Sei sulla pagina 1di 5

B. Martini, Formare ai saperi.

Per una pedagogia della conoscenza, Franco Angeli, Milano, 2005,


pp. 63-71.

3.1. Saperi da insegnare

Attribuire centralità ai saperi nei processi di formazione che si svolgono all’interno delle
istituzioni formative, non può prescindere da una riflessione sulle “forme” culturali dei saperi e su
come queste vengono definite. A questo scopo, dobbiamo innanzitutto collocare il sistema
formativo nel quadro della dinamica di produzione sociale della conoscenza. Dobbiamo cioè
pensarlo come un “sistema sociale” che interagendo con altri sistemi e “attori sociali” partecipa
profondamente e organicamente a “dare forma” ai saperi. La conoscenza va dunque interpretata non
come fatto in sé, ma come qualcosa di prodotto e comunicato il cui significato si ricava entro e
attraverso i sistemi di produzione e comunicazione. La rilevanza sociale dei saperi, la loro
“immagine” culturale, le tecnologie con le quali essi vengono distribuiti nella società corrispondono
a significati percepibili e comunicabili e, quindi, accettabili e condivisibili all’interno del sistema. In
altre parole, il problema della forma si dà nell’àmbito di una prospettiva che potremmo definire
antropologica. Ciò significa accettare, in primo luogo, il principio secondo cui non esiste una forma
unica, “universale” dei saperi, ma “forme” diverse che si danno all’interno dei diversi contesti; in
secondo luogo, il fatto che non esiste una gerarchia tra forme, essendo la bontà della forma riferibile
non ad un giudizio assoluto, ma al livello di adeguatezza rispetto ai contesti d’uso.
Quanto abbiamo detto non significa abdicare ad un relativismo totalizzante che disperda nella
varietà delle forme il senso dei saperi. Bensì che questo “senso”, riconducibile alla loro vocazione
epistemica e al fondamento logico del loro progetto conoscitivo, può trovare espressione in diverse
forme, pur non coincidendo identicamente con nessuna di esse. È vero, tuttavia, che queste forme,
definite pragmaticamente entro il sistema delle relazioni tra gruppi sociali, sono visibili solo
assumendo un punto di vista “esterno” al sistema, cioè guardando ai saperi come a fenomeni
estrinseci ai pensieri e alle azioni individuali e collettive che li determinano. In altre parole,
volgendo lo sguardo dai processi di significazione che hanno luogo all’interno dei gruppi sociali, ai
loro prodotti. Da questo punto di vista, i saperi si configurano, anziché come insiemi difformi (o in-
formali) di conoscenze, come sistemi organizzati (in modo più o meno formale)1 di queste. Non
solo. Questo spostamento di prospettiva, dall’interno all’esterno di tali processi, non è
semplicemente “un modo di vedere le cose”, ma un decentramento necessario ai fini della
trasmissione intenzionale dei saperi. Ciò è vero tanto per le comunità scientifiche, le quali per
produrre conoscenza devono scambiarsi informazioni, idee e teorie, quanto per le istituzioni
formative, le quali per assolvere al proprio compito di trasmissione culturale devono operare scelte,
elaborare giudizi e compiere valutazioni. Dunque, le forme dei saperi si costruiscono all’interno del
processo culturale e sono diverse a seconda degli scopi, delle modalità e dei destinatari della
trasmissione.

3.1.1. Forme scientifiche e forme didattiche dei saperi

In base a quanto abbiamo detto, potremmo distinguere tra forme scientifiche e forme didattiche
dei saperi. Le prime si danno all’interno delle comunità scientifiche e corrispondono a modalità di
strutturazione formale della disciplina. Le seconde, invece, si danno all’interno delle istituzioni
formative (nella scuola, da quella di base all’università in cui la forma didattica è quella più
prossima alla forma scientifica, ma anche, per esempio, nei musei) e corrispondono a modalità di
trasposizione didattica2 della disciplina. Più precisamente, dato che tali modalità non sono né

1
Sulla dialettica formale/informale riferita ai saperi scolastici si veda: Asor Rosa A. (1994), “Formale, informale”, in: Vertecchi B. (a
cura di), Formazione e curricolo, Firenze, La Nuova Italia, pp. 17-26.
2
Questo concetto, elaborato nell’àmbito delle Didattiche disciplinari e in particolare della Didattica della matematica da Yves
Chevallard, concerne la possibilità di stabilire relazioni opportune tra sapere esperto (savoir savant), sapere da insegnare (savoir à
univoche né definitive, la trasposizione didattica corrisponde alla formazione della forma didattica
dei saperi in rapporto alla loro forma scientifica.

