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Formazione come teatro

Pedagogia
Università degli Studi Suor Orsola Benincasa
17 pag.

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RIASSUNTO
FORMAZIONE COME TEATRO
FRANCESCO CAPPA

INTRODUZIONE

Il testo si fonda su un’analogia, quella tra formazione e teatro. Troveremo infatti un’intervista
rilasciata da Michel Foucault nel 1978 dove viene affrontata una questione che mette in luce il
rapporto tra formazione e teatro. Quello che Focault ci invita a sperimentare è uno specifico
atteggiamento rispetto a una regione delle scienze umane, quella della pedagogia oltre a costruire
una condotta teorica e pratica sui problemi della formazione. Nell’intervista viene chiesto a Focault
perché ritorna frequentemente nei suoi lavori il discorso sullo sguardo e sul teatro. Focault risponde
che per lui è una questione molto importante. Dove la filosofia, fin dalla condanna di Platone, non
si è quasi mai interessata al teatro. Bisognerà attendere Nietzsche. Fin da Platone la cosa essenziale
è saper vedere le cose e capire se quello che si vede è vero o illusorio. Il teatro è qualcosa che
ignora totalmente tali distinzioni. Non ha nessun senso chiedersi se il teatro sia vero. In quanto
chiedersi una cosa simile significherebbe far scomparire il teatro stesso. difatti la sua condizione
per poter funzionare è quella di non chiedersi se esso sia vero o falso. Dunque quello che tenterà di
fare è descrivere questo discorso. Cercando di analizzare come si è allestito lo spettacolo del
mondo. Senza considerare se la psichiatria sia vera o falsa, bensì cercare di capire come sia stata
messa in scena la malattia, per esempio, o come si è messa in scena la follia o il crimine. Ovvero
chiedersi come vengono percepiti tali argomenti. Dunque generare una storia della scena su cui si è
tentato di distinguere il vero e il falso. Questo libro cerca di sperimentare uno sguardo sugli
elementi strutturali dell’esperienza formativa, i vincoli e le possibilità, sia teoriche che pratiche,
della verità allestita dal sapere pedagogico. Il teatro permette di agire sulla scena formativa
elaborando temi viali e permette persino di essere coscienti della finzione consentita da questa
elaborazione. Se si tenta di analizzare ciò si capisce anche quanto un uso formativo del teatro possa
alzare la soglia della coscienza di chi fa formazione e di chi educa mediante una rielaborazione dei
propri stili e assetti professionali, cognitivi e affettivi. Dunque il libro parte dall’ipotesi che intende
il teatro come metafora della formazione, proposta alcuni anni fa da Riccardo Massa, per esplorare
in quali ulteriori modi questa metafora possa illuminare i tratti strutturali delle pratiche
pedagogiche.

1
UN’IDEA DI FORMAZIONE
DEFINIZIONI

Le definizioni sono importanti. Nella logica stabiliscono dei ponti tra il soggetto e il mondo. Ogni
definizione tenta di stabilire un’alleanza tra soggetti diversi proponendo di mettere in comune una
conoscenza, disponendo una visione che non si presenta come assoluta, ma aspira a diventare un
punto di riferimento. Riescono a mostrare una doppia forza, da un lato mostra la nettezza di una
parola “pesante”, dall’altro ne conosce i limiti e è consapevole che non potrà mai annullare lo
scarto tra le parole e le cose. Ogni definizione ha però un vantaggio, ossia mostra una direzione,
poiché taglia il campo del sapere in un modo preciso, sia a chi definisce sia a chi viene orientato
dalla definizione. Nel caso del termine formazione esistono molte definizioni, testimonianza
dell’importanza di un fenomeno. La lingua è il grande organo di percezione del mutamento. Di
conseguenza le definizioni dicono anche qualcosa di essenziale della vita di ciò che viene definito.

FORMAZIONE TRA EDUCAZIONE E ISTRUZIONE

In via preliminare si deve considerare che il termine formazione rappresenta il terzo rispetto al
binomio più antico e essenziale della tradizione pedagogica, forse non solo occidentale. Formazione

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riproduce al suo interno la contrapposizione tra educazione e istruzione, ma sembra al tempo stesso
superarla. Questo termine può assumere molti significati che mutano a seconda del contesto e
dell’uso che se ne fa. In una prospettiva molto generale la formazione può indicare la formazione
diffusa, la dimensione vitale e esistenziale del processo educativo. Da un punto di vista più
specificamente pedagogico indica un processo istituzionalmente orientato, volto all’acquisizione
dei fondamenti della cultura. Qui troviamo molto presente il retaggio aristotelico che vedeva la
formazione come attuazione e realizzazione di un’essenza propriamente umana. Questo modello
presuppone che ci sia già un’immagine del soggetto culturalmente definita alla quale il processo
formativo deve tendere. Di altro segno è il modo in cui la formazione può plasmare dall’esterno la
materia umana anziché partendo da un principio-motore più interno e qui ne sono un esempio i
grandi progetti pedagogici moderni che dalla paideia giungono fino ai differenti significati che ha
assunto il termine Bildung. In tempi recenti la formazione indica una pratica finalizzata,
organizzata e controllata rispetto a obiettivi ritenuti strategici per conseguenze sociali e produttive
determinate.

TRE PARADIGMI (FILOSOFICI) DELLA FORMAZIONE

Il concetto di formazione si è posto in ogni sistema filosofico come un problema centrale poiché
interessa il rapporto tra l’interiorità e l’esteriorità dell’Essere e dell’ente. Si possono riconoscere
due tendenze fondamentali a riguardo. Una prospettiva analizza la formazione come una crescita
ontologica dell’essere, legando così il concetto a tutto ciò che è e alla nozione di forma. Una
seconda prospettiva, ha considerato la formazione legata al rapporto tra l’attività del soggetto e il
suo sviluppo nella storia, dove la storia corrisponde alla serie di eventi che costituiscono le trame
dell’oggettività dentro le quali il soggetto si muove. Sullo sfondo di queste due tendenze
fondamentali possiamo individuare tre paradigmi della formazione che hanno caratterizzato la
pedagogia contemporanea. Il problema della formazione può essere espressione di un paradigma
dello sviluppo organico, più legato alla matrice idealistico-marxista, di un paradigma
dell’emergenza della soggettività. Tenere presenti questi tre paradigmi è un’operazione necessaria.
Il paradigma dello sviluppo organico esprime una concezione dello sviluppo per gradi. Tale
paradigma mette in risalto un’attività del soggetto che forma e modifica sé stesso- il paradigma
dell’emergenza della soggettività propone un’istanza formativa che va contro ogni modello
metafisico predeterminato secondo un quadro di valori già fissato. Il soggetto emerge come l’effetto
di un flusso di forze, non per rifiutare la storia e il suo divenire, ma al contrario per proporre un
rapporto diverso con la storia. Nella lettura che Foucault fa di Nietzsche, è la struttura stessa della
soggettività a essere messa in crisi. In questo modo il problema della formazione diventa centrale,
ma esprime discontinuità (il cosiddetto paradigma organico). Il terzo paradigma, quello del rapporto
problematico tra persona e evento, si lega con diverse accezioni alla filosofia pratica di derivazione
aristotelica, intesa come continua comprensione del rapporto tra soggetto e evento. Un rapporto che
si forma e si sviluppa attraverso la comunicazione dialogica e anche in base alla dimensione ludico-
estetica, come proposto da Gadamer.

LO SCENARIO ATTUALE E IL NUOVO PARADIGMA

Le interazioni tra conoscenza e realtà hanno fornito la struttura per pensare e praticare la
formazione e lo sviluppo del proprio sé necessariamente all’interno di una dinamica reticolare, di
un tessuto di esperienze. La conoscenza e la formazione sono legate non tanto ai singoli oggetti, ma
alle loro relazioni. Lo sviluppo, l’educazione e la formazione sono l’effetto di un’interazione tra
soggetti, linguaggi, menti, intenzioni, valori, realtà interne e esterne. In questo senso si comprende
meglio il successo che ha riscosso il modello della complessità anche nel discorso formativo. Il
problema della formazione nella società contemporanea però risente degli stessi sintomi che oggi
hanno cambiato il modo di pensare la cultura e la politica. Infatti piuttosto che fornire un grado di
crescente certezza sul mondo e sul soggetto, si consolida esponenzialmente l’impressione che siamo
immersi nell’incertezza e nell’ambivalenza. Tuttavia proprio la consapevolezza di questo paradosso

