenko e nell’esperienza delle colonie e delle comuni, il
lavoro non è fine a se stesso, strumento per impiegare e fare trascorrere il tempo, espediente per
tenere occupati i ragazzi distogliendoli dall’ozio, ma assume i caratteri di una vera e propria attività
produttiva. Il lavoro è il mezzo per creare beni materiali e, quindi, ricchezza, nel senso socialista del
termine.
Ecco, dunque, il progetto per la coltivazione di terreni agricoli o per costruire macchine fotografiche
e altri beni materiali, attuato dai ragazzi anche con l’aiuto di collaboratori esperti. Nasce una
contabilità dettagliata dei costi di produzione per ciascun prodotto finito, confrontata con quella di
aziende similari per essere competitivi, accanto ai prezzi praticati nella vendita alle società
commerciali. Si crea un circuito virtuoso di emulazione nell’organizzazione del lavoro e nella
produttività, secondo l’espressione moderna, che vede entusiasti e protagonisti responsabili i
ragazzi delle colonie, sotto la vigile guida del direttore delle strutture, ovvero dello stesso
Makarenko.
Alcuni di questi giovani passeranno alla rabfak (facoltà operaia), costituendo il primo nucleo di una
schiera di migliaia di ex delinquenti e vagabondi che diventeranno intellettuali, insegnanti, soldati e
medici. Quasi tutti gli educandi si salveranno e si svilupperanno come lavoratori e cittadini.
Certo l’esperienza di Makarenko – così come ogni esperienza educativa “di frontiera” – avviene
entro uno specifico contesto pedagogico, che non consente facili soluzioni e rassicurazioni date da
assetti ripetitivi, standardizzati. Bisogna ogni volta provare che le cose funzionino. E non in astratto,
ma nel migliore modo possibile ed entro le “condizioni date”. Non c’è modo di pensare ad un
metodo alternativo, semplicemente perché le circostanze non lo consentono. Chi opera deve
costantemente ricercare, sperimentare.
La ricerca spontanea dell’educando si fa ricerca razionale della propria autonomia e libertà solo se
acquisita gradualmente nel contatto sociale, nello scontro/incontro dialettico di posizioni e idealità
anche diverse. Il cammino e le modalità d’apprendimento possono trovare concretezza nell’accorto
equilibrio tra ciò che la società esige e ciò che l’individuo può dare.
Il puerocentrismo e la pedagogia del “laissez faire”, assurti a mito, creano percorsi educativi
senza obiettivi sicuri e senza precisi traguardi.
La palingesi comunista implica che il ragazzo deve comprendere e accettare il superamento delle
posizioni individualistiche (“non è un male l’abbandono di piccoli privilegi e il sacrificio di fare
cose diverse da quelle che si vorrebbero, in caso di bisogno”) e, contemporaneamente, l’educatore
deve infondergli massima stima e fiducia nelle sue forze e possibilità.
Il ragazzo va, inoltre, educato verso obiettivi che puntino alla costruzione di un mondo, dove gli
uomini siano in grado di stabilire un rapporto armonico tra la realtà della natura e quella umana.
Questo ideale di società può avverarsi anche su questa terra, a patto che si alimenti nelle nuove
generazioni l’ottimismo nella costruzione del futuro. Questo ottimismo, che può e deve basarsi sui
lati positivi dell’uomo, sulla sua intelligenza, creatività e sulla sua socialità come punti di partenza,
non è tuttavia senza condizioni.
E se dalla teoria si passa alla pratica e si osservano attentamente la pedagogia sociale di Elena
Radlinska, di O. Decroly, i settlements di Sciaski e via via ovunque si possa realizzare questo
postulato fondamentale: scuola ed educazione non devono mai isolarsi dalla vita.
Le peculiarità della “pedagogia della lotta” non si basano sulla nuova tesi educativa di Makarenko,
ma sulla scala dei compiti che spettano ai giovani. Il Poema Pedagogico non è, tuttavia, solo una
“grande narrazione” dell’educazione nella sua versione estrema. In qualche modo travalica il campo
di azione proprio di chi si occupa in particolare delle persone più escluse e più deboli. E investe tutto
il mondo educativo.
Nel passato recente, il paradigma didattico makarenkiano è stato valido punto di riferimento per Don
Bosco, per la Scuola di Barbiana di don Lorenzo Milani e per le straordinarie esperienze di Paulo
Freire in alcuni paesi dell’America latina.
1. il dispositivo pedagogico
2. la scuola come microfisica dei poteri
3. la cura di sè come pedagogia
Allo stesso modo, come studiato dalle ricerche che si sono concentrate sugli stili comunicativi e di
insegnamento, i ruoli, le relazioni e il sistema di controllo educativo sono determinati dai modi con
cui l’insegnante distribuisce i tempi dedicati alle varie attività, agli interventi verbali di adulti e
ragazzi, così come dalle modalità con cui modula e alterna la comunicazione di tipo burocratico o di
tipo personale.
La riflessione di Foucault sull’educazione è presente nel testo 1975 Surveiller et punir.
Naissance de la prison e, in particolare, la terza parte dedicata alla “disciplina”. Prima di
analizzare la posizione foucaultiana è bene sgombrare il campo da un equivoco.
Foucault utilizza con una certa predisposizione alla generalizzazione i termini pedagogia,
educazione, sistema educativo, sistema scolastico. Essi, senza dubbio, appartengono allo
stesso orizzonte semantico. È opportuno tuttavia distinguere con chiarezza, in una maniera
certo criticabile ma che appare funzionale (excusatio non petita…), pedagogia e sistemi
educativi.
Tale controllo del dettaglio comporta una diversa concezione dello spazio, articolato in modo
da permettere una presa del potere sul singolo corpo. Tale nuova formulazione dello spazio
in un senso analitico, che funziona mediante una serie di regole (clausura-quadrillage-
ubicazioni funzionali-unità di rango), è evidente nello spazio disciplinare che costituisce i
collegi e le scuole nella Francia del XVIII secolo: la classe rappresenta lo spazio disciplinare
per eccellenza. Attraverso la costruzione di uno spazio seriale, che poneva il maestro nelle
condizioni di controllare contemporaneamente ogni allievo, il corpo dell’allievo viene
catturato in una fitta rete di dispositivi “microfisici” che lo modellano
Intendiamo con pedagogia «la trasmissione di una verità che ha la funzione di dotare un
soggetto qualunque di attitudini, di capacità, di saperi, e così via, che in precedenza non
possedeva, e che al termine di tale rapporto pedagogico dovrà invece possedere».