Osserviamo che il termine “trasposizione”, caro ai modelli didattici disciplinari, a differenza di


altre espressioni semanticamente vicine, come “traduzione”, “traslocazione” o, anche, “traslazione”,
allude metaforicamente al “situare altrove”, cioè ad uno “spostamento non rettilineo” in
conseguenza del quale il sapere “cambia” alcune caratteristiche o, appunto, la sua “forma” (non a
caso lo stesso termine è usato per indicare lo spostamento di atomi in una molecola in conseguenza
del quale si ottiene una sostanza di caratteristiche differenti). Inoltre, in base a quello che abbiamo
detto fin qui, la trasposizione didattica si compie almeno a due livelli: nell’intreccio di relazioni
sociali e culturali che il sistema formativo intrattiene con i propri sottosistemi e con il mondo
esterno; e nelle situazioni concrete della pratica didattica. Le elaborazioni dei programmi scolastici,
il lavoro delle associazioni disciplinari, le sperimentazioni didattiche, per esempio, si situano al
primo livello, mentre la elaborazione di unità di apprendimento, la scelta delle strategie didattiche o
dei materiali si situano al secondo livello. Benché distinti, i due livelli sono assolutamente
interdipendenti e convergono verso un repertorio di scelte ampio e articolato su che cosa insegnare,
come e, non ultimo, a che scopo.
Si tratta, dunque, di un repertorio di scelte che in quanto inscritto nel quadro di una intenzionalità
trasmissiva e formativa è sospeso tra istanze epistemologiche e istanze pedagogiche (sia individuali,
sia sociali).3
Le prime vincolano la trasposizione didattica agli statuti disciplinari, ossia alle coordinate
teoriche e metodologiche che strutturano ciascuna disciplina come corpus organico e coerente di
conoscenze. In altri termini, esse riflettono l’esigenza di una sostanziale aderenza a quelle che
abbiamo definito le forme scientifiche dei saperi. Le seconde, invece, vincolano la trasposizione
didattica a criteri di accessibilità e di attualizzazione della disciplina. Ossia, esse riflettono
l’esigenza di aderenza alla realtà. Realtà individuale, attraverso l’adeguamento delle forme
didattiche alle caratteristiche dei destinatari della trasmissione e realtà sociale, attraverso la ricerca
di forme di mediazione tra cultura della scuola, cultura dell’extrascuola e cultura dell’allievo.
Complessivamente, dunque, l’istanza epistemologica e l’istanza pedagogica vincolano le forme
scientifiche e le forme didattiche a “distanze” reciproche opportune, pena il rischio di rendere il
sapere da insegnare difficilmente accessibile (se la distanza è troppo scarsa), o estraneo e obsoleto
(se la distanza è troppo ampia). Con il risultato, rispettivamente, di una tendenza verso forme di
astrattismo e di relativismo che rappresentano solo le derive di queste stesse istanze.
La questione non è del tutto oziosa se pensiamo, per esempio, che spesso uno dei criteri che
orienta la scelta sui saperi da insegnare è quello della loro presunta utilità sociale. È appena il caso
di accennare che questo criterio è contrario alla intenzione pedagogica di un progetto formativo che
pur accogliendo l’istanza di aderenza alla realtà, possa essere anche disinteressato e non
immediatamente utile, in quanto rintraccia la sua utilità nella formazione di un soggetto autonomo,
dotato di una mente plurale e flessibile, capace di trasferire le proprie abilità e le proprie
competenze in diversi àmbiti. In altre parole, se è vero che le forme didattiche dei saperi non
possono essere indipendenti dalla cultura e dalla società dei soggetti cui si rivolgono, esse non
possono tuttavia essergli subordinate, pena la mercificazione della formazione (e della cultura).
Dunque, le forme dei saperi scolastici sono (o dovrebbero essere) il risultato della dialettica tra le
istanze epistemologiche e pedagogiche che regolano in senso storico-raltivo la “distanza” tra forme
scientifiche e forme didattiche dei saperi.