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e quindi la coscienza di vivere nell’incertezza incoraggia gli individui e la società stessa ad
assumere un atteggiamento libero e di apertura al cambiamento. Come ha scritto Fadda il conoscere
è strettamente legato all’essere nel senso che il modo in cui conosciamo la realtà e noi stessi in essa
è costituivo della nostra essenza. Questo mostra il vero problema, che tiene uniti ambiti anche
molto lontani delle scienze umane e dell’educazione, non è la nozione di sistema ma è proprio la
categoria il nodo davvero cruciale, ovvero quella di morfogenesi, a questo proposito vale la pena
richiamare le due etimologie: morfè in greco e forma in latino. Il greco riguarda un modo d’essere
che lascia sostanzialmente impregiudicati i tempi, mentre il latino ha un’estensione di significato
che legittima il richiamo alle attività di formazione; entrambe sottolineano l’importanza del nesso
tra formazione e azione concreta. Già agli inizi degli anni Settanta, i padri dell’approccio
psicosociale alla formazione mettevano in risalto la struttura morfogenetica. La psicologia ha
contribuito in modo decisivo all’emergenza della figura dell’adulto in discorsi di formazione. La
formazione, aveva già segnalato Morin, è sempre una prassi sociale. Le ricerche di Moscovici degli
anni Sessanta sulle rappresentazioni sociali e gli studi degli anni Settanta sul rapporto tra
conoscenza e rappresentazioni hanno costruito le premesse per passare da ma concezione scolastica
della formazione a una cha pensa i saperi comuni. In questa prospettiva inizia a manifestarsi
l’attenzione dei racconti di vita vissuta. Inoltre le rappresentazioni possono essere anche
considerate come ostacoli per l’apprendimento e la formazione, poiché sono conoscenza talmente
interiorizzate dai soggetti e dai gruppi che si accontentano di modificarsi senza trasformazioni
significative. C’è un elemento che mostra la differenza tra il modello scolastico della formazione e
quello che caratterizza i processi formativi. Secondo Quaglino ci sono tre fattori che caratterizzano
i sistemi sociali e formativi della società contemporanea. Il primo è la condizione di permanente
cambiamento all’insegna dell’incertezza. Il secondo fattore presenta una perdita di ancoraggio ad
alcune categorie forti quali il mestiere che vengono rilette attraverso il concetto di competenza. Il
terzo fattore rimanda ai soggetti che devono fronteggiare la complessità del ciclo di vita e la
continuità del ciclo di evoluzione delle competenze nella direzione evidentemente della formazione
permanente (la formazione che dura tutta la vita). Così che la formazione viene interpretata come
apprendimento. Di conseguenza le sfide della formazione sembrano essenzialmente tre: apprendere
a cambiare, apprendere ad apprendere, apprendere da sé. La formazione è un percorso di lungo
periodo rivolto a adulti che accettano di esplorare i propri stili cognitivi e affettivi sia attraverso la
formazione eterodiretta sia attraverso l’auto formazione. Operando in opposizione alla
conservazione, ovvero integrando gli elementi che si tende a conservare con a cura permanente
verso ciò che si sente necessario per rinnovare i propri orizzonti di significato. Oggi notiamo
un’ulteriore sofisticazione della formazione in quanto oggi siamo esseri digitali. La mutazione di
scenario ha interessato soprattutto quel nodo cruciale che si stabilisce in ogni processo formativo tra
azione, comunicazione, contesto culturale, conoscenza, apprendimento e valutazione. Molti
studiosi hanno fatto discendere da queste nuove condizioni il passaggio da un vecchio a un nuovo
paradigma della formazione. A partire da un recente studio a livello europeo, Domenico Parisi ha
individuato i fattori distintivi di questo passaggio, che vedremo confrontandolo con il vecchio
paradigma esistente. Il vecchio paradigma è basato sull’interazione tra docenti e discenti; tende a
isolare i discenti tra loro, facendoli interagire solo con i docenti; ha forti vincoli organizzativi. Il
nuovo paradigma, invece, è basato sull’autoapprendimento del discente; tende a creare delle
comunità di discenti che imparano interagendo tra loro; allenta o fa scomparire i vincoli
organizzativi. Per evitare miopie critiche nella lettura di questo confronto, continueremo verso
un’idea di formazione che tiene conto certamente dello scenario dei cambiamenti che fin qui
abbiamo cercato di mettere in chiaro.

ESPERIENZA E RIFLESSIONE

Se rileggiamo con più calma le distinzioni tra vecchio e nuovo paradigma, non possiamo non notare
che la categoria di esperienza ritrova un vigore e una centralità nel discorso e nelle pratiche
formative che sicuramente rende ragione all’intuizione decisiva che sorreggeva tutto il credo
pedagogico di John Dewey. Nel termine esperienza convivono storicamente sia la questione della

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prova attraverso l’errore, sia la destrutturazione della procedura a beneficio di una pratica che
determina un’apertura nella relazione tra soggetto e oggetto. Per riprendere un paradigma che
assume in pieno la complessità del mondo che abitiamo, vediamo come la prospettiva
gadamericana dell’ermeneutica tenda a sostituire la nozione di verità come conformità della
proposizione alla cosa con una nozione che si fonda piuttosto sul concetto di Erfabrung,
dell’esperienza come modificazione/tras-formazione che il soggetto subisce e agisce quando
incontra qualcosa che ha davvero rilevanza per lui. In Dewey vediamo come nessuna esperienza è
possibile senza qualche elemento di pensiero ma a differenziare il tipo di esperienza è la qualità del
pensiero a essa applicato. Con una chiarezza esemplare Dewey pone i presupposti di ogni teoria
della formazione che si fondi sull’apprendere dall’esperienza e che indichi nella riflessione e nella
disposizione i suoi strumenti più difficili da maneggiare e più essenziali. Solo se si scruta più a
fondo la stoffa dell’esperienza il vissuto può trasformarsi in essa. L’esperienza riflessiva genera
quel tipo di pensiero che permette di ripiegarsi mentalmente su un soggetto. Nell’esperienza
riflessiva si coltiva quel pensiero che cerca di continuo le connessioni fra il nostro agire e gli effetti
che da questo scaturiscono. Il pensiero riflessivo era una considerazione attiva, persistente e attenta
di qualunque convinzione o di qualunque presunta forma di conoscenza. Anche se Mezirow tenne a
dire come tale definizione necessitasse di un ampliamento, basando il tutto sull’apprendimento
trasformativo.

IL CHIASMO TRA LINGUAGGIO, RAPPRESENTAZIONE E AZIONE FORMATIVA

Il modo in cui un individuo ritiene di essere stato formato costituisce un indice di riferimento
interno alla rappresentazione cui egli perviene del processo formativo del quale è stato soggetto e
oggetto al contempo. Tale rappresentazione però non è ascrivibile solo a quell’indice. Il tipo di
selezione effettuata, le modalità di connessione impiegate dipendono pesantemente anche dal modo
in cui prefigura e caratterizza i processi formativi. Queste riflessioni per molti aspetti integrano il
discorso pedagogico portato avanti da Demetrio soprattutto dall’inizio degli anni Novanta in poi.
Tale approccio ha dato una svolta al dibattito italiano sull’educazione degli adulti, operata anche
attraverso l’analisi fenomenologica e narratologica. Spesso si sottovaluta il rapporto che le ricerche
di Demetrio sull’autobiografia come prospettiva pedagogica e come cura di sé abbiamo con i suoi
studi precedenti sulla micropedagogia e sulla sociologia clinica e dell’educazione. La narrazione
come pratica e come metafore dell’esperienza restituisce non solo suggestione e fascino, ma anche
forza e incisività rispetto alle possibilità di concepire i setting formativi come luoghi e momenti
pensati e prefigurati. Il lavoro di ricerca che angelo Franza ha compiuto sulla retorica e la
metaforica e sull’analisi del problema della conoscenza in pedagogia fa convergere gli elementi che
abbiamo messo in risalto sua della teoria della formazione centrata sull’apprendere dell’esperienza
sia di quella che sottolinea l’importanza della riflessione e dell’apprendimento trasformativo anche
a partire dalla messa al lavoro delle narrazioni professionali e personali. Inoltre chiarisce in che
modo l’intreccio tra linguaggio e immaginario pedagogico diventa indispensabile. Difatti questi
intrecci vengono chiamati chiasmi e la comprensione consente di vedere le connessioni latenti che
agiscono sugli stili formativi dei soggetti, ma mettono in chiaro frammenti significativi di quella
verità pedagogica che l’esperienza di ognuno custodisce e mette al lavoro ogni volta che si diventa
soggetti o oggetti di formazione. Lo sforzo teoretico e pratico di Franza e di Massa cerca di
rifondare il sapere pedagogico a partire da un confronto serrato con i problemi e le potenzialità
dell’esperienza educativa e formativa.