Il problema della pedagogia stricto sensu occuperà l’ultima fase del pensiero di Foucault,
dedicata alla analisi delle forme di soggettivazione e al tema antico della cura di sé. Il primo
Foucault dedica piuttosto una serie di riflessioni ai sistemi educativi, tant’è che potremmo
avanzare l’ipotesi che le fasi del pensiero foucaultiano si articolino, anche ma certamente
non solo, intorno allo slittamento dai sistemi educativi alle pratiche pedagogiche. Intendiamo
con sistema educativo una qualunque istituzione (caserma, fabbrica e per quello che
interessa al nostro discorso soprattutto scuola) i cui metodi di funzionamento permettano «il
controllo minuzioso delle operazioni del corpo»: i sistemi educativi sono, in questo senso,
procedimenti disciplinari e la disciplina altro non è che una fabbrica di «corpi sottomessi ed
esercitati, corpi docili», dove per corpo docile Foucault intende «un corpo che può essere
sottomesso, che può essere utilizzato, che può essere trasformato e perfezionato».
È proprio nei collegi e nelle scuole elementari che Foucault individua il primo terreno di
coltura di questa nuova tecnica politica che nel momento stesso in cui massimizza in termini
utilitaristici le potenzialità del corpo, ne diminuisce le potenzialità resistenti rendendoli
obbedienti. In questa nuova tecnologia del corpo, che sostituisce storicamente il supplizio
(il corpo mostrato) e la punizione (il corpo torturato), è in atto quella che Foucault definirà
felicemente una “microfisica del potere, una sorta di ossessiva razionalità nell’uso dei corpi
modellata sul dettaglio: «Una minuziosa osservazione del dettaglio e, nello stesso tempo,
un’assunzione politica delle piccole cose, per il controllo e l’utilizzazione degli uomini,
percorrono l’età classica, portando con sé tutto un insieme di tecniche, tutto un corpus di
procedimenti e di sapere, di descrizioni, di ricette e di dati».
Cos’è un dispositivo pedagogico? Cosa significa pensare la formazione come un dispositivo? Quali
conseguenze ha sulla teoria e sulle pratiche formative ripensare lo spazio, il tempo, il corpo e la cura
come dimensioni fondamentali dell’esperienza? Il discorso che fa fronte a queste interrogazioni ha
un debito verso il pensiero di Michel Foucault.
La ricerca espone cosa Foucault ci ha aiutato a pensare e cosa ha cambiato del nostro modo di agire.
Foucault parla di dispositivo pedagogico, di cosa significa pensare la formazione come un
dispositivo?
Quali conseguenze ha sulla teoria e sulle pratiche formative ripensare lo spazio, il tempo, il corpo e
la cura come dimensioni fondamentali dell’esperienza? Qual è la posizione del soggetto, che forma e
che si forma, rispetto a questo dispositivo?
Il discorso che fa fronte a queste interrogazioni ha un debito verso il pensiero di Michel Foucault, si
può parlare di una vera e propria teoria della formazione. A partire dal campo di forze aperto
dall’esperienza formativa, che cosa Foucault ci ha aiutato a pensare e che cosa ha cambiato del nostro
modo di agire. La scuola come luogo dell’assoggettamento e dell’obbedienza.La scuola dunque si
definisce come un dispositivo di distribuzione spaziale dei corpi, che ricevono il loro statuto dalla
loro collocazione, in modo da essere facilmente controllabili, premiabili, punibili, dal maestro.
Insomma, lo spazio scolare non è soltanto «una macchina per apprendere», bensì anche e soprattutto
«per sorvegliare, gerarchizzare, ricompensare». Tale ripartizione micrologica dei corpi nello spazio
permette quell’operazione di massimizzazione dell’utile che è l’obbiettivo ultimo delle procedure
disciplinari e, soprattutto, una educazione del corpo dello studente necessaria alla massimizzazione
delle sue potenzialità e contemporaneamente alla sua obbedienza.
Queste ricerche e questa nuova prospettiva contestualistica conducono anche agli studi di
Levy dell’Unesco, alle indicazioni dell’OECD del 1992 sulla riforma del curricolo, in funzione
di una nuova attenzione al contesto culturale e alla necessità di pluralismo in questo settore;
in Italia alle ricerche di Carugati e alle proposte di Canevaro. In quest’ottica, usando le parole
di L. Galliani, l’azione didattica verrebbe intesa come “organizzazione sistemica delle
azioni formative dell’insegnare” finalizzate “all’ottimizzazione dei processi di
apprendimento”.
Goffman indica che la vita è un teatro, dove il comportamento individuale è interpretabile alla luce
dell’ampio contesto sottostante all’interazione simbolica faccia a faccia.
1. l’apprendimento esperienziale
2. il cambiamento individuale e sociale
3. lo sviluppo di carriera
4. la formazione professionale
Per David Kolb si ricorda il modello del Learning cycle (in realtà un concetto del già ricordato Kurt
Lewin Vedi Concetto ed Audio-lezione sulla ricerca -azione). Il concetto della circolarità
dell’informazione fonda principalmente la sua teoria.
L’apprendimento secondo Kolb è circolare.
Nel 1985 ha fondato un istituto di ricerca sull’apprendimento esperienziale (Experience Based
Systems Learning) e dal 1991 insegna Comportamento Organizzativo nell’Università di Cleveland.
Da ciò ne deriva il suo learning cycle, il quale non solo delinea le fasi dell’apprendimento
esperienziale ma offre anche un modello di pratica formativa. Esso si articola in 4 fasi sequenziali:
stile adattivo/accomodante
stile divergente
stile convergente
stile assimilativo
Kolb prende spunto da Dewey (autore fondamentale dell’attivismo pedagogico) che pensava che
bisognava lavorare sul ciclo “esperienza-riflessione-apprendimento”. Secondo Dewey la conoscenza
– sia essa di tipo esperienziale o scientifico – si realizzerebbe come processo di soluzione di un
problema, di uno stato di ‘turbamento’ e giunge alla soluzione chiarificatrice attraverso l’osservazione
dei dati della realtà e l’elaborazione di ipotesi.
Dagli studi di Piaget, invece, mutua l’importanza dell’interazione dell’uomo con l’ambiente che
indurrebbe schemi di azione e modelli mentali, in un processo continuo di assimilazione e
adattamento reciproci
Da Lewin, invece, eredita il concetto di interdipendenza, tipico dei processi di apprendimento di tipo
sociale. Secondo Lewin, infatti, vi sarebbe un rapporto di interdipendenza tra i membri del gruppo
che modifica, adattandole, le azioni dei singoli e del gruppo stesso e che tende ad uno stato di
equilibrio delle forze di disaggregazione.
