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Teorie e metodologie

della didattica
Capitolo 1
Gli ambienti di apprendimento
e le metodologie didattiche

1.1 Caratteristiche della didattica moderna


I processi di apprendimento e la didattica generale sono influenzati da una serie di con-
tributi scientifici sviluppati nell’ambito delle teorie psicologiche, pedagogiche e sociologi-
che, nonché dagli studi promossi dalle scienze dell’educazione e dai rapporti di monitorag-
gio condotti dalle istituzioni europee.
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento la pedagogia e le scienze dell’educa-
zione si sono progressivamente affermate come ambiti disciplinari autonomi. In termini ge-
nerali le principali teorie pedagogiche (cognitivismo, comportamentismo, costruttivismo)
pur con sostanziali differenze hanno messo in discussione la validità del processo di inse-
gnamento di tipo verticale docente-discente inteso come processo di trasmissione dei con-
tenuti disciplinari. Le teorie pedagogiche hanno posto progressivamente l’attenzione sulla
centralità della persona e sulle strategie didattiche che valorizzano le abilità e le competen-
ze individuali.
Un ulteriore nuovo impulso al rinnovamento della didattica è stato dato dallo sviluppo e
dalla valenza scientifica delle ricerche empiriche sull’educazione. La ricerca nel campo del-
la didattica ha acquisito infatti uno statuto epistemologico distinto dalla psicologia e dalla
sociologia applicata e ha consentito risultati molto significativi sulla metodologia didattica.
Le moderne teorie sull’apprendimento hanno avuto il merito di dimostrare scientifica-
mente la diversità dei soggetti nelle modalità di apprendimento favorendo la nascita di stru-
menti, tecniche e metodologie in grado di valorizzare le capacità individuali durante il pro-
cesso educativo.
Una delle caratteristiche della didattica contemporanea è quella di considerare nel pro-
cesso di apprendimento molti fattori relativi al discente: la personalità (costituita dal suo re-
troterra sociale e culturale), le abilità psico-fisiche, le attitudini, le fragilità, le aspirazioni e le
capacità. Per tenere in debito conto questi fattori il ruolo del docente viene rafforzato nella
sua capacità di riconoscere le potenzialità di ogni alunno al fine di sostenerlo dal punto di vi-
sta educativo in un “progetto di vita”.
Allo stesso tempo l’attuale approccio pedagogico, superando il modello verticale nella
relazione docente-discente, ha favorito l’idea che elevati livelli di partecipazione e coinvol-
gimento degli studenti nella fase di insegnamento contribuisse allo sviluppo della cultura e
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del sapere. La conseguenza di questa idea è stata la diffusione delle cosiddette tecniche atti-
ve ovvero quelle metodologie didattiche atte a favorire il coinvolgimento degli studenti du-
rante le lezioni.
Le moderne teorie pedagogiche e le ricerche in campo educativo costituiscono le basi
delle attuali metodologie d’insegnamento, sui ci soffermeremo nei prossimi paragrafi.
Un ulteriore elemento caratterizzante la didattica in anni più recenti è dato del confron-
to della scuola con le politiche dell’istruzione a livello comunitario. Questo confronto che ha
operato sia a livello di dibattito che attraverso la normativa comunitaria viene comunemen-
te indicato come la dimensione europea dell’insegnamento. Ed è questo un dato caratteriz-
zante la didattica moderna.
Attraverso le politiche comunitarie è emerso che il ruolo dell’istruzione non deve esse-
re esclusivamente indirizzato verso una conoscenza dei saperi ovvero disciplinare in senso
stretto ma verso lo sviluppo di competenze specifiche e trasversali. Concetti come il lifelong
learning (insegnamento per tutto l’arco della vita) e didattica orientativa, che hanno spesso
caratterizzato le discussioni sul ruolo della didattica in ambito europeo, richiamano quindi la
scuola a sviluppare competenze incentrate sulle abilità e capacità delle persone.
Le discipline assumono quindi un valore strumentale, perdendo in un certo senso il fine
ultimo dell’istruzione o della trasmissione di conoscenze, e pongono anche l’attenzione su
un sapere fortemente integrato e multidisciplinare.
Una serie di direttive e di normative, dal 1979, si sono susseguite per mettere l’accen-
to sulle finalità orientative e di crescita che la scuola assume nei confronti degli alunni. Ri-
cordiamo la direttiva n. 487/1997 sull’orientamento delle studentesse e degli studenti che
pone l’attenzione sulla potenzialità di conoscere se stessi, l’ambiente quotidiano, i muta-
menti culturali e socio-economici, le offerte formative, affinché essi possano essere prota-
gonisti di un personale progetto di vita, e partecipare allo studio e alla vita familiare e socia-
le in modo attivo, paritario e responsabile. A partire dalla direttiva, l’orientamento diviene
uno dei pilastri nella lotta all’insuccesso e all’abbandono scolastico.
Dopo il 2000 una serie di atti dell’Unione europea ribadisce il concetto relativo alla ne-
cessità di rivolgere l’attenzione allo sviluppo della persona, ricordiamo:
– risoluzione dell’Unione europea “Orientamento lungo tutto l’arco della vita”;
– raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alle competenze
chiave;
– raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione europea sulla co-
stituzione del Quadro europeo delle qualifiche per l’apprendimento permanente (EQF);
– risoluzione “Integrare maggiormente l’orientamento nelle strategie di apprendimento
permanente”;
– relazione della Commissione europea su “Istruzione e formazione 2010”.
Questi atti europei mirano a rendere l’orientamento una capacità dei cittadini di ogni età
di identificare le proprie capacità, le proprie competenze e i propri interessi, di prendere de-
cisioni in materia di istruzione, formazione e occupazione, nonché di gestire i propri percor-
si personali di vita nelle attività di formazione, nel mondo professionale e in qualsiasi altro
ambiente in cui si acquisiscono e/o si sfruttano tali capacità e competenze.
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Nello specifico italiano la didattica è stata influenzata dal modello di scuola orientativa
in quanto anche dal quadro normativo emerge la volontà di utilizzare metodi per favorire
l’iniziativa del soggetto verso il proprio sviluppo e porlo in condizione di conquistare la pro-
pria identità di fronte al contesto sociale, tramite un processo formativo continuo cui deb-
bono concorrere unitariamente le varie strutture scolastiche e i vari aspetti dell’educazio-
ne. Le linee guida nazionali per l’orientamento permanente (nota MIUR prot. n. 4232 del 19
febbraio 2014) hanno previsto un rafforzamento delle attività di orientamento nelle scuole
per sostenere gli studenti nell’elaborazione di progetti formativi e sviluppare le proprie ca-
pacità. Le linee guida per l’orientamento permanente hanno rilanciato il ruolo della didatti-
ca orientativa.

1.1.1 Le linee guida nazionali per l’orientamento permanente e la didattica


orientativa
Le linee guida nazionali per l’orientamento permanente (nota MIUR prot. n. 4232 del 19
febbraio 2014) hanno previsto un rafforzamento delle attività di orientamento nelle scuole
per sostenere gli studenti nell’elaborazione di progetti formativi e sviluppare le proprie ca-
pacità. Le linee guida per l’orientamento permanente hanno rilanciato il ruolo della didatti-
ca orientativa.
La didattica orientativa è uno stile di insegnamento per raggiungere obiettivi formativi
personalizzati e concentrati sullo sviluppo di abilità e capacità degli studenti. Più che diriger-
si verso l’apprendimento tradizionale declinato in saperi e conoscenze, la didattica orienta-
tiva mira al conseguimento negli studenti di competenze di più ampio respiro: dal promuo-
vere le capacità di “imparare ad imparare” alle competenze relazionali.
La didattica orientativa, oltre a beneficiare dei risultati delle teorie pedagogiche moder-
ne che centralizzano e soggettivizzano l’apprendimento, si avvale anche di una nuova con-
cezione dell’apprendimento.
L’apprendimento è considerato infatti come risultato della interazione del soggetto con
più ambiti:
– formale (scuola e altri centri di formazione);
– informale (luogo di lavoro);
– non formale (vita quotidiana e mezzi non intenzionali e non riconosciuti).
Le politiche dell’istruzione europea offrono suggerimenti su come favorire questi ap-
prendimenti e si rivolgono ad un tipo di formazione di base spendibile in tutto l’arco della
vita (lifelong learning). La didattica orientativa ha come scopo lo sviluppo di quelle compe-
tenze chiave utili al soggetto per auto-orientarsi e riconoscere e valorizzare le proprie risor-
se personali. Le competenze in questione possono essere riassunte in:
– flessibilità;
– adattabilità;
– capacità di affrontare i cambiamenti e fronteggiare le situazioni;
– capacità di comunicazione;
– capacità di apprendimento e di elaborazione di strategie logiche e metodologiche;
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– capacità di progettazione;
– capacità di autovalutazione;
– capacità di collaborazione con gli altri.
Per quanto riguarda più strettamente l’insegnamento disciplinare la didattica orientati-
va spinge ad una metodologia particolarmente incentrata su:
– conoscenze, dati, informazioni, concetti fondamentali riferiti alla realtà sociale;
– abilità di ricerca, sviluppo di ragionamento, di comprensione, sviluppo della creatività e
del problem solving.
L’insegnamento attraverso questo approccio sollecita l’uso di tecniche per conoscere i
propri studenti e le loro aspettative e i bisogni formativi attraverso:
– un’autopresentazione scritta, oppure, con la narrazione dei successi/insuccessi scolasti-
ci nelle diverse discipline;
– un’intervista per approfondire eventuali aspetti problematici;
– la somministrazione di questionari per approfondire le modalità di apprendimento, co-
noscenze, preferenze, ecc. che possono a loro volta stimolare l’allievo a scoprire aspetti
prima d’ora non considerati.
Altri sistemi che possono essere utilizzati per acquisire una maggiore conoscenza dei bi-
sogni formativi e raccogliere elementi utili sullo studente sono delle esercitazioni molto dif-
fuse quali:
– uso di post-it per scrivere il feed-back da raccogliere o da “spedire” in una scatola predi-
sposta;
– schede di osservazione dell’insegnante (durante le attività di gruppo o l’esecuzione di
vari compiti);
– schede di autovalutazione (per esempio alla fine di un’attività);
– questionari su aspetti vari dell’attività scolastica (per avere informazioni su preferenze,
stili cognitivi o altro).
Esiste, inoltre, una consolidata metodologia didattica frequentemente usata allo scopo
di accrescere il livello di consapevolezza del soggetto da parte del docente. Questa metodo-
logia si chiama narrazione autobiografica e ne parleremo successivamente.
La didattica orientativa è caratterizzata da specifiche strategie:
– lavorare sulle aspettative degli studenti;
– offrire occasioni e strumenti per individuare le difficoltà che lo studente incontra ed aiu-
tarlo a superarle;
– coinvolgere lo studente nella valutazione in quanto ciò rappresenta la condizione di base
per coinvolgerlo ed impegnarlo in prima persona nelle attività future;
– non dimenticare che ogni studente dispone di un notevole bagaglio di esperienze e co-
noscenze;
– considerare che lo studente impara meglio se parte da quanto sa già;
– tenere conto che lo studente ha ritmi e stili di apprendimento propri;
– informare lo studente in maniera chiara sugli obiettivi e sul modo di valutare;
– incoraggiare la curiosità;
– conoscere la situazione di partenza, le preferenze, lo stile di apprendimento e i punti di
forza e di debolezza di ogni studente per intervenire in maniera mirata;
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– far leva e valorizzare i punti di forza di ognuno per diventare “facilitatore” nei processi di
apprendimento;
– praticare l’arte dell’incoraggiamento.
In conclusione possiamo affermare che la didattica deve essere progettata in modo da
poter realizzare un percorso educativo e non solo scolastico in senso stretto. Le strategie di-
dattiche debbono, anche in base alle sollecitazioni di carattere europeo, essere organizzate
in relazione ai bisogni formativi degli allievi e devono mirare principalmente allo sviluppo di
competenze trasversali.

1.1.2 La narrazione autobiografica


In merito all’orientamento scolastico-professionale si registra nell’ultimo decennio il ri-
corso nella didattica a strumenti narrativi ed autobiografici. La didattica orientativa accoglie,
abbiamo visto, l’uso di pratiche che consentono una maggiore conoscenza dei fabbisogni
formativi e delle caratteristiche dell’apprendimento individuale. Tra le varie tecniche la nar-
razione è uno degli strumenti più diffusi.
Molte simmetrie si riscontrano tra l’autobiografia e l’orientamento; innanzitutto en-
trambi hanno in comune la metafora del viaggio: ma mentre l’autobiografia descrive i “viag-
gi interiori” e le storie di incontri reali, i momenti di orientamento offrono la possibilità di
riflessione al fine di proseguire, nel migliore dei modi, i percorsi di vita. Le narrazioni di sé,
come i viaggi, racchiudono un confronto con l’altro da sé, pertanto gli schemi narrativi pos-
sono contribuire a dare logicità agli eventi e alle diverse immagini che provengono dai “con-
fronti sociali”.
Un’ulteriore connessione tra autobiografia ed orientamento è data dal fatto che nel de-
scrivere narrativamente gli eventi di vita il soggetto orienta gli episodi, dando senso alle
esperienze stesse. In ultimo l’autobiografia e l’orientamento sono entrambi sollecitati dalla
presenza di eventi critici; se è vero, infatti, che gli eventi critici ed i momenti decisionali rap-
presentano i punti nodali di ogni schema narrativo, allo stesso modo la “presa di decisione”
rappresenta una parte consistente dell’orientamento che si rafforza quando la domanda di
orientamento si ingrandisce intorno ad eventi critici che interrogano e sollecitano gli sche-
mi narrativi di Sé (per esempio l’esame di Stato, ossia un evento cruciale interno al percor-
so scolastico).
Allo stesso modo si adottano pratiche narrative come tecniche di problem solving. In-
fatti se i procedimenti narrati vanno intesi come attribuzione di significato a singole varia-
bili a partire da un problema risulta chiaro il voler considerare la narrazione come una tec-
nica di problem solving. La riflessione autobiografica può essere attivata dal docente pro-
ponendo all’interlocutore di redigere una propria autobiografia scritta, ma anche invitan-
do l’interlocutore, durante un incontro, a condividere con l’aula il racconto autobiografi-
co, in una forma orale. Questa condivisione è indicata dagli studiosi di psicologia e del-
le scienze sociali come “conversazione autobiografica”. La conversazione autobiografica
tra i banchi di scuola si differenzia dalla saltuaria citazione di aneddoti, in quanto realiz-
za l’obiettivo di ripercorrere, in modo approfondito, tutta o parte della vita dello studen-
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te. Pertanto la conversazione autobiografica non solo si pone degli obiettivi ma ha un set-
ting ed una metodologia.
È bene che l’insegnante dedichi uno o più incontri specificatamente alla conversazione
autobiografica, così come è opportuno predisporre adeguatamente il luogo dove si svol-
gerà la conversazione. Una ulteriore metodologia è insita nella costruzione dell’ambien-
te. Per esempio nella didattica del circle time si suggerisce di sistemare le sedie secondo
una forma circolare per consentire una maggiore fluidità nel racconto. Il cerchio narrati-
vo è la forma geometrica capace di custodire lo spirito della narrazione orale; esso si op-
pone nettamente allo spazio-classe, rigido e con barriere che favoriscono l’esclusione. La
narrazione orale, nella forma del cerchio, offre all’insegnante la possibilità di instaurare
una relazione educativa basata sull’ascolto dell’educando. Il cerchio abbatte qualsiasi for-
ma geometrica che impone una gerarchia: all’interno del cerchio, seduto accanto agli stu-
denti, c’è l’insegnante.
Fare conversazione autobiografica a scuola non significa che l’insegnante debba di-
sporsi come la guida esterna del percorso, ma invece comporta un coinvolgimento dell’in-
segnante nelle varie storie di vita. L’insegnante ha la possibilità, all’interno del cerchio
narrativo, di comprendere e di accettare il suo studente, senza la pretesa di valutarlo o di
giudicarlo.
Operativamente la prima fase dell’incontro è dedicata a spiegare le “regole del gioco”,
poi si potrebbero adottare le domande proposte da Dan P. McAdams, che è il più accredita-
to tra gli autori che si sono occupati di conversazione autobiografica. Egli stesso ha afferma-
to, comunque, che il protocollo da lui indicato non deve essere considerato come uno sche-
ma da riempire, né come una check-list di argomenti che devono essere tutti affrontati nel-
la conversazione. Generalmente non è bene interrompere la narrazione con delle domande,
a meno che non siano sollecitate dalla stessa narrazione. In genere la narrazione della sto-
ria di vita, una volta iniziata, non ha bisogno di domande dirette; forse l’insegnante potreb-
be semplicemente incoraggiare lo studente.
McAdams propone il seguente protocollo di “spunti di riflessione” che potrebbero esse-
re usati, anche a scuola, all’interno del cerchio narrativo. Il gruppo classe è invitato dall’inse-
gnante a fare un resoconto “orale” della propria vita, un’autobiografia; pertanto a ciascuno
viene consegnato lo schema seguente come aiuto per osservare la propria vita da una nuo-
va prospettiva, per meglio comprendere alcuni eventi importanti, le figure decisive nella sua
vita e naturalmente se stessi.
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SCHEMA DI CONVERSAZIONE AUTOBIOGRAFICA

1. Pensa alla tua vita come a un libro e associa ogni parte della vita a un capitolo: dai un titolo a
ogni capitolo e descrivi a grandi linee quali saranno i contenuti.
2. Eventi chiave momenti particolari che sono accaduti in particolari tempi e luoghi:
– il momento più bello della tua vita;
– il momento più brutto della tua vita;
– episodi nei quali è avvenuto un profondo cambiamento nella tua comprensione di te stesso;
– primi ricordi anche se non particolarmente importanti;
– un importante ricordo dell’infanzia;
– un importante ricordo dell’adolescenza;
– un importante ricordo dell’età adulta.
3. Descrivi quattro delle persone più importanti della tua vita spiegando la relazione che hai avuto
con ciascuna di queste e il modo con il quale queste hanno avuto un impatto sulla tua vita.
4. Progetti, previsioni o sogni per il futuro.
5. Ansie e problemi.

Guardando alla tua vita come un libro, puoi identificare un tema centrale, un messaggio o una idea
che attraversa il testo?

Dopo che gli alunni hanno scritto il testo si può iniziare l’analisi del contenuto, ossia si
parte con la ricerca delle parole chiave e dei temi più significativi.
Una seconda fase prevede l’associazione di commenti a questi punti. Attraverso la con-
versazione autobiografica il soggetto:
– rievoca episodi che sembravano dimenticati;
– sperimenta una libera associazione di idee;
– può fruire della presenza di uno sconosciuto che, probabilmente, collega episodi e sco-
pre nessi;
– reagisce a stimoli inusuali in rapporto alle poche domande chiave che gli sono state rivolte.
Scrivere la propria autobiografia è cosa diversa dal raccontare oralmente. Infatti se nella
conversazione autobiografica è la dimensione orale ad essere in primo piano, nella scrittura
autobiografica il soggetto sollecita e stimola le proprie capacità cognitive ed emotive in una
maniera superiore rispetto all’oralità. Ciascuno cerca di offrire il meglio di se stesso attraver-
so la scrittura autobiografica, ecco perché è bene che lo studente venga guidato dall’inse-
gnante in questa attività attraverso una metodologia molto strutturata.

1.1.3 Le teorie psicologiche


La teoria psicoanalitica di Freud ha posto l’attenzione sugli istinti, il super-io (inteso come
coscienza vigilatrice sugli istinti) e l’io che mette in equilibrio i primi due elementi. Secon-
do questa nota teoria i comportamenti e lo sviluppo degli individui sono da ricondurre alle
pulsioni istintuali. La teoria dello sviluppo freudiana sostiene l’esistenza di una interazione
tra le caratteristiche personali di un soggetto e l’esperienza. Lo studio dello sviluppo infan-
tile viene quindi approfondito dall’osservazione diretta dei comportamenti. In particola-
re i neofreudiani intrapresero numerose analisi sulle relazioni madre-bambino mettendo
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in evidenza le dinamiche psichiche interiori che presiedono a tutti i comportamenti anche


evoluti dei soggetti.
Il famoso psicologo Carl Rogers (1902-1987) mise in evidenza che chiunque agisse sullo
sviluppo di un individuo, come per esempio un insegnante nella sua funzione educativa, può
causarne una perdita di fiducia nella propria esistenza elaborando il principio di non direttivi-
tà. Bruno Bettelheim (1903-1990) in linea con il pensiero neofreudiano chiarisce che l’educa-
zione tende a perpetuare l’ordine presente nella società mentre la psicoanalisi tenta di trasfor-
mare l’ordine esistente nel mondo interiore. Interessante è il contributo di Erik Erikson (1902-
1994). La sua figura ha assunto particolare rilievo per aver inserito i problemi della psicoana-
lisi infantile in un contesto di ricerche antropologiche e sociologiche sugli stadi dello sviluppo
psicosociale. Egli critica Freud per non aver approfondito l’influenza sociale sullo sviluppo del-
la personalità. I suoi studi mettono in evidenza che lo sviluppo di una personalità equilibrata è
dato da un alto grado di coerenza delle sue azioni e dal percepire correttamente se stessi e l’e-
sterno. Uno sviluppo equilibrato presuppone quindi che un soggetto unisca una percezione e
un’accettazione chiara del suo io interiore e del suo gruppo culturale.
Molto nota è la sua rielaborazione dei processi di sviluppo individuale che, partendo da
una matrice psicoanalitica classica, evolvono in direzione dell’analisi delle 8 fasi (ciascuna le-
gata ad un tipo di conflitto) che caratterizzano l’intero ciclo di vita. Il passaggio allo stadio
successivo avviene ogni volta che l’individuo, nell’interazione con la realtà esterna, riesce a
superare una “crisi evolutiva” e attraverso questi stadi di sviluppo realizza l’integrità dell’Io.
Le sue teorie hanno rappresentato un’importante tappa nell’espansione della teorizza-
zione psicoanalitica, nell’ottica del riconoscimento del dinamismo intrinseco anche ai perio-
di di vita adulta e senile e che quindi non si ferma – come processualità dinamica – al rag-
giungimento dell’età adulta, come invece era teorizzato nei primi contributi psicoanalitici. Il
modello di Erikson ebbe molta fortuna sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo.
Rifacendosi al linguaggio dell’embriologia, Erikson considera che ogni elemento della
persona sia già presente prima che compaia il suo critico e decisivo tempo di emersione.
A partire dalle fasi di sviluppo psico-sessuale di Sigmund Freud, Erikson individua otto
stadi di sviluppo psicosociale, ciascuno caratterizzato da una precisa crisi psicosociale:
• Infanzia 0-1 anno (fase orale-respiratoria), fiducia/sfiducia;
• Prima infanzia 1-3 anni (fase anale-uretrale), autonomia/vergogna e dubbio;
• Età genitale 3-6 anni (fase infantile-genitale), iniziativa/senso di colpa;
• Età scolare 6-12 anni (fase di “latenza”), industriosità/inferiorità;
• Adolescenza 12-20 anni (pubertà), identità e contestazione/diffusione di identità;
• Prima età adulta 20-40 anni (genitalità), intimità e solidarietà/isolamento;
• Seconda età adulta 40-65 anni, generatività/stagnazione e auto-assorbimento;
• Vecchiaia 65 anni in poi, integrità dell’Io/disperazione.
Pur essendo un cammino “a tappe”, il ciclo di vita viene inteso da Erikson come un con-
tinuum. Nello sviluppo, infatti, è importante il concetto di crisi intesa in maniera positiva; è
questa, infatti, la scelta effettuata per risolvere la problematica evolutiva. La persona quindi
riemerge con un accresciuto senso di unità interiore: gli elementi negativi non vengono can-
cellati ma vengono ampiamente superati.
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Interessanti implicazioni delle teorie esaminate riconducono la responsabilità dei fatto-


ri soggettivi nello sviluppo e hanno influenzato gli approcci e le scelte della “reazione edu-
cativa”. Marcel Postic, muovendosi nell’ambito delle teorie freudiane, sottolinea come nel-
la relazione educativa la motivazione dell’allievo per il lavoro scolastico sia legata al rappor-
to con uno o più insegnanti.

1.2 Principali teorie pedagogiche


Per comprendere strumenti, tecniche e metodologie della didattica è opportuno soffer-
marsi sulle teorie pedagogiche che stanno alla base della didattica moderna. Lo scopo del
presente paragrafo è di offrire una panoramica sulle principali teorie pedagogiche e ricer-
che in campo educativo.

1.2.1 H. Gardner: la teoria delle intelligenze multiple


A partire dalla metà del Novecento la nozione di intelligenza come facoltà unitaria viene
messa in discussione. Noam Chomsky (1928) docente del Massachusetts Institute of Techno-
logy (MIT) elabora la teoria della grammatica generativa, in cui viene affermata l’esistenza di
strutture innate del linguaggio naturale, elemento distintivo dell’uomo superando la conce-
zione della linguistica tradizionale incentrata sullo studio delle peculiarità dei linguaggi parla-
ti. L’influenza del pensiero di Chomsky va ben al di là della stessa linguistica, fornendo interes-
santi e fecondi spunti di riflessione anche nell’ambito della filosofia, della psicologia, delle te-
orie evoluzionistiche, della neurologia e della pedagogia. La grammatica generativa mette per
la prima volta in evidenza le peculiarità e le caratteristiche della mente umana.
Negli anni Ottanta lo psicologo cognitivista Howard Gardner (1943) contesta la concezione
tradizionale dell’intelligenza e afferma che nelle persone è possibile distinguere molti tipi fon-
damentali di intelligenza. La teoria postula che ogni persona possiede e può utilizzare se sol-
lecitata e incoraggiata molte forme di intelligenza localizzate in parti specifiche del cervello.
La sua teoria sulle intelligenze multiple individua nelle persone capacità mentali distinte
che danno luogo a differenti modalità di apprendimento e spingono dunque ad una intensa
ricerca sul potenziamento degli stili di insegnamento e apprendimento.
I macro-gruppi intellettivi sono:
1. intelligenza linguistica: è l’intelligenza legata alla capacità di utilizzare un vocabolario chia-
ro ed efficace. Chi la possiede solitamente sa variare il suo registro linguistico in base alle
necessità ed ha la tendenza a riflettere sul linguaggio: propria dei linguisti e degli scrittori;
2. intelligenza logico-matematica: coinvolge sia l’emisfero cerebrale sinistro, che ricorda i
simboli matematici, che quello di destra, nel quale vengono elaborati i concetti. È l’intel-
ligenza che riguarda il ragionamento deduttivo, la schematizzazione e le catene logiche.
Comune nei matematici e in chi si occupa della scienza o delle sue modalità applicative;
3. intelligenza spaziale: concerne la capacità di percepire forme ed oggetti nello spazio.
Chi la possiede, normalmente, ha una sviluppata memoria per i dettagli ambientali e le
caratteristiche esteriori delle figure, sa orientarsi in luoghi intricati e riconosce oggetti
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tridimensionali in base a schemi mentali piuttosto complessi. Questa forma dell’intelli-


genza si manifesta essenzialmente nella creazione di arti figurative;
4. intelligenza corporeo-cinestesica: coinvolge il cervelletto, i gangli fondamentali, il tala-
mo e vari altri punti del nostro cervello. Chi la possiede ha una padronanza del corpo che
gli permette di coordinare bene i movimenti. In generale si può riferire a chi fa un uso
creativo del corpo, come i ginnasti e i ballerini;
5. intelligenza musicale: normalmente è localizzata nell’emisfero destro del cervello, ma le
persone con cultura musicale elaborano la melodia in quello sinistro. È la capacità di ri-
conoscere l’altezza dei suoni, le costruzioni armoniche e contrappuntistiche. Chi ne è do-
tato solitamente ha uno spiccato talento per l’uso di uno o più strumenti musicali, o per
la modulazione canora della propria voce;
6. intelligenza interpersonale: coinvolge tutto il cervello, ma principalmente i lobi pre-
frontali. Riguarda la capacità di comprendere gli altri, le loro esigenze, le paure, i deside-
ri nascosti, di creare situazioni sociali favorevoli e di promuovere modelli sociali e perso-
nali vantaggiosi. Si può riscontrare specificamente nei politici e negli psicologi, più gene-
ricamente in quanti possiedono spiccata empatia e abilità di interazione sociale;
7. intelligenza intrapersonale: riguarda la capacità di comprendere la propria indivi- duali-
tà, di saperla inserire nel contesto sociale per ottenere risultati migliori nella vita perso-
nale, e anche di sapersi immedesimare in personalità diverse dalla propria. È considera-
ta da Gardner una “fase” speculare dell’intelligenza interpersonale;
8. intelligenza naturalistica: consiste nel saper individuare determinati oggetti naturali,
classificarli in un ordine preciso e cogliere le relazioni tra di essi. Alcuni gruppi umani che
vivono in uno stadio ancora “primitivo”, come le tribù aborigene di raccoglitori-caccia-
tori, mostrano una grande capacità nel sapersi orientare nell’ambiente naturale ricono-
scendone anche i minimi dettagli.
La teoria delle intelligenze multiple rivela che, sebbene le capacità di apprendimento sia-
no più o meno innate negli individui, non sono statiche e possono essere sviluppate median-
te l’esercizio. Un individuo può sviluppare tutte le diverse forme di intelligenza fino a rag-
giungere livelli soddisfacenti di competenza se è messo in condizioni di incoraggiamento e
sollecitazione nei processi di apprendimento.
La teoria delle intelligenze multiple ha influenzato sensibilmente la pedagogia e le forme
di didattica contemporanea. L’insegnamento prima di questa teoria si era esclusivamente
concentrato infatti sull’intelligenza linguistica e logico-matematica trascurando le altre for-
me di intelligenza cognitiva.
La teoria delle intelligenze multiple rivela che sebbene le capacità di apprendimento siano
più o meno innate negli individui, non sono statiche e possono essere sviluppate mediante l’e-
sercizio. Un individuo può sviluppare tutte le diverse forme di intelligenza fino a raggiungere livel-
li soddisfacenti di competenza se è messo in condizioni di incoraggiamento e sollecitazione nei
processi di apprendimento. La teoria delle intelligenze multiple ha influenzato sensibilmente la
pedagogia e le forme di didattica contemporanea. L’insegnamento prima di questa teoria si era
esclusivamente concentrato, infatti, sull’intelligenza linguistica e logico-matematica trascuran-
do le altre forme di intelligenza cognitiva. Ulteriori spunti tratti da questa teoria riguardano l’a-
dozione di tecniche d’insegnamento che si basano sulla stimolazione delle intelligenze peculiari.
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1.2.2 Il comportamentismo o behaviorismo


Nato quasi contemporaneamente alla scuola della Gestalt (la nascita del comporta- men-
tismo fu annunciata nel 1913 da J.B. Watson che espose il “manifesto” della scuola nell’arti-
colo “La psicologia come la vede il comportamentista”), questo movimento è fondato sullo
studio scientifico del comportamento, cioè degli aspetti esteriori, praticamente osservabili,
dell’attività mentale. Riprendendo il termine inglese behavior (comportamento) è conosciu-
to anche come behaviorismo.
Si può dire che con la nascita del movimento comportamentista il concetto stesso di psi-
cologia che si era diffuso negli ultimi anni subì un radicale mutamento. Watson, infatti, rite-
neva che l’oggetto di studio privilegiato dei primi psicologi – la “mente” – fosse in realtà un
qualcosa di troppo vago, mal definito e soprattutto estremamente soggettivo, al punto da
non poter essere assunto in alcun modo come oggetto di studio di una disciplina che vole-
va proporsi come sperimentale e scientifica. Proponendosi di far diventare la psicologia una
disciplina con uno statuto analogo a quello delle scienze naturali tradizionali, così da poter
pervenire a conoscenze oggettive che permettessero di prevedere e controllare il compor-
tamento e di dar luogo ad applicazioni pratiche, i comportamentismi ridisegnarono la psico-
logia e i suoi campi di studio, focalizzandosi sullo studio del comportamento manifesto (in-
teso come insieme di risposte puramente fisiologiche degli individui) e dell’apprendimen-
to. Proposero quindi di escludere dal campo della psicologia la coscienza e i processi menta-
li, fenomeni su cui, secondo i comportamentisti, non è possibile stabilire un accordo tra gli
studiosi e non è possibile indagare applicando procedure di indagine rigorose. L’oggetto del-
la psicologia deve invece essere il complesso delle manifestazioni esteriori, direttamente os-
servabili, di un individuo, di cui la psicologia dovrebbe anche scoprire le leggi che ne stanno
alla base ovvero lo studio degli stimoli che producono le risposte.
Più precisamente il comportamentismo è interessato a stabilire rapporti tra gli stimoli re-
cepiti dal soggetto e le sue risposte (il comportamentismo è anche denominato, da alcuni degli
studiosi che si riconoscono in questa scuola, psicologia S-R, cioè stimolo-risposta), senza pren-
dere in considerazione ciò che intercorre tra questi due elementi, sia che si tratti di processi
mentali, sia che si tratti di processi fisiologici. La mente e il cervello vengono pertanto definiti
come una “scatola nera”, ossia un dispositivo le cui operazioni interne non possono essere in-
dagate e di cui sono rilevabili solo gli stimoli in entrata le risposte in uscita. Il ritenere irrilevanti
i processi biologici per spiegare il comportamento e l’insistere sull’azione degli stimoli nel mo-
dulare le risposte hanno indotto i comportamentisti a misconoscere il ruolo dei fattori innati
e a considerare le caratteristiche dell’individuo determinate prevalentemente dall’ambiente,
che modificherebbe i comportamenti attraverso processi di condizionamento.
Il comportamentismo ebbe un rapido successo negli Stati Uniti e sino agli anni Cinquanta
fu la scuola egemone nella psicologia anglosassone. Le ricerche di Watson (1878-1958) sul
condizionamento furono proseguite da E.R. Guthrie (1886-1958) e B.F. Skinner (1904-1990).
Innovazioni teoriche furono invece introdotte da C.L. Hull (1884-1952), K.W. Spence e W.K.
Estes, i quali cercarono di precisare ed estendere i principi comportamentisti applicandovi
modelli matematici. Nel frattempo era venuto meno il rigoroso divieto di interessarsi di ciò
che si frappone tra gli stimoli e le risposte e si iniziò a ipotizzare l’esistenza di “variabili in-
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tervenienti”, cioè di processi interni all’organismo non rilevabili a livello del comportamento
manifesto, ma necessari per la spiegazione di quest’ultimo. Hull ipotizzò l’esistenza di pul-
sioni, D. Hebb di “assembramenti neuronali”, E.C. Tolman di “mappe cognitive”. Più in gene-
rale, vennero avanzate le cosiddette teorie della mediazione, le quali ipotizzano che tra la
recezione dello stimolo e l’emissione della risposta intervengano dei processi intermedi di
natura simbolica, non direttamente osservabili. Queste più recenti proposte teoriche ven-
gono in genere fatte rientrare nel cosiddetto neocomportamentismo, che media il passag-
gio tra il vero e proprio comportamentismo e il cognitivismo.
Il comportamentismo in chiave pedagogica quindi privilegia lo studio del comporta-
mento umano inteso come associazione tra uno stimolo e una risposta.
La nozione di comportamento è l’insieme delle reazioni adattative oggettivamente os-
servabili, che un organismo innesca in risposta a degli stimoli provenienti dall’ambiente nel
quale vive. Secondo quest’approccio l’apprendimento è un cambiamento di comportamen-
to: l’idea centrale è che non esista una realtà oggettiva esterna che noi apprendiamo attra-
verso i nostri sensi. Il processo di apprendimento si attiva nel momento in cui l’individuo dà
una risposta corretta ovvero manifesta un comportamento previsto a un dato stimolo. L’ap-
prendimento è quindi dato dalle reazioni individuali a tali stimoli. Un contributo importante
sulla teoria dell’apprendimento nell’ambito del comportamentismo è stato dato dallo stu-
dioso B.L. Skinner che ha elaborato la legge dell’acquisizione secondo la quale la forza del
comportamento operante viene accresciuta se seguita da uno stimolo di rinforzo. Attraver-
so quest’approccio le punizioni e i tradizionali sistemi di insegnamento e valutazione non
hanno effetti positivi sull’apprendimento.
La sua proposta, su cui si sono sviluppate molte metodologie, si è articolata su questi
principi base:
– il processo di apprendimento è migliorabile sulla base degli stimoli positivi e sulle rispo-
ste rinforzanti;
– l’apprendimento viene migliorato se lo studente viene corretto immediatamente;
– la scomposizione di una lezione in unità di apprendimento facilita la risposta dello stu-
dente in termini di apprendimento.
Quest’ultima affermazione è alla base della teoria dell’apprendimento come istruzione
programmata che ha avuto molta influenza sulla programmazione didattica. Nell’istruzione
programmata i contenuti disciplinari vanno organizzati in unità con funzione di stimolo per
l’apprendimento successivo.

1.2.3 L’attivismo di Dewey


John Dewey (1859-1952) è stato un filosofo e pedagogista che fondò nel 1896 la scuola-la-
boratorio dell’università di Chicago: uno dei primi e più riusciti esempi di scuola nuova, cioè di
applicazione del metodo pedagogico attivo secondo criteri teorizzati dallo stesso Dewey. Gran
parte della storia dell’attivismo è infatti sicuramente sotto il segno di Dewey. Con il termine at-
tivismo vengono racchiuse le esperienze delle scuole che vedono l’educazione non “come tra-
smissione di un sapere oggettivo, ma come la formazione della personalità autonoma”. La cri-
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tica alla scuola tradizionale e l’idea di un’educazione centrata sull’alunno sono i pilastri dell’at-
tivismo e del movimento delle scuole nuove. L’educazione è secondo Dewey ricostruzione e ri-
organizzazione continua dell’esperienza, allo stesso tempo personale e sociale.
In Il mio credo pedagogico (1987) Dewey sintetizza in cinque punti i fondamenti della sua
convinzione pedagogica:
– l’istruzione è frutto della partecipazione progressiva dell’individuo al patrimonio co-
mune del genere umano;
– l’istruzione è un processo sociale e la scuola il fulcro di questo processo, quindi è ineren-
te alla vita e non preparatoria ad essa;
– il centro dei programmi di insegnamento è l’insieme delle attività del bambino nel qua-
dro sociale;
– il concetto che deve guidare l’insegnamento è l’attività del fanciullo;
– l’istruzione è il fondamento del progresso sociale e politico.
La riflessione sulla didattica attraversa tutta l’opera di Dewey, a partire dall’esperienza di
Chicago per poi articolarsi attraverso vari scritti. Proprio la scuola di Chicago è uno dei pri-
mi esempi di scuola attiva. Dewey si preoccupa di articolare la scuola in livelli corrisponden-
ti agli stadi di sviluppo psicologico del bambino. Dopo la scuola dell’infanzia il bambino fre-
quenta la scuola primaria dove il laboratorio è il metodo di lavoro più usato: gli allievi sono
impegnati in una pluralità di attività, come falegnameria, cucina, tessitura, attorno alle qua-
li si costruiscono le conoscenze linguistiche, geografiche, scientifiche.
Nel testo Logica, teoria dell’indagine Dewey illustra il suo modo di vedere il processo che
sta alla base dell’esplorazione del mondo e dei problemi che esso ci mette di fronte.
Questo metodo assomiglia molto al metodo sperimentale usato nelle scienze. L’attività
rivolta alla conoscenza riguarda l’uomo durante tutta la sua vita. L’esistenza di indagini non
è cosa che si possa mettere in dubbio. Esse entrano in ogni ambito della vita e in ciascun
aspetto di ogni ambito. Gli uomini compiono delle disamine nella vita di ogni giorno; essi ri-
muginano le cose intellettualmente: essi inferiscono e giudicano altrettanto “naturalmente”
come essi mietono e seminano, producono e scambiano servizi.
Questo lavoro intellettuale non è tipico dell’uomo adulto ma dell’uomo in quanto tale.
Anche i bambini compiono indagini, sebbene queste possano risultare diverse da quelle de-
gli adulti o degli scienziati. Si parte con una situazione problematica; verrà fatto un lavoro di
analisi da tale problema e da qui si articoleranno le varie fasi:
– situazione problematica: è una situazione confusa, non chiara. Il bambino o l’adulto sen-
te l’esigenza, ha un bisogno, una curiosità per fare chiarezza;
– definizione del problema;
– prima assunzione di informazioni. È anche il semplice guardarsi intorno e recuperare
dati dalla propria memoria;
– suggestioni: sono le idee che saltano alla mente, che si affacciano spontaneamente;
– osservazione attenta e ricerca di informazioni: sono le osservazioni e ricerche più mira-
te che mettono alla prova le suggestioni;
– idea-anticipazione-previsione-ipotesi: è la formulazione di un’ipotesi che serva per ri-
solvere il problema;
– verifica: si controlla la veridicità dell’idea-guida elaborata.
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Indagare sul mondo e quindi incontrare problemi, entrare in rapporto con esso, per cer-
care di capirlo è un’attività che i bimbi fanno fino a quando possono. L’atteggiamento dei
bambini, secondo Dewey, è molto vicino all’atteggiamento dello spirito scientifico.
Dare rilievo al momento dell’esperienza diretta è significativo, non implica che l’indagine
debba rimanere al livello del fare, cioè a livelli pratici; può, anzi deve, secondo Dewey, svilup-
parsi in una ricerca teorica, cioè di ripensamento dell’attività pratica stessa, di ampliamen-
to e approfondimento delle conoscenze che ad essa sono connesse. Il rapporto fra teoria e
pratica è uno dei temi ricorrenti in Dewey ed è alla base di molte tecniche didattiche che uti-
lizzano le situazioni problematiche come motore per l’apprendimento.
La scuola di Dewey è chiamata anche progressiva in quanto l’attività che si svolge al suo
interno, presuppone uno sviluppo progressivo. La scuola deve rappresentare per il bambino
un luogo di vita: quella vita sociale che deve svilupparsi per gradi, partendo dall’esperienza
acquisita in famiglia e nell’ambiente sociale in cui egli vive.
Dewey, come la maggior parte dei pedagogisti moderni, divide l’età evolutiva in tre fasi:
– dai 4 agli 8 anni prevalgono nel bambino gli istinti e i bisogni in modo spontaneo che si
manifestano con il gioco e l’attività ludica;
– dai 9 ai 12 anni il bambino frequenta la scuola primaria che è basata sul lavoro per per-
mettere al soggetto di acquisire le abitudini culturali della società in cui vive;
– dai 12 ai 14 anni all’alunno viene data la possibilità di ampliare le sue conoscenze astrat-
te attraverso lo studio in biblioteca e laboratorio all’interno della scuola media.
L’attivismo pedagogico fondato da Dewey è una teoria pedagogica con forti interazioni
con il sistema sociale e dell’istruzione basata sull’applicazione pratica delle discipline di stu-
dio che viene sintetizzata con la definizione learning by doing (imparare facendo).
La “scuola attiva” teorizzata e realizzata da Dewey sviluppa il concetto di esperienza del-
le persone come forma massima di apprendimento. Le persone attraverso l’esperienza non
solo apprendono conoscenze ma contribuiscono al processo educativo. La scuola attiva
deve assicurare autonomia e libertà agli studenti che si impegnano nella produzione di ma-
nufatti, dipinti e oggetti. L’insegnamento secondo Dewey deve saper proporre anche situa-
zioni problematiche al fine di riproporre difficoltà e soluzioni affini alla vita reale. Il contribu-
to importante dell’attivismo è quello di aver posto le basi del modello di scuola-laboratorio
dal quale si è sviluppata l’attuale didattica dei laboratori.

1.2.4 Claparède e i metodi della psicologia sperimentale


Edouard Claparède (1873-1940), studioso di neurologia e poi docente di psicologia a Gi-
nevra fondò, nel 1912, in collaborazione con altri due psicopedagogisti Bovet e Ferriere, l’i-
stituto di Scienze dell’educazione dedicato a J.J. Rousseau. Più tardi, intorno all’istituto, si
creò la cosiddetta “Scuola di Ginevra” che vedrà impegnati tanti studiosi tra cui Piaget, suo
grande allievo. La proposta pedagogica di Claparède ha influenzato in modo rilevante il mo-
vimento di rinnovamento scolastico che si richiama ai metodi attivi. Tuttora, l’istituto da lui
fondato svolge una funzione d’avanguardia nella ricerca pedagogica e nella preparazione
degli insegnanti.
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Una costante della concezione pedagogica di Claparède è il continuo richiamo scientifico


e sperimentale alla ricerca psicologica e didattica. Egli era convinto che la positività di un’a-
zione educativa e didattica dipendesse dalla preparazione psicologica e dallo spirito scien-
tifico degli educatori. Secondo Claparède andava combattuta e superata la didattica delle
scuole tradizionali fondate essenzialmente su opinioni filosofiche ed etiche, dando agli in-
segnanti i metodi idonei per organizzare ed analizzare le esperienze, i fatti, i fenomeni e per
attuare un insegnamento sperimentale individualizzato.
Egli infatti ha insistito sulla necessità per la risoluzione dei problemi in campo didattico
tramite:
– metodi di indagine o di ricerca;
– metodi di misurazione o quantificazione;
– metodi di interpretazione.
Claparède divulgò metodi per l’insegnamento personalizzato proponendo schede di re-
cupero e di approfondimento in relazione ai singoli allievi. Di Claparède resta dunque la
proposta pedagogica concreta e l’ambito mentale scientifico che deve accompagnare l’in-
segnante. Le basi sperimentali della pedagogia di Claparède consentirono un’uscita dagli
astrattismi filosofici, e contribuirono allo sviluppo dell’indagine di J. Piaget. Con quest’ulti-
mo Claparède elaborò la cosiddetta educazione funzionale: poiché gli alunni hanno in rela-
zione alla loro età caratteristiche strutturali differenti ai docenti spetta il compito di stimo-
lare queste peculiarità adottando metodi differenziati secondo l’assunto che sarebbe stato
sviluppato da Piaget della psicologia dell’età evolutiva.
Secondo Claparède la scuola deve ispirarsi ad una concezione funzionale dell’educazio-
ne e dell’insegnamento. Il fondamento dell’educazione funzionale prevede il fanciullo come
centro dei programmi, dei metodi scolastici, quindi funzionale perché in funzione dell’allie-
vo, il più possibile individualizzata ma non individuale. Alla base dell’educazione deve esser-
ci non il timore del castigo o il desiderio della ricompensa, ma l’interesse.
L’educazione deve tendere a sviluppare funzioni intellettive e morali, più che a riempire
le menti di cognizioni che rimangono morte senza riferimento alla vita: quindi la scuola deve
essere un laboratorio più che un uditorio.
L’insegnante non deve essere un onnisciente incaricato di riempire le menti di cognizio-
ni, ma deve il più possibile stimolare gli interessi ed adeguarsi alla personalità, ai bisogni,
alle esigenze dell’allievo. Ciò implica la formazione soprattutto psicologica degli insegnanti
di tutti i gradi scolastici.
È necessario che la scuola tenga conto delle attitudini individuali; per questo, accanto ad
un programma comune ed obbligatorio per tutti con materie indispensabili, gli alunni devo-
no scegliere un certo numero di materie che potranno approfondire mossi dal loro interes-
se. Infine un altro punto caratterizzante la concezione funzionale del Claparède è che è ne-
cessaria una revisione profonda del sistema di esami e della valutazione; questa ultima deve
essere fatta sulla base dei lavori individuali eseguiti durante l’anno scolastico.
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1.2.5 La teoria di Piaget


La più importante teoria sullo sviluppo mentale del bambino, la prima ad averne analizza-
to sistematicamente, col metodo clinico di esplorazione delle idee, la percezione e la logica, è
quella elaborata da Jean Piaget (1896-1980). Egli ha dimostrato sia che la differenza tra il pen-
siero del bambino e quello dell’adulto è di tipo qualitativo (il bambino non è un adulto in mi-
niatura, ma un individuo dotato di struttura propria), sia che il concetto di intelligenza (capa-
cità cognitiva) è strettamente legato al concetto di “adattamento all’ambiente”. L’intelligenza
non è che un prolungamento del nostro adattamento biologico all’ambiente. L’uomo non ere-
dita solo delle caratteristiche specifiche del suo sistema nervoso e sensoriale, ma anche una
disposizione che gli permette di superare questi limiti biologici imposti dalla natura (ad esem-
pio, il nostro udito non percepisce gli ultrasuoni, però possiamo farlo con la tecnologia). Piaget
ha scoperto che la conoscenza del bambino si basa sull’interazione pratica del soggetto con
l’oggetto, nel senso che il soggetto influisce sull’oggetto e lo trasforma.
Piaget distingue due processi che caratterizzano ogni adattamento: l’assimilazione e
l’accomodamento, che si avvicendano durante l’età evolutiva.
Si ha assimilazione quando un organismo adopera qualcosa del suo ambiente per un’atti-
vità che fa già parte del suo repertorio e che non viene modificata, per esempio un bambino
di pochi mesi che afferra un oggetto nuovo per batterlo sul pavimento: siccome le sue azio-
ni di afferrare e battere sono già acquisite, ora per lui è importante sperimentarle col nuovo
oggetto. Questo processo predomina nella prima fase di sviluppo. Nella seconda fase invece
prevale l’accomodamento, allorché il bambino può svolgere un’osservazione attiva sull’am-
biente tentando altresì di dominarlo. Le vecchie risposte si modificano al contatto con eventi
ambientali mutevoli (per esempio, se il bambino si accorge che l’oggetto da battere per ter-
ra è difficile da maneggiare, cercherà di coordinare meglio la presa dell’oggetto). Anche l’i-
mitazione è una forma di accomodamento, poiché il bambino modifica se stesso in relazio-
ne agli stimoli dell’ambiente. Un buon adattamento all’ambiente si realizza quando assimila-
zione e accomodamento sono ben integrati tra loro.
Piaget ha suddiviso lo sviluppo cognitivo del bambino in cinque livelli (periodi o fasi),
caratterizzando ogni periodo sulla base dell’apprendimento di modalità specifiche, ben de-
finite. Ovviamente tali modalità, riferendosi a una “età evolutiva”, non sempre sono esclusi-
ve di una determinata fase.

