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Metodologia e tecnologie didattiche – Lezione I (2/11/2017)

Il programma è incentrato su cinque punti:


1. I fondamenti epistemologici e metodologico-procedurali della didattica e della pedagogia
sperimentale, in particolare le metodologie progettuali;
2. L’analisi dei principali metodi di insegnamento-apprendimento nella scuola secondaria, che si
dividono in due:
a. Metodi attivi e cooperativi
b. Metodi laboratoriali e transmediali
3. L’analisi delle tecniche e delle tecnologie educative in ambito scolastico;
4. La docimologia (l’aspetto valutativo, lo studio dei sistemi di valutazione delle prove di verifica)
e la sperimentazione educativa;
5. Le principali tecnologie didattiche per l’educazione inclusiva, con riferimento alle tecnologie
compensative, che hanno la funzione di facilitare e possono riguardare coloro che hanno
disturbi per l’apprendimento (bes).
Il manuale è Agire didattico di Rivoltella e Rossi, legato anche al sito nuovadidattica.lascuolaconvoi.
L’esame sarà basato sui contenuti di questo manuale ed è un esame a risposta multipla.

Che cos’è la didattica e in che rapporto è con la pedagogia?


Didattica viene da didassi, che è l’azione dell’insegnamento, ed è la scienza dell’insegnamento. E’ una
disciplina che sistematizza le pratiche dell’insegnamento e si serve dell’aiuto irrinunciabile della
pedagogia e della psicologia.
Si parla di didattica tutte le volte che parliamo di come si insegna, con quali strumenti, del processo
che attiviamo perché i contenuti dell’educazione diventino elemento disponibile per
l’apprendimento dell’allievo.
Laeng (1989) definisce la didattica come “scienza e arte dell’insegnamento”, proponendo la visione
pedagogica di un ragazzo che non è un recipiente da riempire, una tabula rasa da scrivere, ma un
uomo da promuovere, un uomo da formare attraverso l’insegnamento. E’ una concezione umanistica
dell’insegnamento, imperniata sulla relazione educativa insegnante-allievo di tipo dialogico, in cui il
modello comunicativo non è unilaterale ma circolare. C’è uno scambio di saperi da parte di entrambi
i soggetti, in base al quale sono entrambi a formarsi ed educarsi.
Il padre fondatore della didattica è Comenio (1592 – 1670), pastore dell’Unione dei Fratelli Boemi e
autore della Didactica Magna (1657), che per primo parlò dell’importanza di un sistema di istruzione
che realizzi il processo educativo e l’intenzionalità pedagogica. Il principio fondante del suo impianto
teorico è tripartito, definito omnes, omnia, omnino. Omnes significava che l’azione educativa tramite
l’insegnamento doveva essere rivolta a tutti, a chiunque, senza distinzioni di ceto, ricchezza, etnia,
genere. Tale insegnamento non deve escludere nessun sapere (omnia) e il metodo deve essere
universale e per gradi, graduale (omnino). Il soggetto, per Comenio, deve apprendere in maniera
spontanea e piacevole, bisogna sollecitare il soggetto che apprende, non imporre lui il sapere.
L’obiettivo è quello di un apprendimento attraverso un moto spontaneo. Compito dell’insegnante è
dunque quello di creare le condizioni utili perché si verifichi questo moto spontaneo. Comenio mette
l’accento sull’insegnamento come strumento dello sviluppo della persona. Inoltre Comenio nella sua
opera ritiene tranquillamente possibile l’educazione per le persone con disabilità.
Seconda figura centrale per la didattica è Johann Friedrich Herbart (1776 – 1841), filosofo e
pedagogista tedesco. Per la prima volta Herbart distingue fra istruzione ed insegnamento, dove
istruzione è l’educatio, ovvero il plasmare il carattere guardando al miglioramento dell’uomo, mentre
l’insegnamento è l’instructio, ovvero le conoscenze utili per realizzare il progetto educativo del
miglioramento dell’uomo. Crea così un nuovo paradigma di pensiero, in cui le teorie sviluppate
nell’ambito dell’istruzione devono tradursi in modelli pratici nell’ambito dell’insegnamento.
Istruzione e insegnamento sono interdipendenti. Il concetto di insegnare è subordinato al concetto
di istruire, l’insegnamento deve essere lo specchio pratico dell’educazione teorizzata.
Da questa base alcuni esempi di differenti teorie della didattica e loro risvolto pratico:

Teoria idealistico-gentiliana, che nella prassi è centrata sull’insegnante e sull’insegnamento,


su come l’insegnante riesce ad insegnare;
Teoria positivistico-sperimentalista, attenta all’elaborazione di tecniche di insegnamento
sempre più raffinate, rigorose e convalidate sperimentalmente;
Teoria attivistica, che, contrariamente a quella idealistico-gentiliana, vede il suo centro
nell’allievo, nella sua partecipazione diretta e attiva di chi apprende, nell’ apprendimento
spontaneo, nel lavoro di gruppo e nella socializzazione (condividere quanto appreso in reti
significative per chi apprende);
Teoria strutturalista-cognitivista, attenta all’avvicinamento progressivo, “a spirale”, della
struttura evolutiva della mente con la struttura delle discipline di studio, punta sulla didattica
delle discipline, ovvero insegnando ogni disciplina secondo la didattica che le è propria;
Teoria comportamentistico-tecnologica, che propone il primato dell’istruzione programmata
e di “tecnologie dell’istruzione” a supporto delle tecniche didattiche.

Per comprendere a fondo la natura del sapere didattico bisogna chiedersi cosa il soggetto sta
apprendendo, come lo sta apprendendo e che relazione c’è fra l’insegnamento e l’apprendimento.
La funzione dell’insegnamento carica l’insegnante del compito di creare le condizioni che favoriscano
l’apprendimento del soggetto alunno e il suo sviluppo personale mentre apprende. Si parla di
progettare ambienti didattici favorevoli all’apprendimento. La didattica esamina tutte le variabili che
intervengono nell’insegnamento e nel corrispettivo apprendimento. Vuole delineare i
comportamenti del docente che risultano più idonei a creare le condizioni ottimali in cui il
discente/allievo/studente possa oggettivamente (ovvero essere nella condizione realistica di)
apprendere.
Cosa significa apprendere? Far proprio un contenuto, rielaborarlo, posizionarlo all’interno di un
elemento che costituisca la propria identità. Quindi no sapere fotocopia, quel sapere che viene dato
e restituito così come è stato dato. Il sapere che viene fornito al soggetto deve essere lavorato da
questo con tutte le sue risorse, deve sistematizzarlo nella rappresentazione di sé. Bisogna che questo
sapere sia trasformativo. Nell’ottica dell’apprendimento possiamo definire la didattica come un
ambito conoscitivo che si occupa criticamente della costruzione/allestimento, del consolidamento e
della valutazione di ambienti di apprendimento. Per far ciò bisogna essere dotati di capacità
progettuali, capire i bisogni e le esigenze degli allievi, valutare le risorse a nostra disposizione. Bisogna
essere in grado di rendere attuativo l’apprendimento. Nella progettazione didattica si deve però fare
anche i conti, bisogna fare i conti con i vincoli progettuali (di diversi tipi, come culturali, tecnologici,
legislativi, ecc.), in base ai quali si devono adattare i progetti didattici. La progettazione didattica è
l’azione quotidiana dell’insegnante e del docente e dunque l’insegnamento non deve essere
trasmissivo, ma finalizzato ad un autentico apprendimento. Va inteso non come mera tecnica, ma
come processo costante, che si adatti alle situazioni. L’insegnamento si preoccupa di creare lo
studentig, ovvero le mediazioni ed i mezzi per fare del soggetto uno studente.
La didattica è sia scolastica che extrascolastica. Nella progettazione didattica bisogna tenere conto
anche delle risorse extrascolastiche presenti sul territorio, come associazioni culturali, istituzioni
culturali, ecc.
Che relazione esiste fra didattica, pedagogia e psicologia? Psicologia si occupa del come l’essere
umano apprende, dei processi di apprendimento, e questo può aiutare la progettazione didattica. La
didattica sta nel mezzo tra la psicologia/neuroscienze e la pedagogia, quindi può e deve usare le
nozioni scientifiche sulle modalità di apprendimento per migliorare la prassi didattica attraverso cui
sviluppa l’educazione.
Modelli didattici che influenzano la prassi, la didattica ha rimodulato le proprie prassi sulla base degli
stimoli che arrivavano dalle diverse teorie sull’apprendimento. Le diverse interpretazioni teoriche
dell’apprendimento umano possono essere aggruppate in tre categorie (da L. Guerra), a cui
corrispondono poi nella prassi dei modelli didattici:
1. Apprendimento per “esecuzione”, è legato alle teorie comportamentiste dell’apprendimento,
sul modello stimolo-risposta (o condizionamento operante strumentale), per cui il soggetto
apprende per reazione quando viene sottoposto ad uno stimolo esterno e quindi si crea anche
una sorta di automatismo. L’apprendimento diventa una risposta reattiva ad uno stimolo,
dunque secondo questa teoria l’insegnante deve creare lo stimolo. La critica a questo modello
è legata al fatto che il soggetto è poco coinvolto, non è attivo, reagisce in automatico, non c’è
un interesse verso quell’esperienza di apprendimento e non c’è il coinvolgimento. E’ un
processo che agisce soprattutto sulla memoria, poggia sulla disponibilità mnemonica del
soggetto (le tecniche di apprendimento mnemonico sono le prime utilizzate dai bambini) e
privilegia la quantità rispetto alla qualità nell’apprendimento. La qualità nell’apprendimento
è data dai saperi nuovi che l’allievo è riuscito a creare attraverso gli insegnamenti che il
docente ha fornito e dipende quindi dal processo di rielaborazione dell’allievo, non dalla
semplice memoria. Apprendimento è quando un soggetto può usare i saperi apprese in un
contesto diverso da quelli in cui li ha acquisiti, cosa che necessità di una dimensione
elaborativa non prevista dal modello comportamentista.

2. Apprendimento per “scoperta”, legato alla Gestalt, alla teoria della forma, che chiama in causa
il coinvolgimento del soggetto che apprende. Il soggetto si orienta verso i suoi interessi propri
e apprende a partire dai suoi interessi propri. E’ la curiosità che mette il soggetto in condizioni
di ricercare contenuti e saperi funzionali a soddisfare il suo interesse, la sua curiosità iniziale.
In questo modello il soggetto apprende attraverso l’esperienza diretta, non attraverso la
trasmissione orale di un sapere e la lettura di un libro. Apprende quando riesce a
problematizzare, a trovare le correlazioni (che presuppongono l’essersi fatti delle domande)
fra i diversi oggetti dell’esperienza dell’apprendimento. La prassi didattica collegata a questo
apprendimento è quella laboratoriale, dove esiste un oggetto da scomporre e su cui riflettere,
e del lavoro di gruppo. In questo modello di apprendimento entra in gioco il vissuto
dell’alunno, la sua componente emozionale. L’insegnante deve fornire agli allievi un metodo
che permetta loro di apprendere attraverso l’esperienza e la scoperta personale e deve
valutare i processi di apprendimento dell’allievo, non le sole nozioni.

3. Apprendimento per “costruzione”, che si basa su metodi quali il cooperative learning, la


comunità di pratiche e la didattica laboratoriale.
a. Il cooperative learning è un insieme di tecniche di conduzione della classe, mediante
le quali gli studenti attivano una serie di processi articolati a livello cognitivo che
permettono loro di acquisire competenze specifiche. Di fronte ad un problema posto
dall’insegnante (il quale non interviene all’interno del gruppo di lavoro ma può fornire
preventivamente alcuni vincoli per l’organizzazione del gruppo e per il rapporto del
gruppo con l’insegnante stesso) lavorano in totale autonomia in piccoli gruppi,
permettendo lo scambio fra pari, la condivisone dei saperi e lo sviluppo delle
competenze trasversali (ovvero quelle di organizzazione e gestione del gruppo)
secondo il criterio dell’interdipendenza positiva. L’interdipendenza positiva si realizza
quando all’interno del gruppo si risolve un problema con il contributo reale ed
effettivo di tutti i membri del gruppo, tutti devono partecipare alla risoluzione del
problema. Ciò comporta che i gruppi siano eterogenei in modo da avere competenze
diversificate, ognuno ha compiti e fornisce apporti differenziati, secondo i criteri di
autonomia e responsabilità individuale verso il gruppo, intesa non tanto come dovere,
quando come capacità di dare risposta, cosa che rende il problem solving (per il
ministero competenza chiave di cittadinanza) una competenza chiave necessaria in
questo metodo. E’ un sistema che viene sperimentato con successo con finalità
inclusiva e di integrazione di tutte le persone con difficoltà e disabilità all’interno della
classe. All’interno del gruppo inoltre si abbassa il livello di specialismo del linguaggio e
si cerca un linguaggio che possa permettere la partecipazione di tutto il gruppo.
L’efficacia del cooperative learning può essere compresa meglio alla luce della teoria
dell’apprendimento di Vygotskij, quella della zona di sviluppo prossimale. Questa zona
consiste in quel processo di apprendimento che un soggetto attiva quando messo in
relazione con un altro soggetto più capace del primo soggetto e in cui il primo soggetto
vede non solo una guida ma anche e soprattutto il sostegno necessario ad esporsi ad
una conoscenza nuova, ad affrontare un compito nuovo che ancora non sa svolgere
in autonomia. Tuttavia la zona di sviluppo prossimale non è infinita, quindi il soggetto,
anche con un secondo soggetto più capace, non può essere esposto a compiti troppo
complessi, ma è necessaria una progettazione graduale della complessità.

Gruppo di cooperative learning Gruppi tradizionali


Interdipendenza positiva alta. Interdipendenza positiva inesistente.
Eterogeneità di competenze. Omogeneità di competenze.
Leadership condivisa e distribuita, il Leadership singola.
leader può variare in base alle necessità
del gruppo, che è quello che decide di
volta in volta chi sia il leader.
La leadership condivisa si ha quando nel
gruppo c’è una informazione circolare.
Attenzione al compito da svolgere e alla Attenzione al solo compito da svolgere,
relazione da creare, quindi la leadership il lavoro deve essere svolto nel minor
deve essere attenta non tanto alla tempo possibile e con la maggior
velocità di esecuzione quanto al efficienza. Quindi l’organizzazione è
mantenimento dell’armonia e delle improntata alla funzionalità e non
buone relazioni nel gruppo. C’è all’armonia di gruppo. L’obiettivo è
attenzione al proprio benessere e unicamente la migliore esecuzione nella
piacevolezza di gruppo. migliore tempistica. Nessuna attenzione
al benessere del gruppo, quindi gruppo
caratterizzato da alti livelli di stress.
Sviluppo consapevole di competenze Competenze sociali date per scontate,
sociali e relazionali (competenze chiave sono prerequisito per lavorare in questo
di cittadinanza). Queste competenze tipo di gruppo, altrimenti il gruppo non
sociali sono cinque: è in condizione di lavorare.
1. comunicative
2. di leadership
3. di soluzione mediata dei conflitti
4. di soluzione dei problemi
5. decisionali

Valutazione di gruppo e valutazione Valutazione unica di gruppo, sul


individuale di ciascuno. E’ importante prodotto del gruppo, non sulle sue
come il gruppo lavora, non solo il modalità di lavoro.
risultato. E’ un approccio didattico
metacognitivo, in cui ci si interroga su
cosa si sta facendo e come lo si sta
facendo.

Qual è il procedimento più o meno standard da seguire per proporre a livello pratico
l’approccio didattico cooperativo? In primo luogo l’insegnante deve mettere a fuoco
una situazione problematica, circoscrivere ad un problema il lavoro che vuole fare e
mettere quel problema/domanda al centro dell’attività. Quindi procede a capire come
organizzare il compito e a come organizzare i gruppi, elaborando un lavoro che
richieda sia studio individuale che di gruppo. Deve stabilire quale analisi dei processi e
quale valutazione dei risultati adottare e infine capire quanto e se è possibile ripetere
il ciclo dell’attività progettata per altre unità didattiche (Oggi progettiamo per unità
didattiche ed unità di apprendimento. L’unità di apprendimento è un percorso definito
che culmina raggiungimento degli obiettivi didattici, ovvero l’apprendimento di una
competenza. Le unità didattiche sono segmenti, articolazioni delle unità di
apprendimento, sono unità di apprendimento più piccole, finalizzate a sottobiettivi
didattici che poi andranno a formare la competenza finale. Le unità didattiche hanno
quindi come obiettivo formativo una parte di competenza dell’unità di
apprendimento)
Questo approccio didattico cooperativo, apparentemente idilliaco nella sua
spiegazione teorica, comporta in realtà sia dei pro che dei contro. I vantaggi sono i
seguenti:

Maggior efficacia nell’apprendimento fra pari


Costruzione sociale della conoscenza
Valorizzazione dei processi euristici
Apprendere a cooperare
Funzione indiretta del docente (il cui ruolo si esplica nella progettazione e nella
costruzione di vincoli e decisioni organizzative preliminari)
Gli elementi critici, i contro diciamo, dell’approccio didattico cooperativo sono:

Prerequisiti minimi in termini di competenze sociali, quindi i soggetti con gravi


difficoltà hanno e creano difficoltà nella gestione di questi gruppi
Equilibrio collaborazione-competizione. Quest’ultima è quasi necessaria
perché attiva il soggetto e il gruppo, tuttavia c’è il rischio che diventi agonismo,
alzando i livelli conflittuali all’interno della classe e vanificando
l’apprendimento delle competenze sociali. In caso di sviluppo dell’agonismo
l’insegnante deve chiedersi come ha progettato il lavoro di gruppo, perché di
solito il porre un obiettivo tradizionalmente premiale è ciò che fa scattare la
competizione forte
Sottovalutazione dei contenuti disciplinari
Penalizzazione dei più bravi, ridotti a peer tutoring

b. La comunità di pratiche è un altro modello, definisce un gruppo che si costituisce per


trovare comuni risposte inerenti l’esercizio del proprio lavoro. E’ un gruppo che nasce
spontaneamente ed è una organizzazione informale (quindi l’accesso è spontaneo)
all’interno di organizzazioni formali più ampi (un esempio può essere un gruppo
Facebook o un forum in cui insegnanti si ritrovano per scambiarsi informazioni). Può
generare apprendimento organizzativo e collaborativo e favorire processi di
identificazione rispetto al ruolo che rivestiamo rispetto al nostro ambiente di lavoro.
Attraverso la comunità di pratiche c’è lo scambio di buone prassi, positive, ognuno
porta la propria esperienza. La domanda da porsi è se questo modello sia applicabile
all’interno di una istituzione scolastica come modello didattico. In età adolescenziale i
ragazzi a livello extrascolastico imparano nelle comunità di pratica, perché il gruppo
dei pari è una comunità di pratica. Altre caratteristiche della comunità di pratiche
sono:
Inclusione di aspetti spesso contrapposti fra loro, come l’esplicito e il tacito
(ciò che viene dato per scontato), il codificato e il non codificato, il dire
(conoscenza) e il fare (piano operativo, azione)
Semantica comune, c’è negoziazione del significato e non codici linguistici
diversi, e repertorio condiviso di modalità di agire e prassi materiali e mentali,
le routine
Comunità, il gruppo, si lavora sugli aspetti di partecipazione, di essere dentro
a un ambiente condiviso e condivisibile al quale mi sento di appartenere, c’è il
sentire di un’impresa comune, per via del fine comune e dell’identità
professionale solitamente condivisa
Apprendimento continuo, c’è innovazione costante
Elementi fiduciari su cui si basa il tessuto di apprendimento, c’è fiducia verso
ciò che viene reciprocamente proposto
Impegno reciproco fra i membri, l’accordo a partecipare, tuttavia senza la
necessita di essere costantemente presenzialisti, non bisogna sempre essere
presenti, ma anche la partecipazione periferica è legittimata
Confini dati dagli elementi che vengono condivisi, quindi per definire una
comunità di pratiche abbiamo bisogno di definire un dominio conoscitivo,
l’argomento di interesse comune e la ragion d’essere delle comunità di
pratiche
La comunità di pratiche, tramite i continui confronti che ospita, si configura come un
induttore di apprendimento, pone il soggetto di fronte ad una continua ridefinizione
delle sue conoscenze, offre nuovi modelli e paradigmi di interpretazioni, apporto
creativo individuale che può modificare l’atteggiamento del soggetto e della comunità
stessa.
A livello scolastico i docenti e gli alunni compongono la comunità di pratiche-classe,
l’insegnante è co-autore di un progetto curricolare, condiviso con altri insegnanti, che
è un progetto comune, che richiede una strategia da costruire insieme con la classe,
che richiede la partecipazione dei singoli studenti (patto formativo/patto di
corresponsabilità).
Metodologia e tecnologie didattiche – Lezione II (9/11/2017)
Il terzo modello che si rifà all’approccio socio-costruttivista è la didattica laboratoriale, incentrata sul
laboratorio e che necessita di una progettazione. Le caratteristiche fondamentali del laboratorio
sono:

Fisicità, ovvero c’è un luogo dedicato e organizzato e una tempistica dedicata all’attività. VI
sono in questo luogo gli strumenti utili e gli oggetti e materiali dedicati.
Personalizzazione, quindi sono gli studenti stessi che possono personalizzare l’apprendimento
dei contenuti e l’organizzazione della lezione. Inoltre ogni gruppo dà vita ad un prodotto
diverso, proprio.
Collaborazione, il laboratorio non è una esperienza individuale ma una risorsa importante è
il gruppo per portare a termine il lavoro laboratoriale. Mentre lo sviluppo di gruppo è legato
ai contenuti, c’è sviluppo individuale rispetto alle competenze trasversali/relazionali e rispetto
ai processi cognitivi e metacognitivi.
Trasformazione, il laboratorio è in grado di modificare oggetti, convinzioni, pensieri. Dunque
il laboratorio è un interessante strumento didattico se ci concentriamo sulla dimensione
critica delle idee, che necessita del confronto a cui si può accedere attraverso la didattica
laboratoriale.
Originalità, la capacità di questo modello di attivare la creatività dei soggetti coinvolti, che
devono essere messi in condizione non di essere passivi, ma attivi ed autonomi
nell’esperienza didattica.
Cognitività, cioè quanto questo modello è orientato a sviluppare determinati processi
cognitivi, orientamento verso l’attività di ricerca e l’attività d’indagine (stabilire modelli
attraverso l’individuazione delle correlazione).
Sono categorie interconnesse, dipendenti l’una dall’altra, che devo rientrare tutte nella
progettazione e costruzione del laboratorio. E’ il primo vincolo progettuale di cui tenere conto. Il
secondo vincolo progettuale di un laboratorio sono spazi e tempi, bisogna pensare spazi e tempi utili
ed idonei alla modalità di conduzione del laboratorio. Quest’ultima è centrata sui gruppi ma guidata
contestualmente dall’insegnante. A differenza del cooperative learning l’insegnante c’è con funzione
di guida, di coordinamento, di supporto, di sollecitazione metacognitiva è un osservatore
partecipante, non è completamente avulso dall’esperienza didattica ma è limitato rispetto
all’esperienza della didattica frontale. Il docente deve anche agire come modello, essere un esempio,
perché vi sia un apprendimento piacevole, efficace e sicuro. La presenza del docente serve a poter
rischiare, osare, in condizioni protette. Le modalità di conduzione devono essere aperte e
caratterizzate da passi condivisi dall’insegnante e dagli alunni. I saperi e le discipline coinvolti nei
laboratori sono di solito trasversali, coinvolgono più settori, c’è tendenzialmente interdisciplinarietà.
L’obiettivo del laboratorio quindi non riguarda una sola disciplina, ma attraverso un laboratorio si può
arrivare a ottenere obiettivi formativi in più discipline. Una buona prassi sarebbe quindi quella di
confrontare i vari curricula disciplinari per tentare di intrecciarli e intercettare obiettivi formativi al
raggiungimento dei quali possano contribuire in maniera collaborativa i saperi delle diverse discipline
coinvolte. E’ questo un aspetto interessante della didattica laboratoriale, mettere assieme discipline
diverse per raggiungere un obiettivo formativo. L’azione di valutazione non è sul singolo soggetto,
ma sul prodotto del gruppo. Mentre nel cooperative learning potevamo fare una valutazione
individuale e una di gruppo, nel laboratorio sono valutati i prodotti del gruppo stesso, ma questo
perché comunque nel laboratorio l’insegnante segue più da vicino il processo.
Che tipo di apprendimento si attiva all’interno di questo modello didattico? Si parla di apprendimento
percettivo-motorio, cioè sollecitato mediante la percezione e l’azione motoria sulla realtà, con il
soggetto in apprendimento in continuo scambio fra input di tipo percettivo e output motori con
l’esterno. L’apprendimento percettivo-motorio diventa efficace se l’ambiente di apprendimento
offre tutte le condizioni utili per poter fare un’esperienza reale, cioè che stimola le sensazioni e le
percezioni del soggetto, che coinvolge il dover fare e il vivere un’esperienza, il doverci interagire. E’
una dimensione fortemente attiva che vede il soggetto partecipare con tutta la percezione a sua
disposizione. Qual è l’utilità in termini esperienziali, quale esperienza possono fare gli allievi quando
sono sottoposti a saperi lontani e cosa possono conquistare di questi saperi che sia per loro fruibile
immediatamente fuori dal contesto scolastico e all’interno del contesto scolastico stesso. Il docente
deve porsi queste domande nella progettazione didattica di un apprendimento percettivo-motorio.
Al percettivo-motorio si accompagna l’apprendimento simbolico-ricostruttivo, cioè che ciascun
studente deve decodificare i simboli e ricostruire ciò a cui questi simboli si riferiscono.
L’apprendimento simbolico-ricostruttivo durante l’esperienza motoria/di azione sulla realtà chiama
ciascun soggetto a mettere in discussione elementi simbolici che gli appartengono e a dare significato
ai nuovi elementi, a tradurli attraverso i suoi codici in maniera da poterli fare propri. Si realizza così
l’apprendimento significativo, di cui si può parlare quando tocchiamo i percorsi cognitivi della
persona stessa. Questo apprendimento, che muove una modificazione mentale, richiede un tempo
di digestione e un tempo di esperienza.
La didattica laboratoriale si muove lungo il principio dell’imparare lavorando, spesso sintetizzato in
inglese con i termini learning by doing, imparare facendo. Il soggetto non impara solo tramite
l’apprendimento teorico, ma anche e soprattutto attraverso l’esperienza dei saperi, la
sperimentazione dei saperi. Tale principio e tale didattica sono ad esempio alla base degli istituti
professionali. Questo modello facilita la personalizzazione del modello insegnamento-
apprendimento e consente agli studenti di imparare attraverso il fare, dando loro l’idea che la scuola
è il luogo dove si impara ad imparare (imparare ad imparare è una delle competenze chiave di
cittadinanza), dove si impara come imparare, dove si impara il metodo.
L’apprendimento laboratoriale ha i seguenti vantaggi:

Apprendimento significativo e autentico.


Trasferibile, si apprendono competenze spendibili in altri contesti, non solo in quello
scolastico.
Lavoro sulle metodologie e procedure, e non solo sui contenuti.
Forte impatto sulla struttura cognitiva del soggetto, perché non utilizza solo un’area
dell’intelligenza, ma cerca di utilizzarle tutte, trasversalmente.
Elementi critici sono invece:

La gestione del tempo, è un tipo di didattica che richiede molto tempo e buona organizzazione
del tempo
Rischio di frammentarietà nel fornire i contenuti.
Rischio di imitazione passiva, i soggetti meno attivi imitano passivamente quanto vedono fare
dai soggetti più attivi.
Sensazione di estraneità da parte dell’insegnante rispetto a questi nuovi metodi
Difficoltà organizzative, anche relative all’ambiente.
Parlando di didattica laboratoriale bisogna ragionare inoltre su quanto l’ambiente, il luogo fisico
incidano sul processo di apprendimento. Un determinato luogo rispetto ad un altro può sollecitare
una maggiore inclinazione all’apprendimento. E’ questa una riflessione teorica del post-
costruttivismo. L’ambiente di apprendimento viene quindi definito come il terzo docente, soprattutto
nella prospettiva dell’inclusione dei soggetti con disabilità. L’architettura, l’ambiente, l’arredo
divengono il terzo docente oltre all’insegnante e all’insegnante di sostegno. L’attenzione sugli
ambienti passa da un mutamento della nozione di contesto, che è transitata dal cognitivismo fino ad
arrivare al post-cognitivismo/post-costruzionismo. Qual è la differenza fra ambiente e contesto? Nel
cognitivismo il primo a tematizzare una teoria dell’insegnamento è Piaget (1896 – 1980) con gli stati
evolutivi dell’intelligenza di un soggetto. Piaget parla di adattamento all’ambiente come condizione
necessaria allo sviluppo di qualsiasi essere biologico, adattamento produce uno sviluppo cognitivo
per via della necessità di sopravvivere e dominare un determinato ambiente. Da qui poi derivano le
teorie comportamentiste “stimolo-risposta”. La teoria storico-culturale/socio-culturale che si rifà a
Vygotskij (1896 – 1934) va a vedere quanto, al di là dell’ambiente e dello stimolo ambientale, conti
la dimensione relazionale fra il soggetto che apprende e la figura adulta (adulta nel senso di in
possesso di più saperi) significativa con la quale il soggetto è in relazione. L’ambiente diventa quindi
il luogo dove la dimensione sociale si sviluppa, ha il proprio senso, e dunque ci si ritrova a pensare
l’ambiente sotto questa nuova luce, come una fattore che può favorire, inibire o negare la relazione
sociale e dunque l’apprendimento. Da qui l’attenzione all’ambiente. Se infatti l’apprendimento non
è solo una questione di “stimolo-risposta” ma è anche fortemente legato ad una dimensione
relazionale, bisogna curare tutto ciò che ha effetto su questa dimensione, in primis l’ambiente, il
luogo fisico.
[A questo punto della lezione vengono proiettati dei video, che la professoressa commenta in
contemporane, di situazioni scolastico-didattiche molto diverse da quelle tradizionali e che
documentano il principio dello “spazio che insegna”. Il video ci propone un luogo dell’apprendimento
è articolato in spazi specifici, ognuno con le sue funzioni: la classe, che deve essere studiata per
permettere una didattica tradizionale così come una didattica laboratoriale e di gruppo; lo spazio
individuale, in cui il soggetto che apprende riflette su ciò che ha appreso, fa ricerche in autonomia e
procede nella sua formazione individuale e personale; lo spazio informale, ovvero lo spazio per la
pausa, dedicato ad attività non strutturate, senza orario; l’agorà, lo spazio della plenaria, dove hanno
luogo eventi e presentazioni, dove vengono create occasioni di condivisione con esperti esterni e
dove i docenti danno le indicazioni generali. Il secondo video mostra il caso di un istituto tecnico di
Crema, in cui si mette in pratica l’aula 3.0, caratterizzata da strumenti digitali e conformazione
spaziale flessibile. In quest’aula non c’è la cattedra. C’è poi un’altra parte di video in cui si mostra un
caso di peer tutoring, insegnamento fra pari. In un’altra parte di video si parla di scuola 2.0. La
professoressa Baronti, commentando il video, fa notare come uno dei punti critici di questi modelli
didattici è rappresentato proprio dalla minor quantità di contenuti, mentre il punto di forza sono i
processi che queste metodologie innescano e che permetterano poi di gestire quantità di saperi
maggiori. L’obiettivo, fa notare la professoressa, è sui processi, non si apprende di più ma si apprende
meglio. Fa inoltre notare come parlare di competenza non significa limitarsi ad acquisire delle abilità
operative, non è il semplice saper fare, ma è una interazione costante fra i saperi, le conoscenze, il
saper fare e il saper essere, è acquisire degli obiettivi che siano educativi e formativi per il soggetto.
La professoressa Baronti, commentando il video, sottolinea come nella scuola 2.0 o 3.0 le nuove
tecnologie debbano diventare più di uno strumento, quindi un luogo di apprendimento ed è un
cambiamento culturale che richiede tempo. Non è l’uso dello strumento che fa la scuola digitale un
ambiente di apprendimento, bensì sono le modalità di questo uso, come viene utilizzato. Il grosso
limite dell’inserimento delle nuove tecnologie nella scuola è l’dea obsoleta che ne abbiamo come
strumenti di uso, e non la porta verso ambienti di apprendimento.]
La domanda chiava per progettare una attività didattica diversa dalla tradizionale è quanto della
propria disciplina e come si può inserire in una modalità didattica di questo tipo. Bisogna quindi
procedere ad una analisi epistemologica della disciplina, prima di impostare la progettazione della
didattica laboratoriale, del cooperative learning e altre attività. Bisogna trasformare la disciplina in
materia scolastica, con l’identificazione dei nodi (concetti, parole chiave, procedure portanti) e delle
conseguenti relazioni fra nodi, le correlazioni fra questi concetti fondanti, i legami. Quindi si procede
ad identificarne la valenza formativa e la rilevanza sociale. Svolta questa analisi preliminare, si entra
appieno nella progettazione didattica. La progettazione didattica è un percorso che gli studenti hanno
necessità di fare per raggiungere determinati obiettivi (didattici, disciplinari, formativi).La
progettazione va in forma espansiva dall’unità didattica, all’unità di apprendimento, al programma e
quindi al curriculum di studio. Gli obiettivi, di questi processi, legati alla materi sono i cosiddetti
traguardi di sviluppo.
LEZIONE 3 DI METODOLOGIE DIDATTICHE -16/11/2017-

Gli approcci laboratoriali che oggi abbiamo a disposizione sono: l'apprendistato cognitivo, la
simulazione e il learning by doing.
Quando parliamo di apprendistato cognitivo facciamo riferimento ad un modello di apprendimento
centrato su competenze cognitive complesse. Questo modello è caratterizzato dalla possibilità di
disporre di un modello esperto, ovvero si attiva l'apprendistato cognitivo a condizione che io abbia
già un modello di strategie e di procedure sulle quali poter poggiare e che mi permetta attraverso
la loro acquisizione e ripetizione di farle proprie. È un modello che verte sulla scomposizione del
compito in componenti e permette la sperimentazione da parte del soggetto di apprendimento in
ciascuna di queste componenti fino a ricollegarle l'una con l'altra; quindi la scomposizione del
compito complesso nelle componenti chiave è una funzione che facilita l'accesso alla complessità
del compito (Il termine facilitazione è una parola chiave che ritorna spesso sia manuali e nelle
indicazioni nazionali dei curricula della secondaria di I e II grado, sia in tutte le scelte metodologiche
che riguardano la didattica inclusiva. Questo termine attiene all'evoluzione di questi modelli
didattici). L'apprendistato cognitivo vede la scomposizione della complessità di un compito in parti
più semplici, ma questa scomposizione ha la finalità di facilitare l'accesso all'apprendimento anche
per soggetti per esempio con disabilità.
Un modello didattico che si rifà all'apprendistato cognitivo piuttosto che alle teorie della psicologia
dell'apprendimento di tipo cognitivo-comportamentale è il cosiddetto task analysis model, un
modello che permette di scomporre il compito (task) in sottoparti e far lavorare il soggetto con
disabilità, anche grave, su ciascuna sottoparte fino a ricomporre la sequenza, fino a far sì che la
procedura di riorganizzazione del compito complesso sia la fase finale del lavoro. L'azione didattica
consta nell'individuare il compito nella sua complessità e nel poter procedere alla sua
scomposizione.
Alla progressiva autonomia del discente si arriva nel ripetere, nel risollecitare e risollecitarsi rispetto
alle singole parti di esperienza. Il ruolo del feedback è affidato al modello esperto, che è il docente,
o anche un compagno più capace, più abile, più competente, che diventa il modello cui far
riferimento. Nel caso sia un compagno di classe parliamo anche di peer tutoring, una modalità
didattica che sfrutta la relazionalità tra pari, ma con la consapevolezza che per uno dei due ci sia un
livello di competenza più articolato o più maturo.
Le fasi dell'apprendistato cognitivo sono:
• Modeling: fornire un modello esperto che possa garantire l'esecuzione di una determinata
prestazione ed essere per il soggetto che apprende oggetto di osservazione.
• Scaffolding: l'impalcatura sulla quale il soggetto che apprende può appoggiare per esercitare
la propria competenza; impalcatura di vario tipo e generi, sia a livello cognitivo, sia a livello
emotivo, sia a livello di competenza e di saperi. È il momento nel quale l'insegnante o il
compagno utilizza la frase "ora prova tu", che consiste nel mettere il soggetto che apprende
nelle condizioni di sperimentarsi facendosi forte delle competenze e dei dispositivi dei quali
dispone, delle proprie risorse interne ed esterne, e sperimentarle rispetto alle
problematicità che può trovare durante la sperimentazione.
• Tutoring
• Fading: è l'operazione di dissolvenza del modello esperto, cioè via via la figura esperta è
sempre meno presente durante l'attività di sperimentazione di chi apprende, quindi attiva
sempre meno il proprio supporto finché il soggetto che apprende non sia completamente
autonomo nell'eseguire quel compito.
• Monitoring: è quell'azione di monitoraggio del processo, che permette all'insegnante di
fornire un feedback, di incoraggiare e di attivare quel livello metacognitivo che è il livello di
riflessività ("vediamo che cosa abbiamo fatto", "vediamo come abbiamo ragionato",
"vediamo come abbiamo svolto il compito").
Operativamente queste sono le fasi utili nella strutturazione di una unità didattica che abbia come
scelta metodologica l'apprendistato cognitivo:
• indicazione del compito e dei relativi traguardi formativi
• esecuzione del compito da parte del modello esperto
• esplicitazione dei processi logico-cognitivi e operativi richiesti dal compito
• richiesta al discente di svolgere il compito in un ambiente «protetto», cioè in un ambiente
in cui non siamo sottoposti ad una verifica, in cui ci diamo il permesso di sbagliare, ma anche
di imparare attraverso l'errore
• assistenza e sostegno allo svolgimento del compito da parte del discente
• riflessione su quanto svolto
• prosecuzione del lavoro in gruppo di discenti
• consolidamento e trasferimento della competenza.