Kolb arriva, così, ad elaborare il suo noto modello conoscitivo del learning cycle (fig. 1), in cui ogni
anello della spirale presenta quattro fasi distinte in ogni ciclo:
esperienza concreta: l’individuo è coinvolgimento pienamente nella percezione e nella
sperimentazione dei dati dell’esperienza;
osservazione riflessiva: l’individuo attiva un’osservazione sulla realtà, di tipo riflessivo in quanto ne
favorisce una prima concettualizzazione operativa;
concettualizzazione astratta: sulla concettualizzazione precedente l’individuo elabora ulteriori
astrazioni che permettono di inferire relazioni di funzionamento;
sperimentazione attiva: l’individuo è ormai in grado di produrre concetti esplicativi e teorie di azione
sull’esperienza che, come un nuovo livello di conoscenza, potranno sempre essere testati ancora una
volta dall’esperienza concreta.
lo stile divergente (diverger), di chi predilige l’esperienza concreta e l’osservazione riflessiva, di chi
possiede capacità di immaginazione e di generazione di idee ed è in grado, per questo, di organizzare
la complessità delle relazioni in una visione sistemica;
lo stile convergente (converger), chi propende per la concettualizzazione astratta e la sperimentazione
attiva e processi di ragionamento deduttivi e, per questo, capace di lavorare per obiettivi pratici
attraverso procedure di soluzione di tipo analitico;
lo stile accomodante (accomodator), di chi nel processo di apprendimento predilige la sperimentazione
attiva e l’esperienza concreta, di chi risolvere i problemi in modo intuitivo e immediato e sa gestire le
emergenze;
lo stile assimilativo (assimilator), di chi predilige le fasi dell’osservazione riflessiva e della
concettualizzazione astratta, chi possiede capacità di modellizzazione teorica, opta per processi
induttivi di ragionamento.
I CONVERGENTI sviluppano solitamente abilità nell’applicazione pratica delle idee. Sono orientati
all’azione e propendono per la messa in pratica delle idee il più rapidamente possibile. Una
discussione troppo lunga e con molte variabili rischia di renderli impazienti. Questo stile è stato
definito “convergente” perché risponde al profilo di una persona che si trova a suo agio in quelle
situazioni in cui si converge verso una singola opzione (o verso un numero limitato di opzioni). Si
tratta di un profilo efficiente nell’operatività ma rigido che apprende per prove ed errori e predilige,
di conseguenza, un ambiente che favorisce la sperimentazione e non penalizza gli sbagli.
I DIVERGENTI hanno delle strategie opposte a quelle che caratterizzano lo stile convergente.
Preferiscono l’esperienza concreta e l’osservazione riflessiva, sono interessati alle persone e
investono molto sul piano relazionale ed emotivo. Sono sempre alla ricerca di ulteriori
approfondimenti e significati ed hanno solitamente interessi vari e interdisciplinari. Hanno maggiore
facilità ad uscire dagli
schemi e necessitano di dialogo e generazione di idee alternative.
Gli ASSIMILATORI sono abili nella sistematizzazione dei concetti e nell’elaborazione di modelli
teorici costruiti attraverso ragionamenti induttivi. Assimilano le conoscenze raccogliendo dati e
informazioni. Sono obiettivi, razionali e logici e manifestano un forte orientamento al compito e un
basso orientamento alla relazione. Il loro eloquio è logico e razionale. Individuano l’esperto come
figura di riferimento in ottica di apprendimento.
Tale modello prevede un processo di apprendimento di tipo circolare, basato su cinque momenti
caratteristici.
Utilizzando in classe questo modello bisogna iniziare un problema aperto, sfidante, nuovo e che gli
studenti non hanno mai affrontato in precedenza. Un problema che permette non una sola soluzione,
ma più soluzioni, ognuna delle quali presenta punti di forza e punti di debolezza.
La tabella seguente illustra la corrispondenza tra lo schema di Pfeiffer e Jones e quello di Le Boterf.
3. Analisi 3a. Concettualizzazione o Cosa ho fatto “giusto”? Cosa ho sbagliato? Quali sono i
modellazione. punti di forza del mio lavoro? Quali sono i punti di
Formalizzazione degli schemi- debolezza?
modelli.
Il momento di analisi è il momento in cui l’allievo valuta
la propria esperienza, riflettendo su di essa.
5. Applicazione 4. Ritorno alla messa in Adesso che devo rifare la stessa cosa, come la faccio?
pratica. Ricontestualizzazione
di schemi-modelli, anche con
Nel momento di applicazione l’allievo viene chiamato a
apporti
ricontestualizzare in una nuova situazione-problema,
di conoscenze teoriche, nuovi
quanto ha decontestualizzato nella fase di
concetti ed esperienze altrui.
generalizzazione, utilizzando i costrutti, vecchi e nuovi, dal
lui prodotti per delineare un nuovo piano di azione, che poi
testerà in una successiva fase di esperienza (da qui la
ciclicità del processo). E’ questo il momento della
responsabilizzazione e della concretezza: l’allievo ritorna
sul già fatto per dimostrare che ora può farlo meglio, per
acquisire consapevolezza dello scarto tra le sue
competenze all’inizio del processo, prima della fase di
esperienza, e al termine dello stesso quando una nuova fase
di esperienza sta per iniziare.
1. Tratti cardinali: hanno l’influenza fondamentale e determinante sulla personalità e sul comportamento
– decisivi
2. Tratti centrali: sono quelli che colgono l’essenza di un individuo, parti caratteristiche ed influenzano
buona parte del nostro comportamento;
3. Tratti secondari: sono estremamente specifici, e sono legati anche alla crescita e si manifestano solo
in circostanze particolari.
Fondamentali i suoi successivi studi sul pregiudizio, secondo processi di categorizzazione e
di generalizzazione.
La definizione data da Allport è la seguente:
⇒ Tramite il primo, l’essere umano seleziona ed organizza le differenti realtà che lo circondano; con
il secondo, invece, l’uomo tende ad attribuire ad eventi di tipo generale dei significati derivanti dalle
poche osservazioni effettuate sugli eventi disponibili.
Questi due processi evidenziano la limitatezza funzionale della mente umana, e producono
valutazioni di tipo errato (“bias“) che possono portare, talvolta, all’etichettamento (labelling) degli
individui.