1. Fase senso-motoria. Dalla nascita ai due anni circa


È suddivisa in sei stadi:
– riflessi innati: dalla nascita al primo mese. Le modalità reattive innate sono pianto, su-
zione, vocalizzo, ecc., che il bambino utilizza per comunicare col mondo esterno. L’eser-
cizio frequente di questi riflessi, in risposta a stimoli provenienti dal suo organismo o
dall’ambiente, porta all’instaurarsi di “abitudini”. Ad esempio, dopo i primi giorni di vita
il neonato trova il capezzolo molto più rapidamente; pur succhiando sempre il dito, lo di-
scrimina dal capezzolo o dal ciuccio, e smette di succhiare il dito se gli viene dato il cibo.
Non c’è ancora né imitazione né gioco, però il bambino è stimolato a piangere dal pian-
to di altri bambini;
18

– reazioni circolari primarie: dal secondo al quarto mese. Per “reazione circolare” s’inten-
de la ripetizione di un’azione prodotta inizialmente per caso, che il bambino esegue per
ritrovarne gli interessanti effetti. Grazie alla ripetizione, l’azione originaria si consolida e
diventa uno schema che il bambino è capace di eseguire con facilità anche in altre circo-
stanze. In questo stadio il bambino, che pur ancora non riesce a distinguere tra un “sé” e
un “qualcosa al di fuori”, cerca di acquisire schemi nuovi: ad esempio, toccandogli il pal-
mo della mano, reagisce volontariamente chiudendo il pugno, come per afferrare l’og-
getto; oppure gira il capo per guardare nella direzione da cui proviene il suono. Partico-
lare importanza ha la coordinazione tra visione e prensione: ad esempio, prende un gio-
cattolo dopo averlo visto;
– reazioni circolari secondarie: dal quarto all’ottavo mese. Qui il bambino dirige la sua
attenzione al mondo esterno, oltre che al proprio corpo. Ora cerca di afferrare, tirare,
scuotere, muovere gli oggetti che stimolano la sua mano per vedere che rapporto c’è tra
queste azioni e i risultati che derivano sull’ambiente. Ad esempio, scopre il cordone del-
la campanella attaccata alla culla e la tira per sentire il suono. Ancora non sa perché le
sue azioni provocano determinati effetti, ma capisce che i suoi sforzi sono efficaci quan-
do cerca di ricreare taluni eventi piacevoli, visivi o sonori;
– coordinazione mezzi-fini: dall’ottavo al dodicesimo mese. Il bambino comincia a coordi-
nare in sequenza due schemi d’azione (ad esempio tirare via un cuscino per prendere un
giocattolo sottostante). In tal modo riesce a utilizzare mezzi idonei per il conseguimen-
to di uno scopo specifico. L’intenzionalità si manifesta anche nella comunicazione con gli
adulti (ad esempio punta il dito verso il biberon per farselo dare). Inizia inoltre a capire
che gli oggetti possono essere sottoposti a vari schemi d’azione, come scuotere, sposta-
re, dondolare, ecc. Gradualmente si rende conto che gli oggetti sono indipendenti dalla
sua attività percettiva o motoria;
– reazioni circolari terziarie (e scoperta di mezzi nuovi mediante sperimentazione attiva):
dai 12 ai 18 mesi. Il bambino, nel suo comportamento abituale, ricorre sempre più spes-
so a modalità diverse per ottenere effetti desiderati. Inizia il “ragionamento”. Mentre pri-
ma, per eseguire una sequenza di azioni, doveva partire dall’inizio, ora può interromper-
si e riprendere l’azione a qualsiasi stadio intermedio. Inoltre egli è in grado di scoprire la
soluzione dei suoi problemi, procedendo per “prove ed errori”. Quindi esiste per lui la
possibilità di modificare gli schemi che già possiede. Ad esempio, dopo aver tentato, in-
vano, di aprire una scatola di fiammiferi, esita per un attimo e poi riesce ad aprirla. Infi-
ne può richiamare alla memoria gli oggetti assenti, grazie alle relazioni che intercorrono
tra un oggetto e la sua possibilità di utilizzo;
– comparsa della funzione simbolica: dai 18 mesi in poi. Il bambino è in grado di agire sul-
la realtà col pensiero. Può cioè immaginare gli effetti di azioni che si appresta a compie-
re, senza doverle mettere in pratica concretamente per osservarne gli effetti. Egli inoltre
usa le parole non solo per accompagnare le azioni che sta compiendo (nominare o chie-
dere un oggetto presente), ma anche per descrivere cose non presenti oggetti anche se
ne vede solo una parte. È in grado di imitare i comportamenti e le azioni di un modello,
anche dopo che questo è uscito dal suo campo percettivo. Sa distinguere i vari modelli
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e sa imitare anche quelli che per lui hanno un’importanza di tipo affettivo. Vedi ad es. i
giochi simbolici che implicano “fingere di fare qualcosa” o “giocare un ruolo”.

2. Fase pre-concettuale. Va da due a quattro anni


L’atteggiamento fondamentale del bambino è ancora di tipo egocentrico, in quanto non
conosce alternative alla realtà che personalmente sperimenta. Questa visione unilaterale
delle cose lo induce a credere che tutti la pensino come lui e che capiscano i suoi desideri-
pensieri, senza che sia necessario fare sforzi per farsi capire.
Il linguaggio diventa molto importante, perché il bambino impara ad associare alcune
parole ad oggetti o azioni. Con il gioco occupa la maggior parte della giornata, perché per lui
tutto è gioco: addirittura ripete in forma di gioco le azioni reali che sperimenta (ad esempio
per lui è un gioco vestirsi e svestirsi).
Imita, anche se in maniera generica, tutte le persone che gli sono vicine: le idealizza per-
ché sa che si prendono cura di lui. Impara a comportarsi come gli adulti vogliono, prima an-
cora di aver compreso il concetto di “obbedienza”.
Non è in grado di distinguere tra una classe di oggetti e un unico oggetto. Ad esempio, se
durante una passeggiata vede alcune lumache, è portato a credere che si tratti sempre dello
stesso animale, non di diversi animali della stessa specie. Gli aspetti qualitativi e quantitativi
di un oggetto può percepirli solo in maniera separata, non contemporaneamente.
Non è neppure capace di relazionare i concetti di tempo, spazio, causa. Il suo ragiona-
mento non è né deduttivo (dal generale al particolare), né induttivo (dal particolare al gene-
rale), ma transduttivo o analogico (dal particolare al particolare). Ad esempio, se un insetto
gli fa paura perché l’ha molestato, è facile che molti altri insetti che non l’hanno molestato
gli facciano ugualmente paura.

3. Fase del pensiero intuitivo. Da quattro a sette anni


Aumenta la partecipazione e la socializzazione nella vita di ogni giorno, in maniera creati-
va, autonoma, adeguata alle diverse circostanze. Entrando nella scuola dell’infanzia, il bam-
bino sperimenta l’esistenza di altre autorità diverse dai genitori. Questo lo obbliga a rivede-
re le conoscenze acquisite nelle fasi precedenti, mediante dei processi cognitivi di genera-
lizzazione: ovvero, le conoscenze possedute, relative ad un’esperienza specifica, vengono
trasferite a quelle esperienze che, in qualche modo, possono essere classificate nella stes-
sa categoria.
Tuttavia la sua capacità di riprodurre mentalmente un avvenimento avviene nell’unica
direzione in cui l’avvenimento si è verificato. Non è capace di reversibilità. Ad esempio, met-
tiamo davanti al bambino due vasi A e B, uguali e trasparenti, e un numero pari di biglie.
Chiediamogli di mettere, usando una mano per ogni vaso, una biglia per volta nei due
vasi in modo che siano perfettamente distribuite. Poi si prenderanno tutte le biglie in un
vaso C, di forma e dimensioni diverse da A e B. I bambini di 4-5 anni affermeranno che, nel
caso in cui C sia più sottile di A e B, le biglie sono aumentate; diminuite invece, nel caso in
cui C è più largo di A e B. Se allo stesso bambino mettiamo di fronte una fila di otto vaset-
ti di fiori e collochiamo un fiore in ogni vasetto, il bambino dirà che il numero dei fiori e dei
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vasetti è lo stesso. Se però gli facciamo togliere i fiori per farne un mazzetto, il bambino dirà
che i vasetti sono più dei fiori.
Nel primo caso l’errore è dovuto al fatto che egli ha tenuto conto solo del livello rag-
giunto dalle biglie e non anche della forma del vaso, mentre nel secondo caso il maggior
spazio occupato dalla fila dei vasetti ha dominato la sua valutazione. In sostanza ciò che non
ha compreso è stata l’invarianza (o conservazione) della quantità al mutare delle condizio-
ni percettive.

4. Fase delle operazioni concrete. Da sette a undici anni


Il bambino è in grado di coordinare due azioni successive; di prendere coscienza che
un’azione resta invariata, anche se ripetuta; di passare da una modalità di pensiero analogi-
ca a una di tipo induttivo; di giungere ad uno stesso punto di arrivo partendo da due vie di-
verse. Non commetterà più gli errori della fase precedente.
Un ingegnoso esperimento di Piaget illustra bene queste nuove capacità. Si mettano da-
vanti al bambino 20 perle di legno, di cui 15 rosse e 5 bianche. Gli si chieda se, volendo fare
una collana la più lunga possibile, prenderebbe tutte le perle rosse o tutte quelle di legno. Il
bambino, fino a 7 anni, risponderà, quasi sempre, che prenderebbe quelle rosse, anche se
gli si fa notare che sia le bianche sia le rosse sono di legno. Solo dopo questa età, essendo
giunto al concetto di “tutto” e di “parti”, indicherà con sicurezza tutte quelle di legno.
Naturalmente il bambino fino a 11 anni è in grado di svolgere solo operazioni concrete,
non essendo ancora capace di ragionare su dati presentati in forma puramente verbale. Ad
esempio non è in grado di risolvere il seguente quesito, non molto diverso da quello delle
perle: “Un ragazzo dice alle sue tre sorelle: In questo mazzo di fiori ce ne sono alcuni gialli.
La prima sorella risponde: Allora tutti i tuoi fiori sono gialli. La seconda dice: Una parte dei
tuoi fiori è gialla. La terza dice: Nessun fiore è giallo. Chi delle tre ha ragione?”.

5. Fase delle operazioni formali. Da undici a quattordici anni


Il pre-adolescente acquisisce la capacità del ragionamento astratto, di tipo ipotetico-de-
duttivo. Può ora considerare delle ipotesi che possono essere o non essere vere e pensare
cosa potrebbe accadere se fossero vere. Il mondo delle idee e delle astrazioni gli permette
di realizzare un certo equilibrio fra assimilazione e accomodamento. Egli è in grado di com-
prendere il valore di certi oggetti e fenomeni, la relatività dei giudizi e dei punti di vista, la
parità dei diritti, la distinzione e l’indipendenza relativa tra le idee e la persona, ecc.; è altre-
sì capace di eseguire attività di misurazione, operazioni mentali sui simboli (geometria, ma-
tematica...), ecc.
Famoso è l’esperimento del pendolo ideato da Piaget.
Al soggetto viene presentato un pendolo costituito da una cordicella con un piccolo so-
lido appeso. Il suo compito è quello di scoprire quali fattori (lunghezza della corda, peso del
solido, ampiezza di oscillazione, slancio impresso al peso), che ha la possibilità di variare a
suo piacere, determinano la frequenza delle oscillazioni. Lavorando su tutte le combinazioni
possibili in maniera logica e ordinata, il soggetto arriverà ben presto a capire che la frequen-
za del pendolo dipende dalla lunghezza della sua cordicella.
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Ovviamente il pensiero logico-formale non è ancora quello teorico-scientifico, che non si


forma certo nel periodo adolescenziale.
Il risultato della teorizzazioni di Piaget è che lo sviluppo cognitivo ha carattere universale.
La tipologia e il livello di apprendimento sono funzione delle risorse cognitive che si possie-
dono in una determinata fascia di età. Ogni stadio incorpora e trasforma il precedente; per-
tanto l’apprendimento deriva dallo sviluppo.

1.2.6 La teoria di Vygotskij


Il pensiero di Vygotskij (1896-1934) è incentrato su due temi principali: lo sviluppo del-
le funzioni psichiche superiori nel bambino e l’influenza delle variabili culturali sui processi
cognitivi. Le ricerche di Vygotskij hanno dimostrato che una buona cooperazione fornisce la
base dello sviluppo individuale; i processi cognitivi si attivano quando il bambino sta intera-
gendo con persone del suo ambiente e in cooperazione con i suoi compagni che lo inducono
a riflettere ed autoregolare il proprio comportamento. Una volta che questi processi sono
interiorizzati, diventano parte del risultato evolutivo autonomo del bambino.
Vygotskij sottolinea l’importanza del gioco, soprattutto in età prescolastica: è il mezzo
più efficiente per sviluppare il pensiero astratto. Con il gioco d’immaginazione il bambino
per la prima volta separa un oggetto dalle sue azioni o dalle sue proprietà.
Anche il linguaggio inizia con una funzione sociale, per poi arricchirsi ulteriormente e di-
ventare a servizio dell’intelletto.
La funzione della parola è in primo luogo sociale, finalizzata al contatto e all’interazione
con gli altri. Poi, man mano che le esperienze sociali crescono, il bambino usa il linguaggio
come aiuto nella soluzione di problemi interni. Successivamente parlerà a se stesso usan-
do il linguaggio egocentrico; esso rappresenta una fase importante della crescita interna, il
punto di contatto tra il discorso esterno sociale e il pensiero interno. In questo modo il lin-
guaggio acquisisce una seconda funzione, di natura intellettiva, come strumento di struttu-
razione del pensiero.
Una delle difficoltà maggiori dei bambini con ritardo cognitivo sta nel non riflettere su
quello che fanno o nel riflettere poco e molto superficialmente. La competenza sociale pri-
ma e quella individuale poi si sviluppano in maniera proporzionata al grado di riflessione e
di consapevolezza di quello che si sta facendo. Quindi la scuola non può limitarsi al fare, ma
deve anche aiutare i bambini a riflettere su quanto stanno facendo. Ed è questa la sostanza
della didattica metacognitiva.
Il primo elemento della teoria vygotskijana è la dimensione positiva dell’insegnamen-
to che vede gli alunni coinvolti in modo attivo e collaborativo per raggiungere livelli impor-
tanti di apprendimento.
L’atteggiamento dell’insegnante è determinante nella formazione del clima della clas-
se. Per costruire un clima positivo il suo atteggiamento dovrebbe essere democratico, sin-
cero, deve essere un punto di riferimento, guida, persona disponibile all’ascolto e all’aiuto.
I climi che l’insegnante può promuovere con il suo atteggiamento possono essere di
tre tipi: individualistico rinunciatario, competitivo aggressivo, democratico cooperativo.
22

Ognuno di questi climi è presente nella scuola, ma occorre fare attenzione a quello pre-
valente.
L’ideale sarebbe che si spendessero più energie possibili nel lavorare in ottica cooperati-
va, nella disponibilità all’aiuto e al dare gratuito. Ciò non toglie che ciascuno di noi abbia an-
che la possibilità di sperimentare situazioni in cui sia necessario agire individualmente e al-
tre situazioni in cui si sia in competizione con altri. I problemi nascono e rischiano di diven-
tare ingestibili, quando si sviluppa unicamente uno dei tre climi.
Il secondo elemento della teoria vygotskijana è l’apprendimento socializzato nell’area
di sviluppo prossimale.
Un apprendimento significativo viene generato dall’elaborazione attiva delle informazio-
ni che giungono al soggetto, dalla comprensione, confronto, valutazione e interazione di più
fonti informative. È meglio che lo studente non si trovi da solo ad affrontare tale processo,
ma sia supportato da un gruppo al quale si sente di appartenere e sul quale può contare per
essere aiutato a raggiungere obiettivi apprenditivi comuni.
L’importanza dell’interazione sociale nell’apprendimento ha dato un forte impulso alla
didattica moderna, privilegiando forme di apprendimento cooperativo.
La zona di sviluppo prossimale definisce la distanza tra il livello di sviluppo effettivo e il
livello di sviluppo potenziale, consente cioè di valutare la differenza tra ciò che il soggetto è
in grado di fare da solo e ciò che è in grado di fare con l’aiuto e il supporto di un individuo
più competente.
Mirare bene la proposta didattica nell’area dello sviluppo prossimale e organizzare in
modo efficace gli aiuti e la riflessione metacognitiva diventa uno degli aspetti cruciali dell’ap-
prendimento.
Fondamentale per lo sviluppo apprenditivo diventa il contesto, che può essere di aiuto
o di freno.
Se gli insegnanti lanciassero le sfide cognitive a coppie di ragazzi o a piccoli gruppi di
alunni, si potrebbe concretizzare quello che Vygotskij chiama l’apprendimento socializzato
nella zona di sviluppo prossimale. I ragazzi, poi, riflettendo insieme o da soli sulle difficoltà
incontrate, su cosa hanno fatto per superarle, quali aiuti sono stati decisivi e quali fuorvian-
ti, svilupperebbero la consapevolezza metacognitiva che permette loro di assimilare nuove
abilità e conoscenze a quelle già possedute in memoria a lungo termine.
L’acquisizione delle abilità sociali condiziona pesantemente il successo formativo: più i ra-
gazzi riescono ad esprimere i propri pensieri in modo chiaro, a condividere risorse e spazi co-
muni, a gestire positivamente i conflitti, a incoraggiare gli altri, a rispettare i turni nella comu-
nicazione, a parlare a voce bassa e in modo pacato e più imparano e hanno successo a scuola.
L’apprendimento cooperativo non esclude un insegnamento diretto, frontale da parte
dell’insegnante, anzi è importante che prima di un lavoro cooperativo il docente mostri di-
rettamente alla classe come utilizzare le strategie più adatte ad affrontare e risolvere i vari
problemi.
Terzo elemento della teoria vygotskijana: lo sviluppo della metacognizione. Nel model-
lo di Vygotskij lo sviluppo delle abilità metacognitive permette l’interiorizzazione della co-
noscenza socializzata esterna al soggetto. La metacognizione è il livello superiore dell’intelli-
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genza, che controlla e guida i vari processi cognitivi sottostanti e che si sviluppa e guadagna
in efficienza attraverso l’interazione sociale. Questi meccanismi centrali di regolazione si svi-
luppano dall’esterno all’interno. Diventa perciò fondamentale la relazione giocata dallo stu-
dente con gli adulti e con i pari. Il bambino diventa autonomo acquisendo progressivamen-
te le varie funzioni metacognitive necessarie al proprio apprendimento.
Quarto elemento della teoria vygotskijana: lo sviluppo delle competenze individuali.
L’interazione graduale delle attività socializzate, che si formano ad esempio sotto la guida di
adulti esperti o nell’interazione tra ragazzi, porta, attraverso la consapevolezza metacogniti-
va, allo sviluppo delle competenze individuali. La qualità della mediazione dei compagni nei
gruppi di apprendimento ha un ruolo strategico nel permettere al soggetto di riflettere e ap-
propriarsi delle conoscenze.
Anche il ruolo della famiglia è determinante sia nell’acquisizione che nel mantenimen-
to delle competenze metacognitive. Il riconoscimento pubblico delle competenze acquisi-
te è di fondamentale importanza nella valorizzazione dell’alunno. Soprattutto in presenza di
alunni disabili, occorre comunicare alla classe quali sono le cose che essi sanno fare bene e
per le quali non hanno bisogno d’aiuto.
I complimenti e i riconoscimenti, però, non devono essere generici, ma basarsi su dati di
fatto precisi, che tutti possono controllare. Il rischio, altrimenti, è quello di ottenere un risul-
tato opposto; i troppi complimenti possono creare imbarazzo nello studente e una reazione
negativa da parte dei compagni. Occorre essere onesti e sinceri attribuendo meriti a situa-
zioni e comportamenti specifici, reali, verificabili e non inventando o sopravvalutando situa-
zioni che finiscono poi col danneggiare il ragazzo in difficoltà.
Più gli insegnanti programmano interventi di valorizzazione delle abilità degli alunni più
deboli e più aumentano la partecipazione di questi ultimi alle attività della classe e il loro ri-
conoscimento nel gruppo.

1.2.7 Il cognitivismo
La corrente cognitivista che si distingue nettamente dalla corrente behaviorista racco-
manda un nuovo approccio per spiegare l’apprendimento, quello dell’elaborazione delle in-
formazioni. I processi di apprendimento secondo i cognitivisti sono il risultato di un poten-
ziale evolutivo della mente capace di ricevere ed elaborare le informazioni provenienti dai
sensi.
Le informazioni che provengono dall’esterno arrivano agli individui attraverso i sensi nel-
la memoria sensoriale oppure vengono prima riconosciute e trattenute qualche secondo
prima di essere trasmesse alla memoria a breve termine nell’arco temporale di una ventina
di secondi, in seguito vengono immagazzinate nella memoria a lungo termine.
Nel momento in cui un individuo deve produrre un comportamento deve ricercare tra le
informazioni immagazzinate nella memoria a lungo termine quelle pertinenti e deve ripor-
tarle nella memoria a breve termine.
Ciò che è importante è la maniera in cui le informazioni vengono immagazzinate nel-
la memoria. Per essere riutilizzabili, esse devono essere organizzate nella memoria a lungo
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termine. L’essere umano è dunque un elaboratore attivo di informazioni, simile ad un com-


puter (che peraltro si diffondeva contestualmente alla nascita di questa teoria) e l’apprendi-
mento si definisce come una modificazione all’interno delle strutture mentali dell’individuo.

1.2.8 Il costruttivismo
Il costruttivismo vede l’apprendimento come un processo attivo di costruzione delle co-
noscenze piuttosto che un processo di acquisizione del sapere. Non esiste un apprendimen-
to oggettivo, solo delle interpretazioni personali della realtà: ognuno crea le proprie inter-
pretazioni che restano valide solo per un dato tempo; esse sono “percorribili” per un dato
tempo e possiedono questa proprietà poiché esse si realizzano all’interno di una comuni-
tà che accetta le stesse basi e gli stessi valori. L’insegnamento assume la forma di sostegno
a questo processo. L’insegnante e gli altri allievi guidano l’allievo verso la sua propria ricer-
ca di senso.
L’apporto delle nuove tecnologie sembra aver dato al costruttivismo un nuovo slancio
basato sul principio di auto-costruzione del sapere. Ognuno, grazie alle TIC, è in grado di co-
struire la propria rete di conoscenze attive. Questa tendenza all’autonomia sposta dunque
la responsabilità dell’apprendimento sulla tecnologia e sull’allievo, mentre l’insegnante gio-
ca piuttosto il ruolo di un tutore a distanza.
I costruttivisti rifiutano l’assunto programmatorio della didattica e la verticalità della re-
lazione insegnante-discente. Per i costruttivisti l’insegnamento è fondato sul valore propul-
sivo dell’azione per scoperta condivisa da studenti e docenti. L’insegnamento è visto come
una conversazione aperta e l’apprendimento un processo di costruzione di senso. L’approc-
cio costruttivista considera l’apprendimento come un processo in parte autonomo di “co-
struzione di senso” nel quale l’alunno costruisce contenuti avvalendosi dell’esperienza.
Come evidenziano alcuni studiosi (De Vecchi, Carmona), l’apprendimento è come la meta-
bolizzazione del cibo che spetta a chi lo ha mangiato non a chi lo ha cucinato.
Il costruttivismo rinnova la percezione dello studente che viene considerato come un sog-
getto con elevati gradi di autonomia nell’organizzare il proprio sapere e cambia l’atteggiamen-
to del docente. Affinché si faciliti l’apprendimento il docente non dovrà adempiere ad una si-
tuazione di trasmissione del sapere, ma all’opposto creare delle rotture, situazioni critiche che
chiamano in campo il contributo dello studente per la costruzione dell’apprendimento. Nume-
rose sono le metodologie e gli stili d’insegnamento che si richiamano a questa concezione. Per
esempio, l’uso delle domande aperte durante l’esposizione del docente, la richiesta dell’inse-
gnante di opinioni da parte degli studenti, l’uso frequente di esempi e metafore.
Il costruttivismo propende per un insegnamento modulare caratterizzato da:
– una didattica personalizzata;
– una programmazione didattica finalizzata alla realizzazione delle competenze;
– un uso degli strumenti di verifica utili ad accertare le competenze.
Alcuni contributi significativi di carattere neocostruttivista sono stati formulati dalla
scuola di Palo Alto e dallo studioso T. Gordon che ha contribuito allo sviluppo della didatti-
ca laboratoriale.
25

LA SCUOLA DI PALO ALTO

La Scuola di Palo Alto corrisponde ad un movimento di idee nato negli anni ’50 nell’ambito del
Mental Research Institute dell’ospedale psichiatrico di Palo Alto (California), sotto gli auspici di
G. Bateson. La pratica terapeutica del Mental Research Institute intende prendere le distanze dal
behaviorismo e dalla teoria dello schema stimolo-risposta, ma anche da un certo umanesimo psico-
sociologico. Ha contribuito a promuovere lo studio di riti di interazione e di comunicazione nell’am-
bito dei gruppi (soprattutto la famiglia).

1.2.9 La teoria di Bruner


Sulla scia degli studi di Vygotskij e soprattutto di Piaget va sicuramente ricordata l’ope-
ra dello psicologo statunitense Jerome Bruner (1915-2016), il quale, partendo dalle teorie
dei due studiosi, sviluppa un pensiero in cui la cultura gioca un ruolo di fondamentale im-
portanza nello sviluppo dell’individuo: non a caso la sua teoria viene definita culturalismo.
Per Bruner qualsiasi atto di conoscenza nasce dalla mente che crea la cultura, ma allo stesso
tempo la cultura in cui sono espresse le conoscenze stesse crea a sua volta la mente. L’uo-
mo si preoccupa infatti non solo di come insegnare, ma anche di quali contenuti e conoscen-
ze insegnare, e la decisione sul cosa insegnare deriva ed è influenzata dalla cultura di ap-
partenenza.
Altro aspetto fondamentale, di derivazione prettamente piagetana, è la convinzione che
il discente durante l’apprendimento deve svolgere un ruolo attivo, e deve essere reso consa-
pevole delle motivazioni e delle modalità educative che lo riguardano.
L’apprendimento del bambino è suddiviso da Bruner in quattro fasi:
1. la capacità di azione;
2. la riflessione;
3. la condivisione;
4. la cultura.
Secondo Bruner lo sviluppo cognitivo non si realizza attraverso una sequenza fissa di sta-
di, ma attraverso strategie e procedure utili per risolvere problemi, analizzare informazioni
per poi codificarle. La principale conclusione è che le situazioni e i contesti in cui si affron-
tano i problemi sono determinanti per l’apprendimento. In altre parole l’elemento socia-
le di tipo culturale e l’individualità influenzano enormemente i processi di apprendimento.
La necessità più volte sostenuta da Bruner di individuare i modi per favorire e accelera-
re il processo di apprendimento ha fatto sì che elaborasse uno schema di riferimento per la
“teoria dell’istruzione” stabilendo i criteri e i procedimenti da seguire per organizzare nella
scuola percorsi di apprendimento (curricoli) adeguati sia ai soggetti che devono apprendere
che alle finalità e agli obiettivi che la scuola si propone. Bruner individua i caratteri principa-
li che deve possedere una teoria dell’istruzione:
– è prescrittiva nel senso che formula regole concernenti il modo più efficace per raggiun-
gere una determinata conoscenza o abilità. Al tempo stesso essa offre l’unità di misura per
valutare criticamente ogni particolare metodo di insegnamento e di apprendimento. Le te-
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orie dello sviluppo sono descrittive anziché prescrittive, in quanto ci mostrano ciò che è av-
venuto, dopo che l’evento si è già verificato: per esempio, il fatto che la maggior parte dei
bambini di sei anni ancora non possieda la nozione di reversibilità. Una teoria dell’istruzio-
ne, viceversa, può cercare di stabilire i mezzi migliori per guidare il bambino al raggiungi-
mento di tale nozione. Una teoria dell’istruzione, in breve, riguarda il modo con cui si ap-
prende meglio ciò che si vuole insegnare, mira cioè a migliorare piuttosto che a descrive-
re l’apprendimento. Con ciò non si afferma che le teorie dell’apprendimento e dello svilup-
po non rivestano alcuna importanza per una teoria dell’istruzione. In effetti una tale teoria
deve riguardare sia l’apprendimento che lo sviluppo e deve essere coerente con quelle te-
orie dell’apprendimento e dello sviluppo alle quali essa aderisce;
– è una teoria normativa, in quanto fornisce dei criteri e stabilisce le condizioni per sod-
disfarli; questi criteri debbono essere di carattere altamente generale: per esempio, una
teoria dell’istruzione non dovrà specificare in maniera estremamente minuta ed esatta
le condizioni ottimali necessarie allo studio dell’aritmetica nella terza elementare; que-
ste condizioni dovranno derivare principalmente da una visione più ampia dell’apprendi-
mento della matematica;
– deve stabilire quali esperienze siano più idonee a generare nell’individuo una predispo-
sizione ad apprendere, si tratti di apprendimento in generale o di un suo tipo particolare.
Ad esempio: quale tipo di relazioni con persone e cose nell’ambiente prescolastico tende-
rà a rendere il bambino disposto e capace di apprendere, allorché inizierà la scuola?;
– deve specificare il modo in cui un insieme di cognizioni deve essere strutturato perché
sia prontamente compreso dal discente. L’efficacia di una struttura dipende dalla sua ca-
pacità di semplificare l’informazione, di generare nuove proposizioni e di rendere più
maneggevole un insieme di cognizioni. La struttura deve sempre riferirsi alla situazione
ed alle doti del discente. Sotto questo aspetto, la struttura ottimale di un insieme di co-
gnizioni non è assoluta ma relativa;
– deve specificare la progressione ottimale con cui va presentato il materiale che deve es-
sere appreso. Per esempio, per insegnare la struttura della fisica moderna dovremo va-
lutare se è più efficace cominciare col presentare esperienze concrete in maniera tale
da provocare domande sulla regolarità di certi fenomeni o piuttosto cominciare con dei
simboli matematici che rendano più facile la raffigurazione della regolarità dei fenomeni
che si incontreranno successivamente;
– dovrebbe specificare la natura e il ritmo delle ricompense e delle punizioni nel pro-
cesso dell’apprendimento e dell’insegnamento. Intuitivamente appare chiaro che, man
mano che l’apprendimento progredisce, esiste un momento in cui è senz’altro consiglia-
bile allontanare dalle ricompense estrinseche, quali ad esempio una lode dell’insegnan-
te, passando a ricompense intrinseche, come quelle inerenti alla soluzione di un com-
plesso problema per conto proprio. Esiste poi un momento in cui, a un immediato rico-
noscimento per quanto è stato conseguito, dovrà essere sostituito un premio procrasti-
nato. Secondo Bruner quale sia il momento del passaggio dalla ricompensa estrinseca a
quella intrinseca e da quella immediata a quella differita è ancora molto poco chiaro, ma
tuttavia molto importante.
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1.2.10 La teoria di Ausubel


David Ausubel (1918-2008) propose l’idea dell’insegnante come organizzatore prope-
deutico in quanto gli assegna il ruolo di colui che permette allo studente di richiamare e tra-
sferire pregresse conoscenze a nuove informazioni che gli vengono presentate. Questa teo-
ria è basata sull’idea che l’apprendimento sia facilitato, se l’allievo può aggiungere significa-
to alle nuove informazioni, se può essere stabilita una correlazione tra nuove informazioni e
conoscenze pregresse. Questo tipo di esperienza rende l’apprendimento un processo più si-
gnificativo. L’insegnante/organizzatore propedeutico non è una strategia adoperata dall’al-
lievo ma una precisa modalità adoperata dall’insegnante stesso.
La strategia indicata verrà sviluppata da numerose metodologie che suggeriscono un
breve e generico discorso preparato dall’insegnante, prima di presentare il nuovo materiale,
per introdurre la lezione. Ecco alcune caratteristiche basilari (Strickland, 1997):
1. è una breve, astratta presentazione;
2. è un ponte che connette le analogie delle cose note con quelle ignote;
3. è adoperato come introduzione al nuovo materiale;
4. è un abbozzo della nuova informazione ed una riaffermazione della precedente cono-
scenza;
5. aiuta a strutturare la nuova informazione;
6. incoraggia gli studenti a trasferire ed applicare la precedente conoscenza;
7. consiste di informazioni concrete.
Sebbene la locuzione “organizzatore propedeutico” sia stata originariamente introdotta
da Ausubel (1960), la nozione è stata fatta oggetto di significative riformulazioni.
Con la teoria dello “schema”, impostasi come principale modello della comprensione del
testo (Anderson, Spiro & Anderson, 1978), Rumelhart (1980) ha ulteriormente sviluppato il
concetto di “schema”. Secondo Rumelhart, uno schema è una struttura di dati per la rappre-
sentazione di generici contenuti della memoria. Gli “schemi” sono pacchetti di informazio-
ne e la teoria dello schema riguarda la maniera in cui questi pacchetti sono rappresentati e
come la rappresentazione faciliti l’uso della conoscenza in modo specifico.
Dunque, esisterebbero schemi rappresentanti la nostra conoscenza riguardo a tutti i con-
cetti: gli oggetti sottostanti, situazioni, eventi, sequenze di eventi, azioni e sequenze di azio-
ni (Rumelhart, 1980). La teoria degli schemi tenta di spiegare la nostra capacità di far fron-
te ai continui mutamenti dell’ambiente. Ovviamente, non ogni circostanza ci appare nuova
ed insolita. Siamo capaci di riconoscere rapidamente gli elementi noti e patterns (schemi,
appunto) nel mondo che ci circonda. Questo ci mette in grado di comportarci correttamen-
te in ambienti diversi.

1.2.11 La teoria di Novak


Joseph Novak (1932) ha sviluppato la tecnica delle mappe concettuali basata sulle teorie
di Ausubel, il quale ha evidenziato l’importanza delle pre-conoscenze possedute dalle perso-
ne per l’apprendimento di nuovi concetti. Partendo dal presupposto che “l’apprendimento
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significativo implica l’assimilazione dei nuovi concetti nelle strutture cognitive esistenti”, nac-
que l’ipotesi della costruzione delle mappe concettuali per poter formalizzare la conoscen-
za strutturata, ovvero il modo in cui i vari concetti posseduti sono interconnessi tra di loro
all’interno di un determinato dominio conoscitivo. Le mappe sono un modello di come noi
organizziamo e applichiamo le conoscenze. Possono essere categorizzate, connettive, asso-
ciative, specificative o divise in categorie, ad esempio di tipo causale o temporale.
Una mappa evidenzia i saperi di una persona permettendole di guardarsi in profondità e
capire le proprie conoscenze. Rende cioè esplicito e conscio ciò che è spesso implicito. Pun-
to focale della costruzione delle mappe è la loro dinamicità intrinseca, per cui, in differenti
contesti e in tempi diversi, le rappresentazioni possono essere molto diverse. Le mappe toc-
cano alcuni degli elementi centrali delle tecnologie didattiche e dell’apprendimento. Assu-
mendo che le tecniche didattiche abbiano lo scopo di rendere più efficace il processo forma-
tivo, le mappe, in quanto strumenti di rappresentazione, innalzano da un lato la compren-
sione su come gli studenti organizzano ed usano le loro conoscenze, dall’altro aumentano gli
strumenti di autovalutazione dei processi di apprendimento. Per loro natura, infatti, le map-
pe fanno parte di quegli attrezzi cognitivi che supportano, guidano ed estendono il processo
di pensiero di chi li usa, in quanto è molto difficile costruire delle rappresentazioni significa-
tive senza riflettere profondamente sulle informazioni possedute.
Gli ulteriori contributi scientifici alla teoria di Novak hanno portato ad una sempre mag-
giore definizione delle mappe concettuali favorendone la fruibilità didattica.
Le mappe hanno una struttura gerarchico-associativa. Questo significa che sono solo
due le tipologie di connessioni che possono essere create:
– gerarchiche (che collegano ciascun elemento con quello che lo precede);
– associative (dette anche associazioni), che collegano elementi gerarchicamente disposti
in punti diversi della mappa.
La struttura portante di una mappa è sempre gerarchica; le relazioni associative aiutano
ad aumentarne l’espressività, evidenziando la presenza di legami trasversali mediante frec-
ce. Essendo gerarchica, la mappa mentale ha necessariamente anche una geometria radia-
le: all’elemento centrale troviamo collegati degli elementi di primo livello, ciascuno dei quali
può essere collegato con elementi di secondo livello e così via. In genere la disposizione gra-
fica degli elementi è a raggiera, ma è possibile estendere queste considerazioni anche ad al-
tre forme di connessione, come quella a spina di pesce oppure ad albero.

1.2.12 La teoria del pensiero laterale


La teoria del pensiero laterale è stata sviluppata alla fine degli anni sessanta da Edward
De Bono che ha affermato come alcuni processi cognitivi non sufficientemente valorizzati
sia­no interessanti per lo sviluppo della creatività. Il pensiero laterale viene applicato per cer-
care di risolvere i problemi utilizzando metodi non ortodossi o “apparentemente illogici”. Il
pensiero laterale, infatti, sembra illogico, ma segue in realtà soltanto un’altra logica: quella
della percezione. Ci si potrebbe collegare all’intelligenza emotiva di Gardner. Si può fare una
contrapposizione tra pensiero verticale e pensiero laterale.
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Il pensiero verticale è il pensiero:


– logico;
– selettivo (nel senso che seleziona le idee);
– sequenziale;
– che trae origine dai meccanismi della percezione.
Il pensiero laterale è il pensiero:
– generativo (genera nuove idee, nuovi concetti);
– esplorativo;
– che può “fare dei salti”;
– che consente di essere creativi.
Molto spesso i verticalisti considerano una soluzione ottenuta col pensiero laterale come
una specie di trucco. Ciò prova, paradossalmente, l’utilità del pensiero laterale.
Quanto più vibrata è l’accusa di mistificazione, tanto più appare ovvio che essi sono lega-
ti a regole rigide e a preclusioni che non hanno riscontro nella realtà. In tal modo, preclusioni
di vario tipo costituiscono altrettanti sbarramenti che vietano l’accesso alle soluzioni originali.
Secondo la teoria del pensiero laterale è importante disporre di modalità e strumenti
che facilitino questi processi di pensiero, per generare creativamente ipotesi da abbinare e
combinare con le conoscenze già possedute, fino al raggiungimento dell’obiettivo prefissa-
to. È il caso delle mappe creative, che consentono al contempo di fermare le idee e di regi-
strarle, predisponendole per essere poi rielaborate.
Il pensiero laterale è una forma strutturata di creatività che può essere usata in modo si-
stematico e deliberato. Fra le varie tecniche citiamo:
– la ricerca di alternative;
– l’entrata casuale: come generare nuove idee partendo da input casuali;
– la provocazione: si tratta di costruire delle idee – folli, assurde, illogiche – sotto forma
appunto di provocazione, come punto di partenza per generare idee innovative e logi-
che. Di fronte a una determinata situazione, a un problema, la nostra valutazione cam-
bia a seconda del nostro punto di osservazione. La nostra mente è in grado di cambiare,
a piacimento, la maniera di valutare un fatto.
Questa teoria ha dato luogo allo sviluppo di tecniche di insegnamento basate sulla logica
del problem solving per giungere all’apprendimento di conoscenze e competenze.

1.3 Metodologie dell’insegnamento


La lezione cosiddetta frontale è certamente il modo di insegnare più frequentato e rap-
presenta il metodo espositivo per eccellenza: ciò non significa che sia il metodo più efficace
per ogni disciplina e per ogni apprendimento.
Al contrario, sono stati predisposti nel corso del tempo metodi diversi per:
– sviluppare processi di apprendimento diversi e più autonomi (non solo quello per rice-
zione, ma anche per scoperta, per azione, per problemi, ecc.);
– per garantire un’offerta formativa personalizzabile (l’allievo che non impara con un me-
todo può imparare con un altro);
30

– per promuovere e/o consolidare l’interesse e la motivazione degli studenti (alla lunga
ogni metodo annoia, soprattutto un adolescente).
Sebbene la lezione sia stata oggetto di miglioramenti di cui tratteremo successivamen-
te, in questo paragrafo verranno esplorati i metodi e le tecniche didattiche ovvero le azio-
ni strategiche di insegnamento che hanno la caratteristica di coinvolgere attivamente lo stu-
dente nel processo di apprendimento e che risultano essere tra le più adottate e consolida-
te, con particolare riferimento alla scuola secondaria di secondo grado. Questi metodi sono
rappresentativi di intere famiglie metodologiche e ciascuno di essi attiva specifici processi
formativi (l’operatività, l’investigazione, la partecipazione nella ricerca, l’individualizzazio-
ne dei percorsi).
La varietà dei metodi di insegnamento viene spesso riportata a tentativi di classificazio-
ne, molti studiosi forniscono un repertorio più o meno organizzato al quale il docente può
riferirsi.
Prenderemo qui in considerazione:
– il metodo operativo;
– il metodo investigativo;
– il metodo euristico-partecipativo;
– i metodi individualizzati.
La presente suddivisione dei metodi didattici rappresenta, come anticipato, soltanto una
delle possibili tassonomie, poiché il tema e i possibili repertori rappresentano una materia
molto discussa, spesso frutto dei vari approcci utilizzati dallo studioso per inquadrare la ma-
teria.
Si sottolinea che per lo scopo del manuale non sono trattati i cosiddetti metodi nomina-
li che si riferiscono a specifici studiosi che li hanno proposti. I metodi nominali, così defini-
ti, fanno riferimento principalmente a metodi, e spesso anche a tecniche operative, riferiti
ad uno specifico studioso.
Ci riferiamo, a titolo esemplificativo, al metodo Montessori (da M. Montessori) per la
scuola di base; a quello steineriano (da R. Steiner) per i cicli del primario e del secondario e
al metodo Feuerstein (da R. Feuerstein) per il superamento delle difficoltà cognitive, la cui
teoria di riferimento è la modificabilità cognitiva strutturale. I metodi nominali, che richie-
dono all’insegnante e al formatore un lungo training per la formazione, si caratterizzano per
la loro compiutezza teorico-pratica. Essi quindi non si prestano alla possibilità di essere uti-
lizzati in modo alternato con altre tecniche e sono poco flessibili, pertanto non utilizzabili in
sede di simulazione di una lezione.

1.3.1 Il metodo operativo: il laboratorio, il problem solving


La didattica laboratoriale e quella del problem solving rappresentano le metodologie
particolarmente poste all’attenzione della attuale scuola in quanto sollecitate nel D.P.R.
88/2010: “Le metodologie didattiche sono finalizzate a valorizzare il metodo scientifico e il
pensiero operativo; analizzare e risolvere problemi; educare al lavoro cooperativo per pro-
getti; orientare a gestire processi in contesti organizzati”.
31

La didattica laboratoriale è una metodologia che consente allo studente di:


– lavorare sui problemi;
– porre attenzione ai processi;
– sviluppare attitudine all’operatività ed alla progettualità.
Il termine laboratorio va inteso in senso estensivo, come qualsiasi spazio, fisico, ope-
rativo e concettuale, opportunamente adattato ed equipaggiato per lo svolgimento di una
specifica attività formativa. Il Laboratorio sta ad indicare qualsiasi attività intenzionale tesa
a raggiungere un risultato definito e concreto, attraverso una serie di procedure e di attivi-
tà specifiche controllate dall’allievo e per lui significative. Gli alunni si trovano a ragionare, a
confrontarsi su compiti reali. Il sapere e il fare sono intimamente congiunti nell’agire.
Dal punto di vista logistico il laboratorio dovrebbe essere un locale a sé stante, apposi-
tamente costruito e corredato per produrre apprendimenti specialistici. Dal punto di vista
formativo, il laboratorio si caratterizza per l’oggetto della sua azione, vale a dire per l’attività
che vi si svolge, che investe il soggetto operante.
Con il lavoro in laboratorio lo studente domina il senso del suo apprendimento, perché
produce, perché opera concretamente, perché “facendo” sa dove vuole arrivare e perché.
L’attività proposta nel laboratorio:
– si deve prestare ad una manipolazione concreta (non bastano i codici linguistici verbale
o simbolico);
– deve implicare le operazioni cruciali (devono essere presenti i passi principali di una pro-
cedura);
– non deve avere una soluzione unica (deve dare la possibilità di scegliere e di decidere; il
laboratorio che prospetta un’unica soluzione si riduce ad algoritmo applicativo);
– deve provocare uno “spiazzamento” cognitivo (deve far scoprire qualcosa di nuovo, met-
tendo in crisi le vecchie conoscenze);
– si deve situare ad una giusta distanza (il nuovo non deve essere né troppo vicino al cono-
sciuto né troppo distante);
– deve comportare diversi livelli di interpretazione (pluralità dei punti di vista);
– deve possedere valenze metaforiche (deve richiamare esperienze lontane ed eterogenee);
– deve coinvolgere il rapporto dello studente con il sapere (nel laboratorio il sapere è co-
noscenza in azione).
L’attività di laboratorio può essere svolta con la classe in plenaria o in piccoli gruppi di
due o più alunni. In tale contesto il docente si pone innanzitutto come regista del processo
complessivo di insegnamento/apprendimento in quanto crea occasioni di apprendimento.
Nella didattica laboratoriale si mette in evidenza l’importanza della socializzazione in
seno al gruppo e si sollecita il docente a spingere il gruppo ad una flessibilità dei ruoli e all’a-
deguata ripartizione dei compiti.
Il docente è coinvolto in prima persona nella didattica laboratoriale come esperto cono-
scitore dell’epistemologia della disciplina, capace di analizzarne semantica e sintassi e sco-
prendone anche le valenze formative; egli riconosce le caratteristiche intellettive, ma anche
affettive e di interazione fra gli allievi in modo da offrire a ciascuno opportunità di apprendi-
mento secondo le proprie peculiarità.
32

All’interno delle unità di apprendimento egli dichiara gli obiettivi formativi incrocian-
do gli obiettivi generali del processo formativo e gli obiettivi specifici di apprendimento con
la situazione attuale in cui opera, favorendo lo strutturarsi di competenze attraverso strate-
gie educative.
L’insegnante di laboratorio collabora ad un processo interpretativo, a cui partecipano
tutti i membri in quanto soggetti capaci di pensare, e come soggetto “esperto” in grado di
fornire consulenza in funzione della costruzione della conoscenza.
Con l’esercizio dell’autorevolezza il docente favorisce, mediante una continua negozia-
zione, la crescita individuale e lo sviluppo di tutte le potenzialità dell’allievo, sostenendolo
nelle difficoltà, indirizzandolo verso nuovi orizzonti, sollecitando la sua curiosità e il suo in-
teresse.
Come docente di attività di laboratorio è attento supervisore dell’applicazione rigorosa
delle procedure, pronto però a cogliere i cambiamenti del contesto in cui opera per ridefini-
re il processo in un’ottica di flessibilità. La raccolta della documentazione di tutte le fasi del
percorso (relazione di laboratorio) gli consente di attivare da solo o con il confronto nel team
dei docenti interessati (se il progetto è interdisciplinare) processi di riflessione e di adatta-
mento a nuove esigenze per offrire ad ogni alunno occasioni di apprendimento risponden-
ti ai bisogni individuali.
È compito del docente stabilire i criteri e le prove di valutazione sulla base dei risultati at-
tesi. In questo caso un metro di giudizio adeguato ad un “lavoro autentico” non può essere
rappresentato solo dalle prove tradizionali. Un tipo di valutazione che consideri sia il proces-
so che il prodotto finale di un percorso fornisce informazioni sui progressi conseguiti dallo
studente, su ciò che ha imparato e sui motivi che rendono rilevante l’apprendimento. È im-
portante che le valutazioni, basate sui risultati, si accordino con gli standard e i livelli quali-
tativi stabiliti all’interno di ciascuna unità di apprendimento.
La didattica per problemi indica quella metodologia che induce i soggetti a dare risposte
a situazioni problematiche. Con questa strategia si sviluppano le capacità logiche e di ana-
lisi e le capacità creative. La metodologia sviluppa nello studente quell’attitudine a ricerca-
re risposte e soluzioni.
È conveniente considerare due aspetti di questa metodologia: il problem setting (o po-
sing) e il problem solving, che rappresentano l’insieme di tutti i metodi e le tecniche di solu-
zione dei problemi e delle relative strategie da mettere in atto.