Se è vero – come sostiene Maragliano4 – che la forma dei saperi si negozia dentro la didattica,
all’interno di questo quadro può essere discussa una classica obiezione che viene mossa alla scuola

enseigner) e sapere insegnato (savoir enseigné). Chevallard Y. (1991), La transposition didactique, La Pensée Sauvage, Grenoble; su
questo si può vedere anche: D’Amore B. (1998), Elementi di Didattica della Matematica, Pitagora, Bologna; Martini B. (2000),
Didattiche disciplinari, Pitagora, Bologna.
3
Sulla interazione fra dimensione epistemologica e dimensione pedagogica (o didattica) si veda Cambi F. (2004), Saperi e
competenze, Laterza, Roma-Bari; Cambi F. (2001), L’arcipelago dei saperi I. Alla ricerca dei paradigmi, Le Monnier, Firenze;
Maragliano R. (1990), I saperi della scuola, La Nuova Italia, Firenze; Maragliano R. (1998), Manuale di didattica multimediale,
Laterza, Roma-Bari.
e che riguarda anch’essa la forma didattica dei saperi. La questione concerne la linearizzazione dei
saperi scolastici, ritenuta responsabile di una certa frammentazione delle discipline e del carattere
nozionistico dei processi di trasmissione. Discuteremo questa tendenza come “forma”, in rapporto a
quella, alternativa, della “reticolarità”.5
La questione riguarda innanzitutto il tipo di relazione che intercorre tra linearità (o reticolarità) e
struttura epistemologica dei saperi, ma anche la relazione che sussiste tra forma didattica lineare (o
reticolare) e apprendimento. Il problema risiede nel fatto che i saperi non sono strettamente
riconducibili né all’una né all’altra forma. Al contrario, sono suscettibili di essere descritti, almeno
in parte, in forma sia lineare sia reticolare. Questo ci induce ad optare per una forma didattica
“mista”, come bilanciamento tra la natura reticolare e quella sequenziale dei saperi, ritenendo in
questo modo di bilanciare le due opzioni anche rispetto all’apprendimento.6 Tuttavia, per quanto
teoricamente corretta, questa opzione nasconde una difficoltà di ordine metodologico che vorremmo
mettere in evidenza.
Come si dà la struttura epistemologica di una disciplina? Paradossalmente, pur incorporando la
duplice natura lineare/reticolare, di per sé essa non è disponibile né come rete né come linea. Essa
esiste, tuttavia, come forma scientifica. Di più. Esistono tante forme scientifiche, tutte fra loro
omeomorfe, quante sono le modalità di organizzazione formale della disciplina. Tuttavia, possiamo
accedere solo alle loro versioni ostensive, cioè ad un a-posteriori linearizzato (o gerarchizzato)
determinato da un’esigenza comunicativa e trasmissiva sia intragenerazionale (tra comunità
scientifiche), sia intergenerazionale (tra maestri e allievi all’interno di istituzioni). Fatta eccezione
dei casi di trasmissione per esperienza (casi rari e comunque limitati alla trasmissione di porzioni
ristrette di sapere tra pochi individui), il passaggio di conoscenze e informazioni avviene, infatti, in
forma scritta e, dunque, linearizzata. Ciò accade per le pubblicazioni scientifiche, ma anche per le
traduzioni manualistiche universitarie che, in questo modo, tentano di riprodurre, proprio a scopo
trasmissivo, l’organicità e la sistematicità dei saperi scientifici. Tuttavia, poiché occorre
salvaguardare, oltre la finalità trasmissiva, anche quella formativa, ciò a cui dobbiamo accedere, per
trasporre didatticamente la forma scientifica di un sapere, non è la sua scrittura linearizzata (il che
significherebbe far coincidere la trasposizione didattica con una riscrittura manualistica della
disciplina), ma un sistema organico e unitario di elementi costitutivi (concetti, strutture, linguaggi,
metodi di ricerca, dispositivi ermeneutici) che ci consentano di de-costruire e ricostruire, come “in
prospettiva”, quel sapere.
Per fare un esempio, lo studio degli Elementi di Euclide può corrispondere ad una trasposizione
didattica che replica la forma scientifica linearizzata secondo la quale Euclide ha organizzato la sua
geometria o, invece, ad una trasposizione che permette di accedere, in modo non linearizzato, ad
una delle rappresentazioni più efficaci (perché riferibile a un modello concreto di spazio) del
metodo dimostrativo. Analogamente, si potrebbe lavorare sul famoso quinto postulato7 per capire la
differenza tra geometrie euclidee e non euclidee, oppure riflettere sulla struttura dell’intera opera
per comprendere che cosa sia una teoria assiomatica in matematica.
Beninteso, una certa linearizzazione delle forme didattiche dipende dalla necessità di introdurre
gli allievi ai fondamenti di una disciplina, di farli accedere a quegli elementi in seno ai quali
possono essere inscritti gli sviluppi ulteriori della disciplina e a partire dai quali è possibile pensare
un’acquisizione progressivamente più ampia di conoscenze e di abilità. Tuttavia, rintracciare nella
forma scientifica ciò che è costitutivo o fondante rappresenta, oltre che un presupposto cognitivo,
un modo per rendere più direttamente disponibile il significato e il senso della disciplina.