Inoltre la definizione stessa dei comportamenti da stigmatizzare (reati, o anche atti non penalmente
rilevanti come il consumo di droghe), sarebbe influenzata dal diverso potere di influire sull’opinione
pubblica e sulle leggi detenuto dagli strati più agiati.
Ma pensiamolo nella scuola: se convinciamo un ragazzo che non è portato per l’italiano, o la
matematica, per tutta la vita gli mettiamo in testa di non avere attitudini per tali materie.
Di conseguenza la reazione sociale non è attivata in maniera uguale per tutti i tipi di reato, ma è più
severa e dannosa nei confronti della microcriminalità e dei reati associati alle minoranze, ai poveri,
ai presunti recidivi o a chi ha un determinato aspetto.
Le persone e le comunità sia a livello singolo sia a livello di immaginario sociale si fanno
condizionare da immagini sociali che hanno poi effetti psicologici. I processi mentali condizionano
le dinamiche sociali, e viceversa. Tutta la produzione intellettuale di Moscovici sarà dedicata proprio
alla riabilitazione delle conoscenze di senso comune, che pervadono la nostra esperienza ordinaria, il
nostro linguaggio di ogni giorno così come le nostre pratiche quotidiane.
1. persona
2. sistema
3. processo.
Tali sistemi di interazione, che compongono la totalità dell’ambiente ecologico di cui fa parte
il bambino, si riconoscono nelle strutture denominate microsistema, mesosistema,
esosistema e macrosistema.
Gli altri due sistemi non vedono la partecipazione attiva della persona che cresce, ma hanno
un’influenza indiretta su di lei.
L’esosistema è costituito dalle strutture ambientali di cui l’individuo non può far parte, ma
che tramite una sequenza di tipo causale influenzano prima il microsistema e poi il processo
evolutivo del bambino, infine il macrosistema è costituito dalla cultura che produce i sistemi.
Esso mette in movimento tutti i sistemi che lo compongono fino al livello della persona
singola.
Il bios Bronfenbrenner, con il suo “modello ecologico” (Ecological systems theory), intende
l’ambiente di sviluppo del bambino come una serie di cerchi concentrici, legati tra loro da
relazioni.
La pedagogia degli oppressi. Il problem posing contro il modello della banking education in Freire
Quando gli insegnanti mettono in pratica l’educazione secondo il problem-posing, si avvicinano agli
apprendenti quali compagni dialoganti, il che crea un’atmosfera di umiltà e di fiducia. Invece di essere
visto il docente come qualcuno che impone dei problemi agli studenti, problemi spesso senza senso
pratico, il problem posing li spinge a trovare soluzione a partire da problemi concreti.
Il problem-posing si collega ad un metodo d’insegnamento che sottolinea l’importanza del pensiero
critico per affrancarsi. Il problem posing contro il modello della banking education in Freire
Era stato Freire usò tale metodo quale alternativa all’educazione secondo il modello educativo
tradizionale o banking education, secondo cui chi apprende è un contenitore da riempire con le
conoscenze.
Paulo Freire parla del modello di istruzione bancario ( portoghese : modelo bancário de educação)
per descrivere e criticare il sistema educativo tradizionale. Il nome fa riferimento alla metafora degli
studenti come contenitori in cui gli educatori devono mettere la conoscenza. Contro la teoria della
trasmissione della conoscenze, per cui gli studenti erano solo riceventi, come delle banche che
raccogliessero informazioni, ora invece è diverso.
Freire ha sostenuto che questo modello rafforza la mancanza di pensiero critico e di proprietà della
conoscenza negli studenti, il che a sua volta rafforza l’ oppressione , in contrasto con la comprensione
di Freire della conoscenza come risultato di un processo creativo umano. Contro questo modello egli
propone il problem solving.
Paulo Freire, oggi ricordato in modo particolare per aver introdotto i concetti di problem
posing all’interno del processo/progetto educativo, ha contribuito a una filosofia dell’educazione
proveniente non solo dal più classico approccio riferito a Platone, ma anche dai pensatori moderni
marxisti e anticolonialisti.
Di fatto, in diversi modi la sua “pedagogia degli oppressi” può essere meglio letta come
un’estensione o una risposta a I dannati della Terra di Frantz Fanon, che poneva una forte enfasi sulla
necessità di fornire ai popoli nativi un’educazione che fosse, al tempo stesso, nuova e moderna,
piuttosto che tradizionale, e anticoloniale (cioè, che non fosse semplicemente un’estensione della
cultura del colonizzatore).
Bateson ed il deutero-apprendimento
La pedagogia degli oppressi. Il problem posing contro il modello
della banking education in Freire
Con il metodo problem-posing si chiede allo studente di essere egli stesso a porre il problema.
Rispetto alla didattica tradizionale, dove il docente diceva e poneva un problema che poi lo studente
doveva risolvere, questa volta il docente dice allo studente di essere egli stesso a formulare un
problema. Poniti un problema e magari lo risolviamo insieme, oppure in una peer-education costruisci
un problema che poi a risolvere dovrà essere il tuo amico di classe.
Quando gli insegnanti mettono in pratica l’educazione secondo il problem-posing, si avvicinano agli
apprendenti quali compagni dialoganti, il che crea un’atmosfera di umiltà e di fiducia. Invece di essere
visto il docente come qualcuno che impone dei problemi agli studenti, problemi spesso senza senso
pratico, il problem posing li spinge a trovare soluzione a partire da problemi concreti.
Il problem-posing si collega ad un metodo d’insegnamento che sottolinea l’importanza del pensiero
critico per affrancarsi. Il problem posing contro il modello della banking education in Freire
Era stato Freire usò tale metodo quale alternativa all’educazione secondo il modello educativo
tradizionale o banking education, secondo cui chi apprende è un contenitore da riempire con le
conoscenze.
Paulo Freire parla del modello di istruzione bancario ( portoghese : modelo bancário de educação)
per descrivere e criticare il sistema educativo tradizionale. Il nome fa riferimento alla metafora degli
studenti come contenitori in cui gli educatori devono mettere la conoscenza. Contro la teoria della
trasmissione della conoscenze, per cui gli studenti erano solo riceventi, come delle banche che
raccogliessero informazioni, ora invece è diverso.
Freire ha sostenuto che questo modello rafforza la mancanza di pensiero critico e di proprietà della
conoscenza negli studenti, il che a sua volta rafforza l’ oppressione , in contrasto con la comprensione
di Freire della conoscenza come risultato di un processo creativo umano. Contro questo modello egli
propone il problem solving.