LA DIDATTICA LABORATORIALE

Nella didattica laboratoriale per problema si intende:


– una questione da risolvere partendo da elementi noti mediante il ragionamento;
– un problema di aritmetica, di geometria, di algebra. I dati del problema sono in questo caso gli
elementi noti;
– una questione, situazione difficile o complessa di cui si cerca la soluzione (circolare in auto è un
problema).
Secondo questo approccio è indispensabile che il problema sia ben posto (eventualmente in segui-
to ad una sua riformulazione) e sia stato ben compreso (problem setting o problem posing).
33

1.3.2 Il metodo investigativo: la ricerca sperimentale


L’apprendimento per ricerca può attivarsi solo attraverso l’insegnamento mediante la ri-
cerca. Oggi, la ricerca di base opera lungo due direttrici: la ricerca sperimentale classica,
connessa al metodo ipotetico-deduttivo, e la ricerca-azione, espressione del metodo euri-
stico-partecipativo. È opportuno che gli studenti approfondiscano entrambe le tipologie an-
che contaminandole, benché la prima sia tendenzialmente indirizzata alle scienze della na-
tura e la seconda alle scienze dell’uomo.
Nella sua forma classica, il metodo investigativo segue il percorso della ricerca sperimen-
tale con le seguenti fasi:
– individuazione e definizione del problema;
– analisi e selezione delle ipotesi;
– delimitazione del campo della ricerca (dei fattori che interagiscono con il problema);
– campionatura (selezione degli elementi rappresentativi);
– selezione delle fonti (da cui rilevare dati e informazioni);
– registrazione ed elaborazione dei dati raccolti;
– confronto e verifica delle ipotesi;
– definizione del principio generale.
Compito del docente è guidare gli alunni verso la proposizione deduttiva come risulta-
to delle loro indagini.
Si fa ricerca-azione, invece, soprattutto in ambito sociale, dove la ricerca non può pre-
scindere dall’azione. Nella ricerca-azione non è tanto l’obiettività che preoccupa (elemen-
to metodologico imprescindibile nella ricerca sperimentale classica), quanto la ricostruzio-
ne documentata e ordinata del processo d’azione nel suo farsi.
Metodologicamente il ciclo della ricerca-azione comprende una serie di fasi:
a) identificazione dei problemi da risolvere, delle cause di quei problemi, dei contesti e de-
gli ambienti in cui i problemi si collocano, delle risorse a disposizione e dei vincoli che co-
stringono a fare determinate scelte;
b) formulazione delle ipotesi di cambiamento e dei piani di implementazione;
c) applicazione delle ipotesi nei contesti-obiettivo dei piani formulati (non si parla più, ma
si agisce);
d) valutazione dei cambiamenti intervenuti e revisione dei progetti e dei piani adottati;
e) approfondimento, istituzionalizzazione e diffusione capillare delle applicazioni con va-
lutazione positiva.
Lo scopo della ricerca-azione è di elaborare una conoscenza contestualizzata e orientata a mi-
gliorare una determinata pratica formativa. Il miglioramento, però, richiede il cambiamento della
realtà sotto esame, ottenuto solo mediante l’azione congiunta dei docenti e dei discenti. Quest’ul-
timo diviene l’attore principale del suo processo di conoscenza e ciò significa che, di fronte all’ar-
gomento da trattare o al problema da risolvere, egli è chiamato ad analizzare la situazione in cui
deve operare, a raccogliere dati utili, a scegliere i mezzi o i sussidi didattici, a determinare gli obiet-
tivi da raggiungere, a verificare e a valutare i risultati ottenuti. Così facendo, l’alunno assumerà un
ruolo produttivo, e non soltanto fruitivo, nel processo culturale e formativo, e ciò, tra l’altro, gli
permetterà di realizzare un apprendimento efficace perché in rispondenza alle proprie esigenze.
34

La ricerca-azione, quindi, permette di realizzare quello che le più recenti e significative ri-
forme scolastiche e le nuove indicazioni per il curricolo definiscono come un apprendimen-
to personalizzato: ovvero, un apprendimento corrispondente alle inclinazioni personali de-
gli studenti nella prospettiva di valorizzarne gli aspetti peculiari.
Questo tipo di apprendimento diventa possibile con la ricerca-azione sia perché il di-
scente è messo nelle condizioni di scoprire le proprie attitudini, sia perché il docente è chia-
mato ad analizzare in modo tempestivo le capacità dell’alunno. Il docente, infatti, ha il do-
vere di offrire a ciascuno studente itinerari, approcci, spazi e tempi differenziati che assicu-
rino un reale pluralismo di percorsi formativi e che quindi permettano al discente di trova-
re la strada che più gli si addice. Tale modo di procedere porterà l’alunno a distinguere pro-
gressivamente tra preferenze e attitudini vere e proprie, in modo da coniugare la consape-
volezza delle proprie attitudini con le scelte adeguate.
La ricerca-azione diviene, perciò, un insostituibile metodo di sperimentazione di nuovi
modelli educativi aventi lo scopo di attuare cambiamenti positivi nel contesto scolastico in
cui agiamo. Cosicché, in essa si può ravvisare una prospettiva “politica” dal momento che si
propone non solo di cambiare gli strumenti e la professionalità di coloro che scommettono
su tale metodo, ma anche di modificare la politica educativa e l’esito sociale dell’intero per-
corso formativo. Quest’ultima, mediante la ricerca-azione, si basa sull’assunto che sia neces-
sario vivere il tempo formativo abbandonando l’insegnamento prettamente disciplinare e
creando esperienze educative centrate sulla persona che apprende, che è impegnata a co-
niugare la conoscenza e la riflessione sulla realtà con il bisogno di imparare e il desiderio di
apprendere, con la qualità formativa nei contesti lavorativi e la valorizzazione dei propri in-
teressi, dei propri bisogni e dei propri progetti di vita.

1.3.3 Il metodo individualizzato: il mastery learning


Il mastery learning è una modalità di organizzazione dell’intervento didattico molto at-
tenta alle diversità individuali nei ritmi e nei tempi di apprendimento degli allievi.
Il termine padronanza nel mastery learning è connesso all’apprendimento di abilità con
lo sviluppo sistematico di processi metacognitivi, decisionali e creativi.
Lo schema di attuazione del mastery learning ricorda la tecnica dell’istruzione program-
mata, nella quale ogni fase dell’insegnamento viene prevista in anticipo e quindi dettagliata-
mente programmata e standardizzata. Essa si caratterizza per il fatto di scomporre la mate-
ria di insegnamento in brevi passaggi, detti frames, o anche items o cadres; tali frames con-
tengono una o due informazioni fondamentali e/o richiedono al soggetto la formulazione di
una risposta, sulla base delle informazioni precedentemente date.
Fondata sui principi del condizionamento operante di B.F. Skinner, l’istruzione program-
mata si presenta secondo sequenze lineari di piccoli passi, dello stesso Skinner, o secondo
sequenze ramificate, proposte da Crowder. Nella sequenza lineare ogni frame è costituito
da un semplice periodo che comprende poche informazioni e da una domanda che impli-
ca le informazioni appena presentate. Con la sequenza ramificata, a seconda delle risposte
date dall’allievo, il programma può prevedere sviluppi differenti, ad esempio specifici pro-
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grammi di recupero, oppure la possibilità di saltare alcuni frames e procedere più rapida-
mente per i soggetti più abili. Le prime macchine per insegnare (teaching machines) e le pri-
me applicazioni del computer nella didattica seguivano le impostazioni dell’istruzione pro-
grammata.
Per la metodologia didattica Block ha contribuito a definire i seguenti procedimenti:
– l’insegnante definisce le abilità concettuali e operative che gli studenti dovrebbero rag-
giungere al termine dell’intervento didattico;
– con l’analisi del compito stabilisce i livelli intermedi definendo gli obiettivi particolari in
una successione di unità didattiche in grado di promuovere progressivamente le abilità
finali;
– elabora le prove in grado di verificare il raggiungimento o meno degli obiettivi delle uni-
tà didattiche individuate;
– predispone poi le unità didattiche tenendo conto il più possibile dello stato di prepara-
zione iniziale dei suoi allievi;
– struttura successivamente le attività integrative e di recupero da proporre a quegli allievi
che non avessero raggiunto ancora livelli intermedi di abilità nelle singole unità didattiche;
– controlla che gli allievi non affrontino l’unità successiva se non hanno conquistato il mi-
nimo indispensabile di dominio delle conoscenze e competenze previste dalle unità pre-
cedenti.
Nella scuola secondaria il mastery learning potrà essere proficuamente utilizzato come
metodo di insegnamento individualizzato per l’addestramento di specifiche abilità tecniche
e/o professionali, o con allievi in situazione di handicap, o in presenza di disagi nell’appren-
dimento più o meno gravi, anche temporanei.

1.4 Tecniche attive d’insegnamento


Dopo aver esaminato i metodi, prendiamo in considerazione le principali tecniche in uso
nello svolgimento della didattica con particolare attenzione alle cosiddette tecniche attive.
Queste tecniche respingono il ruolo passivo, dipendente e sostanzialmente ricettivo
dell’allievo; esse, al contrario, comportano la partecipazione sentita e consapevole dello
studente, poiché contestualizzano le situazioni di apprendimento in ambienti reali analo-
ghi a quelli che l’allievo ha esperito nel passato (attualizzazione dell’esperienza), che vive at-
tualmente (integrazione qui e ora della pluralità dei contesti) o che vivrà in futuro (previsio-
ne e virtualità).
Le tecniche in esame si caratterizzano per:
– la partecipazione “vissuta” degli studenti (coinvolgono tutta la personalità dell’allievo);
– il controllo costante e ricorsivo (feed-back) sull’apprendimento e sull’autovalutazione;
– la formazione in situazione;
– la formazione in gruppo.
Prendiamo in considerazione gruppi di tecniche attive:
– tecniche simulative, in cui troviamo il role playing (gioco dei ruoli) per l’interpretazione
e l’analisi dei comportamenti e dei ruoli sociali nelle relazioni interpersonali, l’in basket
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(cestino della posta) per le prese di decisione in ambito di ufficio e l’action maze (azione
nel labirinto) per lo sviluppo delle competenze decisionali e procedurali;
– tecniche di analisi della situazione che si avvalgono di casi reali: nello studio di caso si
analizzano situazioni comuni e frequenti, nell’incident si affrontano situazioni di emer-
genza. Con lo studio di caso si sviluppano le capacità analitiche e le modalità di approc-
cio ad un problema; nell’incident, si aggiungono le abilità decisionali e quelle predittive;
– tecniche di riproduzione operativa come le dimostrazioni e le esercitazioni: esse punta-
no ad affinare le abilità tecniche e operative mediante la riproduzione di una procedu-
ra. Sono complementari e richiedono la scomposizione della procedura in operazioni e
in fasi da porre in successione e da verificare ad ogni passaggio;
– tecniche di produzione cooperativa, tra cui possiamo annoverare la tecnica del brain-
storming (cervelli in tempesta), per l’elaborazione di idee creative in gruppo, e il metodo
del cooperative learning, per lo sviluppo integrato di competenze cognitive, operative e
relazionali.
Le tecniche didattiche definiscono il rapporto tra il soggetto che apprende e la situazio-
ne d’apprendimento. Con le tecniche di simulazione il soggetto impara immerso nelle situa-
zioni; con quelle di analisi della situazione impara dalle situazioni (leggendole); con le tecni-
che di riproduzione operativa impara operando sulle situazioni, e con quelle di produzione
cooperativa impara a modificare (o a inventare) le situazioni.
Naturalmente è variabile anche il coinvolgimento emotivo degli studenti: è profondo
nelle tecniche simulative, con l’immersione nella realtà e con l’assunzione di ruoli specifici,
più distaccato nelle analisi delle situazioni e nelle riproduzioni operative.

1.4.1 Le tecniche simulative: role playing, in basket, action maze


1. Il role playing
Il role playing, che significa interpretazione dei ruoli, consiste nella simulazione dei com-
portamenti e degli atteggiamenti adottati generalmente nella vita reale; i ruoli sono assun-
ti da due o più studenti davanti al gruppo dei compagni-osservatori. Gli studenti devono as-
sumere i ruoli assegnati dall’insegnante e comportarsi come pensano che si comportereb-
bero realmente nella situazione data. Questa tecnica ha, pertanto, l’obiettivo di far acquisire
la capacità di impersonare un ruolo e di comprendere in profondità ciò che il ruolo richiede.
Il role playing non è la ripetizione di un copione, ma una vera e propria recita a soggetto.
Riguarda i comportamenti degli individui nelle relazioni interpersonali in precise situazioni
operative per scoprire come le persone possono reagire in tali circostanze.
Gli elementi fondamentali del role playing:
– si predispone una scena in cui i partecipanti devono agire;
– i partecipanti sono al centro dell’azione e devono recitare spontaneamente secondo l’i-
spirazione del momento;
– l’uditorio assume particolare importanza poiché il gruppo non funge da semplice osser-
vatore, ma cerca di esaminare e di capire quanto avviene sulla scena;
– il docente deve mantenere l’azione dei partecipanti e la situazione scenica, anche solle-
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citando, suggerendo, facilitando l’azione fino al momento in cui gli studenti protagonisti
non agiscono autonomamente;
– il docente può avvalersi di collaboratori incaricati di favorire la recita, anche con la loro
recitazione: potranno utilizzare tecniche come quella dello specchio (in cui rinviano
gli atteggiamenti del soggetto al soggetto stesso) o la tecnica del doppio (in cui coloro
che assistono possono dare la loro opinione sui comportamenti degli attori in forma di
feedback non giudicante).
Il role playing si avvale di altre tecniche:
– l’autopresentazione;
– il monologo (le riflessioni personali dell’attore);
– la presentazione di ruoli collettivi (uno stesso partecipante interpreta tutti i ruoli previsti);
– l’inversione dei ruoli (dopo aver sostenuto una posizione, provare a sostenere quella op-
posta).
Il gioco dei ruoli possiede una grande forza catalizzatrice che coinvolge emotivamente sia
i partecipanti sia gli osservatori. A volte si tratta di esperienze difficili da vivere. Il docente
è tenuto a rispettare questa presa di coscienza senza giudicare se ciò è giusto o pertinente.
Come ogni tecnica di sensibilizzazione utilizzata a scopi formativi, anche il role playing
dev’essere utilizzato come tale (a scopi formativi), deve avere delle sequenze strutturate e
deve concludersi con una verifica degli apprendimenti.

2. In basket
L’in basket (cestino della posta) inizialmente era riservato agli studenti dei corsi di indi-
rizzo tecnico o professionale per le decisioni nel lavoro d’ufficio. Oggi, con il diffondersi uni-
versale di procedure di posta elettronica e di comunicazioni in rete, la tecnica dell’in basket
si presenta particolarmente interessante per l’apprendimento di procedure di selezione e di
processi decisionali.
Nella sua forma classica, si consegnavano agli studenti alcuni tra i documenti (lettere, ap-
punti di impegni, avvisi di scadenza, ecc.) che normalmente si potevano trovare sul tavolo di
lavoro o tra la posta in arrivo in un qualsiasi ufficio. Con l’e-mail la gestione della posta non
è più appannaggio del solo personale d’ufficio, ma di tutte le persone che comunicano attra-
verso la rete. La gestione funzionale della comunicazione telematica non può che conside-
rarsi una competenza di base (che tutti devono possedere) altamente formativa che richie-
de l’attivazione di processi mentali (e non solo di sequenze tecniche) quali:
– l’analisi e la comprensione;
– la scelta delle priorità;
– la presa di decisione sui problemi affrontati.
Per queste sue caratteristiche l’in basket, inizialmente considerato come uno strumento
di formazione, si è sviluppato anche nei contesti scolastici.

3. L’action maze
L’action maze (azione nel labirinto) può essere considerato il filo d’Arianna che lo studen-
te dipana quando si inoltra in ambienti cognitivi sconosciuti. Anche questa tecnica è stata
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ampiamente rivisitata con l’avvento delle reti e delle tecniche di navigazione. In questo caso
la ricerca, benché in mondi virtuali di conoscenza, non è simulata; l’allievo fa ricerca e, ad
ogni nodo, deve valutare l’importanza e il senso della nuova informazione, prendendo con-
tinue decisioni sulle strade da intraprendere o da scartare (Internet è un vero e proprio labi-
rinto). La rapidità delle decisioni è tale che, dopo soli pochi nodi, può risultare complicato il
ritorno al punto di partenza. Accanto alle competenze decisionali, la tecnica del labirinto in
rete richiede anche approfondite competenze autovalutative e orientative.
Operativamente e nella sua versione semplificata la tecnica del labirinto inizia con la con-
segna allo studente della descrizione dettagliata e in forma scritta di una situazione proble-
matica; egli la analizza e sceglie una possibile soluzione tra una serie di alternative presen-
tate. Ogni scelta comporta la consegna di un’altra scheda. Alla conclusione ogni allievo per-
corre un proprio itinerario; la verifica riguarda il numero e la progressione dei nodi percor-
si, l’individuazione di percorsi essenziali o di percorsi originali (itinerari alternativi) che pos-
sono condurre a soluzioni creative. Tutto ciò con la speranza che, nel frattempo, lo studen-
te non si perda nel labirinto.

1.4.2 Le tecniche di analisi per capire le situazioni reali: lo studio di caso, incident
1. Lo studio di caso
Lo studio di caso consiste nella descrizione dettagliata di una situazione reale. Con esso
si intendono sviluppare negli studenti le capacità analitiche necessarie per affrontare siste-
maticamente una situazione complessa di cui sono fornite tutte le indicazioni fondamentali.
Con lo studio di caso si presenta agli studenti la descrizione di una situazione reale (e in
quanto tale complessa), frequente o esemplare. La descrizione di un caso è un brano scrit-
to al quale possono essere associati documenti, tabelle o schemi. Benché nella letteratura
si prospettino descrizioni molto lunghe, si ritiene didatticamente opportuno non superare
una o due pagine.
La situazione da esaminare può anche riguardare un caso problematico, ma bisogna non
dimenticare che l’obiettivo di questa tecnica non è quello di risolvere un problema, bensì
quello di imparare ad affrontare i problemi, ad individuarli e a posizionarli.
La descrizione viene consegnata agli studenti che, dapprima, studiano il caso individualmen-
te e poi lo discutono in gruppo, moltiplicando così le alternative di approccio al caso stesso.
Accanto allo sviluppo delle capacità analitiche, il metodo dei casi presenta anche altri im-
portanti aspetti formativi, se utilizzato come tecnica di gruppo. L’interazione tra gli studen-
ti, infatti:
– favorisce la conoscenza delle altre persone, scoraggiando dall’emettere semplicistici giu-
dizi nei loro confronti;
– permette di capire come uno stesso problema possa essere valutato in modo diverso da
persone diverse;
– consente di abbattere facili generalizzazioni, utili soltanto come difese individuali;
– sensibilizza e forma alla interazione e alla discussione creando condizioni che facilitano
una reciproca migliore comprensione;
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– mette in evidenza le difficoltà che presenta il pensare ad un problema reale e il giungere


ad una eventuale soluzione di gruppo.
All’inizio delle esperienze con i casi, gli studenti sono ansiosi di conoscere le risposte ai
vari interrogativi e le soluzioni adottate nella realtà. Dopo un po’, comunque, comprendono
che è più importante imparare il processo di analisi per arrivare alla soluzione piuttosto che
“indovinare” la soluzione in sé.

2. L’incident per imparare a decidere


L’incident può essere considerato una variante dello studio di caso, benché si differen-
zi da esso sia per l’oggetto di studio che per la tecnica didattica. L’oggetto dell’incident, in-
fatti, è sì una situazione reale, ma è una situazione di emergenza, è in procinto di esplo-
dere, può diventare un incidente di percorso. Anche con l’incident, quindi, gli studenti de-
vono dimostrare competenze analitiche, e non soltanto per individuare le strategie di ap-
proccio, ma soprattutto per sviluppare le abilità decisionali atte a superare favorevolmen-
te l’emergenza.
Anche qui, come con lo studio di caso, il docente predispone accuratamente tutti gli ele-
menti connessi alla situazione, e pertanto la progettazione dell’intervento è analoga a quel-
la dei casi. Nell’incident, però, varia la tecnica didattica. La descrizione scritta, molto breve,
non richiede che qualche minuto di lettura poiché il materiale presentato agli studenti è vo-
lutamente mancante di molti elementi e lascia un altissimo grado di autonomia nell’anali-
si e nelle scelte.

1.4.3 Tecniche di riproduzione operativa come le dimostrazioni e le esercita-


zioni
Le dimostrazioni e le esercitazioni non sono tecniche particolarmente innovative, anzi da
sempre hanno rappresentato il modo più usuale di imparare. Un modo semplicissimo per
spiegare l’essenza delle dimostrazioni e delle esercitazioni può essere espresso con la frase
“guarda come faccio e poi prova tu”. Il “guarda come faccio” è la dimostrazione, il “poi pro-
va tu” è l’esercitazione.
L’obiettivo delle dimostrazioni e delle esercitazioni è quello di sviluppare abilità operati-
ve procedurali. Il loro ampio utilizzo lascia supporre una tecnica facile da progettare: in real-
tà il loro successo dipende da un accurato lavoro preparatorio.
Dimostrazioni ed esercitazioni sono attività formative complementari: la dimostrazione
senza esercitazione non produce apprendimento, l’esercitazione senza dimostrazione si ri-
solve in una serie di tentativi non finalizzati al successo.

1. Dimostrazione
Il tipo più inutile di dimostrazione è quello in cui il docente non dimostra nient’altro che
la propria competenza. È dato per scontato che il docente sappia eseguire una procedura,
ma il fatto di limitarsi a svolgere un’attività non significa saperla dimostrare. Con la dimostra-
zione si insegna come fare qualcosa.
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Gli obiettivi di una dimostrazione sono quelli di far acquisire conoscenze procedurali di
tipo operativo, ed in particolare:
– le fasi di una procedura;
– la successione delle fasi;
– i criteri di verifica per ciascuna fase.
Le regole fondamentali per progettare una dimostrazione sono:
– individuare la procedura da dimostrare, significativa per la disciplina affrontata;
– analizzare la struttura operativa della procedura;
– suddividere la procedura in fasi e indicare l’ordine di esecuzione;
– individuare i punti critici;
– indicare la sequenza migliore capace di condurre al successo l’esecuzione;
– predisporre un elenco dei problemi possibili cui potrebbero andare incontro gli allievi;
– assicurarsi che tutti gli studenti possano vedere ed ascoltare adeguatamente le fasi del-
la dimostrazione;
– provare la dimostrazione prima di presentarla agli allievi, studiarne le pause opportune
fra le singole fasi.
Se la dimostrazione è stata progettata con cura ed eseguita in modo didatticamente cor-
retto, l’attività immediatamente successiva non può che essere l’esercitazione.

2. Esercitazione
L’obiettivo dell’esercitazione è quello di far sì che gli allievi siano capaci di eseguire cor-
rettamente e completamente operazioni e procedure uguali per difficoltà a quelle che in-
contreranno sul lavoro. Qualcuno equipara l’esercitazione all’addestramento. In realtà l’ad-
destramento comporta l’acquisizione meccanica di gesti e di comportamenti, mentre l’eser-
citazione si configura come un training on the job.
Una esercitazione adeguata è quella che viene formulata attraverso una serie di esercizi,
accuratamente programmati, con graduali difficoltà commisurate al livello di apprendimen-
to dell’allievo. È efficace l’esercizio che la maggior parte degli allievi eseguirà correttamente
al momento prestabilito. Un buon esercizio sarà, quindi, breve, semplice e chiaro. L’esercita-
zione deve essere preceduta o accompagnata dall’aiuto del docente.
Le regole significative per progettare una esercitazione sono:
– individuare gli esercizi più significativi;
– adeguarli alle caratteristiche degli studenti;
– dosarli per difficoltà e complessità crescenti;
– predisporne in numero sufficiente per un apprendimento duraturo;
– verificare la loro progressione in modo da sviluppare sistematicamente le diverse com-
petenze dello studente;
– fissare i criteri di correttezza e di completezza di ogni esercizio;
– predisporre una guida per lo studente.
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1.4.4 Tecniche di produzione cooperativa


Il brainstorming (letteralmente “tempesta cerebrale”, semanticamente “tempesta di
idee”) è una tecnica di creatività di gruppo per far emergere idee volte alla risoluzione di un
problema. Sinteticamente consiste, dato un problema, nel proporre a livello individuale e li-
beramente soluzioni di ogni tipo (anche strampalate o con poco senso apparente) senza che
nessuna di esse venga minimamente censurata o giudicata. La critica ed eventuale selezione
interverrà solo in un secondo tempo, quando la seduta di brainstorming è finita.
Il risultato principale di una sessione di brainstorming è in genere molto produttivo: può
consistere in una nuova e completa soluzione del problema, in una lista di idee per un ap-
proccio ad una soluzione successiva, o in una lista di idee che si trasformeranno nella stesu-
ra di un programma di lavoro per trovare in seguito una soluzione.
Per migliorare i risultati degli studenti attraverso un approccio di cooperative learning si
deve tenere conto di due elementi chiave:
– gli obiettivi comuni del gruppo;
– la fiducia negli altri intesa come senso di poter contare realmente sugli altri e sulle loro
capacità.
Gli effetti positivi consistono in un aumento dell’autostima, nelle relazioni intergruppo,
nell’accettazione delle debolezze degli altri, nella maggiore disponibilità verso la scuola e
nell’abilità di cooperazione.
La scuola rappresenta l’ambiente ideale per imparare in un clima collaborativo fatto di
discussione e confronto tra coetanei. La cooperazione tra studenti privilegia l’interdipen-
denza positiva, l’interazione faccia a faccia tra pari, il lavoro di piccoli gruppi eterogenei per
composizione. Questo clima è utile al metodo di cooperative learning, cioè l’insegnamen-
to e l’apprendimento in gruppi di lavoro, dove la variabile più significativa è la cooperazio-
ne tra studenti.
Ogni componente del gruppo deve imparare ad apprendere e sviluppare queste abilità
se vuole ottenere e vivere un clima di collaborazione e cooperazione. La qualità dei risultati
e la mole di lavoro svolto dal gruppo sono direttamente proporzionali al feeling, alla fiducia,
alla comunicazione che si instaurano fra i membri, insieme alla loro capacità di saper risolve-
re i conflitti, sostenendosi ed accettandosi reciprocamente. Queste caratteristiche non sono
comunque innate, ma vanno acquisite grazie all’insegnamento e all’educare alla relazione.
I membri del gruppo, infatti, durante il cooperative learning, vivono situazioni ed emo-
zioni diverse, compresi i conflitti, rivestono ruoli inusuali, che a volte esulano dal loro abi-
tuale comportamento quindi vanno aiutati a realizzare un clima di fiducia e allenati a svilup-
pare le loro abilità interpersonali.

1.5 Metodologie e tecniche prevalenti nei diversi ordini e gradi del-


la scuola
Le metodologie illustrate nei paragrafi precedenti hanno una valenza traversale a tutti gli
ordini e gradi, però è opportuno sottolineare che alcune di esse e l’uso correlato delle tec-
42

niche può essere più esteso o più ristretto in funzione dell’ordine e grado scolastico. Le me-
todologie sono infatti correlate alle finalità specifiche che l’ordine e grado scolastico perse-
guono.

1.5.1 Scuola dell’infanzia e primaria


Le scuole dell’infanzia e primarie costituiscono un servizio educativo che risponde ai bi-
sogni dei bambini favorendone un equilibrato sviluppo psico-fisico.
Le scuole dell’infanzia e primarie devono assicurare un ambiente che stimoli i processi
evolutivi e conoscitivi dei bambini, operando in un rapporto costante con la famiglia, pro-
ponendo una struttura che possieda i requisiti ottimali, sia dal punto di vista architettoni-
co (adeguata distribuzione degli spazi interni ed esterni), sia didattico, in riferimento alla fa-
scia d’età dei bambini.
Pertanto la scuola d’infanzia e quella primaria tendono alla programmazione delle at-
tività ludiche e didattiche in relazione alla fascia d’età del bambino e favoriscono occasio-
ni adeguate alle potenzialità di apprendimento, di esplorazione, di conoscenza, di affettivi-
tà e socializzazione, valorizzandone l’identità personale. È previsto, inoltre, l’accompagna-
mento del bambino nell’apprendimento di una lingua straniera attraverso un metodo asso-
lutamente naturale.
La metodologia didattica prevalente nella scuola dell’infanzia e primaria si basa sulla va-
lorizzazione del gioco come risposta privilegiata che offre occasioni di apprendimento e di
relazione; sulla libera esplorazione e sulla ricerca, sulla valorizzazione della relazione socia-
le ed affettiva, sull’osservazione, sulla progettazione, sulla verifica quali strumenti essenzia-
li che consentono di conoscere le modalità comunicative del bambino. La dimensione del
gioco è cosi pronunciata da essere stata rinominata nella didattica la ludo-programmazione.
Sono previsti degli strumenti di documentazione personale, quale testimonianza diret-
ta dell’avventura scolastica del singolo bambino, che, attraverso resoconti, fotografie, dise-
gni e oggetti realizzati dai bambini, conservino tracce importanti del loro percorso, condivi-
sibile con i propri genitori.
Le metodologie e le tecniche nel primo ciclo di studio sono concentrate nelle aree di ap-
prendimento racchiuse nelle seguenti categorie:
– corpo, movimento e salute;
– fruizione e produzione di messaggi;
– il sé e l’altro;
– esplorare, conoscere e progettare.
L’attività del bambino all’interno di queste aree di apprendimento è mirata a sviluppa-
re e rafforzare abilità particolari quali l’esplorazione, la manipolazione, l’osservazione, il rag-
gruppamento, il linguaggio, la simbolizzazione, la comprensione e l’interazione fra coetanei
e adulto-bambino.
La motricità non è solo l’espressione del movimento, ma il mezzo con il quale il bambi-
no manifesta il proprio essere e lo mette in relazione con gli altri e con il mondo esterno.
In quest’area di apprendimento verranno privilegiati contenuti di tipo motorio che hanno
43

lo scopo di far acquisire competenze specifiche quali: l’equilibrio ed il controllo degli sche-
mi dinamici e posturali, lo sviluppo delle capacità coordinative oculo-manuali e spazio-tem-
porali, lo sviluppo delle capacità senso-percettive e delle azioni motorie in relazione all’età.
L’educazione alla salute, anche nelle sue componenti alimentari, è una componente im-
portante della corporeità. Essa sarà avviata fornendo, in modo contestuale alle esperien-
ze di vita, le prime conoscenze utili per la corretta gestione del proprio corpo, in modo da
promuovere l’assunzione di positive abitudini igienico-sanitarie ed alimentari (lavaggio del-
le manine o di tutto il corpo, lavaggio dei cibi, come e cosa si mangia a casa, a scuola, al ri-
storante).
L’area di apprendimento “fruizione e produzione di messaggi” è tesa a favorire la capaci-
tà di saper produrre e comprendere messaggi, tradurli e rielaborarli utilizzando una pluralità
di linguaggi e di strumenti di comunicazione. A tal fine sono previste diverse attività ineren-
ti alla comunicazione: dall’espressione manipolativo-visiva a quella sonoromusicale, a quel-
la drammatico-teatrale.
Tale area si prefigge l’acquisizione di una competenza linguistica e comunicativa promuo-
vendo tutti gli aspetti del linguaggio:
– l’aspetto formale, che riguarda il riconoscimento e la corretta pronuncia;
– l’aspetto lessicale/semantico, che riguarda l’aumento quantitativo e qualitativo delle pa-
role;
– l’aspetto sintattico, che riguarda la corretta costruzione della frase.
Inoltre, tale area si caratterizza per gli interventi rivolti all’acquisizione della fiducia del-
le proprie capacità di espressione e comunicazione, per l’impegno a farsi un’idea personale
e manifestarla, per lo sforzo di ascoltare e comprendere e per la consapevolezza della possi-
bilità di esprimere le medesime esperienza in modi diversi.
L’area di apprendimento sintetizzata in “il sé e l’altro” mira a rafforzare lo sviluppo emoti-
vo sia attraverso la promozione dell’autonomia, la stima di sé e l’identità, sia tramite la con-
divisione e la discussione di sentimenti (paura, gioia, stupore, ammirazione) discutendo in-
sieme sul senso che hanno per ciascuno queste emozioni e su come esse vengono manife-
state. Vuole inoltre facilitare lo sviluppo sociale, inteso come capacità di comprendere i bi-
sogni e le intenzioni degli altri, il riconoscimento e la valorizzazione delle diversità che si pos-
sono riscontrare nella scuola e nell’ambiente sociale.
Infine a sensibilizzare lo sviluppo etico-morale per promuovere il senso di responsabili-
tà e il rispetto verso gli altri, cercando di capire i loro pensieri, azioni e sentimenti, rispettan-
do e valorizzando il mondo animato ed inanimato. In un ambiente educativo, ogni momen-
to della vita quotidiana può essere fonte di esperienza e di apprendimento.
I contenuti e le attività dell’area “esplorare, conoscere e progettare” vogliono stimolare
la capacità di esplorare l’ambiente circostante dando un nome ad ogni cosa, trasmettere il
concetto di raggruppamento e classificazione, parlare del tempo e dello spazio. In tal senso,
le attività si concentreranno sulla conoscenza ed esperienza di oggetti, materiali, eventi os-
servabili nell’ambiente che circonda il bambino, sulla percezione e collocazione degli eventi
nel tempo, sul sapersi orientare nello spazio.
Il laboratorio rappresenta la tecnica prevalente nella scuola dell’infanzia e primaria in
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quanto esso si propone come “una palestra per imparare ad imparare”, dove l’apprendi-
mento di abilità e conoscenze da parte del bambino è visto come il risultato di un proces-
so che si fonda sul fare, sull’esperienza diretta, sull’attività, sulla sperimentazione concreta.
I presupposti pedagogici del laboratorio sono: una teoria dell’apprendimento come costru-
zione e scoperta del sapere. Nelle attività di laboratorio il bambino, infatti, è coinvolto diret-
tamente nell’esecuzione, nella sperimentazione e nell’uso dei materiali.
Il laboratorio, inoltre, è concepito come luogo di realizzazione di progetti didattici di na-
tura interdisciplinare. Il ruolo dell’educatore/insegnante all’interno di un laboratorio è quel-
lo di favorire la partecipazione del bambino alle attività, promuovere le abilità e conoscen-
ze pregresse di ciascuno in modo che esse siano spese nel processo di costruzione e scoper-
ta in gioco, sollecitare motivazione, bisogni, interessi, curiosità, dubbi, mirando allo sviluppo
della capacità di un’elaborazione critica e creativa dei saperi.
Si evidenzia che l’uso del laboratorio nella scuola primaria si differenzia da quello usa-
to nella scuola secondaria dal fatto che nel primo caso il laboratorio ha una valenza espe-
rienziale, mentre nel secondo è più agevolmente un luogo di apprendimento e di esercita-
zione pratica.

ESEMPI DI LABORATORI NELLA SCUOLA PRIMARIA

Laboratorio ludico
In questo laboratorio sono racchiuse tutte le attività che hanno come oggetto principale il gioco.
Vi sono vari tipi di giochi: di fantasia, individuali, collettivi, di squadra, per piccoli o grandi spazi, da
praticarsi all’aperto o al chiuso.
Gli obiettivi che si prefigge il laboratorio sono:
– rispetto delle regole;
– coordinazione motoria;
– coordinazione spazio-temporale;
– collaborazione/cooperazione;
– socializzazione.

Laboratorio di psicomotricità e di espressione corporea


L’attività corporea non è solo l’espressione del movimento, ma il mezzo con il quale il bambino
manifesta il proprio essere e lo mette a contatto con il mondo esterno. Gli obiettivi che si prefigge
il laboratorio sono:
– conoscenza della propria corporeità anche come mezzo espressivo;
– sviluppo psicomotorio in armonia con lo sviluppo della personalità;
– valorizzazione di esperienze formative di gruppo e di partecipazione sociale.

Laboratorio grafico/pittorico
Questo laboratorio rappresenta per il bambino la possibilità di scoprire il linguaggio dei colori, faci-
litando l’espressione dei propri stati d’animo e del mondo interiore fantastico. All’interno di questo
laboratorio il bambino sperimenta tecniche diverse (pastelli, digito-pittura, matite, pennarelli, ecc.)
avendo la possibilità di creare forme e contenuti ideativi nuovi.
Gli obiettivi che si prefigge il laboratorio sono:
– arricchire il potenziale creativo;
– favorire l’esplorazione interiore;
– creare una comunicazione attraverso canali non verbali.
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Laboratorio di manualità
In questo laboratorio il bambino impara attraverso l’uso di vari tipi di materiali (pasta di sale, carta
crespa, carta stoffa, plastilina, didò, ecc.) a manipolare e modellare la materia, consentendogli di
creare immagini concrete sentite come prodotto della propria immaginazione. Gli obiettivi prefis-
sati sono:
– contatto con la materia;
– coordinazione oculo-manuale;
– motricità fine (coordinazione delle braccia, mani e dita).

Laboratorio teatrale
Il laboratorio di drammatizzazione è caratterizzato da due aspetti fondamentali: da un lato, permet-
te al bambino di sperimentare se stesso in uno spazio strutturato, aiutandolo ad acquisire consape-
volezza del proprio corpo e ad utilizzarlo come ulteriore mezzo di espressione dei propri vissuti ed
emozioni; dall’altro, la possibilità di assumere vari ruoli, riuscendo a giocare, agire, impersonare e
rappresentare, calandosi nel mondo che lo circonda, prendendo conoscenza dei sentimenti e delle
fantasie proprie ed altrui.
Gli obiettivi prefissati sono:
– espressione dei vissuti interiori;
– sviluppo dell’immaginazione;
– comprensione di sé, del proprio corpo e dei ruoli sociali.

Laboratorio musicale
Il laboratorio musicale propone di giocare e divertirsi con l’universo sonoro. Partendo dall’ascolto
di suoni naturali del mondo circostante e del proprio corpo (pioggia, vento, voce, mani e piedini),
si passerà alla riproduzione ritmica di tali suoni (battito delle mani, percussione di oggetti di uso
quotidiano), sino a giungere alla produzione creativa e fantastica di strumenti musicali, realizzati
dagli stessi bambini che se ne serviranno per l’attuazione di un percorso sonoro.
Gli obiettivi prefissati sono:
– sviluppare capacità di ascolto e interazione di gruppo;
– conoscenza degli elementi ritmici;
– coordinazione motoria.
Un importante momento del laboratorio musicale verrà dedicato alla “musica linguistica” per im-
parare la diversità delle intonazioni, delle musiche e dei ritmi della propria lingua madre e della
lingua inglese.

Laboratorio “impaginiamo la fantasia”


Lo scopo di questo laboratorio è di far nascere e crescere l’interesse e l’amore per i libri e la lettura,
vedere come sono fatti, inventarli, costruirli con semplici tecniche di animazione, con materiali
differenti, proponendo il libro come strumento ludico di apprendimento. Tale laboratorio consiste
nell’inventare una storia e costruire con le proprie mani un libro animato.
Gli obiettivi prefissati sono:
– invito alla lettura;
– espressione dei vissuti interiori;
– sviluppo dell’immaginazione e della creatività.
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1.5.2 Scuola secondaria di primo e secondo grado


Nella scuola secondaria sia di primo che di secondo grado si registrano una finalità cono-
scitiva disciplinare e un ruolo educativo della scuola che accompagna lo sviluppo dell’ado-
lescente e dell’adulto. Non manca inoltre una forte tendenza all’uso di metodologie e tec-
niche volte all’acquisizione di conoscenze specifiche e abilità relative al mercato del lavoro,
nonché allo sviluppo di una capacità trasversale di imparare a imparare. Pertanto metodolo-
gie e tecniche trattate nei precedenti paragrafi sono di largo uso con una preferenza verso il
role play, l’analisi di caso e le esercitazioni.
Si segnalano due ulteriori punti di attenzione:
– il primo è l’uso decisamente pratico che viene fatto nella scuola secondaria della didat-
tica laboratoriale. Tra le diverse tipologie presenti nella scuola secondaria vi sono labo-
ratori linguistici, laboratori informatici e quelli multimediali. In ambito scientifico, tecni-
co e professionale sono presenti i diversi laboratori specialistici (di chimica, fisica, mac-
chine utensili...), quelli di ricerca e quelli sperimentali. Negli indirizzi artistici, umanistici
e sociali sono laboratori gli atelier artistici, teatrali e musicali. Ovviamente ogni disciplina
può essere insegnata secondo metodologie laboratoriali e l’ambiente in cui si svolge l’a-
zione formativa è fondamentale;
– il secondo riguarda l’uso di una metodologia didattica educativa di esclusivo uso nella se-
condaria in quanto utilizzabile solo nel target adolescenti: la peer education.

LA PEER EDUCATION COME STRUMENTO EDUCATIVO

Il termine inglese peer education – letteralmente educazione alla pari – è ben noto a livello inter-
nazionale ma è tuttavia di difficile traduzione in altre lingue soprattutto a causa della presenza del
termine peer (pari, coetaneo). Questo termine fu coniato in Gran Bretagna per designare l’apparte-
nenza ad uno dei cinque gradi di nobiltà. Nel suo moderno utilizzo, indica persona della medesima
estrazione sociale, in particolare coetanei, dello stesso grado o status.
Pertanto il termine peer education indica una forma di educazione tra pari o tra persone che ap-
partengono al medesimo gruppo o che abbiano la stessa estrazione sociale, i quali instaurano un
rapporto di educazione reciproca.
Volendo utilizzare la più semplice delle definizioni, la peer education è la “comunicazione mirata fra co-
etaneo e coetaneo”. È un metodo in base al quale un piccolo gruppo di “pari”, numericamente inferiore
nell’ambito del gruppo d’appartenenza e che fa parte di un determinato contesto ambientale, opera
attivamente per informare ed influenzare il resto, numericamente maggioritario, di quel gruppo.
Questa tecnica, che si è molto evoluta negli anni e ha assunto oggi un diverso valore educativo,
risale ai primi anni del 1800 grazie al monitor system inglese: gli alunni delle scuole imparavano a
tenere lezioni al cospetto di altre scolaresche su argomenti che avevano già appreso. Tale metodo
veniva utilizzato principalmente per ragioni di ordine economico perché il ricorso agli alunni era
indubbiamente meno oneroso dell’utilizzo di docenti professionisti. Venendo ai nostri tempi negli
anni ’60 il “tutoraggio” e l’insegnamento tra coetanei ha vissuto una vera e propria fase di rinascita.
L’obiettivo era di aiutare gli allievi d’età leggermente inferiore, sostenendoli negli argomenti ogget-
to d’insegnamento, con notevoli vantaggi psicologici sia per i tutor che per gli allievi.
Gli psicologi esperti dell’educazione e della crescita, applicando le teorie di Piaget, ritenevano che
le interazioni tra pari che avvenivano durante l’apprendimento fossero un utile strumento per dare
l’avvio ai processi di ricostruzione intellettiva nel bambino. Si basavano sul concetto secondo cui i
giovani, che ricorrono al medesimo linguaggio, attuano modalità relazionali molto dirette tra loro e
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sono inoltre motivati a ricomporre le differenze tra se stessi e gli altri giovani. I giovani inoltre sono
molto più intimiditi dalla comunicazione adulto-adolescente che non da uno scambio comunicativo
informale fra loro, il quale peraltro sembra avere una maggiore capacità d’influenza reciproca.
Secondo Vygotskij, i giovani apprendono interiorizzando i processi di pensiero (cognitivi) che sono
impliciti nelle loro interazioni; queste, dunque, vanno ad agire sul pensiero individuale introdu-
cendo nuovi pattern cognitivi, che contribuiscono alla strutturazione delle possibili risposte alle
sollecitazioni esterne.
Sullivan riteneva che il peer tutoring (attività tutoriali tra pari) fosse un metodo per consentire ai
soggetti di acquisire informazioni e sviluppare strategie cognitive efficaci tramite un processo di
condivisione di pensieri, assunzione d’impegni reciproci e negoziazione di compromessi che nel
contempo consentiva di mantenere un atteggiamento d’apertura nei confronti di nuove idee. In
particolare, attraverso il processo di tutoraggio tra coetanei, i giovani possono apprendere le stra-
tegie necessarie per assolvere a compiti particolari.
Sono stati condotti numerosi studi scientifici che confermano i benefici insiti nel peer tutoring, ma
le indagini condotte di recente hanno concluso che tale approccio è maggiormente proficuo quan-
do vi sia il sostegno di tutor.
Si è inoltre riscontrato che il peer tutoring è utile quale:
– contributo all’apprendimento creativo;
– aiuto al superamento di problemi motivazionali negli allievi che hanno problemi di rendimento;
– sostegno nella costruzione dell’autostima e come esperienza sociale costruttiva;
– metodo per acquisire e sviluppare le life skills.
Capitolo 2
Come organizzare e gestire
una lezione efficace

2.1 Lezione interattiva versus lezione classica


Nella scuola, nei suoi vari gradi e con differenti modalità, la lezione ha sempre trovato il
suo contesto applicativo per eccellenza. Sono stati molti gli interventi, specie in sede peda-
gogica, legislativa, didattica, a sollecitare approcci alternativi alla lezione classica, ma soprat-
tutto a ridefinirne la modalità, a sollecitare l’uso di tecniche e approcci, sussidi (tecnologici
e didattici) per rendere la lezione sempre più dinamica ed efficace.
La lezione classica, ovvero quella che comunemente viene definita frontale, infatti è
spesso organizzata come una comunicazione “ad una via”, le cui caratteristiche fondamen-
tali sono:
– esposizione prevalentemente od esclusivamente verbale, con scarso impiego di suppor-
ti visivi ed esercitativi;
– esposizione continuata, fino alla conclusione del discorso, con spazio finale riservato alle
domande di chiarimento dei partecipanti.
Eppure la lezione classica, nata nel Medio Evo, non è sempre stata cosi. Originariamen-
te rappresentava una forma di confronto problematico e dialettico con gli insegnanti: gli stu-
denti innanzitutto studiavano accuratamente il testo del maestro (magister), poi veniva-
no chiariti i punti dubbi con gli assistenti del magister, infine venivano discusse le opinioni
del maestro, e quelle contrarie, all’interno di un fitto ed animato dibattito. Anzi, il dibattito
era proprio il momento centrale dell’apprendimento e rappresentava il vero e proprio cuo-
re della lezione.
Si trattava di un metodo didattico molto più vicino agli odierni metodi “attivi” di quan-
to le abitudini moderne ed il consueto modo di condurre una lezione facciano immagi-
nare.
Durante la fase di sviluppo dei moderni modelli pedagogici dell’Ottocento ci si rese con-
to che tale metodo didattico presentava alcuni inconvenienti e scarsi vantaggi soprattutto
quando impiegato con bambini. Si cercò di modificare la struttura della lezione-conferenza
per renderla più adeguata alle necessità psicologiche dei discenti. Nacquero in tal modo mo-
delli più dinamici del fare lezione che si contrapponevano al modello solo verbale della le-
zione classica, modelli cioè che cercavano di basare la didattica sullo sviluppo psicologico del
discente e sul suo modo di apprendere.
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Un esempio di tali modelli è quello messo a punto da J.G. Umstadtt, autore del famoso
Secondary school teaching.
Egli divide l’insegnamento in quattro momenti fondamentali:
– introduzione, durante la quale il docente presenta l’argomento che costituirà l’oggetto
dell’insegnamento;
– esecuzione (study work period), che occupa più della metà del tempo totale e che con-
siste in un lavoro di ricerca individuale e/o di gruppo, o in una discussione, o comunque
in un’attività che permetta al discente di acquisire padronanza con la materia in esame;
– integrazione, durante la quale i lavori dei singoli individui o gruppi vengono presentati
all’intera classe al fine di poterne sintetizzare i passi più significativi rispetto all’oggetto
di studio;
– valutazione complessiva dell’attività svolta e pianificazione dei successivi passi da com-
piere.
Varianti più recenti sono rappresentate da metodologie in larghissima misura basate sul-
la ricerca e sul lavoro svolto dagli allievi stessi, mediante una ulteriore enfatizzazione della
seconda fase del modello precedente (esecuzione).
Ma anche questi metodi, peraltro ormai spesso utilizzati nelle scuole dell’obbligo, non
possono esaurire tutta la didattica; troppe cose verrebbero lasciate al caso e l’apprendimen-
to della materia in esame risulterebbe troppo frammentario.
Occorre perciò trovare una modalità adeguata, un modo efficace per realizzare la lezio-
ne classica, minimizzandone gli inconvenienti e sfruttandone i lati positivi, tenendo nel con-
tempo presenti le esigenze economiche ed organizzative delle aziende. Inoltre, a seguito
sia delle sperimentazioni avviate nella scuola sia del processo normativo che ha caratteriz-
zato le recenti riforme è opportuno – come vedremo – che la lezione venga organizzata an-
che in base alle necessità sottolineate dalla programmazione didattica di tipo modulare e
alla corrispondenza con gli obiettivi formativi. La programmazione didattica ha infatti spin-
to la progettazione di una lezione a sviluppare i temi della multidisciplinarietà e delle attivi-
tà di rinforzo.