L’APPROCCIO CLINICO ALLA FORMAZIONE

Abbiamo già visto in che senso la riflessione giochi un ruolo essenziale in formazione. Negli ultimi
anni gli studi di Luigina Mortari hanno sottolineato l’esigenza di portare nel discorso formativo il
contributo di un’epistemologia situata, che da un lato sia in grado di rendere trasparenti le
procedure e i riferimenti valoriali e dall’altro istituisca dei veri e propri laboratori pratici di pensiero
riflessivo sulla formazione. Fin dagli anni Ottanta del Novecento è stato Riccardo Massa a

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proporre in pedagogica un approccio clinico l’dea della clinica della formazione risponde anzitutto
al tentativo di ridefinire sul campo un profilo epistemologico della pedagogia. La formazione si
presente immediatamente come una pratica di ricerca. L’attitudine clinica è l’attitudine
fondamentale entro cui si costituiscono le scienze umane. Nella nascita della clinica, Foucault, ci ha
mostrato anche in modo spietato, l’istanza di potere che sta alla base di ogni progetto clinico. Qui il
clinico quindi non interessa rispetto alla dimensione terapeutica. Clinica vuol dire innanzitutto
cercare di oggettivare qualcosa che ha assunto nella sua concretezza e nella sua individualità.
L’approccio clinico tenta di costruire una scienza oggettiva del soggetto individuale. Inoltre la
clinica è sempre situata: è una prospettiva molto attenta alla dimensione istituzionale. Lo sguardo
loquace dell’atteggiamento clinico va inteso dunque come uno sguardo e un ascolto dell’accadere
formativo, capace di collocare ciò che si vede e ciò che si ascolta in una rete concettuale e di
incrementare questa rete concettuale entro una dimensione applicativa intesa quale dimensione
preziosa, che permette di oltrepassare un modello della pedagogia assunta come scienza applicata.
La clinica, così intesa, cerca di far emergere l’oggetto formazione. La stessa pedagogia diviene così
una pratica euristica e non una scienza pratica. Allora che cos’è la formazione? Come abbiamo
visto rimanda a molti significati, anche distanti tra loro. Il suo valore sarà dunque un valore di
posizione. La clinica della formazione tenta appunto di fare questo: prova a definire una pratica
che possa esplicitare questa latenza pedagogica. Tale latenza costituisce l’oggetto specifico della
formazione come pratica. Questa pratica avrà un congegno specifico, un setting proprio, ossia un
campo relazionale dotato di certe regole condivise. La clinica della formazione consente di operare
un chiasmo tra mondo della vita e mondo della formazione. Comprendere in questo setting significa
trasformare. Il valore empirico di tale trasformazione lavorare sui significati e non solo
sull’atteggiamento. Il modello di formazione in cui si attiva il gioco delle relazioni
pedagogicamente qualificate prende forma anche a partire dalle ipotesi della psicologia e della
psicoanalisi dei piccoli gruppi. Questo processo di lavoro passa attraverso il processo di
soggettivazione. Difatti il concetto a cui si approda è quello di dispositivo, che Massa mutua da
Foucault dandogli una declinazione pedagogica esplicita- intendere la formazione dome dispositivo
significa innanzitutto considerare che il luogo d’emergenza dell’esperienza pedagogica deve essere
letto a partire da un’istanza che dispone l’esperienza formativa e la rende disponibile. La
definizione normale di dispositivo discende dal verso disporre che indica sia inclinazione,
attitudine, sia ordine, comando, volontà e facoltà di disporre di persone e di cose a proprio arbitrio.
Le due accezioni più importanti di dispositivo sono: 1) contenuto decisorio di un atto
giurisdizionale e 2) congegno che viene applicato a una macchina o a un impianto con lo scopo di
ottenere determinati effetti1. Tornando al discorso, possiamo affermare che in prima istanza il
dispositivo riguarda la relazione fra la procedura regolata dalla legge e gli effetti determinati che
ottengono in relazione all’azione secondo regole e secondo procedura. Potremmo così dedurre che
la formazione può essere interpretata come una storia e una logica degli effetti o come una
genealogia degli effetti. Il dispositivo è la rete attiva fra elementi eterogenei: ha sempre una
funzione strategica, ossia risponde sempre a un’urgenza. Il dispositivo ha dunque una predominante
funzione strategica, risultante dall’incrocio di relazioni di potere e di sapere. La pratica formativa
quindi ordina un campo di potere e di sapere, ma soprattutto ciò che conta è indagare la positività di
questo ordine, ossia comprendere il rapporto concreto tra gli esseri viventi e l’elemento storico. Per
Massa il dispositivo diventa l’oggetto teorico specifico della ricerca in pedagogia, oggetto che
costituisce il sapere formativo e il sapere sulla formazione. Dove la domanda fondamentale resta
questa: “Quali sono le strutture elementari della formazione?” per rispondere in modo rigoroso a
tale domanda dobbiamo però solo apparentemente, far retrocedere la questione a una sua
problematizzazione precedente e porci un’altra domanda: “Cosa distingue una situazione qualunque
da una situazione formativa?” dobbiamo considerare formativa qualsiasi situazione che presenta
1 Il discorso su Foucault e soprattutto sui Dispositivi (Dispositif per lui) è molto complesso, lo
stesso Foucault ha impiegato più e più libri per spiegare al meglio il concetto. Se vuoi ti segnalo tre
letture, belle, ma che purtroppo dovrai leggere tutte. “Sorvegliare e punire”, “Storia della
sessualità” e “Nascita della clinica”. Sono tutte molto complesse però spiegano al meglio la sua
idea.

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una strutturazione di alcune dimensioni fondamentali dell’esperienza. Queste dimensioni sono
essenziali per definire il dispositivo di elaborazione. Tale dispositivo è qualificabile come oggetto
pedagogico proprio in quanto consente di evidenziare la presenza di alcune dimensioni strutturali.
Solo conoscendo empiricamente il dispositivo si potrà elaborare una teoria dell’azione e della
progettazione. Se il dispositivo viene inteso in questo modo permette di accedere, comprendere e
mobilitare la struttura latente della formazione. L’approccio clinico alla formazione stimola la
visione e l’interpretazione di un sistema di elementi praticodiscorsivi che mostrano una tecnologia
con l’immaginario. In conclusione, l’idea di formazione che si ha in mente è prima di tutto una
pratica di ricerca. La formazione è un campo di forze, è un gesto che non dipende solo dalle
intenzioni e dal progetto è un dispositivo e è l’oggetto specifico del sapere pedagogico che la
formazione costruisce e decostruisce di continuo, seguendo il ritmo delle soggettivazioni e
desoggettivazioni. Questa idea di formazione non si pome come uno sguardo dall’alto sui processi
formativi. Si pone come un atteggiamento.

2
UN’IDEA DI TEATRO
IL “RIGORE” DI ARTAUD COME FONTE

Nel 1995 Antonin Artaud riesce a far rappresentare il “I Cenci che non sono ancora il Teatro della
Crudeltà ma lo preparano”. La tragedia dei Cenci non compare nei due programmi del Teatro della
Crudeltà poiché la sua presentazione e il suo sicuro successo dovevano lanciare la nuova stagione
del teatro che egli aveva in mente. L’opera fu un immediato fallimento. Questo insuccesso
materiale che era il segretario generale dello spettacolo segna una cesura netta e da esso nasce
“l’Artaud geniale e tragico, l’Artaud magico e profeta”. Il 13 gennaio del 1947 Artaud accetta di
tenere una conferenza al Vieux Colombier. In sala ci sono moltissimi amici e sostenitori che
attendono con ansia il suo ritorno in pubblico. Artaud considera Per finirla con il giudizio di Dio un
modello ridotto del Teatro della Crudeltà; alla sua registrazione è consegnata l’ultima voce del
drammaturgo. Il Teatro della Crudeltà è segnato dall’insuccesso. L’impossibilità della
rappresentazione che Artaud è un sinonimo della crudeltà, carattere fondativo del suo teatro.
L’opera di Artaud ci consegna a due posizioni paradossali: 1) Artaud che voleva liberarsi del
fardello della (sua) scrittura si è imposta nella nostra tradizione culturale. 2) il rigore, ossia la
crudeltà, produce il teatro di Artaud, segnandone però alla nascita il limite interno alla sua
esistenza. Artaud con questi presupposti ha posto le condizioni di inesistenza del teatro.

LO SVILUPPO DEL “TEATRO DELLA CRUDELTÀ”

Tutti i maggiori studiosi o lettori di Artaud si sono confrontati con il significato della crudeltà. In
questo contesto cercheremo semplicemente di analizzare gli scritti all’interno dei quali Artaud ha
cercato di rendere evidenti i punti essenziali di tale significato.