Paulo Freire, oggi ricordato in modo particolare per aver introdotto i concetti di problem
posing all’interno del processo/progetto educativo, ha contribuito a una filosofia dell’educazione
proveniente non solo dal più classico approccio riferito a Platone, ma anche dai pensatori moderni
marxisti e anticolonialisti.
Di fatto, in diversi modi la sua “pedagogia degli oppressi” può essere meglio letta come
un’estensione o una risposta a I dannati della Terra di Frantz Fanon, che poneva una forte enfasi sulla
necessità di fornire ai popoli nativi un’educazione che fosse, al tempo stesso, nuova e moderna,
piuttosto che tradizionale, e anticoloniale (cioè, che non fosse semplicemente un’estensione della
cultura del colonizzatore).
Per Elio Damiano ci deve essere una ⇒ Mediazione Didattica, teorizzata da Damiano, cioè una
regolazione della distanza tra i contenuti culturali da trasmettere e i soggetti in apprendimento, tra la
struttura logica dei contenuti e la struttura psicologica dei soggetti in apprendimento.
Questa mediazione deve comportare una forma di meta-forizzazione della realtà, una meta-
forizzazione attraverso la quale la realtà di cui si parla (es. bosco) viene sostituita con dei simulati
allo scopo di facilitare l’apprendimento.
Tra i due intercorre un rapporto probabilistico. Ci deve essere una disponibilità ad apprendere,
responsabilità sia dell’insegnante sia dell’allievo. I meccanismi di simulazione e di semplificazione
che quindi rientrano all’interno di questa mediazione didattica rappresentano allo stesso tempo un
punto di forza e un punto di criticità per l’istituzione scolastica formale: di forza perché possono
rappresentare condizioni facilitanti l’apprendimento e costituiscono una peculiarità dell’ambiente
scolastico di potersi collocare tra parentesi rispetto alla realtà; di criticità in quanto tale
distanziamento dalla realtà costituisce un rischio per la scuola, un pericolo di autoreferenzialità e di
separazione.
La dimensione metodologica diventa quindi, secondo Damiano, il campo su cui si può ragionare sui
metodi comunicativi per collegare i soggetti in apprendimento con gli oggetti di apprendimento:
Ha studiato i processi educativi in studenti con disturbi più o meno gravi con situazioni di vita
marginali e che non riescono ad adattarsi ai normali canoni di convivenza civile.
Situazioni di vita evolutiva, sempre più diffuse, dove la sofferenza personale e sociale e il disturbo
individuale possono tramutarsi, se non sorretti da un’azione educativa capace e competente, in
disadattamento o in devianza.
D’Alonso ha sviluppato il concetto dell’attuale “normalità” della presenza, in diversi contesti, del
soggetto con disabilità e con problemi pone alla nostra attenzione un elemento di riflessione.
La pedagogia speciale può rispondere a questa esigenza e merita di essere assunta alla base di ogni
percorso di formazione dei formatori. Di più: può contribuire a nutrire la cultura dell’attenzione alla
persona più debole, la sola in grado di portare benefici duraturi per tutti coloro che, a causa di
condizioni esogene ed endogene, non riescono a stare al passo con i ritmi cognitivi e le esigenze di
un mondo sempre più complesso e difficile. Per preparare alla vita non basta l’amore, ma occorre,
unita ad esso, la competenza.
Numerosi sono i libri ed i manuali di D’Alonso per cui richiamiamo ad una ricerca in rete o nei
principali siti di vendita di testi online, qui Origine Concorsi vuole ricordare il rapporto tra didattica
speciale e tecnologie dell’informazione e della comunicazione, e con la cosiddetta Media
EDUCATION in una prospettiva di didattica inclusiva; le nuove tecnologie didattiche necessarie
soddisfare i bisogni particolari degli allievi assumono oggi un’importanza decisiva nelle scuole dove
stanno esplodendo le problematiche personali.
Per MEDIA EDUCATION s’intende un’attività educativa e didattica, finalizzata a sviluppare nei
giovani una informazione e comprensione critica circa la natura e le categorie dei media, le tecniche
da loro impiegate per costruire messaggi e produrre senso, i generi e i linguaggi specifici.
A livello pedagogico generale e come proposta possiamo dire che lo sfondo integratore è anche
uno sfondo istituzionale. Consiste nell’organizzazione degli elementi dell’ambiente di
apprendimento (risorse, spazi, materiali, tempi) e nell’utilizzo di elementi mediatori o organizzatori
delle attività (in linea con la pedagogia istituzionale). Canevero parla di didattica per sfondi e di
progettare con la metodologia del contesto integratore.
La programmazione dei percorsi didattici per sfondi integratori sorge prevalentemente dall’esigenza
di integrare nei programmi scolastici gli alunni “diversamente abili”, di favorire la loro integrazione.
Infatti ha avuto molta diffusione nella scuola dell’infanzia.
Inserendo i vari ostacoli che gli alunni all’interno di uno “sfondo” comune e a loro famigliare (che
può essere un medium, come i social network o la radio) permette a questi ultimi di combattere la
dissonanza cognitiva verso l’ostacolo, e così di affrontarlo e superarlo. La programmazione per sfondi
integratori è elastica ed aperta a contaminazioni da altre metodologie.
Prospettiva storica
Lo sfondo integratore è:
Secondo Rogers le persone sane sono aperte mentalmente verso nuove esperienze, vivono
liberamente ogni momento e sono in grado di ascoltare sia se stessi che gli altri perseguendo i propri
bisogni o obiettivi.
Il pensiero di Carl Rogers era in netto contrasto con quello psicoanalitico, egli fu il primo a
considerare la natura umana come una capacità innata volta al raggiungimento e al mantenimento
della salute e dell’autoregolazione.
Partendo da questo presupposto, rifiutò il termine paziente, poiché lo considerava viziato dal concetto
di malattia e lo sostituì con il termine “Cliente”. Rogers dunque partiva dal presupposto che non
esiste una malattia mentale da curare ma tutti possiamo incappare in momenti difficili da affrontare
e per questo, grazie alle risorse personali, è possibile superare questi stati liberamente. I problemi che
possono verificarsi durante l’arco della vita derivano da una distorsione della tendenza attualizzante
e lo scopo è ripristinare questa funzione ciclica e continuativa.