La simulazione è un altro modello di riferimento, che consiste nel riprodurre in forma protetta
situazioni reali, cioè che attengono alla dimensione di realtà che il nostro soggetto in apprendimento
ha necessità di sperimentare, e nella situazione protetta e controllata può utilizzare e sperimentare
gli apprendimenti anche attraverso l'utilizzazione o la mediazione di modelli. Quindi si possono
avere simulazioni di vario genere:
• simulazione addestrativa: un esempio è la simulazione di volo, che permette a chi dovrà
andare a guidare un aereo di trovarsi nelle stesse difficoltà in cui si potrebbe trovare anche
in condizioni di realtà; più problematiche si verificano più possibilità ha il soggetto di
strutturare strumenti di risposta rispetto alle problematicità stesse, quindi lavora sul
problem solving e sulla competenza gestionale delle emozioni.
• giochi di ruolo: permette di sperimentare le proprie competenze e risorse strettamente
legate al ruolo in una situazione di canovaccio che viene proposta di solito dall'insegnate,
che vede coinvolti altri compagni della propria classe e la capacità maggiore o minore della
gestione di quel ruolo arriva propri dalla interazione con gli altri soggetti che simulano con il
soggetto in apprendimento, e con una fase successiva di riflessione sull'accaduto. Uno dei
cardini fondamentali di scelta del gioco di ruolo è l'intenzionalità didattica e progettuale di
lavorare sulle cosiddette soft skills, "competenze trasversali". Il gioco di ruolo è un'ottima
metodologia che mette sia i ragazzi della classe sia gli insegnanti sia i ragazzini con
problematiche comportamentali, o che utilizzano questa modalità comunicativa, in
condizioni di riflettere e di interagire direttamente e trovare soluzioni diverse, ovvero modi
e modalità di interazione diverse da quelle utilizzate fino a quel momento.
• simulazione esperienziale: è molto simile per certi aspetti alla simulazione addestrativa, o
quantomeno ne amplia gli aspetti di apprendimento. Giocare alla playstation è una
simulazione esperienziale, perché non mi trovo con un simulatore e utilizzandolo posso
mettermi in situazione di realtà con uno strumento analogo, la playstation è uno strumento
virtuale che mi presenta la possibilità di interagire in quella virtualità per tramite di un
determinato personaggio, con tutto quello che comporta la realizzazione dei compiti
richiesti al personaggio. Quindi i videogiochi corrispondono di più ad una simulazione
esperienziale che ad una simulazione addestrativa. Bisogna valutare: ci sono giochi che sono
simulazioni addestrative e giochi che invece acquisiscono il valore di simulazione
esperienziale; l'esperienza è quindi mediata dalla piattaforma del gioco. Le nuove tecnologie
diventano un elemento portante per questo tipo di metodologie, come nel caso della LIM
(una realtà virtuale 3D è ancora lontanissima dalla didattica ma la direzione è questa: potersi
trovare in simulazione attraverso una stimolazione sensoriale in una realtà virtuale; qualcosa
che mette insieme simulazione esperienziale, giochi di ruolo o addirittura la simulazione di
tipo simbolico, come quella dei simulatori matematici, dove il soggetto è stimolato a livello
sensoriale e in qualche modo alienato dalla percezione della realtà che sta vivendo al punto
che quello che accade virtualmente, quelle percezioni che riceve per stimolazione sensoriale
a livello virtuale, mettendosi dei caschi, degli occhiali o delle cuffie particolari, lo portano a
sperimentare come reale la cosiddetta realtà virtuale.).
• simulazione simbolica.
I vantaggi della simulazione sono che invece di mettere i soggetti nell'esperienza reale non ancora
autonomi e capaci di gestire quell'esperienza, e quindi di esporli ad un rischio di frustrazione così
alto dal demordere nel ritentare, li fa lavorare su modelli replicabili e resi disponibili fino al
raggiungimento dell'autonomia del soggetto rispetto a quei modelli. Il punto critico di questo
metodo didattico è che fino a oggi la costruzione di simulazioni che siano state efficaci e che possano
simulare la realtà è un'impresa difficile e costosa (ad esempio negli istituti professionali si hanno dei
laboratori come cucine e sale negli istituti alberghieri, che sono riproduzioni di come potrebbero
essere quelle reali, realizzati con l'intento di gestire in quell'ambiente gli apprendimenti acquisiti e
di acquisirne di nuovi e la dinamica relazione che questo comporta, ovviamente guidati e in assetto
protetto).

Un altro ambito è costituito dagli apprendimenti non formali e informali. Questa tipologia di
apprendimenti è fortemente legata non soltanto all'apprendimento in quanto tale ma anche agli
ambienti e ai contesti all'interno dei quali l'esperienza di apprendimento viene attivata. (Degli
apprendimenti formali fanno parte quegli apprendimenti ottenuti in ambiente formale, scuola e
formazione professionale, dove i percorsi di apprendimento sono tracciati come programmazione
degli apprendimenti e alla fine dei percorsi vengono rilasciati dei titoli e corrispondenti
certificazioni).
Per apprendimento non formale si intende quel tipo di apprendimento che è caratterizzati da una
scelta intenzione della persona e che si realizza al di fuori dei sistemi di istruzione, come accade ad
esempio negli ambienti di lavoro, in cui acquisiamo saperi e competenze perché è nostra intenzione
apprendere, ma che non faranno mai parte di un percorso formale legato ad un titolo di studio.
Nell'ambiente non viene rilasciato alcun titolo legato al percorso, possiamo tuttavia certificare quei
tipi di apprendimenti attraverso un soggetto che abbia capacità e competenze per farlo (per la
Toscana l'ente certificatore delle competenze acquisite in ambiente non formale è la Regione
Toscana). Un altro ambito non formale è quello del volontariato, all'interno del quale vengono fatti
corsi di tipo sanitario con attestato di partecipazione, che non è però il certificato di un'istituzione
scolastica che rilascia un titolo, e non è quindi spendibile altrove, ma solo operativamente.
Per apprendimento informale si intente invece quello che, a prescindere dalla scelta intenzionale,
si realizza nello svolgimento delle attività nelle situazioni quotidiane e nell'interazione che in esse
hanno luogo, quindi nell'ambito familiare, lavorativo o del tempo libero. Nella informalità dunque
trovo una strutturazione dell'ambiente, ma deputato a tutt'altro, non certo alla formazione, tuttavia
si sviluppano processi di apprendimento che abbiamo questa specificità.

Il learning by doing, cioè l'apprendere facendo, è legato alla corrente teorica dell'attivismo
pedagogico, rappresentato, per fare un nome da Dewey. Egli ci consente di comprendere che i
contesti di riferimento dove si svolgono gli apprendimenti sono contesti che vedono la necessità di
interazione del soggetto e di conseguenza, se il soggetto partecipa il contesto ha la reale possibilità
di apprendere; è quella linea di pensiero che si contrappone in maniera netta al modello trasmissivo,
quello classico visto in più occasioni fino ad oggi. L'attivismo fa riferimento al cosiddetto modello
trasformativo, cioè il soggetto interagendo con l'ambiente apprende dall'ambiente e si modifica, si
trasforma e contestualmente modifica e trasforma l'ambiente stesso. Questa interazione tra
soggetto in apprendimento e ambiente, inteso come luogo e contesto, sarà la partenza di tutta la
didattica del '900 fino a quella attuale. Il principio trasformativo è una sorta di trasformazione nel
formarsi, questo modificarsi e trasformarsi è un modificare sé e l'ambiente sulla base di processi
formativi, senza una limitazione di contesto perché la parola chiave è partecipazione attiva, senza
la quale, nell'attivismo pedagogico, non si attiva il processo di apprendimento.

Partecipazione attiva [definizione]: noi abbiamo sostanzialmente quattro livelli di partecipazione
all'esperienza di un contesto, considerando come contesto l'insieme delle relazioni situate in un
determinato luogo. C'è un primo livello per il quale sono presente e più di quello non riesco a fare,
è la modalità più defilata di partecipazione; c'è un livello ulteriore che è la condivisione delle attività
che in quel contesto vengono messe in atto, ma mi fermo alla dimensione di realizzazione del
compito; c'è un livello ulteriore che prevede invece la condivisione delle norme e degli obiettivi che
sussistono in quel contesto e ci restituiscono il modello organizzativo, quindi ci sono, partecipo le
attività e faccio mio il modello organizzativo; il modello più maturo e complesso è quello dove
all'interno della struttura condivido i passaggi già descritti ma agisco un livello trasformativo sugli
altri livelli, ad esempio c'è una norma che non ritengo giusta, la mia partecipazione dovrà arrivare
ad un livello che possa modificare quella norma secondo quanto previsto.
La partecipazione, che è naturalmente graduale, comporta apprendere il saper fare, e una
trasformazione delle azioni in routine e degli strumenti in artefatti.

Didattica metacognitiva
Ci permette di recuperare parte delle metodologie già presentate e rivisitarle in un'ottica riflessiva
e di consapevolezza.
Quando parliamo di didattica metacognitiva, all'interno dei curricula, la si trova in quella che è la
competenza chiave, imparare ad imparare.

Imparare ad imparare [definizione]: «è l'abilità di perseverare nell'apprendimento, di organizzare il
proprio apprendimento (vuol dire sapere in che modo apprendiamo, con quali risorse e con quali
tempistiche) anche attraverso una gestione del tempo e delle informazioni (vuol dire partire
dall'organizzazione dell'ambiente e fare in modo che ambiente, strumenti e risorse interne ed
esterne attivino quei processi in ottica di maggiore efficacia possibile), sia a livello individuale che di
gruppo. Questa competenza comprende la consapevolezza del proprio processo di apprendimento
e dei propri bisogni, l'identificazione delle opportunità disponibili e la capacità di sormontare gli
ostacoli, per apprendere in modo efficace. Questa competenza comporta l'acquisizione,
l'elaborazione e l'assimilazione di nuove conoscenze e nuove abilità, come la capacità di ricerca e
l'uso delle opportunità di orientamento. Il fatto di imparare a imparare fa sì che i discenti prendano
le mosse da quanto hanno appreso in precedenza e dalle loro esperienze di vita per usare e applicare
le conoscenze e le abilità in tutta una serie di contesti: a casa, sul lavoro, nell'istruzione e nella
formazione. La motivazione e la fiducia sono elementi essenziali perché una persona possa acquisire
tale competenza. Il soggetto che ha imparato ad imparare ha una conoscenza di sé, della propria
mente, del funzionamento della propria mente, e ha una serie di abilità di gestione dell'ambiente
interno ed esterno tali da poterlo esporre a qualunque tipo di apprendimento».

L'approccio didattico metacognitivo è un approccio che tiene conto dei processi di apprendimento
piuttosto che del prodotto finale, quindi non si orienta in maniera prevalente e privilegiata all'esito
del compito, come fa l'apprendistato cognitivo, ma all'osservazione, all'attivazione e al
consolidamento dei processi cognitivi che permettono l'esposizione al compito stesso, il tutto in
ottica di consapevolezza. Quindi è del tutto normale e naturale durante l'esecuzione di un compito
chiedersi "che cosa stiamo facendo?", e non è solo un "dove siamo?", ma è un "cosa la nostra mente
sta articolando per?", "come mai lo stiamo facendo?", "come sto migliorando e come posso
migliorare ancora?". Le domande hanno la funzione di contestualizzare l'apprendimento rispetto ai
bisogni del soggetto, perché sono domande che si pone il soggetto in apprendimento, così come
l'insegnante: "come mai sto scegliendo questo metodo?", "qual è l'obiettivo che voglio
raggiungere?", "quali sono i processi che voglio attivare?", "è la metodologia più adeguata rispetto
ai ragazzi con cui lavoro, e rispetto alle mie competenze e il mio sentire?". Queste domande
mostrano che il controllo del processo formativo si sposta dalle mani del docente alle mani di chi
sta apprendendo.
Le aree privilegiate sulle quali otteniamo grandi risultati quando utilizziamo questo tipo di approccio
sono: l'area della consapevolezza, la memoria, la responsabilità, intesa come capacità di darsi
risposta e non come adeguamento alle norme, il che significa anche capacità di progettare le
risposte e di individuare le risorse per pensare un tipo di risposta, l'autonomia, la condivisione, con
il resto della classe e con il docente di queste conoscenze di sé.
Gli strumenti che utilizziamo per la gestione di questo approccio sono di vario tipo e sono quattro:
• anticipatori organizzati: strumenti che permettono l'attivazione della memoria a breve
termine e permettono di recuperare in maniera rapida gli elementi che ho la necessità di
memorizzare per poi riutilizzare durante l'attività (ad esempio l'evidenziatore è uno
strumento che consente di memorizzare parole chiave a breve termine);
• l'analisi dell'errore: analisi che non viene fatta in termini valutativi ma riattraversando il
processo generativo dell'errore (è importante il percorso mentale fatto per arrivare al
risultato non il suo grado di correttezza);
• la rivisitazione: ci permette di sollecitare la memoria a lungo termine;
• l'autovalutazione.
Per gestire processi cognitivi e far sì che i nostri studenti possano avere cognizione della propria
mente dobbiamo avere presente anche quali limiti non dobbiamo valicare, pena la non attivazione
dei processi stessi; uno di questi limiti è il cosiddetto carico cognitivo.
Il carico cognitivo è una sovraesposizione del soggetto in apprendimento a elementi e processi
cognitivi contestuali, cioè i diversi processi cognitivi vengono esposti a strategie di apprendimento
che in qualche modo sono tra loro dissonanti, o ridondanti o discordanti, o chiedono un'eccessiva
esposizione, per cui il soggetto ad un certo punto non è più in grado di governare la propria mente.
Questo carico cognitivo può essere estrinseco, e quindi estraneo al soggetto oppure intrinseco.
Il carico cognitivo estraneo è quello che rimanda l'effetto ridondante che arriva dal modello
spiegativo dell'insegnante, è legato alle perifrasi adoperate durante la spiegazione che tendono a
distogliere l'attenzione del soggetto dal tema centrale, cioè è la modalità comunicativo-didattica
che realizza l'insegante in modo così articolato e complesso da allontanare l'attenzione di chi
apprende dal tema centrale per portarla sull'articolazione del discorso.
Il carico cognitivo intrinseco è quando di fronte alla complessità di un determinato argomento il
soggetto non ha gli strumenti e le risorse per procedere a coglierne tutte le correlazioni, allora si
richiede la necessità da parte del docente di riarticolare questa complessità e dare evidenza ad
alcuni elementi.
Il carico cognitivo pertinente invece è il grado di impegno utile e necessario a fare in modo che la
mente apprenda. Per poter fare una scelta di carico cognitivo pertinente bisogna conoscere i
processi cognitivi dei nostri allievi, o quantomeno i nostri allievi devono conoscere i propri processi
cognitivi e metacognitivi al punto di poter intervenire e sollecitare un carico cognitivo che sentono
al momento come non opportuno o non adeguato al loro apprendimento.
Quando parliamo di anticipatori organizzati, parliamo di apprendimento significativo, ovvero di
quella teoria che vede l'apprendimento centrato sui bisogni del soggetto, decentrato dalla disciplina
e dal compito, e totalmente centrato sui bisogni formativi del soggetto in apprendimento.
L'apprendimento significativo ha come referente teorico Ausubel e rientra in quell'area della
pedagogia moderna e contemporanea che supera l'apprendistato cognitivo e va verso una
dimensione di apprendimento che sia densa di un significato.
Quando affrontiamo gli anticipatori organizzati abbiamo bisogno di sollecitare lo studente con
alcune domande: "di che cosa stiamo parlando?", "di che cosa si tratta?", "come si contestualizza?",
"di quali strumenti ho bisogno?". Gli anticipatori organizzati sono il materiale di supporto
all'impalcatura concettuale: aiutano a collegare i nuovi concetti con quelli di cui era già portatore il
nostro studente.
Il secondo punto è l'analisi dell'errore, non cosa è sbagliato ma perché. Si deve ripercorre tutto il
processo cognitivo fino a individuare quella dimensione di incompreso, o di alterato, che possa aver
generato l'errore stesso, e interveniamo inserendo la modalità corretta, il processo cognitivo
corretto. Utilizziamo una valutazione formativa quindi aperta, attuabile in tutto il processo. Questo
step è per lo studente una sorta di test autovalutativo.
I test di autovalutazione vengono assegnati dove non c'è l'abitudine a porsi domande del tipo: "cosa
ho imparato?", "dove ho avuto successo?", "dove ho sbagliato?". L'aspetto formativo è fortemente
legato al concetto di cambiamento, di trasformazione; "che cosa ho imparato'" mi permette subito
di fare un confronto tra ciò che ero prima e ciò che sono dopo il processo formativo.

La metacognizione è la capacità di riflettere sui propri stati interni e autoregolarli sia a livello
cognitivo che a livello emozionale, quindi conoscenza metacognitiva vuol dire conoscenza acquisita
in merito ai propri processi cognitivi e conoscenza dei processi metacognitivi di controllo, o
regolazione metacognitiva. Quando apprendiamo senza essere consapevoli attiviamo entrambi i
due processi, sostanzialmente è pensare a ciò che è già stato fatto sperando che qualcosa sia
sfuggito, è un rivisitare, un monitorare mentre stiamo facendo e immediatamente dopo (quando i
ragazzi svolgono il compito è un automatismo confrontarsi e ripercorrere mentalmente tutte le
azioni svolte come se mentalmente si riprocessasse tutta la verifica fino a quel momento dove si
nota un errore: questi sono processi metacognitivi di controllo). La conoscenza metacognitiva quindi
è l'insieme delle idee, dei sentimenti, delle emozioni, delle auto-percezioni che un individuo ha
sviluppato sul funzionamento mentale, come dire mi costituisco un'idea della mia mente e di come
la mia mente funziona. I processi metacognitivi di controllo, sono la capacità di verificare
l'andamento della propria attività a mano a mano che si svolge, quindi la capacità di autoregolare il
processo durante il suo funzionamento.

Domanda: "Non è caricare troppo lo studente se deve sapere tutti i processi della
propria mente che non conosce nemmeno l'insegnante?"
Risposta: "Non sono informazioni aggiuntive che arrivano dall'esterno ma informazioni
riflessive, si tratta di analizzare il proprio modo di stare nei confronti di un'esperienza di
apprendimento; è un qualcosa che si attiva automaticamente, è il non averne coscienza
che ne limita la funzionalità. L'approccio metacognitivo non aggiunge informazioni ma
le estrapola già dall'esperienza stessa. Nel cosiddetto sovraccarico cognitivo sono fatti
esterni che sovraccaricano il soggetto; qui si tratta di come il soggetto si espone di fronte
ad una determinata nozione, o esperienza di apprendimento.
Se si chiede a chiunque come ha appreso quel determinato concetto, come ha lavorato,
tutti anche un bambino sono in grado di dare una risposta, soltanto non si ha l'abitudine
a soffermarsi su questo. Questo è importante per lavorare sui processi generativi
dell'errore per evitare che si replichino, ma per poter ragionare su come si generano gli
errori io devo poter ragionare sui miei processi mentali, devo poter attuare quell'azione
di riflessività per capire quali processi si attivano.
Deve essere consapevolezza dello studente il funzionamento dei propri processi in
modo che possa meglio autoregolare l'ambiente verso i propri processi di
apprendimento o possa pensare di strutturare ulteriori strategie di apprendimento che
migliorino per lui l'esperienza; non è in mano al docente. Come docente posso rilevare
che non è stato compreso qualcosa, come siamo arrivati all'errore e come rimodulare il
processo, ma l'attivazione del processo non sta all'insegnante, lo gestisce lo studente.
L'insegnante deve individuare i fattori leva per far sì che quel processo venga condotto
nella maniera corretta rispetto alla richiesta del compito."
Domanda: "Come si fa a ridurre una classe ad un fattore comune?"
Risposta: "All'insegnante non si pone il problema di pensare una classe che ha un fattore
comune, ma una classe che ha bisogni diversificati e quindi progetta le risposte per quei
bisogni; il sapere disciplinare è lo strumento con il quale attivare i processi non
l'obiettivo. Le classi oggi sono un osservatorio talmente articolato e complesso che non
si può cercare di ridurlo a fattor comune, intendendo come fattor comune quella
capacità di processare i saperi che consenta a me insegnante di entrare in quella
processazione e modificarla; è talmente complessa e variegata, ed è talmente diverso
l'approccio che il fattor comune non è come i soggetti vanno processando
l'apprendimento ma quanto siano autonomi nel gestire i loro processi di
apprendimento."

Tra gli elementi della metacognizione ci sono la conoscenza delle variabili personali (processi
cognitivi, stili di apprendimento, stili cognitivi e l'immagine di sé), la conoscenza delle variabili
collegate al compito e le variabili collegate alla strategia di gestione.
La metacognizione si compone della consapevolezza della propria conoscenza e della regolazione
del proprio processo cognitivo. Essere consapevoli della propria conoscenza significa essere
consapevoli delle conoscenze di base che si possiedono, sapere quali sono le strategie che si
utilizzano per apprendere, conoscere la propria memoria e sapere quando, dove, come e perché
utilizzare questa conoscenza.
La regolazione del processo cognitivo sappiamo che avviene mediante la pianificazione, il
monitoraggio e la valutazione (ad esempio mi impegno a studiare storia non a memoria, ma
attraverso una mappa concettuale e approfondimenti su fonti diverse, arrivo alla verifica ancora
non padroneggio molto la strategia, per esempio prendo 7 e prima con l'altra strategia prendevo 9,
voglio continuare a prendere quel voto quindi la considero una strategia che per me non funziona,
per quanto la abbia pianifica, e diventa una strategia da scartare).
I processi metacognitivi con cui uno studente ha a che fare sono (secondo Brown, 1987):
consapevolezza, predizione, pianificazione, monitoraggio e valutazione. Nei casi di disabilità questi
processi metacognitivi possono non essere tutti attivi, bisogna vedere il tipo di disabilità e il tipo di
riabilitazione cognitiva che è stata fatta.
Secondo Cornoldi (1990) i processi metacognitivi di controllo sono:
• orientamento generale
• problematizzazione
• comprensione e definizione del problema compito
• collegamento del compito con altri compiti simili
• attivazione delle conoscenze implicate
• integrazione delle informazioni provenienti da fonti diverse
Questi sono tutti processi che attiviamo quando ci troviamo di fronte ad una situazione per noi
nuova, che ci chiede di raggiungere un determinato obiettivo, e andando ad affrontarla li mettiamo
in atto senza rendercene conto.

Le strategie per l'apprendimento sono:
• strategia di selezione: ci permette di individuare e scegliere quei concetti e quelle idee che
riteniamo più importanti
• strategia di ripetizione: il ritornare sui passaggi di un determinato processo o compito ha la
funzione si stimolare la memoria ed ha la funzione didattica della memorizzazione
• strategia di organizzazione: è legata alla capacità che il soggetto ha di mettere insieme
concetti anche lontani tra loro, di trovare le correlazioni tra concetti distinti. La capacità di
correlare i concetti è quella che ci permette di costruirci un'idea della realtà, è una delle
funzioni cognitive fondamentali per l'apprendimento. Il riassumere significa avere chiare le
correlazioni, avere individuato i concetti chiave e poterli sistematizzare per andare ad
integrarli in quella scaffalatura di saperi di cui già si dispone.
• strategie di elaborazione: permettono di rivisitare le vecchie conoscenze con le nuove
conoscenze e fare un'operazione di assimilazione/accomodamento. Si tratta di rivisitare le
vecchie conoscenze, mettere in crisi le certezze relative ad esse e integrarle di elementi
nuovi fino a generare un sapere aggiuntivo, che comporta un tempo di accomodamento (a
livello cognitivo ho bisogno di sistematizzare ciò che del nuovo mette in crisi il vecchio
sapere). Serve per costruire mappe concettuali che di fatto comportano i concetti chiave, i
tipi di correlazione che sono stati individuati e ridisegnare la mappa di queste correlazioni.
Essa serve anche per eliminare le misconcezioni, cioè costrutti concettuali totalmente deviati
e altri rispetto al contenuto che stiamo affrontando.
I processi cognitivi (memoria, attenzione, percezione, immaginazione, simbolizzazione, formazione
di concetti, apprendimento, linguaggio, motivazione) entrano in gioco in base a tanti fattori che
possono attivarne uno o l'altro. La padronanza didattica è sapere quale è attivo consapevolmente.

Gli stili di apprendimento sono gli stili attraverso i quali ciascuno di noi apprende in maniera più
rapida, sono il modo che preferiamo di affrontare qualcosa di complesso e qualcosa di nuovo (siamo
soliti usare sempre gli stessi perché cambiare stile di apprendimento ci mette in difficoltà).
Il modello che nella didattica usiamo più di frequente è il modello VAK (visivo-auditivo-
cenestesico): lo stile di apprendimento di tipo visivo o visuale è quello che utilizza prevalentemente
il canale recettivo centrato su quello specifico senso; il visivo linguistico sfrutta il linguaggio scritto,
il visivo spaziale utilizza le immagini, i grafici, le tabelle, le mappe concettuali. Lo stile di
apprendimento di tipo uditivo è tipico di chi apprende più facilmente ascoltando qualcuno che parla
e ha difficoltà con lo scritto (non significa che non ha capacità di apprendere informazioni da una
fonte scritta, ma che gli rimane più faticoso e quindi percepisce una spesa energetica maggiore). Il
modello di tipo cenestetico è basato sull'attività e sulla percezione tattile.
Non si nasce con un canale prevalente all'altro ma sono i canali ricettivi che ci hanno dato successo
fin da piccoli quelli che privilegiamo e rinforziamo con l'uso costante.

Lo stile cognitivo è la modalità con la quale il soggetto elabora le informazioni, non come le
acquisisce, ovvero con quale processo prevalente, con quale tempistica e con quale capacità di
restituzione. Secondo Cornoldi (2001) gli stili cognitivi sono:
• percezione: è di tipo analitico e di tipo globale. La percezione analitica è quella che privilegia
il dettaglio rispetto alla totalità (ad esempio se ho davanti un albero prediligo l'osservazione
della venatura delle foglie o del tronco piuttosto che l'albero nel suo insieme), quindi è un
aspetto sensoriale. Si parla invece di percezione globale quando la percezione dell'intero
oggetto di apprendimento viene prima del dettaglio (ad esempio esposto all'immagine di
una foresta il soggetto vede prima la foresta e poi il singolo albero), non manca del dettaglio,
ma il dettaglio arriva dopo.
• memoria: è un altro tipo di dispositivo cognitivo che ha delle ricadute sugli stili cognitivi di
tipo visuale o verbale; posso avere una memoria che predilige il codice spaziale ed iconico,
e quindi le immagini, piuttosto che una memoria che predilige il codice linguistico e sonoro.
• ragionamento: può essere sistematico, caratterizzato dal procedere a piccoli passi
analizzando e prendendo in considerazione tutti i possibili dettagli per poi sistematizzati in
un algoritmo, intuitivo, che si aggancia su ipotesi globali e cerca di confermare o
disconfermare l'ipotesi che in qualche modo ha intuito, impulsivo, che lavora su tempi
decisionali brevi (talvolta anche eccessivamente brevi), o riflessivo, quando i tempi di
valutazione del compito sono più lunghi e permettono al soggetto di analizzare gli elementi
di dettaglio.
LEZIONE 4 DI METODOLOGIE DIDATTICHE -23/11/2017-
[continuando la sezione dedicata all'approccio didattico metacognitivo]

Uno dei processi che interessano in modo particolare l'approccio didattico metacognitivo sono le
cosiddette variabili psicologiche. Quanto questa dimensione influenzi in modo proattivo piuttosto
che inibisca il processo di apprendimento è un dato che dalle ultime indagini si mostra sempre più
rilevante, cioè quanto conta immagine di sé che un allievo ha nel processo di apprendimento.
L'immagine di sé è uno dei fattori che incidono nella possibilità di disponibilità cognitiva da parte
del soggetto.
L'immagine di sé è declinata con quelli che vengono definiti:
• locus of control: è un ambiente non necessariamente fisico, ma di rappresentazione,
all'interno del quale il soggetto in apprendimento situa i fattori di responsabilità nel
raggiungimento del successo formativo, quindi il luogo dove si situano le responsabilità del
successo o dell'insuccesso. Se situo queste responsabilità su di me, e quindi internamente,
posso attuare delle modificazioni perché l'apprendimento, se non arrivato all'obiettivo
atteso, possa essere migliorato; se non dipende da me dovrei poter incidere sull'ambiente
esterno -intendendo come ambiente esterno tutto il luogo al di là di me- e non
necessariamente ho le abilità e la possibilità di modificarlo. Quindi un locus of control
esterno comporta a livello emozionale un vissuto che si avvicina al senso di impotenza. In
caso di esito positivo se il locus of control è interno si avrà una reazione del tipo "sono stato
davvero in gamba", mentre se è esterno "sono stato fortunato" (la capacità di raggiungere
un risultato al di là delle proprie capacità e viene data ad un soggetto esterno); in caso di
esito negativo, quando il locus of control è interno si hanno reazioni come "dovrei
impegnarmi di più", "non ho studiato abbastanza", "la prossima volta ci riuscirò", in caso di
locus of control esterno si trovano scuse tipo "non ho avuto fortuna", "il compito era troppo
difficile". Non è interessante il contenuto dell'alibi, ma come il soggetto posizioni questa
responsabilità (i ragazzi della secondaria sono in una fase dello sviluppo della personalità e
si forma anche quella che poi sarà l'intelligenza morale, cioè comprendere quale
responsabilità si ha individualmente rispetto ai propri processi di apprendimento).
• autostima.
• motivazione.