4
Maragliano R. (1998), Manuale di didattica multimediale, Laterza, Roma-Bari, pp. 82-84.
5
Per una discussione critica su questo rapporto si rimanda a Baldacci M. (2003), La didattica per moduli, Laterza, Roma-Bari, pp.
25-28.
6
Sulla possibilità di realizzare questo bilanciamento attraverso una organizzazione modulare delle discipline rimandiamo ancora a
Baldacci M. (2003), La didattica per moduli, Laterza, Roma-Bari.
7
Il postulato afferma che se due rette tagliate da una trasversale formano da una parte angoli coniugati la cui somma è minore di un
angolo retto, esse si incontrano da quella stessa parte. Si tratta del postulato che differenzia la geometria euclidea da quelle di
Lobačevskij e di Riemann. La prima, in cui esiste una sola parallela passante per un punto a una retta data, ammette il postulato; le
seconde, invece, non lo ammettono valido.
3.1.2. Dimensioni operative della trasposizione didattica

Per passare dalla forma scientifica alla forma didattica è utile procedere ad una “analisi
disciplinare”, ossia ad una riflessione sulla disciplina che attraverso operazioni di de-costruzione e
ri-costruzione, ne faccia emergere i punti nodali, le strutture concettuali e metodologiche, in modo
da far converge su queste il percorso formativo.8
Potremmo dire, semplificando un po’, che gli elementi costitutivi individuati a partire dalle
forme scientifiche della disciplina rappresentano il corpus teorico e metodologico che si ritiene
debba essere trasmesso in sede formativa. Questi elementi, tuttavia, devono essere collocati
all’interno di contesti che ne permettano la significazione. La forma scientifica dei saperi, infatti,
normalmente non rende disponibili tali elementi in forma esplicita. Essi devono dunque essere
pensati unitamente ai contesti semantici originali della loro produzione e applicazione. Da questo
punto di vista, se il processo di analisi disciplinare permette di soddisfare l’istanza epistemologica
(ricostruendo l’epistemologia della disciplina attraverso l’individuazione dei suoi elementi
costitutivi), il processo di contestualizzazione semantica (da non confondere con quello di
contestualizzazione didattica che, seppur legittimo, interviene ad un livello più basso della
trasposizione del sapere) permette di soddisfare quella pedagogica (presentando gli elementi
fondamentali della disciplina attraverso la mediazione dei campi semantici). In sintesi, la forma
didattica della disciplina prevede due livelli di costruzione: quello corrispondente alla
individuazione degli elementi costitutivi a partire dalle forme scientifiche della disciplina, e quello
corrispondente alla creazione dei contesti semantici, ossia delle aree tematiche assimilabili a campi
di attività e di esperienza, che rappresentano i contesti nei quali possono essere collocati i suoi
elementi fondanti. Tali aree, o tali contesti, dunque, non sono del tutto artificiali, ma corrispondono
ai campi di studio della disciplina, ossia ai domini nei quali essa indaga i propri oggetti, applica i
propri metodi, elabora i propri linguaggi. Facciamo due esempi, entrambi presi dalla matematica.
Il primo. Negli Elementi di Euclide (che assumiamo come forma scientifica della geometria
razionale e, dunque, come porzione della forma scientifica della matematica) il metodo dimostrativo
ne costituisce la struttura fondante. Ciò nonostante, esso non viene né enunciato né descritto in
termini procedurali, ma è definito attraverso le sue stesse applicazioni. Ora, se durante il
procedimento analitico di de-costru-zione disciplinare lo si seleziona come uno degli elementi
costitutivi della disciplina, si devono individuare anche uno o più contesti che possano fungere da
campi di esperienza per comprenderlo e imparare ad applicarlo. Il contesto più naturale,
coincidendo con quello di origine è, evidentemente, lo spazio geometrico.
Il secondo. Porre e risolvere problemi rappresenta in matematica un dispositivo inquisitivo ed
euristico fondamentale, tanto da rappresentare la sua attività più specifica. Dunque, esso può essere
opportunamente individuato come uno dei suoi elementi costitutivi. Anche per questo elemento,
come per il metodo dimostrativo, non si dà una descrizione formale, esso è implicito nello stesso
agire scientifico della disciplina. Il suo carattere di trasversalità renderà agevole individuare i
domini di applicazione, ossia le aree tematiche all’interno delle quali contestualizzarlo: lo spazio in
due e tre dimensioni, i numeri, la misura ecc.