Rogers sostiene che bisogna superare il pessimismo antropologico Freudiano secondo il quale
l’uomo risponde agli impulsi non razionali e guardare come il comportamento è dato da un naturale
fluire di stadi. Infatti, il comportamento umano è razionale ed è determinato dagli obiettivi che ognuno
si prefigge di raggiungere. Lo scopo della psicoterapia dunque è quello di consentire alla tendenza
attualizzante di agire liberamente, eliminando gli ostacoli che impediscono l’autorealizzazione della
persona.
L’individuo possiede in se stesso le risorse necessarie per guarire e per questo è esso stesso a dover
lavorare in terapia. Per queste ragioni, la psicoterapia rogersiana si definisce “centrata sul cliente”.
La terapia centrata sul cliente è determinata dalla relazione che si instaura tra terapeuta e cliente.
Secondo tale approccio lo psicoterapeuta non possiede delle tecniche di intervento protocollari e per
questo è libero di interagire con l’individualità del cliente.
Non-direttività: la relazione che si instaura tra terapeuta e cliente è di tipo paritetica, il terapeuta
incita il cliente a utilizzare le sue risorse personali per individuare una soluzione al problema
presentato.
Empatia: affinché la relazione possa portare a dei risultati è necessario che il terapeuta vesta i panni
del cliente e tenti di vedere il mondo con i suoi occhi, abbandonando i propri schemi personali.
Accettazione: il terapeuta accetta i pensieri e i comportamenti del cliente in maniera incondizionata e
per questo ascolta attivamente e senza mettere in atto pregiudizi.
La terapia centrata sul cliente è particolarmente indicata nei casi in cui non si riesca a entrare in
contatto con le proprie esperienze e a riconoscere le proprie emozioni. Si determina in questo modo
una sorta di conflitto interiore e inautenticità, che porta la persona a non essere pienamente se stessa
nella relazione.
Carl Rogers definisce questo stato “incongruenza”, che non permette all’individuo di crescere
positivamente o di effettuare le proprie scelte in maniera ottimale.
La terapia centrata sul cliente ha come obiettivo l’aprirsi liberamente all’altro in maniera autentica.
Inoltre, attraverso tale processo terapeutico è possibile comprendere empaticamente come l’altro
costruisce il proprio rapporto con se stesso, gli altri, il mondo.
Questo concetto rappresenta la base dell’epistemologia della Psicoterapia Centrata sul Cliente e
della sua pratica psicoterapeutica. In riferimento alla terapia centrata sulla persona di C. Rogers, le
tre condizioni necessarie per una buona relazione d’aiuto sono l’empatia, l’accettazione positiva
incondizionata dell’altro e l’autenticità
Se il non ottiene nella fase di crescita un’accettazione incondizionata (cioè viene amato per chi è e
non rifiutato perchè non si comporta secondo un modello presente nella mente dei genitori) allora il
suo Sè crescerà su basi sicure.
L’individuo sa di avere già del buono e i miglioramenti saranno misurati e raggiungibili. Se da
bambino il suo comportamento non è mai stato abbastanza, anche da adulto tenderà ad Ideale
irraggiungibile che causerà sofferenza.
Voi, che Ideale avete?
(si veda anche ⇒ Martin Buber ed i tre tipi di dialogo).
-
Martin Buber ed i tre tipi di dialogo
Sono gli atteggiamenti e i sentimenti del docente, piuttosto che i suoi orientamenti teorici, ad
essere importanti nella relazione educativa. È la percezione che ne ha lo studente, ad essere cruciale
per la riuscita della relazione educativa. Se negarsi come persona, e trattare l’altro come un oggetto,
non ha probabilità di portare alcun aiuto, ne consegue che l’insegnante dovrà porsi alcuni problemi:
sono tale da essere percepito dall’altro degno di fiducia e leale nel senso più profondo del
termine?
sono così espressivo da comunicare i miei reali stati d’animo, belli o brutti, in modo
inequivocabile? Ovvero occorre accettare di essere quello che si è e lasciarlo trasparire
all’altro.
posso permettermi di sperimentare per un altro essere umano calore, simpatia, interesse,
rispetto? Posso farmi coinvolgere senza scuotere la mia sicurezza?
sono abbastanza forte da non essere distrutto dalla sua ira, lusingato dal suo bisogno di
dipendenza, asservito dal suo amore?
sono abbastanza sicuro di me da permettere all’altro di essere da me distinto, di essere quello
che è, oppure sento che dovrebbe seguire i miei consigli, rimanere dipendente da me,
modellarsi su di me?
posso permettermi di non valutare?
posso riconoscere l’altro come un essere umano impegnato in un processo in divenire anziché
ancorarlo al suo o al mio passato?
Occorre “confermare” l’altro come una persona che vive (Martin Buber), ponendosi in un
rapporto Io-Tu e non in uno del tipo Io-Esso (l’altro da sè inteso come oggetto manipolabile).
Dice Martin Buber nel chiedersi in che modo può aversi una genuina vita interumana. Distingue tre
tipi di dialogo:
1. il dialogo autentico – non importa se parlato o silenzioso – in cui ciascuno dei partecipanti
intende l’altro nella sua esistenza e particolarità, e gli si rivolge con l’intento di fa nascere tra
loro una vivente reciprocità;
2. il dialogo tecnico, proposto solo dal bisogno dell’intesa oggettiva;
3. il monologo travestito da dialogo, in cui gli uomini parlano solo per se stessi. Due uomini,
la cui vita sia dominata da apparenze, seduti a chiacchierare tra loro. C’è Pietro, così come
egli desidera apparire a Paolo, e Paolo come egli desidera apparire a Pietro. Poi c’è Pietro così
come egli appare realmente a Paolo, vale a dire l’immagine che Paolo ha di Pietro. Inoltre c’è
Pietro così come egli appare a se stesso, e Paolo così come egli appare a se stesso. Infine ci
sono il Pietro corporeo e il Paolo corporeo: due esseri viventi e sei apparizioni-fantasma che
si mescolano in molti modi nel corso della conversazione tra i due.
La relazione è reciprocanza: i discepoli contribuiscono alla nostra formazione, bambini e animali ci
educano. Il bambino che stringe l’orsacchiotto di pelo, dice Buber, entra in rapporto con l’altro-da-
sè, e non si tratta di fantasia (dar anima a tutto, mondo magico) ma istinto: l’oggetto che non è vivente
è simbolo, riceve “vita” dalla pienezza del bambino. La relazione è la categoria, l’a priori dell’essere,
il Tu innato. Se l’Esso si può ordinare (connessione spaziale, temporale, causale), per il Tu lo spazio
è altro: il tempo è il processo, la durata è puramente intensiva, la forza non è dovuta a una causa ma
a un′ interazione con l’Io, ogni misura e confronto scompaiono.