2.2 Gli obiettivi della lezione


Prima di esaminare nel dettaglio le modifiche proposte per migliorare la lezione classi-
ca, è necessario chiarire quali sono gli obiettivi didattici che essa può raggiungere e quali in-
vece no.
La classificazione più diffusa suddivide gli obiettivi formativi in:
– sapere, e cioè modifica delle conoscenze;
– saper fare, e cioè modifica delle capacità;
– saper essere, e cioè modifica degli atteggiamenti.
La definizione degli obiettivi formativi è un processo troppo importante per poter esse-
re ricondotta a tre sole categorie, tanto più che, mentre le prime due (sapere e saper fare)
sembrano essere agevolmente comprensibili ed hanno il solo difetto di essere troppo am-
pie, la terza (saper essere) risulta quanto meno problematica.
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Per obiettivi didattici è più utile una scomposizione e classificazione di obiettivi specifici
di apprendimento che il discente si impegna a raggiungere con l’attività didattica.
Più sono definiti gli obiettivi, più sono formulati in modo chiaro, esplicito, concreto, mag-
giore è la probabilità di riuscire a progettare con tranquillità la lezione, scegliere i metodi di-
dattici, il materiale di supporto. La definizione chiara degli obiettivi conduce anche ad ave-
re un rapporto chiaro con gli studenti: in sede di contratto formativo è possibile esplicitare
gli scopi precisi della lezione con grandi vantaggi sul clima d’aula complessivo, sulla disponi-
bilità dei discenti e quindi sull’apprendimento finale, nonché valutare i risultati, giacché più
gli obiettivi sono formulati in modo preciso, più sarà agevole valutarne il raggiungimento.
Molte sono le teorie che hanno cercato di catalogare gli obiettivi dell’apprendimento,
ma è forse possibile limitarsi alle seguenti cinque categorie:
– acquisizione di conoscenze teoriche;
– acquisizione di capacità operative;
– acquisizione di capacità intellettuali di fare e risolvere;
– acquisizione di capacità intellettuali di comprensione di fenomeni complessi;
– acquisizione (o modifica) di comportamenti interpersonali.
Il maggior vantaggio di questa classificazione degli obiettivi risiede nella relativa facilità con
cui ciascun obiettivo può dar luogo alla successiva progettazione della lezione. Si possono in-
fatti stabilire alcune coerenze tra obiettivi e metodi didattici quali, ad esempio, le seguenti:
– acquisizione di conoscenze teoriche: questo tipo di obiettivi può essere raggiunto strut-
turando unità didattiche articolate in lezioni a cui far seguire esercitazioni nozionistiche
di rinforzo e consolidamento delle conoscenze acquisite;
– acquisizione di capacità operative; in questo caso la strutturazione della didattica dovrà
prevedere esercitazioni pratiche, precedute e/o seguite da brevi lezioni introduttive o di
approfondimento;
– acquisizione di capacità intellettuali di fare e risolvere: in questo caso sarà importante
prevedere soprattutto esercitazioni di tipo problem-solving, precedute da lezioni teoriche;
– acquisizione di capacità intellettuali di comprensione di fenomeni complessi: per obiet-
tivi di natura così ampia la strumentazione d’aula più indicata è costituita dal metodo dei
casi, preceduto o seguito da lezioni integrative;
– acquisizione o modifica dei comportamenti: in questo caso occorrerà prevedere unità
didattiche basate sostanzialmente su role-playing preceduti e seguiti da lezioni teoriche.

COMPETENZA

Ad ogni disciplina scolastica si attribuisce lo scopo di favorire, negli alunni, l’acquisizione di cono-
scenze e competenze specifiche; competenza è ciò che una persona sa fare grazie alle conoscenze
acquisite in un particolare ambito disciplinare, e sa utilizzare in contesti nuovi e diversi.

La lezione, sia nella forma classica, sia nelle forme più recenti ed attive, può essere le-
gittimamente impiegata solo per il raggiungimento degli obiettivi del primo tipo, e cioè solo
per migliorare le conoscenze teoriche. In tutti gli altri casi essa rappresenta un supporto od
un completamento di altri metodi didattici più adeguati.
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Inoltre, anche in presenza di obiettivi didattici appartenenti esclusivamente al primo


tipo la lezione classica da sola rischia di non essere sufficiente, ma deve essere comple-
tata da una serie di esercitazioni che permettano di consolidare l’apprendimento e di af-
frontare, e risolvere, gli inevitabili dubbi che con la verifica pratica delle nozioni teoriche
possono emergere.
Si ricorda, inoltre, che la programmazione didattica in atto nelle nostre scuole prevede
anche una dettagliata elencazione in fase di progettazione delle lezioni degli obiettivi speci-
fici disciplinari.
Gli obiettivi specifici di apprendimento sono espressi in termini di padronanza (cono-
scenza e comprensione) e in termini di competenza (operativa, lessicale, espressiva, di ana-
lisi, di sintesi, di autonoma produzione, di autonoma valutazione, ecc.) e verranno trattati
successivamente.

2.3 Inconvenienti e vantaggi della lezione classica


Molti sono i pedagogisti e i teorici dell’apprendimento che criticano la lezione. Analizzia-
mo allora i maggiori inconvenienti della lezione classica:
a) la lezione quando è efficace incrementa le conoscenze mediante un processo di appren-
dimento basato sul modello verticale docente-discente. Il docente che padroneggia la
disciplina la trasmette così come la conosce ed i discenti quindi apprenderanno, nella mi-
gliore delle ipotesi, solo quello che il docente conosce. La lezione differisce quindi radi-
calmente da altri metodi didattici, quali invece il metodo dei casi o il role-playing, che in-
vece permettono di migliorare le proprie conoscenze mediante un’attività di ricerca svol-
ta dai partecipanti stessi (metodo dei casi, ricerca azione di cui abbiamo già parlato) o
mediante l’azione diretta propria o altrui (role playing);
b) ascoltare è un’attività molto faticosa: è sufficiente che il docente sia un po’ dispersivo o
non totalmente chiaro in qualche parte del suo discorso per far sì che l’ascoltatore si de-
concentri. Il risultato è un apprendimento drasticamente ridotto. Ricordiamo inoltre che
esiste una curva decrescente che descrive i livelli di attenzione secondo cui l’attenzione
tende fisiologicamente a diminuire se non vi sono altri stimoli;
c) iI solo ascolto comporta un grado di memorizzazione bassa e labile nel tempo. Quindi,
in presenza di un docente abile che riesce a mantenere costantemente alta l’attenzione
dell’uditorio, questo comprende e segue senza problemi, ma poi, a distanza di qualche
tempo, i concetti ricordati saranno molto pochi. Quindi, anche in caso di docenze bril-
lanti, l’apprendimento a medio-lungo termine rischia di essere modesto. All’opposto, ap-
prendimenti che utilizzano altri canali quali per esempio la percezione visiva tendono a
far sì che concetti e nozioni siano più facilmente memorizzabili;
d) la posizione passiva dell’uditorio rende molto difficile capire se e fino a che punto l’e-
sposizione stia ottenendo la dovuta attenzione e comprensione: “lo sguardo attento” di
chi ascolta non è certo un feedback sufficiente per valutare l’adeguatezza della docenza
all’uditorio. Risulta quindi difficile capire se e in che modo occorra modificare l’esposizio-
ne per renderla più efficace.
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La lezione come strumento didattico rimane uno dei più diffusi perché evidentemente vi
sono anche dei vantaggi che possono essere sintetizzati:
a) la lezione è il metodo didattico in assoluto più efficiente: consente cioè di trattare un ele-
vato numero di argomenti in un tempo molto più contenuto rispetto a tutti gli altri stru-
menti didattici;
b) qualche volta la lezione è l’unico strumento didattico utilizzabile a causa della eccessiva
numerosità delle classi. Dal momento che la condizione di insegnamento ottimale con
l’alternanza di varie tecniche dovrebbe essere svolta in un gruppo di massimo 15 – che
non è quella che si registra nelle nostre scuole – è necessario gestire gruppi numerosi at-
traverso la classica lezione. La maggioranza dei metodi attivi rischia spesso di non essere
facilmente applicabile data la numerosità delle classi;
c) vi è anche un importante elemento di aspettativa degli studenti di cui tener conto.
Infatti le consuetudini scolastiche hanno stabilizzato un modello didattico in base al qua-
le coloro che entrano in un’aula si aspettano, e spesso richiedono fermamente, che il do-
cente faccia loro una lezione sugli argomenti in programma. Ogni comportamento del
docente in direzione contraria a tali aspettative può ingenerare, almeno inizialmente, re-
azioni negative e resistenze psicologiche qualche volta molto forti.
Può perciò, in queste situazioni, essere necessario iniziare il corso proprio con una o più
lezioni in modo da facilitare l’inizio del rapporto, e passare a strumenti didattici più atti-
vi solo successivamente;
d) vi è inoltre un fattore molto importante da tener presente quando si esaminano inconve-
nienti e vantaggi della lezione: essa non può essere sostituita da nessun altro strumento
didattico in tutti i casi in cui si ha per obiettivo la trasmissione delle nozioni di base di una
certa disciplina. Si tratterà perciò di non valutare se la lezione è da utilizzarsi o meno, ma
solo come realizzarla al meglio, visto che, in questi casi, non vi sono alternative praticabili;
e) vi è infine un ultimo vantaggio, questa volta a beneficio del docente: la lezione, soprat-
tutto quella classica, è lo strumento didattico che richiede meno fatica in fase prelimina-
re e che risulta più comodo, più sicuro da gestire in aula.

2.4 Proposta di un modello per l’organizzazione della lezione


In considerazione del fatto che, pur con tutti i gravi inconvenienti visti nel paragrafo pre-
cedente, la lezione continua ad essere quotidianamente utilizzata, sembra opportuno cer-
care di individuare il maggior numero di accorgimenti e di migliorie da introdurre in vista di
un contenimento degli svantaggi.
Nei paragrafi successivi si elencheranno una serie di principi da adottare in sede di pre-
parazione e di successiva gestione della lezione; in questo paragrafo si propone invece uno
schema complessivo.
Lo schema proposto vede la lezione articolarsi nelle seguenti fasi:
a) presentazione dell’argomento e prime informazioni teoriche di base;
b) domanda-stimolo all’aula;
c) discussione;
53

d) esposizione delle successive informazioni teoriche;


e) riepilogo conclusivo.
Esaminiamo ora in dettaglio le singole fasi, con l’avvertenza che anche questo schema
base rappresenta solo un’indicazione di massima, da adeguare in modo flessibile e creativo
alle specifiche situazioni d’aula.

1. Presentazione dell’argomento e delle prime informazioni teoriche di base


Si tratta in pratica del classico avvio di ogni lezione, consistente innanzitutto nello spie-
gare l’oggetto e lo scopo didattico della lezione e nell’incominciare a presentare alcune del-
le nozioni di base sull’argomento stesso.

2. Domanda-stimolo all’aula
Si tratta di sollecitare l’aula ad entrare immediatamente in rapporto dialettico col docen-
te in modo da rendere, da subito, minime le probabilità di un ascolto passivo, e perciò poco
proficuo.
L’esatta natura dello stimolo – che può essere rappresentato dalla richiesta di racconta-
re le proprie esperienze su quel tema, o da domande provocatorie, o da richiesta di pareri
soggettivi – va naturalmente calibrata a seconda dell’argomento, del livello dei discenti e del
tipo di tesi che poi, nello sviluppo successivo della lezione, si intende sostenere.
Inoltre, la domanda deve essere tale da consentire a tutti di rispondere, deve cioè far
leva su conoscenze od esperienze sicuramente possedute dai partecipanti.
La domanda-stimolo serve a coinvolgere e stimolare il gruppo e allo stesso tempo forni-
sce preziose informazioni al docente circa il livello di conoscenza iniziale, competenza, cu-
riosità verso l’argomento trattato.
Ed infine consente ai partecipanti ed al docente di collegare le successive nozioni teori-
che alle conoscenze pregresse dei partecipanti stessi, con una indubbia facilitazione dell’ap-
prendimento.

3. Discussione
A volte il tipo di domanda-stimolo proposto al gruppo richiede non solo una semplice
raccolta delle risposte, ma una vera e propria breve discussione, magari solo per chiarire i
termini impiegati da vari partecipanti, o forse anche proprio per esplicitare e confrontare le
tesi proposte. In questa fase è bene che il docente utilizzi i consueti metodi della gestione
delle riunioni di discussione evitando di formulare tesi personali che invece emergeranno
dalla successiva esposizione.

4. Esposizione delle successive nozioni teoriche


È questa la fase centrale della lezione e, salvo quanto esposto nei capitoli successivi, a li-
vello di struttura si può fin da ora segnalare la necessità di scomporre il contributo teorico
complessivo in brevi sotto-unità di circa 10 minuti; dopo ognuna di esse è importante atti-
vare nuovamente il gruppo sia chiedendo se vi sono domande, sia rilanciando in modo più
aperto, sollecitando cioè l’espressione di accordi, disaccordi, esperienze personali, ecc. In
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questa fase di esposizione teorica, si dovrebbe sfruttare al massimo il materiale emerso a


seguito della domanda-stimolo, al fine anche di valorizzare il contributo dei partecipanti e
di “personalizzare” la lezione.

CONTENUTI E TEMPI DELLA LEZIONE


Introduzione (5-15 minuti)
Domande stimolo (5-10 minuti)
Discussione (15-20 minuti)
Esposizione (30-40 minuti)
Riepilogo (5-10 minuti)

2.5 La preparazione della lezione


La prima regola per poter realizzare delle lezioni efficaci è quella di prepararsi. Infatti,
nessuno è tanto bravo da poter essere sicuro di riuscire a gestire una sessione d’aula peda-
gogicamente efficace senza dedicare preliminarmente un tempo adeguato alla preparazio-
ne. Forse qualche persona, particolarmente dotata di una forte comunicativa, riesce anche
senza bisogno di molta preparazione ad interessare l’uditorio, a catturare l’attenzione del-
le persone ed a far sì che esse escano dal seminario con positivi sentimenti di soddisfazio-
ne. Riuscire ad interessare è però solo una condizione necessaria, ma non certo sufficiente
per avere la ragionevole sicurezza che chi ci ascolta abbia effettivamente appreso ciò che gli
obiettivi della lezione prevedevano.
Perciò la preparazione è sempre necessaria, anche quando la materia da trattare non è
affatto nuova. Anzi, il rischio di cadere nella trappola psicologica di sottovalutare l’importan-
za della preparazione è maggiore forse proprio per coloro che conoscono la materia. Par-
tendo dal falso presupposto che “chi sa una cosa, la sa anche insegnare”, colui che è esper-
to tende spesso a sottovalutare grandemente la necessità di riorganizzare le sue conoscen-
ze in modo didatticamente fruibile.
Occorre sempre dedicare un tempo per riprogettare la lezione, in tutto od in parte, alla
luce sia della passata esperienza, sia del nuovo contesto in cui si andrà ad operare. In questo
modo si riuscirà non solo a fare una “bella” lezione, ma anche ad insegnare.
Il primo passo da compiere nella progettazione della lezione è definire gli obiettivi didat-
tici che si intendono raggiungere. Il docente deve esplicitare a se stesso innanzitutto gli ar-
gomenti chiave che intende trattare, cioè quei contenuti che ritiene costituiscano gli ogget-
ti principali dell’apprendimento. In altre parole, si potrebbe dire che occorre decidere quali
cose si vuole che le persone ricordino a distanza di tempo.
La scelta degli argomenti chiave, dei messaggi fondamentali della lezione, rappresenta
la base per effettuare poi quella suddivisione della lezione stessa in sottoparti. Ovviamente
occorrerà, in alcuni casi, aggregare tra loro più messaggi, onde poter costruire piccole unità
didattiche abbastanza autonome e di senso compiuto. È proprio nel compiere questa ope-
razione di scelta che ci si scontra sovente con il grande problema del determinare quante
cose sia possibile insegnare nel tempo assegnato per una data lezione. Se si tratta della pri-
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ma volta che si realizza quella certa lezione il problema del corretto bilanciamento tempo/
contenuti è pressoché irrisolvibile. Comunque la prima volta che si tiene una lezione agisco-
no sul docente due spinte psicologiche che, spessissimo, lo portano ad eccedere notevol-
mente nei contenuti, e cioè:
– il docente vive le sue prime lezioni su un nuovo argomento con maggiore insicurezza dell’u-
suale e tende a rassicurarsi preparando molto materiale da inserire nella sua trattazione;
– in secondo luogo, chi conosce una certa materia cade sovente nella tentazione, un po’
perversa, del “questo non si può non dire: è troppo importante!”.
Per dimensionare correttamente i contenuti rispetto al tempo disponibile sfortunata-
mente non esistono parametri quantitativi che ci aiutino, per cui l’unica strada possibile
sembra quella empirica consistente nel fare una prova preliminare, tenendo però in consi-
derazione che nella situazione d’aula necessiterà un 30-60% in più del tempo a causa delle
domande e degli interventi dei partecipanti.

2.6 Conoscere i partecipanti


È ovvio che il docente, quando entra in aula, deve sapere chi sono i suoi studenti, tanto
più che le medesime informazioni sono anche necessarie per progettare non solo la lezio-
ne, ma l’intera didattica. Generalmente i dati che sono già in possesso del docente sono l’e-
tà determinata dall’appartenenza a quella classe. Altri dati che invece vanno raccolti sono:
– livello di conoscenza della materia che costituisce oggetto dell’insegnamento;
– aspettative e livello generale di motivazione;
– generale clima d’aula.
In base all’insieme delle informazioni raccolte, si può precedere alla strutturazione dei
contenuti della lezione, vale a dire alla preparazione del materiale didattico vero e proprio.
Gli elementi della didattica influenzati dalle caratteristiche dei partecipanti sono:
– il punto di partenza della lezione e la successione espositiva;
– il ritmo complessivo della lezione, più o meno sostenuto a seconda della conoscenza
dell’argomento, della motivazione positiva, della consuetudine a stare in aula;
– gli esempi ed il linguaggio da adottare, anch’essi in funzione dei medesimi parametri;
– i supporti didattici e tecnologici da impiegare.
È importante sottolineare che nella progettazione di una lezione è opportuno predispor-
re schede di verifica dei livelli di conoscenza iniziale degli argomenti che verranno trattati dal
docente. Conoscenze e competenze pregresse che costituiscono i prerequisiti del percorso
devono essere rilevati dal docente attraverso dei test di vario tipo, per esempio struttura-
ti con domanda e risposta a scelta multipla oppure semistrutturati con domanda e risposta
aperta o infine con una domanda e risposta a scelta tra vero o falso. Il risultato generale dei
test costituisce il livello medio di conoscenza che è il punto di riferimento dell’organizzazio-
ne e sviluppo degli argomenti, la focalizzazione delle attività di rinforzo.
In alternativa al test d’ingresso il docente può utilizzare attività di verifica meno struttu-
rate, come per esempio la formulazione di alcune domande sugli argomenti e una discus-
sione di gruppo.
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Esempio di questionario semistrutturato per l’insegnamento del diritto al secondo anno di un


istituto tecnico
1. Che cosa è l’ordinamento giuridico?
2. Qual è la differenza tra norme sociali e norme giuridiche?
3. Quali sono le caratteristiche della norma giuridica?
4. Come può essere la sanzione e quali sono le sue funzioni?
5. Quali sono nell’ordinamento italiano gli organi costituzionali e gli organi di rilievo costituzionale?
6. Quali sono le fonti del diritto? Partendo dalla legge fondamentale dello Stato ordina le fonti
secondo il criterio gerarchico.
7. Che differenza c’è tra il decreto legge ed il decreto legislativo?
8. Quali sono i tre principi che risolvono i conflitti tra le norme?
9. Che significa la parola “abrogazione”?
10. Che significa “irretroattività della norma”?

2.7 La programmazione dei contenuti


L’ordine con il quale esporre i vari argomenti che costituiscono l’obiettivo didattico non è
affatto un elemento secondario per la miglior efficacia della lezione.
Ad esempio, coloro che conoscono a fondo una materia tendono molto spesso ed in
modo quasi automatico a costruire la lezione secondo una successione espositiva di tipo de-
duttivo molto simile a quella riscontrabile nella maggior parte dei manuali, e cioè:
– premessa;
– inquadramento storico;
– principi generali della materia (definizione, ecc.);
– sviluppo di ciascuno di essi in sotto-insiemi sempre più analitici;
– esemplificazioni e/o applicazioni.
Si tratta di una esposizione molto interessante per chi già conosce un po’ la materia e
desidera approfondirla o ripassarla, ma poco adatta a chi invece si avvicina per la prima
volta all’argomento. Viceversa, chi non conosce nulla dell’argomento in esame farà mol-
ta fatica a seguire tutta la prima parte della docenza: anzi, è probabile che reagirà nega-
tivamente ad ogni tipo di pur intelligente premessa o definizione od altro esordio “diffici-
le” e teorico.
Per poter operare delle scelte metodologiche è necessario aprire una breve digressione
e ricollegarsi alla teorizzazione compiuta da D.A. Kolb secondo cui il processo di apprendi-
mento è riconducibile a quattro fasi principali:
– le esperienze concrete compiute dalla persona, che rappresentano il materiale di base
per ogni processo di apprendimento;
– l’osservazione e le riflessioni che il singolo individuo compie a valle di un insieme signi-
ficativo di esperienze;
– la formulazione di concetti astratti che cercano di spiegare le esperienze concrete e di
inquadrarle all’interno di una teoria esplicativa;
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– l’utilizzo delle teorizzazioni per risolvere nuovi problemi concreti in parte differenti da
quelli che hanno dato luogo alla teorizzazione ma abbastanza simili da suggerirne la spe-
rimentazione (il che dà luogo a nuove esperienze, ed il ciclo riprende dall’inizio).
Si tratta di un processo circolare che tutti noi percorriamo nel nostro personale processo
di apprendimento e che potrebbe essere anche descritto con la particolare attitudine all’ap-
prendimento che, in ciascuna fase, viene impiegata:
– nella prima fase viene impiegata soprattutto l’attitudine alla concretezza;
– nella seconda, all’osservazione riflessiva;
– nella terza, alla concettualizzazione astratta;
– nella quarta, all’azione.
Kolb sottolinea che ciascuno ha una sua personale predilezione per l’una o l’altra del-
le quattro citate attitudini e che quindi essa diventa, per così dire, la “porta d’ingresso” che
contraddistingue lo stile personale di apprendimento.
In chiave didattica, ciò comporterebbe la necessità di impostare lezioni secondo una suc-
cessione pedagogica congruente con lo stile d’apprendimento dei discenti. Ma dato che non
è possibile conoscere a priori lo stile d’apprendimento personale di ciascun partecipante,
è necessario formulare delle ipotesi, tenendo conto di quei fattori che più probabilmente
condizionano lo stile d’apprendimento stesso. Per esempio iI livello presunto di conoscen-
za della materia è un fattore influenzante: a parità d’altre condizioni, più le persone cono-
scono una materia, più si aspettano e desiderano un approccio teorico di buon livello, che
dia già per scontata una larga massa di informazioni di base e che sottintenda quindi espe-
rienze e riflessioni precedenti. Sarà opportuno iniziare dalle concettualizzazioni o addirittu-
ra dai problemi ancora aperti (rispettivamente 3a e 4a fase secondo la teorizzazione di Kolb).
Viceversa chi non conosce quasi nulla della materia necessita di un approccio più progressi-
vo che cerchi di compensare la mancanza di esperienze precedenti e di riflessioni su quell’ar-
gomento: sarà quindi opportuno iniziare proprio dalla 1a fase (esperienza concreta) facen-
do esempi semplici, mostrando alcune relazioni di base, per poi passare a concettualizzare.
Un fattore altrettanto importante è dato dalla percezione di concreto vantaggio che gli stu-
denti hanno nell’apprendere quei determinati contenuti. Per esempio, scoprire che la cono-
scenza di determinati meccanismi di tutela del diritto ha riscontro nella loro vita quotidiana.

2.8 Stile d’insegnamento


Sicuramente non siamo tutti uguali, ed anche rispetto alla capacità di insegnare vi sono
differenze individuali, a livello di comportamento spontaneo: c’è chi, in modo immediato
e naturale, sa porgere le conoscenze con uno stile tale da renderle di per sé comprensibili,
fruibili, gradevoli, e chi invece, a parità di conoscenze possedute, si rapporta con gli altri in
modo più “duro”, più monotono e quindi meno efficace.
Tenendo conto di queste indubitabili differenze individuali, ci si può chiedere se vi è qual-
che utilità nell’esaminare i comportamenti più adeguati per un docente:
– l’atteggiamento di fondo di un individuo nei confronti degli altri è da considerare, alme-
no nel breve periodo, come un dato non modificabile;
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– ciò che sicuramente può essere modificato è un insieme di micro-comportamenti e di


tecniche che, nel loro insieme, migliorano l’impatto complessivo di quel singolo e speci-
fico individuo nei confronti di un uditorio.
Docenti in parte si nasce ed in parte si diventa. La condizione preliminare, necessaria an-
che se non sufficiente, cui deve assolvere chi vuole insegnare qualcosa a qualcuno è senza
dubbio quella di riuscire a suscitare e mantenere desta l’attenzione dell’ascoltatore: senza
un buon grado di attenzione è pressoché impossibile che una esposizione, pur corretta ed
interessante sul piano dei contenuti, abbia qualche probabilità di essere realmente ascolta-
ta e, quindi, memorizzata ed appresa. Esistono vari modi per riuscire a mantenere alta l’at-
tenzione di chi ascolta, e nei paragrafi successivi ne vedremo alcuni tra i più facilmente adot-
tabili, ma forse l’area più importante riguarda l’insieme dei comportamenti non verbali del
docente.
Infatti le modalità comportamentali adottate dal docente, oltre a caratterizzarlo sul pia-
no più complessivo dell’atteggiamento globale, possono essere un elemento fondamentale
per la fruibilità complessiva del discorso.
Gli aspetti più importanti nell’area del non verbale a cui un docente dovrebbe porre at-
tenzione, sono i seguenti:
– comunicazione para-verbale: il tono, il ritmo, le pause, le accentuazioni sono tutti ele-
menti che, se ben utilizzati, rendono più facile all’ascoltatore seguire il discorso; occorre
evitare assolutamente di leggere gli appunti o i lucidi o testi vari, giacché la lettura inseri-
sce un elemento di monotonia che fa rapidamente scemare l’attenzione. È invece fonda-
mentale alternare il tono espositivo, inserire delle pause nel discorso, accentuare le par-
ti topiche delle frasi, fare delle sottolineature tonali delle parole chiave, ecc.;
– movimento: il docente deve stare seduto o in piedi? Questo diffusissimo dubbio non
può ricevere una risposta univoca perché troppi fattori intervengono a condizionare, nel-
le specifiche e singole situazioni, le scelte teoriche. Tendenzialmente si può dire che il
docente dovrebbe muoversi un po’ durante la lezione in modo da “spezzare” con il suo
movimento l’eventuale monotonia espositiva, e anche vigilare sull’attenzione che a volte
viene sottratta dai piccoli gruppi rumorosi che spesso si concentrano nelle ultime file dei
banchi. Il docente deve però evitare di gironzolare per l’aula o passare dietro ai parteci-
panti: questi eccessi andrebbero evitati perché rappresentano, come minimo, elementi
di distrazione, e a volte risultano persino fastidiosi, soprattutto se il docente tende ad av-
vicinarsi troppo ai partecipanti, violandone lo spazio personale;
– direzione dello sguardo: mentre espone la sua materia, il docente può provare la tentazio-
ne di fissare un punto preciso (per esempio nel vuoto, oppure in alto, oppure fuori dalla fi-
nestra, ecc.) per favorire la sua personale concentrazione; ciò però rappresenta un segna-
le non verbale che dai più viene decodificato come negativo, come tentativo di allontana-
mento e di estraneazione, in quanto lo sguardo, quasi ovunque, viene considerato come
una forma di avvicinamento all’altro, come un modo per manifestare accettazione e stima
reciproca. È preferibile che il docente guardi in faccia le persone, distribuendo lo sguardo
in modo circolare, onde non trascurare una parte o l’altra dell’aula, e soffermandosi su cia-
scun partecipante per qualche breve istante, in modo da mostrare non solo di “guardare”
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le persone, ma anche di “vederle”. Il contatto visivo è un segnale di avvicinamento, di rico-


noscimento degli altri. In secondo luogo con il contatto visivo i partecipanti ricambiano lo
sguardo e quindi, a parità d’altre condizioni, aumenta le probabilità che seguano con atten-
zione il discorso. Infine, guardare l’uditorio consente anche di cogliere dall’espressione dei
visi, dalle posture, preziosi feedback sul livello di attenzione, di interesse, di comprensione
e di stanchezza che è presente nella maggioranza delle persone: rappresenta cioè una sor-
ta di monitoraggio dell’andamento della lezione.
Come già detto, le aree sopra menzionate non esauriscono l’enorme gamma di compor-
tamenti non verbali che il docente attua durante la sua lezione; in particolare risultano qui
trascurate le categorie, assai importanti, della gestualità e della mimica facciale. Su di esse si
tornerà più avanti, giacché i loro riflessi sono non tanto sul livello di attenzione del gruppo,
quanto sul clima emotivo che viene suscitato in aula.

2.9 Il coinvolgimento del gruppo


Coinvolgere i partecipanti durante la lezione è senza dubbio uno dei modi principali per
favorire l’attenzione e l’apprendimento. Ecco una sintesi delle principali modalità impiega-
bili durante una lezione.
La prima consiste nell’usare la domanda come supporto fondamentale, come schele-
tro della lezione: di domanda in domanda il docente conduce il gruppo verso gli aspetti
che, preventivamente, ha definito essere rilevanti. È questo un metodo molto antico: è l’ar-
te della maieutica, detta anche metodo interrogativo di socratica memoria, cioè la capaci-
tà di condurre passo passo l’ascoltatore sulla strada dell’auto-comprensione della materia.
Il presupposto teorico è che “vale di più una cosa scoperta da sé che cento dette da al-
tri” e che, quindi, è opportuno che ciascuno progressivamente arrivi da solo alla costruzione
dei concetti che costituiscono le basi di quella materia perché, in tal modo, l’apprendimen-
to sarà più solido, duraturo e completo.
Sul piano operativo, la maieutica prevede come condizioni base:
– preparazione della lezione molto precisa ed alquanto onerosa (individuazione del per-
corso pedagogico più appropriato, costruzione delle domande, ecc.);
– gruppo poco numeroso, in modo che tutti possano partecipare attivamente;
– conoscenze di base dei partecipanti molto simili, per poter progredire tutti parallela-
mente;
– notevole abilità ed esperienza del docente, in sede di gestione, nell’adeguarsi all’anda-
mento del gruppo, modificando al massimo il programma precedentemente preparato.
La seconda modalità consiste ancora nel porre delle domande al gruppo durante la le-
zione, ma esclusivamente come forma di esposizione, come modo per introdurre i vari ar-
gomenti, come tecnica per focalizzare l’attenzione degli ascoltatori.
In pratica si pone la domanda e poi, dopo una brevissima pausa di silenzio, si passa all’e-
sposizione della risposta. Ovviamente le domande devono essere scelte in modo tale da ser-
vire per introdurre gli argomenti oggetto della lezione.
Quindi le domande sono poste non per avere risposte effettive da parte del gruppo
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(come nel metodo precedente), ma solo per far sì che ogni partecipante focalizzi l’attenzio-
ne su quella questione. Infatti la domanda crea una sorta di tensione mentale, attiva il pen-
siero di chi ascolta: di fronte ad una domanda, tutti, automaticamente, reagiamo con una
serie di silenziose risposte ipotetiche o con una serie di altre domande (sempre silenziose).
Anche l’ascoltatore più disattento, più sprofondato nei propri pensieri, viene vitalizzato da
una domanda posta in forma chiara e concisa.
La terza modalità utilizzabile per favorire il coinvolgimento e la partecipazione del grup-
po è rappresentata dai cosiddetti rilanci; dal chiedere, cioè, espressamente al gruppo nel
suo insieme di esprimere dei pareri, delle opinioni (anche di disaccordo), delle impressioni
su quanto si va dicendo. Le forme verbali impiegabili sono varie e dipendono dallo stile del
docente, dalla materia trattata e dal tipo di partecipanti: si va dal quasi banale, ma sempre
utile “Vi sembra tutto chiaro fin qui?” al “Qualcuno ha degli esempi personali su quest’ar-
gomento?”, ecc. Perché il rilancio abbia buone probabilità di sortire i risultati auspicati, oc-
corre che:
– il clima generale d’aula sia positivo, e cioè non vi siano fra i partecipanti più o meno la-
tenti paure di valutazione; il docente effettui il rilancio in modo reale e non solo formale,
vale a dire che lasci uno spazio di tempo sufficiente perché i partecipanti formulino men-
talmente la frase, superino quell’attimo di incertezza e di inibizione in molti presente in
situazioni pubbliche e, infine, parlino;
– inoltre, il docente deve dare precisi segnali di disponibilità al dialogo, sia sul piano non
verbale (spegnere la lavagna interattiva, guardare il gruppo, sorridere, manifestare aper-
tamente aspettativa) sia su quello verbale, e cioè ripetendo in termini diversi il rilancio.
Naturalmente la necessità di rilanci è maggiore all’inizio della lezione, giacché più avanti,
se l’inizio è stato adeguato, gli interventi dei discenti diverranno più frequenti e spontanei.
Tuttavia, in special modo durante le lezioni su argomenti un po’ aridi, resta sempre la neces-
sità di spezzare la docenza complessiva in sottoinsiemi.
L’impiego delle tecniche sopra descritte presenta però alcuni inconvenienti che val la
pena di segnalare:
– se il gruppo viene coinvolto, poi occorre in qualche modo soddisfare anche le esigenze
che manifesta, rispondere ai dubbi, permettere la discussione, il che comporta un rapido
aumento dei tempi totali: se la lezione “ad una via” richiede poniamo 30 minuti, i mede-
simi contenuti giocati a “due vie” ne portano la durata ad almeno un’ora e mezza;
– questa modalità didattica espone molto di più il docente ai rischi derivanti da eventuali
contestazioni dei contenuti che tratta e quindi occorre che egli abbia un po’ d’esperienza
d’aula, sia per poter avere la tranquillità e la sicurezza necessarie a mettersi in gioco con
il gruppo, sia per poter gestire la discussione in termini positivi, senza bloccare il gruppo
con interventi autoritari o, peggio ancora, punitivi;
– infine esiste un vincolo già ricordato: il numero massimo di partecipanti dovrebbe esse-
re intorno ai 15 soggetti.
D’altro canto, però, il coinvolgimento del gruppo consente alcuni ineguagliabili vantaggi
in merito all’efficacia complessiva della didattica, e cioè:
– mediante l’analisi del tenore del dibattito che si sviluppa dopo ogni sottoparte il docente
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è in grado di verificare il reale livello di comprensione da parte del gruppo (o, se si pre-
ferisce, il grado di chiarezza da lui impiegato nell’esporre) e quindi di tarare le parti suc-
cessive della lezione in base a quanto emerso; il dibattito e/o le domande costituiscono
perciò un feedback prezioso;
– le discussioni tra ogni sottoparte e le successive sono anche il mezzo mediante il quale il
gruppo può riesaminare, anche criticamente, quanto detto dal docente, adottando otti-
che esperienziali differenti: ciò costituisce, oltre che una verifica dei contenuti, anche il
necessario “rimasticamento” di quanto ascoltato per poterlo realmente far proprio;
– nessun docente è immune dal rischio di essere noioso o prolisso o monotono: l’interru-
zione tra ogni sottoparte e la successiva spezza la monotonia e contribuisce a tener de-
sta l’attenzione;
– ascoltare il docente è più faticoso che ascoltare le osservazioni degli altri studenti parte-
cipanti, in quanto il docente generalmente “comprime” molto di più i concetti. Le pause
servono perciò anche come momento di rilassamento.

2.10 La gestione delle domande


Nel paragrafo precedente si è a lungo insistito sull’importanza di intercalare l’esposizio-
ne con adeguati dibattiti e scambi di opinioni tra i partecipanti.
Il favorire questo processo di partecipazione presuppone, come si è detto, che il docente
abbia un atteggiamento positivo nei confronti del gruppo, atteggiamento che si deve esplici-
tare sia permettendo e favorendo l’intervento di tutti, sia accogliendo positivamente le do-
mande che le persone pongono, a chiarimento oppure a contestazione di alcuni dei conte-
nuti esposti.
Quello delle domande è spesso un capitolo doloroso dello stile di animazione di molti
docenti: si assiste ad una chiara esposizione, frutto di un’adeguata preparazione e di una no-
tevole conoscenza di base della materia e poi, quando qualcuno inizia a porre qualche do-
manda, il docente perde il controllo del gruppo.
Gli errori che più frequentemente si compiono sono:
– comunicare (con l’atteggiamento, con il tono di voce, con il linguaggio) che quella è rite-
nuta una domanda sostanzialmente stupida, che fa perdere inutilmente del tempo, cosa
che come minimo inibirà successive domande, come massimo renderà ostili alcuni o tut-
ti i componenti del gruppo;
– entrare in contradditorio acceso e prolungato con uno o due studenti, il che comporte-
rà la noia ed il fastidio per tutti gli altri partecipanti che, quasi sempre, si sentono esclu-
si da quella discussione giocata sul filo del “vediamo chi è il più forte”;
– rimandare sistematicamente le risposte ad un momento successivo, quando si tratterà
quell’argomento, o comunque non rispondere a domande non centratissime adducen-
do come motivazione che “questo argomento non è oggetto della trattazione odierna”.
Ognuna di queste risposte rappresenta una delusione per i partecipanti, e la loro ripeti-
zione diminuisce rapidamente la probabilità di ottenere domande successive, visto che
le persone si pongono nell’atteggiamento che “tanto è inutile chiederglielo”.
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Per gestire efficacemente le domande è forse utile premettere che la domanda è un pre-
zioso alleato del docente; sempre, anche quando sembra polemica, la domanda comunica
importanti informazioni al docente circa il livello motivazionale dell’aula, le paure che ser-
peggiano inespresse, la dinamica interpersonale, le aree di interesse personale.
Inoltre un gruppo che non pone domande spesso denuncia una situazione negativa: for-
se l’esposizione è stata oscura ad un livello tale che nessuno è in grado di far domande, for-
se esiste un forte disturbo tra docente e gruppo, forse esistono altri problemi, ma comun-
que il silenzio del gruppo rappresenta un segnale di pericolo per il docente.
Vi sono tuttavia due situazioni in cui il silenzio del gruppo non deve allarmare: all’inizio
della lezione quando il gruppo è ancora “freddo” e quindi ancora molto resistente ad espor-
si, e in presenza di un argomento assolutamente sconosciuto.
È anche importante ricordare che, a parità di altre condizioni, più domande nascono e
meglio è per l’apprendimento: è infatti dimostrato che la motivazione positiva ad ottenere
una informazione innalza grandemente il livello di memorizzazione di quell’informazione.
Ed infine, ogni conflitto con le persone, o con il gruppo nel suo insieme, tra gli altri incon-
venienti, comporta uno spostamento dell’attenzione dai contenuti della materia che si desi-
dera insegnare ai processi che stanno avvenendo in aula, con evidente perdita di apprendi-
mento sulla materia. Per quanto riguarda la gestione pratica delle domande, possiamo dire
che in linea generale essa andrebbe condotta nell’ottica di ottenere il massimo numero pos-
sibile di domande, appunto in base alle considerazioni fin qui svolte. Si potrebbe obietta-
re che in tal modo la trattazione della materia può risultare spezzettata, disordinata, senza
capo né coda, insomma, poco efficace; ma non è così per almeno due ragioni.
Innanzitutto perché raramente i gruppi pongono un numero tale di domande da rende-
re davvero caotica la trattazione della lezione (spesso il gruppo tende a rimanere passivo e
ad attendere la fine della lezione e quindi l’obiezione è più teorica che reale); possono an-
che verificarsi lezioni in cui il gruppo è davvero molto attivo e pone parecchie domande an-
che polemiche: salvo rarissimi casi estremi, queste lezioni sono più interessanti ed istruttive
rispetto a lezioni forse più ordinate, ma spesso noiose e poco memorizzabili.
In secondo luogo, quando anche il volume complessivo delle domande fosse eccessivo,
il docente può sempre intervenire in modo cortese ma fermo e riportare il discorso su quei
binari che considera più adatti e proficui. Dal principio generale “cercare di ottenere il mas-
simo numero di domande” derivano le seguenti raccomandazioni pratiche per la gestione
delle domande:
– se la domanda è pertinente rispondere subito, senza rimandi a momenti successivi;
– se la domanda anticipa argomenti in programma per momenti d’aula successivi dare
una breve risposta di contenuto segnalando che, dato che se ne parlerà ancora più avan-
ti, si potranno avere risposte più esaurienti; è necessario però dare comunque una bre-
ve risposta di contenuto sia per soddisfare l’esigenza del partecipante e migliorarne per-
ciò l’apprendimento, sia per dare un generale segnale positivo di disponibilità. Vi è co-
munque da chiedersi: “Se alle persone viene in mente ora, in questo punto della lezio-
ne, di sapere quelle certe cose che io ho collocato più avanti nel programma, non ho for-
se sbagliato la successione didattica?”; se la domanda è in tutto od in parte fuori tema
63

dare una breve risposta di contenuto e segnalare che però, dato che l’argomento è fuori
tema, sfortunatamente non lo si può approfondire ulteriormente;
– se la domanda è polemica, oppure è una obiezione che denuncia in toni accesi opinioni
differenti da quelle esposte dal docente, dare una risposta di contenuto cercando di evi-
tare di “entrare in dinamica”, evitando cioè di dar seguito alla parte polemica della do-
manda. È questo forse uno dei momenti più difficili, perché presuppone nel docente una
grande tranquillità e pacatezza, tale da non reagire alle provocazioni di questo o quel
partecipante; quindi, dato che ogni domanda, anche quella più polemica, ha una parte
di contenuto, attenersi a quello.

2.11 I rinforzi dell’apprendimento


Probabilmente, nessuno di noi pensa che sia sufficiente dire una cosa in aula per esse-
re certi che il gruppo abbia compreso il nostro pensiero. Nei paragrafi precedenti si è anzi
sottolineata la scarsa efficacia della lezione tradizionale, tanto più che molte prove spe-
rimentali hanno dimostrato con chiarezza quanto sia basso il tasso di memorizzazione a
fronte del semplice ascolto di una comunicazione verbale. L’adozione degli accorgimen-
ti citati nei paragrafi precedenti (domande, coinvolgimenti, uso di sussidi visivi, ecc.) au-
menta il tasso di memorizzazione ma certamente resta l’inconveniente di fondo del basso
livello complessivo di efficacia dell’apprendimento legato alla sola esposizione. Sorge per-
ciò la necessità di approntare adeguati strumenti che da un lato rinforzino l’apprendimen-
to permettendo di completare e consolidare il processo di acquisizione delle conoscenze
oggetto della lezione, e dall’altro informino il docente sul grado di chiarezza e di confor-
mità della sua lezione, in modo da consentire le opportune messe a punto sia immediate,
sia in vista di future docenze. Al di là delle particolarità indotte da singole situazioni spe-
ciali, i principali metodi per rinforzare e verificare l’apprendimento sono due: il riepilogo
e l’esercitazione applicativa, sia individuale sia in sottogruppo. Naturalmente tali metodi
non sono alternativi tra loro, andrebbero anzi impiegati entrambi in maniera combinata al
fine di massimizzarne l’efficacia.
Delle esercitazioni si parlerà successivamente in modo dettagliato, vista anche l’impor-
tanza dell’argomento, mentre del riepilogo specifichiamo subito che i due momenti tipici del
suo impiego sono:
– al termine della lezione;
– alla ripresa della lezione successiva.
I riepiloghi effettuati al termine della lezione presentano il grande svantaggio di collo-
carsi in un momento in cui il livello di stanchezza del gruppo è assai alto e quindi corrono il
rischio di essere poco efficaci. Il riepilogo a fine giornata, poi, oltre a quello della stanchez-
za, presenta l’ulteriore svantaggio rappresentato dal desiderio delle persone di andarsene.
I riepiloghi effettuati all’inizio della lezione successiva, viceversa, godono di alcuni van-
taggi: si collocano in un momento di relativa “freschezza” del gruppo, non subiscono la pres-
sione del tempo e, soprattutto, sono più efficaci per l’apprendimento.
Tenendo conto di quanto fin qui detto, si potrebbe perciò concludere:
64

– i riepiloghi a fine lezione vanno sempre fatti, perché consentono di rimettere, per così
dire, in ordine le informazioni trattate durante la lezione stessa, ma devono essere con-
tenuti in pochissimi minuti;
– i riepiloghi a fine lezione andrebbero fatti con cautela e, se possibile, dovrebbero essere
sostituiti da riepiloghi posti in apertura della giornata successiva.
Vediamo ora brevemente come fare un riepilogo, premettendo però che, pur essendoci
alcuni metodi aventi più vantaggio di altri, non è detto che essi vadano sempre preferiti. An-
che per il metodo, come per il momento in cui farli, il docente dovrà valutare di volta in vol-
ta la specifica situazione ed optare per la soluzione che ritiene più adeguata.

1. Riepilogo del docente


Il riepilogo del docente consiste in una sorta di riassunto che il docente fa di tutte le cose
trattate fino a quel momento. Ha il vantaggio di essere molto rapido, ma ha lo svantaggio di
non attivare il gruppo, di non farlo lavorare, e quindi di avere un’efficacia alquanto modesta.
È il metodo più frequentemente impiegato per fare i riepiloghi a fine lezione.

2. Riepilogo guidato
Il riepilogo guidato consiste nella ripetizione dei passaggi principali della lezione, fat-
ta però non dal docente, ma dal gruppo attivato e guidato da opportune domande-stimolo
poste dal docente e scelte in modo tale da richiamare l’attenzione sui concetti fondamen-
tali della sua esposizione. Se gli obiettivi didattici della lezione sono stati chiariti adeguata-
mente, se quindi sono stati identificati gli argomenti-chiave, l’individuazione delle doman-
de-stimolo più appropriate da porre in questa fase sarà molto agevole. Il riepilogo guidato
può essere utilizzato per tutte le materie che costituiscono oggetto di lezione e permette al
docente di ritornare su argomenti che ritiene essere di elevata importanza o che siano sta-
ti poco compresi dal gruppo. Il grande vantaggio di questo metodo, rispetto al normale ri-
epilogo fatto direttamente dal docente, è rappresentato dallo sforzo che i partecipanti de-
vono compiere per ricordare le cose ascoltate, sforzo innescato ed attivato dalle domande-
stimolo. Tale sforzo costituisce un metodo per consolidare il ricordo ed è molto più effica-
ce del semplice riascolto. Il limite principale del riepilogo guidato sta nella scarsa garanzia
che esso dà circa il fatto che tutti i partecipanti compiano lo stesso sforzo e raggiungano lo
stesso grado di apprendimento; è quasi certo che alcuni di essi risponderanno alle domande
molto più rapidamente della maggior parte dei colleghi, bruciando in tal modo l’efficacia del
riepilogo nei confronti degli altri (più lenti o solo meno competitivi). Un possibile modo per
ovviare a questo inconveniente consiste nel pregare gli studenti di non rispondere subito a
voce, ma di annotarsi su di un foglio di carta la risposta e poi, dopo un breve lasso di tempo,
chiedere al gruppo la risposta. In questo modo vi è qualche garanzia in più che tutti abbiano
quanto meno pensato alla risposta.
Un secondo limite del riepilogo guidato è rappresentato dal fatto che esso consolida i
concetti nella stessa forma in cui sono stati esposti: non vi è nessuna garanzia che in situa-
zioni analoghe, ma lievemente differenti, gli studenti applichino il medesimo concetto (è il li-
mite di tutto l’apprendimento nozionistico: quale sarà il reale livello di trasferimento dell’ap-
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prendimento?). Il terzo limite è infine costituito dalla sua non applicabilità in alcune situa-
zioni, quali ad esempio: nei gruppi ancora in fase di “riscaldamento”, e cioè all’inizio della
lezione, in quanto il basso livello di fiducia reciproca e di socializzazione presente nei gruppi
in questa fase rende poco consigliabile una modalità didattica che invece richiede ai parte-
cipanti di esporsi anche al rischio dell’errore.

3. Riepilogo libero
Il riepilogo libero consiste nel chiedere alle persone di indicare i due o tre aspetti del-
la lezione che ritengono più utili e/o interessanti e l’aspetto che è risultato più oscuro o di-
scutibile. Ciascuno annota su un foglio di carta le sue risposte personali, anche rivedendo i
vari appunti, e poi il docente fa un rapido giro per raccogliere il parere di tutti, possibilmen-
te utilizzando la lavagna a fogli mobili o la classica lavagna. Questo metodo, impiegabile solo
per i riepiloghi “del giorno dopo” e comunque non per quelli di fine lezione, ha due grandi
vantaggi. Innanzitutto costringe indirettamente le persone a ripassare l’intera materia trat-
tata ed a valutarla in termini di utilità e di interesse, il che rappresenta un valido ed effica-
ce esercizio per la memoria. In secondo luogo permette al docente di raccogliere importanti
feedback sia sugli aspetti positivi della lezione, sia e soprattutto sulle aree di non compren-
sione o di dubbio o di disaccordo esistenti in aula.
Il che gli consentirà di riprendere ed approfondire, subito o più avanti a seconda delle
esigenze di programma, i contenuti indicati come critici, con indubitabili vantaggi per l’ap-
prendimento.
I limiti del riepilogo libero sono sostanzialmente dati da:
– il tempo;
– l’impossibilità ad impiegarlo ripetutamente: non si può infatti ogni mattina entrare in aula ed
aprire la giornata con un riepilogo, giacché interviene una sorta di stanchezza sul metodo;
– l’impossibilità di impiegarlo, nel caso di materie molto nozionistiche, a valle delle primis-
sime lezioni di base, giacché le persone non sono di solito in grado di rispondere alla pri-
ma parte del quesito, e cioè non sono ancora in grado di valutare criticamente le nozio-
ni ascoltate (sono invece in grado di indicare le aree dubbiose o non chiare).