Si hanno degli indicatori che possono essere inseriti in una rubrica di valutazione e utilizzati per
parlare della definizione dei propri stati mentali, della capacità e della consapevolezza delle proprie
scelte, dell'attribuzione del successo e dell'insuccesso o della capacità di correggersi in autonomia,
quindi di procedere a quello che è definito meccanismo di autoistruzione, ovvero quel processo che
permette a ciascuno studente di monitorare il processo che sta utilizzando durante il suo
svolgimento. Questi indicatori sono:
• capacità di descrivere i propri processi mentali: la necessità di comprendere la sequenza dei
processi, significa poter chiedere ad uno studente, e che sappia rispondere "come affronti
questo contenuto, come secondo te riesci a farlo tuo?"; molti studenti rispondono facendo
riferimento solo alla memoria "imparo a memoria". In realtà è interessante vedere quali altri
processi oltre la memoria possono mettere in atto per appropriarsi di un contenuto
disciplinare e farlo diventare competenza, quindi saper ricostruire il proprio ragionamento,
saperlo spiegare e averne cognizione piuttosto che riconoscere i processi essenziali. (Non
riguarda la secondaria ma la primaria, quando i bambini cominciano a rapportarsi ad
esempio ai problemi matematici, quali processi si strutturano per poter leggere un testo di
un problema e sapere quale percorso e procedura metodologica utilizzare per poter
rispondere alla domanda; si lavora per insegnare ai bambini a problematizzare prima ancora
di strutturare l'algoritmo risolutivo).
• consapevolezza delle proprie scelte: in essa bisogna essere consapevoli delle eventuali
alternative, ovvero quali opzioni ci siamo dati, e sulla base di queste opzioni in che modo
abbiamo scelto e per quale motivo abbiamo fatto quella scelta piuttosto che un'altra; quindi
sapere non soltanto valutare le opzioni disponibili, ma sapere anche individuare i fattori che
ci fanno scegliere un'opzione al posto di un'altra. Saper motivare la scelta sulle diverse
tipologie di opzioni comincia a dar corpo all'assetto di valutazione e di modificazione del
processo di apprendimento.
• attribuzione del successo e dell'insuccesso: si ha la necessità di saper riconoscere quali sono
i motivi interni ed esterni, intendendo per motivi i fattori che hanno generato quel successo
o quell'insuccesso. L'altro possibile fattore è l'incidenza dei motivi interni ed esterni, e quindi
andare ad individuarli in maniera da individuare quanto questi condizionino la prestazione,
e una volta individuato come la condizionino, arrivare a riconoscere il ruolo che gli stessi
fattori hanno, quindi valutare se sia il caso di rimuoverli, di intervenire su questi o di
intervenire sui processi.
• capacità di correggersi autonomamente: il saper ritornare sul proprio processo mentale,
saper identificare i fattori che lo hanno generato e saper individuare i propri errori, perché
è l'ambiente dove meglio il soggetto riesce ad intervenire; non ultimo saper individuare i
fattori esterni che hanno inciso, tenendo conto che su quelli non necessariamente si ha la
possibilità di effettuare un intervento in termini di processo di apprendimento. Riformulare
a posteriori il procedimento di apprendimento e individuare i punti critici e correggere gli
errori con soluzioni diverse. (Non c'è necessariamente un'abitudine a questo tipo di
riflessione nel momento in cui gli studenti accedo a scuola, magari è un tipo di riflessione
che sono già abituati a fare su altri contenuti, in altri contesti. Si tratta di attivare questa
peculiarità mentale attraverso il feedback, attraverso la restituzione delle verifiche).
Essere consapevoli della propria attività cognitiva significa valutare diversi livelli per ciascuna
dimensione e saper descrivere i propri processi mentali considerando a quali livelli questi processi
possano corrispondere (per esempio una capacità di descrizione dei propri processi mentali a livello
scarso comporta una descrizione svolta in maniera confusa che non ha considerato i diversi
elementi, che tende a sovrapporre i diversi dispositivi cognitivi e che di conseguenza non consente
al soggetto di intervenire su quelli più depotenziati).
L'aspetto legato alla stima di sé e l'aspetto legato alla motivazione riguardano l'insieme dei giudizi;
quindi l'autostima è l'insieme dei giudizi di valore che il soggetto da a sé a fine esito del processo di
apprendimento. Parlando di soggetti con disturbi specifici dell'apprendimento, in una scuola
secondaria di I o di II grado, spesso li ritroviamo con una bassissima stima di sé e una scarsa fiducia
nelle proprie abilità mentali; non è non aver chiaro il motivo per cui, ma è proprio una perdita di
fiducia sulle proprie capacità mentali, è credere di non essere capaci di (l'attenzione è sul biennio di
scuola superiore dove con il processo di crescita adolescenziale, questa poca fiducia sulle proprie
abilità mette i nostri studenti in condizione di rinunciare ad individuare strategie, a chiedere aiuto,
ad applicarsi). Tra i ragazzi che dopo il completamento dell'obbligo scolastico, quindi concluso il
biennio superiore, abbandonano il percorso scolastico per rivolgersi a percorsi di formazione
professionale, a molti sono stati diagnosticati disturbi dell'apprendimento. Se la diagnosi non è
precoce, ovvero prima dell'accesso alla scuola primaria, se non sono stati fatti degli interventi
riabilitativi a carattere cognitivo o logopedico, se non sono state utilizzate strategie didattiche
specifiche per facilitare il processo di apprendimento i soggetti si ritrovano con una fatica
sovrumana ad affrontare la scuola secondaria di I grado e al biennio di scuola superiore a rinunciare,
avendo costruito nel frattempo un'immagine di sé svalutante.

Il disturbo specifico dell'apprendimento è un disturbo a carattere neuropsicologico,
quindi non si hanno lesioni e un'intelligenza assolutamente nella norma (quoziente
intellettivo intorno a 100). Per un'intelligenza al di sotto della norma posso esserci
problematiche affini a quelle di un disturbo dell'apprendimento, ma che non sono un
disturbo specifico dell'apprendimento. Per questa tipologia di ragazzi il ministero ha
stabilito come dispositivi compensativi le cosiddette mappe concettuali e mappe
mentali, strumenti che permetto ai ragazzi di avere su carta o su piattaforma elettronica
la possibilità di posizionare i concetti chiave, e quindi la strategia di selezione delle idee
importanti viene attuata correttamente e la correlazione tra queste diventa possibile
perché quei concetti sono già posizionati sulla carta o su piattaforma elettronica per
poterli correlare con frecce, altri simboli e con colori diversi; questo consente loro di
seguire, tenendo la mappa concettuale davanti agli occhi, quel processo che altrimenti
verrebbe scomposto e ricomposto in maniera confusionale a livello mentale. Se non
hanno cognizione di quanto questo disturbo interferisca nel loro processo di
apprendimento, e se nessuno glielo spiega, il vissuto che hanno è quello di essere
inadeguati, incapaci, hanno una forte ansia durante l'esecuzione dei compiti, pianti
improvvisi e tracce di una tendenza a non considerarsi, a livello psicologico, né capaci
né meritevoli dell'affetto dei genitori e degli insegnanti (in particolare in bambini della
primaria). Se i genitori sono informati di questo quanto prima la loro capacità di
accogliere il bambino si fa pregnante, e questo ha una restituzione dell'immagine di sé
che non è più quella dello svogliato o dell'incapace.
Per quanto riguarda le correzioni sul quaderno, il sottolineare l'errore non va che ad
alimentare il processo che lo ha generato e, in bambini con disturbi specifici
dell'apprendimento, trovarsi con un elaborato che è una sorta di cimitero di errori, va a
sottolineare che il soggetto non è capace; quindi anche nella correzione delle verifiche
si deve porre l'accento solo sugli errori sui quali si sta lavorando. Sono situazioni non di
disabilità ma, che se non gestite da un punto di vista adeguato, comportano che questi
ragazzini arrivino alla scuola media convinti che qualunque tentativo facciano non
porterà a niente, e nel momento in cui si comincia a scegliere chi diventare da grandi la
scelta è verso la volontà di abbandonare quel contesto che tanto rimanda le difficoltà
che non riescono a gestire. Sono fondamentali strategie didattiche mirate.
Le linee guida ministeriali (2012) parlano di strumenti dispensativi e compensativi, come
la calcolatrice e prove di verifica strutturate in maniera consona, tale da permettere al
soggetto di poter accedere alla lettura e all'esecuzione delle stesse prove. Non è però
sufficiente accontentarsi della calcolatrice e di una tipologia particolare di verifica, c'è
bisogno i strategie didattiche e spesso questo viene a mancare (soprattutto nella scuola
secondaria di II grado quando questi ragazzi arrivano con una bassa stima di sé e
comportamenti più ribelli spesso si ha una resa anche da parte degli insegnanti che porta
ad un abbandono della scuola).

La stima di sé è fortemente legata al contesto relazionale, non è solo legata al successo; non è
avendo successo in tutto che si ci forma un'immagine positiva di sé, nasce e si implementa a partire
dai primissimi anni di vita ed è fortemente legata all'immagine che gli adulti significativi rimandano
di noi, quindi vuol dire che impariamo ad avere una buona o una pessima stima di noi anche in
funzione di quel ritorno di immagine che viene fornito prima dai genitori, poi dai familiari, dagli
insegnanti, e dall'insieme degli adulti significativi che incontriamo nel nostro processo di sviluppo.
La stima diventa un ambito di apprendimento nella dimensione in cui, a partire dai genitori fino a
tutti gli educatori, ci sia quella capacità di restituire i lati positivi, ma anche i limiti di cui il soggetto
è in quel momento portatore.
L'autostima non è frutto solo della valutazione quantitativa dei successi rispetto agli insuccessi, ma
anche frutto di un'esperienza educativa relazionale con le figure significative che abbiamo
incontrato nel nostro percorso formativo. Questo incide moltissimo sulla motivazione: una buona
stima di sé rinforza l'intenzionalità a sperimentarsi di nuovo, rischiando il fallimento.

Domanda: "Spesso i genitori fanno fatica ad ascoltare gli insegnanti quando dicono che
i figli hanno problemi, in qualche modo si rifiutano, c'è qualche strategia particolare?"
Risposta: "Dire ai genitori che i figli hanno problemi, e che forse è opportuno fare una
valutazione di tipo cognitivo o neuropsichiatrico, spaventa i genitori perché in quel
momento il genitore vede lo spazio dedicato al figlio/a, che lui ha costruito e alimentato
negli anni, lontano e distante da quello che l'insegnante propone. Inoltre i disturbi
specifici dell'apprendimento non sono visibili, diventano evidenti quando il bambino
comincia a frequentare la scuola perché incidono sulle abilità richieste per la letto-
scrittura nell'apprendimento scolastico. Uno dei meccanismi che usano i genitori è dire
che anche a casa il figlio è distratto (genitori che dicono anche a casa gli chiedo di
mettere in ordine e dopo mezz'ora lo ha già dimenticato). Quando si fa presente il
problema ai genitori si chiede loro di ripensarsi rispetto ad un figlio che non è più quello
che conoscevano, togliendo al figlio qualcosa secondo la cultura generalizzata (ciascun
genitore vede nei propri figli una parte di sé, per cui in questa dimensione proiettiva, il
genitore sente che gli viene tolto qualcosa). Occorre comunicare la problematicità
stando legati alla valutazione fatta del problema, occorre evitare i test per determinare
se c'è un problema dell'apprendimento; non bisogna fare i tuttologi e dire che data la
presenza di problematicità sicuramente il figlio ha un disturbo specifico
dell'apprendimento. Bisogna semplicemente considerare le problematicità, si può
ipotizzare, ma si deve sempre rinviare ad esperti, psicologi o neuropsichiatri, chiedere
una valutazione se quello che succede al ragazzino è derivato da un disturbo
dell'apprendimento, o potrebbe essere frutto di una problematica emozionale presente
nel contesto familiare e che i genitori nascondono (per esempio per bambini,
soprattutto della scuola primaria fino ai primi due anni della secondaria di I grado, che
vengono considerati iperattivi, i fattori non sono necessariamente di tipo
neurocognitivo, magari sono legati alla dimensione relazionale e affettiva del proprio
ambiente familiare). Una valutazione attenta ci consente di avere informazioni derivate
da altre discipline che ci permettono di scegliere gli strumenti.
L'insegnante deve mettere il genitore al corrente di come il bambino vive la scuola, e il
genitore restituirà ciò che avviene a casa, e sulla base di quello ragionare sulle strategie
didattiche, nel caso in cui diventi evidente che a casa non ci siano problemi nella coppia
genitoriale piuttosto che nel nucleo familiare. Se non ci sono altre problematiche si
propone ai genitori una valutazione, restituendo loro in che cosa una valutazione
neuropsichiatrica possa migliorare la vita del proprio figlio; si chiede ai genitori di fare
una valutazione perché questo agevola il bambino nell'apprendimento, lo solleva da
fattori di ansia, gli permette di avere strumenti dispensativi e compensativi che
altrimenti la scuola per normativa non può fornire. Bisogna mettere il genitore in
condizione di non spaventarsi e di non sentirsi solo nell'affrontare la problematica."



Competenze
La competenza è la «capacità ci far fronte ad un compito, o ad un insieme di compiti, riuscendo a
mettere in moto e ad orchestrare le proprie risorse interne, cognitive, affettive e volitive, e a
utilizzare quelle esterne disponibili in modo coerente e fecondo» (Pellerey 2004). Quindi parlare di
competenza in questo modo significa parlare di abilità, di processi cognitivi e di risorse varie, non
solo a livello cognitivo ma anche a livello affettivo, significa mettere in gioco elementi di sé e della
propria personalità in una orchestrazione, e restituire il tutto lavorato come un'unica condizione,
come un essere in grado di, non è più un sapere o un saper fare, che va al di là dell'abilità ed è
chiamato competenze proprie. Volendo semplificare potremmo dire che l'abilità è una dinamica che
vede nel trittico competenze, abilità e conoscenze, elementi della propria personalità e elementi
dell'ambiente esterno. Queste tre aree devono interagire tra loro generando nell'interazione
qualcosa di specifico, qualcosa di nuovo, che supera ciascuna area a che ci restituisce quella capacità
di affrontare quel determinato compito.
Una successiva definizione di competenza, di Rossi (2005), recupera questo concetto e la definisce
come «strategia contestualizzata»; quindi la competenza diventa un elemento finalizzato a gestire
in quel determinato contesto una determinata attività per raggiungere un determinato obiettivo,
quindi si compone come strategia e pianificazione, e richiama quindi la dimensione di
consapevolezza nell'articolare le conoscenze, le procedure, le esperienze; questo connesso ad uno
specifico ambiente di riferimento. (per approfondire: http://nuovadidattica.lascuolaconvoi.it/agire-
educativo/22-leducatore-come-ricercattore/costrutto-di-competenza/).

Rapporto tra competenza e prestazione
Quando parliamo di educazione alla competenza di base o didattica legata alle competenze di base;
dobbiamo quindi avere un quadro di che cosa si intenda per competenze di base.
Competenza di base significa fare il focus su i risultati dell'apprendimento, piuttosto che
sull'intervento finale (questa è una caratteristica anche in ottica valutativa). L'importanza
nell'acquisire le competenze di base, e nell'educare alle competenze di base, è attribuita in maniera
specifica al contesto di riferimento; quindi i risultati attesi per questo tipo di educazione devono
essere espressi in forma osservabile e misurabile. Nelle competenze di base si trovano tutti quei
saperi e quei saper fare necessari a strutturare, costruire e sollecitare i processi formativi per
accedere ai livelli più complessi. Le competenze di base diventano le competenze disciplinari o
tecnico-disciplinari di ciascuna disciplina, quei saperi o saper fare di tipo metodologico che
attengono alle dimensioni dei contenuti e delle specificità disciplinari (posso leggere un libro se non
ho un glossario che mi permette di comprendere il senso ampio di una frase?). L'attenzione al
miglioramento nello svolgimento del compito diventa l'altro elemento caratterizzante la
competenza di base.
È proprio tramite alcune riflessioni e analisi che Chomsky fa in ambito linguistico che si comincia a
sollecitare la riflessione legata all'impossibilità di una riduzione alla sola abilità esecutiva e alla sola
acquisizione delle abilità; ed è proprio Chomsky che comincia ad inserire la differenza, o
quantomeno la riflessione su che cos'è la prestazione e che cos'è la competenza. Questa distinzione
nasce dalla riflessione di Chomsky che, in ambito linguistico, sostiene che la competenza non è
osservabile né misurabile, in quanto le singole performances del soggetto, da un lato indicano il
grado di sviluppo della sua competenza linguista, mentre dall'altro sono strumenti per migliorare e
sviluppare la competenza stessa. Secondo questa concezione la competenza è l'insieme delle
capacità astratte, universali, innate di un sistema o di un essere umano e il possesso di queste
capacità è indipendente dalla loro effettiva utilizzazione. Ci spostiamo dall'acquisizione di
competenza, che poi sarà il tratto che identifica la competenza con l'abilità, alla competenza come
elementi interni, che il soggetto può o non può utilizzare a sua scelta (o a sua non scelta, se non è
consapevole di queste risorse), ma che gli appartengono e che di conseguenza, se attivate, possono
andare oltre il concetto di performance e strutturare la competenza.
Parliamo di performance efficace, quando la performance vede gli aspetti motivazionali come
centrali nel processo di apprendimento, e quindi gli schemi mentali e i bisogni che inducono a agire
sono sotto l'osservazione di chi deve creare quel contesto e chi è chiamato ad attivare un processo
di apprendimento. I tratti che caratterizzano la performance efficace sono le caratteristiche e le
predisposizioni a reagire in un determinato modo piuttosto che in un altro, quindi in un modo
specifico, di fronte ad una certa informazione. (Questa definizione richiama tutta la ricerca in ambito
psico-pedagogico che si rifà al comportamentismo, e successivamente recupera il cosiddetto
cognitivismo, ovvero quella modalità didattica per cui a determinate condizioni e determinati
stimoli, il soggetto ha una reazione che è specifica, e mirata, e nella ripetitività può generare un
automatismo che diventa un apprendimento). Una performance efficace ha necessità di avere
discipline e argomenti che siano specifici e che quindi permettano lo studio e l'acquisizione di questi
contenuti in modo da restituirli durante la fase di verifica. Si parla per la prima volta di skills,
intendendo con queste le abilità che sono necessarie e pratiche nell'esecuzione di un determinato
compito. Quindi si comincia ad introdurre il concetto che differenzia tra performance, competenza
e abilità; abilità e capacità diventano elementi basilari per la costruzione delle competenze e per
l'attuazione di performances efficaci.
La competenza quindi nell'inquadramento nel sistema e nelle strategie didattiche e soprattutto
valutative diventa un attributo correlabile alla complessità e che quindi si rifà a dei sistemi
assolutamente complessi; è un elemento complesso in un sistema complesso.
I riferimenti teorici che rimandano a questa complessità sono la cosiddetta Activity Theory, cioè
quella teoria che vede l'artefatto come strumento materiale e mediatore nella e verso l'attività, e
vede la continua interazione tra quello che è lo strumento naturale e quello che è lo strumento
artificiale, e vede i mediatori, animati o meno (il mediatore può essere un oggetto fisico ma anche
l'insegnante o il compagno di classe), caratterizzati dalla dimensione naturale e dalla dimensione
simbolica. Quindi il mediatore acquisisce un carattere oltre che esperienziale anche di
rappresentazione simbolica, e la prassi, lo sperimentarsi con ricorsività, come sapere esperienziale
acquisisce un carattere storico-sociale. La competenza non è situata in un momento specifico del
processo di apprendimento ma è una costruzione storico-sociale che attiene alla storia del soggetto
che apprende, e quindi è recuperabile nelle diverse esperienze di apprendimento di cui il soggetto
è portatore. Necessariamente parlare di competenza come dimensione storico-sociale e storico-
culturale del soggetto chiede anche una riflessione del rapporto tra competenza e apprendimento;
se vale la definizione che la competenza è un costrutto storico-sociale, che il soggetto ritrova e
recupera nelle proprie esperienze di apprendimento, non è assolutamente esclusivo che sia stata
sviluppata all'interno di contesti scolastici. Quindi la costruzione della competenza può essere
individuata e generata in contesti dell'extra scuola, trasversali, indipendentemente se familiari, del
gruppo di riferimento o dell'attività sportiva, poco conta rispetto all'idea di competenza strutturata
all'interno della scuola, conta invece la valutazione del processo che ha generato la costruzione di
questa competenza.

Rapporto tra competenza e apprendimento
Si apprende attraverso la memoria, ma anche facendo, ovvero sia utilizzando delle caratteristiche
della memoria che vanno al di là della semplice memoria semantica, o della semplice memoria a
breve termine. Si usa il dispositivo memoria attraverso l'attivazione di diverse aree celebrali che ci
permettono di memorizzare attraverso un percorso di esperienze sensoriali. Quindi
l'apprendimento diventa un cammino, da posizioni marginali a posizioni centrali, ovvero sia diventa
un cammino che va da aree distinte, diverse e lontane rispetto a quelle situate per il nostro obiettivo
di apprendimento, e si centralizza sempre di più verso quelle aree e quei processi che riguardano lo
stesso obiettivo. Il significato dell'apprendimento è fondamentale perché non posso pensare in
questa modalità di attivare dei processi di apprendimento al di là del senso che quell'apprendimento
può avere per il soggetto, quindi non c'è la necessità di motivazione, di sollecitare elementi che
mettano il soggetto in grado di attivarsi per apprendere, perché già il significato di
quell'apprendimento è fattore motivante per il soggetto stesso; ovviamente l'autenticità delle azioni
diventa una condizione necessaria a sostenere questa significatività.

Risposte alle domande:
• Autenticità delle azioni significa mettere in atto attività o comunque avere
esperienze legate all'apprendimento in attività e in azioni che siano autentiche,
veritiere e sperimentabili, e non frutto di una rappresentazione ipotetica legata
alla disciplina. Ad esempio quando parliamo di campi di esperienza reali o
realistici significa immergere il soggetto in apprendimento in situazioni che
realmente hanno questa portata, come il laboratorio di cucina nel professionale.
Diventa autentica quell'attività che mette il soggetto in condizioni di situarsi in
luogo e risorse paritetiche a quelle del mondo reale o che mi mette in contatto
con artefatti concreti e non frutto di una lavorazione di tipo ideale.
• Motivazione significa trovare quell'energia utile che mi metta in moto a fare;
questa energia la si trova quando il processo va a rispondere a dei bisogni
significativi per il soggetto, che sono realistici per lui e che non hanno trovato in
quel momento soluzione. Quando l'esperienza di apprendimento trova
corrispondenza con la risoluzione a quei bisogni, o corrispondenza ad
un'immagine di sé che il soggetto vede proiettata nel futuro, piuttosto che un
significato specifico che è coerente con i bisogni e i desiderata del soggetto non
si ha necessità di intervenire sugli elementi motivazionali. L'interesse verso un
determinato argomento può agganciare la curiosità di un soggetto, ma questa
curiosità implica il perdurare, il dare continuità ad un processo di
apprendimento. Superata la fase di curiosità subentra la dimensione di fiducia,
quanto i nostri interlocutori si fidano del docente, e questo rapporto di fiducia è
qualcosa che si struttura per step: mi incuriosisce, ha qualcosa di interessante da
dire, vale la pena rischiare e mettersi in gioco (alzare la mano, fare domande);
allora quel docente può essere investito di quell'aspetto di fiducia che va a
strutturare la relazione educativa. Superata questa fiducia parte la fase di
verifica, perché parte tutta quella fase che vede la relazione mantenersi, entrare
in crisi e acquisire significati e sensi condivisi, è lì che l'apprendimento diventa
significativo come apprendimento situato; fino a quel momento non sappiamo
se l'apprendimento potrà o no essere significativo, si ha la necessità che chi sta
apprendendo entri in gioco con il soggetto che sta seguendo il processo di
apprendimento insieme a lui, fino ad arrivare alla fasi valutative. L'effetto
Pigmalione, esercitato dall'insegnante, incide molto nell'applicarsi ad una
determinata disciplina e al continuare ad investire energie e agire all'interno del
processo, perché la relazione con il docente o i docenti è quella che fa la
differenza, è il fattore motivante o quello che rinforza la motivazione.

Il rapporto tra competenza e saperi
Non esiste competenza senza saperi e le competenze trovano nei saperi la loro possibilità operativa,
l'essere messe in atto. Troviamo in questo il superamento della tradizione scolastica dove la
trasmissione dei saperi era la condizione base della didattica. Il sapere si situa nella competenza e
la progettazione didattica non può prescindere dalla competenza, non si può schiacciare sul sapere.
Se nella scuola gentiliana il lavoro del docente era sostanzialmente trasmettere quei saperi che poi
erano necessari e richiesti agli studenti in fase di verifica, nella scuola per competenze il sapere è
una parte che compone quella competenza e la compone insieme alle diverse abilità in elemento di
orchestra, cioè va agganciato il sapere, va lavorato, destrutturato e ristrutturato per costruire
qualcosa che va oltre il sapere stesso (ecco perché il modello trasmissivo poco sta dentro un modello
per competenze). Il modello per competenze non arriva direttamente dal mondo della scuola, ma è
mutuato dal mondo della formazione professionale, dove i modelli formativi che costruivano le
competenze erano sostanzialmente due:
• Negli anni '70 era in vigore un modello che vedeva l'accesso al sapere e la costruzione del
sapere attraverso tre fasi sequenziali l'una all'altra: l'acquisizione dei saperi, l'acquisizione
dei saper fare e la fase del saper essere. Secondo questo modello noi avevamo un primo
momento formativo dove si acquisivano tutti i saperi, tracciati sul modello gentiliano (fase
di accumulazione), nella fase successiva, dopo aver acquisito i saperi, la necessità formativa
era di saper gestire quei saperi secondo le metodologie specifiche delle discipline (procedure
nel caso della formazione professionale), una volta acquisiti i saperi e imparato ad utilizzarli
si può ipotizzare che in ultima fase il soggetto da quell'esperienza facesse delle elaborazioni
tali da modificare le proprie convinzioni e i propri filtri di visione del mondo, e quindi
modificare il proprio saper essere. Saper essere nel mondo significava essere soggetti
trasformativi rispetto al contesto esterno. (Fu il primo modello sperimentato nella
formazione professionale fino agli anni '90 quando venne superato da un modello dinamico).
• Un modello dinamico (nell'essere dinamico va oltre il sapere o il saper fare e costruisce
qualcosa di più articolato che coinvolge il soggetto) è il cosiddetto modello ISFOL o modello
per competenze. Questo modello traccia le competenze di base, le competenze tecnico-
professionali e infine le competenze trasversali. Queste erano le tre aree di partenza delle
competenze; le competenze di base sono i saperi legati per esempio alla gestione di un
macchinario, i saper fare invece sono appunto le metodologie legate al processo del lavoro,
la competenza trasversale invece consiste di tutte quelle competenze che vanno oltre, e che
si costruiscono nell'ambiente di lavoro e non solo, e che sono spendibili trasversalmente in
qualunque tipologia di professione, ad esempio la capacità di comunicare, la capacità di stare
bene con gli altri nelle relazioni professionali, non si apprendono in un contesto e poi non
sono più valide in un altro.
Dobbiamo arrivare agli anni 2000 perché il modello per competenze venga utilizzato nella scuola. I
primi accenni sono nella riforma di Berlinguer, dove si comincia a parlare di portfolio delle
competenze, di rapporto tra scuola e ambiente professionale, intendendo con questo il territorio e
le aziende; quindi compare la necessità di trovare dei criteri valutativi che le stesse aziende possano
leggere rapidamente in modo da selezionare e costruire progetti formativi adeguati al percorso
scolastico. La sollecitazione arriva anche dalle normative europee. I criteri di valutazione delle
competenze necessitano di essere riconosciuti a livello europeo perché, una volta istituita l'Unione
Europea, bisogna stabilire se un titolo preso in uno stato ha sviluppato le competenze necessarie
per poter essere speso in un altro stato. La pedagogia delle competenze non è una pedagogia
orientata al risultato, ma orientata, ad oggi, ai processi e alla gestione delle risorse: parlare di
pedagogia delle competenze vuol dire parlare di progettazione educativa. Questo supera il
raggiungimento dell'obiettivo come esito del processo di apprendimento, ma punta invece a
rendere il soggetto autonomo nella gestione delle proprie risorse interne ed esterne e delle proprie
strategie e punta dunque a quella competenza chiave di cittadinanza che chiamiamo imparare ad
imparare. La pedagogia delle competenze punta a sviluppare quel grado di autonomia che metta il
soggetto in grado di saper utilizzare le proprie risorse e muoversi in ambienti flessibili e differenziati.
Le parole chiave sono flessibilità e innovazione.

Domanda: "Qual è la differenza tra conoscenza e competenza?"
Risposta: "Per conoscenza si intende la nozione. Quando ho acquisito una nozione per
parlare di competenza si richiede la necessità di chiedersi quella nozione a che cosa
serve per quel soggetto, che uso ne fa, che tipo di ulteriore innovazione genera per il
soggetto. Un esempio dello scarto tra conoscenza e competenza è il fatto che io posso
conoscere l'utilizzo del navigatore come strumento, ma se non ho la capacità di gestire
quel sapere, posso saperlo accendere, decidere se la voce deve essere di un uomo o di
una donna, ma se non so gestire i processi di selezione del punto di arrivo, mi rimane
uno strumento che conosco, ma non posso situare in elementi di significato anche altri
(ad esempio il navigatore utilizzato per geolocalizzare la macchina in un parcheggio,
invece di usarlo per orientarsi in città). La competenza è quel sapere che diventa una
risorsa interna, che si aggancia a dei saperi più di tipo operativo, più legati al sapere fare
e che costruiscono poi per il soggetto un grado di autonomia, dove quella competenza
così strutturata, perché il soggetto ne fa sintesi, sia spendibile in tutt'altro contesto e in
tutt'altro modo: in questo sta l'aspetto innovativo. Facendo degli esempi si rischia di
ridurre la competenza all'uso del sapere, invece la competenza [secondo lei] va pensata
come un processo che mette il soggetto di fronte a un oggetto nuovo (un sapere), al
saperlo gestire e al poterlo riposizionare in contesti altri generando innovazione: questo
è l'elemento portante della competenza."