“BASTA CON I CAPOLAVORI” (1931)

Il linguaggio di Artaud risente ancora delle invettive dada e dello spirito della provocazione dei
surrealisti. Bisogna interrompere il primato della psicologia per l’interpretazione dei testi
drammaturgici e dell’interpretazione psicologica che il pubblico deve dare e vivere sulla propria
pelle di fronte agli spettacoli. L’arte non è separata dalla vita e il pubblico deve essere messo nelle
condizioni di poter accedere a un’esperienza che lascia riapparire il mistero di quelle leggi che da
sempre regolazione l’azione della vita e che il teatro sfrega contro i nervi del pubblico. Artaud
riporta l’attenzione sul momento in cui il teatro perde la sua potenza sacra e viene diminuito a
vicarianza: questa distanza ha trasformato il teatro in un gesto contemplativo. Bisogna smetterla
con la poesia che giova solo a chi la scrive: va recuperata cioè nel luogo dove la poesia diventa
corpo. Il teatro deve riconciliare l’esperienza con l’ordine delle forze primordiali che sole possono
non rendere sterili le nostre parole e i nostri gesti. In questo breve passo si profilano giù gli elementi

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principali della nozione artaudiana di crudeltà. La formazione delle cose e il loro rapporto con
l’apparenza- l’affiorare di forze vitali che hanno determinato le condizioni originarie dell’evento
teatrale. L’analogia fra il conflitto delle forze primordiali e il legame fra il maschile e il femminile.
La possibilità di legare il movimento delle forze primordiali con i gesti degli uomini attraverso la
sensibilità dei magnetismi nervosi che permettono al corpo passionale e pulsionale di trovare i
mezzi materiali per riattivare quell’unità del gesto proprio della Forza. Questa proposta tenta di
offrire la rappresentazione della crudeltà necessaria delle cose verso di noi. Si scaglia nettamente
contro quello che lui chiama l’empirismo delle immagini. Bisogna tornare alla conoscenza fisica
delle immagini. Il gesto del Teatro della Crudeltà deve non ricondurrà la sensibilità del pubblico
allo spazio dell’organismo ma deve poter permettere a ognuno di sperimentare la forza dell’energia
di quel gesto come qualcosa che lo addensa e lo dissemina in una dimensione ulteriore rispetto a
quella della sua organicità. Il gesto prende una funzione incantatoria che anche la psicoanalisi ai
suoi albori indicava come uno strumento prezioso. In questo moto tutto lo spettacolo mostrerà la
forza e la violenza di un’azione che sarà tutt’uno con la sua gratuità.

“IL TEATRO E LA CRUDELTÀ (1933)”

Un’idea di teatro si è perduta. Il cinema sembrava in quegli anni essersi assunto la responsabilità di
svegliare il pubblico. Ma il cinema sarà sempre profondamente differente da teatro- le immagini
riflesse del cinema sono filtrate dalla macchina. Il Teatro della Crudeltà non deve essere al di qua
degli avvenimenti. Il pubblico pensa anzitutto con i sensi. Nella poesia ci sono forse vive che
devono rinnovare il teatro e scuotere la sensibilità del pubblico. Il Teatro della Crudeltà prende
l’immagine di un delitto e i segni concreti adeguati nella messa in scena. Come i sogni influenzano
noi e la realtà agisce sui sogni, così le immagini mentali come un sogno possono influenzare se
proiettati con la necessaria violenza. La bravura dell’attore non deve servire alle forze interne, ossia
i sentimenti e le passioni analizzabili dalla psicologia, piuttosto il lirismo dell’interpretazione deve
servire forze esterne, renderle manifeste. La separazione fra teatro d’analisi e mondo plastico non
ha nessun senso per Artaud. Dunque il Teatro della Crudeltà è tornante di immagini e di suoni
rigurgitante.

IL TEATRO DELLA CRUDELTÀ – PRIMO MANIFESTO (OTTOBRE 1932)

Il linguaggio del Teatro della Crudeltà nasce dall’espressione dinamica nello spazio: rispetto alle
parole; rispetto agli oggetti. Il Teatro della Crudeltà deve organizzare gli elementi espansi di questo
linguaggio, come segni di una lingua che conserva in sé un potere magico oltre che deittico. Il
linguaggio è concreto e serve a captare i sensi. Quello che conta è usare con rigore la partitura dei
segni concreti- i quali vanno a contrapporsi a un sistema di simboli che sul palco guida il pubblico
dal significante al significato. Il segno conta in funzione del suo dinamismo. Il segno concreto non
si oppone alla realtà come qualcosa di autonomo. Nel segno/gesto si esprime qualcosa di
integralmente vissuto che però ogni volta organizza in modo disciplinato e rigoroso la
ristrutturazione dell’esperienza. In questa prospettiva va inteso il riferimento al potere dei
geroglifici. I segni concreti (che sono al centro del Teatro della Crudeltà) agiscono precisamente
nello spazio denso teso fra significante e significato. Per Artaud il gusto per la crudeltà che il teatro
deve ridestare è direttamente legato al risveglio del mondo interiore. L’uomo interiore non è quello
definito dal sapere psicologico ma l’uomo metafisicamente considerato. Il teatro è crudele se riesce
a ristabilire il contatto fra l’uomo e i principi essenziali. In questa prospettiva i sogni diventano
parte della tecnica del Teatro della Crudeltà solo se non sono ridotti a una funzione sostitutiva. Il
gesto non permette di individuarsi ma permette di superarci nel dinamismo del teatro. La scena è
anche per questo motivi un luogo unico, senza barriere fra pubblico e attori. Tutte le cose devono
essere organizzate come un sistema in cui il rigore permetterà sempre ai segni di essere riconosciuti
immediatamente.

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LETTERE SULLA CRUDELTÀ E SUL LINGUAGGIO (SETTEMBRE – NOVEMBRE
1932)

La crudeltà a teatro non è sadismo né è fatta di sangue. Bisogna liberare la parola crudeltà dall’uso
che la lega al suo significato abituale la crudeltà va intesa nel suo legame con le idee metafisiche
che riguardano la dinamica della vita e della morte, della forma e del caos. La crudeltà significa per
lui rigore, applicazione e decisione implacabile, determinazione irreversibile assoluta- per Artaud
significa che la crudeltà del suo teatro deve mettere in scena la stessa determinazione della vita.
Crudeltà sta per appetito di vita, un rigore cosmico che Artaud riprende dalla cosmogonia gnostica
nel senso di quel dolore senza la cui ineluttabile necessità la vita non potrebbe sussistere. Questo
quadro metafisico è ciò che deve guidare la creazione teatrale affinché manifesti una creazione
concreta che non tradisca la legge permanente che attende a ogni creazione pura. La crudeltà
dunque non riguarda la proliferazione di appetiti perversi. Si tratta di un sentimento distaccato e
puro, considerando che la vita ammette anche il male e tutte le sue azioni conseguenti. Tutto ciò
sfocia nella coscienza, nel tormento e nella coscienza entro il tormento. Il teatro è sempre atto
concreto che agisce dove gli altri riflettono e questo atto si pone fuori da logiche economiche.
L’azione vera non deve avere conseguenza pratiche. L’azione è inutile poiché possiede la necessità
pura del gesto stesso della vita. Il gesto della crudeltà è necessariamente spreco. Proprio questa sua
qualità crudele non rappresenta ma rifà la creazione. Il Teatro della Crudeltà vuole ricreare non
restituisce il soggetto al suo significato, ma genera la possibilità di un riconoscimento.

IL TEATRO DELLA CRUDELTÀ – SECONDO MANIFESTO (MARZO 1933)

Qual è il concetto del Teatro della Crudeltà? Cercherà di riallacciare il legame perduto fra il teatro
e l’espressione dell’inquietudine dell’epoca in cui il pubblico vive. Per fare questo deve riattivare la
circolazione dei grandi problemi e delle grandi passioni. Artaud propone non a caso come primo
spettacolo della stagione la Cnquete du Mexique. La usa per mostrare come il rapporto primigenio
fra razza e cultura abbia pesato enormemente nella formazione dello spirito europeo. Non si fonda
sul testo, né sulla scena e tantomeno sulla parola, ma sullo spettacolo. Questo aspetto è molto
importante perché ha in mente un doppio movimento. Da un lato guarda al rito magico come una
Forza che supera l’individuo proprio nel pieno contatto con la materia. Dall’altro per fondare uno
spettacolo in cui non abbia più senso la divisione tra vita e arte ha in mente l’esperienza del cinema.
Da questo doppio movimento nasce la forma del Teatro della Crudeltà. Quello che prevale è
sempre la materia. Lo fa attraverso il linguaggio acustico e il linguaggio visivo, che costruiscono
una scena totale che non permette più ai sensi di distinguere la vita dall’evento teatrale. Immerge il
pubblico nella densità di un sistema di segni che vanno decifrati come fossero geroglifici. La
partitura è il frutto più puro della crudeltà poiché mostra come il rigore diventa atto. Il teatro però
non può distaccarsi completamente dalla sua natura di mimesi che distanzia dalla vera vita, ma con
lo stesso gesto e nello stesso momento di questa mimesi si attivano quelle forze pure con il potere
della loro astrazione e nella loro intensità fisica. Quelle idee che mettono in contatto l’uomo con
quello che della vita non è rappresentabile.

ELEMENTI ESSENZIALI DELLA CRUDELTÀ

La crudeltà presenta il punto cieco della sensibilità umana come limite da sperimentare. Per questo
la crudeltà definisce il punto di attacco- questo punto sul piano della sensibilità sta sotto il segno
della necessità del rigore. Cos’è la coscienza per Artaud? Possiamo dire che è l’indice di una
riappropriazione, il male e che si dà solo se c’è perdita di sé. La crudeltà è appetito di vita perché
fonda un teatro in cui non c’è conciliazione con l’esistenza. Il teatro normalizzato è quello sorretto
da simulacri di esistenza e da una rappresentazione riconciliata con la morte- il Teatro della crudeltà
la fa finita con la rappresentazione della ricerca e del ritrovamento del senso. La crudeltà vuole
testimoniare a favore di una verità differente da quella fornita dalla rappresentazione della vita che
si doppia per riconciliarsi con l’impossibilità del senso. L’azione del falso teatro non sa far altro che

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significare la morte come senso della vita stessa. Diventa lo spettacolo di una tentazione in cui la
vita ha tutto da perdere e lo spirito tutto da guadagnare.