2.12 Il materiale didattico


È abbastanza difficile indicare con precisione il materiale didattico utile a supportare i
vari e differenti tipi di argomenti che costituiscono oggetto di lezioni. Sicuramente i libri di
testo attualmente offrono una vasta gamma di esercitazioni, schede di approfondimento
ampiamente utilizzabili. È però sempre consigliabile al docente l’utilizzo di materiale didat-
tico progettato e selezionato in modo originale. In linea generale si può dire che il materia-
le da distribuire è categorizzabile in due grandi classi: materiale di supporto diretto alla le-
zione e materiale d’appoggio o letture. Alla prima classe (materiale di supporto diretto alla
lezione) appartiene sostanzialmente una forma schematica dei contenuti toccati dal docen-
te e le eventuali esercitazioni applicative che si useranno a valle della lezione propriamen-
te detta. Sarebbe opportuno schematizzare i contenuti utilizzando forme grafiche efficaci. A
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proposito degli schemi vi è un certo dibattito circa l’opportunità di consegnarli all’inizio del-
la lezione o alla fine della stessa. Si ritiene didatticamente più efficace all’inizio, perché in
tal modo i partecipanti non devono impiegare tutto il loro tempo prendendo appunti con
evidente guadagno di attenzione. Alla seconda classe (materiale d’appoggio) appartengono
tutte le letture, gli articoli, le dispense, che vengono dati affinché i partecipanti possano suc-
cessivamente rileggere i contenuti trattati durante la lezione o approfondirne alcuni aspet-
ti particolarmente significativi. È opportuno che questo materiale venga distribuito alla fine
della lezione, con qualche breve commento delucidativo.

2.12.1 I sussidi da utilizzare


Già in sede di preparazione è necessario che il docente decida quali sussidi didattici vuo-
le impiegare durante la sua lezione. La gamma è abbastanza ampia e passa dalla semplice e
vecchia lavagna nera di ardesia a modernissimi sistemi audiovisivi supportati da computer
alle nuove tecnologie multimediali. All’esame delle varie alternative verrà dedicato un ap-
posito approfondimento, ma fin d’ora si può anticipare un principio valido nella maggioran-
za delle situazioni: le videoproiezioni (lavagna luminosa, lavagna interattiva, presentazione
in power point) sono da impiegarsi per la presentazione dei concetti di base della materia,
mentre la lavagna a fogli mobili va impiegata per la gestione delle discussioni e per l’illustra-
zione di tutto ciò che è improvvisato (risposta a domande ed obiezioni dei partecipanti, ap-
profondimenti resi necessari dallo sviluppo della discussione, ecc.).
Circa l’utilità dell’impiego delle immagini e, più in generale, dei supporti visivi durante
una lezione, si può ricordare che:
– il livello di attenzione sostenibile durante una lezione è di gran lunga superiore se si usa-
no anche messaggi visivi, dato che la curva dell’attenzione scende con una velocità infe-
riore (o, se si preferisce, la stanchezza sopravviene con minor rapidità);
– messaggi visivi e messaggi auditivi si rinforzano reciprocamente riducendo drasticamente i
problemi di ambiguità di comprensione; la memoria visiva sembra non risentire della fatica
ed ha una potenzialità straordinariamente alta, estremamente superiore a quella uditiva.
Nell’ambito dei supporti visivi impiegabili in aula durante una lezione, può essere convenien-
te distinguere tra semplici sussidi visivi (lavagne di vari tipi) ed audio-visivi (video-film, documen-
tari), sia perché tra le due categorie esistono notevoli differenze di tecnologia e tecniche di pre-
parazione, sia perché le modalità da adottare in aula per gestirli sono radicalmente diverse.
Una trattazione specifica sarà dedicata nel successivo capitolo alla lavagna interattiva
multimediale (LIM) che non si configura come semplice sussidio didattico ma come una tec-
nica didattica di più ampio respiro ed inserita nel contesto della svolta o tentativo di svolta
digitale all’interno della scuola.
In questo paragrafo descriveremo brevemente alcuni sussidi didattici che sebbene in decli-
no sono in una realtà di scarsità di risorse ancora facilmente reperibili nel contesto scolastico.
Tra i sussidi visivi il primo è la tradizionale lavagna nera di ardesia. I suoi svantaggi sono
molti: obbliga il docente a girare completamente le spalle all’aula, sporca rapidamente abi-
ti e mani di chi la usa, contiene poche cose, con la cancellazione si perde il messaggio. In al-
67

cune scuole si trova il sostituto moderno della vecchia lavagna scolastica: una grande lava-
gna fissata alla parete e realizzata in materiale plastico bianco, su cui scrivere con gli appo-
siti pennarelli “a secco”.

LAVAGNA IN MATERIALE PLASTICO BIANCO


Vantaggi Svantaggi
è particolarmente utile per chi ha bisogno di scri- a causa della sua inamovibilità, non può essere spo-
vere, durante la lezione, una grande quantità di nu- stata nel punto di volta in volta più opportuno per
meri, formule, ecc., cancellando frequentemente rendere più agevole la visione a tutti
è uno strumento pulito rispetto alla lavagna non tutti i pennarelli sono adatti: se malaugurata-
tradizionale e vi si scrive sopra senza fatica e mente se ne impiega uno non indicato diventa un
senza fastidiosi rumori problema cancellare
permette l’utilizzo di pennarelli colorati e quin- anche questa lavagna costringe a girare le spalle
di di sofisticare un po’ il messaggio visivo all’uditorio e ad assumere strane posizioni acroba-
tiche per scrivere nei vari punti della sua superficie
spesso viene usata anche come schermo per non permette di pre-confezionare messaggi
eventuali proiezioni (la cui qualità è però modesta)
quando si cancella si perde il messaggio

Potremmo concludere dicendo che questa lavagna, a parte l’aspetto estetico e di como-
dità, presenta solo marginali miglioramenti nella gestione didattica rispetto alla lavagna tra-
dizionale. Un ulteriore tipo di supporto visivo “povero”, avente cioè un costo ridotto ed uno
scarso utilizzo di tecnologia, è la lavagna a fogli mobili (la flip-chart degli anglosassoni).

LAVAGNA A FOGLI MOBILI


Vantaggi Svantaggi
accetta sia pennarelli (di tutti i tipi) sia pastelli di si possono scrivere poche cose in quanto i fogli
cera, in ogni caso colorati sono alquanto piccoli, tenendo conto che spesso
è necessario usare una scrittura cubitale per poter
essere letti anche da lontano
non essendo fissa (come quella bianca di plasti- il suo impiego è comunque limitato ad ambienti
ca) né molto pesante (come quella tradizionale), non troppo ampi
può essere collocata di volta in volta in modo
tale da essere il più visibile possibile a tutti. E
quando non serve la si può spostare facilmente
con un po’ di pratica è possibile preparare una non rappresenta una guida per il docente, che, sal-
parte dei messaggi già scritti vo rari casi, deve improvvisare le scritte al momento
si può scrivere stando su di un lato della lava-
gna, senza quindi voltare le spalle al gruppo
i messaggi rimangono stabili: si possono stacca-
re i fogli significativi ed appenderli alle pareti,
oppure si può ogni volta che occorre ritornare
al foglio su cui si sono scritte “quelle certe cose”
dando uno o più fogli ai sottogruppi a cui sono state
assegnate esercitazioni, si potrà rendere più chiara
ed agevole la successiva discussione plenaria
68

In conclusione, nella maggior parte delle situazioni, la lavagna a fogli mobili è, tra gli stru-
menti fin qui esaminati, quello più adatto per supportare visivamente l’animazione di una
lezione.

LAVAGNA LUMINOSA E PROIEZIONI IN POWER POINT


Vantaggi Svantaggi
la possibilità di avere anche tutta la lezione come ogni altro messaggio visivo pre-confezionato,
preparata in anticipo, il che significa minimiz- la proiezione dei lucidi tende a deprimere il gruppo
zare i rischi di disperdersi e di trascurare aspetti ed il livello generale di partecipazione, relegando le
rilevanti persone in un ruolo molto passivo
la possibilità di usare sia i colori che le immagi- lo schermo diventa l’unico centro dell’attenzione e
ni (grafici, disegni, schizzi, simboli, ecc.), il che quindi le persone guarderanno ciò che viene pro-
significa aumentare sensibilmente l’efficacia iettato: l’attenzione nei confronti del contenuto del
della comunicazione discorso del docente diventa molto bassa (in caso
di incongruenza tra messaggio proiettato e mes-
saggio parlato, infatti, viene ricordato solo il primo,
a dimostrazione della bassa attenzione rivolta alle
parole del docente)
la possibilità di stare rivolti verso il gruppo, il messaggio contenuto rimane visibile dai gruppo
mantenendo perciò costantemente il rapporto per poco tempo
visivo con le persone
la comodità di poter parlare e scrivere stando
seduti

L’insieme degli inconvenienti, accanto ai grandi vantaggi dello strumento, spinge ad ap-
profondire l’argomento individuando le modalità migliori sia per la preparazione dei lucidi o
delle diapositive in Power Point sia per la gestione in aula.
Gli inconvenienti visti a proposito della lavagna luminosa suggeriscono le seguenti av-
vertenze da adottare in sede di preparazione dei lucidi o delle diapositive in Power Point:
– ogni lucido/diapositiva deve contenere poche parole, in pratica solo il messaggio fon-
damentale che si vuoi trasmettere, e dovrebbe contenere uno o comunque pochissimi
messaggi;
– i numeri sono da evitare, se possibile, o comunque da limitare al minimo indispensabi-
le; meglio sarebbe sostituirli con istogrammi e rappresentazioni grafiche di vario tipo che
sono meno noiosi e più facili da ricordare;
– è molto consigliabile utilizzare scritte colorate, dato che il colore colpisce maggiormente
e facilita la memorizzazione; i colori più efficaci sono: nero, blu, rosso, verde, viola;
– l’uso di disegni è da limitare a quei casi in cui effettivamente il disegno dà un grande va-
lore aggiunto in vista della comprensibilità generale del discorso.

2.12.2 Gli audiovisivi


Gli audiovisivi hanno il grande pregio di favorire l’apprendimento attraverso il canale per-
cettivo visivo. In particolare i filmati offrono un ulteriore grande vantaggio: una straordina-
69

ria capacità di suscitare forti emozioni nello spettatore e di sviluppare la memorizzazione


dei concetti.
L’impiego di audiovisivi nella didattica si presta a vari scopi:
a) scopo didattico: l’audiovisivo contiene informazioni organizzate sotto forma di lezione
ed intende quindi insegnare qualche cosa, integrando il docente;
b) documentario: l’audiovisivo ha lo scopo di sostituire una realtà esterna altrimenti non
accessibile, quanto meno sul piano visivo;
c) rompi-ghiaccio: l’audiovisivo in questo caso viene posto all’inizio di un argomento im-
portante e strutturato in modo tale da dare, oltre ad alcune informazioni di base, forti
stimoli di discussione;
d) caso di discussione: l’audiovisivo riporta una situazione verosimile e viene utilizzato dal
gruppo come mezzo per affrontare una discussione su un tema o argomento sollecitato
dal docente nella sua programmazione didattica.
L’impiego in aula di documentari è abbastanza semplice e potrebbe essere così artico-
lato:
– breve introduzione dell’argomento;
– visione del documentario;
– riepilogo da parte del docente dei punti cruciali visti;
– risposte a domande di chiarimento o comunque dibattito su quanto visto;
– prosieguo dell’attività secondo il normale programma.

2.13 Scopi e tipi di esercitazioni


L’esercitazione può essere definita come un compito, affidato agli studenti di un semina-
rio, da svolgere singolarmente o in sottogruppi. Gli scopi dell’esercitazione permettono an-
che di definirne i principali tipi, e cioè:
– l’esercitazione può avere lo scopo di rinforzare l’apprendimento delle conoscenze teori-
che trasmesse durante la lezione. In questo caso si realizzeranno esercitazioni di tipo no-
zionistico che si presentano il più delle volte come un elenco di domande cui il parteci-
pante deve rispondere o in modo libero (domande aperte) o scegliendo fra varie opzio-
ni (domande a scelta multipla, domande vero/falso, ecc.);
– l’esercitazione può avere lo scopo di insegnare ad applicare procedure pre-definite (la
compilazione di un modulo, il calcolo di un certo prezzo, ecc.). E in questo caso si presen-
terà sotto forma di un vero e proprio compito prescritto da svolgere;
– l’esercitazione può avere lo scopo di far apprendere ai partecipanti a risolvere problemi
concreti utilizzando le nozioni trasmesse durante la lezione teorica precedente: si tratte-
rà quindi di esercitazioni di “problem solving” che si presentano sotto forma di problema
pratico cui dare risposta; è questa la forma di esercitazione più simile allo studio di caso
ma ne differisce soprattutto per l’esistenza di una o più soluzioni corrette.
Indipendentemente dallo scopo per cui le esercitazioni vengono fatte, è importante no-
tare che:
– l’applicazione pratica, la possibilità di esercitarsi, rappresenta un efficacissimo momen-
70

to di apprendimento che spinge a suggerire un frequente impiego delle esercitazioni du-


rante le attività di formazione;
– una informazione molto interessante per il docente che deriva dall’utilizzo di esercita-
zioni è il grado di apprendimento raggiunto, in media, dalle persone che compongono
l’aula.
Una delle scelte che il docente deve fare, riguarda la modalità operativa con cui gestire
l’esercitazione, individuale o in sottogruppo, e la decisione va presa tenendo in considera-
zione un insieme di fattori. Ecco i più importanti:
– scopo dell’esercitazione: le esercitazioni problem-solving sono da assegnare in sotto-
gruppo perché, per loro natura, la soluzione dei problemi viene più facilmente individua-
ta mediante il contributo di più persone.
Le altre tipologie di esercitazioni possono essere assegnate sia in forma individuale che
di sottogruppo.
All’inizio dell’anno scolastico è più opportuno l’uso di esercitazioni in gruppo in quanto
favorisce la socializzazione.

2.13.1 La gestione delle esercitazioni individuali


La prima fase di ogni esercitazione è il suo avvio, che è molto importante per la riuscita.
All’aula va spiegato il tipo di compito che deve essere svolto, lo scopo didattico dell’eserci-
tazione, in modo da collocarla in una cornice trasparente e comprensibile. Se il compito as-
segnato risulta complicato è opportuno fornire qualche esempio chiarificatore e raccoglie-
re le eventuali domande.
Tra i vari errori che si possono compiere nel lanciare le esercitazioni sia individuale che
di gruppo si possono evidenziare i seguenti:
– il docente con il suo atteggiamento trasforma l’esercitazione in una vera e propria prova
d’esame alterando così lo scopo stesso dell’esercitazione;
– il docente nel tentativo di creare un buon clima d’aula eccede nell’attribuire all’esercita-
zione un valore di gioco svilendo così la sua funzione di apprendimento;
– il terzo tipo di errore consiste nel non spiegare in modo sufficiente lo scopo o le modalità
operative dell’esercitazione, il che nelle fasi iniziali comporta una forte caduta di effica-
cia delle esercitazioni stesse, giacché i partecipanti spendono energie e tempo per ten-
tare di interpretare il mandato.
Il comportamento che tiene il docente mentre il gruppo adempie al compito affidato in-
fluisce notevolmente sull’efficacia complessiva dell’esercitazione. Sostanzialmente il docen-
te deve stare al proprio posto abituale, svolgendo una qualsiasi attività personale ed evitan-
do tutti i comportamenti che distraggono od inibiscono il gruppo che sta svolgendo il suo la-
voro.
Alla fine dell’esercitazione gli studenti potranno esporre in plenaria i risultati raggiunti
sotto forma di presentazione o relazione. In generale nel gestire la plenaria è opportuno ri-
cordare che l’esercitazione ha per scopo primario di rinforzare l’apprendimento. Quindi la
procedura da seguire nel gestire la plenaria dovrebbe prevedere i seguenti passaggi:
71

– raccolta dei contributi di tutti i partecipanti;


– discussione, al termine della raccolta, degli eventuali punti dubbi o controversi, solleci-
tando il più possibile la partecipazione dell’intero gruppo;
– se necessario, illustrare analiticamente la soluzione corretta del compito affidato.
Durante la discussione plenaria, sono inoltre assolutamente da evitare tutti quei com-
portamenti che mettono in difficoltà i partecipanti o che sbilanciano il gruppo, come ad
esempio ironizzare, esprimere valutazioni sulle persone, discutere a lungo con un singolo
partecipante.

2.13.2 La gestione delle esercitazioni in sottogruppo


Nel caso di esercitazioni in sottogruppo, è consigliabile innanzitutto che ogni gruppo sia
il meno numeroso possibile (3-4 persone) in modo da garantire una reale partecipazione at-
tiva di tutti all’interno dei sottogruppi. Già con 5 componenti vi sono elevate probabilità che
qualcuno non lavori con gli altri e si distragga, e con 6 la probabilità si avvicina alla certezza.
L’esercitazione in sottogruppo dovrebbe essere svolta in un tempo compreso tra i 20 ed
i 30 minuti. Compiti più brevi non giustificano l’utilizzo dei sottogruppi che, per loro natura,
richiedono un certo tempo di riscaldamento. Compiti più lunghi andrebbero invece spezza-
ti in più fasi, in modo da non lasciare i sottogruppi troppo a lungo da soli, con il rischio di di-
namiche interne poco gestibili.
La modalità di composizione dei sottogruppi merita un discorso a sé:
– ogni volta i sottogruppi dovrebbero essere composti da membri differenti in modo da
evitare una sorta di specializzazione dei compiti al loro interno e da favorire al massimo
lo scambio di informazioni e di metodi di lavoro;
– la composizione dei sottogruppi non dovrebbe essere lasciata ai partecipanti, giacché ne
deriverebbero impliciti ma precisi (e pesanti) messaggi di scelta e di rifiuto tra le varie
persone, con conseguenti complicazioni nei rapporti interpersonali;
– il criterio che il docente adotta, anzi i criteri, visto che i sottogruppi devono essere diver-
si, dovrebbero essere trasparenti, e comunque espliciti. Il che significa che si può ricor-
rere a criteri casuali: il posto occupato in aula, l’ordine alfabetico, ecc.
Il non esplicitare il criterio fa scatenare nei sottogruppi le più strane ipotesi e, soprattut-
to, distrae l’attenzione dall’esame del lavoro assegnato.
Durante il lavoro dei sottogruppi, il docente deve effettuare due verifiche; la prima, dopo
circa 10 minuti dall’inizio del lavoro, avente per obiettivo di verificare se il compito ed il suo
scopo sono stati compresi, se il testo è chiaro, ecc.; la seconda, a circa 10 minuti dal termine
del tempo assegnato, per verificare a che fase del compito i vari sottogruppi sono giunti. Ca-
pita frequentemente che a questo punto si scopra che il tempo concesso dal docente all’ini-
zio dell’esercitazione si riveli non sufficiente per il suo svolgimento.
In questi casi occorrerebbe innanzitutto comprenderne le cause; le più frequenti sono:
– il tempo concesso è oggettivamente scarso rispetto a quell’esercitazione;
– i sottogruppi hanno impiegato più tempo a causa di forti conflitti interni che ne hanno in-
ceppato il funzionamento;
72

– il compito è stato spiegato in modo non sufficiente per cui i sottogruppi hanno dovuto fa-
ticare per chiarirselo al loro interno;
– è il primo lavoro in sottogruppi e quindi le persone devono imparare il metodo, il che ri-
chiede tempo.
Indipendentemente dalla causa, che suggerirà al docente modifiche progettuali per le
future attività didattiche, è quasi sempre opportuno concedere del tempo supplementare
in modo da completare l’esercitazione, con l’avvertenza però di dare una quantità definita
non troppo elevata ed uguale per i vari sottogruppi.
E se un sottogruppo dovesse avere grosse difficoltà nello svolgimento del compito?
In questi casi il tipo di aiuto che il docente può legittimamente dare è non tanto di sosti-
tuirsi ai partecipanti dando loro la soluzione del problema, quanto di suggerire la strada da
imboccare per migliorare il risultato.
Durante l’attività dei sottogruppi gli errori in cui il docente può incorrere sono:
– non effettuare alcun tipo di verifica, con il rischio che i gruppi si blocchino sul tentativo
di capire il compito o di scoprire solo alla fine che un sottogruppo non è riuscito a com-
pletare il lavoro;
– dare aiuti sostanziali ad uno solo dei sottogruppi perché magari è stato più esplicito de-
gli altri a chiedere aiuto.
Per quanto riguarda infine la gestione della plenaria, le avvertenze da adottare sono del
tutto simili a quelle già viste a proposito delle esercitazioni individuali, e cioè innanzitutto far
esporre a ciascun sottogruppo il risultato del suo lavoro; al termine, favorire la discussione
collettiva; alla fine, se necessario, dare analitiche spiegazioni sulla soluzione corretta. L’uni-
ca variante a questo processo può verificarsi allorché si discutano esercitazioni “aperte”: in
tal caso è necessario esaminare i lavori dei sottogruppi dopo ogni relazione, giacché, per de-
finizione, i risultati dell’esercitazione possono essere molto diversi, e quindi poco confronta-
bili, anche se ugualmente corretti.
Durante la plenaria gli errori da evitare sono soprattutto inerenti allo stile che il docente
adotta nella gestione della discussione, e cioè:
– esprimere valutazioni e confronti tra i valori dei sottogruppi in modo personalizzato;
– consentire che in plenaria ci si rimetta a discutere dei conflitti interni dei singoli sotto-
gruppi;
– “bruciare” la discussione collettiva esprimendo subito i propri pareri.

2.14 Il comportamento del docente


Nei paragrafi precedenti si sono esaminate alcune delle principali condizioni che posso-
no favorire l’efficacia del docente nella sua attività d’aula. In particolare, ci si è a lungo sof-
fermati sulle varie tecniche impiegabili per rendere massima la chiarezza e la comprensibili-
tà della comunicazione didattica e per aumentare le probabilità di un effettivo e stabile ap-
prendimento della materia trattata.
Naturalmente il docente non si limita in aula ad una mera attività di trasmissione di infor-
mazioni; durante il processo di insegnamento, egli compie una vasta gamma di azioni aven-
73

ti scopi ed effetti differenti, anche se poi in ultima istanza sono tutte indirizzate ad una meta
pedagogica.
Prendendo lo spunto da alcune ricerche sperimentali effettuate nella scuola elementa-
re, in questo capitolo esamineremo le funzioni che il docente svolge durante la sua attivi-
tà d’aula, e cioè:
– funzione organizzativa;
– funzione informativa;
– funzione di sviluppo;
– funzione di feedback cognitivo;
– funzione affettiva.
Per ciascuna di queste funzioni si cercherà da un lato di indicare l’insieme dei comportamen-
ti in cui si esplicita, dall’altro di esaminarne le ripercussioni sull’efficacia didattica complessiva.
La prima funzione esaminata è quella organizzativa ed in essa rientrano tutte quelle azio-
ni del docente che regolano la vita d’aula, che creano e mantengono le condizioni necessa-
rie per l’insegnamento. Non riguarda perciò il contenuto o la materia da insegnare, quanto
proprio l’aspetto organizzativo d’insieme. Si tratta perciò di:
– determinare l’ordine delle attività da svolgere, organizzarle, definire i tempi e le modali-
tà operative;
– regolare la partecipazione e gli interventi dei partecipanti (il docente indica l’allievo o gli
allievi che vuole che intervengano, svolgano un compito, compone i sottogruppi, regola
le discussioni, ecc.);
– gestire le situazioni di conflitto o di competizione (il docente risolve il conflitto, oppure
invita le persone a regolare da sé i propri disaccordi in altri momenti, ecc.).
Come si può notare, si tratta di attività tipiche non solo della situazione didattica, ma an-
che di altri momenti sociali, quali ad esempio la gestione e la conduzione delle riunioni. È
perciò una funzione che deve essere sempre presente, in continuo, durante tutto il tempo
d’aula, in special modo:
– all’inizio, in modo da impostare correttamente il lavoro nel suo complesso, specificando-
ne i termini organizzativi;
– in presenza di ogni nuovo modo di strutturare il tempo d’aula, per esempio, nella fase di
lancio di un’esercitazione, di un role-play, di analisi di caso;
– durante le discussioni in plenaria, in modo da coordinare la riunione e l’apporto di tutti.
Un uso insufficiente da parte del docente di questa funzione, e cioè uno scarso presidio
degli aspetti organizzativi, comporta generalmente una diminuzione dell’efficienza, giacché
si impiega più tempo del necessario proprio per far fronte a difetti organizzativi, e quindi le
discussioni si protraggono inutilmente perché manca chi le coordina, i lavori di sottogruppo
sono più lunghi e faticosi perché non sono chiare le istruzioni, le persone arrivano in ritar-
do o se ne vanno prima, ecc.
Un uso eccessivo di questa funzione, viceversa, comporta una gestione autoritaria e sof-
focante dell’attività didattica, con conseguente caduta del livello di partecipazione da par-
te dei singoli e con una scarsa formazione di quello spirito di gruppo che invece rappresen-
ta uno dei principali promotori dell’apprendimento.
74

Vi è un particolare momento in cui il docente può definire con il gruppo l’insieme delle
norme organizzative che regoleranno il lavoro comune: ed è l’inizio del corso stesso, allor-
ché il docente stipula con i partecipanti il cosiddetto contratto formativo.
È un momento molto delicato perché il livello di attenzione è massimo e si concentra non
solo sui contenuti della comunicazione che il docente effettua, ma anche e soprattutto su
tutti gli aspetti non verbali e sui segnali anche deboli che egli emette. Gli studenti cercano in
pratica di capire, di inquadrare, di cogliere l’essenza, il nocciolo sia del docente, sia della si-
tuazione nel suo complesso.
È quindi necessario che la trattazione dei vari temi sia esplicita ed aperta, e che nulla
venga lasciato nel regno del “non detto”, per evitare rischi di pericolose e disturbanti inter-
pretazioni da parte dei convenuti.
In generale gli argomenti da trattare in fase iniziale sono:
– gli obiettivi didattici;
– gli obiettivi generali in termini di competenze da sviluppare;
– il programma da svolgere con l’indicazione dei metodi didattici e degli argomenti.
Le attività del docente che rientrano nella categoria del “dare informazioni” sono quel-
le tipiche dell’insegnamento e riguardano il contenuto della materia oggetto della lezione,
quali, ad esempio:
– esporre, chiarire, spiegare, interpretare, generalizzare, sintetizzare i concetti oggetto
d’insegnamento;
– rispondere alle domande degli studenti;
– porre domande, formulare problemi, assegnare compiti, esercizi da svolgere;
– dare indizi suggerendo risposte;
– fornire un aiuto non richiesto.
In generale le attività di questo tipo tendono ad essere sempre presenti in modo massic-
cio nelle lezioni, giacché ne costituiscono per così dire l’ossatura. Tuttavia, anche limitando-
si alla lezione, senza cioè pensare ad altri metodi didattici, si può dire che la proporzione del
tempo delle attività prettamente informative del docente rispetto al tempo totale è piutto-
sto variabile in base a:
– materia da insegnare, dato che alcune materie sono, per loro natura, più nozionistiche
di altre e quindi richiedono maggiori attività informative;
– destinatari dell’insegnamento: meno conoscono la materia che si spiega in aula, meno
si sentono sicuri di se stessi, meno sono abituati ad una partecipazione attiva, più il do-
cente sarà costretto a svolgere, in proporzione, attività informativa;
– fase di sviluppo del gruppo: infatti più il gruppo è in una fase iniziale della sua vita socia-
le e psicologica, maggiore sarà l’attività informativa del docente.
Le attività di questo tipo devono invece essere meno presenti durante l’utilizzo di altri
metodi didattici (esercitazioni, role-playing, ecc.), in modo da favorire la possibilità che cia-
scun allievo trovi da sé le risposte corrette ai problemi posti, uscendo dal rapporto stellare
docente-allievo.
Caratteristica essenziale dell’insegnamento è di favorire, suscitare, ampliare il contribu-
to degli allievi. Mentre nel dare i contenuti l’insegnante è al primo posto, qui predomina l’al-
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lievo a cui si chiede di essere creativo e di scoprire soluzioni. Appartengono a questa funzio-
ne le azioni del docente che mirano a:
– far fare esercitazioni pratiche;
– far scoprire personalmente agli allievi la risposta ad un particolare quesito tramite ricer-
ca, osservazione, consultazione;
– stimolare la partecipazione diretta, il coinvolgimento delle persone nelle discussioni;
– creare in generale una situazione stimolante.
L’utilizzo di questa funzione facilita l’apprendimento in quanto la scoperta autonoma e
personale dell’allievo e la sua verifica successiva lo rinforzano nell’apprendimento acquisi-
to. Inoltre, la discussione aperta dei temi trattati permette alle persone di trasporre i con-
cetti nella realtà esterna e, viceversa, di portare in aula e di mettere in comune le esperien-
ze maturate in altre situazioni.
I comportamenti dei docenti atti a favorire lo sviluppo dei partecipanti rappresentano il
naturale seguito e complemento dell’attività di trasmissione dei contenuti, in quanto con-
sentono di alleggerire la teoria e, soprattutto, di “far crescere” la conoscenza disciplinare.
Un uso troppo scarso di questi comportamenti ingenera nel gruppo un forte senso di “peso”
da eccesso di teorizzazioni. Viceversa un loro uso eccessivo comporta un senso di stanchez-
za, di dispersione e di perdita di tempo.
Nella categoria del “dare il feedback cognitivo” rientrano le informazioni date dal do-
cente all’allievo sulla qualità delle sue prestazioni, atte cioè ad approvare o disapprovare in
modo specifico l’operato degli studenti: ricordiamo, se ce ne fosse bisogno, che il feedback
è condizione necessaria per qualsiasi processo di apprendimento.
Naturalmente il feedback è spesso intrinseco, è cioè ottenibile dal discente in modo au-
tonomo verificando il successo ottenuto nel compiere una certa esercitazione o nel risolve-
re determinati problemi.
In particolare, il feedback positivo si è rivelato un potente acceleratore sia dell’apprendi-
mento in sé, sia del livello generale di partecipazione, di motivazione o di disponibilità. Sfor-
tunatamente, l’impiego di questa modalità è nella nostra cultura poco diffuso, con conse-
guenze che possono essere negative: la mancanza di rinforzi positivi, infatti, può sviluppare
un clima di incertezza, di difesa, di paura di sbagliare, di rinuncia.
Se non si utilizza questa funzione, e non si mostra alcuna reazione dopo che un allievo
ha svolto un’attività, all’inizio ci sarà forse più impegno da parte sua nella speranza maga-
ri di ottenere un’approvazione, ma prima o poi è possibile che insorga l’incertezza (“avrò
fatto bene?”), con il rischio di avere una perdita di iniziativa e di entusiasmo. L’utilizzo del
feedback positivo permette invece di cogliere e far partecipe l’allievo dei suoi comporta-
menti migliori.
Anche il feedback negativo è importante ai fini dell’apprendimento perché consente allo
studente di misurare la distanza tra la sua prestazione e quella ottimale. Ma esso può essere
dato solo all’interno di un clima generale di affettività positiva e solo a patto che sia seguito
da un reale incoraggiamento verso la soluzione giusta.
In generale, perché i feedback, sia positivi sia negativi, possano realmente svolgere la
loro funzione di orientamento comportamentale, occorre che siano:
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– relativi al fatto e non alla persona, altrimenti si rischia di scatenare moti di invidia da par-
te degli altri allievi e la nascita di situazioni competitive (nel caso di feedback positivi) o
di deprimere e squalificare il partecipante (nel caso di quelli negativi);
– immediati, giacché se troppo dilazionati perdono la propria efficacia in quanto risultano
psicologicamente scollegati e distanti dalle azioni cui si riferiscono;
– sinceri: ogni venatura di falsità percepita dai partecipanti suona come squalifica del grup-
po e mina la credibilità del docente.
A seconda dello stile adottato dal docente nell’emissione di feedback positivi e negativi,
è possibile ipotizzare quattro diverse situazioni d’aula:
– situazione di smarrimento, dovuta all’eccessiva carenza di segnali da parte dei docente,
sia positivi sia negativi: i partecipanti non capiscono quanto di giusto e di sbagliato vi sia
nel loro comportamento e non riescono perciò ad orientarsi;
– situazione di incoraggiamento, dovuta ad una forte prevalenza di feedback positivi su
quelli negativi: il gruppo allora si sente molto gratificato dei risultati raggiunti e quindi
tende a galvanizzarsi sempre di più; il rischio è che un eccesso in questa direzione da par-
te del docente può far sorgere il sospetto di falsità;
– situazione punitiva, dovuta ad un eccesso di feedback negativi: il gruppo si sente costan-
temente punito e tende quindi a deprimere il proprio livello di attività;
– situazione ideale, caratterizzata da molti feedback sia negativi sia positivi; in questo caso
vi è solo il rischio di una percezione di eccessiva direttività del docente che, invece di
dare al gruppo gli strumenti per autovalutarsi, distribuisce personalmente dosi massicce
di premi e punizioni verbali.
Nella categoria “creare un clima di affettività” rientrano le attività che hanno lo scopo
preciso di creare un clima di fiducia e di serenità, a prescindere dalle capacità dimostrate da-
gli allievi; il docente esprime la sua stima e la sua convinzione nel fatto che ognuno possie-
de delle qualità e che facendo leva su queste si possono ottenere interesse ed impegno ver-
so la materia di insegnamento.
Si tratta di azioni atte a:
– lodare, riconoscere il merito indipendentemente dall’apprezzamento del contenuto spe-
cifico delle risposte;
– mostrare sollecitudine ed interesse;
– incoraggiare;
– divertire;
– mostrare entusiasmo verso l’attività che si sta svolgendo.
Utilizzando questa funzione, si raggiunge l’obiettivo di esprimere l’accettazione globale
della persona e del gruppo lasciandosi poi la libertà di riconoscere come positive o negati-
ve le singole azioni espresse dagli allievi. È questa una stima di base, che potremmo definire
“incondizionata”, che permette allo studente di accettare con disponibilità le critiche o le os-
servazioni su quello che fa, senza per questo temere di perdere la fiducia nel suo insegnan-
te (e, indirettamente, di tutti gli altri partecipanti).
Salvo rarissime eccezioni, anche elevate quantità di comportamenti di affettività positi-
va sono sempre molto utili nell’apprendimento. Ma, accanto ai comportamenti che evocano
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affettività positiva, ne esistono molti altri che, viceversa, ingenerano nel gruppo sentimen-
ti di affettività negativa. Anche in questo caso, come in quello precedente, ci si occupa del-
la relazione che si instaura, dal punto di vista emotivo, fra docente ed allievi indipendente-
mente dall’argomento di formazione o dalle attività di apprendimento.
Si tratta di azioni atte a:
– criticare, accusare, ironizzare;
– minacciare;
– squalificare in via preventiva;
– tenere un atteggiamento cinico e di sfiducia sulle possibilità del gruppo;
– mostrare noia e fastidio verso la situazione nel suo complesso;
le iniziative delle persone, inoltre, non vengono prese in considerazione nemmeno come
prove o tentativi, ma scoraggiate od umiliate; si tende a passivizzare gli allievi ed a negarne
il valore contribuendo a cristallizzare una sensazione di incapacità ed inadeguatezza spesso
paralizzante l’apprendimento.
I comportamenti descritti possono essere considerati dei veri e propri attacchi al clima in
cui si svolge il processo formativo e come tali sono sempre negativi: alcuni suscitano paura,
altri atteggiamenti stereotipati o compiacenti, altri ancora aperta ribellione.
La reazione da parte degli allievi è comunque difensiva e l’energia finisce per essere distol-
ta dall’oggetto dell’apprendimento per essere convogliata in una contesa dove i poli sono pro-
babilmente il bisogno di dimostrare il proprio potere (di giudizio, di azione, di valutazione) e
l’esigenza di non farsi cogliere in situazioni tali da suscitare la reazione dell’insegnante.

2.15 Gli effetti delle aspettative del docente sull’apprendimento


Numerosissime ricerche condotte negli ultimi anni hanno evidenziato che, a parità di at-
titudini e potenzialità iniziali, un allievo considerato bravo dall’insegnante ha molte più pro-
babilità di ottenere migliori risultati nell’apprendimento di un altro considerato invece a
priori meno bravo.
Meno concordi sono invece le spiegazioni che si sono avanzate di questo fenomeno. In
generale, e tentando di fondere i risultati sperimentali con le esperienze personali, sembra
che i fattori che determinano l’avverarsi della profezia siano:
– se il docente parte dal presupposto che l’aula abbia un forte potenziale d’apprendimen-
to, struttura il suo materiale cognitivo in modo conseguente e realizza perciò un am-
biente ricco di stimoli, mentre se ritiene a priori che i partecipanti abbiano scarse poten-
zialità, struttura la lezione in modo più povero (con meno concetti, meno informazioni,
meno stimoli, indugiando più tempo sulle medesime cose, ecc.). In questo modo, a pari-
tà di capacità d’apprendimento del gruppo e di capacità espositive del docente, l’appren-
dimento finale sarà ovviamente inferiore;
– i comportamenti verbali del docente nei confronti di coloro che sono ritenuti “più bra-
vi” (indipendentemente dal significato che viene dato al termine e dal fatto che sia suf-
fragato da effettive maggiori capacità intellettuali) sono più positivi e frequenti di quelli
impiegati con i “meno bravi”; in particolare, i primi vengono più spesso sollecitati ad in-
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tervenire, rinforzati positivamente in caso di prestazioni anche lievemente positive, in-


coraggiati di fronte a prestazioni negative, ecc.;
– anche i comportamenti non verbali del docente sono differenti a seconda del pregiudi-
zio che egli si è fatto circa le potenzialità delle persone che compongono l’aula; sguardi,
sorrisi, modifiche nella mimica facciale sono tutti inconsciamente sbilanciati verso colo-
ro che vengono considerati più bravi.
Ma allora, se le convinzioni del docente sono così importanti nel determinare il risultato
finale, cosa si può fare? Innanzitutto, durante la fase preliminare di raccolta delle informa-
zioni sul gruppo (informazioni che sono necessarie per poter strutturare un percorso didat-
tico appropriato) è forse importante limitare al massimo la raccolta dei giudizi circa le capa-
cità delle singole persone.

2.16 Gli stili di conduzione


Al di là delle aspettative del docente circa i risultati attesi dal gruppo o dai singoli studen-
ti, ogni docente ha un suo modo peculiare di porsi nella situazione didattica, un suo perso-
nale e particolare stile di conduzione dell’aula. Non tutti gli stili però hanno la medesima ef-
ficacia; anzi, molti di essi giocano un ruolo inibente nei confronti dell’apprendimento men-
tre altri, viceversa, sono fattori facilitanti.
Un primo tentativo di classificazione degli stili di conduzione prende in considerazione
l’aspetto più appariscente del comportamento complessivo del docente, quello che per in-
tensità e frequenza di attuazione caratterizza la docenza nel suo complesso. Ne risulta una
classificazione sui seguenti quattro parametri, ognuno dei quali può assumere varie gradua-
lità tra due polarità estreme, inibente la prima, facilitante la seconda:
– modalità di affermazione del docente: potere o competenza;
– modalità di mettersi in rapporto con i discenti: distanza o vicinanza;
– modalità di espressione dei feedback: valutazione od orientamento all’apprendimento;
– modalità di gestione degli aspetti operativi: efficienza o efficacia.
Prima però di passare ad esaminare il significato di ciascuno dei parametri di analisi pro-
posti, è necessaria una precisazione. Va rilevato che il medesimo stile di conduzione dell’au-
la può, in qualche misura, risultare inibente o facilitante per l’apprendimento anche in fun-
zione della particolare cultura di appartenenza dei partecipanti. È molto probabile, in altre
parole, che il medesimo comportamento del docente venga interpretato in modo differen-
te a seconda del bagaglio culturale degli studenti. Tuttavia sul piano pratico si può ipotizza-
re che, almeno per certe tipologie comportamentali estreme del docente, è altamente pro-
babile che la reazione degli studenti sia alquanto uniforme. E nelle pagine successive si esa-
mineranno solo comportamenti di questo tipo.

2.16.1 Potere o competenza


Il primo parametro considerato è quello inerente alla modalità che il docente impiega
per affermare e mantenere la propria credibilità e la propria autorità verso il gruppo. L’estre-
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mo negativo è rappresentato dalla modalità di potere caratterizzata da una vasta gamma di


comportamenti fra cui i più frequenti sono:
– far capire all’uditorio che il proprio sapere teorico è molto alto, che la cultura possedu-
ta è tanta e che, quindi, quello che si va dicendo è meditato e importante (“Dopo anni di
esperienza posso assicurarvi che...” oppure “Del resto anche tutta la bibliografia sostiene
questa tesi e le mie ricerche in proposito dicono che...” oppure citare autori più o meno
conosciuti, ecc.);
– far intendere agli studenti che si è una persona socialmente significativa mediante allu-
sioni dirette o indirette a frequentazioni (“L’altro giorno, parlando col presidente della
nostra società,...”);
– sfruttare il proprio potere di docente per prevaricare i partecipanti, ad esempio inter-
rompendo, volendo avere l’ultima parola nelle discussioni, dare lunghe spiegazioni a chi
non è d’accordo in modo da neutralizzarlo, fare battutine più o meno vendicative verso
tesi sostenute precedentemente da qualche partecipante, ecc.;
– fare lunghe “paternali”, e cioè lunghe conferenze ad alto contenuto valoriale e prescritti-
vo di comportamenti che si desiderano dai partecipanti utilizzando soprattutto toni nor-
mativi e superegoici.
Questi comportamenti inibiscono l’apprendimento perché tendono a passivizzare gli stu-
denti, a ferirli, a farli sentire ignoranti, o sbagliati, o comunque poco importanti. La reazione
può essere o depressiva o più schiettamente polemica e reattiva, ma in entrambi i casi inse-
risce colorazioni emotive forti e fastidiose.
Le energie si spostano dai contenuti della materia in esame alle modalità relazionali, con
conseguente perdita di efficacia. Senza poi parlare di quei casi estremi, ma non rarissimi, in
cui una parte del gruppo inizia ad esplicitare in modo aperto ed aggressivo la propria reazio-
ne allo stile del docente, naturalmente però cogliendo lo spunto da alcuni contenuti esposti.
In generale si può dire che già evitare i comportamenti sopra richiamati costituisce spes-
so un elemento vincente in vista del buon clima complessivo, tuttavia è vero che ogni docen-
te deve avere un qualche modo per suffragare e supportare la legittimità delle proprie tesi
teoriche, altrimenti è poco probabile che l’aula gli conceda quel minimo di credibilità che è
invece necessario per poter insegnare.
Ma il modo per ottenerla dovrebbe essere per così dire “interno” alla docenza e non
“esterno”: dovrebbe cioè essere ricavabile dalle cose che si dicono e non dalla sottolineatu-
ra che il docente fa circa la sua importanza o la sua competenza. Quindi i comportamenti fa-
cilitanti sono quelli che relativizzano la docenza, che dicono senza imporre, che espongono
senza inutili sottolineature e forzature.
E allora il fatto di avere molti anni di esperienza può essere giocato dicendo che “Inizial-
mente pensavo che..., ma negli ultimi anni mi sono invece convinto che...”, oppure può non
essere giocato affatto se non nella presentazione iniziale.
Il polo “competenza” è anche il risultato di una gamma di comportamenti che possono
essere definiti come disponibilità a discutere le proprie tesi, il che significa in pratica lasciar
finire l’esposizione della sua personale tesi al partecipante dissenziente, senza manifestare
squalifiche non verbali mentre parla, rispondere senza toni polemici o ironici e senza inse-
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rire elementi esterni di sostegno alla propria tesi, ma limitarsi agli aspetti oggettivi di conte-
nuto, coinvolgere anche il resto del gruppo nel dibattito, non però per mettere in minoran-
za il dissenziente, ma per trovare una soluzione condivisibile dai più.

2.16.2 Distanza o vicinanza


Il secondo parametro considerato per descrivere lo stile di gestione dell’aula è rappre-
sentato dalla modalità che il docente ha di mettersi in rapporto con i discenti. Gli estremi
sono da un lato distanza e dall’altro vicinanza.
Con distanza ci si riferisce ad un insieme, anche un po’ eterogeneo, di comportamen-
ti che, pur partendo da stati d’animo differenti del docente, ha per risultato di ingenerare
nell’aula un clima di distacco e di estraneità tra gli allievi e l’insegnante. Ecco alcuni esempi:
– parlare con tono piatto, annoiato, privo di entusiasmo e di trasporto, con una gestione
d’aula quasi annoiata e burocratica come se si fosse “capitati lì per caso e neanche tanto
volentieri”;
– mostrare insofferenza verso i partecipanti, le loro tesi, le loro domande, i loro problemi,
e rispondere facendo chiaramente intendere con il tono e con la mimica che quella do-
manda o quell’osservazione sono indicative di stupidità o disattenzione;
– fare dell’ironia e del sarcasmo contro il gruppo o contro idee sostenute da alcuni parte-
cipanti;
– mantenere un atteggiamento rigido e formale ben al di là di quanto la situazione nel
suo insieme richiederebbe. In questa tipologia rientrano anche alcuni vezzi verbali qua-
li “come lei m’insegna...”, oppure “loro certamente sapranno...”; rientrano pure alcune
modalità di gestione della disciplina d’aula molto autoritarie o violente come ad esempio
richiamare nominativamente le persone che stanno parlottando con frasi del tipo “Ros-
si, ha forse qualcosa da dire?” o, ancora peggio, inserendo il richiamo nel corpo di una
frase: “... ed è per questo che ritengo questa teoria— vero Rossi? — particolarmente in-
teressante...”;
– parlare guardando in continuazione non le persone, ma punti inanimati: in alto, più o
meno sopra la testa dei partecipanti, oppure lo schermo, fuori dalla finestra, ecc.
Anche in questo caso, come per il parametro precedente, l’elenco è solo esemplificativo
dei comportamenti più frequenti che ingenerano nell’aula un clima di freddezza e di affetti-
vità negativa che ostacola l’apprendimento perché inserisce elementi di disturbo emoziona-
le che spostano l’attenzione dai contenuti al processo.
A questo punto è necessaria una precisazione: comportamenti come quelli sopra descrit-
ti sono spesso solo modi automatici di fare del docente e non indicano affatto reali senti-
menti di distacco e di squalifica verso il gruppo, giacché sono ormai abitudini comportamen-
tali, magari dovute alle particolari situazioni in cui il docente ha maturato le prime esperien-
ze. Malauguratamente, anche ammesso che il docente sia sempre attore involontario, l’im-
patto sul gruppo è comunque negativo.
L’estremo opposto della scala è la vicinanza, ancora una volta definibile soprattutto come
assenza dei comportamenti sopra elencati.
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Più in particolare, favoriscono la creazione di un clima di vicinanza comportamenti quali:


– mostrare un po’ d’entusiasmo e di interesse per la materia;
– rispondere alle domande e, in generale, discutere con le persone rispettando la loro opi-
nione anche se qualche volta ciò risulta difficile non tanto a causa dell’opinione espres-
sa dal tal partecipante, che magari di per sé non è poi così lontana dalla tesi del docente,
quanto dalla prevedibilità che alcune reazioni hanno per il docente che da un po’ di anni
gestisce corsi sul medesimo argomento;
– avere linguaggio e forme verbali non elaborate, ma tratte dal linguaggio quotidiano;
– guardare in faccia le persone.

2.16.3 Valutazione od orientamento all’apprendimento


Il terzo parametro riguarda le modalità che il docente ha di esprimere il proprio feedback
ai partecipanti.
Un estremo dell’ipotetica scala, quello che tende a creare un clima d’aula negativo
per l’apprendimento, è definibile come valutazione ed è caratterizzato da comportamen-
ti quali:
– esprimere opinioni e confronti sulle persone o sui sottogruppi, particolarmente al termi-
ne delle esercitazioni, ad esempio: “il sottogruppo B indubbiamente ha lavorato molto
meglio...”, oppure “Come sempre c’è qualcuno che ha seguito con più attenzione e quin-
di riesce a...”;
– fare domande dirette a specifiche persone;
– in generale dare solo o prevalentemente feedback negativi, sottolineando cioè con lun-
ghe disquisizioni gli errori commessi (per esempio nello svolgimento di una esercitazio-
ne) e sorvolando viceversa sulle cose fatte correttamente.
L’insieme di questi atteggiamenti comporta facilmente alcune conseguenze: ad esempio
la classe entra in un atteggiamento guardingo perché il docente è un erogatore di massicce
quantità di punizioni o disconferme.
L’altro estremo del parametro è definibile come orientamento all’apprendimento e con-
siste in una gamma di comportamenti tesi a facilitare la libera partecipazione individuale del
gruppo, e cioè: dare feedback precisi, relativi ai contenuti, immediati e sinceri; equilibrare
inoltre l’entità dei feedback negativi e di quelli positivi, e lasciar infine intervenire le perso-
ne in modo libero, senza costringere il singolo partecipante a parlare.

2.16.4 Efficienza o efficacia


Questo parametro attiene alla modalità del docente di organizzare gli aspetti operativi
della vita d’aula e, tra tutti quelli esaminati, è quello che comporta ripercussioni meno gravi
sul clima d’aula e quindi sull’apprendimento.
L’estrema efficienza è caratterizzata da quei comportamenti che denotano una genera-
le tendenza del docente a privilegiare il rapporto tra le attività svolte e il tempo, cercando di
massimizzarlo. Alcuni esempi sono:
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– tentare di dir tutto quanto era stato in precedenza pensato in sede di preparazione della
docenza anche se il tempo ormai sta finendo a causa del prolungarsi delle attività prece-
denti; il docente perciò tenta di accelerare “per finire il programma”. Appartiene a que-
sta tipologia anche il comportamento del docente che ignora la stanchezza del gruppo e
prosegue la sua docenza, con ritmo adatto ma implacabile;
– dare poco tempo per le esercitazioni, in modo da “poter svolgere il programma”.
L’alternativa positiva è rappresentata da una maggior efficacia dell’attività d’aula, intesa
come rapporto tra quantità di cose apprese rispetto alle previsioni.
Dato che svolgere il programma non è certo garanzia di apprendimento, occorre che il
docente ascolti i feedback che il gruppo gli dà, e moduli di conseguenza il ritmo e l’alternan-
za tra teoria e momenti applicativi, accontentandosi di insegnare alcune cose (e sarebbe già
molto) invece di voler (solo) dire tutto.