Metodologie didattiche

30-11-17 - Lezione 5

Data definizione con riferimento al concetto di competenza intendendola come combinato tra
caratteristiche personali del soggetto, dimensioni di contesto (ambiente, luogo di interazione) e
saperi (contenuti acquisiti dal soggetto). La dinamica, cioè la capacità di elaborare ed integrare
questi tre livelli diversi, aree e dominii di riferimento conoscitivi, strutturano e costruiscono
competenze. Il termine costruire si rifà ai modelli costruttivisti o post-costruttivisti, che si
richiamano alla dimensione educativa e didattica, intenzionalità educativa che ricade nella teoria
della didattica. Si rifanno a quella area di integrazione delle conoscenze date dalle neuroscienze
(psicologia dell’apprendimento), influenzano l’aspetto pedagogico e l’aspetto didattico nella
dimensione dei processi di apprendimento, siamo in quell’area temporale e teorica che pone
l’attenzione ai processi che il soggetto attiva per apprendere piuttosto che agli oggetti da
apprendere, quindi i contenuti e i saperi specifici delle diverse discipline, parlando ovviamente del
contesto scolastico. Tipo di articolazione che ci interessa nel parlare di competenze, rapporto
competenza-prestazione, dove la prestazione è la performance ancora individuata nei testi
scolastici (strumenti dei docenti) come esito finale del lavoro fatto dallo studente rispetto ad una
precisa esperienza di apprendimento. La differenza tra le due cose si riconosce nella differenza tra
processo e risultato, dove la performance misura il risultato. Performance efficace, ovvero
specifiche competenze che il soggetto necessita di avere per esito positivo rispetto alla richiesta
didattica; la competenza è legata al processo che il soggetto attua al di là della singola richiesta.
Viste le cosiddette competenze di base (based-education), competenze identificate sui saperi,
richiamata l’esperienza della formazione professionale, modelli formativi degli anni 70, in cui il
sapere è unito al saper fare e saper essere, apprendimento come sequenza lineare, superata più di
recente questa concezione includendo le peculiarità del soggetto che apprende. Saperi disciplinari,
le nozioni e le metodologie specifiche di ogni disciplina utili a gestire tali nozioni. Ogni disciplina
ha saperi di riferimento e struttura metodologica. Le competenze di base in questione derivano
dall’esperienza didattica disciplinare e riguardano i saperi e le metodologie specifiche, sapere e
gestione del sapere. La competenza struttura anche l’evoluzione del soggetto, il cosiddetto saper
essere. Attenzione legata ai risultati dell’apprendimento nelle competenze di base. Es. spiego una
lezione di italiano e metodologie, faccio una verifica e alla fine capisco cosa acquisisci e cosa no; se
la verifica è più articolata, capisco quali modelli metodologici sono usati da ciascuno. Cognizione in
termini valutativi, quali saperi hai e quali modelli hai, ma non so quali processi sono stati messi in
atto. Abbiamo bisogno di comprendere se i saperi corrispondono agli apprendimenti o se sono le
nozioni. Abbiamo detto finora che il sapere è una nozione e non coincide con l’apprendimento, a
meno che non sia inserito in un processo che sia utile e intenzionale per il soggetto a costruire degli
elementi di competenza. Cioè: se il soggetto usa la competenza in un altro contesto, quella
competenza sarà un apprendimento, potrà quindi trasferire in altri ambienti tale nozione con
successo. L’apprendimento è una acquisizione più profonda di una nozione, il soggetto lo fa
proprio. Rapporto reciproco di modifica ambiente-soggetto. Es. apprendimento del latino: posso
saperlo tradurre, ma sarà una competenza in termini costruttivi quando al di là dello specifico arrivo
a strutturare una competenza che è al di sopra, permette di avere accesso ad altre nozioni e
conoscenze. Quando parliamo di competenza diamo importanza anche al contesto di
apprendimento, diamo importanza al luogo e all’insieme delle relazioni entro cui questa esperienza
didattica è situata, misurabili i risultati attesi, da pensare e valutare in ottica di capacità di
osservazione e misurazione. Misurare la performance vuol dire avere dei criteri valutativi pesabili,
quindi con una scala graduata, che permettono di restituire a quel risultato l’esito in termini
numerici e comunque espliciti. Tutti conosciamo la modulazione delle verifiche con i giudizi
(sufficiente, buono ecc.) o in decimi. Osservabilità del risultato: rispetto alla performance il
sufficiente necessita di avere elementi di motivazione da altri giudizi: il voto può essere uguale
anche con correzioni diverse. Quindi bisogna avere criteri valutativi della prova che devono essere
osservabili e misurabili. Poi bisogna impegnarsi a migliorare i risultati se non si è già eccellenti, la
struttura che caratterizza le competenze di base e le inserisce nella azione didattica pone il focus sul
risultato finale e sull’azione di valutazione in termini osservabili e misurabili, nonché il contesto di
riferimento. Il processo di apprendimento non è qui considerato, non interessa in questo caso. Non
tutta l’azione didattica può pensare di prescindere da una fase iniziale del processo formativo (fase
di accumulazione, quando il soggetto acquisisce competenze di base), ma non si può giocare tutto
su questo, l’attenzione così si sposta sui contenuti della disciplina e non sui processi di
apprendimento del soggetto. Fino all’inizio del 900 andava benissimo così, tutto era incentrato sulla
acquisizione dei saperi, oggi è diverso, poiché una delle essenziali competenze per la crescita degli
studenti è imparare ad imparare. Gli studenti devono avere la possibilità di imparare una serie di
abilità e competenze che saranno loro utili all’uscita, dovranno potersi muovere in altri contesti
sociali. Differenza competenza e performance emerge dagli studi di Chomsky sulla linguistica: non
tutto riducibile all’apprendimento legato alla performance, necessità di distinguere la competenza in
quanto tale e la prestazione in quanto tale. Performance: azione didattica in termini procedurali,
esito della attività didattica, capacità dell’allievo di realizzarla; questo non considera i processi di
apprendimento che lo coinvolgono come soggetto civile e civico. Qual è la performance efficace
(Spencer)? Aspetti di tipo motivazionale, motivazione data dagli schemi mentali e bisogni che
inducono il soggetto ad agire, la motivazione parte da un bisogno da soddisfare e che spinge a
investire energie e muoversi in una certa direzione. Es. il bambino impara a camminare da solo
quando alla sua curiosità si presenta un oggetto interessante e distante abbastanza da indurlo a
muoversi. La curiosità struttura persino gli schemi motori, è a tutti gli effetti una performance.
Questo è simile a quanto accade in ambito didattico, percezione e consapevolezza dell’obiettivo da
raggiungere (magari vuole imparare perché non vuole fare brutta figura con qualcuno - motivazione
emotiva - o perché si rende conto di non sapere e vuole imparare - motivazione razionale). Tratti
della performance: predisposizioni che ci mettono in condizioni di reagire in modi specifici rispetto
ad una determinata informazione. C’è un aspetto motivazionale e poi un tratto sulla modalità di
reazione del soggetto davanti a una certa informazione (legame col problem solving), dimensione
dell’immagine di sé, ovvero atteggiamenti con cui il soggetto struttura il proprio sé, la performance
deve restituire una parte di immagine (faccio bene la gara, quindi sono bravo), fondamentale
l’immagine di sé per sostenere la motivazione all’apprendimento, più performance buone ci sono
più è probabile che il soggetto si stimi; al contrario, più insufficiente si prendono, più si rischia che
il soggetto si stimi poco, magari anche solo rispetto all’esperienza specifica. Casistica per gli ultimi
anni: in ogni classe si possono incontrare studenti molto capaci, che eccellono in ogni disciplina, ma
non necessariamente hanno delle straordinarie capacità mentali, questi danno un valore importante
alla performance, al punto che quando fanno meno bene hanno un crollo significativo. Questa
tipologia esige attenzione al liceo per via della fragilità evolutiva dell’adolescenza, abituati ad avere
risultati ottimi: se alle elementari e medie prende sempre dieci, poi agli ultimi anni di liceo magari
si distrae e in una verifica di qualunque materia il risultato è pessimo, allora cadono in depressione,
perché non sono abituati ad affrontare il fallimento. Si è cominciato a concentrarsi di recente su
questa categoria, questi ragazzi spesso fanno anche peer-tutoring, i docenti si appoggiano ai ragazzi
bravi perché aiutino quelli meno bravi, quindi implicitamente il docente fa capire che ha alte
aspettative per quello studente che riceve l’incarico. Non si considera però che sono adolescenti e
che possono anzi devono andare incontro all’inaspettato; capita che il fallimento di prova si leghi al
fallimento di sé, rischio molto alto per quell’età, qualcuno si è anche suicidato. Immagine di sé
essenziale nei primi livelli della scuola, ma anche dopo. Saperi e gestioni dei saperi: skills (abilità),
riconoscibili nella esecuzione di un certo compito. Es. preparazione alle olimpiadi comunali con
tutte le scuole. Performance o competenza? Chi partecipa ha già delle competenze, ma
l’allenamento ha il carattere della performance. Digressione sul mondo extrascolastico, significativo
per la richiesta di performance (es. mondo sportivo giovanile, in particolare nel calcio, dove si entra
ancora piccoli e si può finire per diventare professionisti: lo sport è considerato attività educativa e
non performante, ma spesso richiede qualità performanti e non integrative e di sviluppo). Dove si
vede questo? Magari non tra i pulcini, però quando i giovani entrano nel rapporto agonistico
inevitabile si compete e gli esiti vengono registrati. I ragazzini con poca attitudine motoria o
disabilità o difficoltà a integrarsi col gruppo o qualità agonistiche meno pronunciate vengono
“invitati” ad andarsene (relegandoli in panchina). Con un modello del genere, legato alla
performance, ci sentiamo dire che non tutti possono essere dei campioni, ma questo non ha nulla a
che vedere col nostro ragionamento, che invece riguarda la crescita e lo sviluppo del soggetto in
quanto tale. L’unica cosa che conta è la qualità dell’esito. Limitante nel contesto scuola parlare di
performance, la scuola non è un ambiente addestrativo ma educativo, bisogna superare la
dimensione della performance o accompagnarla tenendo conto dei processi di apprendimento e
quindi l’accesso al concetto di competenza, come attributo di sistema complesso. Pedagogia della
complessità che si innesta su un costrutto teorico che individua nella didattica la capacità di cogliere
questa intenzione e di istruire gli alunni ad un pensiero complesso. Per questo la performance non
basta, si considera tutto l’ambiente e chi vi agisce e interagisce, teorie della psicologia
dell’apprendimento, approccio che vede nella zona di sviluppo prossimale l’area di accensione
dell’apprendimento data dalla relazione tra il soggetto che apprende e un soggetto più competente
del primo, questo supera la procedura performante e mette in azione tutti i processi di sui il soggetto
dispone per entrare in questa dimensione significativa. Apprendimento significativo, competenza
e apprendimento si integrano e stanno in un rapporto di reciproca generazione, si procurano così
sempre più motivazioni all’apprendimento, circolo virtuoso che non è più confinato all’ambiente
scolastico, non è detto che solo a scuola si realizzino le competenze. Come misuriamo queste
competenze? Un tema ancora aperto, soprattutto quando esse si realizzano in ambienti
extrascolastici, si passa così a valutare i processi, non si tratta più di apprendimento mnemonico
(sapere fotocopia, restituisco il sapere come mi è stato comunicato, modello gentiliano), qui invece
si lavora a vario livello sui saperi, cioè in vari contesti, non è più apprendimento lineare, fasi che si
spostano dalla centralità del soggetto all’esterno e viceversa, si torna alla centralità del soggetto che
apprende. Es. quando parliamo si sapere fotocopia pensiamo alla lezione frontale con una
aspettativa performante, si valuta quanto di questi saperi trasmessi (metodo trasmissivo) è rimasto
all’alunno, nessuna richiesta di elaborazione personale, solo restituzione del sapere trasmesso.
Centro sul soggetto: quali processi posso attivare sul piano didattico e che tipo di elaborazione
restituisce l’allievo al docente? Se un ragazzino a scuola, spiegando geografia (allagamento del
Polesine), prendesse i contenuti e alla verifica restituisse una esperienza personale (un allagamento
di cui è stato testimone o di cui ha sentito parlare o magari gli viene in mente il Nilo), non
restituirebbe il sapere e basta, ma elaborerebbe un sapere contestualizzato nella sua esperienza di
studio e di vita. Il sapere si carica di elementi di significato propri dello studente stesso. Il docente
non valuta solo quanto sapere c’è, ma anche quanto l’allievo ha aggiunto di proprio, quali processi e
quali elementi di significato ha dato al suo apprendimento. Apprendimento come esperienza di
significato. Si tratta di un modello adeguato per tutte le discipline, sia umanistiche che scientifiche.
Dati OCSE denunciano una seria difficoltà nell’apprendimento della matematica un po’ ovunque in
Italia, da qui è partita una ricerca sulla valutazione dei processi di apprendimento messi o non messi
in moto durante l’azione didattica. Si è osservato nel corso del tempo che l’attività di gioco ludico-
motoria è una condizione contestuale e disciplinare per la strutturazione di competenze necessarie
all’apprendimento della matematica. Per farla breve: la matematica si apprende facendo
matematica, ma finisce tutto nell’imparare a memoria e fare esercizio? O c’è un processo che
sottostà alla gestione dei saperi e che deve essere monitorato dal docente? Monitorare quei processi
è mettersi nell’ottica dell’apprendimento significativo, che in sostanza significa ragionare sugli
argomenti, anche discostandosi dal modello proposto dal docente e legandosi ad una memoria
sperimentale e non semantica. Se una materia è divertente, diventa più facile apprendere, ecco
perché si sottolinea l’importanza dell’attività ludica al fine di un apprendimento significativo. Il
processo cognitivo sottende sempre l’oggetto specifico da apprendere. Teorie di Gartner sulle
intelligenze (da sette a nove qualità intellettive), secondo cui ognuno di noi ha un potenziale
disponibile, non c’è più l’”essere portati”, ma una attitudine frutto dell’interazione tra bambino e
ambiente educativo. Ci sono bambini che possono gestire oggetti per loro senza significato con
processi cognitivi che richiamano il calcolo, anche se nessuno ha mai spiegato loro cos’è
un’addizione o una proporzione. Come elaboro il concetto? Ecco cosa interessa il processo di
apprendimento, esteso a tute le discipline, progettare secondo questo tipo di didattica è molto più
complesso. Ogni insegnante deve imparare questo, non basta più avere un programma di
conoscenze da trasmettere, ma occorrono nodi concettuali fondamentali entro cui inscrivere tale
programma in modo che gli studenti possano gestire in modo significativo i contenuti. Non ci
possiamo accontentare dell’apprendimento mnemonico perché ostacola l’accesso alla complessità.
Rapporto competenza-apprendimento, con significativo si intende l’aspetto di senso che il soggetto
che apprende può dare all’esperienza, da non confondere con l’utilità, che può essere un agente
motivante tipico della età adulta che però è molto meno presente nella scuola, anzi prevale un
aspetto di ricerca di elementi di senso per sé, per la costruzione del proprio io. Dimenticare questo
rischia di tradursi in una azione didattica non ottimale. Rapporto competenza-saperi (nozioni),
articolazioni di elementi caratterizzanti, a partire dalla operatività dei saperi, sapere spendibile in
tempi rapidi, con rapide ricadute operative (cioè da non elaborare e mantenere per progredire).
Formazione professionale importante per definire il sapere operativo, si parla di tecniche
professionali (sapere e saper fare legato alla tecnica), es. il telaio elettronico, come si usa? come si
inserisce il materiale? Saperi come nozione e saperi operativi, cioè con immediata ricaduta nella
esperienza pratica dell’apprendimento o acquisibili dalla pratica. Come quando un bambino impara
un gioco nuovo guardando altri bambini giocare, tracciamento di un possibile scenario in cui anche
lui gioca come loro. Quando un bambino si unisce a un gruppo, non gli si fa tutto lo spiegone
(learning by doing), gli si danno due regoline e via col gioco. Sbaglierà, certo, ma rifletterà
sull’errore e migliorerà (metacognizione) sviluppando magari qualche strategia e confrontandosi
con un altro soggetto più capace. Il gioco contiene moltissimo materiale esemplificativo di queste
teorie di riferimento. Superare la teoria scolastica gentiliana nello studio del rapporto competenza-
sapere significa andare oltre la dualità sapere-tecnica finalizzata all’inserimento dei soggetti negli
ambienti professionali e al contrasto della alfabetizzazione (senza dimenticare l’interesse dello stato
etico a totalizzare anche l’istruzione), si passa dalla figura del docente come pubblico ufficiale alla
riflessione sul processo cognitivo. Nuclei tematici fondanti: elementi essenziali del contenuto
disciplinare. Es. ho una serie di argomenti della mia disciplina che hanno come concetto comune
qualcosa di preciso, partendo dal quale posso collegarmi a ciascuno dei contenuti di cui sopra.
Questo è un nucleo fondante, quello della lezione di oggi è il concetto di competenza. Competenza
trasversale: utilizzabile anche in contesti diversi da quello in cui è stata appresa (es. la lingua
italiana, saper comunicare, sapersi relazionare, organizzare ecc. le cosiddette soft skills), difficili da
valutare e strutturare. Nelle competenze specifiche il linguaggio si fa astratto, linguaggio settoriale,
codice di accesso alla disciplina. Percorsi sistematici: si accede all’anno successivo con la
promozione. Riepilogati i punti salienti del sapere di tipo scolastico, distinto da un sapere reale
(pratico? esperienziale?), approccio globale usato per acquisire questo sapere, non c’è un codice, un
metodo o uno schema preciso o unico, ma spesso si combinano. Approccio circolare e non lineare,
linguaggio concreto e legato all’esperienza (ancora tutto si riconduce alle dinamiche del gioco e di
come i bambini imparano un gioco). Rapporto tra sapere scolastico e reale? Uno è sequenziale,
l’altro va da una concettualizzazione empirica fino a un collegamento a dimensioni più ampie per
mezzo della costruzione di modelli (es. didattica laboratoriale, comunità di pratiche), modelli teorici
orientati al contesto (innativismo), la struttura qui è più a cerchi concentrici. La competenza va dal
semplice al complesso, dall’esterno all’interno (trova nel contesto le sollecitazioni che ne
permettono la costruzione da parte del soggetto) . Complesso non vuol dire difficile, ma composito
(concorso di pluralità di elementi). Nella performance o nel sapere scolastico posso fare sommatoria
delle prestazioni dando una valutazione complessiva finale (modello staffetta), nella competenza
invece no, perché il soggetto stesso è coinvolto e in un certo senso modificato. Ecco perché è
difficile valutare questo tipo di sapere. Anni 90, concetto di valutazione secondo le teorie
dell’apprendimento di Piaget, sviluppo intellettivo dei bambini articolato secondo quattro fasi
sequenziali, dalla nascita alla fine della adolescenza:

1) senso motorio: 0-2 anni;


2) preoperatorio: 3-6 anni;
3) operatorio concreto: 6-10 anni;
4) operatorio formale: dopo i 10 anni.

Modello poi rivisitato e superato, modello stadiale di Piaget, che ha costituito la base dei programmi
scolastici. Però un bimbo piccolo può concettualizzare la quantità numerica, cosa che Piaget non ha
considerato. All’inizio del secolo scorso per studiare i comportamenti dei bambini si ricorreva al
metodo dei diaristi, che osservano i bambini a distanza; invece Piaget crea degli ambienti
sperimentali con giochi ecc. e spinge i bambini a risolverli, è il primo a sistematizzare una teoria
sulla capacità dei bambini di risolvere problemi. Modello usato fino a non molti anni fa, secondo
Piaget la capacità concettuale astratta comincia intorno ai 12 anni, fino ad allora l’apprendimento è
meglio gestito se riconducibile a esperienza concreta. Piaget sostiene che l’idea di competenza sia
non tanto il comportamento (osservazione dei diaristi), ma secondo lui si attivano processi con cui
si costruisce una struttura innata che trasforma il sapere in competenza. Si parla poi di orchestra di
schemi, Piaget si ispira anche alle teorie evoluzionistiche di Darwin, tiene molto presente la
dimensione biologica dell’essere umano, l’intelligenza si evolve insieme allo stato biologico del
sistema cervello, schemi che si integrano e generano soluzioni per il problema specifico. Perrenoud:
molteplicità di schemi che attengono a più aree specifiche della qualità intellettiva che vengono
combinate fino ad una attuazione efficace che si risolve nella soluzione del problema, integrazione
più che sommatoria della parti. Capperucci, pedagogo sperimentale a Firenze (2011): competenza
come riflessività sulla attività e sulla dimensione critica di ciò che il soggetto ha fatto: ovvero
l’approccio metacognitivo alla esperienza, intesa come risorsa spendibile in contesti diversi. La
competenza è transdisciplinare. Mettere al centro la competenza in un percorso formativo-didattico
significa concepire il destinatario del messaggio del docente non come un individuo in un contesto
specifico, bensì come un soggetto autonomo e dotato di spirito critico. Compito, risorse interne ed
esterne sono le dimensioni costitutive della competenza, gli assi lungo i quali la competenza si
valuta. Prestazione rispondente a determinati standard di efficacia parte da questi princìpi. Nel
raggiungimento di un dato obiettivo la competenza è una risorsa da cui si può anche attingere per
una performance con certi standard, cioè la competenza si può usare in tutto o in parte. Cosa sono
gli standard di efficacia? Per capire questo bisogna entrare nel discorso del processo di
apprendimento. Competenza:

1) conoscenze: 1a dichiarative (know-what);

1b procedurali (know-how) rappresentazioni del mondo costruite dal soggetto;

2) abilità: schemi operativi di azione su oggetti e materiali simbolici, accezione di tipo sociologico,
cioè avere la capacità, l’essere in grado di (non il saper fare!);

3) disposizione ad agire: attitudini del soggetto a relazionarsi con la realtà.

Attitudine (Gartner): insieme delle sollecitazioni emotive, cognitive o metacognitive elaborate dal
soggetto dalla nascita alla formazione scolastica e che hanno stimolato certe aree qualitative
dell’intelligenza nella relazione con figure parentali o contesto di riferimento di altro tipo. Una serie
di processi viene attivata, non sono intenzionali ma diventano importanti sollecitazioni per il
bambino, così risulta facilitato l’accesso a contenuti che richiedono queste intelligenze. Quando
andiamo a progettare una attività didattica o, come si dice ora, una unità di apprendimento, si dovrà
tenere conto di questo come procedimenti di nostro interesse.

Metodologie didattiche

07-12-17 - Lezione 6

Competenza definita come insieme, capacità di orchestrare risorse personali, i saperi, i contenuti e
le risorse esterne (ovvero pertinenti all’ambiente di apprendimento), vista la differenza tra
competenza e performance. Sul piano didattico bisognerà procedere con azioni progettuali di più
ampio respiro se si considera la competenza piuttosto che la performance. Si considera in questo
caso la dimensione del processo più che quella del risultato. Modelli generativi di queste tipologie
sono legati ai modelli di apprendimento, ricerca su apprendimento influenza molto la ricerca
didattica delle metodologie e tecnologie didattiche che integrano e supportano i processi educativi
in ambito scolastico e non, la didattica non può prescindere dallo studio sull’apprendimento. Quali
sono questi modelli? Uno di questi è il modello eterogeneo: accoglie i diversi apporti e gli esiti
degli studi/ricerche che derivano dalle diverse discipline, è un modello costruttivista. Tali
discipline sono la cibernetica (nata con Neumann, poi evolutasi in due settori distinti, seconda
cibernetica e intelligenza artificiale), la filosofia (che pone interrogativi non tanto sui processi in sé,
es. non è interessante chiedersi quali sono i processi cognitivi nell’apprendimento, ma ci si chiede
cosa sono la mente e il pensiero, discorso più sulle basi dei processi che sui processi), psicologia,
antropologia, etologia, ecc. Teoria dei sistemi, linguistica e neuroscienze sembrano molto lontani
dai nostri modelli di apprendimento (pensato fino all’inizio del 900 come esito di un ragionamento
logico), ma in realtà prendendo le distanze da questa idea cambiano gli approcci (importanza
dell’esperienza e della interazione ambientale, fatto nevralgico in quanto differenzia il modello di
apprendimento costruttivista da ogni altro modello precedente). Il punto di svolta sul valore
dell’ambiente e l’interazione con l’esperienza ci fanno ricorrere a due grandi nomi della psicologia
(Vigosky, modello storico-culturale, importanza della relazione con una figura più esperta, zona di
sviluppo prossimale) e della pedagogia (Dewie, approccio pedagogico nella dimensione della
contemporaneità). Si ragiona sul valore della interazione con l’ambiente e col contesto sociale di
riferimento, valutiamo e pensiamo modelli che tengano in conto che il soggetto modifica ed è
modificato dall’ambiente interagendo con esso, ci si chiede in che modo e con quali esiti ciò
avviene. Scuola moderna pensata secondo il modello svedese, ottimo esempio rispetto a questo
inquadramento, sono modelli che rispondono a una teoria dell’apprendimento che richiama il
modello postcostruttivista, aggancia anche il cosiddetto apprendimento immersivo (e non
astrattivo), al quale i giovani sono abituati ad essere esposti fuori di scuola, ad esempio con le
nuove tecnologie. Scelte legate ad una continua revisione della modalità di elaborazione dei
contenuti attuate dal cervello umano, importanza della interazione ambientale e della esperienza
riepilogate. La conoscenza è opera del soggetto conoscente, non è legata ad un sapere nel potere del
docente, di cui cambia quindi il profilo professionale, e neppure al sapere esclusivo di una
disciplina, bensì al soggetto chiamato a prendere ed elaborare queste informazioni, è il risultato del
soggetto discente. Come si articola la conoscenza? Quali risultati dà? Ci si sta ancora facendo
ricerca. La competenza misura questo tipo di sapere disciplinare, ma abbiamo gli strumenti per
misurare? Il docente diventa responsabile anche delle condizioni ambientali entro cui il soggetto si
muove ed apprende. Concetto di pluralità: esistono molti punti di vista su uno stesso oggetto, fatto
che rinnova l’approccio disciplinare. Integrazione tra discipline e simili richiamano elementi
comportamentali e progettuali, cioè individuare obiettivi di apprendimento rintracciabili e valevoli
per più distinte discipline, obiettivi paritetici per tutte le discipline (transdisciplinari, es. sulle
competenze trasversali, come saper ascoltare, lavorare in gruppo, ecc.). Progettazione
interdisciplinare vuol dire usare le tecniche specifiche disciplinari nel creare un intervento didattico
che permetta l’attivazione dei processi d’apprendimento che portino alla costruzione dell’obiettivo
specifico. Nella progettazione del percorso didattico bisogna tener conto dei problemi che gli
studenti possono incontrare, quasi come prevedere l’imprevedibile, cioè ad esempio quando
qualcuno va ben oltre i limiti del progetto per conto proprio. Ogni strumento elaborato può essere
efficace, ma non è mai esaustivo, l’obiettivo che ci si prefigge non può mai essere definitivo.
Teoria della complessità di Morin, modello scolastico che metta i soggetti non in condizione di
acquisire una molteplicità di saperi, ma la capacità di trovarne le correlazioni considerando la
varietà dei punti di vista e mantenere un approccio critico a tale acquisizione. Esperienza del gruppo
multiprofessionale (progettazione per soggetti BES, piano didattico personalizzato), si rileva più qui
la pluralità di saperi perché l’oggetto di osservazione del CDC è l’apprendimento del ragazzo
interessato, bisogna dinamizzare le risorse interne del soggetto nella esperienza scolastica. Pluralità
dei docenti coi loro punti di vista, della famiglia che entra in gioco in questo piano didattico
osservando i modelli di interazione del soggetto nei vari ambienti. Dare quindi non sintesi, bensì
integrazione dei punti di vista, la tensione degli opposti deve trovare un livello di risoluzione (il
pensiero complesso di Morin). Talvolta vengono coinvolti nel processo anche altri professionisti
(es. sanitari, per loro è un paziente e non uno studente, ma il soggetto è lo stesso, diverse modalità
di osservazione, diversi approcci e modi di pensare l’oggetto di osservazione, diverso l’ambiente).
Osservazione partecipante, osservare e.g. facendo lezione, quindi interagendo con l’oggetto
(molto diverso dalla osservazione clinica, che riguarda un sistema alterato e di cui bisogna
ripristinare l’equilibrio). Ci si figura il soggetto disabile in modo molto diverso se si considera il
punto di vista clinico o quello pedagogico, ma si possono incontrare sul piano progettuale e su
azioni e metodi didattici. Legge 104 del 1992, definiva la necessità di una diagnosi che permettesse
al soggetto di individuare il danno patologico e le risorse residue da utilizzare nell’apprendimento.
Si tratta di un rapporto tra valutazione diagnostica e risorse residue. Questo è un approccio superato,
si parla ora di valutazione delle funzionalità, profilo diagnostico funzionale: quali sono le
funzionalità che il soggetto ha? Profilo di funzionamento: c’è un danno, ma non è quello che ci
interessa. Vediamo come, malgrado il danno, il funzionamento del soggetto si sia ridefinito e come
un insegnante possa creare le condizioni adatte per un corretto apprendimento. Tutto ciò è avvenuto
molto rapidamente, la scuola è lenta a reagire. ICF: definisce il profilo di funzionamento di ciascun
soggetto. In questa ottica l’apprendimento è attivo, si rifà agli studi di Bruner (psicologia
dell’apprendimento), approccio costruttivo (costruisce conoscenza interagendo con l’ambiente e
facendo esperienze). La scuola è un ambiente di sviluppo completo, come persone, non trasmette
solo saperi. Abbiamo tutti avuto un esame che non volevamo dare, ma le strategie impiegate per
evitare complicazioni e simili rendono intenzionale quel processo di apprendimento: non studio
perché è interessante la disciplina, ma perché è interessante qualcos’altro (e.g. stare in gruppo),
l’intenzionalità apprenditiva si sposta dall’oggetto di conoscenza a qualcos’altro, ma che comunque
comprende quell’oggetto iniziale. Oppure l’apprendimento mnemonico, anche quello può svolgere
questa funzione, mi imparo tutto a memoria e poi via tutto. Finisci così col ricordarti solo la fatica
che hai fatto, funzionale solo a breve o brevissimo termine. Se l’apprendimento è attivo per lo
studente che lo gestisce, lo è anche per il docente che insegna. L’intenzionalità del docente nel
processo di insegnamento passa attraverso l’intenzionalità progettuale, progetto formativo che fa
proprie queste intenzionalità educative. La didattica è il portare la tensione educativa in azione di
insegnamento, intenzionalità educativa nel progetto e nelle sue finalità. Apprendimento autentico:
ne esiste anche uno non autentico. Autentico se legato ad una dimensione di realtà del compito che
siamo chiamati a svolgere (non vuol dire che l’esperienza sia legata necessariamente alla percezione
dei sensi, può essere coinvolta anche la dimensione astrattiva, e.g. esperienza di laboratorio, con
degli ottimi strumenti tecnici formi anche migliori professionisti, forte legame con le imprese del
territorio, studenti tirocinanti ecc.). L’esperienza d’apprendimento si fa autentica quando si lavora
più sugli aspetti di modello piuttosto che con gli strumenti. Ed è un’esperienza concreta (situata),
deve essere sperimentata sul piano di realtà; collaborativa e distribuita, dimensione sociale di
interazione con cose e persone, apprendimento è nella interazione con oggetti interni ed esterni
dell’ambiente e del contesto (cioè insieme delle relazioni situate nell’ambiente). Altro tratto
dell’apprendimento è la dimensione riflessiva, cioè si genera una circolarità virtuosa fra
conoscenza, esperienza e astrazione riflessiva. Più che circolare ha un andamento a spirale, mossi
da un bisogno che ci spinge verso un oggetto di conoscenza. Acquisita la conoscenza la si
sperimenta nel reale e valutiamo i risultati, sulla base di quest’esito se siamo soddisfatti bene,
altrimenti bisogna capire cosa non ha funzionato e avere ben chiari i bisogni considerati.
Apprendimento significativo (Ausubel): legato a significatività per il soggetto discente. La
struttura cognitiva è qui un insieme organizzato delle conoscenze del soggetto. Un contenuto di
apprendimento è tanto più significativo, quanto più profonda e articolata è la relazione che lo lega
alla struttura cognitiva del soggetto. L’elemento significativo è quindi dato dal legame tra il
contenuto e la struttura cognitiva del discente. Più la struttura è capace di elaborare il contenuto, più
per il soggetto ha senso ed è apprendibile, se ne può appropriare e lo può ricostruire con nuove
conoscenze. In base a questo principio cambia anche il modello di insegnamento, differenze tra
modello classico (stratificazione delle conoscenze, immagine del muro di mattoni, processo
unilaterale da insegnante a studente, che ha un ruolo passivo, conoscenza di un paradigma
cartesiano, approccio riduzionista secondo Morin e frammentato, perché ignora le correlazioni tra i
diversi saperi, il docente non detiene solo la conoscenza, ma in termini relazionali anche il potere,
dinamiche relazionali nella classe regolate dalle interazioni tra studenti e insegnanti, possono essere
conflittuali e l’insegnante può essere ostacolato nell’esercizio del suo dovere, questo modello è più
esposto a un rischio di resistenza, la classe si può opporre) e modello moderno (immagine del
ponte, circolarità nella gestione del sapere, studente e insegnante sono ancora in posizioni polari ma
all’interno di una dinamica circolare in cui entrano in gioco altri elementi, cioè la conoscenza
dell’insegnante e dello studente, generata dalla cosiddetta funzione di scaffolding dell’insegnante,
cioè portare nella esperienza didattica una struttura che facilita l’apprendimento per lo studente; ciò
comporta una mediazione tra le strutture di apprendimento dello studente e i contenuti nuovi, così lo
studente elabora nuove strategie e risorse che ritornano all’insegnante come una conoscenza utile
per veicolare ulteriori elementi conoscitivi). Questa è la dinamica dell’apprendimento in aula, ma
allora quali sono le sfide per il docente? Anzitutto considerare i saperi come risorse da mobilitare,
non come contenuti da trasmettere (nell’ottica dell’apprendimento significativo). Capacità di
problematizzare, lavorare per situazioni problema, sviluppare un pensiero complesso, spirito critico
(teorie di Morin ecc.), coinvolgere gli allievi nel progetto formativo (patto di classe ecc.), cioè
coinvolgere i soggetti discenti nel progetto didattico (es. coinvolgere gli alunni nella progettazione e
nel processo di valutazione, che sono due processi didattici paralleli, comunque con tutti i limiti del
caso). Pianificazione flessibile delle attività didattiche, cioè da monitorare (se qualcosa non va nei
criteri di pianificazione selezionati, bisogna intervenire e cambiare cosa non funziona), e circolare,
cioè prendere i concetti e intorno a quelli costruire e non viceversa, cioè piegare le esigenze degli
studenti ad un percorso rigido e preimpostato. Fluidità: connessioni tra discipline, individuazione
dei nuclei fondanti, sequenza di concetti che conducono ad altri concetti e ne rappresentano la
condicio sine qua non. Funzioni dell’insegnante: predisporre esperienze che facilitino il processo di
costruzione della conoscenza, ovvero c’è la necessità di pensare a quale tipo di esperienza (attività)
si possa fare riferimento per facilitare (che non è meno complesso) l’avvicinamento del soggetto
discente a quei contenuti. Esempio di modello facilitante? Ci si può arrivare ascoltando gli ostacoli
che si incontrano durante l’apprendimento e pensare ad una soluzione. Uso di un glossario o
concentrazione su precisazioni concettuali sono elementi facilitanti non perché l’insegnante manchi
della cognizione, ma perché rispetto a questa disciplina bisogna rimuovere l’ostacolo, ci vogliono
quindi delle attività che consentano di rimuovere gli ostacoli (linguistici, strutturali, concettuali,
ecc.) dell’apprendimento, e.g. usando videolezioni, slide, concettualizzazione, diventa più facile
avvicinarsi all’esperienza. Esperienze di comprensione attraverso molteplici punti vista, richiamare
vari punti di vista; contesti realistici e rilevanti, cioè seguire un tracciato progettuale che permetta di
situarsi su un piano di realtà rispetto all’apprendimento. Incoraggiare la scoperta e l’azione da parte
dello studente, cioè muovere nel soggetto discente la necessità di andare a ricercare, muoversi in
modo autonomo per cercare risposte. Incoraggiare molteplici rappresentazioni del reale: non
limitarsi ad una rappresentazione che sappia di assoluto, uso di più filtri interpretativi diversi, non
l’unica verità ma le diverse verità. Incoraggiare la socialità dell’esperienza di apprendimento:
trasferire le buone prassi, cioè quando l’apprendimento è una esperienza che soddisfa e dà i risultati
attesi, allora le prassi metodologiche vanno condivise (docenti con docenti, scuole con scuole,
studenti con studenti, ecc.), ma è più difficile di quanto sembri capitalizzare la professionalità del
docente a partire da una esperienza positiva. Definizione e selezione delle competenze (DeSeCo)
della istituzione scolastica, le cui cornici di riferimento sono di tipo normativo (legislativo), che a
loro volta dipendono dalle direttive europee. La libertà di utilizzo dei contenuti disciplinari e della
ricerca è comunque limitata da cornici normative, e.g. cooperative learning nelle classi dove non si
possono distribuire i banchi in un certo modo perché sennò il luogo non è più evacuabile. Operiamo
in istituzioni normativamente codificate, la norma in un modo o nell’altro, nel bene e nel male,
interferisce con le nostre scelte. Quali sono i concetti che dobbiamo aver chiari prima di entrare nel
merito della progettazione didattica? Si passa attraverso una serie di precisazioni concettuali.
Attività didattica: costruire situazioni di esperienza di attività utili ad attivare il processo di
apprendimento, si definisce attività didattica una singola proposta di lavoro che il docente rivolge ai
propri alunni con tempi, obiettivi, consegne, spazi e compiti (Damiano 2007), sinonimo di
intervento didattico. Progettare un’attività significa stare in un percorso, ma incorniciare il tutto in
un tempo limitato, con precisi obiettivi didattici, precise e chiare istruzioni di svolgimento, entro
luoghi in cui realizzare l’attività e con certe tipologie di compito. Con più attività si costruisce una
unità di apprendimento, a sua volta con limiti, spazi e obiettivi, serie di attività correlate. Eg. attività
di lezione frontale (ca. 20’, poi cala l’attenzione), poi dividersi in gruppi con materiali su cui fare
ricerca e approfondire certi concetti fondamentali trasmessi nella lezione frontale (30’- 60’), 10’ di
pausa per alleggerire il carico cognitivo, infine rielaborare in plenaria i contenuti dei gruppi, cosa
che serve se si presenta in forma scritta o visuale il prodotto del lavoro. Durata totale ca. 3h. Quale
delle tre attività è laboratoriale? La seconda, ma anche la terza, perché tutti i soggetti sono in una
dimensione di laboratorio, compreso il docente. Definire o non definire i criteri in sessione
plenaria? Dipende dalle strategie cognitive che si vogliono sollecitare. Se ad esempio voglio che ci
arrivino i ragazzi, bisogna partire da lì. Altrimenti si danno i criteri e si monitorano le strategie
adoperate dagli studenti e si verifica chi le ha e chi no. Dispositivo didattico o cognitivo: attiene
alla teoria del knowledge management, la conoscenza non è tanto un apprendimento lungo tutta la
vita, ma si intende come ambiente da dover gestire. In sé il dispositivo è una categoria che rimanda
alla capacità di analizzare l’agire didattico interrogandosi sulla dimensione intenzionale e su quella
materiale. Che vuol dire analizzare l’agire didattico? Vuol dire fare operazione di riflessione sul
proprio agire in dimensione didattica ponendo il focus sulla intenzionalità, cioè su quanto ci sia da
parte del docente il mantenimento di una traccia progettuale che ne sia la direzione, e la dimensione
materiale, cioè importate il tutto sul piano del reale. Il knowledge management si occupa della
gestione della conoscenza. La metodologia didattica è la modalità di conduzione dell’azione
didattica, il percorso attraverso cui metto in atto i dispositivi. Architetture didattiche:
macrostrutture in funzione di determinati fattori, cioè il controllo del docente o dell’allievo, grado di
prestrutturazione del materiale (come docente e studenti strutturano il materiale per l’azione
didattica), quantità di interazioni tra docente e studente e sistema. Sistema complesso che genera
strutture di riferimento differenziabili in base agli elementi di cui sopra. Le architetture sono cornici
di riferimento nelle quali si possono collocare i formati, possiamo trovare i metodi che ci
permettono di esplicare l’agire didattico. Strategia didattica: combinazione a volte imprevedibile
che docente e studente mettono in atto di volta in volta. Le architetture sono scheletri che
sostengono azioni e attività che si attuano nel processo di apprendimento, esse sono le metodologie
di riferimento, che inducono tutti ad attuare strategie didattiche, che si costruiscono in tempo reale.
Formati: canovacci, quadri di riferimento cui ci si richiama per portare avanti le varie
problematizzazioni (es. dialogo socratico, problem solving, simulazione). Cos’è il dispositivo?
Concetto che si rifà ad un lavoro d’ambito clinico di Riccardo Massa (ca. 1992), usa per
concettualizzare il dispositivo la metafora del teatro, considerato come il luogo dal quale poter
rilevare la costituzione delle relazioni educative e luogo in cui intercettare quel correlato costante e
continuo tra educando e vita, teatro come ambiente e modello di riferimento da trasferire in sede
didattica. Il dispositivo è un mediatore spazio-temporale predisposto dal docente per favorire la
mediazione tra mondi e tra scuola e mondo, come un palcoscenico in cui si mettono in scena un
canovaccio e una scenografia, ogni attore entra in relazione con il mondo o altri mondi. Non va
necessariamente identificato con uno strumento, può essere dispositivo tutto ciò che facilita
l’apprendimento, non si tratta di usare un manufatto, ma disporre condizioni complesse concepite
con un fine, cioè quello di agevolare l’agire didattico. Non si definisce in sé un dispositivo, ma
rispetto alle funzioni che attiva. In questi termini, lo stesso insegnante potrebbe essere un
dispositivo. Il dispositivo educativo attiva processi di sviluppo del soggetto, è un sistema che
prevede al proprio interno una serie di elementi che siano spazi, tempi, oggetti, soggetti, metodi,
ecc. in parole povere, un progetto. Il progetto educativo è sia strumento che metodo e quando passa
ad un oggetto che non è solo uno scritto su carta allora è un dispositivo educativo, che è un livello
“meta-” dell’agire didattico, caricato di una forte valenza simbolica. Il confronto con altre figure e
altri problemi, la necessità di attivare altre linee di ricerca, esigenze varie di approfondimento ecc.
emergono soprattutto nei CDC, anche se spesso tutto si riduce ad un gioco di potere che assegna più
peso alle discipline con più ore, le scelte metodologiche risultano così orientate in funzione
dell’interesse di quei docenti che hanno più influenza in base a quest’ottica, in cui il centro
dell’attenzione non è più la classe: questione del substrato culturale ecc. Visione ergonomica ed
ecologica legata al concetto di dispositivo, allestisce un ambiente in cui le relazioni studenti-docenti
si configurano in maniera dinamica e diventano sistema, cfr. il modello circolare di cui sopra, che è
a tutti gli effetti un dispositivo educativo, il focus si situa sempre di più sul processo di
apprendimento in direzione di un apprendimento significativo. Dispositivo didattico: modello
inteso come metodo che intendiamo utilizzare per assicurarci che i nostri allievi sviluppino insieme
a noi docenti una dinamica circolare e significativa funzionale all’apprendimento. I dispositivi
didattici non sono solo strumenti tecnologici, ma anche apparati culturali, concettuali e normativi; si
possono classificare come istruzionali (es. lezioni frontali, studio individuale, ecc.), funzionali a
collaborazione-regolazione (in cui si indaga, si sceglie e si progetta, prevedono spesso
condivisione, negoziazione e interazione in gruppo, il soggetto si misura con l’esperienza)
funzionali a riflessione-autovalutazione (utili alla metacognizione, selezionare e raccogliere
produzioni, scrivere riflessioni, progettare la propria formazione, favoriscono la consapevolezza del
sé professionale). I rapporti reciproci di dinamicità si valutano con un diagramma triangolare, una
scheda delle dimensioni educative che devono entrare nell’agire didattico. Il dispositivo didattico si
qualifica come un reticolato su cui si imposta una finalità educativa precisa. Trova un punto di
contatto con le intenzionalità educative, con la dimensione pedagogica, è una sorta di filtro che
guarda a entrambe le discipline. Quali sono gli ambienti in cui questa complessità si esplica? Gli
ambienti di apprendimento possono essere generati dai dispositivi educativi e didattici, sono l’esito
della progettazione degli insegnanti e derivano dalla progettazione che gli insegnanti fanno sulla
prima base progettuale, sono ambienti connotati da qualità organizzative, strategie di
organizzazione delle informazioni, in unità, definibili come moduli di realizzazione dei processi
cognitivi (cioè esito in forma modulare dell’azione cognitiva del soggetto), punto di incontro
soggettivo-ambientale (interazione tra soggetto e piattaforma di base in cui il soggetto individua i
contenuti e le strategie di gestione), tra strutture della cognizione (come il soggetto struttura la
propria capacità di conoscere) e manifestazioni dell’apprendimento (la restituzione delle
conoscenze). L’ambiente ci permette di osservare tutto questo, ai fini della azione didattica
l’osservazione su questi elementi ci dà il punto di sviluppo del processo di apprendimento degli
studenti.
Metodologie didattiche, lezione 7 (14/12/2017)