TRE VERSIONI DIFFERENTI DELL’EREDITÀ DI ARTAUD

Ci sono tre voci che sanno dare versioni dell’eredità di Artaud, i quali hanno preso tre elementi e li
hanno fatti proprio. Le tre figure sono Peter Brook, Jerzy Grotowski e Carmelo Bene. I tre elementi
sono lo spazio. Il corpo e la voce.

PETER BROOK

Peter Brook sostiene che all’inizio il regista e il pubblico sono necessari: servono a intensificare il
processo, tuttavia a mano a mano che l’azione va in profondità tutti gli elementi dovranno svanire
finché alla fine non vi sarà più né attore né pubblico. Il Teatro della Crudeltà scaturisce un
brancolare verso il teatro, più violento, meno razionale, più estremista, meno verboso, più
pericoloso. C’è una gioia negli shock violenti: l’unico guaio degli schock volenti è che si
esauriscono.

JERZY GROTOWSKI

Jerzy Grotowski sostiene che in un Teatro della Crudeltà l’atto deve essere totale così da permettere
di reagire totalmente. Tuttavia Artaud si erge a questo punto come una sfida. Contenendo come atto
quello estremo e definitivo. Gli attori devono essere come martiri che mentre vengono bruciati vivi
ci lanciano ancora messaggi dai rochi. Con messaggi articolati.

CARMELO BENE

Carmelo Bene sostiene che nella voce il teatro contemporaneo vede il miraggio di una consolante
regressione o coglie l’occasione per una desolante liberazione. Dell’irrapresentabilità del teatro
Artaud ne ha una visione imponente; Bene ne realizza la sensazione, diventando virtualmente cieco,
entrambi esaltando l’indefinitezza e l’evanescenza. Ormai sono numeri gli spettatori che al termine
di uno spettacolo di Bene, convegno sulla eccezionalità della sua voce e si consolano del suo
concerto pur di dimenticare quella voce nasce e si afferma come protagonista dello spettacolo della
sconsolante dissoluzione del teatro. Perciò la sua scenicità la risposta più forte che il Novecento
abbia saputo dare a un’opera come Il teatro e il doppio. Artaud esige un palcoscenico come spazio
da riempire; Bene un palcoscenico come forma cava. Contro la tentazione dell’essere il suo teatro
esalta la gioia dell’annientamento2.

3
IL CORPO TRA PASSIONE E FORMAZIONE
IL CORPO E LA CARNE

L’anima nel discorso di Artaud si presenta come emanazione della nostra forza nervosa coagulata
intorno agli oggetti. Rimane la funzione intermediaria dell’anima, ma direttamente legata alla sua
parta materica. Se l’anima è il carco che ha funzione di interruttore rispetto alla Forma eternamente
errante, il nodo essenziale dentro il quale Artaud instancabilmente lavora è la carne. Possiamo
intendere che per Artaud la carne non è affatto il corrispettivo della fissità. La carne deve essere
riattraversata dallo spirito ma mai spiritualizzata. L’enfasi e la retorica sul corpo restituisce un
Artaud ancora molto legato alla volontà e alla passione recuperate grazie alle possibilità dello
spirito e della coscienza. Credo si possa rivendicare nella metafisica della carne un aspetto generale
del pensiero di Artaud. Più precisamente, la carne come metafora richiama una materialità che si
pone direttamente su un piano transpersonale, al di la del soggetto identificato con quella posizione.
2 Per capire il teatro di Carmelo Bene ti consiglio di vedere qualche video su YouTube.

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Una parola riassume il dramma della sua via: separazione. Fra il suo corpo e il suo spirito, fra il suo
corpo e la carne, fra l’idea e la parola. Artadu chiama spirito la potenza della separazione. Nascere
significa separarsi. Non resta che seguire crudelmente la via della separazione. Questa comunione
della carne si da nel particolare e nell’universale. La sua natura mostra che il piano della carne
possiede un di più rispetto a quello del corpo. Si potrebbe affermare dunque che la carne è un
doppio del corpo. La figura della carne va dunque affiancata a quella del corpo: il corpo sembra già
essere preso in quel grande discorso che tende ad approfondire la differenza fra res cogitans e res
extensa. Così che la carne diviene il doppio impersonale del corpo.
INTERCORPOREITÀ E CARNE

Intercorporeità e carne sono due termini chiave del pensiero di Maurice Meleau-Ponty. Molto prima
della trattazione del concetto di carne così come ci verrà consegnato dall’opera postuma Il visibile
e l’invisibile, la carne presenta in sé un valore eccedente, uno scarto che difficilmente può essere
ricondotto solo a uno sviluppo della sua fenomenologia della percezione. Così che Meleau-Ponty
comincia a descrivere il corpo come intreccio o chiasma di un sensibile e di un senziente, che
corrisponde alla novità e a quel punto chiave del suo pensiero indicato comunemente con il termine
di reversibilità. La riflessione sulla corporeità rivela l’inadeguatezza delle consuete categorie
descrittive come soggetto e oggetto, interiorità e esteriorità. Conviene parlare di un diritto e di un
rovescio del corpo. O meglio non si dovrebbe nemmeno parlare di scissura. Qui viene introdotto il
termine carne, il quale egli intende evidenziare il carattere di elemento e di generalità: in questo
senso il concetto di intercorporeità viene esteso non solo alla pluralità dei corpi percipienti ma
all’insieme stesso delle cose sensibili, gli uni e le altre presi nella medesima trama carnale. Nel
concetto di intercorporeità riprendere la concezione della sinergia della Fenomenologia della
percezione: infatti se lì la reciproca implicazione fra diversi organi di senso dava un unico mondo
sensibile per il soggetto percipiente, allo stesso modo deve valere tra diversi corpi. Dovendosi
differenziare da Sartre e dalla sua concezione della corporeità e della carne, Merleu-Ponty descrive
una carne che non è presenza piena e massiccia. La carne comporta delle dimensioni quello stesso
spessore di invisibile sul quale riposa l’oggetto visto. Sartre vedeva l’intersoggetività come una
recproca reificazione mentre Merleau-Ponty insiste sulla complementarietà del corpo proprio e del
corpo altrui nell’esperienza percettiva. La riduzione fenomenologica non ci mette mai di fronte alla
coscienza pura, ma a una coscienza sempre definita dal corpo come rapporto originario con il
mondo e dalla situazione storica come rapporto originario intersoggettivo. I corpi sono esistenze
che non hanno più un’essenza determinata ma che continuamente e essenzialmente si modificano,
si modulano. Il problema della corporeità come essere di generalità, come carne del sensibile si dà
una molteplicitù di livelli. Questa prospettiva è già presente in Merleu-Ponty e in parte invalida la
critica sprezzate che gli muoveva Deleuze dalle pagine scritte con Guattari di “Che c’è la
filosofia?”. L’avversione di Deleuze è nota ma qui il giudizio sprezzante dovrebbe allontanare
Artaud da Meleu-Ponty. Deleuze ascrive alla carne e al discorso sul corpo di Melreu-Ponty
un’intenzione fuorviante poiché il corpo vissuto e il corpo organico e la loro organizzazione stabile
appiattiscono quella differenza di livello che definisce la sensazione. Per Deleuze la carne sarebbe
ancora un residuo di quella soggettività che si voleva cancellare e estirpare radicalmente, ancora
una corporeità organiza e organizzante. Dunque la carne è l’altra faccia del corpo, il corpo ì l’altra
faccia dello spirito.

IL DAIMON NEL CORPO

Il linguaggio e le idee divengono nel teatro dei Dialoghi gemme e corolle dell’azione. Così la
saggezza, la conoscenza, il sapere, il bene trovano in Socrate il loro grande anfitrione. Nel ponte
irrinunciabile fra il sapere e il bene il daimon cela la sua astuzia. Il daimon socratico soccorre colui
che mai ha un arresto di voce, che quasi mai perde il bandolo di una matassa che avvolge di volta in
volta la sua tela attorno al corpo dialogante dispiegato da Platone. Dunque è vero che chi sa il bene
non può non fare il bene. Il daimon produce una disfunzione nella logica della soluzione socratica
ai problemi, la sua incursione confonde le definizioni: rivela la possibilità d vivere nelle

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contraddizioni. Dove il ragionamento soffoca, il demone offre la sua mano generosa, al costo non
umano e troppo umano di far perdere la limpida padronanza di sé. Nella poetica teatrale di Antonin
Artaud il corpo dell’attore deve essere un corpo glorioso. Il corpo che nel suo stesso corpo. Negli
interstizi del corpo umano ecco apparire un daimon antagonista e insieme complementare rispetto a
quello socratico. Artaud è un visionario, ma le sue non sono semplici suggestioni, il suo riferimento
alla trance non è il vezzo di un mistero del teatro è la traccia bruciante dalla quale far risalire e
generare un nuovo sistema di segni. Come vediamo soprattutto nel teatro sperimentale, dove cerca
più volte di mettere in pratica quanto appena descritto.