Occorre occuparsi e aver cura non dell’altra persona ma della propria, del volere: il Tu mi si fa
incontro ma Io entro nella relazione con lui, vengo scelto e scelgo, passione e azione.
La relazione non si può insegnare: è accettazione del presente. Il buon maestro (Budda) non vuole
mostrare un’opinione ma la via: il significato della vita non si può indicare e determinare, non vuole
essere
chiarito ma attuato in questa vita, in questo mondo: la conferma del significato ricevuto è nell’
unicità del proprio essere, della propria vita.
Non è avvicinandoci agli altri a dire loro “dovete conoscere questo, dovete compiere quest’altro”, ma
solo andare e recare la nostra testimonianza, perché la relazione può essere solo attuata. Ancora una
volta si delinea come la precondizione per facilitare la crescita altrui come persone distinte è data
dalla crescita che ho raggiunto in me: è la qualità dell’incontro interpersonale con l’altro
l’elemento più significativo nel determinare l’efficacia e la riuscita tanto della psicoterapia che
dell’insegnamento o dell’assistenza sociale.
Da una serie di ricerche emerge che:
1. sono gli atteggiamenti del docente, l’atmosfera psicologica in gran parte da lui creata, che
provocano realmente le modificazioni che daranno vita a uno sviluppo produttivo della personalità;
2. valutando precocemente un rapporto, possiamo prevederne uno sviluppo costruttivo con lo
studente;
3. un rapporto interpersonale non adeguato può avere un effetto negativo sull’evoluzione della
personalità.
L’esperienza dell’ascolto e della presenza rende più nutriente il nostro modo di essere al mondo
e di vivere le relazioni non soltanto professionali ma anche personali.
Della comprensione empatica abbiamo già parlato. Per quanto riguarda, invece, l’autenticità o
congruenza, va detto che l’apertura fiduciosa dell’apprendente verso l’insegnante può avvenire a
condizione che quest’ultimo manifesti un comportamento comprensivo autentico, cioè costante
nel tempo e coerente, in modo da produrre sicurezza emotiva.
L’insegnante, pur non lesinando rimproveri quando sono necessari, deve sempre manifestare agli
alunni la sua fiducia nella loro capacità di agire bene (considerazione positiva incondizionata).
Per chiarire ulteriormente le caratteristiche del ruolo educativo dell’insegnante ricordiamo che la
capacità di porsi in ascolto ed essere comprensivi deve accompagnarsi:
all’assertività educativa;
all’autorevolezza;
alla capacità di contenimento del gruppo classe in un contesto di regole e di impegni.
Il decentramento è funzionale all’accoglienza e all’individuazione dei bisogni formativi degli alunni,
non va confuso con un atteggiamento passivo, volto ad assecondare i loro desideri. Ciò che gli alunni
desiderano non coincide quasi mai con ciò di cui hanno bisogno.
Se volessimo fare leva sui desideri degli alunni, ci troveremmo di fronte ad un sicuro fallimento
educativo. L’insegnante, dunque, deve individuare i bisogni educativi di ognuno, guidare con
fermezza verso il loro perseguimento e sostenere i suoi interventi con autorevolezza e non con
autoritarismo.
b. empatia;
b. attitudine all’ascolto;
Un docente attento, secondo il metodo Gordon, deve essere in possesso di alcune competenze
fondamentali:
l’ascolto attivo;
il messaggio io.
Sono delle tecniche tanto semplice quanto indispensabili per la buona comunicazione. Non si tratta
semplicemente di star zitti ed ascoltare. Chi ascolta attivamente lo fa con gli occhi, con la mente e
con il cuore e comunica a chi parla che ciò che in quel momento l’altro dice, è importante per
l’ascoltatore. L’ascolto attivo è una tecnica di empatia totale tra docente e discente. L’empatia è forse
la più importante: ci si immedesima nell’altra persona per coglierne i pensieri e gli stati d’animo.
Questo permette di condividere emotivamente la sua esperienza pur non perdendo il senso della
propria identità. L’empatia prepara, inoltre, ai valori dell’accoglienza e dell’accettazione del diverso
e dell’altro.
Gli step grazie ai quali si comunica all’interlocutore l’ascolto attivo sono 4:
Altro aspetto importante è la considerazione positiva incondizionata che indica una globale
accettazione della persona, pur nel caso in cui questa abbia valori e atteggiamenti diversi dai nostri:
in questo caso l’interlocutore non verrà giudicato e quel che eventualmente si metterà in discussione
non sarà tanto la persona quanto piuttosto il suo comportamento.
Infine non da meno la congruenza con se stessi. Ciò non significa assumere un atteggiamento
difensivo quanto piuttosto agire in maniera tale da riflettere quel che si sente dentro.
L’ascolto attivo si attua attraverso domande aperte volte a mostrare attenzione e interesse per favorire
l’apertura dell’alunno, la restituzione dei sentimenti e delle emozioni che esprime, la sospensione del
giudizio personale per evitare la chiusura. Lavorare in direzione delle competenze empatiche a livello
scolastico, dove gli alunni possano essere accolti nelle loro difficoltà e in cui imparino a riconoscere
le emozioni proprie e altrui, è fondamentale per contrastare condotte altamente critiche come il
bullismo e la violenza diffusa.
Gordon concorda con Rogers sulle condizioni necessario e sufficienti per facilitare lo sviluppo della
tendenza attualizzante presente in ogni persona:
1. rispetto, empatia e congruenza
⇒ per apprenderle in modo efficace e sceglie un training e una metodologia didattica fortemente
strutturata.
AUDIOLEZIONI
Karl Rogers – Approccio, idee, proposta didattica
Karl Rogers – La terapia centrata sul cliente
TRACCIA DI CONCORSO
Un nuovo obiettivo dell’istruzione: lo studente autononomo
Il processo educativo dovrebbe promuovere, secondo Rogers, la facilitazione all’apprendimento e
renderli autonomi il più possibile. L’attività educativa che ha luogo in ambito scolastico ha diversi
obiettivi, all’ interno dei quali l’apprendimento dei contenuti disciplinari ne rappresenta solo una
parte.
La natura di tali obiettivi può dipendere da vari fattori (storici, culturali, sociali, economici); per le
società democratiche Carl Rogers (1989) propone un approccio all’istruzione basato, appunto, su un
obiettivo educativo di tipo democratico. Secondo tale approccio, i sistemi educativi dovrebbero
contribuire alla formazione di cittadini consapevoli e responsabili, in grado di prendere decisioni in
autonomia e di partecipare e contribuire attivamente alla vita collettiva della società di appartenenza.