Oggetto: dalla dinamica dei dispositivi ai metodi di progettazione didattica, su cui versano
le attuazioni delle teorie pedagogiche e gli esiti dei progressi formativi della formazione
degli studenti. Altro pilastro è la valutazione.
Il modello di progettazione didattica non è immediato, pare un artefatto astratto: si deve
entrare nel merito di questo concetto con tecnica.
Ripresa dalla lezione precedente: precisazioni concettuali relative al linguaggio specifico
della disciplina, che richiama la pedagogia (artefatti, dispostivi); in modo particolare, si è
compreso di cosa si parla dicendo dispositivo didattico (Rossi-Toppano rimandano alle
dinamiche prioritarie rispetto alle attività didattica).
In che modo dobbiamo ragionare per poterci dare una scelta di un tipo di dispositivo
rispetto all’altro, qual è la mia intenzionalità progettuale? Ci sono dispositivi che hanno la
finalità di lavorare sulla acquisizione di conoscenze e procedure: questi sono noti
comunemente come lezione frontale, piuttosto che un lavoro su un determinato contenuto,
fatto mediante la lezione guidata, piuttosto che la metodologia a scoperta guidata ecc.
[slide 1: Dispositivi] I dispositivi che possiamo scegliere con l’intenzione pedagogico-
didattica che permettano l’acquisizione di conoscenze e procedure sono quei dispositivi che
hanno come caratteristica la modalità guidata di gestione dei materiali e delle conoscenze.
Poi abbiamo dispositivi con al centro attività di riflessione e autovalutazione: sono quelle
modalità didattiche il cui fine è di aiutare il processo di apprendimento dello studente
mediante la selezione e la produzione di riflessioni proprie per progettare la propria
formazione. Quello che noi chiamiamo in generale come modalità e tecniche didattiche è,
nel caso di questi dispositivi di riflessione e autoriflessione, è l’insieme di modalità e di
tecniche che permettono allo studente di riflettere sui propri processi di apprendimento, e
supportano la metacognizione, approccio didattico metacognitivo. Es.: diario di bordo per
gli studenti in classe, con la funzione di aiutarli nella riflessione della loro esperienza
didattica in aula (come si lavora, sensazioni, interessi, difficoltà ecc.), per poi arrivare
all’autonomia dello studente. Altro strumento che fa leva sul metodo: questionario di
autovalutazione realizzato dall’insegnante con possibili risposte chiuse o apere che aiuti la
riflessione sui diversi processi cognitivi che l’allievo ha attivato durante l’apprendimento
piuttosto che su aspetti motivazionali, autostima ecc..
Questi strumenti hanno lo specifico dell’attività per i quali il dispositivo è pensato. Questo
dispositivo favorisce la consapevolezza delle proprie strategie di apprendimento. I materiali
di questo dispositivo producono la conoscenza che lo studente ha di sé, dei proprio processi
di conoscenza.
Altri dispositivi: di collaborazione, che hanno come focus l’indagare e scegliere in maniera
autonoma. Gli studenti sapranno fare ricerca, progettare un determinato prodotto
autonomamente e sapranno scegliere tra le diverse informazioni le più idonee all’ipotesi di
progetto.
Le tipologie di attività didattiche dove si situano questi dispositivi: dove è prevista la
negoziazione e l’interazione (cooperative learning). I processi di conoscenza alla base di
questi dispositivi riguardano la scelta dei materiali, i prodotti esito del lavoro e restituiranno
la conoscenza costruita.
Ipotesi: istituto alberghiero, si chiede ai ragazzi che fanno cucina di progettare un menu
particolare, con specificità legate alle varie necessità. Si chiede agli studenti di dividersi in
sottogruppi, e si può scegliere una attività di gruppo o anche una attività cooperativa se
l’obiettivo didattico è anche il lavoro su livelli ulteriori della stessa competenza. Se si
propone il cooperative learning si chiede di dividersi in gruppi individuati dall’insegnati
sulla base delle competenze trasversali e competenze di tipo cognitivo. Si avrà poi la
necessità di dare imput precisi non su come gestire il lavoro, ma quale sarà il ruolo del
docente o dei docenti in caso di attività interdisciplinare e quale sarà invece il ruolo degli
studenti. Quali sono gli obiettivi di questa progettazione didattica? In termini di obiettivi
formativi: quali competenze del curriculum per quel particolare curriculum? Parlare in
termini di competenze significa aver chiaro quali saranno le competenze del curriculum e
quali tra queste voglio raggiungere. La competenza è l’equivalente dell’obiettivo formativo,
e differiscono dall’obiettivo didattico (che poggia sugli elementi dei dispostivi che
l’insegnante mette in campo). L’obiettivo formativo è composto dagli obiettivi didattici e
dagli altri obiettivi (competenze trasversali, relazionali, di personalità) che attuano le
direzioni pedagogiche. All’interno della stessa attività si può anche pensare all’inserimento
di fonti particolari dove gli studenti possono ricercare gli elementi per il loro progetto. Un
dispositivo di autoriflessione permette di gestire meglio tutti questi aspetti. Tutti questi
elementi saranno scritti all’interno della progettazione didattica. Questo sta anche
nell’attività di autovalutazione, perché quando scelgo delle informazioni o delle fonti devo
darmi dei criteri che sono criteri autovalutativi, anche sulla modalità con cui si lavora sui
contenuti.
All’interno della stessa attività posso pensare a delle caratteristiche o delle fasi dove sia
previsto un dispositivo che privilegi un’attività istruzionale, che nel caso del cooperative
learning è strettamente legata alle regole che ci vogliamo dare, alla condivisione delle scelte
sulla metodologia, ma è ridotta. Un’attività di cooperative lavora sugli elementi alla base
del triangolo nella slide. Un aspetto istruzionale si ha nel lavoro di gruppo: il laboratorio,
dove anche il docente ha un ruolo e sollecita l’attività osservativa e quindi livelli di
autovalutazione o riflessione, in itinere o alla fine e questo lo sceglie il docente. Questo in
ottica inclusiva va declinato: i dispositivi di questo tipo sono indicati all’inclusione di
soggetti BES (bisogni educativi speciali), così come attività non frontali ma laboratoriali; e
l’inclusione sussiste anche usando dispositivi di tipo istruzionale. Per la progettazione
didattica, quando si ha a che fare con disabili o BES, la progettazione passa per un lavoro
strategico con l’insegnante di sostegno. I dispositivi che sono funzionali ad attività di
collaborazione sono i più efficaci in termini di inclusività, perché lavorano prevalentemente
sulle competenze trasversali.
Il tutto accade in ambienti di apprendimento che hanno necessità di essere pensati
all’interno della cosiddetta progettazione didattica, e questi ambienti sono generati dai
cosiddetti dispositivi educativi e didattici. Il progetto insieme ai dispositivi mi permettono
di creare l’ambiente di apprendimento [slide 2: Ambienti], che non è luogo fisico, ma è
l’insieme delle intenzionalità, azioni, fasi perseguite che riguardano la mia classe o parte di
essa, l’insieme delle relazioni (basi dei dispositivi educativi), della progettazione didattica.
L’ambiente non è la scuola specifica, è il luogo reale/virtuale dove si verifica tutto questo.
Gli ambienti sono soggetto terzo nell’ambito educativo, ponendo attenzione
all’intenzionalità inclusiva, si parla di una progettazione situata (in un luogo strategico e
funzionale) e intenzionale/strategica (perché seguirà un processo che miri al
raggiungimento di un obiettivo didattico, ma la costruzione di una competenza che si rifà
alla dimensione educativa). I dispositivi spiegati sono la dinamica che ci fa individuare
l’ambiente di apprendimento. Gli ambienti derivano dai dispositivi di primo livello, e sono
moduli di realizzazione dei processi cognitivi, di incontro tra dimensione soggettiva e
dimensione ambientale, non è la sequenza dei contenuti disciplinari.
[slide 3: L’evoluzione degli ambienti didattici] La prima trasformazione degli ambienti didattici
ha lavorato sul termine contesto: gli ambienti di apprendimento si evolvono a partire
dall’evoluzione di questa nozione, che ha attraversato il passaggio [molto pseudo]
etimologico: con te sto, e la fase scientifica che ha visto il collegamento tra l’apprendimento
come mera acquisizione di nozioni all’apprendimento come stimolazione di moduli a
carattere cerebrale (interesse a livello cognitivo).
Il cognitivismo individuava nel contesto un aiuto o supporto al processo di apprendimento,
lo accompagna e aiuta il soggetto nell’interpretare la realtà senza essere determinante. Il
luogo, l’ambiente può essere uno dei fattori determinanti, ma non influenza in maniera
radicale, può supportare l’apprendimento ma non lo attiva né inibisce.
Post-cognitivismo: la ricerca sull’apprendimento e i processi di conoscenza vede il contesto
come elemento fondamentale (Wigoski, zona di sviluppo prossimale, grande importanza
della relazione con l’altro più esperto): il valore delle relazioni socio-culturali che il soggetto
può mettere in atto incidono in maniera significativa sui processi di apprendimento e sono
elemento costitutivo.
[slide 4; slide 5: Post-costruttivismo] Post-costruttivismo: Abbiamo modelli che sono
strumenti concettuali che il soggetto ha la necessità di co-costruire nella relazione con gli
altri e con l’oggetto stesso di apprendimento, e quindi inserito all’interno dell’attività di
apprendimento. Abbiamo gli artefatti, esito di un processo che vede il soggetto costruire e
co-costruire nella relazione con tutti gli elementi dell’ambiente di apprendimento il suo
prodotto della conoscenza. Si sottolinea la generazione di modelli osservabili, la
generazione di rappresentazioni della conoscenza: prima ancora di interagire con l’oggetto
di conoscenza ho bisogno di averlo almeno immaginato. La capacità di generare
rappresentazioni è condizione imprescindibile. Problem posing: concettualizzazione di un
problema attraverso la riflessione su una specifica situazione che mette l’alunno in una
situazione di sfida. Insieme al problem solving, che è di tipo puramente cognitivo, nel
problem posing è il soggetto nella sua totalità (anche emotiva e affettiva) che si pone nei
confronti dell’attività in atteggiamento di sfida, un’attività che mi chiama a dover superarla,
ma in maniera critica, di attivare le risorse delle quali il soggetto dispone e tra queste anche
risorse personali. I patterns sono l’esito del processo cognitivo, che mi permettono di
immaginare l’attività mentre la sto completando. L’apprendimento significativo fa parte di
questo ulteriore passaggio.
Ambiente: esito di tre elementi: attori (soggetti non come dispositivi cognitivi, ma con scopi
personali e intenzioni personali rispetto all’esperienza); trame di relazione; ambienti fisici,
strumenti e artefatti.
Per questo gli ambienti sono elaborati in un setting culturalmente connotato (e questo è
importante per l’inclusione di soggetti con cultura diversa dalla nostra): gli ambienti di
apprendimento in culture altre risentono o hanno strutturato modalità di apprendimento e
specificità che non sono riconducibili a quelli strettamente legati agli ambienti della nostra
cultura. Dalle intenzionalità all’incontro con l’ambiente per arrivare ai dispositivi questi
hanno elaborato processi di apprendimento che sono diversi. Questo vuol dire che le
modalità educative e processuali che i docenti devono pensare influenzano in maniera
significativa l’impronta che il docente ha con il contesto specifico: detto altrimenti, la
dimensione soggettiva e professionalmente significativa del docente incide il processo di
apprendimento e la progettazione (che non può essere asettica), ma che necessità sempre
anche delle riflessioni dei tre elementi (attori, relazioni ecc.)
[slide 6: Ambienti in rete, in presenza e misti] L’ambiente non è riducibile al solo luogo fisico,
ma può essere puro o ibrido. Ambiente ibrido: vede lo spostamento dell’interazione faccia
a faccia in altra tipologia di modalità, ma la modalità attraverso elementi di mediazione
come le piattaforme virtuali. La dimensione della rete è una delle dimensioni che può
influenzare l’ambiente di apprendimento puro, ed è mediata.
[slide 7: Ambienti in rete, ambienti fra strutture formali e contesti informali] Le modalità e-
learning non è mai faccia a faccia. La metodologia dipende dalla classe con la quale ci si va
a confrontare, i suoi bisogni formativi ecc., bisogna avere alcuni momenti storici, o alcuni
elementi culturali della classe. Nei contesti scolastici formali il rapporto tra apprendimento
formale e informale si esplicita nelle relazioni tra alunni, il che accade quando sono situati
in ambienti di tipo formale. Le interazioni sono di modalità di apprendimento personali
alternative a quelle scolastiche. Gli alunni interagiscono attraverso l’uso di strumenti e reti
che sono prevalentemente il web. Mentre lo sviluppo di strategia parallele nella classe è tra
docenti e alunni e sapere (dinamica e tripartita), perché interseca le modalità consuete nella
conduzione delle esperienze di apprendimento (normalmente gli alunni interagiscono in un
ambiente alternativo, mentre la dinamica che vede anche il docente e il sapere si interseca
nelle proprie classi, nella situazione formale, ove tutto è comunque mediato dalla
dimensione del sapere in quanto tale, modellato sulla consuetudine dell’apprendimento).
Riusciamo a conciliare i linguaggi e gli ambienti formali e informali, reali e virtuali.
[slide 8: Artefatti] Artefatti concettuali, cognitivi, materiali: unione tra processo e prodotto:
è l’esito del progetto e di quello che così abbiamo costruito con gli studenti. È una risposta
che gli alunni forniscono agli insegnanti per monitorare il processo di apprendimento.
L’esito dei processi e dei prodotti che gli allievi portano è sostanzialmente il feedback della
progettazione didattica e della scelta metodologica che l’insegnante ha fatto rispetto ai
bisogni formativi.
[slide 9: segue la precedente]: l’artefatto si può definire come ogni aspetto del mondo
materiale e sociale all’interno delle attività umane dirette a uno scopo; possono essere
oggetti (possono cambiare) o processi (sono dei cambiamenti). Tipologie: progettuali
(progettazione attività didattiche come artefatto concettuale e mediatore delle interazioni
sociali che avvengono a scuola), cognitivi (prodotti mentali con i quali gli insegnanti sono
abituati a operare in classe), materiali e motori (strettamente connessi agli artefatti cognitivi
(es. capolavori elaborati al termina di una attività didattica, microprodotti ecc.)

[slide 10: Modelli della progettazione didattica] Due tipi di approccio: 1. Progettazione come
modello funzionale e relativo al problema che la stessa progettazione intende affrontare o
un modello legato a un oggetto da realizzare. Questo consiste nell’individuare le variabili
dipendenti e indipendenti del sistema, redigere le relazioni che legano le variabili e
classificare le condizioni di contorno, ossia il confine entro cui si svolge l’attività progettuale
(vincoli di progetto): si individuano le fasi dello sviluppo e della realizzazione dell’artefatto
desiderato, il progetto. La specificità di questo approccio è l’individuazione di un modello
e delle fasi che si esplicano.
[slide 11: II approccio] La progettazione non è la strategia di risoluzione di un determinato
problema, ma come costruzione di modelli complessi attraverso cui risolvere quella che è la
complessità del problema affrontato. Nel I approccio ho delle fasi attuative di un modello,
nel II ho molti modelli di cui devo capire le correlazioni. Questo approccio prevede che il
progetto si modifichi continuamente. Questo deriva dalle teorie di Berthoz, concetto di
semplessità: si cerca di individuare un modello di progettazione che tenga conto della teoria
della complessità (teoria di Morin). Berthoz: la semplessità consiste nell’insieme delle
soluzioni trovate di fronte alla complessità dei processi naturali in modo che il cervello
posso preparare l’atto e anticiparne le conseguenze. Vuol dire pianificare strategicamente
rispetto alla complessità del problema o dell’apprendimento. Vd. sito nuovadidattica.
Semplessità non è ridurre, costruire un modello lineare, ma è collegare, immaginare, inibire
alcune soluzioni ma senza eliminarle
[slide 12: semplessità] La percezione cosciente è sempre un’anticipazione di un evento che si
produrrà nel mondo. Ogni tipo di azione che io immagino di esplicare nel mondo muove in
me degli stati differenti che sono di valutazione soggettiva, senza averla esplicata ancora.
Se la percezione che io ho è comunque una simulazione di questa eventuale azione nel
mondo, che io per questo vivo come vera, non è il solo pensiero. La coscienza è ciò che
abbiamo anticipato di fare, non quello che facciamo. La semplessità è dunque
quell’atteggiamento connaturato e sostenuto da competenze e comportamenti che fanno sì
che il nostro essere in relazione col mondo ci permette di simulare qualsiasi nostra azione
nel mondo stesso. Due aspetti da sottolineare: 1. Come io affronto il problema: posso avere
un approccio semplificativo; ma una modalità semplessa è di cercare di inserire all’interno
della nostra rappresentazione della situazione tutti gli elementi aggiuntivi dell’oggetto del
contendere. Quando si parla di complessità non è importante solo l’oggetto specifico del
contendere. [secondo punto non esplicitato]
[slide 13: Semplessità – i principi] Il processo semplesso è basato su diversi principi: posso
inibire e disinibire (poter pensare che alcune modalità di risoluzione già usate possano
essere inefficaci). Si fa quindi una proiezione mentale denso dei nostri vissuti. Principio
della selezione e della specializzazione, che è a monte di ogni azione: non posso scegliere di
inibire una traiettoria se non posso scegliere a monte di farlo (anticipazione probabilistica,
non attraverso un mero calcolo statistico, ma con ragionamenti quali-quantitativi cerco di
tracciare una probabilità reale che anticipi l’esito dell’apprendimento). Principio della
deviazione (aggiunta di una complessità accessoria: quando io procedo al lavoro mentale
metto in conto di poter aggiungere elementi di complessità che mi mettano in condizione
quantomeno di poter deviare, anche rispetto alle traiettorie che avevo tracciato sino a quel
momento). È attraverso questo simulare che io posso aggiungere delle variabili. Principio
della cooperazione e della ridondanza: posso pensare a due livelli distinti che siano da una
parte la prospettiva sulla complessità in quanto tale, d’altra parte posso validare solo le
prospettive che ritengo coerenti con quella prospettiva di complessità). La semplessità è ciò
che dà senso alla semplificazione ma non è riduzionista, proprio perché c’è una
intenzionalità risolutiva che però si sposta dal fine del riduzionismo all’intenzionalità come
funzione, all’idea di rapportarsi all’idea in maniera funzionale.
[slide 14: Strumenti della semplessità] Individuare i componenti del partnernariato,
individuare gli elementi che saranno funzionali all’attuazione del progetto stesso. Parlare
di semplessità significa provare a simulare situazioni che tengano insieme le diverse aree di
problematicità pur restando nelle correlazioni che ci sono tra loro; il riduzionismo rimane
nel compartimento stagno.
Strumenti della semplessità (oggetti o situazioni su cui appoggiarsi per poter operare):
separazione delle funzioni e delle modularità (temporalità: tempistiche (saperle modularle
prima l’una poi l’altra sono le cose che danno la simulazione mentale). Rapidità: presuppone
l’anticipazione, la previsione delle conseguenze dell’azione, è connessa alla rapidità del
pensiero in atto, la rapidità con cui noi rispondiamo e restituiamo in azione quello che
abbiamo immaginato è un dato da non sottovalutare: la rapidità di risposta dà spesso
elementi di fraintendimento nell’esito. Flessibilità e adattamento al cambiamento. Memoria.
Generalizzazione: tendiamo a rapportare ogni situazione a un modello spendibile nelle
situazioni successive. Affidabilità: condizione che mi permette di non scappare via e tornare
a una forma riduzionistica, ma che mi garantisce di avere una visione approfondita di ciò
che sto costruendo a livello di immagine; è quindi la possibilità di un percorso, un ritorno
costante e continuo che non si limita a un solo passaggio. La soggettività è sempre una
caratteristica di questi approcci: la semplessità non è un metodo, è una predisposizione
mentale di fronte a una situazione caratterizzata da complessità.
[slide 15: La progettazione come modello pedagogico] La progettazione è necessaria a limitare le
azioni spontaneistiche e limitare l’improvvisazione. Rispetto alla progettazione come
modello pedagogico i modelli prevalenti sono due: modello della razionalità e costruttività
del sapere (tende a sistematizzare le operazioni logiche e funzionali e si caratterizza di una
linearità esecutiva, di una logicità: progettare è l’equivalente dell’organizzare un percorso,
un viaggio); modello della spontaneità e della episodicità, legato alla capacità di scoperta
dell’allievo (più efficace nei primissimi anni del soggetto)
[slide 16: Modello integrato: progettazione come problem solving] Come tipo di modello ci toglie
dalla logica sequenziale problema/risposta, ci toglie dalla spontaneità e ci mette in
condizione di relazionarsi a tutti gli aspetti implicati nel processo formativo. Ci permette di
inserire all’interno della modalità progettuale le variabili che intervengono e interessano la
progettazione: sia l’aspetto cognitivo che quello squisitamente relazione. Pensare che la
dimensione cognitiva e quella relazionale entrino in gioco a fasi alterne è semplificare la
complessità degli studenti.
[slide 16: Pellerey] La nostra progettazione non può prescindere dal nostro essere inserita in
un contesto didattico e dei curricula che il Ministero fornisce. Noi andiamo verso un
modello di progettazione che considera il curriculum un artefatto, un dispositivo educativo
che contenga le indicazioni per la formazione della personalità dello studente, non solo per
la trasmissione dei saperi. Pellerey ci porta in questa concezione. Il progetto interviene sui
processi di apprendimento e insegnamento e i problemi correlati a questo. La progettazione
didattica è un processo di problem solving, ed è correlata a questo e organizza un sistema
al fine di risolverlo, ossia di portarlo a un livello qualitativo di efficacia, proponendo una
coerenza interna e favorendo l’operatorietà delle tecniche utili alla didattica.
[slide 17: Passaggi chiave] Stesura dell’ipotesi come modellizzazione e selezione degli
elementi della realtà mediante filtri selezionati; definizione di un progetto come ipotesi di
lavoro ma anche come ambiente di lavoro per i diversi attori che preveda dall’analisi del
fenomeno e del contesto il focus sui punti e sui momenti decisionali e al rappresentazione
come “modello costruito della realtà”; concretizzazione operativa del modello attraverso la
trasformazione del modello astratto, la raccolta delle informazioni in itinere e la valutazione
delle reazioni degli allievi, l’adattamento sulla base dei dati raccolti in itinere.
[slide 18: segue la precedente] Al di là dei due approcci progettuali, si può pensare il
progetto come tecnica razionale che lavori sulla dimensione organizzativa; inoltre, si può
avere un approccio che veda oltre la dimensione organizzativa quella dimensione di
complessità specifica dei particolari processi: uno è più legato alle logiche organizzative,
l’altra alla logica della complessità.
[slide 19: Logica della razionalità tecnica] Essa prevede un rapporto lineare tra i momenti del
processo formativo (temporale, con valutazione alla fine); nella logica della complessità ho
un ricorso tra tre momenti: fase progettuale, fase attuativa e fase valutativa (rapporto
ricorsivo: mentre progetto attuo il progetto e mentre lo attuo valuto se è coerente o no). Sono
fasi di processo, non logico-sequenziali. Si andrà sicuramente a modificare degli elementi e
questo riguarda anche la progettazione della lezione.
[slide 20: Modelli lineari] Tyler: domanda guida (anni ’40), per primo interveniva a
sistematizzare i processi educativi; Taba: successione logico-cronologica dei passi da
compiere (dimensione strutturale del progetto); Bloom: l’insegnamento causa
l’apprendimento (concetto di metamodello, correlando la progettazione didattica con
l’apprendimento à tassonomia di Bloom: elementi sulla base dei quali l’allievo apprende
(memoria ecc.)); ADDIE (Analysis, Design, Development, Implementation ad Evaluation),
anni ’70, parte dal catturare l’attenzione sul processo formativo fino ad arrivare ai sisemi di
valutazione, che torna alla dimensione analitica.
[slide 21: Superamento dei modelli lineari] Si deve arrivare ai giorni nostri: Audrey e Nicholls
(1975): modello ricorsivo di elaborazione curricolare: definizione degli obiettivi
dell’insegnamento (esame delle fonti a disposizione legate ai bisogni degli studenti);
elaborazione e sperimentazione di metodi e materiali ritenuti più adeguati al
raggiungimento degli obiettivi prefissati; accertamento del grado di raggiungimento degli
obiettivi e riflessione su di essi (eventuale ridefinizione); feedback sulle esperienze compiute
e finalizzate a progettazioni future.
[slide 22: Anni ‘90] Progettista riflessivo: l’insegnante non si limita a trattare
l’apprendimento dello studente come oggetto distinto da sé ma come elemento su cui porre
riflessione e attenzione anche a partire da sé. La progettazione è sempre in dialogo col
progettista, vi è una co-costruzione attraverso influenze tipiche del dispositivo. Io mi
trasformo mentre sto insegnando.
[slide 23: Sono gli anni della Società della Conoscenza] Questo è il modello che propone
Baldacci: tenta di riassumere le diverse aree di intervento di una progettazione riflessiva. à
ripresa nella lezione successiva
Metodologie didattiche, lezione 8 (21/12/2017)