2.17 Programmazione modulare: lezione e multidisciplinarietà


Finora abbiamo messo in evidenza metodologie, tecniche e strumenti che possano dare
un contributo molto operativo alla progettazione ed alla esecuzione di una lezione. In que-
sto paragrafo si approfondiscono alcuni aspetti di carattere normativo che devono costitui-
re i parametri essenziali ed ineludibili per la costruzione della lezione con particolare riferi-
mento alla scuola superiore di secondo grado.
Il riferimento principale è contenuto nella programmazione modulare che determina
i parametri per la costruzione dell’unità didattica. Quella programmazione che discende
dall’attuazione dell’autonomia didattica e caratterizzazione dei curricoli che si rinviene nel
Piano dell’offerta Formativa dei singoli istituti.
Il termine modulo nell’ambito didattico viene utilizzato di recente per indicare un insie-
me di esperienze di apprendimento (costruite generalmente in forma di unità didattica), ri-
ferite ad una disciplina o ad alcune discipline di studio, con l’indicazione precisa degli obiet-
tivi da raggiungere, dei prerequisiti e della durata complessiva di svolgimento, dei contenu-
ti e delle modalità di verifica. La caratteristica di un modulo è la possibilità di combinarlo va-
riamente con altri, in relazione con le competenze o qualificazioni previste. La realizzazione
di ogni modulo avviene secondo una procedura ritenuta ormai indispensabile che si chiama
algoritmo didattico la cui sequenza risulta in grandi linee:
a) assicurazione dei prerequisiti (con pre-test/analisi della situazione/prove d’ingresso);
b) realizzazione;
c) verifica (post-test) il cui risultato determina la scelta didattica successiva.
L’unità didattica costituisce l’unità minima di programmazione, in quanto finalizzata al
perseguimento di un obiettivo formativo specifico. L’unità didattica può essere considerata
a tutti gli effetti il nome contemporaneo della lezione che però si connota fortemente di un
senso di multidisciplinarietà. In tal senso, ad esempio, costituiscono una unità didattica le
specifiche attività programmate per far acquisire agli alunni la capacità di calcolare le aree
dei rettangoli, così come un’altra unità didattica potrebbe riguardare le attività per far acqui-
sire la capacità di calcolare le aree dei triangoli, aree dei trapezi, aree dei cerchi, ecc. Rima-
83

nendo nell’esempio, tutte queste unità didattiche potrebbero essere considerate come co-
stitutive di un modulo didattico finalizzato all’acquisizione della capacità di calcolare le aree
delle figure piane.
Il modulo didattico assume così una grande portata innovativa sul piano educativo e di-
dattico, in quanto consente di uscire dal frammentarismo didattico, che non di rado caratte-
rizza le attività educative e didattiche svolte quotidianamente nelle classi, nelle quali le at-
tività spesso si susseguono senza una coerenza logica. Il modulo didattico, invece, mirato al
perseguimento di un obiettivo di medio termine, assicura l’unitarietà dei singoli interventi
didattici (unità didattiche per l’appunto) dei docenti delle singole discipline ovvero, auspica-
bilmente, dei docenti di discipline diverse, impegnati nel perseguimento di obiettivi interdi-
sciplinari. In tale prospettiva, infatti, si può pensare a una organizzazione modulare della di-
dattica che assicuri l’unitarietà educativa e didattica all’interno delle stesse discipline e tra
le diverse discipline. Nel passato, quando l’attenzione era rivolta ai saperi disciplinari così
come risultavano sistemati nei manuali scolastici, le singole lezioni si susseguivano secondo
una logica analitica che molto spesso risultava priva di senso per gli alunni. Le diverse disci-
pline si svolgevano separatamente, anche quando i collegamenti erano estremamente for-
ti. Si pensi, ad esempio, alla nascita di Gesù presentata dal docente di Religione come even-
to religioso, dal docente di Storia come evento storico, dal docente di Lingua italiana attra-
verso le poesie.
In una scuola che si pone in una preminente prospettiva formativa, nel rispetto della con-
cezione integrata della personalità, non si può non cercare in tutti i modi di far convergere
i diversi interventi educativi e didattici al perseguimento di obiettivi formativi unitari, ricer-
cando tutti i possibili collegamenti fra le discipline e le singole unità didattiche. In tale pro-
spettiva, si pongono gli obiettivi formativi trasversali, che sono comuni a diverse discipline
(interdisciplinarità), come ad esempio il concetto di misura che viene trattato in Matemati-
ca e nelle Scienze, dall’altra l’esigenza di collegare i diversi obiettivi formativi in quanto mira-
ti alla comprensione di uno stesso fenomeno da diverse angolazioni disciplinari (multidisci-
plinarità). Pertanto, la Programmazione didattica annuale può risultare articolata in modu-
li didattici relativi alle singole discipline (moduli didattici disciplinari) e in moduli didattici re-
lativi alle diverse discipline (moduli didattici interdisciplinari). Al riguardo, è opportuno evi-
denziare che la interdisciplinarità può essere intesa sia nel senso della multipluridisciplinari-
tà, che si riferisce al perseguimento di obiettivi formativi che richiedono il concorso di diver-
se discipline, sia nel senso della transdisciplinarità, che si riferisce al perseguimento di obiet-
tivi formativi trasversali, comuni a più discipline.

INTERDISCIPLINARITÀ

Tra i primi studi in tema di interdisciplinarità citiamo quello condotto da J. Piaget che ha avanzato la
distinzione tra multidisciplinarità come confronto di contenuti appartenenti a discipline distanti (ad
esempio, per uno studio multidisciplinare, si potrebbero porre a confronto musica e filosofia) e inter-
disciplinarietà come interazione in una specifica problematica di contenuti appartenenti a discipline
affini, ciascuna delle quali conserva il proprio statuto epistemologico, mentre a un livello più comples-
so la transdisciplinarità modifica la specificità epistemologica e lessicale delle discipline coinvolte, re-
alizzando tra esse non semplice interazione ma “transazione” (nell’accezione deweyana del termine).
84

2.18 La lezione come unità didattica


L’esigenza della programmazione didattica è un’acquisizione piuttosto recente che ha
consentito di superare alcuni schemi d’insegnamento. Era ritenuto sufficiente che il docente
“preparasse” la lezione, approfondendone i contenuti e semmai l’articolazione della espo-
sizione con il ricorso ad eventuali supporti audiovisivi, che oggi possono essere pienamente
sostituiti dalle tecnologie multimediali.
La situazione cambia radicalmente nel momento in cui si riconosce che ciò che impor-
ta sono i processi apprenditivi ovvero i processi attraverso i quali i concetti, le idee, le teo-
rie vengono riscoperti, ricostruiti, reinventati dai singoli alunni, per cui occorre programma-
re soprattutto i percorsi apprenditivi.
In tale prospettiva, le unità didattiche si configurano come percorsi formativi. Infatti, le
unità didattiche assumono effettivo significato soprattutto se in esse vengono delineati i
percorsi e le procedure più idonee per lo svolgimento dell’insegnamento, cioè le modalità
concrete per mezzo delle quali conseguire gli obiettivi formativi.
Il percorso didattico è rappresentato quindi dall’insieme delle strategie di insegnamen-
to/apprendimento che vengono previste ai fini del perseguimento degli obiettivi formativi.

LE UNITÀ DIDATTICHE

Pellerey, importante studioso di metodologie didattiche derivanti dalla programmazione, definisce:


“Per unità didattica intendiamo un’ipotesi di esperienza di apprendimento che può considerarsi
sufficientemente articolata e completa nella suo strutturazione interna da poter essere facilmente
tradotta nell’azione educativo-scolastica”, cosicché si può dire che “le scelte relative agli obiettivi,
contenuti, metodi, valutazione si coagulano nella programmazione delle unità didattiche in cui le
esperienze di insegnamento/apprendimento vengono articolate in sequenze temporalmente de-
terminate e commisurate alle caratteristiche e alle esigenze della classe”.

2.18.1 La struttura delle unità didattiche


L’unità didattica può essere fatta corrispondere alla scansione degli obiettivi formativi da
far perseguire agli alunni.
In linea di massima, ogni unità didattica:
1. muove dall’analisi della situazione, cioè dalle effettive capacità ed esigenze di apprendi-
mento degli alunni;
2. precisa gli obiettivi, cioè gli atteggiamenti, le capacità e le conoscenze che gli alunni deb-
bono perseguire;
3. delinea i percorsi e le procedure più idonee, cioè le modalità concrete delle attività
che, secondo un’impostazione didattica prevalentemente fondata sulla ricerca, gli alun-
ni sono chiamati a svolgere, collettivamente, in gruppo o individualmente;
4. indica le tecnologie educative da utilizzare, assicurando adeguato spazio sia all’utilizza-
zione di materiali concreti, comuni e strutturati, sia alle tecnologie innovative;
5. stabilisce i criteri e gli strumenti di valutazione dei risultati conseguiti, considerando
85

la valutazione come strumento per la continua regolazione della programmazione, cioè


per introdurre per tempo quelle modificazioni o integrazioni che risultassero opportune.

2.18.2 L’analisi della situazione


Perché risulti efficace, l’azione educativa e didattica deve essere non solo ispirata a vali-
di criteri metodologico-didattici, ma anche personalizzata, cioè adeguata alle esigenze for-
mative ed alle caratteristiche personali (ritmi, stili, livelli di sviluppo e di apprendimento) dei
singoli alunni.
Poiché gli alunni possono essere produttivamente impegnati in un’attività di apprendi-
mento solo se possiedono i relativi prerequisiti cognitivi ed affettivi, gli insegnanti debbo-
no individuare sia le conoscenze, le abilità e le capacità, sia le motivazioni specifiche che gli
alunni possiedono in riferimento agli obiettivi da perseguire.
In effetti, l’elaborazione delle unità didattiche deve realizzare un opportuno equilibrio tra
la struttura logica delle discipline, che richiede il rispetto della progressione degli obiettivi e
dei contenuti, e le caratteristiche evolutive degli alunni, le quali non vanno misconosciute,
ma sollecitate, stimolate, promosse, nella prospettiva del raggiungimento di più avanzati li-
velli di sviluppo e di apprendimento.
Ove dovessero accertare carenze nello sviluppo e mancato possesso dei prerequisiti, gli
insegnanti debbono programmare ed attuare appositi interventi compensativi e di recupe-
ro, al fine di assicurarne comunque il possesso da parte di tutti gli alunni all’inizio delle atti-
vità di apprendimento, relativi ai singoli obiettivi programmati.

2.18.3 La specificazione e la definizione degli obiettivi


Nelle unità didattiche gli obiettivi formativi a medio termine della programmazione di-
dattica annuale vengono specificati e definiti, per quanto possibile, in termini di obiettivi a
breve termine.
Nella individuazione di tali obiettivi occorre sempre tener presente l’orientamento formati-
vo che, in prospettiva educativa e culturale, emerge chiaramente dal Regolamento dell’autono-
mia scolastica. Pertanto, è necessario che nella predisposizione delle specifiche unità didattiche
vengano di volta in volta esplicitati sia gli obiettivi disciplinari specifici (linguaggi, quadri con-
cettuali, modalità di indagine delle singole discipline), sia gli obiettivi formativi relativi alla for-
mazione complessiva della personalità (formazione cognitiva, affettiva, sociale, morale, ecc.).
In particolare, è opportuno evidenziare che gli obiettivi che di fatto vengono conseguiti si rife-
riscono, non solo a conoscenze (sapere) ed a capacità (saper fare), ma anche ad atteggiamen-
ti (saper essere). Nella scuola dell’autonomia, l’attività educativa e didattica deve essere perso-
nalizzata. Il che significa che anche gli obiettivi formativi debbono essere sempre personalizzati.
Attuare la personalizzazione degli obiettivi formativi significa che:
– tutti gli alunni devono perseguire determinati obiettivi formativi detti obiettivi formativi
standard, ma attraverso la loro modulazione in obiettivi a medio termine e soprattutto in
obiettivi a breve termine adeguati ai livelli e ritmi di apprendimento individuale;
86

– ogni alunno persegue obiettivi formativi integrativi (ed eventuali obiettivi formativi ag-
giuntivi), nel rispetto della sua identità personale, sociale, culturale e professionale.
Pertanto, le unità didattiche possono riguardare sia obiettivi generali o standard che
obiettivi formativi integrativi e gli eventuali obiettivi formativi aggiuntivi.

2.18.4 Le metodologie e tecnologie


Le unità didattiche assumono effettivo significato soprattutto se in esse vengono deline-
ati i percorsi e le procedure più idonei, cioè le modalità concrete per mezzo delle quali con-
seguire gli obiettivi formativi. La previsione degli itinerari didattici non può evidentemen-
te prescindere dall’individuazione e dalla indicazione degli strumenti didattici, dei materia-
li comuni e strutturati, delle apparecchiature, delle tecnologie anche multimediali, di cui gli
alunni debbono potersi avvalere nei diversi momenti delle loro attività apprenditive.
Nel momento in cui alla lezione espositiva, largamente fondata sulla parola orale e scrit-
ta dell’insegnante, con qualche generosa concessione alle illustrazioni dei cartelloni e de-
gli audiovisivi, si sostituisce la didattica costruttivistica e l’operatività degli alunni, si pone in
modo pressante un cambiamento di prospettiva.
Nelle unità didattiche vanno precisati quindi i percorsi di apprendimento degli alunni, in-
dicando le tecnologie educative e didattiche da utilizzare nelle singole fasi della motivazio-
ne, della ricerca vera e propria, del consolidamento, dell’approfondimento e dell’arricchi-
mento, relativamente ai singoli alunni o ai gruppi di alunni costituiti sulla base dei loro livelli
di sviluppo o di apprendimento. Dei loro stili e dei loro ritmi di apprendimento. Per ciascun
gruppo di alunni vanno indicati le tecnologie educative e didattiche, le modalità di reperi-
mento e soprattutto le modalità di utilizzazione.

2.18.5 Criteri e strumenti di valutazione


La valutazione assume valenza formativa, ponendosi come strumento per la continua re-
golazione della programmazione, cioè per introdurre per tempo quelle modificazioni o inte-
grazioni che risultassero opportune.
Le verifiche da effettuare al termine di ogni unità didattica debbono consentire agli inse-
gnanti di accertare se tutti gli alunni hanno conseguito o meno le mete perseguite attraverso
le specifiche attività svolte, al fine di attivare immediatamente gli eventuali interventi com-
pensativi o di recupero che si rendessero necessari per determinati alunni.
La valutazione deve essere utilizzata quasi esclusivamente in tale prospettiva, al fine di fa-
vorire la realizzazione di attività di apprendimento quanto più possibile produttive di risultati
positivi. In quanto consente di mantenere i processi di apprendimento dei singoli alunni sem-
pre sotto controllo e quindi di adeguare le situazioni di apprendimento alle effettive capacità
ed esigenze degli alunni, la valutazione si pone come strumento essenziale per rendere possi-
bile la concreta attuazione del diritto all’educazione ed all’istruzione. Nelle singole unità didat-
tiche vanno specificate, non solo le modalità della valutazione (criteri, tempi ecc.), ma anche
gli strumenti da utilizzare: prove oggettive, ma anche altre forme meno formalizzate di verifica.
87

È opportuno precisare che anche le verifiche debbono risultare personalizzate, in quan-


to debbono tenere presenti i possibili livelli di perseguimento degli obiettivi formativi da
parte dei singoli alunni, formulati anche sulla base dei livelli di partenza. Ogni unità didatti-
ca deve comprendere sia il percorso relativo alla riscoperta dei concetti, sia i percorsi relati-
vi alle eventuali attività di recupero e di approfondimento, che peraltro vanno meglio defini-
ti dopo le verifiche relative ai percorsi di riscoperta.

CARATTERISTICHE DEL MODULO DIDATTICO/UNITÀ DIDATTICA


Titolo del modulo indicare il nome generico dell’argomento che si intende trattare. Il mo-
dulo comprende le singole unità didattiche che rappresentano microargo-
menti in cui si suddivide il modulo
Contestualizzazione indicazione dell’ordine di studi e a quale classe il modulo è rivolto
della unità didattica
Percorso didattico elenco dei contenuti e successione propedeutica degli argomenti. Indica-
zione del numero e del contenuto delle singole unità didattiche
Obiettivi formativi gli obiettivi formativi hanno un carattere prevalentemente ma non esclu-
sivamente disciplinare. È da sottolineare che questa tipologia di obiet-
tivi deve essere formulata in riferimento alle indicazioni ministeriali per
l’individuazione dei contenuti curriculari e valevoli nell’ambito della pro-
grammazione disciplinare. Per esempio nella progettazione degli obietti-
vi formativi di una disciplina appartenente al curricolo di un liceo bisogna
fare riferimento all’B del D.P.R. n. 89/2010
Prerequisiti indicare le conoscenze e competenze pregresse che costituiscono i prere-
quisiti del percorso e la modalità con cui si procede alla rilevazione
Obiettivi specifici indicare in termini di padronanza (conoscenza e comprensione), di com-
di apprendimento petenza (operativa, lessicale, espressiva, di analisi, di sintesi, di autonoma
produzione, di autonoma valutazione, ecc.) e di comportamento la por-
tata degli obiettivi specifici che si intende raggiungere
Strumenti indicazione degli strumenti: contenuti multimediali, testi, fonti docu-
mentarie, saggi critici, repertori, pubblicistica, strumenti di sperimenta-
zione laboratoriali, ecc.
Metodologia didattica assetto didattico e uso delle metodologie utilizzate
Spazi indicazione dei luoghi di svolgimento del modulo (classe, visite guidate
esterne, laboratori, aula multimediale)
Tempi di realizzazione indicare il tempo secondo l’importanza che si attribuisce al consegui-
del percorso mento dei suoi obiettivi, nel contesto della programmazione disciplinare
Interdisciplinarietà verifica dei collegamenti interdisciplinari (indicare la relazione con ambiti
disciplinari affini e le modalità con cui valorizzare e realizzare lo spunto di
interdisciplinarietà individuata)
Spunti di attualità indicare gli argomenti che possano dare una spinta all’attualizzazione de-
gli argomenti trattati sollecitando l’alunno alla ricerca azione
Verifica e valutazione indicazione degli strumenti di verifica che si reputano idonei in funzione
degli obiettivi didattici sia nel breve che medio periodo per la valutazione ci
si limita a esplicitare la valenza docimologica delle singole prove di verifica
Eventuali percorsi di indicare nel caso le prove di verifica indicassero scarse performance in
recupero alcuni allievi le modalità per sostenere l’allievo e migliorare il suo ap-
prendimento
88

APPENDICE
ESEMPIO DEL MODULO DIDATTICO/UNITÀ
TITOLO IMPRENDITORE ED IMPRESA
CONTESTO Classe IV di un Istituto Tecnico Commerciale
Il modulo avente ad oggetto lo studio e l’analisi della figura giuridica dell’im-
prenditore e dell’impresa.
Il modulo si compone di cinque unità didattiche (U.D.).
U.D.1: L’Imprenditore
La prima UD è dedicata all’imprenditore ed in particolare alla definizione
di imprenditore secondo l’art. 2082 del c.c., passando poi ad analizzare le
varie categorie di imprenditori (imprenditore agricolo, commerciale con il
relativo statuto). In questa prima fase verrà analizzata anche l’impresa ed in
particolare l’impresa familiare.
U.D.2: L’Azienda
La seconda UD è dedicata all’Azienda, partendo appunto dalla nozione di
PERCORSO DIDATTICO azienda al trasferimento della stessa.
U.D.3: Segni distintivi dell’azienda
La terza UD ha per oggetto i segni distintivi dell’azienda: ditta – insegna –
marchio.
U.D.4: Opere dell’ingegno ed invenzioni industriali
La quarta UD riguarda le opere d’ingegno e le invenzioni industriali e quindi
diritto d’autore e brevetto per invenzioni industriali.
U.D.5: Concorrenza
La quinta UD ha per oggetto la concorrenza e quindi la libertà di iniziativa
economica, il regime di monopolio, le limitazioni alla libertà di concorrenza
con le varie normative antitrust.
Il diritto commerciale è il settore del diritto privato avente ad oggetto la
disciplina giuridica dell’impresa.
Il fatto che il diritto commerciale sia in sostanza il diritto dell’impresa fa sì
che esso si occupi, in primo luogo, di individuare e definire il soggetto che
esercita l’attività d’impresa, cioè l’imprenditore, e di classificarlo secondo il
tipo e le dimensioni dell’attività economica svolta.
Finalità primaria è quella di far comprendere agli alunni:
OBIETTIVI FORMATIVI – il ruolo delle norme giuridiche nel contesto del sistema informativo
aziendale: in particolare, analizzando i vari istituti del diritto commer-
ciale e gli adempimenti da essi previsti, diretti non solo ad assicurare la
legalità dell’attività aziendale;
– il modo ottimale per individuare, analizzare, giustificare le tipologie di
imprese commerciali individuali e collettive disciplinate nel nostro or-
dinamento giuridico, coglierne analogie e differenze in ordine a natura,
struttura, funzione;
– soggetti del diritto;
– capacità giuridica e capacità di agire;
– fonti del diritto commerciale;
PREREQUISITI
– persone fisiche e persone giuridiche.
Verifica iniziale: per rilevare il possesso di tali prerequisiti verranno effettuati
test in forma di prove strutturate (del tipo V/F; a risposta multipla)
(segue)
89

TITOLO IMPRENDITORE ED IMPRESA


SAPERE:
Nel corso delle lezioni gli alunni impareranno:
• la nozione di imprenditore e d’impresa;
• le categorie d’imprenditore;
• lo statuto dell’imprenditore;
• gli ausiliari dell’imprenditore;
• la nozione d’azienda;
• il trasferimento d’azienda;
• i segni distintivi: ditta, marchio, brevetto;
• le opere dell’ingegno e le invenzioni industriali;
• la libertà d’iniziativa economica e le relative limitazioni;
• la normativa antitrust;
• gli atti di concorrenza sleale;
• la tutela del consumatore e relativa riforma.
SAPER FARE:
• saper individuare e definire il soggetto che esercita l’attività d’impresa;
OBIETTIVI SPECIFICI DI
• saper classificare l’imprenditore secondo il tipo e le dimensioni dell’at-
APPRENDIMENTO
tività economica svolta;
• saper analizzare l’importanza dello statuto dell’imprenditore;
• a riconoscere i rappresentanti dell’imprenditore commerciale;
• saper analizzare l’azienda, i beni che la compongono;
• saper analizzare gli effetti del trasferimento d’azienda;
• saper riconoscere i segni distintivi dell’azienda;
• sapere valutare l’importanza del diritto d’autore, dell’invenzione indu-
striale e delle relative tutele;
• saper individuare i casi di concorrenza sleale e saper spiegare i metodi
di tutela;
• acquisire padronanza della materia in modo da poter esprimere la pro-
pria opinione nelle discussioni di gruppo.
SAPER ESSERE:
Verranno proposti ai ragazzi, nell’ambito del seguente modulo, quesiti e test
volti a stimolare la loro curiosità e concentrazione, al fine di indurli a pro-
porre soluzioni alle questioni giuridico-economiche proposte in aula.
• Testo scolastico adottato;
• Codice civile;
STRUMENTI
• Materiale didattico quali schemi, tabelle ed appunti;
• Supporti multimediali
Le metodologie utilizzate durante il percorso sono:
• Lezione frontale con esposizione teorica degli argomenti delle unità
didattica;
METODOLOGIA • Analisi e risoluzione di un caso pratico (problem solving);
DIDATTICA • Lavoro di gruppo che abbia ad oggetto la riproduzione di esempi scritti
di contratti tipici;
• Brain storming per stimolare la partecipazione della classe alla defini-
zione dei concetti giuridici
– Aula
SPAZI
– Laboratorio informatico
TEMPI La scansione temporale prevista è di 5 ore comprese le verifiche
(segue)
90

TITOLO IMPRENDITORE ED IMPRESA


Verifiche iniziali: con domande strutturate per individuare la presenza dei
prerequisiti;
Verifiche intermedie: prove semistrutturate al fine di valutare la capacità
VERIFICHE
elaborativa degli studenti;
Verifiche finali: al termine del modulo si prevede un colloquio orale per
valutare le conoscenze acquisite e la capacità espositiva degli alunni
Lezione interdisciplinare con il docente di economia aziendale per lo stu-
INTERDISCIPLINARIETÀ dio e l’approfondimento degli elementi della compravendita per l’operatore
“impresa”
SPUNTI DI ATTUALITÀ Disciplina degli acquisti on-line
La strutturazione di corsi di recupero deve rappresentare un sistema rego-
lare e non episodico di supporto all’alunno in difficoltà. Pertanto potranno
EVENTUALI PERCORSI
essere attuati con diverse modalità:
DI RECUPERO
– lezioni frontali facilitate;
– appunti e schede esemplificative.

LA CODOCENZA

La codocenza indica l’organizzazione di un intervento formativo in aula in team: general-


mente gestito da due insegnanti. Questa modalità d’insegnamento è sempre più il risultato
dell’approccio multidisciplinare che sta caratterizzando la scuola negli ultimi anni. Attraver-
so le codocenze è possibile insegnare gli stessi argomenti in maniera trasversale affrontan-
doli da diversi punti di vista e nei loro differenti aspetti.
In classe due insegnanti sono presenti contemporaneamente e svolgono le stesse attivi-
tà avendo come obiettivo lo sviluppo nei discenti di alcune abilità di base preselezionate in
fase di programmazione didattica.
Le attività delle diverse coppie di docenti sono programmate in modo che entrambi sia-
no coinvolti nella strategia.
Esiste come uno schema di riferimento che è da guida nella organizzazione delle discipline
che possono facilmente integrarsi ed essere oggetto di una codocenza. Lo schema è solo un
possibile riferimento, ma le lezioni multidisciplinari in codocenza possono essere formulate in
relazione alle specificità del curricolo e del carattere innovativo del consiglio di classe.

ANNO SCOLASTICO DISCIPLINE


Italiano/Scienze; Italiano/Matematica; Scienze/Matematica; Storia/Diritto;
I anno Economia aziendale/Economia politica; Economia aziendale/Matematica; Ita-
liano/Lingua straniera; TIC/Lingua straniera; Economia/TIC
Italiano/Lingua straniera; Economia aziendale/Matematica; Italiano/TIC; Sto-
II anno
ria/Diritto; Economia aziendale/Economia politica; Economia/TIC
Italiano/Lingua straniera; Matematica/TIC; Diritto/Economia aziendale; Geo-
III anno
grafia/Lingua straniera; Italiano/Lingua straniera
Italiano/Lingua straniera; Matematica/TIC; Religione/Geografia; Economia/
IV anno TIC; Geografia/Lingua straniera; Diritto/Economia; Italiano/Filosofia; Storia/
Lingua straniera
Matematica/TIC; Diritto/Economia; TIC/Economia; Storia/Diritto; Geografia/
V anno
Lingua straniera
91

Esempio di codocenza italiano-matematica-scienze

Titolo del modulo: Il linguaggio e le sue variabili.


Finalità: Gli studenti devono essere in grado di riconoscere i diversi generi e forme te-
stuali.
Obiettivi: Sviluppo delle abilità di espressione e di comunicazione nell’uso di differenti
linguaggi in termini chiari e rigorosi.
Competenze: Riconoscere, identificare e classificare testi differenti relativamente alle
funzioni comunicative.
Metodologie: Le attività vengono sviluppate con le coppie italiano-matematica, italiano-
scienze e matematica-scienze.
In ciascun momento di codocenza verranno analizzati attraverso la lettura e decodifica-
zione testi con linguaggi specifici relativi alla matematica e alle scienze; la codocenza di
italiano contribuirà all’acquisizione di un metodo adeguato trasversale alle discipline.
Per quanto riguarda la codocenza matematica-scienze l’attenzione sarà posta su abilità
comunicative trasversali quali la lettura e la costruzione di grafici, interpretazione di fi-
gure e di diagrammi.
Capitolo 3
Uso delle tecnologie dell’informazione
e della comunicazione nella didattica

3.1 La didattica tecnologica


Le spinte riformistiche sulla scuola si sono progressivamente concentrate verso la pro-
mozione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC) sia sotto il
profilo tecnico e organizzativo che nei connessi aspetti pedagogici e didattici.
Per gli insegnanti, infatti, la sfida pedagogica non è quella di acquisire esclusivamente il
know-how tecnico, ma quella di padroneggiare l’uso didattico delle nuove tecnologie per
rendere più efficace il processo formativo.
Le TIC infatti spingono all’approfondimento nella didattica di alcune tematiche: per
esempio la conoscenza e la sua applicazione concreta del linguaggio delle immagini che ha
caratteristiche differenti e complementari rispetto al linguaggio verbale.
All’interno della vasta gamma di TIC inoltre l’insegnante deve poter scegliere in modo sa-
piente e opportuno per conseguire i potenziali obiettivi di questi strumenti:
– migliorare la concentrazione e l’attenzione degli allievi;
– miglioramento degli atteggiamenti cooperativi degli allievi;
– miglioramento della partecipazione in aula e all’economia generale dei contenuti svilup-
pati dal docente.
L’uso delle TIC è ormai imprescindibile nella vita quotidiana e anche tra i banchi di scuo-
la. In una società di “digital natives”, alunni cresciuti in un mondo dominato dalla tecnolo-
gia, è fondamentale per i docenti avvicinarsi alla tecnologia per avvicinarsi agli alunni stessi
cercando di capire il loro mondo. La didattica tecnologica si basa proprio sul presupposto di
usare i linguaggi più affini agli alunni per migliorare il processo di insegnamento/appren-
dimento. Infatti, se con l’avvento delle nuove tecnologie si afferma un nuovo processo di svi-
luppo e di organizzazione delle persone, con l’utilizzo delle tecnologie multimediali e di In-
ternet si genera un nuovo linguaggio e un nuovo modo di organizzare il pensiero. In questo
contesto risulta fondamentale servirsi della tecnologia per diversificare i metodi e le strate-
gie di apprendimento, potenziando attraverso l’uso della tecnologia le opportunità educati-
ve. Se alcuni contenuti della scuola rimangono validi in ogni tempo, è il modo di trasmetterli
che cambia e si adegua alla digitalizzazione. Le domande a cui numerose ricerche sperimen-
tali in ambiente scolastico tentano di far fronte sono: come insegnare ai nativi digitali? Come
insegnare usando computer, mobile device (tablet, telefoni cellulari, palmari, smartphone,
93

laptop, lettori MP3), schermi touch? Quali sono le tecniche per utilizzare il web tra i banchi?
Come usare le app ed il blog di classe?
Gli stimoli che offrono il pc e la rete sono svariati e inoltre coinvolgono più canali sen-
soriali che certamente favoriscono l’apprendimento. Le opportunità offerte dalla tecno-
logia sono da considerarsi non soltanto in relazione allo sviluppo di specifiche conoscen-
ze o abilità, ma a supporto dell’intero processo di insegnamento/apprendimento per l’ac-
quisizione di competenze complesse come la risoluzione dei problemi, lo sviluppo di con-
getture e dimostrazioni. L’uso delle TIC ed il loro utilizzo applicato alla didattica offrono
la possibilità ai nativi digitali di confrontarsi con i contenuti curriculari delle varie discipli-
ne in maniera innovativa e coinvolgente, utilizzando un linguaggio condiviso, comune. Il
web diventa il presidio di un apprendimento in rete: un ambiente in cui si trovano sti-
moli e potenzialità molto forti; un ambiente in cui il docente ha la possibilità di imposta-
re l’azione didattica nello stile di un linguaggio usato dai digital natives; un ambiente che
diventa luogo di insegnamento e di apprendimento; un ambiente libero da confini nozio-
nistici. In un contesto scolastico in continuo cambiamento, l’introduzione delle tecnolo-
gie nella didattica non può più essere negata o ignorata, in quanto l’utilizzo di tali risor-
se offre agli alunni nuove opportunità di partecipare attivamente al processo educativo
all’interno di comunità virtuali che apprendono collaborativamente. In questo ambien-
te si impara in molti modi diversi contemporaneamente: osservando cosa fanno gli altri
e come lo fanno, facendo da soli o sperimentando, chiedendo aiuto o consigli. L’alunno
partecipa al processo dell’organizzazione delle informazioni, della costruzione, della im-
mensa rete che costituisce la conoscenza, incrementando e favorendo il dialogo con gli
altri. Oggi, utilizzare i nuovi media per un apprendimento proficuo significa servirsi di In-
ternet e dei nuovi scenari che esso ci offre per rendere possibile una didattica collabo-
rativa di stampo costruttivista. In questo modo insegnare ed apprendere online signifi-
ca riprodurre, anche se in un ambiente virtuale, gli obiettivi prefissati da un approccio
metodologico di tipo comunicativo. E, visto che la navigazione e la comunicazione onli-
ne diventano sempre più frequenti tra gli studenti, perché non veicolare l’insegnamento
in ambienti di apprendimento dove il confronto e la condivisione permetteranno di met-
tere insieme abilità e competenze maturate durante il percorso lavorativo? Fare didatti-
ca in un ambiente virtuale significa, anche, coniugare l’aspetto ludico con quello forma-
tivo attraverso la simulazione intesa, genericamente, come rappresentazione interattiva
della realtà basata sulla costruzione di un modello di un sistema del quale si vuole com-
prendere il funzionamento. Questo approccio didattico migliora la capacità degli studen-
ti di applicare conoscenza astratta collocando l’educazione in contesti virtuali autentici,
consentendo loro di svolgere compiti che potrebbero essere difficili o impossibili da vive-
re nel mondo reale. Gli studenti pensano e apprendono in ambienti che sono veloci, mul-
timediali, multimodali, interattivi, digitali. Sperimentare quanto il virtuale può rappre-
sentare il reale in contesti didattici significa anche favorire le diverse intelligenze degli
alunni. L’importanza della tecnologia come fattore abilitante per un cambio di metodo di
lavoro e di impostazione complessiva del processo di apprendimento è stata conferma-
ta da numerose ricerche.
94

Gli insegnanti percepiscono la tecnologia come ricca di potenzialità, ma la vera variabile


che fa la differenza è la preparazione dei docenti e il loro ruolo svolto nell’incoraggiamento
e nel supporto agli studenti in tutte le fasi del processo di apprendimento. Il ruolo di media-
zione svolto dai docenti è importante e a questo proposito le tecnologie sono fattori di am-
plificazione di una impostazione didattica di tipo costruttivista, che coinvolge il discente nel
processo di assimilazione delle conoscenze.

3.2 E-learning
L’e-learning, pur essendo una modalità di insegnamento prevalentemente adoperata
nell’insegnamento agli adulti piuttosto che agli studenti curricolari, ha offerto degli ottimi
spunti sul ruolo, sulle competenze e sulle nuove professionalità nell’ambito educativopeda-
gogico che vale la pena di analizzare. Inoltre, le tipologie didattiche di e-learning evidenzia-
no criteri e scelte pedagogiche differenziate che spesso emergono nella funzione e nel peso
del tutor.
La più diffusa tipologia di e-learning è quella ricettiva, sequenziale e a “scoperta guida-
ta”, finalizzata all’acquisizione di contenuti i quali, secondo il modello comportamentista,
sono unità predisposte in sequenze. In questa tipologia di FAD, l’ambiente virtuale di ap-
prendimento viene strutturato in:
– moduli che hanno come obiettivo le conoscenze di base;
– esercizi di feedback correttivo;
– prescrizioni procedurali.
La funzione educativa è svolta prevalentemente da un tutor che interagisce con i parte-
cipanti in maniera sincrona (interazione mittente-ricevente) o asincrona.
L’altra tipologia di e-learning è quella a “scoperta in collaborazione” finalizzata all’acqui-
sizione di competenze e abilità piuttosto che all’acquisizione di conoscenze. È la tipologia
wrap around, ovvero “avvolgente”, una definizione che comprende l’idea della collaborazio-
ne. Nella fase iniziale il tutor presenta le prescrizioni procedurali e condivide le varie piste di
lavoro; poi, progressivamente, il suo ruolo diventa sempre meno centrale pur aggiungendo
periodicamente qualcosa per incentivare la motivazione o per reindirizzare il processo nella
classe virtuale. I discenti possono confrontarsi tra pari e con il “facilitatore”, il quale è il “me-
diatore dei saperi”, in grado di fornire agli alunni il massimo numero di elementi e strumen-
ti utili per costruire i concetti, per orientarli nelle domande, definire le priorità, autovalutar-
si, riconoscere le difficoltà e gli errori.
A parte l’esperto disciplinare, l’e-tutor è il protagonista dell’e-learning: un professionista
della comunicazione telematica animatore delle video-conferenze, chat, web forum, mai-
ling list. Questa figura non si occupa di preparare i materiali didattici, ma di gestirli intera-
gendo con la comunità virtuale. Il compito del tutor è quello di facilitare la comunicazione e
l’apprendimento, animando e moderando la classe virtuale. Nel suo profilo professionale vi
sono competenze in campo psico-sociale e dell’apprendimento.
La figura dell’esperto dei contenuti e quella del tutor rimandano agli studi pedagogici fe-
nomenologico-umanistici di impostazione gardneriana.
95

L’esperto ha il compito di proporre i contenuti della formazione stabilendo il “clima cul-


turale” del corso, pianifica i tempi, presenta le risorse, gli obiettivi e i compiti in modo det-
tagliato affinché gli studenti possano in autonomia essere protagonisti del proprio appren-
dimento.
L’insegnante-facilitatore, esperto in strategie dell’apprendimento, che orienta la forma-
zione alimentando la tensione cognitiva degli studenti e valorizza le caratteristiche dei singo-
li. Svolge anche l’importante funzione del rinforzo all’apprendimento per gli studenti in dif-
ficoltà. Queste figure nella prassi della didattica a distanza tendono a essere interrelate ma
sono soggetti diversi, mentre nella didattica frontale questi profili di competenza dovranno
integrarsi nel ruolo del docente.
In conclusione, si vuole sottolineare che la FAD consente di superare un’altra barriera
all’istruzione o almeno ridurla grazie alla possibilità di seguire le lezioni in momenti diversi
rispetto a quando sono tenute, così che, in alcuni casi, l’istruzione diventa conciliabile con
un’attività lavorativa. Sebbene a livello teorico l’utilizzo delle tecnologie per la formazione a
distanza sembri essere possibile a qualsiasi livello, ci sembra importante la tendenza a una
loro utilizzazione per l’istruzione secondaria e terziaria.

3.3 Modalità di apprendimento attraverso le nuove tecnologie


La diffusione di nuove tecnologie, con particolare riferimento a quelle di carattere multi-
mediale, ha influenzato enormemente intere generazioni a livello mondiale sul modo di per-
cepire, organizzare e fruire dei saperi e delle conoscenze.
L’attenzione che le politiche scolastiche promuovono è quella di attivare un ammoder-
namento complessivo della didattica in conformità ai cambiamenti culturali. Quello che l’in-
segnamento scolastico deve fronteggiare è infatti il cambiamento culturale cui le tecnolo-
gie hanno dato luogo.
Per fare alcuni esempi, il web è divenuto una fonte essenziale del sapere ma è anche
una fonte che rispetto al mondo del sapere cartaceo ha altre modalità cognitive, cataloga-
tive, espressive.
È evidente che la novità delle procedure logiche e analogiche, la simultaneità di produ-
zione e fruizione, la molteplicità dei codici di comunicazione tipiche delle nuove TIC abbia-
no condizionato l’approccio all’apprendimento, nonché favorito alcune tipologie di intelli-
genza piuttosto che altre.
Dobbiamo dunque chiederci in quale misura le attuali tecnologie possono aver modifi-
cato negli studenti gli stili cognitivi e le forme di apprendimento. Le generazioni cosiddette
“puntadito” ovvero touch screen mostrano una evidente modifica della percezione del tem-
po e dello spazio comparate a quelle passate.
Il dibattito sui cambiamenti cognitivi è talmente sentito che si è anche connotato talvol-
ta di elementi di avversione e criticità verso le TIC. È stato sollevato l’allarme circa l’eventua-
lità che la comunicazione informatizzata della presente generazione di studenti metta in cri-
si le competenze verbali ed espressive: si ipotizza che nei soggetti in età evolutiva possa in-
durre confusione tra le lettere dell’alfabeto o nell’allineare correttamente le parole. Nono-
96

stante queste legittime preoccupazioni resta il fatto che la questione non è di stabilire quale
sia la forma migliore della concettualizzazione e della comunicazione, bensì quale sia quella
più conforme al tipo d’intelligenza prevalente in questa generazione. Gli studenti mostrano,
in genere, un’accresciuta attitudine a percepire le correlazioni in modo non sequenziale ma
simultaneo, ad apprendere le correlazioni e le intersezioni logico-spaziali attraverso concet-
ti rappresentati prevalentemente mediante forme iconiche ed elaborati in forma analogico-
sistemica ed espressi con una pluralità di codici. Dagli anni Settanta in poi gli studiosi della
cognitive science e della memoria semantica hanno indagato la natura sistemica delle fun-
zioni e dei processi mentali e le caratteristiche dell’intelligenza simultanea valorizzando l’as-
sunto della teoria delle intelligenze multiple secondo la quale l’insegnante deve asseconda-
re la modalità apprenditiva specifica dello studente.
Questi studi hanno contribuito ad approfondire la fisionomia cognitiva degli alunni e
possono essere utilizzati per migliorare la didattica. Questi studi hanno evidenziato che di-
versamente dal passato è auspicabile che la didattica non sia concentrata sull’intelligenza
linguistica e su quella logico-matematica. Emerge infatti lo sviluppo del linguaggio iconico
tra gli studenti. La teoria del Human information processing mette in connessione le funzio-
ni dell’apprendimento umano e le procedure tecniche proprie dell’elaboratore elettronico,
e conclude nell’osservazione che solo il cervello umano è capace di operazioni “intenziona-
li”. Questo sarebbe il discrimine importante tra il pensiero umano, che interpreta i simboli,
e quello artificiale, che si limita a manipolarli.
Un altro contributo importante nella comprensione del funzionamento delle TIC nella di-
dattica è data dagli studi sulle proprietà associative del pensiero, posti alla base delle map-
pe concettuali sviluppate da D.P. Ausubel. Le funzioni logiche implicate nella produzione e
fruizione delle mappe concettuali (di cui Joseph Novak può reputarsi il padre) sono certa-
mente una risorsa ottimizzata da quest’ultima generazione di studenti per correlare i con-
cetti e le conoscenze.
I concetti generali nell’ambito delle mappe sono rappresentati graficamente e collegati
gerarchicamente, in ottica sistemica, mediante relazioni e segni specifici.
La mappa concettuale è uno strumento per rappresentare in un grafico le proprie cono-
scenze intorno ad un argomento secondo un principio cognitivo di tipo costruttivista: cia-
scuno è autore del proprio percorso conoscitivo all’interno di un contesto. Con l’ausilio del-
le mappe gli allievi mirano a contribuire alla realizzazione di apprendimenti significativi, in
quanto si distanziano dalle logiche dell’apprendimento meccanico che si fonda unicamen-
te sull’acquisizione mnemonica. Le mappe non esauriscono i passaggi logici evidenziati dalle
frecce di collegamento agli argomenti e possono essere ulteriormente integrate in uno qua-
lunque dei loro molteplici nodi. Questa sintesi sulle caratteristiche delle mappe concettua-
li è chiaramente il modello che sta alla base degli ipertesti e della modalità di apprendimen-
to che si sviluppano con alcune TIC (per esempio Internet). Quindi l’approccio teorico più
adeguato all’inserimento delle TIC risiede nella intelligenze multiple e nello sviluppo del lin-
guaggio iconico con particolare riferimento alle mappe concettuali. I docenti devono inol-
tre rafforzare l’insegnamento nella direzione dello sviluppo e valorizzazione di obiettivi tra-
sversali, come per esempio:
97

– insegnare ad apprendere;
– insegnare a costruire;
– sollecitare verso lo sviluppo di comportamenti sociali attivi e collaborativi, nonché all’au-
tonomia e al senso di responsabilità.

GLI STRUMENTI MULTIMEDIALI

Gli strumenti multimediali realizzano la sinergia tra gli audiovisivi e gli elettronici, utilizzando più
canali di comunicazione e più codici (elementi linguistici, immagini e suoni). Gli ipertesti sono testi
sia linguistici che iconici, a struttura reticolare e contestualizzante, per di più “non lineare” (dun-
que, a più direzioni di lettura).