IL CORPO INSEGNANTE

Quella del corpo insegnante non è solo una metafora. Il corpo insegnante ha forti analogie con il
corpo artaudiano se si accetta la sua natura di piano di incidenza in cui le pratiche dei soggetti e i
giochi stabiliti fra di esse si rendono esperibili. Il corpo di qualcuno diventa insegnante quando
diventa più che un centro. Un corpo al centro di uno spazio. Qui avviene il passaggio del sapere del/
dal corpo: l’esperienza teatrale applicata all’elaborazione di contenuti del processo formativo
assume una valenza demonica, costringendo la sfera della razionalità e del controllo a entrare
perlomeno in dialogo con uno dei suoi doppi. La magia che ogni volta si dà nel momento di
esposizione della partitura, dello spettacolo a un pubblico trasforma il prodotto del lavoro intercorso
fra corpo insegnante e corpo insegnato. Lo spettacolo è la rappresentazione e l’incontro dove
soltanto in questo caso si avrà un corpo che insegna, che insegna la vita e il corpo.

IL CORPO DOCENTE SULLA SCENA SCOLASTICA

La scuola è un palcoscenico della vita. Quasi sempre il centro è occupato dal corpo dei ragazzi.
L’enfasi sulla centralità del corpo dei ragazzi occulta una questione cruciale dell’esperienza
scolastica, ossia la presenza do corpo docente. Dire che la scuola è un palcoscenico della vita
dovrebbe mettere d’accordo tutti: genitori, studenti, insegnanti, dirigenti e operatori scolastici.
Invece in una metafora così apparentemente pacifica va ravvisata una sottile e permanente minaccia
al significato e al senso che dovremmo cercare di attribuire alla scuola. Il suo primo significato,
invece di indicare la costruzione di una scuola come scena, sembra aver vertiginosamente virato
verso l’idea di una scuola come ribalta. Per ribalta si intende una lunga tavola di legno fissata con
cerniere al proscenio che impedisce alle luci di proscenio di illuminare la scena. Se la scuola viene
vissuta e interpretata come una ribalta ne discendono alcune conseguenze che riguardano sia chi sta
nei bachi si chi siede dietro alla cattedra. Se la scuola è una ribalta quello che viene privilegiato sarà
il campo dell’espressione in sé e non il campo affettivo. Oggi è sempre più difficile rinvenire i
significati che il contenuto e la forma dell’azione scolastica assumono nel rapporto con i desideri e
l’elaborazione dei propri disagi sia dagli studenti sia dagli insegnanti. L’ultimo dei paradossi
formativi che si crea è quello di un reality show. Dove l’immagine di quel che ancora non siamo
viene esteriorizzata fino quasi a esternalizzarla, come fossimo aziende di noi stessi. Da questo
punto di vista i vari talent show a partire da quello di Maria De Filippi hanno fatto dell’espressione
di sé per cattiva mimesi. La performance è la misuro di tutto ciò che vale. Viene interpretata
perlopiù come categorie solo soggettive, ma viene anche portata a un libello di oggettività e di
valutabilità in virtù di un supposto sapere degli adulti di turno. La scuola come scena invita a
sperimentare la profondità della comunicazione che modifica i contenuti, costringe ognuno a
domandarsi che cosa abbiano a che fare con lui le cose che sta conoscendo, producendo
un’immagine. L’immagine che si produce attraverso l’interpretazione che ognuno offre a scuola è
importante, ma chiama a una responsabilità che ci supera e che riguarda il dispositivo pedagogico
nel quale siamo immersi- siamo responsabili insieme agli altri che occupano con noi la scena
creata. Non siamo padroni del campo affettivo che la scena allestisce. Sulla scena educativa il corpo
docente dovrebbe indicare con la qualità della sua presenza una profondità dell’esperienza che non
sia riducibile alla performance del momento. La scena educativa è il luogo di questa profondità che
indica per contrasto la superficialità di ogni performance scolastica. Bisognerà dunque intendere il

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corpo docente come perno del dispositivo scolastico, in modo da ridonare alla scuola tutta la
profondità della sua scena. Solo se consideriamo la scuola come una scena potremmo partecipare
attivamente a quell’esperienza pedagogica capace di trasformare i fantasmi di studenti e di docenti
in vere presenza, e potremo forse incontrare la realtà della realtà della scuola.

4
METAFORA TEATRALE E LABORATORIO PEDAGOGICO
LA METAFORA TEATRALE

Il corpo rappresenta la prima scena di ogni vicenda formativa, ma perché ci sia incontro fra il corpo
di chi forma e di chi è formato deve attivare una qualità speciale della presenza. Questa presenza
speciale è la parte di esperienza che fa la differenza fra quello che ancora comunemente chiamiamo
teatro e il cinema. D’altro canto questa partizione dell’esperienza ha un suo significato specifico
quando parliamo di educazione e di formazione. Tale significato proviene dal fatto che ancora oggi
viene sottovalutato un aspetto fondamentale delle situazioni educative che riguarda proprio la
qualità della presenza dell’educatore. C’è qualcosa di essenziale e implicito nella pratica educativa
che la metafora del teatro può rendere esplicito e disponibile, dapprima in una differente
consapevolezza di quel che si fa e in seguita in una vera e propria competenza. La pratica teatrale
ha un’origine legata ai riti e il teatro ha consentito di ritualizzare i momenti significativi della vita
del singolo e della comunità l’educazione offre la possibilità di sperimentare uno spazio liminale
che è anche uno spazio doppio. La metafora del teatro in educazione non agisce solo come uno
strumento. Quel che avviene quando si a formazione è estremamente analogo a quel che avviene
quando si fa teatro. Alle spalle di questa posizione c’è un’idea di educazione e di formazione che
non è quella corrente, ossia l’idea che la formazione sia un dispositivo. La formazione non è
un’esperienza che ha primariamente a che fare con i valori. Il dispositivo pedagogico è prima di
tutto un generatore di esperienza. In tal senso questo concetto mette bene in luce alcuni aspetti
importanti della pratica teatrale. Primo fra tutti è stato Deleuze a costruire intorno alla nozione di
dispositivo un’interpretazione trasversale del pensiero di Michel Foucault. Foucault definisce un
dispositivo attraverso tre caratteri essenziali: 1) la rete che si può stabilire tra un insieme di elementi
eterogenei; 2) il tipo di legame estremamente variabile; 3) la capacità di fornire risposte efficaci a
un’urgenza storica. Questo è importante perché il teatro prima di tutto è una pratica. Nel lavoro di
un laboratorio teatrale non possiamo pensare che la struttura e gli effetti della pratica laboratoriale
non trasforma sia chi organizza e conduce l’azione formativa sia gli elementi di forme. Se si
considera il contesto scolastico non si tratta di mettere l’occhio su quello che non emerge o che non
si vede in classi, ma consiste nel mettere in gioco il formatore.

IL LABORATORIO PEDAGOGICO

Il laboratorio ha certamente un’utilità educativa ma si dimentica spesso che ha anche un’inutilità


che genere uno spostamento notevole sulle linee di progettazione formativa. L’utilità strumentale
del laboratorio teatrale nella didattica è solo un aspetto delle sue potenzialità. C’è invece
un’inutilità dell’esperienza teatrale in campo formativo una possibilità di farne una differente che
può rivelarsi pedagogicamente efficace. Il formatore spesso perde il contatto con questo aspetto
importante della didattica laboratoriale. C’è inoltre un’altra grande chance formativa che il
laboratorio può offrire a chi fa il mestiere del formatore: si dà nel laboratorio la possibilità di
frequentare uno spazio differente rispetto alla propria pratica formativa e di insegnamento. Mettersi
nel gioco del laboratorio non produce solo una maggiore conoscenza ma si istituisce un piano
dell’esperienza di un altro livello, che è quello tipico del teatro. Come il teatro, la formazione
istituisce un taglio nell’esperienza. Lo spazio del laboratorio è protetto, è così già nella tradizione
scientifica. Non c’è altro modo per capire ciò che avviene in laboratorio se non praticandolo. Solo
successivamente interviene la pratica, che è qualcosa che ci supera. Inoltre chi forma e conduce un
laboratorio ha la possibilità di sperimentare una visione di taglio, longitudinale e non frontale: una
prospettiva che getta una luce differente non solo sull’esperienza dei formandi ma sull’oggetto che

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si sta costruendo grazie al laboratorio. Per concludere possiamo dire che la pratica teatrale
organizza un sapere, porta in sé un sapere formativo che è implicito.