Modello proposto da Baldacci, legato alle dominanze rispetto all’azione progettuale. È


un’idea di società che la stessa pedagogia fa propria: società della conoscenza. Nel periodo
attuale, di sviluppo, bisogna lavorare altrettanto sui sistemi di sviluppo della conoscenza.
Parlare di società della conoscenza vuol dire essere in linea con le direttive della Comunità
europea (Lisbona 2000, Lisbona 2012, varie agende della commissione europea). Entrano in
modo prepotente le nuove tecnologie (internet: grande accesso a fonti e informazioni, che
richiede la competenza per essere gestita). L’uso di questi strumenti va programmato
preventivamente per prevenire dinamiche di esclusione sociale. C’è la necessità di ripensare
le nozioni didattiche così da ripensare un sistema di progettazione che tenga conto di alcune
prevalenze: prevalenza del prodotto o del soggetto rispetto al processo, ad esempio.
Baldacci schematizza questa dominanza.
[slide 1: Sono gli anni della Società della Conoscenza; la parte in neretto sono le finalità
formative, che indirizzano la mia scelta] Tabella: verticale: soggetto e oggetto culturale;
orizzontale: processo e prodotto. Questi elementi interagiscono tra loro dando l’esito che è
un dispositivo educativo o didattico che punta a un determinato aspetto.
Combinazione 1: Aa: è un modello didattico centrato sullo sviluppo dei processi cognitivi
superiori: l’interesse di questo modello che vede il soggetto dominante sul processo ha la
funzionalità di lavorare sui processi elaborativi del sapere, si migliora la qualità mentale del
soggetto (la lezione frontale non corrisponde a questo modello). Si sviluppano le capacità
elaborative e critiche del soggetto anche verso la propria esperienza formativa. Capacità di
acquisire i combinati interdisciplinari e che riflessione critica svolgere su queste. Questo
livello non si poggia sulla quantità del sapere, ma su quali capacità individuali del soggetto
ci sono. L’apprendimento significativo si inserisce qui.
Combinazione 2: incrocia il soggetto rispetto al prodotto: focalizza l’attenzione sulle
capacità che il soggetto può avere e sul modo in cui queste abilità possono produrre un
prodotto di qualità. Si fa riferimento ai talenti e al loro sviluppo che ognuno ha, e come può
situarli, implementarli e svilupparli all’interno di un modello didattico: coltivazione di
talenti personali, raggiungimento da parte degli alunni dell’eccellenza (= puntare sulla
performance), il che significa non interessarsi in modo specifico dei processi. Lo sviluppo
del talento è visto attraverso il miglioramento dei traguardi.
Combinazione 3: intersezione di oggetto e processo stesso. Chiedo di dare rilievo al
contenuto, piuttosto che al processo, così cerco di sviluppare l’area dei saperi,
dell’arricchimento culturale del soggetto. Il processo deve sottostare all’acquisizione di
nuovi oggetti del sapere. Promuove processi intrinsecamente aperti di appropriazioni
interiore di contenuti, di significati e valori per avere un arricchimento spirituale (crescita
personale ed esistenziale), così da darsi forma. È la dimensione che porta il soggetto verso
lo sviluppo educativo. Questo è il modello che dà senso all’esperienza educativa. Lo si trova
nel declinare gli obiettivi formativi (competenze) e vede al proprio interno elementi di
contenuto, legati al contesto di riferimento e risorse personali del soggetto. Nelle parti che
definiscono la personalità del soggetto trovo elementi di evoluzione, sia personale sia
sociale (intendere la scuola come luogo di formazione dei cittadini). La parte legata agli assi
culturali nel curriculum sono quelli da richiamare quando si progetta didatticamente in
ottica futura.
Combinazione 4: competenze di base: intercetta l’oggetto rispetto al prodotto. Richiama il
concetto di competenza di base, che significa che il tipo di modello didattico che scelgo di
usare si occupa di lavorare sulle basi perché da queste si costruiscano competenze più
complesse. Sono quell’insieme di saperi, capacità gestionale di quel sapere che ci permette
di affrontare la dimensione disciplinare e anche di approcciare alle eventuali correlazioni
tra le diverse discipline. Qui la personalità del soggetto incide meno. Questo è il modello
più frequentato all’interno della scuola. È un modello che vede come predominante il
prodotto e l’oggetto, quindi mira a perseguire tutti i risultati preposti relativamente al
campo del sapere, è fortemente legato alle nozioni disciplinari, e al saperle gestire. Questo
si fonda sul fatto che i curricula (percorsi che gli studenti necessitano di fare per sviluppare
e acquisire le competenze, non ultimo il saperle spendere) sono percorsi di conoscenze già
consolidati: riporta al percorso programmatico, legato agli step del sapere. È legato allo
svolgimento del programma. I metodi prevalenti di questo modello sono quelli che
lavorano sull’acquisizione del sapere, sul sostenere la tensione a che il soggetto tenda a
memorizzare il sapere.
[slide 2: Modello di base Bb e Modello Aa]. Qui la competenza si schiaccia sul significato di
capacità: il soggetto sa ed è capace di… Il concetto di competenza va oltre l’abilità e la
capacità, ma quando ci concentriamo sul prodotto diventa sinonimo di capacità. È un sapere
e saper fare (modello degli anni ’70; si intendevano tre fasi: sapere, saper fare e saper essere
che andavano sviluppati in sequenza. Si osserva che la sequenza lineare non corrisponde
alla capacità effettiva del soggetto di tradurle in competenze proprie, il rischio è rimanere
nella memorizzazione, si riduce la valenza educativa). Dalla linearità della sequenza delle
fasi ci si è posti il problema della crescita mentale e intellettuale, quindi il processo si è
bloccato, perché il saper essere non si sviluppo all’interno della scuola, e il tutto viene
rivisitato inserendo il concetto di competenza con la teoria della complessità. Questo
modello delle competenze di base si fonda sul fatto che la cultura è un diritto di tutti; la
difficoltà di apprendimento possono dipendere da fattori interni che possono essere rimossi
o puntare ai livelli minimi, e se sono esterni si rimuovono. Questo linguaggio riporta a
concetti basilari della valutazione progettuale didattica. Qui l’insegnamento è di tipo
trasmissivo: l’insegnante e i contenuti disciplinari sono al centro e i discenti sono coloro che
hanno l’obbligo di far propri quei saperi, di poterli gestire e che hanno in qualche modo la
necessità di essere valutati su criteri standard. Nella scuola degli anni ’70 lo scopo era di
formarsi per inserirsi nel mondo del lavoro; è con l’evoluzione del contesto sociale che la
scuola necessita poi di orientarsi su altri modelli di riferimento. L’insegnate qui trasmette i
suoi saperi, che sono stabiliti in partenza, non è dato di pensare a una costruzione del sapere
all’interno del contesto di riferimento.

[Lunga digressione sulla persistenza oggi del modello trasmissivo del sapere e sulle
difficoltà incontrate dalla scuola dagli anni ’70 su sollecitazione di una domanda: carenza
di edifici; fine anni ’70: inserimento disabili nella scuola (definito selvaggio, si inseriscono
tutti nelle scuole normali chiudendo le speciali e gli insegnanti non erano preparati):
bisognava creare ambienti di mediazione, invece si è assistito a fenomeni di ghettizzazione;
fino al 2015 non era obbligatorio l’aggiornamento degli insegnati; oggi invece si parla di
scuole dell’inclusione. Quanto questa dimensione culturale permea la dimensione
professionale dei soggetti? Oggi c’è una forte resistenza ad includere soggetti diversi, anche
se abbiamo una forte dinamica di immigrazione, sia interna che dall’estero. Spesso oggi si
agisce sull’emergenzialità della situazione. In questo contesto, il modello trasmissivo
diventa il più semplice da far proprio]
Si riprende dal modello centrato sullo sviluppo dei processi cognitivi superiori (modello
Aa). Le caratteristiche sono quelle legate allo sviluppare la mente del soggetto e quindi ad
aiutarlo a sviluppare tutta una serie di abilità e di competenze per correlare i contenuti e i
saperi al di là del luogo dove essi siano stati acquisiti. Questo modelli si rifà alla teoria della
complessità di Morin e a un approccio didatti metacognitivo. Quando ci orientiamo alla
riflessione e alla consapevolezza dei propri processi ci rifacciamo a processi metacognitivi.
La variante che si concentra sullo sviluppo delle facoltà mentali superiori si concentra su:
analisi, sintesi, scoperta, invenzione; piuttosto che, nel caso dell’interdisciplinarietà,
rintracciare le correlazioni tra contenuti disciplinari individuabili nelle diverse discipline.
La terza è la metacognizione, che si riferisce ai processi cognitivi di secondo livello
(consapevolezza di come si apprende). Le competenze di base sono intese come contenuti
disciplinari, oggetti culturali; l’aspetto interessante di questo modello è che permette di
strutturare una forma mentis che può essere flessibile rispetto agli oggetti culturali con i
quali si confronta.
[slide 3: Modello dello sviluppo del talento personale Ab e Modello dell’arricchimento culturale Ba]
Lo sviluppo del talento è proprio il concentrarsi sulla performance, per cui la forma mentis
che si struttura definisce la multiformità dell’ingegno umano e anche la capacità di attivarlo
in base a caratteristiche precise. Si punta a privilegiare ciò che differenzia un soggetto dagli
altri, implementare la specificità del soggetto, le qualità, per raggiungere modelli di
eccellenza. Questo modello è esemplificato nelle forme della didattica personalizzata, oltre
l’omologazione del curriculum formativo.
L’ulitmo è il modello dell’arricchimento culturale, che differisce dagli altri per l’aspetto
legato alla valorialità, perché qui si punta ai significati e valori non trasversali, ma sono
quelli che il soggetto può far propri attraverso l’esperienza dell’apprendimento. La
dimensione di crescita del soggetto, il diventare uomo in senso ampio, sono gli elementi
cardine, fondamentali.
[slide 4: Modelli Docente progettista riflessivo] Rispetto ai quattro modelli: nel 1: modello
trasmissivo, e il docente si sposta pian piano dall’approccio trasmissivo a uno riflessivo, con
funzioni di facilitatore. È tipologia di docente che sviluppa le proprie competenze secondo
una dinamica circolare che è riducibile a FVP (finalità-variabili didattiche-percorso):
immagina e progetta secondo queste tre direzioni. Come modello scelto trova il supporto
utile per lavorare sulla propria etica professionale e di indagine. Avere una finalità piuttosto
che un’altra ci permette di capire in che tipo di progettazione scegliamo o in cui ci troviamo.
Implementare le competenze trasversali, non è un obiettivo, ma una finalità: non è
misurabile e quindi non è valutabile (ogni obiettivo didattico deve essere verificabile e
valutabile). La dimensione della finalità mi dà la direzione della progettazione. La
dimensione delle variabili didattiche, invece, va a precisare i valori che alla fine o durante il
progetto dovranno assumere i valori scelti dal progettista per descrivere i progressi degli
allievi (avremo la necessità di individuare le variabili che tracceranno le variabili
processuali). Variabili didattiche: i tempi, scelte metodologiche, strumenti, obiettivi
formativi e obiettivi didattici. Tutto ciò che compone il percorso trova un corredo di variabili
che restituiscono la reale fruibilità del percorso, dell’attraversamento del percorso stesso. Si
individueranno tutti gli strumenti che possono aiutare il percorso stesso; anche la
metodologia scelta è una delle variabili. La dimensione del percorso descrive i componenti
del processo e le relazioni tra di essi.
Altro modello: Conversational Framework: richiama le capacità che il soggetto ha acquisito
alla fine del percorso: valuta 5 modalità operative funzionali: 1. Acquisizione; 2.
Discussione; 3. Inquiry; 4 Practice; 5 Production à l’equilibrio di queste 5 come azioni di
progetto è l’elemento base, la piattaforma su cui poggia il progetto. Si può schematizzare
l’uso di queste 5 azioni attraverso una sorta di software che strutturi la time line del percorso
e ci dica con cosa iniziare e come continuare fino ad avere la struttura progettuale costruita
e sistematizzata. La gestione di queste azioni di progetto vede la costante interazione con la
figura di riferimento che è il tutor. Per poter gestire questi passaggi il tutor supporta il
soggetto o la classe e fa sì che il gruppo si supporti da solo. Possiamo qui pensare a un
processo educativo di tipo logico-sequenziale, ma in realtà ogni fase sostiene l’altra, è una
dinamica.

[slide 5: Libro bianco su istruzione e formazione] Si riprende ora dai contenuti che permettono
di comprendere cosa sia il curriculum e la progettazione per competenze. Bisogna capire da
dove nasce il curriculum, perché arriviamo da una scuola che era di programmi. Dobbiamo
rifarci ai vincoli normativi, che sono correlati alla realtà scolastica e in particolar modo al
Libro bianco sull’istruzione e formazione e poi nei sottolivelli europei e nazionali.
Libro bianco: linee di indirizzo e quindi intenzioni a livello europeo delle politiche
indirizzate all’educazione. Si parla di società dell’informazione, che si poggia su un concetto
ampio, che è il concetto di comunicazione globale, legato alla realtà di internet e a una
riduzione delle distanze e quindi a una modificazione delle variabili spazio-temporali.
Rispetto alla globalizzazione c’è una tendenza della cultura generale che si oppone alla
natura tecnico-scientifica dell’attività: non di competenza in senso stretto ma di abilità. Si
tende a sviluppare di più le attitudini individuali piuttosto che quelle che aumentano la
capacità critica del soggetto. Bisogna andare oltre: un cittadino del mondo non ha bisogno
solo di un’istruzione legata solo all’acquisizione di competenze al lavoro, ma deve sapere
padroneggiare ciò che è fornito dalla dimensione scientifico-tecnologica, ha bisogno di una
capacità critica ecc. à Strategia di Lisbona 2010: richiede ai sistemi di istruzione e
formazione, al mondo della scuola e della formazione professionale una società più
dinamica e competitiva, intendendo con questo l’acquisizione di nuove conoscenze, e
quindi nuove capacità e abilità in ambiti specifici. Si ha quindi bisogno anche di acquisire
un sistema di riconoscimento delle competenze. Arriviamo a parlare di riconoscimento di
competenze nel 2011-2012 (riforma Fioroni su sollecitazione di questa agenda)
[slide 6: Obiettivi] Si chiede di avvicinare la scuola all’impresa, dialogo costruttivo col
mondo del lavoro con l’intenzione che dal mondo del lavoro arrivino una serie di richieste
rispetto alle competenze che possano essere inserite all’interno dei curricula e della
progettazione didattica, così che questi possano essere curvati verso l’acquisizione di quelle
competenze.
Lotta contro l’esclusione sociale: l’introduzione delle nuove tecnologie comporta un rischio
per chi non può usarle: è un periodo in cui tutta la programmazione e i fondi per
l’educazione degli adulti si orientano sull’acquisizione della lingua inglese, dei linguaggi
informatici ecc.
Conoscenza delle tre lingue comunitarie
Porre su un piano di parità gli investimenti materiali e gli investimenti in formazione (anche
dei formatori stessi). Vuol dire dare corso al Lifelong learning, azioni di apprendimento
lungo tutta la vita; l’altra richiesta è di riuscire a integrare i saperi formali con quelli non
formali: i saperi formali sono acquisiti a scuola e formazione professionale, gli altri sono
acquisiti ad es. sul lavoro, o a teatro ecc. Il contesto di apprendimento e formazione si divide
in tre sottocontesti: formale, non formale e informale (secondo l’ottica europea).
[slide 7: La normativa europea sulle competenze]. Raccomandazioni à 962/2006/CE:
competenze chiave per l’apprendimento permanente; 2008/C 111/01 23 aprile 2008: sulla
costituzione del quadro europeo delle qualifiche per l’apprendimento permanente
(permetterà di avere i framework, parametri che permettono di stabilire quanto peserà il
nostro titolo di studio). Le competenze per l’apprendimento permanente hanno come
orientamento l’inclusione, la socializzazione e l’occupazione e tutti ne hanno bisogno.
[slide 8: Competenze chiave] Sono le competenze di cittadinanza: comunicazione nella
madrelignua; comunicazione nelle lingue straniere; competenza matematica e competenze
di base in campo scientifico e tecnologico (problem solving); competenza digitale; imparare
a imparare; competenza sociale e civica; senso di iniziativa e imprenditorialità;
consapevolezza e espressione culturali.
[slide 8: Comunicazione nella madrelignua] [slide 9: Comunicazione delle lingue straniere] [slide
10: Competenza matematica] abilità di sviluppare e applicare il pensiero matematico per
risolvere una serie di problemi quotidiani, con padronanza delle competenze aritmetico-
matematiche, con accento sul processo e l’attività oltre che sulla conoscenza; disponibilità a
saper usare modelli matematici di pensiero e di pensiero à capacità di saper astrarre
dall’esperienza un modello che sia trasferibile ad altra tipologia di esperienza
[slide 10: Competenza digitale] Consiste nel saper usare con dimestichezza e spirito critico le
tecnologie della società e dell’informazione per lavoro, tempo libero e comunicazione
(quindi trasversale), supportata da abilità di base nelle TIC.
Questo è Lisbona 2010, oggi si parla di programmazione in area robotica come competenza
base.
[slide 11: Imparare ad imparare] Abilità di perseverare nell’apprendimento anche attraverso
una gestione efficace del tempo e delle informazioni sia a livello individuale che di gruppo
Questa competenza ci sposta verso l’acquisizione e elaborazione di nuove conoscenze e
abilità, ma soprattutto verso la capacità di potersi muovere in autonomia in una società
complessa. Fiducia e motivazione nei confronti dell’insegnante e del contesto di
apprendimento: fondamentale.
[slide 12: Competenze sociali e civiche]
[slide 13: Senso di iniziativa e imprenditorialità] Capacità di tradurre in progetto e in azione un
elemento di innovazione, che è fondamentale per lo sviluppo della capacità critica e di
pensiero divergente che viene sollecitata nei curricula e programmi
[slide 14: Consapevolezza ed espressione culturali] Consapevolezza della propria competenza
emotiva, professionale, emozionale; musica, arti, letteratura e arti visive vengono inserite,
anche se prima erano considerate arti minori.
[slide 15: EQF- European Qualification Framework]
[slide 16: Definizioni/1] I risultati dell’apprendimento si intendono come ciò che un discente
conosce, capisce ed è in grado di realizzare al termine dell’apprendimento, in termini id
conoscenze, abilità e competenze; conoscenze: definite come il risultato dell’assimilazione
di informazioni attraverso l’apprendimento (non è solo trasmissione, ma è l’insieme delle
conoscenze acquisite) e sono un insieme di fatti, principi, teorie e pratiche relativi a un
determinato settore di studio o lavoro: sono descritte come teoriche e pratiche
[slide 17: Definizioni/2] abilità: capacità di applicare conoscenze per portare a termine
compiti e risolvere problemi (know-how) e sono cognitive o pratiche; competenze:
comprovata capacità di utilizzare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o
metodologiche, in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e personale
e nel contesto del Quadro europeo delle qualifiche sono descritte come responsabilità e
autonomia.

Per approfondire: Allegato 2 (Tabella dei descrittori dei livelli espressi in termini di risultati
di apprendimento): http://eur-lex.europa.eu/legal-
content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:32008H0506%2801%29&from=IT
11/01/2018 METODOLOGIE

Inizio della lezione: discussione sulle modalità di valutazione dell’esame

Vengono poi rivisti rapidamente (e in modo non molto chiaro almeno per me che ne sono tuttora
all’oscuro) gli argomenti finora coperti:

Concetto di competenza, concetto di artefatto, di dispositivo, di competenza, modelli di


programmazione didattica, modello di Baldacci.

Concetto fondamentale: quello di CURRICOLO DIDADDICO, cioè quella modalità di progettazione e


programmazione didattica che fa propri i contenuti, i temi e i significati di “competenza”.1 Da qui si
andrà a lavorare sui modelli strutturali, sociali e valoriali della programmazione e del progetto in
quanto tale.

Come si è sviluppata la tematica legata alla didattica per competenze?

Negli ultimi anni (decenni) l’attenzione si è curvata molto sulle competenze, sulla formazione e sulla
strutturazione di profili professionali, funzionali all’accesso al lavoro. Da parte della commissione
europea (Lisbona 2000, Libro bianco di Delors) veniva richiesto di muoversi in una società della
conoscenza che avrebbe permesso di evitare l’esclusione sociale. Ci si era poi concentrati sull’inglese
e sull’uso delle nuove tecnologie (tempi MORATTI): a livello statale ma anche europeo la tendenza
era quella a inserire nei curricula gli elementi necessari ad evitare l’esclusione sociale negli anni
successivi a quello scolastico.

Nella documentazione, dal Libro Bianco sull’istruzione e formazione ---fino a agende


programmatiche2 troviamo intenzionalità di una pianificazione europea di largo respiro.

Più recentemente si è sviluppata una maggiore insistenza ed attenzione per le discipline scientifiche
e tutta la tematica del problem-solving, un concetto estrapolato dalle scienze matematiche ma
estendibile ed esteso tutte le altre aree disciplinari (nelle 8 competenze-chiave di cittadinanza
troviamo il problem-solving).

CULTURA GENERALE E ATTITUDINE AL LAVORO è il tema che ha accompagnato le progettazioni


curriculari. Le competenze culturali diventano i traguardi culturali presenti nel curricolo.

A differenza delle Agenzie Formative di Formazione professionale che si occupano soprattutto alle
competenze per la costruzione di un profilo professionale, nella istituzione scolastica è necessario
bisogna comprendere e sviluppare la dimensione culturale, le capacità critiche e collaborative.
SVILUPPARE capacità dunque NON TANTO PER MONDO DEL LAVORO ma le problematiche dello
STARE NEL MONDO, un mondo in rapido cambiamento.

Si sono quindi spostate le intenzionaltà nel corso degli anni e ne ritroviamo il cambiamento dei
curricula che possiamo leggere nelle Indicazioni Nazionali. SE IN LISBONA 2010 emergeva la richiesta
di UNA SCOIETA’ Più DINAMICA E COMPETITIVA ORA la tensione si è spostava verso una SOCIETà PIU’
SOLIDALE E DI COMPETENZA CRITICA.

[FINE DEL RIASSUNTO DELLE SPIEGAZIONI PRECEDENTI.]

1
Nelle Indicazioni Nazionali vengono tracciati i diversi curricula (per gradi e anni scolastici e tipi di scuola). Tali curricula
sono “il COME SI DEVE FARE” perché gli allievi raggiungano i traguardi formativi e culturali che una scuola deve dare.
2
i.e. Agenda 2020, che fissava la scadenza di azioni programmatiche fatte proprie da stati e regioni e quindi riflesse nelle
azioni di sistema funzionali a certificare i vari percorsi di competenza

1
11/01/2018 METODOLOGIE

Competenze chiave dell’EDUCAZIONE PERMANENTE, di quell’educazione che investe cioè non soltanto i
percorsi di formazione formale (percorsi scolastici) ma anche, per esempio, tutta l’area dell’educazione degli
adulti (i.e. scuole serali):

• lingue straniere
• campo scientifico
• imparare a imparare (cioè richiama tutto quello che è la didattica metacognitiva)
• competenze civiche e sociali
• senso di imprenditorialità (si intende tutto ciò che possiamo ritrovare come capacità creativa di
gestione delle risorse: è quindi una competenza applicabile, per esempio, anche alle scuole
primarie!)3
• consapevolezza nelle espressioni culturali (perché siamo in una società multietnica)

└ vedi slide per questo elenco

Il quadro dell’Unione europea misura le competenze tramite un sistema di certificazione che identifica livelli
distinti: i LIVELLI DELLA EUROPEAN QUALITIFATION FRAMEWORK PERMETTONO DI STABILIRE, A PARTIRE
DALLE CERTIFICAIZONI (cioè dai titoli formali acquisiti negli enti che lo Stato prevede essere garanti di queste
certificazioni), COME COSTRUIRE IL NOSTRO PORTFOLIO nelle varie competenze.

A partire da queste indicazioni europee si arriva dunque al CURRICOLO. Noi abbiamo una programmazione
nazionale che è situata all’Interno di vincoli legislativi e di accordi di programma che sono stati presi dal
nostro Stato e quindi entrano nel merito dei ministeri a questo deputati. Il curricolo diventa il modello
programmatico di riferimento per i percorsi formativi formali all’interno della scuola. IL CURRICOLO SI PONE
COME UNA SORTA DI PROGETTO IN UNA PIANIFICAZIONE NAZIONALE MA RIENTRA FRA I DIVERSI PROGETTI
CHE IL MINISTERO PUO’ UTILIZZARE PER DARE GARANZIA AGLI ACCESSI FORMATIVI.

Mediante il DPR 275 DEL ’99 si arriva a parlare di CURRICOLO NELL’AUTONOMIA, cioè la programmazione di
una scuola che per la prima volta inizia ad individuarsi e rendersi autonoma rispetto al sistema stato.

Da dove nasce la teoria del curricolo scolastico? All’interno delle teorie ATTIVISTE (AREA DEL
COSTRUTTIVISTO) e in particolare alle teorie pedagogiste americane di Dewey (libro fondamentale
“PEDAGOGIA EDUCAZIONE E DEMOCRAZIA). Due sono i concetti chiave del suo lavoro:

1. concetto di formazione non svincolata dall’esperienza – esperire il sapere


2. l’intenzionalità del percorso programmatico e quindi del progetto formativo che riguarda un
soggetto4

Si devono dunque collegare i saperi disciplinari con i processi mentali di chi è coinvolto nel processo di
formazione, con il processo di elaborazione e apprendimento, con il modo di estrapolazione ed elaborazione
di saperi.

La nozione di CURRICOLO NON è SOLTANTO L’INSIEME DEI CONTENUTI o LA SCELTA DEI CONTENUTI. Indica
OBBIETTIVI, METODI DI INSCGNAMENTO, MATERIALI DIDATTICI E RICHIEDE DI CONSIDERARE L’ALLIEVO IN
QUELLI CHE SONO I PREREQUISITI E LE ABILITA’ DI CUI DISCPONE, le sue conoscenze e predisposizioni.

3
il modo in cui queste competenze sono intese varia nel corso del percorso di istruzione (vedi appunto il modo di
intendere “imprenditorialità” nella scuola primaria) e necessita di attività necessarie a svilupparle
4
Nell’espressione “intenzionalità progettuale” di Dewey si usa il termine “progettuale” come modalità di lavoro, in cui
intervengono reti diverse, diversi attori e ambienti. Se parlo a livello nazionale parlo di PIANIFICAZIONE DEL MINISTERO,
REGIONE ecc. In una SCUOLA parlo di PIANO DI OFFERTA FORMATIVA perché è composto da una serie di sotto-progetti
intenzionalmente mirati a tematiche specifiche.

2
11/01/2018 METODOLOGIE

Il curricolo si inserisce inoltre nella già vista antinomia tra il desiderio di “formarmi” e l’esigenza di conformità
al contesto sociale di riferimento.

Insistenza sui contenuti culturali = significa far tendere l’intenzionalità del progetto verso una crescita
culturale e personale del soggetto stesso.5

Con “ESPLICAZIONE DEL CURRICOLO” si intende il SAPER TRADURRE I CONTENUTI CULTURALI IN ATTIVITA’
FORMATIVE E OPERAZIONI MENTALI E ESPERIENZIALI PER GLI ALLIEVI

La progettazione didattica così definita comporta la necessità di rinnovare i metodi e rinnovare i saperi
(questo ci riporta alla mente FRABBONI e i SAPERI DI NONNA SPERANZA). Cosa vuol dire rinnovare i saperi?
Nei curricula e nella progettazione didattica rischiano di esserci saperi e soprattutto metodi quasi
anacronistici, che non generano sviluppo culturale ma apprendimento mnemonico. È necessario allora
rinnovare e aggiornare metodi e saperi nel curricolo scolastico (ESEMPIO: in un liceo deve essere stabilito un
percorso per ogni anno di corso, attraverso l’individuazione di traguardi, metodi e competenze – ovviamente
sempre all’interno delle Indicazioni Nazionali).

CONDIZIONE SINE QUA NON è la compresenza della dimensione dei contenuti e della dimensione culturale
(quella che costruisce e determina come il soggetto si svilupperà attraverso i saperi appresi e imparerà a
utilizzarli), unita all’analisi dei bisogni e delle conoscenze d’ingresso dei soggetti.
A pedagogia si diceva che una delle garanzie di uguaglianza di accesso era data dalla capacità di analizzare i
bisogni di ogni soggetto e i suoi saperi formali, non formali e informali, integrando, in un’ottica di complessità,
gli uni agli altri. FRABBONI la DEFINISCE dimensione territoriale della formazione e la individua nella “città”,
intesa come luogo dove tutti i saperi che generano apprendimento (formale, non formale, informale) si
integrano fra loro. Il mondo scolastico nelle mura della scuola si integra con il mondo scolastico nelle piazze
della città: e l’ambienze incide sulla dinamica di insegnamento e apprendimento, garantendo integrazione di
saperi e anche maggiore (comunque un diverso tipo di) partecipazione.

La lezione “fuori dalle mura” ha inoltre un forte grado di INCLUSIVITA’ perché non richiede abilità di LETTO-
SCRITTURA che prevalentemente si utilizzano nel contesto aula e invece utilizza le ESPRESSIONE PERCETTIVE e
la DIMENSIONE DELLA NARRAZIONE E DELLA DOMANDA (è un laboratorio a cielo aperto). Permette dunque ai
DSA di essere maggiormente coinvolti; attiva processi di apprendimento che permettono anche a soggetti più
fragili di partecipare meglio alla lezione e attivare una costruzione di competenze CULTURALI - e non solo
specifiche e disciplinari.

IL CURRICOLO DIVENTA INSOMMA UNA SINTESI TRA saperi disciplinari e insieme delle competenze che
sono necessarie per piena inclusione sociale (culturale e non solo professionale).6

Quali sono gli ELEMENTI CARDINE del curricolo? Vedi mappa di KERN NELLE SLIDES

Abbiamo i TRAGUARDI:

-PROFESSIONALI (acquisizione di competenze)

-CULTURALI (crescita e sviluppo del soggetto)

5
Quando invece mi muovo, per esempio, in una AGENZIA FORMATIVA DELLA TOSCANA (ed esco quindi dalla scuola pur
rimanendo nel “sistema formale”, che rilascia titoli e certificazioni) avrò al contrario un’insistenza e un’intenzionalità
rivolta allo sviluppo professionale più che culturale.
6
Dove è stato perseguito un TRAGUARDO soprattutto PROFESSIONALE (su cui si puntava soprattutto in passato) si è
avuta come risultato una FORTE LIMITAZIONE. Ci sono già altre strutture (fuori dalla scuola) che si occupano di
formazione solo professionale.

3
11/01/2018 METODOLOGIE

Quali sono i traguardi attesi? È una domanda che in ottica di progettazione didattica va posta, pur
senza distaccarsi dalle Indicazioni Nazionali: quali traguardi? In che tempi? Che ritmo dare alla
progettazione? Da che bisogni e risorse bisogna partire? Quali modalità e strumenti usare? Quali
contenuti servono per raggiungere i traguardi prefissati?

Abbiamo la VALUTAZIONE: come valuto il processo e i risultati attesi? Ci sono due momenti di valutazione
diversi

-VALUTAZIONE EX ANTE = mi permette di fare una valutazione dei bisogni dei vincoli: cioè delle
risorse culturali, sociali e valoriali, PRIMA DELL’ATTIVAZIONE DEL PROGETTO FORMATIVO.
Es: una delle indicazioni nazionali per il curricolo della scuola infanzia e primaria è: “il traguardo di conoscere
sé e l’altro” è difficile pensare di raggiungerlo perché lo sviluppo psicologico del soggetto in termini di
cognizione dell’altro come soggetto emotivamente attivo e sviluppo della personalità inizia intorno ai 12 anni
di età. Nel CREARE UN PROGETTO FORMATIVO devo dunque chiedermi che quello che va nella strutturazione
delle attività didattico sia coerente sia con il curricolo ma anche con i bisogni reali.

-VALUTAZIONE IN ITINERE = TIPOLOGIA DI VALUTAZIOE CHE MI PERMETTE DI OSSERVARE le diverse


variabili del progetto incrociandole con il processo di sviluppo e gli esiti dei miei allievi.
Es= metà della classe è insufficiente etc. Vendendo via via i risultati e l’apprendimento degli allievi, chiedersi
se funziona il mio metodo e strumenti, se ho posto obbiettivi troppo alti, se sbaglio tempistiche? Ritoccare
quindi il progetto in itinere in modo da renderne un dispositivo educativo e didattico dall’altra che sia
funzionale

-VALUTAZIONE EX POST = successiva alla chiusura del progetto (qualche mese dopo) in modo da
andare a valutare e riflettere quali siano state le ricadute progettuali: al di là dell’essere nel contesto
scuola, quanto quel progetto ha poi generato competenze, autonomie ecc anche al di fuori dagli
obbiettivi iniziali?

ES se mi pongo degli obbiettivi di traguardo culturale mi dovrà chiedere dopo la fine del percorso di
scuola secondaria di secondo grado che fine hanno fatto i miei studenti? Università? Lavoro?

COME INSEGNARE E COME APPRENDERE? È una dinamica di cui abbiamo molto parlato, dice la prof, e
sorvola.

I MODELLI PROGETTUALI (slide): si parla di programmazione per OBBIETTIVI (ABBIAMO DEI traguardi) per
CONCETTI (ABBIAMO contenuti) PER PROCESSI e A RITROSO (legata ALL’UTILIZZO valutazione come metodo)
= SONO PAROLE CHE SI RICHIAMANO a TEORIE E MODELLI progettuali

QUALI SONO LE CARATTERISTICHE DEI DIVERSI TIPI?

PROGRAMMAZIONE PER OBIETTIVI = modello di TAYLER. La centralità è l’obiettivo, ci dobbiamo


preoccupare di quale obiettivo intercettare e quindi degli strumenti che scegliamo per raggiungerlo.
Attenzione alla FINALITA’ FORMATIVE, ALLE PRESTAZIONI E AI COMPORTAMENTI MISURABILI COME
ESPRESSIONE DEGLI OBIETTIVI PREFISSATI. Dovremo inoltre tracciare gli standard di SOGLIA MINIMA
della prestazione (non in ordine di voto ma come standard per poter accedere allo sviluppo di ulteriori
competenze). L’attenzione al soggetto che apprende qui è meno che in altri modelli: non ci
preoccupiamo di aspetti motivazionali, attenzione, interessi. Ci preoccupiamo della parte
esclusivamente CONGITIVA.