3.4 Le TIC come risorse didattiche


Ad oggi i metodi formativi sono stati basati sulla centralità dell’insegnante e sono definiti
“teaching centered”. A fronte dei cambiamenti sociali e tecnologici si è sviluppato un nuovo
quadro teorico di riferimento all’interno della teoria del costruttivismo, che pone il soggetto
che apprende al centro del processo formativo definito “learning centered”.
In base a questo approccio la conoscenza è il frutto di una costruzione attiva da parte del
soggetto che deve essere formato. L’area del sapere è strettamente collegata alla situazione
concreta in cui avviene l’apprendimento e nasce dalla collaborazione sociale e dalla comu-
nicazione tra individui. Cercheremo di sottolineare come i cambiamenti tecnologici in atto
possono essere d’aiuto nel processo formativo modificando in modo sostanziale la didatti-
ca e i sistemi scolastici.
In ambito scolastico le TIC si declinano in risorse didattiche per l’apprendimento e com-
prendono:
1) software didattici in senso stretto (software nati espressamente per la didattica);
2) strumenti software con funzionalità generali (ambienti di scrittura, ambienti autore);
3) risorse elettroniche (archivi di documenti, immagini);
4) ambienti tecnologici per l’apprendimento (sistemi di rete, piattaforme di e-learning);
5) software nati per altri fini e usati poi a scopo didattico, compresi anche i software a sco-
po di intrattenimento.
Nell’accezione generale i software didattici sono programmi che propongono conte-
nuti conformi ai programmi scolastici, contengono spiegazioni, feedback, test di verifica,
correzioni e valutazioni degli errori. In un’accezione più ampia possiamo includere anche
software tutoriali ed esercitativi, software espositivi di singoli argomenti, opere di consul-
tazione.
Il software didattico è quindi uno strumento utile per migliorare la spiegazione in aula o
la classica lezione, per far esercitare, far lavorare su tematiche specifiche, consentire appro-
fondimenti specifici, stimolare il recupero di abilità non completamente acquisite o come
semplice strumento di consultazione e supporto alla spiegazione del docente.
Da una semplice ricerca on line emerge come vi sia un’offerta di software didattici da
98

parte degli editori estremamente varia e composita. Valutare un software didattico è deci-
samente più complesso che valutare un libro di testo o un eserciziario sfogliando le pagine.
I software vengono generalmente valutati in base a una serie di criteri oggettivi come la fa-
cilità di accesso alla risorsa, i requisiti minimi hardware e software richiesti per l’utilizzo, la
facilità di utilizzo anche per particolari gruppi di studenti (disabili), prerequisiti necessari per
l’uso, presenza o meno di un programma dimostrativo, collegamento a un sito web di sup-
porto al prodotto, disponibilità di approfondimenti e sulla base del punteggio ottenuto pos-
sono ottenere la certificazione di qualità. Non si deve comunque dimenticare che la quali-
tà di un software, al di là di alcune caratteristiche oggettive, dipende in modo imprescindibi-
le dall’uso fatto dal fruitore finale e deve tener conto di aspetti prettamente educativi come
ad esempio la coerenza rispetto allo specifico progetto didattico e la rispondenza agli obiet-
tivi formativi individuati, la complementarietà rispetto agli altri strumenti didattici in uso, il
livello di competenze richieste ad insegnanti e alunni. In rete sono disponibili alcune ban-
che dati di centri di valutazione software, come quella del CNR o dell’Indire realizzata in col-
laborazione con il MIUR.
Rispetto a un libro di testo tradizionale che può essere adottato per diversi anni senza es-
sere cambiato, le peculiarità dei software didattici è che si dovrebbero adattare il più possi-
bile alle esigenze della classe specifica in modo da sfruttare al massimo le potenzialità del-
lo strumento informatico.
Estremamente utili e versatili nella nuova pratica didattica sono gli ipertesti che consen-
tono di utilizzare in modo non lineare le conoscenze che, diversamente da un libro cartaceo,
vengono divise in unità informative collegate tra loro attraverso legami. Il vantaggio princi-
pale dell’ipertesto è rappresentato dal fatto che non possiede un unico ordine di lettura e di
apprendimento ma consente molteplici itinerari: ogni lettore può scegliere il percorso che
più gli si adatta e lo stesso lettore, in momenti diversi, può scegliere percorsi diversi. Il van-
taggio degli ipertesti nella pratica didattica è rappresentato dal fatto che il lettore ha un ruo-
lo attivo: non esiste un testo uguale per tutti ma ogni studente lo crea in base ai propri gusti
e alle proprie esigenze. L’ipertesto richiedendo la partecipazione attiva e avendo una strut-
tura di tipo radiale, in linea con la teoria costruttivista, risulta uno strumento effettivamen-
te in grado di costruire competenze. I vantaggi derivanti dall’uso di un ipertesto nella didat-
tica sono collegati alla capacità di suscitare motivazione degli alunni, alla scoperta del pro-
prio ruolo e al rinforzo continuo dell’autostima.
Non mancano ovviamente gli aspetti critici nell’utilizzo degli ipertesti. Gli studenti, so-
prattutto nelle fasi iniziali, potrebbero perdere di vista l’obiettivo dell’apprendimento, per-
dersi in approfondimenti non essenziali, dimenticare il punto di partenza o il link preceden-
te o trascurare dei nodi concettuali essenziali per l’apprendimento. Non bisogna mai dimen-
ticare che gli ipertesti, come tutte le TIC, sono strumenti didattici che possono migliorare
la didattica ma non sostituirla. L’insegnante deve quindi rimanere la guida anche in questo
processo di navigazione tra testi. È importante inoltre che lo studente sia guidato a utilizza-
re l’ipertesto sia da solo sia in gruppo con i compagni e che la lettura/navigazione sia accom-
pagnata da vere e proprie discussioni in modo da evitare il rischio di riduzione dei rapporti
interpersonali. Rispetto ad altre TIC l’ipertesto è, in generale, un prodotto finito difficilmen-
99

te modificabile per il quale non sono disponibili molti aggiornamenti. Questo aspetto può
diventare problematico per alcune discipline in cui i cambiamenti sono veloci e le scoperte
sono talmente innovative da rendere obsoleto il materiale in poco tempo. A questo si deve
aggiungere che, anche in settori disciplinari molto consolidati, un ipertesto può diventare
obsoleto molto velocemente (molto prima di quanto accada a un libro stampato) per effet-
to del velocissimo cambiamento che caratterizza oggi i sistemi di comunicazione: la grafica
e le modalità di presentazione dei materiali perdono di attualità in tempi molto brevi e que-
sto può tradursi in maggiori costi anche a parità di contenuti.
Le nuove tecnologie, grazie ai word processor (Word, Wordpad solo per citarne alcuni),
possono essere funzionali anche allo sviluppo di una delle abilità cruciali per l’apprendimen-
to: la letto-scrittura. L’utilizzo di questi applicativi può essere adattato alle esigenze delle di-
verse fasce d’età ma è fondamentale che l’insegnante sia completamente consapevole del-
le possibilità offerte dallo strumento in modo da evitare di replicare le proposte didattiche
tradizionali e sfruttare appieno le potenzialità della videoscrittura. Se integrata alla didattica
tradizionale, la videoscrittura è utile per l’acquisizione in modo naturale e intuitivo dei con-
cetti base del codice linguistico, ovvero la direzione e la linearità dello scrivere, soprattutto
nelle prime fasi dell’apprendimento, grazie al fatto che viene meno il problema della grafia
che richiede ai bambini uno sforzo di concentrazione e coordinazione visivo-manuale signifi-
cativo. I risultati in termini di apprendimento sono ancora più evidenti quando il programma
di videoscrittura viene associato a un sintetizzatore vocale che permette di avere una verifi-
ca immediata di quanto scritto. I correttori ortografici, evidenziando gli errori e correggen-
doli immediatamente, rendendo molto più veloce il processo di apprendimento. In aggiun-
ta, gli studi mostrano che il poter cancellare, modificare e riscrivere evita nei bambini l’an-
sia della pagina bianca nel momento in cui devono iniziare a scrivere un testo. Si sottolinea
inoltre che la videoscrittura è particolarmente efficace per migliorare le abilità di apprendi-
mento negli studenti che presentano disturbi specifici di apprendimento ed è quindi larga-
mente adottata nella didattica speciale.
Infine, le TIC rendono più facile e naturale anche lo scrivere con altri compagni in
modo da sviluppare lo spirito cooperativo. Parlando di TIC nella scuola si deve menziona-
re Internet.
Se utilizzato in modo sapiente, l’accesso alla rete può diventare anche uno strumento
per promuovere l’eccellenza in ambito didattico. La rete rappresenta un spazio multidimen-
sionale, cioè è contemporaneamente una banca dati, un luogo di interazioni, un ambiente
per attività di costruzione cooperativa, un luogo di lavoro condiviso. Internet ha molte po-
tenzialità come strumento didattico proprio per il fatto che in un’unica risorsa si trovano, in
modo integrato, tutte quelle dimensioni che nella didattica tradizionale sono separate. In-
cludendo diverse dimensioni anche le tipologie di attività didattica che si possono fare con
Internet sono estremamente variegate e adattabili alle esigenze specifiche dello studente.
Utilizzando Internet come semplice motore di ricerca per cercare informazioni, documenti,
dati possono assolvere importanti funzioni educative. Anche per quanto riguarda l’uso di In-
ternet la funzione dell’insegnante come educatore rimane centrale perché deve fornire gli
strumenti necessari per valutare in modo critico le risorse disponibili così che lo studente
100

impari a sviluppare capacità critica, analitica e selettiva. Nelle fasi più avanzate del processo
formativo può risultare utile che gli studenti oltre a semplici navigatori diventino autori del-
la rete, ad esempio costruendo siti, aggiornando il sito della scuola o sviluppando attività di
collaborazione a distanza con altri studenti. Da un punto di vista pedagogico il rendere visi-
bile agli altri il frutto del proprio lavoro richiede lo sviluppo di abilità espressivo-creative, ca-
pacità metacognitive, capacità comunicative e progettuali. Sfruttando invece Internet come
mezzo di comunicazione sincrono (chat e videoconferenze) e asincrono (posta elettronica,
newsletter, forum), sono rintracciabili enormi potenzialità in ambito formativo soprattutto
per lo sviluppo di attività di sostegno, assistenza e tutoring in orari diversi da quello scolasti-
co. Infine, essendo una rete, per definizione, Internet rappresenta l’ambiente naturale per
organizzare forme di attività collaborative.
La navigazione nel web richiede quindi lo sviluppo di nuove abilità cognitive quali la ca-
pacità di individuare in tempi rapidi un elemento significativo, l’abilità di cogliere il senso
complessivo della pagina e la capacità di prefigurarsi l’esito di un link. Se utilizzato nel si-
stema scolastico Internet deve rappresentare in ogni caso uno strumento finalizzato ai soli
scopi formativi e, come tale, non po’ prescindere da una regolamentazione nelle condizio-
ni di accesso al fine di garantire la sicurezza. Sebbene esistano delle forme per garantire la
sicurezza (certificazioni, siti sicuri, sistemi di filtraggio, blocco dei pop-up), anche utilizzan-
do questa tecnologia è cruciale e imprescindibile il ruolo dell’insegnante. Le ricerche biblio-
grafiche e la selezione delle fonti devono altrettanto impegnare l’insegnante nella sua fun-
zione disciplinare.
Anche il gioco tecnologico (videogioco) potrebbe essere utilizzato come strumento di-
dattico nella forma di giochi di azione, di strategia, role playing, simulazioni. Molti sono an-
cora però gli aspetti dibattuti e sembrano emergere più criticità rispetto agli aspetti positivi
sia sul piano cognitivo (non vi è consenso circa l’effettiva utilità nello sviluppo di particolari
abilità o strategie cognitive) sia sul piano etico (la spettacolarizzazione della violenza o l’al-
to coinvolgimento emotivo del giocatore). Sicuramente vero è che spesso risulta molto dif-
ficile in ambito scolastico motivare e suscitare un livello di interesse paragonabile a quello
che viene messo in moto da un videogioco e questo lascia aperto il dibattito circa la possi-
bilità del loro utilizzo.

3.5 Le TIC: pro e contro


Nei confronti delle nuove tecnologie le posizioni sono spesso contrapposte: si tendono
ad evidenziare esclusivamente gli aspetti negativi o quelli positivi.
I problemi che più spesso vengono annoverati tra le conseguenze dell’eccessivo utilizzo
delle TIC sono la difficoltà di attenzione, i problemi di concentrazione, la riduzione delle ca-
pacità di lettura e il distacco dal mondo reale. Il computer richiede molta attenzione e facil-
mente crea dipendenza. Alcuni studiosi dello sviluppo cognitivo ritengono che l’utilizzo pre-
coce del computer, prima dei 9 anni, minacci lo sviluppo celebrale. Secondo queste posizio-
ni i bambini per formare la loro infrastruttura neurologica e cognitiva necessitano di un’inte-
razione costante con il mondo reale: solo dopo aver sperimentato completamente il mondo
101

reale attraverso tutti i sensi è possibile sfruttare gli effetti positivi della tecnologia per l’ap-
prendimento. L’esposizione precoce alle tecnologie sarebbe quindi uno stimolo inutile che
produrrebbe l’effetto opposto in quanto il bambino rischierebbe di non concentrarsi su nul-
la e passare da un’attività all’altra in modo non produttivo.
Al contrario, diversi studi e sperimentazioni sul campo hanno mostrato che l’utilizzo del-
le nuove tecnologie può favorire alcune modifiche generali del contesto educativo ed esse-
re quindi positivo per l’apprendimento. In particolare, l’uso delle nuove tecnologie nella di-
dattica da un lato accresce la motivazione degli alunni, dall’altro accresce l’autostima e quin-
di genera una maggiore capacità di sopportare le difficoltà e lo stress. In aggiunta, spostan-
do il focus dall’insegnante allo studente e dall’apprendimento al fare, si ha un aumento del-
la cooperazione tra alunni e si favorisce l’interazione. Uno dei maggiori vantaggi delle TIC è
la possibilità di realizzare e testare materiale didattico innovativo che, se utilizzato in modo
integrato con le tradizionali lezioni frontali, riesce a stimolare la partecipazione attiva. Quel-
lo che cambia sostanzialmente è il concetto di classe. Mentre le modalità didattiche tradizio-
nali prevedono il ciclo classico di trasmissione unidirezionale della conoscenza del tipo inse-
gnante/mediatore oppure studente/lettore, le TIC presuppongono invece un processo di ap-
prendimento di tipo multidirezionale.
Infine, stimolando in modo nuovo la riflessione e il ragionamento si ha un miglioramen-
to dei risultati grazie anche al lavoro cooperativo e all’uso di peer tutoring, ovvero il tutorag-
gio che viene fatto tra gli stessi allievi.
Nel complesso, i migliori livelli di comprensione e assimilazione che si riescono a produr-
re con l’ausilio delle TIC sono imputabili prevalentemente alla personalizzazione dell’appren-
dimento. I software didattici consentono di scegliere dei percorsi diversi in base alle partico-
lari esigenze dello studente in modo da focalizzare maggiormente l’attività didattica su alcu-
ni aspetti. Esistono infatti i cosiddetti programmi-autore che consentono di lavorare con l’in-
tera classe, con piccoli gruppi o addirittura con singoli studenti predisponendo attività co-
muni e diversificate. La personalizzazione permette agli studenti di apprendere secondo i
propri ritmi ripetendo l’attività fino a quando il risultato è stato raggiunto anche oltre l’ora-
rio scolastico, esercitandosi per esempio a casa o in un’aula informatica. Una tale procedura
didattica da un lato incoraggia lo studente all’apprendimento autonomo, dall’altro facilita la
memorizzazione e la comprensione dei concetti e consente di rispondere alle esigenze spe-
cifiche degli studenti con difficoltà di apprendimento. Questi nuovi materiali didattici, se in-
tegrati con opportuni ambienti tecnologici, possono consentire di seguire costantemente i
percorsi di ogni singolo studente e di quantificare i progressi di apprendimento.
In questo contesto cambia sicuramente il ruolo dell’insegnante che diventa colui il qua-
le organizza occasioni di apprendimento permettendo all’alunno di partecipare alla costru-
zione del proprio sapere (costruzione del sapere). Anche agli insegnanti viene richiesto un
nuovo tipo di lavoro.
Il materiale didattico di partenza assume forme nuove: semilavorati, tracce di lavoro, fra-
mes di riferimento progettate e realizzate da team di esperti, e richiede che gli insegnanti
lo modifichino, completino e adattino in base alle esigenze che emergono quotidianamen-
te nelle classi.
102

La conclusione è che le TIC sono utili qualora vengano messe al servizio di buoni model-
li educativi. Le TIC si dovrebbero andare cioè ad aggiungere a un sistema formativo costitu-
ito in gran parte da componenti extratecnologiche, integrandolo in modo complementare e
non sostitutivo. La formazione tramite strumenti multimediali potenzia così gli effetti delle
forme didattiche tradizionali perché consente di sfruttare in modo integrato i diversi cana-
li di comunicazione (testo, audio, video) e di agevolare l’apprendimento che nei bambini è
prevalentemente di tipo senso-motorio.

3.6 Fare lezione con i supporti didattici tecnologici


Anche nella scuola si è standardizzata negli anni una modalità comunicativa spesso di
carattere frontale durante le lezioni in classe, in cui l’ascolto attivo è stato affidato princi-
palmente alla capacità del docente di destare attenzione facendo leva quasi solo esclusi-
vamente sulle proprie capacità espositive. Una prima generazione di supporti didattici in
classe per diversi anni sono state le cartine geo-storiche, la cartellonistica creata dai ra-
gazzi ad hoc durante laboratori proposti dai docenti su focus tematici, o ancora diziona-
ri, atlanti storici, comunque tutti strumenti di limitata praticità in classe e di limitata visi-
bilità per gli alunni.
A questi elementi si deve aggiungere un fenomeno spesso lamentato dai docenti, quel-
lo in cui l’attenzione in aula può essere stabile ma spesso viene deviata dalla cattiva com-
prensione di quanto è oggetto di studio o, peggio ancora, da interpretazioni diverse a livello
cognitivo, non necessariamente coincidenti con quanto spiegato dall’insegnante. In questo
quadro le nuove tecnologie hanno definito un codice di comunicazione completamente di-
verso da quello tradizionale, un codice, cioè, in cui è possibile ridurre le difficoltà interpreta-
tive della lezione frontale, alleggerire la comunicazione frontale, aumentare la capacità at-
tentiva degli studenti e favorire la piena integrazione degli alunni. Le TIC in generale offrono,
infatti, un’ampia gamma di possibilità attraverso modalità di scrittura che non sono più sem-
plici riproduzioni ma, fondamentalmente, forme di visualizzazione del pensiero che attraver-
so immagini divengono parte di un insieme plurisensoriale e accattivante. Con la lavagna di-
gitale in classe per esempio è possibile salvare schermate di lavoro e file prodotti dagli stu-
denti, registrare lezioni, connettersi ad Internet per scaricare e/o visionare materiali, costru-
ire con gli alunni mappe concettuali o far divertire gli studenti con quiz interattivi disciplina-
ri, appositamente creati dal docente. Si tratta, in poche parole, di sfruttare ambienti di ap-
prendimento più motivanti per gli studenti, che danno possibilità illimitate di feedback nel
monitoraggio degli apprendimenti e innescano dinamiche di insegnamento/apprendimen-
to efficaci, ottimizzando i processi di fruizione per mezzo del canale tecnologico e offrendo,
nel contempo, la possibilità di editare i materiali prodotti in classe mantenendo la memoria
storica di quanto realizzato durante l’anno scolastico.
Si provi ad immaginare la creazione di un blog di italiano con gli studenti: ogni alunno
avrebbe la possibilità di costruire organicamente la propria idea all’interno di uno spazio di
scrittura aperto e condiviso, in cui il sapere non è aprioristicamente inteso, ma diviene un
costrutto personale che si realizza attraverso ragionamento, negoziazione di significati, co-
103

operazione attiva in classe. L’apprendimento assume così un carattere “situato”, ancorato,


cioè, a contesti concreti in cui enfatizzare la costruzione della conoscenza (alunni-docenti) e
non la sua mera riproduzione, offrendo altresì la possibilità di fornire rappresentazioni mul-
tiple della realtà e alimentando pratiche riflessive condivise.
Non vi è dubbio che l’introduzione delle TIC stia amplificando le capacità espressive de-
gli studenti: non si tratta soltanto di comunicare conoscenze, ma di far acquisire abilità tra-
sversali nell’ottica del lifelong learning, al fine di imparare a selezionare e a collazionare op-
portunamente fonti diverse, a comprendere con pertinenza i contenuti letti, ad estrapola-
re informazioni con consapevolezza critica, a rielaborare quanto appreso con efficacia co-
municativa.
Le TIC offrono infinite possibilità di miglioramento cognitivo: accesso a banche dati di sa-
pere, nonché a video e a file di diversa natura; forum di discussione tematici; fruizione di
contenuti didattici digitali. Sono tutti validi sussidi in grado di sviluppare le capacità logico-
espositive, attualizzando potenzialità individuali che possono diventare un serbatoio incol-
mabile di creatività e di varietà culturale per la vita. Ciò implica, inevitabilmente, un nuo-
vo ruolo del docente determinando un cambiamento nei rapporti di autorità all’interno del-
la classe: secondo i principi pedagogici dello scaffolding (impalcatura), lo studente impara
qualcosa da una persona più esperta, che è appunto il docente, attraverso una fase inizia-
le di ascolto (modeling), che gradualmente poi riduce la propria presenza per lasciare sem-
pre più autonomia all’alunno.

IL MODELLAMENTO O MODELING

Modeling significa osservare un modello competente che svolge un’azione. Tale attività può essere
un aiuto molto efficace per l’apprendimento di quell’azione. L’insegnante deve fungere da modello
da imitare: cioè bisogna far vedere il modo giusto di comportarsi di fronte a determinate situazioni
e richieste.
Il Modeling può essere usato: in programmi molto semplici (apprendimento di forme e colori o di
autonomia personale); in programmi più difficili che mirano all’acquisizione di abilità e comporta-
menti complessi (es. autonomia sociale) i quali non possono essere insegnati solo con le parole,
ma devono essere mostrati all’alunno nella loro complessità. L’importante è rinforzare i tentativi di
imitazione sufficientemente conformi al modello.
Gli aiuti forniti dal modello (insegnante) sono utili nell’ambito degli apprendimenti scolastici utiliz-
zando la modalità dell’autoistruzione verbale.

Le TIC hanno la potenzialità di avvicinamento della didattica ai linguaggi e alle modalità


di apprendimento che gli adolescenti stanno sviluppando nell’uso massiccio delle tecnolo-
gie in ambito sociale attraverso per esempio l’i-pod, i social network, il video streaming dove
vedere gli ultimi film del momento. Appare evidente come i “nativi digitali” vivano immersi
in una realtà pluridimensionale, plurisensoriale, fortemente interattiva, in cui vi è poco inte-
resse per un apprendimento tradizionalmente inteso.
Da un apprendimento di tipo “lineare” a uno di tipo “ipertestuale”: stanno cambiando
i processi cognitivi su cui la scuola ha sempre edificato la costruzione del proprio sapere o,
104

per lo meno, si può dire che al metodo tradizionale del libro “sequenziale” da sfogliare pagi-
na dopo pagina si stia affiancando la possibilità del libro digitale di essere sfogliato all’infini-
to, con link trasversali che combinano possibilità illimitate di accesso ai dati.
Dunque, non resta che adeguarsi al cambiamento che l’innovazione inevitabilmente ed
irreversibilmente comporta; le TIC coinvolgeranno indifferentemente tutti gli ordini e gradi
di scuola, dalle elementari alle superiori, e rivoluzioneranno con assoluta naturalezza, con-
dizionando progressivamente nel tempo con la loro pervasività, la pratica didattica quoti-
diana in classe.

TIC E PROFILI FORMATIVI INTEGRATI

Un profilo formativo integrato è la condizione complessiva di un allievo che, al termine della scuo-
la, dimostri non tanto di sapere, quanto di “sapere essere”, in relazione a qualunque linguaggio
o campo di esperienza da lui indagato durante il ciclo di formazione. In questo senso un profilo
formativo integrato è una rete di sistemi di padronanza dal carattere eminentemente autoriflessivo
che consenta a ciascun allievo non solo di incorporare conoscenze, ma di riuscire a riprodurle per-
sonalizzandole, ovvero di poterle espandere e/o sviluppare nelle direzioni che il suo carattere, il suo
gusto o le sue necessità lo sollecitano a fare.

3.7 Le TIC nella scuola: efficienza ed equità


Alla luce dei cambiamenti tecnologici avvenuti, le politiche scolastiche si sono dirette sia
verso l’istruzione ai media, cioè offrire agli alunni le competenze necessarie per un uso con-
sapevole delle tecnologie informatiche, sia verso l’istruzione con i media, cioè utilizzare le
strumentazioni informatiche come sussidi didattici. Da un lato si è quindi cercato di interve-
nire in modo da garantire l’uguaglianza delle opportunità in campo educativo in un conte-
sto sociale in cui l’informazione assume un ruolo rilevante, dall’altro si è cercato di sfrutta-
re alcune potenzialità proprie delle nuove tecnologie per fornire nuove opportunità cogni-
tive e formative.
I cosiddetti nativi digitali (nati a partire dal 1990) rappresentano la prima generazione
nata e cresciuta con la piena disponibilità delle nuove tecnologie. I tratti distintivi dei nativi
digitali sono il multitasking, l’interattività e l’ipertestualità. Questa nuova fase del processo
evolutivo apre un dibattito sulle modalità didattiche e formative da implementare e quindi
sull’adeguatezza dei metodi precedenti. Di sicuro né i genitori né gli insegnanti possono non
imparare il nuovo linguaggio e adottare nuovi metodi di insegnamento. Di sicuro le nuove
forme di apprendimento mettono in discussione il paradigma di apprendimento tradiziona-
le (lettura-scrittura), ma sicuramente è vero che la semplice lezione frontale è inadatta a una
generazione mobile, dinamica e iperstimolata.
Non si deve tuttavia dimenticare che parlando generalmente di nativi digitali implicita-
mente si trattano in maniera unitaria una serie di differenze. È infatti evidente che essere
nati con i media digitali non significa necessariamente essere in grado di utilizzarli e que-
sto dipende in modo imprescindibile dal conteso socio-economico di riferimento. Proprio
105

per questi gruppi è importante che le politiche scolastiche siano anche di istruzione ai me-
dia e che l’istituzione scolastica agisca per ridurre il divario derivante dal mancato accesso
alle tecnologie.
Le nuove tecnologie possono essere un utile strumento per l’eguaglianza delle opportu-
nità. Si devono quindi cercare delle modalità didattiche che consentano non solo a pochi di
aver accesso a un livello di istruzione elevato, ma che permettano alla gran parte della po-
polazione di sfruttare grazie alla tecnologia le risorse didattiche che prima non aveva. Alla
luce delle considerazioni fatte, la didattica digitale, nelle sue diverse forme, deve essere vi-
sta come un’opportunità per modificare nel profondo le modalità di apprendimento, per svi-
luppare nuove capacità cognitive e per ampliare la quota di popolazione che ha accesso all’i-
struzione. Da un punto di vista economico, l’introduzione delle TIC può essere estremamen-
te utile sia in termini di miglioramento dei risultati sia di equità per consentire a un maggior
numero di persone di aver accesso all’istruzione grazie alla riduzione dei costi.
Capitolo 4
Lavagna interattiva multimediale
e sussidi didattici multimediali

4.1 Diffusione della lavagna interattiva multimediale in Italia


In Italia l’adozione del primo piano nazionale di diffusione della lavagna interattiva mul-
timediale (LIM) nella scuola si è concretizzato nel progetto “DiGi Scuola” e sebbene in forma
più circoscritta attraverso il progetto “FOR.Docenti” che ha sviluppato una piattaforma per
la formazione sull’uso della LIM e lo sviluppo di contenuti.

LEARNING OBJECT

Contenuti digitali utilizzabili unicamente per l’insegnamento. Essi rappresentano risorse digitali
non personalizzabili come le lezioni create ad hoc, ma sono utili per l’introduzione di concetti di
base con una comunicazione di qualità.

Il progetto “DiGi Scuola” ha dato luogo ad una sperimentazione che ha coinvolto una
molteplicità di soggetti. Gli insegnanti delle scuole superiori di secondo grado hanno parte-
cipato sia alla fase di formazione che di elaborazione di un prodotto digitale da mostrare agli
studenti con l’ausilio della lavagna digitale per poter illustrare concretamente le nuove mo-
dalità di fruizione dei contenuti digitali ed evidenziare la nascita di metodologie innovative
nella didattica. Infatti, la sperimentazione del progetto è stata molto significativa per la co-
struzione di modelli didattici integrati all’uso della LIM.
I punti di forza riscontrati sono stati sinteticamente i seguenti:
– l’incremento dell’interesse degli studenti per le attività didattiche (66,67%);
– l’incremento della partecipazione (54,93%) e dell’efficacia didattica della lezione
(42,83%);
– la facilitazione nei processi di comprensione dei contenuti proposti (39,29%);
– l’elevata possibilità di personalizzare il percorso didattico (16,20%);
– la sperimentazione di nuove e variegate modalità didattiche in linea con la cultura tecno-
logica giovanile (59,78%).
I punti di debolezza evidenziati attraverso la sperimentazione sono stati:
– il 46,77% dei docenti ha lamentato problemi relativi all’aspetto tecnico e alla carenza di
una effettiva necessaria formazione;
– l’aspetto disfunzionale del posizionamento della lavagna digitale, spesso non collocata in
107

classe ma in laboratorio, con conseguente perdita di tempo nel trasferimento degli stu-
denti da un’aula all’altra (42,70%);
– la parte più cospicua dei docenti partecipanti (69,97%) ha evidenziato un altro aspetto
fortemente negativo: il tempo da dedicare per la preparazione delle lezioni da creare con
l’ausilio della LIM. A tal proposito occorre rilevare che in Italia attualmente non esistono
curricoli per discipline che declinino le attività previste con risorse digitali.
A conclusione del progetto, la piattaforma “DiGi Scuola” è confluita nel portale “Innova-
Scuola” ricco di contenuti didattici digitali (CDD) per il docente, ripartiti per tipologie di scuo-
la e per discipline individuabili con un pratico motore di ricerca. Il nuovo progetto “Innova-
Scuola” è stato inaugurato nel 2008 e ha rappresentato la seconda fase delle sperimentazio-
ni nazionali ministeriali con la LIM ma si è rivolto soprattutto alla sperimentazione della LIM
nelle scuole secondarie di primo grado e nelle scuole primarie.
Il progetto ministeriale avviato nel 2010, “Cl@ssi 2.0”, sviluppato negli istituti compren-
sivi e nelle secondarie di primo grado, ha consentito di individuare una metodologia didat-
tica di apprezzabile interesse.
Il progetto ha previsto una sequenza di azioni:
a) l’organizzazione del gruppo di lavoro con un forte coinvolgimento dei Consigli di classe;
b) la progettazione tecnica dei contenti digitali;
c) la sperimentazione della documentazione prodotta;
d) lo sviluppo di una comunità virtuale sia a livello regionale che nazionale per la discussio-
ne e il confronto sulle esperienze realizzate dal progetto.
Anche in questo caso l’ambiente virtuale – come per tutti i progetti di cui si è fatta men-
zione in precedenza – ha garantito leggibilità, pubblicizzazione e confronto di prassi didat-
tiche paradigmatiche, nell’ottica di condividere e partecipare idee, archiviare materiali pro-
dotti, fornire visibilità per spunti futuri e, soprattutto, dare continuità agli interventi realiz-
zati nelle scuole. Attraverso questi progetti che rappresentano azioni di sistema il MIUR sta
cercando di velocizzare l’introduzione e la diffusione della LIM e rivitalizzare le metodolo-
gie d’insegnamento.

4.2 Cos’è la LIM


La Lavagna Interattiva Multimediale, detta anche LIM, è una superficie interattiva su cui
è possibile scrivere, disegnare, allegare immagini, visualizzare testi, riprodurre video o ani-
mazioni. I contenuti visualizzati ed elaborati sulla lavagna potranno essere quindi digitaliz-
zati grazie a un software di presentazione appositamente dedicato. È, quindi, uno strumen-
to tecnologico che permette di mantenere il classico paradigma didattico centrato sulla la-
vagna, potenziandolo con la multimedialità e la possibilità di usare software didattici anche
in modo collettivo.
La lavagna interattiva multimediale permette di alternare momenti di didattica fronta-
le ad approcci formativi di tipo individualizzato e ad attività laboratoriale. Questo approccio
è particolarmente apprezzato dagli studenti, sempre più abituati a ragionare e filtrare le in-
formazioni secondo le regole comunicative del mondo digitale. Ma è anche molto funziona-
108

le per l’insegnante perché permette di convogliare l’attenzione dei ragazzi sulla lezione gra-
zie a metodi innovativi che favoriscono la spiegazione dei concetti più complessi e di utiliz-
zare al meglio il tempo.
La LIM è uno strumento destinato alla didattica d’aula poiché coniuga la forza della vi-
sualizzazione e della presentazione tipiche della lavagna tradizionale con le opportunità del
digitale e della multimedialità. Tecnicamente la LIM è un dispositivo che comprende una su-
perficie interattiva, un proiettore ed un computer. Oggi l’evoluzione tecnologica offre dispo-
sitivi che permettono di sfruttare le potenzialità di uno schermo interattivo e multimediale
utilizzando qualsiasi tipo di superficie e pennarello, oppure attraverso schermi “touch scre-
en”, anche della grandezza di un normale desktop, che non necessitano di PC e proiettore.
La lavagna interattiva multimediale è composta in prima battuta dalla superficie interat-
tiva, un dispositivo elettronico avente le dimensioni di una tradizionale lavagna didattica, sul
quale è possibile interagire usando le mani o degli appositi pennarelli.
Gli accessori della LIM sono:
– i pennarelli: l’accessorio principale della LIM è il pennarello, che permette di scrivere o
utilizzare i comandi sullo schermo. Esistono diversi tipi di pennarello. In alcuni modelli è
possibile anche usare i normali pennarelli colorati e cancellabili perché la lavagna e il sof-
tware riconoscono quanto scritto su qualsiasi superficie;
– telecomandi, minischermi e connessioni: alcuni modelli offrono anche dei telecoman-
di utili per la risposta a distanza sulla LIM. È possibile anche utilizzare dei minischermi da
tenere in mano o sulla cattedra. La connessione alla rete è assicurata dal PC; alcuni mo-
delli di lavagne sono dotati di autonoma connessione wireless e di bluetooth per l’intera-
zione con il web, con altre lavagne a distanza, con altri dispositivi presenti in classe a bre-
ve raggio.
La LIM è generalmente collegata ad un computer, di cui riproduce lo schermo grazie alla
proiezione attraverso un videoproiettore. Pertanto, l’utilizzo della LIM in classe richiede:
– la lavagna interattiva multimediale;
– un computer;
– un videoproiettore;
– software e materiali per la didattica.
L’installazione prevede il collegamento del computer al videoproiettore, tramite l’appo-
sito cavo, e della lavagna al computer, attraverso un altro cavo, generalmente USB. Il vide-
oproiettore riceve le immagini del computer e le proietta sulla LIM. Le operazioni effettua-
te sulla LIM con le dita o con le penne digitali, a seconda del modello, sono percepite da si-
stemi di rivelazione che possono essere diversi: magnetici, ottici, sonori, resistivi, e trasmes-
se quindi al computer. Sono possibili tutte le operazioni normalmente effettuate con il mou-
se quando si lavora al computer, ma anche interventi diretti sulla lavagna con le mani e le
penne digitali.
La LIM è generalmente dotata di software per creare presentazioni e lezioni multimedia-
li che hanno in comune alcuni elementi caratteristici:
1. uno stage bianco in cui scrivere con la penna e trascinare immagini e altri oggetti multi-
mediali tratti dalla libreria informatica;
109

2. una libreria di immagini, filmati e animazioni che possono essere trascinati nello stage;
3. alcuni strumenti per scrivere e disegnare forme geometriche.
Inoltre, la LIM permette di utilizzare tutti i software presenti sul computer, come elabora-
tori di testo, software per presentazioni, browser per la navigazione in Internet, software di
disegno e proiettori di filmati, ma invece di usare il mouse per selezionare e spostare ogget-
ti, si utilizzano le mani e le penne digitali agendo direttamente sulla superficie della lavagna.
Infine, è possibile utilizzare specifici software didattici che contengono percorsi didattici da
esplorare e attività interattive mirate al raggiungimento di obiettivi didattici.

4.3 Modalità e potenzialità di utilizzo della LIM


La LIM può essere utilizzata in diversi modi: per la didattica frontale con materiali multi-
mediali, per attività che coinvolgono la classe o attività interattive e laboratoriali, per le in-
terrogazioni, per la presentazione in modo innovativo di ricerche ed elaborati realizzati dagli
studenti. Infine, può essere utilizzata per effettuare percorsi di navigazione sul web in classe.
Il docente o gli studenti coinvolti nell’attività didattica possono utilizzare i materiali mul-
timediali in proiezione sulla lavagna, disegnando su di essi con le apposite penne digitali,
trascinando oggetti e salvando gli elaborati al termine della lezione sul computer, per poterli
consultare in seguito o utilizzare per realizzare tesine ed elaborati. È possibile realizzare fo-
tografie istantanee dello schermo, per esempio fermando un filmato per catturare un foto-
gramma, aprirlo in un software di elaborazione immagini e analizzare in classe l’immagine
per commentare i contenuti. Oppure è possibile avviare simulazioni laboratoriali interagen-
do direttamente sullo schermo. Il docente può utilizzare la lavagna per attività di recupero
e interrogazioni, proiettando quiz interattivi o immagini e filmati che possono essere com-
mentati e rielaborati dagli alunni.
La LIM è particolarmente adeguata alla presentazione di elaborati, poiché permette di
proiettare foto, tabelle, filmati realizzati dagli alunni operando tutti i controlli direttamente
dalla lavagna, rendendo più agevole e articolata l’interazione con i contenuti multimediali. I
software in dotazione con le LIM permettono generalmente anche l’esportazione degli ela-
borati in un formato compatibile con il web, funzione che può essere utilizzata, per esem-
pio, per pubblicare gli elaborati nel sito della scuola, mettendo a disposizione di tutti la co-
noscenza prodotta.
Se il computer in uso con la LIM è connesso a Internet, è possibile navigare nel web usan-
do un comune browser, come Internet Explorer o Mozilla Firefox. In questo modo si posso-
no effettuare delle ricerche sul web coinvolgendo l’intera classe, con lo scopo di educare ad
un uso corretto della rete, evidenziando tematiche e spunti di reale interesse. Naturalmen-
te è compito del docente indirizzare gli alunni alla costruzioni di bibliografie le cui fonti sono
multimediali.
Numerosi studi hanno evidenziato le principali potenzialità dello strumento LIM. I van-
taggi riguardano soprattutto: la visualizzazione in grande, l’utilizzo delle tecnologie a favo-
re di tutta la classe, la semplificazione dei concetti, l’interattività, l’aggregazione di risorse
multimediali.
110

La visualizzazione è la più riconosciuta tra le potenzialità della LIM. Essa permette di pre-
sentare una molteplicità di contenuti utilizzando non più solo l’ascolto o la lettura individua-
le, ma anche la forza comunicativa dell’immagine.
Un’altra potenzialità è l’interattività, la quale è data da molteplici livelli; riguarda sia la
possibilità di intervenire personalizzandoli su tutti i file presenti sullo schermo, sia la possibi-
lità anche fisica di agire sulla lavagna, sia, infine, in presenza di collegamento al web, la pos-
sibilità di accedere dalla classe alle risorse di Internet.
Ricerche empiriche hanno dimostrato che gli studenti avvertono la LIM vicina al loro
modo di comunicare e di accedere alle informazioni. L’estrema semplicità di utilizzo è all’ori-
gine della diffusione delle LIM. Le competenze necessarie per il suo impiego sono quelle di
base: scrittura, apertura ed inserimento file, upload, download, uso del web. La costruzio-
ne collaborativa dei percorsi di studio fa della LIM uno strumento particolarmente efficace
per la realizzazione di attività di gruppo in classe. Non ultime le potenzialità dimostrate dal-
la LIM nel campo dell’integrazione.

4.4 Fare lezione con la LIM


La lavagna interattiva multimediale (LIM), per le sue caratteristiche tecniche, avvicina i
docenti e i discenti ad un nuovo modo di fare didattica e di apprendere. La LIM, proprio per-
ché si interfaccia con un PC e quindi anche con il web, permette la creazione di lezioni inte-
rattive, e l’integrazione di strumenti didattici attraverso giochi, test, video, approfondimen-
ti e ricerche sul web. La LIM è tecnicamente predisposta a coinvolgere il discente nella co-
struzione della lezione in un’ottica costruttivista come dimostra per esempio l’uso del web
nella ideazione dei blog.
Le funzionalità standard di ciascuna tipologia di LIM in commercio sono:
– la possibilità di salvare la lezione, registrarla e inviarla in allegato per e-mail;
– focalizzare l’attenzione solo su specifiche parti della lezione mostrata;
– realizzare oggetti nella lezione che è possibile combinare, ruotare, allargare, colorare;
– inserire file video, file flash, file audio, link al web, immagini, sfondi, ecc.
Con la LIM è possibile associare varie modalità di scrittura che vanno dai semplici trat-
ti colorati alla funzione di evidenziazione, dalla decorazione al disegno intelligente di figure
geometriche, dalla scrittura di testo composto a mano libera all’immediata conversione in
testo digitale, grazie alla funzionalità inclusa nel software della LIM.
Le operazioni tecniche da compiere per l’avvio della lezione con la LIM sono le seguenti:
– avviare il computer a cui è collegata la LIM;
– accendere il videoproiettore;
– attendere che la spia presente sulla LIM confermi lo stato di attività;
– effettuare l’eventuale calibrazione.
La LIM si presta a usi più efficaci ma legati alle funzionalità tipiche della lavagna: basta
scrivere sulla superficie della LIM con i pennarelli.
Se l’intento è quello di illustrare o discutere un brano, illustrare una lezione di fisica, far
apprendere le basi della lingua italiana o straniera, o magari semplicemente disegnare, ba-
111

sta agire con le dita e/o con il pennarello sulla superficie della LIM per raggiungere lo sco-
po voluto. Sarà poi facoltà del docente decidere se salvare quanto illustrato o meno, ovvero
ignorare il tutto e passare a una nuova pagina, o cancellare la precedente come se si aves-
sero più lavagne a disposizione.
L’uso della LIM può essere potenziato attraverso gli strumenti messi a disposizione dai
software; per esempio, è possibile:
– disegnare oppure evidenziare con pennarelli di vari colori;
– cancellare con la “gomma” virtuale e definire lo spessore del tratto;
– tracciare forme geometriche e definire il colore di riempimento e di bordo;
– inserire note di testo con caratteri digitali;
– ruotare, ridimensionare, clonare, unire, separare tra loro gli oggetti presenti sul foglio di
lavoro;
– evidenziare una specifica area di lavoro;
– importare un file da Word o da altro programma e usare gli strumenti “pennarello” o
“evidenziatore” per dare risalto ad alcune sezioni del documento;
– creare box da usare allo scopo di ottenere, ad esempio, un esercizio in cui mettere in evi-
denza una frase o una formula;
– coprire la traduzione di un esercizio in lingua o in latino e realizzare quindi una lezione in
cui lo studente può procedere autonomamente all’autocorrezione;
– realizzare una lezione con lo strumento “linea” per correlare contestualmente disegni,
formule, immagini.
Una padronanza più approfondita del software della LIM e degli strumenti offerti dal
web consente di realizzare lezioni di sicura efficacia comunicazionale. I software per la LIM
permettono infatti di importare contenuti multimediali come per esempio brani audio, file
video che una volta inseriti nella programmazione della lezione possono arricchirne forte-
mente il contenuto. Per esempio in una lezione di storia dell’arte si possono proiettare gra-
zie ai file video opere d’arte e contestualizzarle.
Gli strumenti avanzati per la LIM permettono di inserire nel foglio di lavoro ritagli di pagi-
ne web contenenti lavori di artisti e immagini da poter poi analizzare con gli alunni.
Sono disponibili anche le librerie per la LIM rappresentate da software che contengono
oggetti interattivi, per esempio il goniometro, la calcolatrice, righelli. Da segnalare anche la
possibilità di registrazione della lezione che permette quindi di conservare o di spedire via
e-mail ad un allievo assente quanto spiegato in classe.
Sono quindi molte le funzionalità offerte dalla LIM, che aumentano la progettualità me-
todologica del docente nella realizzazione della lezione più adatta alle proprie esigenze e
personalizzata sul livello di apprendimento e di curiosità dei discenti, cosi come sono altret-
tanto numerosi i metodi per rendere collaborativo l’apporto degli allievi, coinvolgendoli e
motivandoli.
In conclusione si può affermare che se il docente ritiene di non dover utilizzare gli stru-
menti disponibili dalla LIM può sempre adoperare i moduli didattici chiamati learning object
che rappresentano i contenuti didattici digitali. Questi ultimi sono risorse gratuite o talvolta
a pagamento scaricabili dal web sviluppate per tutte le discipline e per i vari ordini scolastici.
112

Infine, è da sottolineare l’impiego della LIM da parte dei docenti di sostegno. Numerose,
infatti, le attenzioni rivolte a questo settore negli ultimi anni.

4.5 Didattica con i sussidi offerti dalla LIM


Introdotta con la finalità principale di supportare l’azione didattica in classe, la LIM offre
una serie molto variegata di possibili opzioni che vanno ad integrare la lezione tradizionale.
Tra questi sussidi digitali abbiamo a titolo esemplificativo: quiz interattivi, mappe concettua-
li, contenuti e video digitali. Proviamo ad analizzare il loro uso nella didattica.

1. Quiz interattivi
Il setting comunicativo della lezione frontale come abbiamo più volte evidenziato si sta
trasformando e i momenti d’aula stanno sempre più evolvendo in comunità di apprendi-
mento dove si lavora in gruppo e si impara ad apprezzare il valore una conoscenza condivi-
sa. Attraverso la LIM è possibile avviare attività partecipate di riflessione sui contenuti ap-
presi e sulla prassi didattica in atto, sviluppando competenze cognitive e metacognitive ne-
gli allievi. Sotto un profilo pedagogico è possibile costruire l’identità anche attraverso lo svi-
luppo della consapevolezza delle proprie scelte e attraverso il gioco di squadra, in cui tutte le
azioni sono il risultato di negoziazione, responsabilità individuale, spirito di appartenenza ad
una comunità. Pertanto l’uso dei quiz interattivi somministrati con la LIM attraverso una mo-
dalità ludica e di accattivante capacità comunicazionale può rappresentare una scelta parti-
colarmente efficace sia sul piano didattico che pedagogico.
Secondo alcune moderne teorie che hanno come riferimento i tre livelli di sviluppo co-
gnitivo indicati da Piaget, esistono tre variabili nell’approccio dei giovani ai giochi interattivi:
1. livello psicomotorio, in cui le abilità personali del giocatore sono legate a fattori di velo-
cità nei tempi di reazione e di stimolo nella rielaborazione delle informazioni richieste,
attraverso l’integrazione di percezione e azione-riflesso;
2. livello di simulazione, in cui si stabilisce il pensiero logico-razionale attraverso la capaci-
tà di calarsi nel contesto specifico percependolo come “verosimile” (vivere un’avventura
con un approccio intuitivo);
3. livello rappresentativo, da cui si sviluppa il pensiero simbolico.
Si tratta, cioè, di far imparare qualcosa non solo attraverso il tradizionale “modo simboli-
co-ricostruitivo”, in cui si legge, si studia, si decodifica e si rielabora l’informazione, ma attra-
verso un “modo senso-motorio” in cui si osserva qualcosa, la si percepisce attraverso i sen-
si, si interviene con un’azione e si riflette sul processo attuato.
Esistono interessanti esperienze formative di giochi di ruolo on line documentate dai do-
centi all’interno di sperimentazioni per verificarne l’impatto sulla didattica, nonché diversi
software, alcuni da acquistare e altri gratuiti, con cui creare quiz interattivi per gli studenti
da somministrare in classe e utilizzabili con la LIM.
Il docente con la LIM può preparare una semplice attività didattica in grado di stimolare
l’aspetto ludico dell’apprendimento con la strutturazione del quiz interattivo nell’ambito del-
la sua programmazione disciplinare. Per fare degli esempi operativi si può somministrare alla
113

classe un quiz. Questa esercitazione caratterizzata per la sua valenza ludica deve prendere in
considerazione alcune fasi indispensabili. Innanzitutto la classe va divisa in due squadre. Suc-
cessivamente si chiede a turno per ogni squadra la presenza di uno studente che deve rispon-
dere alla stessa domanda decidendo preventivamente se questi può o non può raccogliere
suggerimenti dalla sua squadra. Lo studente può dare la risposta attraverso la prenotazione
con un campanello come nei quiz televisivi. Si chiede allo studente di segnare sulla LIM la ri-
sposta data per verificarne la correttezza in quanto il software visualizzerà automaticamente
la risposta esatta. Si attribuisce il punteggio alla squadra del ragazzo che ha dato per primo la
risposta esatta. Infine il docente deve calcolare le risposte corrette date dalle due squadre per
proclamare la squadra vincitrice. L’esperienza andrebbe proposta ai discenti possibilmente pri-
ma della verifica tradizionale, perché il quiz è un’occasione ludica ma formativa al tempo stes-
so in grado di potenziare conoscenze, stimolare l’impegno e la riflessione.

2. Le mappe concettuali


Negli ultimi anni le mappe concettuali stanno trovando ampia diffusione nella metodolo-
gia didattica. Come abbiamo spesso sottolineato le mappe mentali servono a creare percor-
si cognitivi che, grazie all’ausilio delle TIC, ed in particolare della LIM, possono trovare anche
un ampliamento con l’uso di software in grado di creare molte figure geometriche e grafici.
Attraverso la lavagna digitale le mappe acquisiscono un supporto di tipo tecnico che raffor-
za grazie alla percezione visiva l’aspetto creativo della metodologia.

LE MAPPE CONCETTUALI

Le mappe concettuali consistono in schematizzazioni nelle quali le informazioni su un certo argo-


mento vengono rappresentate mediante:
– dei nodi semantici;
– degli archi commentati di collegamento tra i nodi.
Per fare una mappa concettuale occorre:
– identificare l’argomento/tematica/domanda focale e fare poi una lista dei concetti generali e
specifici;
– mettere in ordine i vari concetti individuando le gerarchie;
– rivedere la lista e, se necessario, aggiungere altri concetti;
– redigere una mappa mentale sulle preconoscenze.

Per costruire in modo cooperativo una mappa concettuale con la LIM occorre che il do-
cente:
– elabori una lezione frontale su un argomento previsto dalla programmazione didattica
utilizzando la lavagna digitale come supporto digitale che peraltro consente un ulteriore
ampliamento dell’informazione attraverso la connessione a Internet;
– elabori domande-guida per la costruzione della mappa concettuale con risposte fornite
dagli studenti;
– solleciti la negoziazione fra gli allievi sulle possibili informazioni da inserire nella mappa
al fine di integrare concetti, revisionare e verificare quanto appreso, nonché di potenzia-
re la preparazione;
114

– stampi la mappa elaborata in classe, la distribuisca a tutti gli allievi quale rinforzo al me-
todo di studio a casa, o inviando il file creato alla casella di posta elettronica degli allievi
direttamente dalla LIM.
In tutte le fasi il docente dovrà aver cura di seguire il lavoro dei discenti, sostenendoli e
verificando le dinamiche relazionali dei gruppi. In altre parole il docente acquisisce la fun-
zione di allenatore durante l’elaborazione digitale della mappa oppure potrà eventualmen-
te affidare la costruzione delle mappe alla cooperazione di allievi più intraprendenti e prati-
ci del software da utilizzare al fine di rendere tutti gli studenti attivi sollecitandoli alla colla-
borazione sui temi trattati e costruire attorno ad essi la conoscenza.

3. Learning object
I learning object (LO) sono moduli di Contenuto Digitale Didattico (CDD) sotto forma di le-
zioni o prove di verifica utilizzabili con il personal computer. Sono risorse didattiche che si pre-
sentano al fruitore come piccole unità di apprendimento, dotate di contenuto digitale com-
posto da video, audio, testi. Il loro uso affonda le radici nel paradigma della programmazio-
ne object oriented usata nel settore informatico, dove vengono creati componenti (objects)
indipendenti l’uno dall’altro, che possono essere riutilizzati in contesti diversi grazie al loro ri-
assemblaggio di volta in volta nuovo a seconda delle esigenze e dell’obiettivo da perseguire.
Queste risorse digitali hanno alcune importanti caratteristiche:
– sono sviluppate per un intervento molto breve (dai 2 ai 15 minuti);
– sono concepite in modo autonomo e non propedeutico. Questa caratteristica offre la
possibilità di ricomporle in più unità.
Un learning object può avere differenti finalità. I LO più usati hanno le seguenti caratteristiche:
– argomentativo: l’alunno studia la lezione, con materiali strutturati secondo la program-
mazione didattica proposta dal docente;
– addestrativo: l’allievo può esercitarsi attraverso procedure e fasi che gli permettono di
monitorare i processi di acquisizione delle competenze;
– sperimentale: lo studente segue percorsi personali di studio che gli consentono di rag-
giungere la padronanza dei contenuti proposti;
– integrato: l’allievo può seguire percorsi integrati da altri sussidi, per esempio quelli offer-
ti dalla rete internet.

CARATTERISTICHE IDEALI DEL CONTENUTO DI UN LEARNING OBJECT

Gli elementi essenziali di un learning object sono almeno quattro e tra questi c’è il contenuto. In
un ambiente di apprendimento in cui il learning object sia scalabile e adattabile alle esigenze del
discente, il contenuto dovrebbe avere le seguenti caratteristiche:
– modulare, a sé stante e trasportabile all’interno di ambienti e applicazioni diversi. Non sequen-
ziale;
– multimediale e interattivo;
– in grado di soddisfare un singolo obiettivo;
– accessibile alla larga utenza (quindi adattabile ad altra utenza oltre a quella di riferimento);
– coerente e uniformato a un determinato modello in modo che l’essenza del contenuto, l’idea
principale che esso veicola, possa essere “catturata” dal minor numero di metatag.
115

In definitiva quindi i LO si possono usare come:


– supporto alla lezione in aula;
– strumento per approfondire o di recupero;
– percorso di apprendimento personalizzato.
Esistono in commercio numerosi software che permettono al docente di creare lear-
ning object strutturati secondo le fasi della programmazione e le metodologie più utilizza-
te in classe. Si possono creare lezioni strutturate con sezioni esplicative, arricchite con studi
di caso, esercitazioni di problem solving, test con risposte a scelta multipla o secondo la ti-
pologia “vero/falso”. In altre parole, si può optare liberamente per percorsi altamente per-
sonalizzabili.