LA FORMAZIONE È UN INCONTRO

Lo spazio del teatro è uno spazio di sospensione della vita diffusa che innesca una riflessività
attraverso un’azione materiale e concreta. Il teatro tematizza la presenza del corpo come ponte per
la formazione critica e consapevole. Ma di quale teatro si tratta? Un teatro che voglia mettere a
frutto il valore delle metafore teatrale in educazione crediamo debba essere povero. Fra le grandi
figure del teatro occidentale del secondo Novecento spicca Jerzy Grotowski. Il quale diceva che il
teatro è un incontro. Questa definizione risulta particolarmente interessante perché dalla questione
del corpo dell’attore arriva genealogicamente a toccare il nocciolo della questione formativa. Il
grande contributo di Stanislavskij è quello di aver sollevato questioni fondamentali sul lavoro
dell’attore e sulla motivazione delle sue azioni. Inoltre sia per Stanislavskij sia per Grotowski le
azioni fisiche costituiscono un mezzo: il primo se ne serviva perché gli attori creassero una vita
realistica sul palcoscenico, il secondo invece considera il lavoro sulle azioni fisiche come uno
strumento. Il percorso del laboratorio quindi non mira a una esplorazione psicologica dei suoi
partecipanti, tutt’altro è il suo scopo. Il lavoro sulle azioni fisiche consente di accedere a
un’esperienza quotidiana in cui l’affettivo fa da correttivo del professionale. C’è uno spazio
inconsapevole che riguarda il training dell’altro-educatore che va esplorato. Il corpo e l’esperienza
possono essere di ponti utili per rendersi consapevoli dei propri blocchi psichici. Lo spazio di
resistenza è quello che bisogna imparare a conoscere attraverso una pratica riflessiva e attraverso
un’esperienza di gruppo. L’essenza del teatro è costituita, dunque, da un incontro.

UN RITMO AFFETTIVO

Cosa significa l’affettiva va praticato prima di essere interpretato? Significa che il luogo speciale
che il teatro istituisce cambia anche la natura temporale dell’esperienza che si fa attraverso il
dispositivo teatrale. In educazione l’affettività non può essere agita in tempo reale, c’è una
mediazione che riguarda in modo specifico la qualità dello spazio e del tempo educativo. La
metafora teatrale in educazione è funzionale al ricongiungimento della sfera cognitiva con quella
affettiva sul piano di incidenza della materialità educativa. Una partitura che non trasferisce un
sapere predefinito di un autore o di un regista da un soggetto a un altro deve essere capace di
fluidificare i simboli. Così la partitura può diventare un terzo che inizialmente spiazza e in seguito
consente di riconoscere l’effetto dei gesti che ognuno compie. Inoltre ha la funzione di
decentramento da un’idea di teatro tutta improntata sull’espressione di sé. Il setting pedagogico del
laboratorio teatrale consente di sperimentare una grana del tempo differente e in questo senso
indebolisce anche l’attesa ansiogena di qualcosa che deve essere prodotto. Il senso del processo
rimane legato a quel che si dà come eventualità e questo stesso atteggiamento investe gli oggetti
che il gruppo condivide e produce.

TRASFORMARE L’ESPERIENZA ATTRAVERSANDO LA METAFORA TEATRALE

Trasformare in esperienza elementi vitali attraverso un laboratorio teatrale vuol dire trasformarli in
progetti d’insegnamento e di apprendimento. Questo spostamento ha come conseguenza primaria
un guadagno diretto sulla relazione con i formandi che vengono valutati in un nuovo contesto dove
agiscono e sperimentano linguaggi e codici differenti rispetto a quelli giocati nella didattica
ordinaria.

IL LABORATORIO TEATRALE COME DISPOSITIVO FORMATIVO


SPAZI E TEMPI

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Lo spazio è fondamentale. Le attività in parte ne richiedono uno abitabile e non occupato da banchi.
Un setting duttile per predisporre l’ambiente. Il primo passo dunque è provvedere a uno spazio che
possa contenere in modo soddisfacente le esigenze di lavoro di un gruppo non piccolo che alterna
continuamente esercizi alla lavagna con esercizi a corpo libero. Uno dei compiti fondamentali di
questa pratica educativa è quello di riappropriarsi di uno spazio vitale che viene vissuto quasi
esclusivamente come contenitore di un’esperienza formativa accademica. Il tempo del laboratorio
è un tempo lungo. Musicalmente potrebbe somigliare al tempo di largo. Il tempo totale del
laboratorio supera di slancio la logica dei semestri e mostra una sua intrinseca diversità. Lo spazio-
tempo di elaborazione di un’esperienza così allestita richiede anche periodi di sedimentazione
dell’esperienza in itinere.

LA GRAMMATICA CORPOREA DELLA DRAMMATICA

La proposta di un laboratorio di questo tipo intreccia più saperi e tenta di allestire uno spazio di
esperienze e di elaborazione e di contenuti pedagogici, da un lato. Dall’altro dovrebbe permettere ai
futuri educatori di essere più consapevoli dei risvolti finzionali impliciti nell’accadere educativo e
formativo. Una caratteristica cruciale del laboratorio risiede nel fatto che lo staff di conduzione non
mette in atto una regia o un’azione fortemente connotata, anzi il suo ritrarsi dalle funzioni
decisionali e di controllo delle dinamiche di gruppo stimola il processo di sperimentazione. I
conduttori si limiteranno a facilitare l’espletamento dei compiti. Il testo scelto dai conduttori per la
sua densità formativa viene digerito dal gruppo e fatto oggetto. Successivamente, il copione verrà
reinterpretato alla luce di un training fisico che il gruppo affronterà guidato dai conduttori. Infine si
procede all’interpretazione registica del testo drammaturgico.

LA POESIA DELLO SPAZIO E IL TEATRO COME INCONTRO

Ogni accadere formativo deve essere compreso dalla prospettiva di una stratificazione e di una
complessità proprie dell’esperienza formativa. Per Artaud, ad esempio, il teatro può esibire il corpo
vivente, ma questo non basta a garantire la potenza di illusione e di cambiamento che fonda la sua
potenzialità trasformativa- non è il gesto in sé a costituire il punto di forza di una messinscena, ma
la sua incorporazione in una tessitura di segni attivi. Così un teatro che guardi al Teatro della
Crudeltà teorizzato da Artaud come a un riferimento poetico e metodologico. Artaud non oppone
ingenuamente la parola al gesto entrambi possono esprimere il soffio della vita- come ha scritto
Artioli se il teatro a differenza del cinema può esprimere il corpo vivente, questo a priori non basta
a garantirne la potenza dell’illusione che trasforma l’uomo e la sua cultura. Il segno è un elemento
magico, nel senso junghiano in cui magico e psichico vengono a significare la stessa cosa: il segno
è un mezzo cifrato per ritrovare un vuoto senza il quale non esiste realtà e senso. Se la parola deve
farsi gesto, essa va assoggettata a una scena che disgreghi i codici del teatro estetico. L’attore
diviene quasi inessenziale. Questa scena vive grazie a una nuova cultura del corpo resa gloriosa
dalla carta che attraversa l’opera dell’attore, dove la carne permette al vuoto di emergere dal corpo3
. Come Wilson ha spiegato, l’attore deve provare a rendere se stesso quel nulla che è tutto sulla
scena. Nel linguaggio dell’ultimo Artaud si crea di rintracciare e ritracciare uno spazio della
passione. Questa passione però non investe il corpo nel suo esserci particolare ma, nell’intenzione
di Artaud, dovrebbe misurarsi con la scena metafisica da esso prospettata.

LA RITUALIZZAZIONE DELL’ESPERIENZA FORMATIVA COME CHANCE DI


APPRENDIMENTO

Il nucleo essenziale e irrinunciabile dell’esperienza teatrale per il teatro povero è l’incontro:


l’incontro del corpo dell’attore. Come si può sperimentare questo incontro così essenziale? Nello
spazio della sperimentazione di questo aspetto cruciale della vita del corpo educante s’inserisce il
3 Per carne si intende quanto detto nei capitoli precedenti, dove si è parlato di Artaud.

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discorso che tematizza l’analogia fra teatro e educazione, nella prospettiva di una rielaborazione
critica e clinica. La formazione presenta il tentativo di non appiattirsi in questa ritualizzazione della
vita. L’esperienza formativa promossa dal laboratorio teatrale è un’esperienza attiva che ne
contempo può consentire un approfondimento di conenuti e di riflessione critica su di essi. Il
conduttore che guida l’esperienza studia e impara a conoscere l’anatomia del corpo-gruppo: ne
impara la fisiologia, i tempi di reazione e di riposo. Naturalmente il conduttore fa parte di questo
corpo, ma non occupa una posizione centrale. Il conduttore non è il solo ad arrogarsi questo tipo di
azione poiché il gruppo stesso si alterna e sperimenta. Il corpo-gruppo del laboratorio teatrale
restituisce una verità sfaccettata al singolo sul singolo, spodestando la gerarchia del corpo
insegnante e facendo dell’esperienza intersoggettiva il vero corpus dell’opera che si forma.