4
11/01/2018 METODOLOGIE

PROGRAMMAZIONE PER CONCETTI = ATTENZIONE AL MODO DI APPRENDERE: come i singoli


apprendono quelle competenze che diventano sapere e saper fare. Richiama la teoria PIAGETTIANA e la
supera teoria STRUTTURALISTICO-GENETICA, cioè quella teoria che dà per acquisito che ci siano delle
“strutture” su cui il soggetto può appoggiare e costruire quei saperi.

Avrò allora bisogno di indentificare i concetti chiave e stendere una mappa concettuale che tenga conto
di questi concetti chiave. L’obiettivo è che gli allievi arrivino loro stessi a una complessità di costruzione
delle mappe concettuali.7

Dovrò anche tener conto di /elaborare misure dispensative e compensative = sono misure previste per
legge che permettono ai soggetti che soffrono di alcuni tipi di disturbo di essere dispensati da alcune
attività che richiederebbero loro abilità non acquisibili o realizzabili (dislessico = dispensato dalla lettura
a voce alta) (DISGRAFICO = compensato con l’uso del pc) (disortografico = compensato con l’uso di un
software con correttore ortografico)

PROGRAMMAZIONE PER PROCESSI = è il richiamo al modello di Baldacci. Approccia alla totalità del
soggetto. Ribaltata gerarchia fini mezzi (TIPICA DEL METODO PER OBBIETTIVI) e vede un rapporto
leggerezza indeterminatezza dell’impianto: cioè alleggerisce la struttura progettuale, la rende meno
pesante e ingabbiante. Pone attenzione all’evolversi del progetto rispetto alla risposta degli allievi.
Risposta che è calibrata sulla base del processo di apprendimento, non sulla base dei fini, dell’esito, del
prodotto. Tale attenzione all’esperienza formativa va talvolta anche a discapito dei contenuti. Circolarità
delle fasi di progettazione/azione, progettazione più vaga e meno circoscritta, tende a dare importanza
a tutte quelle che sono le competenze di processo ma non al contenuto stesso

PROGRAMMAZIONE A RITROSO = si richiama alla valutazione. Fa propri i risultati dell’apprendimento


come passaggio preliminare alla progettazione. ES: Tutto il lavoro di VALUTAZIONE fatto sul terzo anno
di progetto di un percorso scolastico mi deve servire per poter progettare l’anno successivo. I risultati
dell’apprendimento sono espressi in termini di competenze (QUALI TRAGUARDI ho raggiunto?). Occorre
identificare i problemi COMPLESSI CHE COMPONGONO la competenza, gli elementi della competenza
(a partire dalle indicazioni nazionali, è compito del collegio docenti e delle sue sotto-commissioni
individuarle e approvarle). Il metodo a ritroso, avendo interesse a valutare le competenze, SI INCARDINA
TUTTAVIA SUL CONCETTO DI COMPETENZA, FARRAGINOSO DI PER SE’.

COME SI PROCEDE SU TUTTO QUESTO? Vedi slide: traguardi, contenuti, valutazione e processi, TUTTI
CORRELATI FRA LORO

I traguardi (identificazione di manifestazioni della competenza) interagiscono con i contenuti (area dove il
soggetto acquista nuovi saperi e costruisce su quelli nuove competenze) e con la valutazione (identificazione
di un apprendimento AUTENTICO = vuol dire che il soggetto e i docenti valutano quanto quei processi di
apprendimento e quanto i traguardi raggiunti corrispondono davvero ad un apprendimento plurale,
spendibile su più ambiti della vita del soggetto). Interagiscono con i i processi (“insegnamento a ponte”: è
quella dimensione di consapevolezza del sé, dei processi cognitivi del soggetto e della riflessione su quei
processi)

7
Le mappe concettuali sono solitamente uno strumento che ritroverete nelle linee guida 2012 per i DSA: sono infatti
consigliate per aiutare la gestione e l’organizzazione dei concetti in chi soffre di questi tipi di disturbo. Disortografia
discalculia dislessia disgrafia sono i 4 disturbi che compongono l’insieme dei DSA. Chi soffre di questi disturbi ha un
APPRENDIMENTO DI TIPO GLOBALE più che di tipo dettagliato quindi la mappa concettuale, che mantiene vive le
correlazioni globali, aiuta, per esempio, nella comprensione di un brano.

5
11/01/2018 METODOLOGIE

QUALI SONO GLI ASPETTI DI CRITICITA’

1) Come definire le dimensioni della competenza? Come la misuro? Il rischio grosso è di schiacciare la
competenza su una valutazione dei saperi e dei contenuti.
2) Come gestire la relazione competenza-saperi è una delle più difficili in ambito didattico. Necessità
dunque di capire quali sono gli elementi essenziali dei saperi e farne un’analisi epistemologica;
comprendere, per differenza, quali sono le competenze, quanto profonde devono essere e che
qualità devono avere.
3) Come stabilire i ruoli e i comportamenti attesi (soprattutto in caso di competenze trasversali)

ERRORI Più COMUNI (in particolare nella progettazione A RITROSO, che insiste sulle competenze)

1) La deriva della programmazione della competenza = diamo enfasi agli obiettivi ma schiacciamo le
competenze sugli obiettivi operativi (le trattiamo come tali)
2) Una sorta di pressapochismo = in questa progettazione per competenze si progetta “un po’ come
viene” e si valuta “un po’ come viene”. Non permette di alzare a leva l’apprendimento degli allievi
3) La confusione fra competenze e applicazione: la competenza che è una dinamica fra risorse interne
del soggetto e il contesto esterno diventa qui una APPLICAZIONE: l’unica preoccupazione diventa
cioè il far attuare al soggetto alcune competenze e restituirle in forma di comportamenti e modalità
espressive
a. Viene meno la dimensione della scelta di strategie e percorsi: viene meno l’attenzione a quali
sono gli stili cognitivi e le strategie di apprendimento e la gestione di esperienze
problematiche che il soggetto mette in atto.

alcune STRATEGIE RISOLUTIVE (che valgono in tutti i tipi di progettazione): la prof. qui si limita a leggere la
slide relativa. Riguardo alla rilevanza dei contesti specifica tuttavia che questa permette di non schiacciare la
competenza sui saperi e non livellano il processo di apprendimento su una mera applicazione. Permettono
anzi all’allievo di essere attivo e di apprendere in tutta una diversa serie di ambienti.

L’autovalutazione delle pratiche didattiche: QUALI SONO I CRITERI DI QUALITA’ CON IN QUALI
INDIVIDUIAMO UN BUON PROGETTO DIDATTICO

➢ Corrispondenza tra le attività messe in atto dal soggetto per apprendere e le attività che mette in
campo il docente per insegnare
➢ Tracciare indicatori di un insegnamento per competenza di qualità: è necessario provare a
estrapolarli (di solito in consiglio di classe) in modo che il nostro insegnamento possa essere da noi
auto-valutato e auto-migliorato (riferimenti bibliografici in slide)

CAIPTOLO 12 TEL TESTO (slides che ne riportano una parte) Forme e ambiti della progettazione. Entriamo
nel merito di alcuni punti essenziali - che in parte abbiamo già spiegato - in modo da collocarli in un discorso
meno schematico. DUE sono i TERMINI FONDAMENTALI: INTENZIONALITA’ E PROGETTAZIONE.
“OGNI APPROCCIO ALLA PROGETTAZIONE è SPINTO E CARATTERIZZATO DALL0INTENZIONALITà EDUCATIVA”
Non siamo lì a trasmettere un sapere ma il contesto che andiamo a creare deve aiutare gli allievi a svilupparsi
ed evolversi. Tale intenzionalità educativa porta alcuni autori a vedere l’atto progettuale come motore
dell’agire educativo. L’agire educativo è il progetto, è la molla e la leva di ogni azione pianificata. È Ia risposta
da cercare quando ci si chiede perché si progetta. La stesura stessa del progetto (cioù l’agire didattico) è
risposta al ‘perché progettare’. I MODELLI DI AGIRE DIDATTICO AZIONANO IN CHI PROGETTA UN AZIONE
DI TIPO METARIFLESSIVO E METACOGNITIVO

6
11/01/2018 METODOLOGIE

I NODI DELLA PROGETTAZIONE sono gli elementi costitutivi della progettazione stessa. Da una parte c’è la
necessità di dare un TEMPO al progettare. Dall’altra, c’è la necessitò di individuare quelle che sono le
possibilità di azione all’interno del progetto e operare un confronto realistico con le proprie potenzialità.
SCONTRO dirompente con il desiderare-sognare. Non significa che devo rinunciare a queste capacità ma devo
riflettere se quanto organizzato nel progetto sia rispondente a un piano di realtà. Spesso gli insegnanti di
sostegno alle prime armi vogliono a tutti i costi normalizzare la condizione di disturbo. Perdendo il dato reale.
Il rischio è di aspettarsi e di “far aspettare” all’altro un’immagine falsata FRUSTRAZIONE. Gli obbiettivi
devono essere raggiungibili.

Ci si innamora dei propri progetti e li si difende da ingerenze la fase valutativa ha la funzione di testarli e
in caso farceli modificare. L’individuazione di obiettivi (realistici), l’elaborazione del progetto, il suo sviluppo
e valutazione sono procedimenti che richiedono metodo e che si intrecciano e si mescolano.

Elementi costitutivi della macroprogettazione (quella di cui si è parlato finora)

• ANALISI BISOGNI
• ANALISI OBIETTIVI,

Che richiede una definizione precisa: gli obiettivi devono essere MISURATI E MISURABILI E COERENTI
CON I BISOGNI ESPLICITATI DAL TARGET DEI SOGGETTI. Hanno un carattere ORIENTATIVO e
COMUNICATIVO: ORIENTATIVO = obbiettivi che mi indicano gli elementi a quale tendere (ES
promuovere l’attivazione di processi educativi è una FINALITA’ = qualunque azione nel progetto è
declinata in questa ottica); COMUNICATIVO = chiama in causa tutti gli autori del progetto e identifica
la capacità del progetto di mettere seduti allo stesso tavolo i diversi autori del progetto stesso. Hanno
inoltre una COMPONENTE DECISIONALE = per poter realizzare o tendere alle finalità identificate, mi
devo dare un’organizzazione, decidere la struttura del progetto (tempi, fasi, strumenti ecc) = mi
ritrovo in una necessaria CONDIZIONE DI DECISIONALITA’. E una COMPONENTE VALUTATIVA

• ANALISI DEL CONTESTO


devo valutare l’insieme delle relazioni di spazio, del “luogo” in cui colloco il progetto. TRE VARIABILI:
ANALISI STRUTTURALE, CULTURALE E DEI BISOGNI. DIMENSIONE STRUTTURALE = lavoro di
conoscenza delle risorse ma anche dei vincoli, ovvero “intercettazione delle impossibilità”,
soprattutto finanziarie, normative (leggi dello stato, leggi europee, norme funzionali all’essere a
scuola e dell’essere insegnanti, non ultimo quello del contratto di lavoro) e di risorse umane (numero
di docenti disponibili ecc). vincoli culturali = vincoli che spesso riguardano la dimensione
multiculturale.

IL PROGETTO deve esere una piattaforma, un dispositivo dove generare o individuare una rete di soggetti.
Nel testi si parla di PROGETTAZIONE DI RETE = istituire una rete tra scuole. La norma riconosce alla rete di
scuole una soggettività giuridica: la rete è riconosciuta come una unica istituzione scolastica e può quindi
condividere le risorse. Non solo: nei bandi ministeriali o europei la rete ha più forza e peso.8

MICROPROGETTAZIONE è invece l’esplosione della struttura di progetto: si occupa di quali sono le azioni che
individuiamo come necessarie/utili, le risorse umane che vogliamo inserire, le fasi, i tempi i traguardi che
stabiliamo, quali metodologie di intervento, quale setting e quali strumenti usiamo.

8
PON (PIANI OPERATIVI NAZIONALI) è la piattaforma di fondi europei per le scuole.

7
Metodologie e tecnologie didattiche
Lezione del 18 gennaio

1. Tecnologie, scuola e apprendimento

Tecnologia didattica e tecnologia dell’informazione non sono la stessa cosa: sono due aree
della didattica integrate ma diverse tra loro.

L’insieme delle tecnologie (non necessariamente informatiche o digitali) che riguardano la ricerca
didattica servono a facilitare e meglio orientare l’apprendimento, a creare i migliori contesti di
apprendimento per gli allievi.

Strumenti (in realtà dispositivi) che sono fondamentali per individuare le tecnologie (“tecniche
strutturate e metodologiche”) sono le unità didattiche.

Dal 2013 sono diventate unità di apprendimento. La differenza comporta una modalità e una
tempistica di progettazione differente. Sono due modelli diversi, ma uno non ha soppiantato
l’altro. Vanno integrati, sulla base dei traguardi che vogliamo raggiungere e dei bisogni dei nostri
studenti.

L’ Unità didattica è un piano didattico, un progetto didattico.

L’unità didattica istituisce di fatto un percorso - secondo la definizione di Baldacci (non Rivoltella)
- di dimensioni molecolari.

Per descrivere questi dispositivi usiamo delle metafore (molecolare/molare).

Esempi unità didattica: posso parlare ad esempio del ciclo dell’acqua, di Leopardi. Si tratta cioè
di un percorso circoscritto alla disciplina e a una tematica specifica. Ha caratteristiche
squisitamente curricolari.

Quando ho delimitato quest’area possono anche pensare a stabilire dei tempi (in base a
prerequisiti degli studenti ecc.). L’unità didattica è un tassello che deve tenere conto dei tempi
degli alunni: non sono gli alunni a doversi adattare. È centrale l’analisi dei bisogni, cioè dei
prerequisiti: che abilità devono avere per affrontare quel contenuto didattico? Sulla base di
questo, quali sono le metodologie che scelgo?

(“Posso andare in laboratorio…sì, se ho il laboratorio”.)

Una volta progettate le diverse unità didattiche, avrò strutturato il piano didattico. Il piano
didattico è il percorso di dimensione molari. Il piano didattico contiene le unità didattiche (di
diverse discipline anche) che sono tra loro interconnesse.

Si sta parlando di un percorso di dimensioni molari che è incentrato su una tematica di una certa
ampiezza (non circoscritto dunque a una tematica specifica) e non necessariamente chiuso sulla
disciplina -c’è bisogno anzi che coinvolga al proprio interno più discipline in modo che gli alunni
possano trovare più facilmente le connessioni tra le diverse tematiche.

Si possono trovare nel piano didattico anche tematiche che sono cogenti, fondamentali, ma
extracurricolari.

Es. Il bullismo non è una tematica di tipo curricolare. Diventa extracurricolare; eppure è una
tematica che coinvolge lo sviluppo, la personalità degli allievi ecc. Quali discipline possono
costruire un piano didattico centrato su queste tematiche? Bisogna capire (fra colleghi) quali
discipline possono essere curvate su tali necessità. I contenuti disciplinari possono essere leva
per intervenire sul queste tematiche. È importante anche il ruolo degli esperti esterni.

Di solito il piano didattico ha una durata quadrimestrale. È una progettazione che corrisponde
alle tempistiche della pagella.

1
Poi abbiamo il modulo didattico. Il modulo didattico può essere disciplinare o
pluridisciplinare. Il modulo didattico è di nuovo un percorso di dimensioni molari. Può
attraversare o comprendere più unità didattiche.

Es. Il ciclo dell’acqua.

Il ciclo dell’acqua è un tema che si potrebbe trattare in una scuola secondaria di primo grado.
Rispetto ai requisiti, e quindi ai traguardi, l’allievo avrà ad esempio bisogno di sapere che cos’è
l’acqua.

1. Unità didattica sull’acqua/sui liquidi

2. Unità didattica sugli ambienti in cui si trova l’acqua

3. Unità didattica sul clima.

Posso fare tutte queste unità didattiche ad esempio a scienze, oppure posso farne due a scienze
e una a tecnologia. Insieme però esse costituiscono il modulo sul ciclo dell’acqua.

A differenza del piano didattico, il modulo didattico ha un tempo di realizzazione in genere


attorno ai tre mesi (leggermente meno del piano). Se usiamo il modulo didattico, il piano
didattico sarà l’insieme dei moduli, strutturato in modo tale da fare un percorso quadrimestrali.

Possiamo scegliere di non usare i moduli (è complesso progettare per moduli), allora in tal caso
il piano sarà costruito direttamente sulle interconnessioni tra le unità didattiche.

L’ unità di apprendimento (UDA, UA) si differenzia dall’unità didattica.

Non c’è una variazione strutturale e metodologica: quando si parla di unità di apprendimento si
vuole solo sottolineare la valenza di processo cognitivo nei documenti legislativi.

Si vuole sottolineare l’importanza di coniugare i saperi, la gestione delle nozioni con


l’apprendimento. Non è un nuovo progetto, si rafforza solo un carattere che era già presente nel
modello dell’unità didattica. (L’unità di apprendimento corrisponde al modulo - ???)

Cfr. Baldacci, Unità di apprendimento e programmazione

L’unità di apprendimento rispetto all’unità didattica trova al proprio interno queste


caratteristiche: può andare

- o dagli obiettivi specifici fino all’apprendimento dello studente (modalità deduttiva);

- o dall’esperienza degli allievi (anche accumulata in contesto extrascolastico) all’apprendimento


(modalità induttiva).

Metodologie tipiche della modalità deduttiva:

- attività laboratoriale (va dagli obiettivi che io mi pongo fino all’apprendimento dell’allievo), es.
l’ebollizione dell’acqua

[Segue discussione molto confusa sull’ebollizione.]


[Segue discussione ancora più confusa su induttivo e deduttivo, scambiati più volte.]

Per qualcuno l’esperimento è una modalità deduttiva, per qualcuno è induttiva.


Un povero tizio cerca di spiegare che se ci mettiamo dal punto di vista dell’insegnante
l’attività laboratoriale è una modalità deduttiva: mi pongo degli obiettivi e in base a quelli
progetto l’attività. Dal punto di vista degli allievi si tratta però di una modalità induttiva:
costruisco l’apprendimento a partire dall’esperienza.

La Baronti spiega che ci possono essere esperimenti induttivi e esperimenti deduttivi, e


aggiunge che l’esperimento può essere induttivo se faccio osservare dei fenomeni nuovi
(praticamente se metto gli allievi in una condizione nuova e dico loro di “osservare”): in tal
caso hanno già delle vaghe cognizioni (loro) che non sono però apprendimento, e che
attraverso l’esperienza diventano apprendimento; se (invece) hanno già delle cognizioni di
base date dall’insegnante, che non sono però apprendimento neanche loro, e che
diventano apprendimento grazie all’esperienza, il caso è diverso. [Sì, il ragionamento fa
acqua da tutte le parti, questa è la sintesi più sensata che sono riuscita a fare.]
2
[Segue la completa e definitiva confusione di metodo induttivo e metodo deduttivo.
Galilei fa tre pirouettes nella tomba.]

Qualcuno fa notare la confusione, la Baronti rispiega che l’esperimento è induttivo solo se


l’insegnante non ha spiegato prima ai ragazzi che cos’era l’esperimento che avrebbero
fatto. Se si danno dei suggerimenti, se si dice che cos’è l’acqua (sic) l’esperimento non è
più induttivo.

La Baronti minaccia di stare tutte e due le ore sul medesimo argomento se non è chiaro.
Un coraggioso le chiede di ripetere.
La Baronti ammette di non ricordarsi nulla di scienze (“AIUTO! Se c’è qualcuno di scienze
intervenga”)

Ci si mette d’accordo che l’esperimento è deduttivo, continuando a ripetere che è


deduttivo perché i ragazzi osservano.
Ci si mette successivamente d’accordo che non è opportuno tracciare confini tra induttivo
e deduttivo: l’esperimento comunque è deduttivo in quanto gli allievi usano delle
conoscenze che hanno già, è induttivo in quanto possono fare un salto di qualità e fare
nuove domande..

Se l’apprendimento fa leva sui saperi che i ragazzi hanno già è deduttivo, ma allora sarebbe
sempre deduttivo, dunque è deduttivo solo se faccio leva sui saperi che i ragazzi hanno
acquisito in quell’istante.

[Il discorso è ancora molto molto confuso]


†Una unità di apprendimento di tipo induttivo, l’unità didattica non ce la può avere, ce
l’avrà il piano didattico, perché riguarda l’interconnessione tra le discipline. Qui c’è
un’aspetto induttivo perché non c’è un processo lineare, non è nemmeno logico rispetto a
quelle informazioni.†

La modalità induttiva è fuori dall’unità didattica, ma può rientrare nell’unità didattica.

“Volendo provare a circoscrivere dobbiamo parlare di metariflessione”.

2. Effetti delle tecnologie educative sugli allievi


Stabilito che i modelli di progettazione non cambiano tra le unità didattiche e le unità di
apprendimento, possiamo considerare le reazioni all’introduzione di nuove tecnologie.

Cfr. Grafico sulle slide che rappresenta il ciclo di entusiasmo, speranza e delusione: la nuova
tecnologia fa crescere l’entusiasmo, che alimenta a sua volta la speranza ma poi lascia spazio alla
delusione ecc. (ciclicamente). Alla fine: delusione di fondo.

Cuban ha studiato alcuni fattori rilevanti.

C’è la dimensione tecnico-pratica (cosa possiedono le scuole), la dimensione organizzativa


(come si introducono le tecnologie) e la dimensione socio-culturale, legata ai saperi e alle
finalità della scuola e al ruolo professionale dell’insegnante stesso.

All’entusiasmo degli studenti, abituati a una dimensione immersiva, corrisponde una difficoltà
degli insegnanti nel progettare l’attività didattica.

Area della media education

È quell’area che vede l’istruzione incentrata sui media (per la Baronti signolare, sul media
stesso), non sul loro utilizzo.

Media literacy: competenza acquisita dagli studenti sui media e con i media.

La dimensione critica diventa fondamentale rispetto a questi ambienti.

3
Bisogna sottolineare la differenza tra il media [mi arrendo, d’ora in poi sarà singolare!] come
strumento conosciuto e il media come strumento che sostiene l’apprendimento.
Google ha strutturato una serie di prodotti che possono permettere all’insegnante di lavorare con
la classe sia a lezione sia al di fuori dei tempi della lezione.

Uno degli strumenti è google documents. È uno strumento che può essere estremamente
efficace, in quanto permette una co-costruzione delle conoscenze. Può servire ai colleghi per
collaborare in modo più efficace, cioè può servire a costruire quella che chiamiamo comunità di
pratica, che è anche una comunità educante. Stiamo parlando di una comunità virtuale, ma
poco ci cambia. Servono delle competenze di base per collaborare, e il gruppo deve aiutare chi
ha meno competenze. Sono dei laboratori, sono attività laboratoriali.

Dimensione critica: la dimensione critica è senz’altro nell’attendibilità delle informazioni (fake


news, disabilità nell’effettuare la ricerca…)

Media literacy: capacità di padroneggiare lo strumento e di apprendere con lo strumento

Digital literacy: competenza linguistica (il linguaggio usato dalle tecnologie stesse…)

Le classi virtuali esistono e agiscono anche al di fuori del tempo scuola.

È una possibilità straordinaria, ma pone una serie di domande. Queste classi virtuali possono ad
esempio interferire nei tempi di lavoro dei ragazzi a casa (bisogna capire quanto l’insegnante deve
permanere al di fuori del tempo scuola; secondo la Baronti ad esempio questi spazi sono più utili
per favorire lo scambio tra coetanei).

L’esposizione alle nuove tecnologie ha delle conseguenze sul modo di apprendere dei ragazzi:
oggi i ragazzi apprendono meglio in un ambiente immersivo che in un ambiente astrattivo,
nella generazione precedente non era così.

La partecipazione attiva: ha una valenza etico-sociale, consente di condividere le conoscenze.


Siamo in un’ottica socio-costruttivista a tutti gli effetti.

La tecnologia a seguito di queste caratteristiche può essere pensata come artefatto cognitivo.
Diventa un prolungamento e uno strumento delle facoltà umane. Amplia le competenze, le abilità
e le capacità cognitive.

Es. Motore di ricerca.

È come se ci fosse un database di memoria che è ben più ampio di quello che possediamo da
soli. Impariamo a selezionare le parole chiave ecc.

Es. Un tempo si conoscevano a memoria i numeri della rubrica, ora no. C’è dunque una riduzione
dei dati che impariamo a mente, ma nel complesso, tenendo conto degli strumenti esterni ho
ampliato il mio “database”.

L’intelligenza (cfr. Piaget, capacità di risolvere i problemi del bambino) da questo punto di vista si
realizza anche attraverso gli strumenti con i quali essa opera, che si tratti del libro,
dell’ipertesto, dei programmi televisivi ecc. L’interazione con questi ambienti crea un diverso
sviluppo dell’intelligenza umana.

Elogio quasi simpatico del libro cartaceo a cui la Baronti è particolarmente legata.

Quali sono i processi cognitivi interessati?

- La memoria (memoria distribuita);

- Acquisizione di informazione

- Elaborazione di informazioni;

- Linguaggio.

L’aspetto che vede l’interazione con la multimedialità, vede la multimedialità come


l’acquisizione e l’elaborazione dell’informazione attraverso più canali diversi
contemporaneamente:

- prevalenza del canale visivo;

4
- prevalenza del canale uditivo, etc.

Se studio in maniera tradizionale ho solo il canale visivo e al più tattile, ma se vedo le registrazioni
ho sia il canale visivo sia il canale uditivo.

È una questione di interazione.

N.B. Non è una caratteristica esclusiva della tecnologia. Ad esempio il decalogo dei diritti del
lettore di Pennac parla di una modalità interattiva con una vecchia tecnologia.

Nella lezione frontale la dimensione dell’interattvità è quasi del tutto assente.

È importante distinguere tra tecnologie piene e tecnologie vuote.

Le tecnologie piene sono quelle a supporto della produzione, della diffusione e della
fruizione dei contenuti da parte di una fonte diversa dagli utenti stessi. Le tecnologie vuote
sono invece a supporto della creazione e produzione di contenuti da parte degli utenti
stessi. Gli appunti ad esempio diventano una tecnologia vuota rispetto al contesto
dell’apprendimento.

Le tecnologie di monitoraggio e di valutazione sono le tecnologie che usiamo per monitorare il


processo e per arrivare alla valutazione.

1. Esempi di tecnologie piene:


- piattaforma moodle;

- google groups.

Si va a creare un learning management system.

L’insegnante estende la propria comunicazione con la classe anche al di là dello spazio dell’aula.

Sono tecnologie piene anche gli ipertesti e gli ipermedia. Troviamo qui stimolazioni diverse (di
carattere uditivo, visivo ecc.)

Sono tecnologie usate anche per trattare le disabilità più gravi o per i bambini molto piccoli.

I libri parlanti o i libri tattili dei bambini più piccoli sono degli ipertesti a tutti gli effetti.

Parliamo di iperemedia quando alla dimensione del testo stesso possiamo aggiungere una
dimensione di fruizione attraverso i nuovi media (audio, video ecc.) Vengono comunicati
contenuti importanti che si possono mettere in correlazione tra loro.

Sono esperienze didattiche straordinarie.

2. Esempi di tecnologie vuote:


- web 2.0 e 3.0;

- learning management system (se non interviene l’insegnante);

- forum;

- chat;

- social network;

- sistemi di condivisione delle risorse ecc (wiki).

3. Esempi di tecnologie di monitoraggio e valutazione:

- sistemi di verifica e valutazione basati sul computer;

N.B. Questi sistemi pongono dei problemi: l’induzione come l’andiamo a valutare?

-…

- ITS: Intelligent tutoring system (Es. Cortana, Siri). Sono dei sistemi che interagiscono rispetto
alle richieste del soggetto esterno al sistema.

Le tecnologie piene sono sostanzialmente tecnologie scritte. Hanno un richiamo alla scrittura, alla
trascrizione delle informazione, mentre le tecnologie vuote utilizzano la comunicazione scritta per
quella che dovrebbe essere una comunicazione orale. Ce ne rendiamo conto se pensiamo alla
messaggistica istantenea. Il linguaggio scritto in questo caso diventa sostitutivo del linguaggio
orale. Si usa la lingua del web, che non è più la lingua italiana. Ad esempio si possono mescolare
lingue diverse, ecc.

Altro problema importante è quello dell’attenzione.

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In questo tipo di tecnologie noi abbiamo sempre una ridondanza informativa. Bisogna dunque
attuare un’attenzione selettiva, e selezionare a quali canali percettivi dare maggiore o minore
attenzione a seconda dell’obiettivo della ricerca. Non abbiamo la possibilità di effettuare più
selezioni in contemporanea.

Ci sono studi che hanno a che fare con la human-computer interaction. Sono anche gli studi
che aprono all’interazione uomo-robot, uomo-macchina. È un campo di studi sempre più diffuso.

Questo tipo di studi punta l’attenzione sul fatto che la macchina non diventi un elemento ostativo,
di impedimento nel nostro sviluppo e nella nostra crescita sociale. Deve essere un supporto.

Se la tecnologia diventa un focus dell’attenzione a discapito dell’attività didattica (se non è


ben integrata all’interno di questa), corriamo un rischio effettivo. All’essere umano mancano
ancora quei routinarismi, quella routine che gli permette di abbassare i livelli di attenzione selettiva
nell’uso delle tecnologie (le nuove tecnologie ci richiedono ancora molta attenzione).

Es. Abbiamo difficoltà nel passaggio da Windows a Apple, da Windows 10 ad Android su mobile.

Noi abbiamo bisogno di sentire lo strumento come una sorta di ampliamento delle nostre
potenzialità.

N.B. Quello dei nativi digitali è un mito. In realtà dipende dal contesto in cui i ragazzi sono
inseriti. Senz’altro però prima si viene esposti a una tecnologia e prima si impara a usarla. È vero
però che le generazioni precedenti alla nostra hanno avuto più problemi di noi con la
digitalizzazione: la macchina quasi spaventava.

Nel momento in cui la tecnologia non ha più nulla di nuovo da offrire diventa obsoleta.

Una tizia racconta di quando ha portato l’erbario in classe.


La Baronti ripete (quattro volte) che portare l’erbOLario in classe è una bella idea e fa
notare la somiglianza del medesimo con un libro - o meglio con un ipertesto, in quanto ha
anche una dimensione tattile.

Segue riflessione sulla realtà aumentata, che costituisce un ambiente immersivo e recupera la
dimensione tattile.

La tecnologia non deve essere un impedimento ma un supporto vero e proprio.

Quando abbiamo a che fare con un media troppo difficile da utilizzare, andiamo incontro a un
carico cognitivo troppo alto, che non è più pertinente. L’eccessivo carico cognitivo e la
dissonanza cognitiva hanno un effetto assai negativo sull’apprendimento. Possono portare a
una chiusura del discente.

L’altro aspetto è quando la tecnologia diventa in qualche modo un sotto-task, un compito


aggiuntivo rispetto a quello che già si è chiesto al soggetto. In questo caso ci può essere un
peggioramento nell’esecuzione del compito o nelle condizioni dell’esecuzione del compito.
Quando si parla di tecnologia non si può essere solo entusiasti.

È preferibile NON inserire affatto la tecnologia nella progettazione didattica se non siamo in
grado di usarla come leva per l’apprendimento.
Nel caso dei ragazzi dislessici, il pc può essere uno strumento fondamentale (correttore
automatico). Ha senz’altro una sua utilità, è una misura compensativa.

Dove non arriva neanche la tecnologia, parliamo di misura dispensava (lsi può ad esempio
dispensare questi ragazzi dalla lettura ad alta voce in classe, mentre li si incoraggia alla lettura a
bassa voce).

Al di là degli aspetti compensativi della tecnologia, il non riuscire a inserire adeguatamente la


tecnologia nella progettazione didattica espone a rischi: questi strumenti possono sostituire abilità
fondamentali oppure possono essere fattori di distrazione.

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L’ipertesto è una forma di testualità scritta organizzata in maniera non lineare, che si avvale
di una serie di linguaggi diversi (video, sonoro, foto…).

Antinucci sottolinea il fatto che la nostra conoscenza non è organizzata come un libro: a
questo punto ci possiamo chiedere quali sono le difficoltà che incontriamo quando mettiamo a
confronto la nostra mente (un insieme di elementi, “un cesto di ciliegie”) con un testo che è
organizzato linearmente come quello di un libro. La difficoltà sta nel trovare dei punti di aggancio.

L’ipertesto cerca, nella maniera più fedele possibile, di trovare l’agganciio tra la modalità di
apprendimento del soggetto e la modalità organizzativa del testo propria del libro.
C’è comunque una differenza tra l’iperteso cartaceo e quello digitale (manca qui l’aspetto tattile,
l’aspetto di scomposizione e ricomposizione ecc.).

Quando parliamo di alfabetizzazione mediatica stiamo parlando della capacità di accedere ai


media, di comprendere criticamente i loro contenuti e di creare comunicazioni in diversi
contesti.
Quando parliamo di contesti diversi possiamo fare riferimento a contesti informali o formali.
Bisogna saper adeguare la propria capacità di scelta di linguaggio rispetto ai contesti stessi (non
è automatico switchare da un tipo di linguaggio all’altro).

Cfr. Raccomandazione della Commissione europea sull’alfabetizzazione mediatica


nell’ambiente digitale.

La Commissione europea si sofferma sull’importanza di garantire la possibilità di accesso a


questi ambienti digitali, sulla capacità di comprensione, sulla valutazione e sulla
comunicazione. Sono temi importanti, soprattutto se li pensiamo nell’ottica della competenza.

Cfr. diapositive.