Concepire la trasposizione didattica nel senso di una messa in forma didattica della forma
scientifica dei saperi può apparire una tendenza eccessivamente epistemologizzante, specialmente a
chi, invocando il cambiamento dei tempi, non vorrebbe vedere attribuito ai saperi disciplinari un
ruolo tanto rilevante.
In realtà, ci sembra che la scelta di caratterizzare in senso fortemente disciplinare i percorsi
formativi scolastici sia l’espressione più evidente dell’impegno pedagogico della formazione ai
saperi. Impegno affidato in primis alla scuola e che si traduce nella possibilità di assicurare a tutti e
a ciascuno quegli elementi culturali che determinate esigenze storico-sociali identificano come
rilevanti per la formazione dell’uomo. Ciò implica che essa deve articolare il suo intervento in

8
Sull’analisi dei saperi in direzione epistemologica si veda: Frabboni F. (1999), Didattica generale, Bruno Mondadori, Milano, pp.
90-93; Martini B. (2002), Elementi di pedagogia della conoscenza, Pitagora, Bologna, pp. 88-97.
determinati settori del sapere, cioè in precisi àmbiti disciplinari. Non solo. Per rendere disponibili
gli strumenti caratteristici dei diversi saperi nei quali si articola il suo modello culturale, la scuola
deve affidarsi ad un’azione strategica e sistematica, cioè al curricolo. Un curricolo culturalmente
segnato, espressione di una riflessività costante esercitata in senso sia disciplinare sia pedagogico.
La messa a punto del curricolo postula l’individuazione dei saperi come sistemi organizzati di
conoscenze, portatori di una specifica intenzionalità formativa. Ciò significa, in particolare, che
l’apprendimento degli elementi di sapere di un certo àmbito disciplinare porta con sé anche
l’acquisizione di quelle modalità di pensiero che hanno inglobato quegli elementi in quel sapere. In
altri termini, le strategie di pensiero tipiche di una disciplina sono “solidali” con i suoi contenuti.
Organizzando il curricolo intorno alle discipline, dunque, la scuola apre la via alla formazione del
pensiero secondo le dominanze e le specificità delle diverse discipline.
In sintesi, la pedagogia affida alla scuola il compito della formazione culturale dei soggetti, cioè
chiede alla scuola di essere scuola di cultura, e questa, per raggiungere il suo obiettivo, articola la
sua attività in base a precise scansioni disciplinari organizzate sistematicamente nel curricolo. A
questo punto risulta evidente che il ricorso all’analisi disciplinare e la preoccupazione in essa
implicita di aderenza epistemologica ai saperi è in ordine al tentativo, giustificato in base al
ragionamento precedente, di rendere più immediatamente accessibili quelle dominanze e quelle
intenzionalità formative che fanno da tramite, all’interno di un progetto culturale, alla formazione
dell’uomo.

Potrebbero piacerti anche