4. Video digitali
La LIM trova la propria naturale espansione nella possibilità di far visionare in classe vi-
deo, offrendo al docente l’opportunità di creare apposite lezioni attraverso link che, tramite il
collegamento ad Internet, consentono di attivare percorsi didattici interattivi e personalizzati.
YouTube, per esempio, ha permesso un ripensamento della didattica tradizionale attra-
verso il sussidio di proiezioni appositamente pensate per gli studenti. Oltre all’uso dei video
scaricabili dalla rete emergono in questi anni i video-sharing, ovvero la pratica costruzione
di video che anche nella scuola possono essere realizzati direttamente dagli allievi e poi pub-
blicati in Internet.
I video digitali migliorano la partecipazione degli studenti, rendendola più attiva, e sti-
molando tramite immagini la memoria più di quanto avviene attraverso i libri di testo. La
LIM in questo caso si presta facilmente attraverso la costruzione di percorsi di rete a creare
lezioni molto efficaci intervallate da spunti visivi attraverso video.

4.6 LIM e Internet


La LIM dispone di efficaci collegamenti on line che se opportunamente gestiti rappresen-
tano una vera e propria rivoluzione della didattica. Il modo di fare lezione è stato estrema-
mente arricchito dalle potenzialità che vengono associate allo sviluppo del web 2.0.
Il termine web 2.0 designa nuove modalità di utilizzo degli strumenti della rete da par-
te del fruitore. Il web 2.0 è lo sviluppo del tradizionale mondo web che ha sostanzialmen-
te elevato il grado di interazione dei soggetti in rete e sviluppato il ruolo costruttivistico de-
gli utenti della rete. Il web 2.0 ha portato in auge il ruolo dell’utente regista di se stesso ma
anche di produttore delle informazioni, capace di pubblicare, nonché di indicizzare le risor-
se all’interno di una dimensione sociale di valorizzazione della rete. Una possibilità concre-
ta di dialogo tra docente e studente oggi può avvenire attraverso questa nuova interazione;
si tratta in altre parole di sviluppare, creare, cambiare le conoscenze e i saperi in genere at-
traverso strumenti che pongono l’allievo al centro del processo di apprendimento, in un’ot-
tica di innovazione delle metodologie di insegnamento. Come metodo didattico attuale e le-
gato alle nuove tecnologie il docente può prendere in considerazione lo strumento principe
del web 2.0 che è il blog, ormai diffusissimo tra le giovani generazioni.
116

Il termine blog è nato da J. Barger che usò l’espressione per indicare il proprio sito per-
sonale; successivamente P. Merholz coniò il verbo bloggare che significa per l’appunto “scri-
vere un blog”. Il blog rappresenta uno strumento che permette l’interazione di codici – da
quello iconico a quello testuale – consentendo simultaneamente il potenziamento di due
abilità linguistiche fondamentali: la lettura e la scrittura. Questo spiega il suo successo nel-
la didattica.
Il blog ha come caratteristica fondamentale una pagina principale in cui sono elenca-
ti post e articoli che possono essere organizzati cronologicamente, secondo l’ordine che si
preferisce, o per categorie. I visitatori hanno la possibilità di dialogare con l’amministrato-
re del blog mediante i commenti che “postano” (ossia lasciano) ai post cui sono interessati.
Inoltre, si può creare all’interno del blog un blogroll, cioè una lista di link, di solito per cate-
gorie, a siti web. I post vengono periodicamente archiviati ed è possibile accedere automa-
ticamente ai siti attraverso feeds come RSS, Atom, RDF, funzioni utili per segnalare all’uten-
te se vi sono nuovi articoli pubblicati nei blog di suo interesse.
Esistono numerose tipologie di blog in relazione al fine. Nella didattica è possibile usar-
lo per dialogare con gli studenti in merito ad alcune discipline, oppure comunicare esterna-
mente le attività svolte dalla classe durante l’anno scolastico attraverso il sito della scuola,
affinché sia visibile tutto ciò che viene fatto in classe.
La didattica tradizionale può essere rivitalizzata integrandola con uno strumento capa-
ce di far elaborare documenti di scrittura collaborativa o creativa. Il blog può inoltre diveni-
re un archivio digitale che illustra come una bacheca i post del giorno.

4.6.1 Il software della wiki-didattica


La wiki-didattica ha le stesse basi metodologiche e gli scopi costruttivistici della creazio-
ne del blog, nonché la sua tipica implementazione tramite Internet. La caratteristica è che la
wiki-didattica ha un carattere nozionistico e sollecita gli studenti alla contribuzione del sape-
re, mentre il blog si presta a contenuti di carattere più personali ed emozionali.
Nel 1995, per la prima volta nel mondo del web emerse la possibilità di costruire un soft-
ware (wiki) in modalità condivisa come evidenzia wikipedia: l’enciclopedia online.
La wiki-didattica poggia sulla metodologia di stampo costruttivista e permette, in ambi-
to didattico, di realizzare a più mani documenti di qualsivoglia natura che possono essere in
qualunque momento modificati e completati nel tempo. La possibile interazione collabora-
tiva è la caratteristica fondamentale di qualunque wiki. Con la LIM si può trasformare la wiki
in uno strumento di creazione di documenti frutto di cooperazione tra docenti e alunni. Ad
esempio, a conclusione della lezione didattica è possibile approfondire sul web quello che
si è appreso mostrando alla classe, direttamente sulla LIM, la voce ricercata. Talvolta capita
che i contenuti presenti siano bozze o non sufficientemente completi. In tal caso il docente
può avviare un’attività cooperativa con gli studenti, finalizzata alla rivisitazione dei contenu-
ti o alla creazione di una nuova voce.
Infatti, con la LIM gli allievi avrebbero la possibilità di intervenire, discutere, proporre. È
proprio in queste occasioni che risulta fondamentale il ruolo del docente: moderatore di in-
117

terventi, guida per la corretta procedura di elaborazione dei materiali non solo testuali che
andranno ad arricchire la voce creata o ampliata.
È importante sottolineare che con la LIM è possibile ideare e creare un proprio wiki.
Infatti gli strumenti a disposizione della LIM permettono agli studenti di realizzare au-
tonomamente prodotti digitali che risultano particolarmente indicati allo scopo attraverso
software di scrittura.
La rete non è quindi solo uno strumento di ricerca passiva di contenuti o di interazioni li-
mitati, ma attualmente essa offre modalità formative e creative che ben si prestano a sco-
pi didattici ed educativi.

4.6.2 Il podcast in classe con la LIM


Il termine podcast nasce nel 2004 come fusione dell’Ipod e del broadcasting (diffusio-
ne); ideatore del vocabolo è Adam Curry, che ha rivoluzionato la radio sfruttando questo
nuovo servizio di diffusione di informazioni. In effetti tale servizio è stato concepito per
trasmettere contenuti audio, ma a differenza della radio non vincola gli ascoltatori a sin-
cronizzarsi in determinati momenti. La parola indica la possibilità di scaricare in modo au-
tomatico documenti (audio o video) attraverso l’uso di specifici programmi detti aggrega-
tori.
Il podcast utilizza più codici: dal testo all’audio che interagiscono tra loro, e si presenta
come uno strumento particolarmente adatto a scopi linguistici. Esso può presentare audio-
lezioni, sintesi, descrizioni, narrazioni, ecc. i cui file possono essere riprodotti su computer,
palmari, smartphone.
La caratteristica brevità temporale (di solito da 1 a 5 minuti) lo rende facilmente fruibi-
le, gradevole da ascoltare, essenziale, variegato come i videoclip o i trailer televisivi. Fonda-
mentalmente, si tratta di uno strumento di potenziamento delle conoscenze acquisite che,
opportunamente inserito in classe, può elevare la motivazione degli studenti, rendendo più
coinvolgente l’apprendimento.
Come spunto nell’ambito delle nuove metodologie didattiche è possibile realizzare
un podcast a scuola. Per esempio, in ambito linguistico si può utilizzarlo per migliorare la
pronuncia degli studenti oppure correggere le distonie verbali qualche volta ascrivibili al
background socio-culturale degli studenti.
Il podcast in ambito letterario può essere utilizzato per creare sintesi di autori della lette-
ratura oppure inserire testi appositamente selezionati per delineare percorsi tematici e rea-
lizzare mini-guide per siti da visitare durante i viaggi di integrazione culturale.
Nel settore tecnico-scientifico, in particolare, il podcast è funzionale a raccontare espe-
rienze formative di carattere laboratoriale o a illustrare fenomeni scientifici e relativi dati.
Esistono in commercio diversi software con cui realizzare, gestire, scaricare e pubblica-
re in modo semplice e veloce un podcast, con combinazioni di video/testo/audio a piace-
re, ma sarebbe più coinvolgente progettarlo insieme ai discenti. Occorre, preliminarmente,
creare una vera e propria redazione in classe, nominando i responsabili dei testi da inseri-
re, dei file audio e delle immagini da selezionare; inoltre, sarà utile prima registrare il file au-
118

dio con software e/o servizi in rete free e poi inserire testo e/o immagini pertinenti in un se-
condo momento.
Un podcast è un’esperienza che può essere vissuta durante l’anno scolastico in quanto si
presenta come mezzo ideale per realizzare delle sorte di “puntate” su un argomento speci-
fico da indicizzare e pubblicare mediante la LIM. Secondo quest’approccio la sequenza delle
puntate deve essere congiuntamente progettata da alunni e docenti. Pertanto è fondamen-
tale la coerenza con cui si costruisce l’insieme dei singoli podcast.
Il podcast può essere integrato con gli altri strumenti di cui la scuola sia eventualmen-
te fornita: sito web, blog, forum, piattaforme. All’interno di un giornale d’istituto si possono
anche segnalare le uscite periodiche dei podcast, proprio come le singole puntate di un se-
rial televisivo, in quanto il giornale scolastico si presta particolarmente a dare spazio ad ap-
profondimenti e discussioni, interviste e commenti. In conclusione il podcast registra il pas-
saggio da una didattica “trasmissiva” e unidirezionale allo scambio e condivisione tra do-
cente e allievi. Il risultato più importante di questa didattica è il processo di apprendimento,
comprensione e realizzazione del prodotto finale lasciando al docente la possibilità di inter-
venire laddove riscontri difficoltà cognitive.

4.6.3 LIM e webquest


La webquest (WO) è una metodologia basata sull’integrazione del web nella didattica
ideata da nel 1995 da B. Dodge che sottolineò la valorizzazione delle capacità autoformati-
ve dello studente. La webquest è in grado di potenziare l’uso delle nuove tecnologie, sen-
za rinunciare alle azioni di rinforzo del docente attraverso il supporto continuo e la valuta-
zione finale.
La straordinaria novità di questa metodologia è che punta sull’approccio costruttivista
di stampo laboratoriale: si tratta, cioè, di proporre opportunità di apprendimento informa-
le mirate a creare dei prodotti finali che siano frutto di negoziazione, di capacità organizza-
tive del singolo o del gruppo, e che diano spazio a grande spirito di collaborazione fra tut-
te le parti coinvolte. Il docente ha la possibilità di valutare sia il prodotto finale realizzato
dallo studente sia il processo conoscitivo che lo ha accompagnato nella sua realizzazione.
Quest’ultimo rappresenta il dato più significativo in quanto permette al docente di verifica-
re la modalità apprenditiva dello studente e sollecitarne l’autonomia.
Di norma l’attività di una webquest è suddivisa in 6 sezioni:
1. introduzione: fornisce le informazioni di base, introduce i partecipanti nella situazione
proposta e spesso propone la simulazione di una situazione simil-reale per rendere più
attraente il compito proposto (“sei un giornalista...” “fate parte della commissione par-
lamentare per...” “il mondo è minacciato dalla terza guerra mondiale, il presidente degli
Stati Uniti convoca una Commissione...”);
2. compito: definisce cosa deve essere prodotto durante i lavori. Non viene ancora descrit-
to come dovrà essere svolto il compito ma solo quale sarà (“devi convincere il capo re-
dattore dell’importanza dell’articolo con un’esposizione orale di 10 min... devi scrivere un
articolo per il giornale... devi preparare una lezione di 30 min. con l’ausilio di una presen-
119

tazione multimediale...”, “la commissione dovrà presentare alla fine dei lavori: una rela-
zione... un vademecum... una lista di quesiti rimasti senza risposta...”, “ipotizzate 3 pos-
sibili soluzioni pacifiche con l’ausilio di diagrammi di flusso o mappe concettuali... prepa-
rate il discorso alla nazione del presidente per illustrare la situazione, i potenziali perico-
li e la soluzione scelta... preparate il discorso del presidente con la potenza nemica...”);
3. risorse: vengono indicate le risorse web da consultare, che possono essere uniche per
tutti i discenti o suddivise per gruppi ed elencate a seconda delle funzioni. Si tratta di ri-
sorse liberamente fruibili in rete, precedentemente visitate e recensite dal docente, op-
pure preparate appositamente e inserite su un sito web, oppure ancora altre informa-
zioni come indirizzi mail o numeri telefonici di esperti a cui potersi rivolgere per ricerca-
re la risposta ai quesiti posti. A seconda della materia trattata e del compito assegnato vi
possono essere diversi “gradi di apertura” delle risorse esplorabili, essendo la webquest
uno strumento didattico altamente personalizzabile. Le fonti possono infatti essere to-
talmente preselezionate, come nella webquest classica, oppure si può decidere di lascia-
re ai discenti il compito di integrarle parzialmente con la ricerca libera su Internet per la
soluzione di determinati problemi o la ricerca di informazioni particolari; questa fase può
infatti essere utile per sviluppare negli allievi le capacità di organizzazione delle informa-
zioni, di sistematizzazione e di sintesi (purché si tratti di un compito “residuo”, ben defi-
nito e “guidato”, che non comporti una deviazione dal compito assegnato e una disper-
sione inutile di energie e tempo, e in questo sta naturalmente l’abilità di chi prepara la
webquest). Se il compito è stato “arricchito” con l’utilizzo di videoconferenze, qui si tro-
veranno le istruzioni e gli indirizzi per utilizzare correttamente questo strumento. Le fon-
ti possono essere integrate anche con materiali cartacei quali fotocopie o libri; è tuttavia
importante che l’utilizzo del web sia fondamentale per svolgere il compito, che altrimen-
ti non avrebbe bisogno di essere svolto sotto forma di webquest;
4. processo: si descrivono nel dettaglio le attività che gli studenti devono svolgere per por-
tare a termine il compito. È importante che questa sezione sia chiara e ben progettata,
che contempli l’eventuale suddivisione in sottogruppi e preveda esercitazioni pratiche e
un ruolo attivo dei discenti. Si dovrà: descrivere le fasi del lavoro, ovvero suddivisione
in gruppi, distribuzione dei compiti, consultazione web in gruppi, discussione in classe,
esercitazioni pratiche, studi sul campo o ricerca-azione, interviste, ecc.; organizzare gli
eventuali ruoli dei partecipanti, affidando a ciascuno responsabilità proprie o di gruppo
e fornendo tutte le informazioni necessarie per svolgere il compito attraverso la simula-
zione;
5. suggerimenti: si possono inserire dei consigli per aiutare i discenti a organizzare le infor-
mazioni raccolte fornendo per esempio degli elenchi di domande a risposta più o meno
guidata, griglie organizzative, mappe concettuali, scalette temporali, ecc. Questi stru-
menti forniscono una guida agli studenti e permettono loro di raggiungere risultati che
altrimenti non sarebbero probabilmente in grado di raggiungere, con il doppio vantag-
gio di fornire dei modelli di apprendimento che potranno utilizzare in altri contesti. È al-
tresì utile inserire in questa sezione una griglia che espliciti fin da subito i criteri di valu-
tazione delle attività assegnate. Questo aspetto è particolarmente utile soprattutto se si
120

considera che l’attività svolta non è di tipo tradizionale ed è più difficile da “misurare” e
valutare; i criteri di valutazione possono essere complessi e soggettivi ed è dunque im-
portante esplicitarli all’inizio dell’attività, sia per il docente che per gli studenti. Propo-
nendo una griglia di valutazione si permette di suddividere l’attività nei vari aspetti che
la compongono (analisi, sintesi, lavoro di gruppo, uso TIC, elaborazione prodotto, ecc.) e
di individuare i punti di forza e i punti deboli dei lavori svolti, facilitando il feedback del
docente e l’avvio di un processo di miglioramento continuo. Per gli studenti questo per-
mette di capire bene quali sono gli aspetti su cui focalizzare l’attenzione e cosa ci si aspet-
ta da loro, fungendo dunque da guida per il loro lavoro e attutendo la classica paura del
docente e della sua valutazione. Infine la presenza di una griglia di valutazione permette
anche a soggetti terzi di comprendere e valutare il compito affidato per meglio coglierne
il valore pedagogico;
6. conclusione: è il momento in cui si riepiloga, in cui si ricorda agli studenti cosa hanno im-
parato e li si consiglia su come successivamente ampliare l’esperienza per acquisire ulte-
riore conoscenza.
Si tratta di rendere l’apprendimento più motivato e coinvolgente, mantenendo più alta
l’attenzione dei ragazzi che, spinti da curiosità, presteranno attenzione pure al lavoro altrui,
anche al fine di una sana competizione da sviluppare nell’ambito della classe.
Capitolo 5
Content and Language
Integrated Learning

5.1 Il CLIL e il language immersion


Il Content and Language Integrated Learning diffusosi con l’acronimo CLIL significa “Ap-
prendimento Integrato di Lingua e Contenuto” ed è affine all’apprendimento attraverso l’im-
mersione linguistica. Quest’ultimo costituisce la base dell’odierna metodologia CLIL.
L’immersione linguistica è un approccio sviluppato sin dagli anni ‘60 per potenziare l’in-
segnamento/apprendimento di una seconda lingua (L2) utilizzandola come veicolo per l’ap-
prendimento di altri contenuti. Nelle scuole che usano “l’immersione linguistica”, una o più
discipline vengono apprese impiegando una seconda lingua, diversa da quella materna de-
gli studenti.
Gli studenti, sulla base di uno specifico progetto educativo, vengono quindi “immersi”
nella L2 e la utilizzano sia per apprendere le scienze, la storia, la geografia e/o altre discipli-
ne che per seguire percorsi educativi anche interdisciplinari.
Un’informazione importante è che questa metodologia è stata sviluppata originariamen-
te in Canada, un Paese caratterizzato dal bilinguismo. Quindi sfatando dei luoghi comuni
questa metodologia evolutasi e strutturatasi nel CLIL non risponde alla esclusiva esigenza di
elevare le performance linguistiche dei discenti ma di promuovere attraverso una metodolo-
gia linguistica appropriata l’integrazione scolastica caratterizzata attualmente dalla presenza
di molteplici culture, a seguito dei flussi migratori.
Nel settore dell’immersione linguistica sono state utilizzate varie forme di approccio per
affrontare casistiche differenti che rappresentano spunti per una modellizzazione del CLIL.
In funzione sia dell’età degli studenti coinvolti, della quantità di discipline e conseguente-
mente del numero di ore di lezione settimanali svolte nella seconda lingua, possono essere
individuate varie tipologie di modelli immersivi in rapporto a:
1. età degli allievi. Immersione precoce: indica generalmente gli interventi condotti fin dal-
la scuola dell’infanzia e offre i risultati migliori. Immersione tardiva: è la meno efficace,
non potendo giovarsi della naturale predisposizione del bambino in tenera età per l’ap-
prendimento linguistico. In questi casi i risultati migliori si sono ottenuti con modelli di
immersione totale o tendenti a coinvolgere un numero consistente di ore settimanali;
2. numero di discipline coinvolte. Immersione parziale: coinvolge una o più discipline con
un limitato numero di ore. Immersione totale: comporta lo svolgimento di tutte le disci-
pline direttamente nella lingua target, ad eccezione della lingua materna;
122

3. lingue veicolari coinvolte. Una o più lingue coinvolte: ad esempio con la duplice immer-
sione si utilizzano 2 lingue veicolari (non materne).
Secondo i suoi ideatori David Marsh e Anne Maljers (1994) il termine CLIL incorpora di-
verse esperienze e metodologie di apprendimento in lingua veicolare. Il termine, prevalen-
temente usato in Italia e in alcuni Paesi europei, è spesso utilizzato anche in alcuni docu-
menti dell’Unione europea per indicare le esperienze di immersione linguistica. Secondo
gli ideatori il termine CLIL dovrebbe anche indicare un approccio metodologico innovativo
dove la costruzione di competenze linguistiche e abilità comunicative si accompagna conte-
stualmente allo sviluppo ed all’acquisizione di conoscenze disciplinari.
L’approccio CLIL ha quindi il duplice obiettivo di prestare contemporaneamente attenzio-
ne sia alla disciplina che alla lingua non materna. Conseguire questo duplice obbiettivo ri-
chiede lo sviluppo di un approccio integrato di insegnamento e apprendimento con un’at-
tenzione speciale al processo educativo in termini generali.
Il CLIL si avvale dei principi metodologici stabiliti dalla ricerca sull’immersione linguisti-
ca e dell’insegnamento in lingua veicolare. In termini generali l’approccio CLIC persegue gli
obiettivi di migliorare nello studente:
– la fiducia nell’approccio comunicativo;
– le abilità e la consapevolezza interculturale;
– la spendibilità delle competenze linguistiche acquisite durante le attività della vita quoti-
diana;
– la disponibilità alla mobilità nell’istruzione e nel lavoro;
– l’immersione in contesti d’apprendimento stimolanti ed innovativi;
– competenze aggiuntive oltre a quelle comunicative nella lingua di immersione;
– il confronto con le TIC, i curricoli e le pratiche integrate.

5.2 Apprendimento integrato di contenuto e lingua (CLIL)


Il CLIL è senza dubbio una metodologia di apprendimento integrato. Attraverso il CLIL lin-
gua e disciplina si integrano: in una lezione CLIL gli alunni prestano attenzione sia alla lingua
veicolare che alla disciplina, quindi il CLIL favorisce l’acquisizione di competenze linguistiche,
facilita la comprensione, sviluppa le capacità di apprendimento e la capacità orale median-
te situazioni reali. La metodologia CLIL è trasversale alle discipline perché lingua e disciplina
si fondono nell’insegnamento e l’apprendimento della disciplina e della lingua straniera ri-
sulta più efficace. Con il CLIL si focalizza la lezione sia sulla lingua sia sui contenuti, e rappre-
senta l’esperienza laboratoriale dell’imparare facendo, in questo modo si comprende che la
lingua è uno strumento pratico di comunicazione, di acquisizione e trasmissione del sapere.
Tramite la lingua si aiuta l’elaborazione dei concetti, ma attraverso la disciplina si aiuta
l’apprendimento linguistico, la comunicazione. Gli alunni acquistano fiducia imparando a co-
municare la disciplina in lingua, acquistano competenze utili anche in ambito lavorativo, im-
parano tecniche nuove, acquisendo capacità che risulteranno positive per la loro vita, per i
rapporti interculturali.
123

5.3 Il CLIL in Europa


L’Unione europea valorizza e promuove lo studio delle lingue straniere, per facilitare la
comunicazione dei popoli. L’azione dell’Unione europea è intesa:
– a sviluppare la dimensione europea dell’istruzione, segnatamente con l’apprendimento
e la diffusione delle lingue degli Stati membri;
– a favorire la mobilità degli studenti e degli insegnanti, promuovendo tra l’altro il ricono-
scimento accademico dei diplomi e dei periodi di studio;
– a promuovere la cooperazione tra gli istituti di insegnamento;
– a sviluppare lo scambio di informazioni e di esperienze sui problemi comuni dei sistemi
di istruzione degli Stati membri;
– a favorire lo sviluppo degli scambi di giovani e di animatori di attività socioeducative e a
incoraggiare la partecipazione dei giovani alla vita democratica dell’Europa;
– a incoraggiare lo sviluppo dell’istruzione a distanza.
Il Quadro Comune Europeo di Riferimento per la conoscenza delle lingue (QCER) è un si-
stema descrittivo impiegato per valutare le abilità conseguite da chi studia una lingua stra-
niera europea.
È stato elaborato dal Consiglio d’Europa come parte principale del progetto Language
Learning for European Citizenship (apprendimento delle lingue per la cittadinanza europea)
tra il 1989 e il 1996 con lo scopo principale di fornire un metodo per accertare e trasmette-
re le conoscenze secondo parametri riconoscibili e comparabili all’interno dell’Unione euro-
pea. Nel novembre 2001 una risoluzione del Consiglio d’Europa raccomandò di utilizzare il
QCER per costruire sistemi di validazione dell’abilità linguistica.
I sei livelli di competenza (A1, A2, B1, B2, C1, C2) e i tre livelli intermedi (A2+, B1+, B2+)
articolati nel QCER sono utilizzati in tutta Europa e in altri continenti come parametri per for-
nire agli insegnanti di lingua un modello di riferimento per la preparazione di materiali didat-
tici e per la valutazione delle conoscenze linguistiche. Con l’introduzione dell’insegnamen-
to di discipline non linguistiche (DNL) con modalità CLIL, il QCER rappresenta un indispensa-
bile riferimento per la valutazione delle competenze linguistiche dei docenti e delle compe-
tenze in uscita degli studenti.
Il Quadro Comune Europeo di Riferimento distingue tre fasce di competenza (“Base”,
“Autonomia” e “Padronanza”), ripartite a loro volta in due livelli ciascuna per un totale di
sei livelli complessivi, e descrive quello che un individuo è in grado di fare in dettaglio per
un determinato livello nei diversi ambiti di competenza: comprensione scritta (comprensio-
ne di elaborati scritti), comprensione orale (comprensione della lingua parlata), produzione
scritta e produzione orale (abilità nella comunicazione scritta e orale). Di seguito uno sche-
ma esemplificativo:

A – Base
A1 – Livello base
Si comprendono e si usano espressioni di uso quotidiano e frasi basilari tese a soddisfa-
re bisogni di tipo concreto. Si sa presentare se stessi e gli altri e si è in grado di fare doman-
de e rispondere su particolari personali come dove si abita, le persone che si conoscono e le
124

cose che si possiedono. Si interagisce in modo semplice, purché l’altra persona parli lenta-
mente e chiaramente e sia disposta a collaborare.

A2 – Livello elementare
Comunica in attività semplici e di abitudine che richiedono un semplice scambio di infor-
mazioni su argomenti familiari e comuni. Sa descrivere in termini semplici aspetti della sua
vita, dell’ambiente circostante. Sa esprimere bisogni immediati.

B – Autonomia
B1 – Livello intermedio
Comprende i punti chiave di argomenti familiari che riguardano la scuola, il tempo libero,
ecc. Sa muoversi con disinvoltura in situazioni che possono verificarsi mentre viaggia nel Pae-
se di cui parla la lingua. È in grado di produrre un testo semplice relativo ad argomenti che sia-
no familiari o di interesse personale. È in grado di esprimere esperienze ed avvenimenti, sogni,
speranze e ambizioni e di spiegare brevemente le ragioni delle sue opinioni e dei suoi progetti.

B2 – Livello intermedio superiore


Comprende le idee principali di testi complessi su argomenti sia concreti che astratti,
comprende le discussioni tecniche sul suo campo di specializzazione. È in grado di interagi-
re con una certa scioltezza e spontaneità che rendono possibile un’interazione naturale con
i parlanti nativi senza sforzo per l’interlocutore. Sa produrre un testo chiaro e dettagliato su
un’ampia gamma di argomenti e spiegare un punto di vista su un argomento fornendo i pro
e i contro delle varie opzioni.

C – Padronanza
C1 – Livello avanzato
Comprende un’ampia gamma di testi complessi e lunghi e ne sa riconoscere il significa-
to implicito. Si esprime con scioltezza e naturalezza. Usa la lingua in modo flessibile ed effi-
cace per scopi sociali, professionali ed accademici. Riesce a produrre testi chiari, ben costru-
iti, dettagliati su argomenti complessi, mostrando un sicuro controllo della struttura testua-
le, dei connettori e degli elementi di coesione.

C2 – Livello di padronanza della lingua in situazioni complesse


Comprende con facilità praticamente tutto ciò che sente e legge. Sa riassumere informa-
zioni provenienti da diverse fonti sia parlate che scritte, ristrutturando gli argomenti in una
presentazione coerente. Sa esprimersi spontaneamente, in modo molto scorrevole e preci-
so, individuando le più sottili sfumature di significato in situazioni complesse.

5.4 L’introduzione della metodologia CLIL in Italia


In Italia l’insegnamento di una materia non linguistica in lingua straniera è presente già
dagli anni Novanta, denominato insegnamento nelle lingue veicolari. Generalmente l’inse-
125

gnamento CLIL fa parte dell’offerta formativa scolastica ordinaria a livello primario e secon-
dario.
In Italia questo tipo di insegnamento è stato prevalentemente oggetto di progetti pilo-
ta ovvero in stato di sperimentazione, ma non realmente messo a regime sebbene introdot-
to dalla normativa. Queste sperimentazioni sono oggetto di valutazioni sistematiche. Il fatto
che questo insegnamento faccia parte dell’offerta formativa ordinaria non significa che coin-
volga un elevato numero di alunni. Non abbiamo dati precisi, ma sappiamo che il CLIL è dif-
fuso in tutta l’Italia in poche scuole virtuose.
Le lingue straniere più diffuse nella metodologia CLIL sono Inglese, Francese e Tedesco,
ma sono presenti anche Spagnolo, Russo, Sloveno ed altre lingue. Il CLIL nella scuola pre-pri-
maria è marginale, ma è offerto sopratutto a livello primario, secondario inferiore e secon-
dario superiore.
In generale la partecipazione ad un insegnamento secondo la metodologia CLIL, integra-
to all’offerta educativa ordinaria, è aperta a tutti. Il CLIL è ispirato da due obiettivi. Il primo è
che gli alunni acquisiscano conoscenze specifiche nella materia di studio ed il secondo che
essi acquisiscano competenze in un’altra lingua diversa dalla lingua madre.
In Italia, l’obiettivo primario che ha ispirato il CLIL è lo sviluppo della competenza lingui-
stica. Le materie insegnate attraverso il CLIL sono varie, ma in generale, nella scuola prima-
ria e secondaria di primo grado, sono:
– scienze dell’arte;
– geografia;
– tecnologia.
Nella scuola secondaria di secondo grado sono:
– storia;
– biologia;
– scienze;
– economia.
Il minimo numero di ore dedicato all’insegnamento CLIL varia da scuola a scuola, ma ge-
neralmente i progetti sono limitati a piccoli periodi dell’anno. Finora, per insegnare secondo
la metodologia CLIL non è stato necessario avere uno speciale diploma, ma le scuole hanno
provveduto alla formazione iniziale ed in itinere linguistica degli insegnanti.

5.5 CLIL nella riforma della scuola secondaria superiore


Con la riforma Gelmini della scuola secondaria superiore, l’insegnamento secondo la
metodologia CLIL diviene obbligatorio.
Le modifiche introdotte dai D.P.R. attuativi della riforma della scuola secondaria di se-
condo grado nn. 88/2010 e 89/2010 prevedono l’insegnamento di una disciplina non lingui-
stica (DNL) in una lingua straniera nell’ultimo anno dei Licei e degli Istituti Tecnici e di due di-
scipline non linguistiche in lingua straniera nei Licei Linguistici. In particolare, la metodolo-
gia CLIL viene introdotta nel terzo anno dei Licei Linguistici a partire dall’a.s. 2012-13. Nei li-
cei linguistici dal primo anno del secondo biennio è impartito l’insegnamento in lingua stra-
126

niera di una disciplina non linguistica, compresa nell’area delle attività e degli insegnamenti
obbligatori per tutti gli studenti o nell’area degli insegnamenti attivabili dalle istituzioni sco-
lastiche nei limiti del contingente organico ad esse assegnato, tenuto conto delle richieste
degli studenti e delle loro famiglie. Dal secondo anno del secondo biennio è previsto inoltre
l’insegnamento, in una diversa lingua straniera, di una disciplina non linguistica, compresa
nell’area delle attività e degli insegnamenti obbligatori per tutti gli studenti o nell’area de-
gli insegnamenti attivabili dalle istituzioni scolastiche nei limiti del contingente organico ad
esse assegnato, tenuto conto delle richieste degli studenti e delle loro famiglie.
Un’ulteriore affermazione della metodologia CLIL è arrivata attraverso la recente riforma
c.d. “La Buona Scuola”. La legge 107/2015, in riferimento alle iniziative di potenziamento
dell’offerta formativa e delle attività progettuali, per il raggiungimento degli obiettivi for-
mativi individuati come prioritari, prevede al comma 7, punto a) la “valorizzazione e poten-
ziamento delle competenze linguistiche, con particolare riferimento all’italiano nonché alla
lingua inglese e ad altre lingue dell’Unione europea, anche mediante l’utilizzo della metodo-
logia Content language integrated learning” (CLIL).
Obiettivo del CLIL è portare gli studenti durante il proprio percorso di studi all’apprendi-
mento per la lingua straniera principale almeno al livello B2.
Il profilo del docente CLIL è caratterizzato dal possesso di competenze linguistico-comu-
nicative nella lingua straniera veicolare di livello C1 del Quadro Comune Europeo di Riferi-
mento per le lingue e da competenze metodologico-didattiche acquisite al termine di un
corso di perfezionamento universitario del valore di 60 CFU per i docenti in formazione ini-
ziale e di 20 CFU per i docenti in servizio. Per la formazione del personale docente di discipli-
na non linguistica (DNL) in servizio, il MIUR ha avviato un’azione di formazione affidata alle
università, sia per l’acquisizione delle competenze metodologico-didattiche, sia per l’acqui-
sizione delle competenze linguistiche a partire dal livello B1 fino al raggiungimento del livel-
lo C1 (QCER).

5.6 La progettazione di un percorso CLIL


Una competenza richiesta agli insegnanti è quella di essere in grado di definire gli obiet-
tivi e i risultati di un programma CLIL considerando:
– il contenuto;
– la comunicazione come veicolo per trasmettere e comunicare;
– l’ambito cognitivo per lo sviluppo di abilità cognitive e meta-cognitive;
– gli aspetti culturali come possibilità di sviluppare opportunità multiculturali e favorire la
conoscenza da più punti di vista.
Nella progettazione di un modello CLIL si dovranno considerare diversi parametri e va-
riabili affinché tale progettazione possa risultare la più efficace possibile: si dovranno pren-
dere le decisioni a vari livelli e poi si dovrà agire di conseguenza cercando, durante il per-
corso, di fare un monitoraggio sull’efficacia delle decisioni una volta che sono messe in atto.
È poi necessario considerare il contesto dove si dovrebbe attuare la progettazione del
modulo sia in riferimento alla scuola sia in riferimento all’ambiente esterno. Si dovranno
127

considerare le decisioni organizzative “strutturali”, gli aspetti organizzativo-metodologici ed


infine, non meno importante, si dovrà prendere in considerazione in modo preciso il pro-
gramma da svolgere.
Per quanto riguarda le decisioni organizzative strutturali, il docente CLIL dovrà conside-
rare i destinatari (età, livello linguistico, motivazioni, aspettative, ecc.) e il programma che si
vuole mettere in atto.
Il contenuto verrà scelto pensando anche al livello linguistico: è meglio scegliere conte-
nuti che si basano principalmente sulla comunicazione verbale e che sono per loro natura
più astratti solo dopo che ci sia una buona conoscenza della lingua straniera da parte degli
studenti; nel caso di materie che non fanno ricorso solo alla comunicazione verbale posso-
no essere usate anche in mancanza di una buona competenza linguistica perché attraverso
elementi extralinguistici quali i materiali visivi, grafici, diagrammi, ecc. si possono trasmette-
re i contenuti della disciplina rendendo l’input comprensibile.
Un’altra variabile da considerare sono i docenti. Sarà un unico insegnante a portare
avanti il progetto, oppure saranno in due, di cui magari uno madrelingua? Ci sono altri aspet-
ti che devono essere considerati che riguardano l’organizzazione e la metodologia del pro-
getto. Per quanto riguarda la struttura didattica i docenti CLIL considereranno la modalità
più adatta all’insegnamento tra le seguenti alternative:
1. un insegnamento collaborativo tra il docente della disciplina e quello della lingua nella
programmazione e nella formulazione dei moduli e delle unità didattiche;
2. co-presenza dei due insegnanti;
3. insegnamento indipendente.
Inoltre si dovrà decidere se il gruppo classe sarà anagrafico oppure suddiviso per com-
petenza linguistica. I docenti CLIL prenderanno in esame anche le metodologie: dalle lezioni
frontali alle esercitazioni divise per gruppi, a coppie, individuali, l’uso del cooperative lear-
ning o altre strategie per fare in modo che l’insegnamento sia più efficace.
È inoltre necessario decidere come sarà l’alternanza della lingua madre con la lingua
straniera tra docenti e studenti: in caso di compresenza bisogna decidere se un insegnante
parla in italiano e l’altro in lingua straniera oppure se sono intercambiabili i loro ruoli; in caso
di non compresenza è da decidere se c’è un’alternanza a seconda dei giorni di lezione, al tipo
di lezione, oppure se c’è una mescolanza e la stessa decisione riguarderà analogamente l’u-
so della lingua straniera e della lingua madre da parte degli studenti. La programmazione è
sicuramente uno dei momenti fondamentali dell’attività dei docenti per una organizzazione
efficace del proprio lavoro. Il piano di programmazione contiene l’indicazione dei contenu-
ti disciplinari e dei tempi di attuazione di ogni unità didattica/modulo, evidenzia i prerequi-
siti, stabilisce gli obiettivi cognitivi e le abilità di studio che lo studente deve aver raggiunto
alla fine di ogni segmento di lavoro.
Si sottolinea che, nel caso di una programmazione CLIL, entrambi i docenti (quello della
lingua straniera e quello della materia disciplinare):
– selezionano i nuclei fondamentali delle proprie discipline;
– stabiliscono gli obiettivi del corso/modulo/unità;
– prevedono possibilità di cambiamenti in itinere (flessibilità);
128

– formulano il piano di lavoro in comune sulla base delle proprie competenze;


– prevedono le difficoltà.
Per quanto riguarda la valutazione, sarà importante stabilire delle prove che siano ade-
guate in base agli obiettivi di contenuto e di lingua.

5.7 La valutazione dell’insegnante CLIL


Nei contesti di apprendimento CLIL, il concetto di valutazione diventa centrale e proble-
matico al tempo stesso in quanto la raccolta di dati e di informazioni non è limitata esclusi-
vamente all’ambito disciplinare della lingua straniera, ma investe le generali competenze at-
tivate dall’apprendimento di altre discipline.
Pertanto, richiede chiarezza riguardo allo scopo della valutazione, agli obiettivi di ap-
prendimento e alle modalità di verifica del raggiungimento di questi obiettivi. Nel caso
dell’insegnamento di contenuti in lingua può diventare problematico in quanto è fondamen-
tale chiarire quali siano gli obiettivi generali e quali quelli specifici della lingua e della disci-
plina, individuare in quale momento questi obiettivi si sovrappongono e agire sull’individua-
zione della forma più idonea di valutazione. Sarà fondamentale prestare attenzione alle pro-
ve di verifica proposte e al tipo di griglie utilizzate per la raccolta ed interpretazione dei dati.
La competenza necessaria per la progettazione CLIL verrà testata attraverso i compi-
ti che i docenti, a seconda della loro specificità e per il ruolo che hanno nello specifico nel
progetto CLIL, dovranno essere in grado di esplicitare. Un altro aspetto importante per il do-
cente CLIL è la capacità di scegliere i materiali e le risorse CLIL in base al contenuto e al li-
vello linguistico. Inoltre il docente dovrà essere in grado di creare delle attività di supporto
che aiutino la comprensione del testo, di identificare dei compiti adatti ed adeguati. I mate-
riali da utilizzare nel percorso CLIL possono essere un problema, perché non esistono anco-
ra dei materiali specifici in commercio e comunque dovranno essere adattati alle specifiche
esigenze della classe; da qui la necessità che gli insegnanti CLIL scelgano dei testi autentici
in lingua straniera che poi vengano elaborati per essere fruibili per una determinata classe:
questo non è facile perché prima di tutto richiede molto tempo e una scelta oculata dei con-
tenuti e delle attività correlate. Si dovrà pensare, in base alle caratteristiche della disciplina,
di utilizzare anche elementi extralinguistici per rendere comprensibile il contenuto, come
del materiale iconografico, dei grafici, dei diagrammi, degli schemi, ecc.
Oltre a tali aspetti gli insegnanti dovranno considerare i prerequisiti sia legati al conte-
nuto sia alla lingua, gli obiettivi specifici, gli strumenti utilizzati, l’aspetto grafico dei testi da
presentare, le attività e gli esercizi di supporto e la comprensione guidata.
Nella certificazione questo punto verrà testato attraverso la formulazione di un quesito
al quale il candidato dovrà rispondere in lingua straniera.
Al fine di rendere maggiormente visibili le tecniche di progettazione di un modulo CLIL
si veda l’esempio, proposto in appendice, che rappresenta una possibile proposta di lavoro
per l’insegnamento del diritto in inglese. L’esempio costituisce la realizzazione di un percor-
so curriculare di Diritto e Lingua Inglese, utilizzando l’approccio CLIL (Content and Langua-
ge Integrated Learning), ovvero l’insegnamento di discipline non linguistiche in lingua altra.
129

APPENDICE
ESEMPIO DI UN MODULO DI DIRITTO CON LA METODOLOGIA CLIL

Titolo del modulo: I diritti umani (Approccio CLIL Diritto-Inglese)

Contesto: II classe – Liceo linguistico

L’istituto ha registrato un notevole incremento di alunni extracomunitari e pertanto ritiene


necessario esplorare nuove modalità d’insegnamento che favoriscano l’integrazione in una
società che si avvia a diventare multietnica.
Tenuto conto che la realtà socio-economica nella quale la scuola sorge abbraccia un’utenza
medio-bassa proveniente principalmente da paesini limitrofi, che non sempre ha la possibi-
lità di confrontarsi con realtà nuove e che tende a cogliere il “diverso” non come una oppor-
tunità ma come un “estraneo”, si ritiene necessario avviare nuove percorsi educativi finaliz-
zati alla creazione di una coscienza civile.
La scelta della classe 2a (Linguistico) è dettata innanzitutto da una necessità di tipo curricu-
lare: lo studio del diritto e dell’economia si ferma nella seconda classe. Pertanto se si vuole
creare un modulo CLIL Diritto/Inglese è necessario scegliere una seconda.
Per quanto concerne lo studio dell’inglese, si riscontra spesso negli alunni la difficoltà:
– di produrre oralmente; si rende necessario pertanto privilegiare nei discenti le attività di
listening e speaking al fine di migliorare proprio queste abilità;
– per quel riguarda invece lo studio del diritto, spesso esso viene considerato dai giovani
avulso dalla realtà. Per questo mostrando loro casi concreti e commentando eventi del-
la vita di ogni giorno si riesce a catturare meglio la loro attenzione e a promuovere uno
studio più approfondito della disciplina.

Obietti formativi del modulo:


– promuovere lo studio della lingua inglese nell’ambito dell’apprendimento del diritto at-
traverso un approccio CLIL, modello d’insegnamento innovativo volto ad offrire occasio-
ni più motivanti per lo studio di entrambe le discipline;
– acquisire una mentalità più flessibile che aiuta ad avvicinare e a comparare culture “al-
tre” favorendo il plurilinguismo;
– realizzare il dettato costituzionale che tutela le diversità linguistiche presenti nel territorio;
– acquisire metodi autonomi di ricerca finalizzati ad un’azione;
– comprendere la necessità di attingere a fonti in lingua originale.

Obiettivi specifici di apprendimento


Inglese:
– acquisire la terminologia specifica all’argomento trattato;
– essere capaci di argomentare in maniera semplice sui contenuti disciplinari (speaking);
– essere capaci di comprendere testi orali (listening) di diritto in lingua straniera.
130

Diritto:
– riflettere sulla propria condizione di cittadino, diversa a seconda della cultura di apparte-
nenza;
– conoscere i diritti fondamentali dell’uomo;
– individuare gli impedimenti che precludono la realizzazione della persona umana;
– conoscere le organizzazioni e associazioni internazionali che si battono per la tutela dei
diritti umani.

Interdisciplinarietà
Compresenza: Diritto-conversazione inglese
– insegnante di conversazione inglese;
– insegnante di diritto.

Tempi previsti
Il progetto si articola in un modulo diviso in due fasi: A e B per un totale di 30 ore di docen-
za e 4 di verifica
Fase A: ore 16 I diritti umani
Fase B: ore 14 Diritti umani nel mondo

SPAZI: Aula, laboratorio informatico

Fase A: I diritti umani

Prerequisiti
Prerequisiti inglese:
Strutture grammaticali e funzioni linguistiche livello A1 del Quadro di Riferimento Europeo

Prerequisiti diritto:
Il discente conosce le regole fondamentali della convivenza civile

Percorso didattico
Contenuti:
– I diritti umani;
– La dichiarazione universale dei diritti dell’uomo;
– Diritti civili, politici ed economici;
– I diritti nella Costituzione italiana;
– Unità didattiche programmate: 5 U.D.

U.D. 1 Ascolto e comprensione delle canzoni:


– “Get up, stand up” di Bob Marley (Italiano Inglese);
– “Blowing in the wind” di Bob Dylan (Italiano Inglese);
– “We shall overcome” di Bruce Springsteen (Italiano Inglese).
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Brainstorming e scoperta lessicale:


– Pena di morte
Analisi dei singoli diritti e della loro realizzazione.

U.D. 2 Visione di una parte di un film in lingua inglese con sottotitoli relativo al tema (La vita
è bella, La casa degli spiriti).

U.D. 3 Costituzione Italiana e gli articoli che trattano i diritti umani.

U.D. 4 Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo in L2.

U.D. 5 Comparazione tra la Dichiarazione dei diritti umani e la Costituzione italiana, discus-
sione e commento in classe sulla situazione dei diritti umani nel mondo.

Competenze in uscita
Alla fine di questa prima parte l’allievo dovrà dimostrare di conoscere:
– cosa s’intende per diritti umani;
– quali sono i diritti umani;
– la Costituzione italiana e i diritti umani in essa contenuti;
– la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.

Dovrà saper fare:


– comprendere un testo in inglese orale relativamente ai contenuti sopra menzionati;
– produrre oralmente in inglese quanto appreso ed effettuare confronti;
– fluency, appropriacy, register a questo livello.

Verifiche
In itinere:
– il discente produce vignette che rappresentino un diritto negato.

Finale:
– il discente descrive in L2 le vignette che rappresentano il diritto negato (che ha scelto di
disegnare e illustrare) e dimostra di riconoscere quale diritto è stato negato;
– è inoltre in grado di risalire all’articolo della Costituzione e della Dichiarazione universa-
le dei diritti umani che prevedono il riconoscimento di tale diritto.

I criteri di verifica comprenderanno: correttezza dei contenuti disciplinari, nonché la fluency,


appropriacy e register a questo livello.
132

Fase 2: I diritti umani nel mondo

Pre-requisiti inglese:
Strutture grammaticali e funzioni linguistiche livello A1 del Quadro di Riferimento Europeo +
alcune strutture grammaticali e funzioni nuove acquisite nel corso dell’anno

Pre-requisiti diritto:
Conoscenza dei contenuti trattati nel modulo A

Percorso didattico
Contenuti:
– Realizzazione e/o negazione dei diritti umani nel mondo;
– L’ONU e le sue agenzie;
– Associazioni non governative che si battono nel mondo per la tutela dei diritti: Amnesty
International e Emergency.

Unità didattiche programmate 3


U.D. 1 Visione di brevi filmati (speeches) in lingua originale (Nelson Mandela sull’Apartheid
e Rudolph Giuliani sull’attentato alle Torri Gemelle) dai quali si evince la situazione dei dirit-
ti umani nel mondo.
Brainstorming (scoperta lessicale), Word list, controllo comprensione attraverso questionari.
Ascolto, comprensione, rielaborazione orale in L2.

U.D. 2 Ricerca di personaggi che hanno lottato per la difesa dei diritti nel mondo (Martin Lu-
ther King e Gandhi).
Ricerca studio ed approfondimento delle organizzazioni che nel mondo si battono per la di-
fesa dei diritti umani: ONU e le sue agenzie.

U.D. 3 Le Associazioni non governative


Un esempio di Ong: Emergency
Incontro-dibattito con rappresentanti locali di Emergency, in L1.
Visione di una parte del film in lingua originale sulla tematica in oggetto (Gandhi).
Discussione, commento e sintesi in L2.

Competenze in uscita
Alla fine di questa prima parte l’allievo dovrà dimostrare di conoscere:
– la negazione nel mondo dei diritti umani;
– l’ONU: obiettivi e finalità; struttura e organi. Le agenzie dell’ONU;
– le Associazioni che nel mondo si battono per le tutela dei diritti umani.

Dovrà sapere:
– comprendere un testo in inglese scritto e orale relativamente alle tematiche trattate;
– argomentare oralmente in inglese quanto appreso;
– fluency, accuracy e appropriacy: appropriatezza registrata a questo livello.
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Verifiche
In itinere:
– ogni discente deve commentare in classe in lingua ed esprimere le proprie opinioni sugli
argomenti proposti.

Finali:
– gli allievi relazionano in lingua sugli argomenti trattati. Seguendo un questionario loro
assegnato dovranno esprimersi in L2 e rispondere alle domande. I criteri di verifica com-
prenderanno: correttezza dei contenuti disciplinari, nonché la fluency, appropriacy regi-
strate a questo livello.

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