Questi sono i quattro assi che vengono accolti dalla scuola e che devono diventare obiettivi
formativi.

I social network hanno vantaggi e svantaggi.

Bisogna cominciare a entrare nell’ottica di inserire gli smartphone nell’attività didattica.

N.B. Facebook ha ampliato il suo parterre di pubblico, ora vi accedono a 14 anni.

I vantaggi sono un supporto alle interazioni su larga scala. È una possibilità: si può interagire in
maniera quasi costante con una rete di persone che è una rete che ci appartiene in qualche
modo. Sono interazioni non su scala limitata, tendono anzi ad allargarsi sempre più.

Anche le distanze vengono fortemente accorciate. (Le telefonate intercontinentali sono più lente,
la rete internet bypassa questo tipo di esperienze. Si ha l’impressione che la distanza non ci sia.)

L’aspetto di mentoring e di tutoring è potenzialmente interrotto. La funzione di mentor, di tutor


può essere giocata dagli amici, ma in realtà la dimensione prevalente è quella della scoperta
individuale: non c’è un tutor.

Queste piattaforme possono aiutare l’aspetto relazionale, ma ci possono essere anche


fenomeni negativi come il cyberbullismo.

Le principali problematiche nell’utilizzo di questi strumenti stanno nel fatto che in queste
piattaforme c’è l’universo mondo, e le persone che ci sono hanno interessi molto diversi, oltre ad
essere di età diverse.

Un altro problema è una sorta di erosione del confine tra l’identità personale e l’identità
professionale.
N.B. Gli insegnati non possono stare in gruppi Whatsapp con gli studenti.

Inoltre i contenuti non sono in alcun modo organizzati e regolamentabili.

Il concetto di comunità si distingue da quello di gruppo, di aggregato.

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Nella comunità abbiamo una collaborazione pesante, tracciata da una valorialità che è valida
per i singoli soggetti; nell’aggregato invece la collaborazione ha una caratterizzazione più
leggera. (Un conto è trovarci tutto insieme in una piazza perché stiamo scioperando, un conto è
condividere obiettivi, norme ecc.)

Le comunità possono essere diverse: possiamo andare dalla comunità religiosa alla comunità di
pratiche. Tutti i membri della comunità però si riconoscono sempre in alcune norme (codice
comunitario), che sono anche quelle che fanno da confine per la comunità stessa.

Nella comunità ci si riconosce: io mi riconosco nella comunità e sia all’interno che all’esterno
della comunità sono un elemento riconoscibile come membro della comunità stessa (es. indosso
una divisa). Venire meno ai valori della comunità può voler dire essere espulsi dalla comunità
stessa.

Nell’aggregato c’è un legame debole, che sussiste solo in una dimensione temporanea e
destinata a sparire.

Terzo possibile raggruppamento: il collettivo. 



Nella comunità è prevalente l’appartenenza, nel collettivo la partecipazione. Nella comunità
ho alti costi d’entrata: partecipare a una comunità vuol dire entrarci pienamente, sposandone gli
obiettivi. Nel collettivo i costi di entrata sono quasi nulli. Inoltre nel collettivo l’identità rimane
prevalentemente individuale.

Ma i social network sono comunità?

Su queste piattaforme possiamo costituire delle comunità, ma per farlo dobbiamo regolamentarle,
altrimenti, se la piattaforma stessa deregolamentarizza la comunità, sulla piattaforma abbiamo
solo una rappresentanza della comunità.

Ranieri sottolinea, nella dimensione pedagogica, la necessità di usare i social network come
strumento per facilitare la comunicazione educativa e per promuovere lo sviluppo di
capacità metacognitive e autoregolamentative per gestire il rischio della distrazione (gli
studenti devono avere la capacità di capire quando il media li distrae).

Inoltre bisogna valutare le riflessioni degli studenti stessi sul proprio apprendimento nei social
network. Può essere utile sviluppare strategie di valutazione come rubriche, portfolio (insieme
delle competenze sviluppate) e riflessioni guidate.

Cfr. diapositive.

Bisogna inoltre essere consapevoli delle pedagogie implicite (educazione indiretta) e bisogna
fare in modo che gli studenti sviluppino una certa consapevolezza su problemi legati alla privacy
ecc.

I contenuti multimediali che ci si può scambiare su queste piattaforme vanno dalle immagini
animate (in realtà monomediali), ai video, ai video interattivi ecc. Gli ipermedia sono ipertesti con
contenuti multimediali (†Es. un video di youtube al posto di uno spezzone di film inserito in un
ipertesto†). I contenuti multimediali comportando una narrazione multimediale.

I vantaggi dei contenuti multimediali sono il fatto che il canale visivo-auditivo è un canale
privilegiato. Inoltre è da considerare che si ha in tal modo un fattore di incremento dei risultati
del soggetto e che, come dice Maragliano, si tratta un apprendimento immersivo, che porta a
un coinvolgimento totale del soggetto.

Inoltre è ovunque ed è pervasivo e riproduceibile - cosa che comporta dei vantaggi notevoli per
i tempi di apprendimento del soggetto.

Tra gli svantaggi possiamo annoverare il fatto che c’è una forte ridondanza cognitiva (questi
strumenti si ripetono spesso), che c’è un confronto tra il linguaggio parlato e il linguaggio scritto,
in quanto il linguaggio parlato tende ad essere ridotto a vantaggio di un linguaggio scritto
che è molto sintetico. La modalità di elaborazione delle informazioni di un testo parlato deve
essere molto raffinata.

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Per di più il fatto che questi mezzi sono potenzialmente ovunque rischia di aumentare la
dispersione. Anche la riproducibilità non è per forza un vantaggio: il senso del limite, il senso di
perdita di un oggetto stimola la nostra memoria.

I blog, i webblog e i diari online consentono di interagire su argomenti di forte interesse, sono
organizzati temporalmente e hanno funzionalità di ricerca, ma in genere queste sono poco
funzionali.

Si può inoltre indicizzare attraverso parole chiave e si possono includere altri media (si può cioè
creare un ipertesto).

Con tali strumenti è possibile documentare un percorso didattico.

C’è bisogno di farsi forti di un pensiero narrativo che usi una logica lineare. (Questo è un
vantaggio dal punto di vista didattico.)

Intervento in difesa della didattica frontale da parte di un anonimo letterato classico (LOL).
La Baronti risponde alle critiche sostenendo che sia necessario integrare la vecchia
didattica frontale con le nuove strategie, soprattutto a beneficio delle nuove generazioni.

Marconi come genio italiano.


L’Italia è un ambiente apprenditivo.

Necessità di inframezzare la lezione frontale con altre metodologie che evitino il


sovraccarico… anche gli aneddoti vanno bene!

La lezione frontale occupa la maggior parte del tempo in Italia: ma cosa comporta questo per il
discente? Quanto l’attenzione è stabile?

I sistemi di scrittura collaborativa consentono di redigere il testo a più mani ecc.

Un’altra tecnologia è la flipped classroom: vuol dire di fatto “capovolgere l’aula”. Si fa a scuola,
rovesciando i tempi e i ruoli, quello che i ragazzi dovrebbero fare a casa. Il professore sta al centro
dell’aula ecc.

Bisogna identificare i nuclei tematici più adeguati, le risorse e i risultati di apprendimento che si
vogliono raggiungere. È un tipo di unità di apprendimento di tipo induttivo.

Si lavora con l’integrazione delle tecnologie, c’è una maggiore flessibilità di spazio e tempo,
è una modalità fortemente inclusiva.

Si impara a imparare, è forte l’aspetto metacognitivo.

N.B. Credenze diffuse, ma da sfatare:

- la multimedialità favorisce l’apprendimento (FALSO);

- un maggior coinvolgimento NON vuol dire necessariamente maggior apprendimento;

- l’ipertestualità NON SEMPRE permette lo sviluppo di forme di pensiero aperte e reticolari;

- l’uso del web 2.0 NON SEMPRE rende l’apprendimento sociale e collaborativo.

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Metodologie e tecnologie didattiche – Lezione 11 (24 gennaio 2018)

[Per l’esame: ci sono due edizioni del manuale ma possiamo usarne una qualsiasi, usando le slides
come filo conduttore per vedere gli argomenti affrontati.]

Sistemi di scrittura collaborativa distribuita


L’uso di Google Documents ha permesso di sperimentare l’apprendimento collaborativo e
cooperativo. Si parla di co-costruzione della conoscenza: ad esempio in un corso di formazione per
insegnanti, essi dovevano rispondere a domande confrontandosi tra di loro (a distanza) e potevano
correggersi a vicenda; poi le risposte venivano valutate. Questo alleggerisce un percorso di
preparazione. L’approccio utilizzato è di tipo costruttivista. Le riflessioni vengono evidenziate nei
commenti (come se fossero post-it); è un supporto al cooperative e-learning.

È utile nella formazione degli adulti. Con i giovani è diverso, bisogna abituarli. A differenza del
lavoro di gruppo, in cui la tendenza è che ognuno dice la sua e poi qualcuno sintetizza, qui invece
non c’è niente da sintetizzare. Chi ha delle buone competenze comunicative riesce a interagire
meglio degli altri; chi ha difficoltà, inserito nel gruppo rimane bloccato e tende a rimanere indietro;
per questo se l’insegnante si accorge che qualcuno non interagisce, deve chiedersi come mai (spesso
i fattori sono legati all’uso dello strumento), ed eventualmente qualcuno deve svolgere funzione di
tutoring. Non è uno strumento che garantisce l’interdipendenza positiva nel gruppo (che permette
l’acquisizione delle competenze trasversali).

Flipped classroom
Ultimamente è una tecnica fortemente sperimentata. Letteralmente significa capovolgere l’aula,
cioè l’aula è modificata in modo che il lavoro sia fortemente gestito dagli allievi. Il ruolo del
docente è quello di individuare, rispetto all’unità di apprendimento, i nuclei tematici più adeguati:
gli studenti dovranno costruire quei saperi che altrimenti avrebbe trasmesso l’insegnante. Gli
obiettivi (traguardi) vanno delineati prima di iniziare; poi bisogna progettare le attività autentiche
(ricerca, attività laboratoriali) da far fare agli studenti. Gli spazi fisici devono essere organizzabili,
ad esempio si può riorganizzare l’aula in “formato isole”, oppure utilizzare un laboratorio.

Bisogna utilizzare risorse in quantità e di qualità; si utilizzano moltissimo le nuove tecnologie, in


particolare ci sarà bisogno di tablet / pc / internet. Il tempo di apprendimento è da ri-calibrare, e
varierà sulla base delle capacità e competenze acquisite dagli allievi nel gestire questo grado di
autonomia. Si richiede un grado di autonomia importante e una buona capacità di gestione del
proprio processo di apprendimento. È comunque più guidata rispetto al cooperative learning.

Studi di Ranieri sulle TIC


TIC = Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (cercate di ricordarvelo!)

Ci sono 4 precisazioni su credenze comunemente date per buone ma assolutamente non dimostrate.
• La multimedialità non favorisce necessariamente l’apprendimento; gli strumenti vanno usati
bene!
• Più una cosa è interattiva, maggiore è l’apprendimento → non è vero, anzi si può generare
un sovraccarico cognitivo, che può portare a difficoltà o rifiuto; uno strumento multimediale
deve essere calibrato e coerente con le capacità degli allievi di gestirlo; per esempio se i
ragazzi sono esposti a più strumenti multimediali (smart TV, smartphone, tablet, playstation)
e saltano dall’uno all’altro si ha una dispersione rispetto ai contenuti proposti da ciascuna
piattaforma;
• Ipertestualità: permette l’attivazione degli aspetti senso-percettivi, si basa su esperienze non
solo legate alla lettura, ma ha anche elementi audiovisivi; può alzare i livelli di attenzione;
ma non garantisce maggiore apprendimento.
• Il web è una grande risorsa, ma non è perfetto come strumento sociale e partecipativo. Gli
studenti lo usano per socializzazione, ma la capacità di socializzare online è scorrelata dalla
capacità di socializzare a scuola.

Vediamo che ruolo hanno le TIC in diverse aree:


• Area linguistica – espressiva → non sembra che le TIC abbiano un ruolo positivo, se si
usano le TIC dovranno essere integrate con altre metodologie didattiche.
• Area matematica – scientifica → utile per la visualizzazione di processi matematici; meno
utile per la simulazione (ad esempio l’utilizzo di Geogebra – è un programma per fare
disegni di geometria e grafici di funzioni); questa cosa può aiutare, ma solo se gli studenti
non hanno problemi con il software e sono sufficientemente guidati.
• Motivazione all’apprendimento → positiva! Grazie all’effetto di autonomia, sensorialità ma
anche novità. C’è però da considerare che nel lungo periodo diminuisce la motivazione
all’apprendimento se non è più una novità.

[Sulle slides suggerisce infiniti libri sull’argomento – se vogliamo approfondire!]

LA VALUTAZIONE
Non si può pensare una progettazione pedagogico-didattica efficace senza tener conto dell’aspetto
valutativo. Con valutativo intendiamo il processo che consente a ognuno di noi di fare
un’osservazione costante e continua degli esisti del progetto e delle relative ricadute in termini di
efficacia e efficienza:
• Efficienza = capacità del progetto di avere un’organizzazione logistica e temporale di senso;
• Efficacia = capacità del progetto di ottenere gli obiettivi formativi.

La valutazione si riferisce a una situazione esistente e guarda al futuro (ciò che vogliamo e
intendiamo realizzare / produrre). È un sistema che guarda le azioni nel loro svolgersi fino al punto
di arrivo. Non si attua un buon processo valutativo se attendiamo la fine del progetto (a quel punto è
inutile)!

Per quanto riguarda la valutazione delle scuole, all’interno del PTOF (Piano triennale dell’offerta
formativa) si trova una parte relativa ai sistemi di valutazione che il Ministero ha voluto introdurre
per monitorare le scuole, che comprende tre parti:
• Valutazione del rendimento degli allievi (mediante prove Invalsi)
• Valutazione dei docenti (criterio di merito in mano al dirigente)
• Piano di miglioramento: alla fine di ogni anno scolastico il dirigente scolastico deve
riempire un questionario RAV – Rapporto di AutoValutazione – dove deve evidenziare quali
sono le aree in cui la scuola va male, quelle da migliorare, quelle decenti e quelle eccellenti;
come ha utilizzato le risorse, quali sono i contatti con il territorio, i rapporti con le altre
scuole; serve per valutare come la scuola ha risposto ai bisogni degli allievi. I dati vengono
raccolti a livello ministeriale, il compito del ministero è capire gli aspetti di carenza e quelli
positivi; sulla base dei RAV partono gli ispettori. Il ministero mette a disposizione un gruppo
di consulenza tecnica in modo che le scuole possano avere dei riferimenti ai quali ricorrere
in caso di bisogno di interventi specifici per migliorare il proprio piano di offerta formativa.

Perché si sceglie autovalutazione invece di mandare direttamente gli ispettori? Nel momento in cui
la scuola compila un rapporto così strutturato, essa fa una riflessione su tutti gli strumenti e processi
che la riguardano. Questo tende a responsabilizzare i diversi attori di quell’istituto scolastico (il
dirigente in primis, ma non solo). È uno dei cardini valoriali dell’idea di autonomia e
miglioramento.
Definizione di valutazione (educativa) di Palumbo e Bezzi (2001): attività cognitiva rivolta a fornire
un giudizio su un’azione (o complesso di azioni coordinate) intenzionalmente svolta o che si
intende svolgere, destinata a produrre effetti esterni, che si fonda su attività di ricerca delle scienze
sociali e che segue procedure rigorose e codificabili (Ci sarà una domanda del test su questo!)

Precisazioni sulla definizione:


• Azione = progettazione didattica.
• La valutazione educativa esprime un giudizio sull’azione / complesso di azioni che abbiamo
scelto intenzionalmente (cioè che abbiamo progettato)
• Gli effetti esterni = misurare gli esiti dei nostri allievi.
• Procedure rigorose = le abbiamo predisposte e non possono essere modificate in corso
d’opera (dipendono da cosa dobbiamo valutare).
• Codificabili = devono essere poter lette da chiunque.

Tre aspetti importanti della valutazione sono:


• Oggetto da valutare: in generale è un programma sociale → nel paradigma pedagogico-
didattico, corrisponde a un progetto esempio il curriculum.
• Finalità: esprimere giudizi fondati su criteri riferiti a una o più caratteristiche dell’oggetto;
se elaboro un giudizio fumoso (“puoi migliorare!” - questo succede spesso nelle scuole
superiori) ha poca efficacia da un punto di vista valutativo (sono frustrato, so che potevo
fare di più, ma come? In quale specifico ambito?). Bisogna saper argomentare il giudizio
(gli aspetti dell’oggetto in valutazione), altrimenti sono parole interpretabili e questo non è
educativo.
• Procedure: formulare giudizi attraverso una comparazione attraverso un processo
trasparente-controllabile-condiviso, secondo modalità di raccolta-elaborazione-analisi dei
dati proprie della metodologia della ricerca sociale. L’idea è che ciascun allievo possa essere
in grado di poter controllare quello che ha fatto, capire cosa ha sbagliato.

C’è una serie di azioni che supportano e compongono la valutazione, e sono:


• Monitoraggio: controllo costante dell’andamento del progetto. Esempio: le verifiche a metà
quadrimestre possono servire per monitorare l’apprendimento; ovviamente non è esaustivo!
Servono ulteriori elementi di monitoraggio, per esempio durante ogni lezione potrei fare
delle domande che richiamino gli apprendimenti che considero già acquisiti (prerequisiti per
la nuova lezione).
• Audit: livello ulteriore di valutazione, accerta i processi rispetto alla legittimità e regolarità
di norme (per esempio, un’ispezione a scuola).
• Certificazione della qualità: specificazione dei requisiti, riferiti alle norme ISO, che un
sistema di gestione per la qualità deve possedere perché un’organizzazione migliori efficacia
ed efficienza delle prestazioni.

Definizione di valutazione di Worthen e Sanders (dal punto di vista pedagogico): Nella formazione
essa riguarda la determinazione della qualità, dell’efficacia o del valore di un programma, prodotto,
processo, obiettivo o curriculum. La valutazione utilizza metodi di indagine e di giudizio che
includono: la fissazione di standard per giudicare la qualità e decidere quali standard relativi o
assoluti utilizzare; la raccolta delle informazioni rilevanti; l’applicazione degli standard per
determinare la qualità. (Con programma si intende il progetto didattico, e quindi i processi ad esso
legati).

Talmage (1982): tre finalità appaiono molto frequenti nelle definizioni di valutazione:
• Restituire giudizi sul valore di un programma
• Coadiuvare i decisori responsabili nelle scelte di sviluppo
• Servire ad una funzione politica (politica nel senso che la scuola segue una normativa,
richiama una funzionalità pubblica. NB: l’insegnante quando è a scuola è pubblico
ufficiale).

Valutazione educativa → Valutazione come ricerca: abbiamo una serie di dati che possiamo
analizzare.
Tessaro (1997) parla di “spostamento paradigmatico”: si passa dalla verifica dell’apprendimento dei
partecipanti a un sistema di valutazione complesso e differenziato che include programmi, processi
e risultati (in termini di competenza in uscita), funzionale alle strategie politiche di miglioramento
dell’offerta formativa.

La didattica non è più ancilla della pedagogia, ma scienza autonoma: è scienza della prassi
educativa, che ha come oggetto di studio l’azione insegnativa dentro e fuori la scuola (Damiano
1993) e ha come segni di riconoscimento (Frabboni 1992, 1995) la logica induttiva prassi-teoria-
prassi, il metodo empirico, la ricerca-azione, lo stile sperimentale. (anche qui ci sarà una domanda!)

Se la Didattica, dunque, ha come compito privilegiato l’organizzazione sistemica delle azioni


formative dell’insegnare finalizzata all’ottimizzazione dei processi dell’apprendere (Galliani 1993),
la valutazione ne diventa parte essenziale (assieme alla progettazione e alla comunicazione) e sua
dimensione regolativa “formale” (progettazione didattica, e poi comunicazione del progetto
didattico, come lo rendo fruibile a chi deve partecipare). La valutazione diventa elemento
epistemologico e regolativo della didattica.

La didattica da ars technica si è andata strutturando come scienza della prassi educativa, non può
che essere definita come tecnologia della progettazione, della comunicazione e della valutazione,
cioè “logos delle azioni formative artificiali”. La scienza didattica è basata su valutazione,
progettazione e comunicazione.

Definizione di valutazione educativa di Galliani (2009): disciplina finalizzata ad emettere giudizi


sulle azioni formative e di insegnamento (o complesso di azioni organizzate come programmi o
corsi), intenzionalmente progettate o svolte per guidare e sviluppare apprendimenti (individuali,
collaborativi, organizzativi) nei destinatari, con effetti sui sistemi formativo, economico e sociale, e
fondata sull’uso di metodi e strumenti propri della ricerca empirica e sperimentale in educazione.

La qualificazione pedagogica della valutazione è determinata dall’originalità dell’esperienza


educativa che si qualifica come “transazione relazionale” tra persone, e “mediazione didattica” sui
saperi disciplinari/professionali. Quindi per cui le azioni del progettare, del comunicare, del valutare
competono, seppure in misura diversa, agli stessi soggetti coinvolti, in primo luogo i
docenti/formatori e gli allievi/formandi.

I paradigmi della valutazione educativa

Commento al grafico della prossima pagina: il primo paradigma è incentrato sul prodotto quindi la
valutazione è incentrata sull’esito del processo (approccio positivista). Ormai questo paradigma è
superato, non è sufficiente. Il secondo paradigma introduce anche le procedure, ossia è importante
anche COME si apprende, ci si sposta dal modello positivista al modello pragmatista. La
valutazione delle procedure è una sorta di analisi/diagnostica orientata a trovare le soluzioni per
migliorare l’apprendimento in corso d’opera. Anche questo non è sufficiente! Ci si sposta quindi
verso il terzo paradigma, un modello costruttivista: l’attenzione è rivolta all’intero processo. La
valutazione deve restituire la fotografia di tutti gli elementi precedentemente considerati (prodotto,
procedure, processo) in modo autentico. La tabella della prossima pagina (Galliani) riassume tutto
in modo più chiaro.
Insegnamento Comunicazione Conoscenza Apprendimento Valutazione
Positivista Espositivo – lezione Unidirezionale Dichiarativa Adattivo Sommativa – il
frontale voto finale, o la
media dei voti
Pragmatico Dialogico, perché mi Interattivo Procedurale Reattivo – troverò una risposta Diagnostico – quali
interessano anche le a determinati stimoli strategie e
procedure. procedure hai
utilizzato?
Costruttivista Cooperativo – con Relazionale – con Performativa Regolativo – il soggetto è Formativo
l’uso di opportune docente e anche in chiamato a confrontarsi con i
tecnologie didattiche piccoli gruppi processi cognitivi che utilizza,
costruisce nuovi saperi con
processi cognitivi nuovi – è un
approccio globale

Prospettiva docimologica sulla valutazione

Definizione di docimologia: scienza che studia i sistemi di valutazione, gli oggetti, i criteri, i pesi,
l’attendibilità dei campioni. Affronta temi quali modalità di attribuzione dei voti, i fattori soggettivi
e quanto influiscono sulla valutazione, variabili che possono influenzare la valutazione (esempio
legame affettivo, aspetto emotivo, simpatia/antipatia). Ha un aspetto propositivo (non vuole
semplicemente dare un giudizio, ma vuole mettere a punto indicazioni di carattere operativo: criteri,
operazioni e strumenti per condurre la valutazione dell’alunno).

In prospettiva docimologica, la valutazione rimanda fortemente, anche se non esclusivamente, alla


misurazione delle prestazioni degli studenti, stabiliti opportuni criteri e parametri, ponendo una
certa enfasi, dunque, sulla quantificazione che, oltre ai vantaggi di sinteticità descrittiva, consente di
fare inferenze su base statistica e, dunque, di ampliare il potere informativo dei dati ottenuti.

Laeng: l’accertamento dell’apprendimento consiste, essenzialmente, nel registrare la presenza di


note caratteristiche o attributi criteriali che indichino l’appartenenza di un certo elemento a una
classe o categoria, nella loro misurazione rispetto a unità di riferimento, nell’ambito di un processo
che dapprima trasforma il continuum dell’apprendimento dello studente in componenti discrete per
reintegrarlo successivamente in un tutto.
Due cardini concettuali della valutazione:
• Validità: nel momento in cui ho bisogno di rendere valido un sistema di valutazione che
chiama in causa elementi non misurabili da un punto di vista numerico, ho bisogno di
declinare i principi metodologici che mi permettono di tracciare i criteri di valutazione.
Questo è un lavoro collegiale, di ricerca, dei docenti; si fa prima dell’inizio dell’anno
scolastico. Se si valutano senza decidere prima dei criteri condivisi, la valutazione può
essere non valida! (Comunque parlerà più approfonditamente di questa cosa nella prossima
lezione)
• Attendibilità: vuol dire garantire che diversi correttori o un medesimo correttore in tempi
differenti, nelle medesime condizioni, possano giungere a uguali conclusioni. Più la prova è
strutturata (ad esempio crocette vs domande aperte), più è facile avere attendibilità.
Naturalmente non dobbiamo accontentarci di un’attendibilità alta: per esempio, un test a
crocette non dirà quasi niente sulle “competenze trasversali”. Ad ogni modo, dovrei avere
l’unicità interpretativa. Il problema principale da considerare quando ci si preoccupa
dell’attendibilità è dunque quello di garantire che gli esiti del processo valutativo risentano il
meno possibile dell’esperienza del valutatore, delle circostanze in cui opera, delle categorie
interpretative personali, della sua emotività, grazie alla messa a punto di dispositivi mirati e
all’adozione di principi operativi rigorosi.

Le possibili valutazioni sono di diverso tipo:


• Diagnostico: fotografia dei prerequisiti degli allievi, serve per orientare i nuovi
apprendimenti.
• In itinere – formativa: monitorare il progetto didattico; verificare se le risorse rispondono
alle esigenze degli allievi, al fine di creare situazioni favorevoli all’apprendimento e alla
crescita collettiva e individuale.
• Finale – sommativa: certificare apprendimenti interamente compiuti → resoconto sul
soddisfacimento degli obiettivi formativi. È un momento di certificazione in forma pubblica
(la pagella appesa e comunicata ai genitori).

Gli oggetti della valutazione sono gli obiettivi (le competenze). È importante valutarle soprattutto
in una logica diagnostica e predittiva, ma un approccio basato soltanto su questi aspetti non è
esaustivo! Bisognerebbe collocare le immagini analitiche e piuttosto statiche restituite da una
valutazione esclusivamente basata sugli obiettivi all’interno della ricostruzione dei processi di
costruzione e di sviluppo delle competenze stesse.
«…la vostra formazione non
finisce qua, qua comincia!»
(C. BARONTI, Lezione del
01.02.2018, 42:02)

Lezione 12 – 01.02

Scheda riassuntiva e analisi di un esempio di unità didattica.

I. - Ci si limita ai contesti di educazione formale1 (che comprende ad esempio


scuola e formazione professionale), e naturalmente ci interessiamo al caso specifico
della scuola e dell’insegnamento. ― Definizione di azione di insegnamento:
«relazione educativa finalizzata all’apprendimento di un determinato patrimonio
culturale situato in un determinato contesto istituzionale». Commenti: (1) questa
visione dell’insegnamento modifica la vecchia concezione basata su un modello
puramente trasmissivo, nel quale non ha peso la dimensione relazionale. (2) La
relazione è pensata come parità di qualità relazionale pur nell’asimmetria delle
competenze fra discenti e docenti (idea di progettazione condivisa). (3) Nell’ambiente
di progettazione condivisa diventiamo dispositivi didattici. (4) Il confine dell’azione
didattica è il vincolo istituzionale. (5) Importanza del riferimento al territorio e
all’ambiente extra-scolastico.

II. - Come possiamo realizzare questi dispositivi didattici? Riusciamo a usarli


perché nella competenza del docente è presente la mediazione didattica, i.e. quella
sorta di spazio (virtuale prima che fisico) all’interno del quale regoliamo la distanza tra
il soggetto che apprende e i contenuti dell’apprendimento; detto altrimenti: significa
facilitare l’apprendimento secondo i criteri di migliore qualità possibile. L’insegnante
dunque non è anzitutto detentore di sapere, ma è principalmente un mediatore.
L’insegnante realizza la sua azione grazie ai mediatori, che sono di 3 tipi: m. attivi (e.g.
gite scolastiche, esperimenti, osservazioni di fenomeni); m. analogici (e.g.
rappresentazioni teatrali, simulazioni, giochi di ruolo); m. iconici (disegni, schemi,

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Per educazione informale ed educazione non formale invece si intende l’insieme
di attività formative, dirette e indirette, semi-strutturate o non strutturate, all’interno delle
esperienze di socializzazione in cui possiamo fare apprendimento, e.g. il volontariato. (Un
recente decreto riconosce il valore di esperienze formative acquisite in sistemi non formali;
quindi si prevede il riconoscimento di quest’ultime in sistemi formali).
mappe concettuali etc.). Questi mediatori aiutano lo studente a portare in forma di
metafora esperienze di realtà (la realtà viene sostituita da simulati per aiutare
l’apprendimento); lo studente «metaforizza l’esperienza», per poi riportarla di nuovo
nell’esperienza: questo circuito ha persino un nome, co-costruzione
dell’apprendimento! Circuito virtuoso che avviene nella sinergia di docente e discente
grazie ai mediatori2.

III - Classificazione di David Ausbel delle diverse modalità di apprendimento


secondo due parametri, che mettono in rilievo il ruolo attivo del soggetto nel processo
di apprendimento
1. Relazione contenuto con matrice cognitiva del soggetto
a. Apprendimento significativo.
b. Apprendimento meccanico.
2. Approccio del soggetto al contenuto
a. Per scoperta.
b. Per ricezione
Pellerey fornisce ulteriori dettagli sull’apprendimento significativo, mediante
l’esplicazione dei seguenti fattori: integrazione fra setting cognitivo dato o matrice
cognitiva (le conoscenze del soggetto) e nuovo contenuto culturale; significatività, i.e.
capacità di integrazione di ciò che viene acquisito con le conoscenze pregresse e la
realtà in cui vive; motivazione, sollecitazione della disponibilità ad apprendere grazie
l’esperienza di scarto fra setting dato e nuove conoscenze (dissonanza cognitiva),
ovvero disponibilità a metter in crisi comportamenti, idee date (come ad es. convinzioni
veicolati in ambito familiare); direzione, traguardo di apprendimento; continuità e
ricorsività; interdisciplinarità; trasferibilità linguistica, non rispetto a lingue diverse ma
rispetto a diversi codici e registri linguistici.

IV - Teorie di riferimento: Piaget, Vygotskij e infine il costruttivismo. Punti


chiave del modello costruttivista: enfasi sul valore dell’interazione sociale nella
costruzione della conoscenza; carattere situato dell’apprendimento rispetto al

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[A: «Ditemi se v’è chiaro?». B: «un esempio concreto?». A: «cara mia, in concreto
qui è l’universo mondo, io vi fo un esempio sul teatro…». In breve il ruolo e il personaggio
in teatro sono esempi di mediatori].
contesto/ambiente. ― Studi sulla metacognizione: interesse per la consapevolezza del
soggetto nello sviluppo dell’apprendimento. Integrazione di Pellerey con altri prinicipi:
negoziazione sociale; contestualità (ancoraggio dell’a. a contesti reali o significativi
per il soggetto); riflessività (sollecitazione di processi metacognitivi); e infine pluralità
culturale.

* * *

V - Analisi dell’area dell’apprendimento permanente / lifelong learning. Questa


comprende le sottoaree:

1. Apprendimento non formale: a. per scelta intenzionale3 della persona, fuori


dai sistemi nazionali di istruzione, che persegue scopi educativi e formativi
(e.g. volontariato, servizio civile, o corsi di aggiornamento nell’ambito di
imprese e enti privati etc.).
2. A. informale: a. non intenzionale all’interno dell’esperienza quotidiana, come
nel contesto familiare, durante il tempo libero o anche in contesti di lavoro.

VI - Repertorio di metodologie didattiche:

Lezione: ruolo dominante dell’insegnante che figura come esperto.


Apprendistato: saper-fare attivo degli studenti.
Tutoring.
Discussione.
Problem solving.
Cooperative learning.
Brain storming: metodologia orientata a sollecitare contributo attivo degli
studenti, con ruolo defilato del docente.
Approccio metacognitivo.
Didattica laboratoriale.

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Intenzionalità non significa volontarietà. I. significa piuttosto intenzione ad
apprendere; dunque può esserci i. anche in assenza di voglia di fare un certo percorso di
apprendimento. Per distinguerlo dai casi in cui si apprende ma senza l’intenzione di farlo,
come durante un gioco, durante una conversazione con un amico, o durante uno spettacolo
teatrale etc.
Pratiche didattiche.

VII – Dimensione organizzativa (di contesto). Rilevanza di fattori terzi all’interno


della relazione didattica docente-discente: importanza di macro-contesti (ambiente
socio-culturale e istituzionale), meso-contesti (l’istituto scolastico e la sua tradizione
culturale) e micro-contesti (l’aula). Prendere in considerazione rende efficace l’azione
didattica. ― Fattori che determinano il contesto formativo: spazio (contenitore fisico e
materiale), tempo (giornata, organizzazione dell’orario etc.), regole o norme (che
regolano la vita didattica) e attori (soggetti coinvolti nell’azione didattica).

VIII – Come individuare un’unità didattica? Tenendo conto dei seguenti criteri:
quale tipo di progettazione? Quali metodologie rispetto agli obiettivi didattici generali
e particolari? Con quali dispositivi e mediatori didattici? Con che tempi? Con quali
processi di valutazione? Con quali strumenti di verifica?

IX – Tipologia di domande per l’esame. Due esempi (ripresi da corso di


docimologia):

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