IL FORMATIVO COME FATTORE POLITICO

Quali che siano le azioni di una persona, il loro susseguirsi è il risultato di una doppia dipendenza.
Lo stesso si può dire dello scopo-obiettivo che un gruppo di pari, impegnato nella elaborazione dei
vissuti sperimenta nel percorso qui ipotizzato come pratica teatrale-formativa. O spazio del
laboratorio teatrale genera anche uno spazio di risonanza tra le storie dei soggetti. Roland Barthes
nella voce Ascolto, offre una definizione di risonanza che ci ha guidato nella concezione e nella
costruzione interna di questo testo. Ritorna molto utile poiché offre un’indicazione preziosa rispetto
al rapporto tra significante e corporeità: proprio il piano in cui si muove il lavoro formativo attivato
nel laboratorio teatrale. Così che un laboratorio teatrale può essere visto come il luogo in cui possa
presentarsi il gioco delle libertà. Libertà e autonomia generate e sperimentate non tanto da
un’azione controllata e propria di una ratio calcolante, piuttosto il frutto del gioco di relazione e di
relazioni. Solo tentando una scena corale dentro le maglie di questo gioco ci sembra possa darsi
l’eventualità di una pratica educativa e formativa che crei i presupposti di uno spazio e di un tempo
di presentazione e rappresentazione di esistenze alternative. Un gioco rappresentativo dei nostri
tentativi di non subire e di interpretare in modo non persecutorio e passivizzante la realtà, così
come si dà e così come modella, anche per contrasto, i nostri sogni di libertà e autonomia.

5
IL TEATRO COME SPAZIO TREASFORMATIVO
LO SPAZIO SPECIALE DELLA FORMAZIONE

La parola teatro ha due significati etimologici principali. Il primo indica un luogo delimitato per gli
spettacoli. Il secondo indica il guardare qualcosa che costituisce una realtà nuova. La cosa
interessante da notare è che la doppia etimologia della parola educazione ha caratteri simili. Il
primo significato di educazione indica un uscire da uno spazio che può essere quello della famiglia.
Il secondo ha a che fare con la crescita. Il teatro e l’educazione insistono sulla questione del limite.
Difatti esiste anche un’accezione di teatro del limite, il quale si converte in una possibilità di un
incontro. Il teatro, l’educazione e la formazione presentano delle figure-limite. La formazione
istituisce sempre uno spazio speciale. Il teatro, dunque, può essere inteso come la metafora dello
spazio formativo perché permette di pensare a praticare la formazione al di fuori del dispositivo
puro. Così da divenire la metafora viva e reale dello spazio formativo perché, traslando il discorso
di Karl Popper, la formazione non è la vita, ma il luogo in cui si generano degli oggetti e dei
soggetti. Diviene anche la metafora di una pratica formativa.

METAFORIZZARE L’ESPERIENZA FORMATIVA

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Il significato da attribuire all’espressione metaforizzare l’esperienza è connesso alle riflessioni
appena esposte. Ogni progetto formativo è reso possibili dalla creazione di un campo metaforico
rispetto alla vita diffusa per rielaborare e oltrepassare il semplice campo dei vissuti. Del resto la
natura elle metafore ha profondamente a che fare con un salto di livello rispetto al significato che si
attribuisce a uno degli elementi che compongono la metafora stessa. Il salto metaforico arricchisce
contemporaneamente il mondo dei significati tradizionali e il processo di soggettivazione di chi si
trova a essere investito e attraversato dall’azione che la metafora attiva nel linguaggio. Lo spazio
pedagogico è precisamente quello spazio potenziale che tenta di trasformare la vita in esperienza.
La metafora teatrale tenta di trasformazione la formazione in un campo d’esperienza in cui possano
sperimentare le linee di forza di sapere e potere che caratterizzano ogni processo educativo e
formativo. Così che il teatro di viene un reale luogo di apprendimento dell’esperienza, ma a quale
esperienza deve puntare il teatro? Secondo Benjamin attraverso l’Erfabrung, che può essere tradotto
come esperienza accumulata e con l’Erlebnis, ovvero l’esperienza vissuta.

LE MEDIAZIONI FORMATIVE DELL’ESPERIENZA TEATRALE

Come possiamo determinare la struttura dell’esperienza formativa senza confonderla con altri
aspetti dell’esperienza? Un elemento che può segnare una distinzione è la natura teatrale
dell’azione formativa. Ossia un dispositivo finzionale. Il piano concettuale offerto dalla nozione di
dispositivo in pedagogia è interessante in quanto produce un nuovo campo di esperienza, come ha
sottolineato Riccardo Massa. Questo campo d’esperienza dovrebbe consentire un lavoro
metariflessivo di secondo livello. Il dispositivo teatrale nella formazione consentirebbe la creazione
di uno spazio protetto di tipo espressivo e interpretativo che rende possibile l’istituzione di un
setting formativo di rielaborazione dell’esperienza individuale. La metafora teatrale indica come la
formazione dovrebbe puntare a decentramento che passa dall’esperienza del corpo. Il teatro dà
materialità all’esperienza e insieme depotenzia la centratura e l’individuazione che ogni dispositivo
pedagogico produce. In questo senso il teatro come materialità e decentramento diviene esso stesso
un dispositivo che permette di accedere in modo costruttivo alla dialettica di desoggettivazione e
oggettivazione. Inoltre questo materiale vivente ha il carattere specifico di attivare le differenti
mediazioni che un’esperienza teatrale con orientamento formativo vuole esplorare. Tale esperienza
può essere attivata: una mediazione testuale, una mediazione emotivo-affettiva, una mediazione
spaziale, una mediazione temporale, una mediazione personale, una mediazione performativa.

IL RAPPORTO TRA LO SPAZIO AFFETTIVO E LO SPAZIO PEROFESSIONALE

Il mondo affettivo che ogni volta ci viene incontro quanto entriamo in una scena formativa, va
seguito nei suoi significati materiali e non va immediatamente spostato sul piano delle immagini. Il
teatro si fonda su una diversità rispetto alla vita diffusa, che viene introdotta dalla figura del terzo,
che può presentarsi come lo sguardo dello spettatore. Ogni formatore dovrebbe ambire alla
necessità dell’azione, mettendo al centro di ciò che fa il lavoro necessario a far emergere le
potenzialità dell’atto sulla scena che sta animando con l’altro, che chiede di essere formato o
educato.

LA QUALITÀ SPECIFICA DEL DISPOSITIVO PEDAGOGICO-TEATRALE

Il rapporto fra il campo dell’esperienza e il dispositivo determina una relazione biunivoca


importante per il discorso pedagogico. Il piano de complessità le l dispositivo è interessante perché
produce un campo di esperienza, generando un processo di soggettivazione, producendo così un
campo di esperienza nuovo. Il teatro come metafora della formazione crea una sinergia potenziale
tra i due registri che il formatore deve padroneggiare. L’esperienza formativa è vissuta prima di
tutto nella materialità dello spazio e del corpo di chi forma e di chi è formato. Per poter essere
consapevoli del proprio stile formativo è necessario comprendere come siamo agiti e come agiamo
quando siamo presi nel nostro fare. L’attore non rivive l’azione. Questa ricreazione può portare fino

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a non riconoscere più il proprio corpo. Il dentro non determina più il fuori. Questa giusta distanza
creata dal decentramento permette di stabilire una relazione di secondo livello con ciò che il teatro
fa. Così il teatro come la formazione, attraverso il movimento e gli effetti di questo decentramento
rende possibile per il soggetto una lettura inedita dei modi in cui interpreta la realtà. Per Simondon
l’individuazione non si compie mai perché il processo di formazione dell’io tende sempre
all’indivisibilità ma si genera grazie al processo di individuazione del noi.

LA FORMAZIONE DI SÉ E LA RESISTENZA AD APPRENDERE

La resistenza ad apprendere riguarda l’atteggiamento auspicato dal teatro povero in cui l’attore,
affrontando con radicalità le sue più intime resistenze fisiche e psichiche, inizia gradualmente a fare
a meno di non fare4. Praticare la formazione come teatro significa anche lavorare su queste linee di
resistenza e comprendere il valore di positività.

UNA PARTITURA FORMATIVA coraggiosa immersione.

La partitura è un simbolo che coinvolge i singoli soggetti e quel corpo che il gruppo diventa.
Divenendo l’oggetto formativo centrale del processo. Questo significa che i soggetti e gli elementi
costitutivi del processo mirano alla costruzione di un oggetto plasmato da tutte le dimensioni del
dispositivo pedagogico-teatrale. La partitura non è solo il progetto formativo da realizzare ma è
l’ordito dei rapporti incorpati e significanti5.

CONCLUSIONI

Potremmo terminare questo testo usando le parole di Eugenio Barba, il quale diceva: “il teatro è ciò
che permette di trovare il proprio modo di essere presenti”, di trasformare le aspirazioni le
intenzioni, le necessità personali in fatti che smettono di sognare un cambiamento futuro e iniziano
a realizzarlo. Questo teatro permette al sé di immergersi nel cerchio della finzione per trovare il
coraggio di non fingere nell’incontro con se stessi e con gli altri. La formazione come teatro
fornisce gli strumenti per rendere sostenibile questa coraggiosa immersione.

4 Ritengo che la questione si riduca a questo, anche perché ripete, come già fatto più volte in questo
testo e come si è fatto nell’altro testo, il teatro povero di Grotowski.
5 Il paragrafo successivo, ovvero: Il teatro come spazio formativo, è stato già analizzato nell’altro
testo, dunque ho preferito non inserirlo nuovamente.

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