In tale contesto, la principale finalità delle istituzioni scolastiche dovrebbe essere quella di offrire agli
studenti il supporto necessario al pieno sviluppo delle proprie potenzialità, nel rispetto delle loro
caratteristiche psicologiche e di personalità e delle loro convinzioni e opinioni sociali, culturali e
religiose.
Strategie meta cognitive, conoscenza del modo in cui si sviluppa l’apprendimento nelle diverse
discipline e sviluppo di un atteggiamento motivato rispetto all’ apprendimento andrebbero tenuti in
considerazione nella riflessione relativa agli obiettivi dell’istruzione, che dovrebbe essere ampliata
per includere i vari aspetti cognitivi, psicologici, esperienziali ed emozionali che contraddistinguono
il processo di apprendimento.
Molto spesso il dibattito sulla funzione delle istituzioni scolastiche porta a chiedersi quale sia
l’obiettivo principale dell’istruzione, soprattutto in un contesto storico-culturale in continuo e rapido
mutamento come quello attuale: la tecnologia diventa velocemente obsoleta; l’economia si trasforma
rapidamente, e ciò che funziona oggi può non essere più efficace domani; la società muta e si evolve,
non senza scontri e contrapposizioni interne.
Che cosa può offrire la scuola a bambini e ragazzi? Di quali strumenti dotarli per affrontare un
futuro che non siamo in grado di definire con certezza?
La stessa capacità di ascolto e comprensione esercitata dal docente può, secondo lo psicologo
americano, maturare all’interno del gruppo degli allievi, grazie all’esercizio di determinati strumenti.
Ad esempio il “gruppo di incontro” rappresenta uno spazio e un tempo in cui gli alunni, riuniti
insieme, possano godere della libertà di esprimersi e di ascoltare. Strumenti di questo tipo, volti
all’espressione della propria affettività e all’accettazione del mondo emotivo altrui, sono indicati da
Rogers come una chance di rinnovamento per il sistema scolastico.
La vita della scuola può rappresentare un fattore di piacere per un l’allievo che sia incoraggiato e
sostenuto, orientato a un’autovalutazione e non motivato dal timore della valutazione altrui. Le abilità
dell’alunno possono essere scoperte e sviluppate in autonomia, in una costruzione progressiva del
senso di fiducia in se stesso, e in un clima di libertà interiore conquistata quotidianamente. Un
apprendimento generato in tali condizioni si rifletterà nella capacità esistenziale di pensare e agire in
modo autonomo, di manifestarsi nella propria vera essenza e nella possibilità di scegliere. È questo
il traguardo della scuola nuova che Rogers ritiene debba ancora davvero realizzarsi.
A partire da questi quesiti si possono sviluppare alcune riflessioni come piccolo spunto per ampliare
il dibattito educativo e psicologico.
La dimensione meta cognitiva sembra avere un ruolo rilevante nel processo e nei risultati di
apprendimento.
Friso, Palladino e Cornoldi (2006) hanno sottolineato che abilità meta cognitive e prestazione
di apprendimento si influenzano reciprocamente, per cui maggiori competenze in ambito meta
cognitivo portano a risultati di apprendimento migliori e progressi nell’apprendimento
contribuiscono all’acquisizione di abilità meta cognitive sempre più articolate ed efficaci.
Le opinioni che le persone sviluppano in relazione all’apprendimento e al modo in cui si forma la
conoscenza sono stati definite “credenze epistemologiche”.
Vi sono delle strutture di opinioni emergono quattro dimensioni fondamentali, che consentono di
sviluppare delle spiegazioni informali riguardanti il livello di certezza della conoscenza (se la
conoscenza è certa in assoluto oppure se assume valore relativo in determinati contesti), la semplicità
della conoscenza (se la conoscenza consta di concetti isolati oppure presenta una struttura più
complessa e articolata), la fonte della conoscenza (se la conoscenza deve essere divulgata da
un’autorità, da individui ritenuti esperti oppure se può essere co-costruita) e giustificazione della
conoscenza.
Tali gruppi di credenze hanno impatto sul processo di apprendimento, favorendolo o ostacolandolo:
un esempio molto noto è quello per cui le credenze relative all’apprendimento della matematica
sembrano influenzare le prestazioni accademiche relative a questa disciplina e lo sviluppo di abilità
di problem solving (Leder, Pehkonen, Töner, 2006). Se si ritiene che per riuscire in matematica sia
indispensabile possedere una certa dose di “talento innato” e che, senza di questo, qualsiasi sforzo
cognitivo sia inutile, esperienze che fanno ritenere di “non essere portati” per la materia
influenzeranno l’attività formativa e ridimensioneranno gli obiettivi di apprendimento.
Infine, la motivazione all’ apprendimento include un insieme di aspetti relativi all’ esperienza
individuale nell’ apprendimento (De Beni e Moé, 2000): tale complessa struttura cognitiva,
psicologica ed emozionale definisce la direzione e l’intensità dei comportamenti di
apprendimento che vengono messi in atto. Non si può quindi ridurre la motivazione a “avere più o
meno voglia di imparare”, ma va considerata la complessità degli aspetti che vi entrano in gioco,
legati alle passate esperienze, agli obiettivi educativi che si perseguono, alle credenze
epistemologiche sviluppate, alla percezione della propria efficacia come individuo in grado di
apprendere in specifiche aree di conoscenza.
La dimensione motivazionale rivolta all’ apprendimento si struttura a partire da tutte queste
dimensioni e risente, inoltre, di elementi legati al contesto di apprendimento o istruzione e alle
relazione o scambio sociale all’ interno della classe, tra compagni e tra studente e
docente. Proprio per questi aspetti, lo studente “svogliato” non dovrebbe essere considerato
colpevole di mancanza di buona volontà, ma andrebbero ricercate le cause sottostanti che hanno
contribuito allo stabilizzarsi di un atteggiamento di disimpegno.
Per concludere questa breve riflessione, l’attività formativa offerta dalla scuola non dovrebbe
esaurirsi nella mera trasmissione di conoscenze. In un contesto in rapida evoluzione e di fronte
ad un futuro, per certi aspetti, alquanto imprevedibile, è possibile ipotizzare l’importanza di
favorire, in ogni studente e nel rispetto delle sue caratteristiche personali, lo sviluppo di abilità
che gli o le consentano di raggiungere una condizione di autonomia nell’ apprendimento.