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testo educazione e formazione Problematizza un tema vasto come accessorio alla riflessione pedagogica
quello della definizione storica e concettuale non soltanto definire cosa
sia istituzione e formazione ma capire come concetti differenti di
tematiche dell'educazione abbiano poi conseguenze pratiche nell'atto
educativo
sofferenza di Weber per che cosa ha fatto il sapere per evitare questo (1917)
perché anche una cultura alta non abbia impedito una deriva terribile
testo di Weber si domanda quale sia una disposizione di chi decide di fare del
sapere la propria professione
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Lezione due cappa del 6 ottobre
A questo invito alla riflessione autori e autrici hanno pensate in maniera diversa in
base e a seconda della loro visione delle scienze dell'educazione e in particolare a
seconda della loro appartenenza ad un ambito delle scienze dell'educazione
Parlare di educazione ancora oggi vuol dire parlare di alcuni aspetti e non di
altri se non si esplicita che cosa si intende ogni volta che esplicita
educazione
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Istruzione
Il voto numerico pedagogicamente non mi dice nulla; non dice quello che hai fatto
divisione tra una valutazione di tipo sanzionatorio e una valutazione di tipo formativo
Lodi diceva che per una parte di insegnanti i voti sono armi
Storia recente; in italiano il termine formazione era legato ad una specifica; era declinata
formazione per un determinato campo; per formazione si intende un qualcosa legato ai riferimenti
specifici; negli ultimi trent'anni questa visione si è modificata; intorno il termine bildung
(intedesco la formazione dell'essere umano)
Il termine formare e formarsi viene utilizzato da autori e autrici che vogliono prendere
le distanze per ragioni diverse dal termine educarsi
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le demologia del termine educarsi ex-ducere, tirare fuori; è una lettura che diamo
noi dal 900 in poi mettiamo il bambino al centro e l'educazione in qualche modo al
servizio del bambino
in realtà ex-ducere voleva dire dai tempi del sapere aureo di Orazio; l'educazione era
tirare fuori se stessi da una situazione di novità e condurre se stessi fuori
un conto è calibrare l'azione educativa sul singolo un conto è pensare che ci sia
qualcosa da tirar fuori; perché se c'è qualcosa da tirar fuori allo stesso tempo
l'educazione e deresponsabilizzata dall'altro prescinde dal rendere effettiva l'idea di
emancipazione attraverso l'educazione
lo studio del singolo concetto in chiave concettuale e anche storica rida prospettive
differenti su come pensare all'istruzione, all'educazione e al rapporto educativo nel
senso ampio
se io penso che la mia azione di educatore un conto è dire la tua individualità c'è io
devo cercare di farla emergere perché il decisivo della tua esperienza è un altro
se io ti devo dar qualcosa e devo porti nelle condizioni in cui la tua individualità vedrà
se potrà emergere o no ma con questa esperienza
dal punto di vista culturale questi due visioni si sono scontrate in maniera molto forte
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queste due visioni dell'essere umano sono presenti in tutte le visioni di questo
volume
Trasmissione che passa dagli adulti ai giovani e ai ragazzi e che viene curata sia
dalle famiglie sia dal gruppo sociale più in generale. Così si produce inculturazione
la quale attiva assimilazione nei soggetti-giovani e conformazione degli stessi alle
forme di vita di una cultura e di una società. Tale processo va definito educazione,
che è un e-ducere e un edere al tempo stesso (trarre-fuori e nutrire) e che vede al
centro appunto il rapporto adulto/minore, il rapporto tra “chi sa” e “chi apprende" e
che, come già detto, fa comunità. Certo, passando dalle società più arcaiche a
quelle più complesse (con al centro la scoperta dell'agricoltura e la nascita di
tecniche di coltivazione, poi con la crescita di tecniche artigianali via via più ricche e
infine col passaggio dall'oralità alla scrittura che rinnova la comunicazione e i saperi
stessi, a cominciare da quelli relativi al sacro) le attività di
trasmissione/inculturazione/conformazione si fanno sempre più complicate. Centrale
resta, però, l'assimilazione di e la partecipazione a un ethos comune che reclama
ora anche competenze di lavoro, di alfabetizzazione e di contabilità, in forma sempre
più ampia e decisiva.
Ethos Etica; In realtà nella sua origine greca rimanda già al concetto di luogo; nel
termine greco era legato al luogo non era in senso assoluto idealizzato
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Così emerge anche un'istituzione ad hoc, che guarda a trasmettere i saperi e le
tecniche necessarie per comunicare i saperi. Nascono luoghi più specifici di
apprendimento: le scuole e declinate in vari modi, dalla bottega ai luoghi di
formazione militare, a quelli del sacro, fino a quelli di insegnamenti formali e non solo
(tra alfabeto e mathesis e rudimenti dei saperi letterari e scientifici). Lì si gestisce
l'insegnamento/apprendimento. Lì si organizza l'istruzione.
Tutto ciò si sviluppa in modo organico nella Grecia classica fino al V secolo a.C. In
quel secolo però si sviluppò anche una profonda crisi, connessa a più fattori: la crisi
del potere e del modello culturale aristocratico; la crescita di una nuova classe
sociale (mercanti, produttori, ceto medio professionale, avvocati, medici ecc.): il
démos o popolo che ora reclama di essere anch'egli governante. Nasce la
democrazia antica. Carica di limiti? Sì, ma radicalmente innovatrice. Si apre così
un'età nuova che viene vissuta proprio come crisi della società tradizionale e dei suoi
equilibri.
Sta pensando a Socrate che travia i giovani e li allontana dalle tradizioni dell'epoca;
prima erano i miti a dire come mi sarei dovuto comportare, Socrate dice sì questa
idea che tu stai pensando funziona? È l'arte dialettica; però siccome di solito i sofisti
vengono visti come mercanti della parola in realtà quelle le immagini che Platone ci
dà dei sofisti; in una cultura che era radicata nella mitologia la misura di tutte le cose
erano gli dei non l'uomo come dice Protagora; Protagora nega qualunque forma di
divinità né la comprensione del reale; quell'affermazione modifica non soltanto
l'essere uomo ma anche l'educazione perché con Socrate è possibile domandarsi il
perché delle cose, razionalmente con lo strumento del concetto, il concetto è
inventato da Socrate una parola che racchiude altre cose; queste due forme di
contestazione radicale della tradizione, l'interrogazione su è il far misura di se sono
cose che cambiano radicalmente la cultura dell'epoca; che influenzeranno tutta la
nostra storia; entrambe queste visioni si riflettono sull'educazione, sul processo di
inculturazione, di assimilazione di conformazione e su quello di istruzione.
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Ora è proprio l'èthos a entrare in crisi come forma di vita tradizionale e stabile.
Ora entrano in gioco invece vari tipi di èthos. Quello tradizionale viene sottoposto a
critica e si prospettano varie e diverse soluzioni innovative. Come quella dei sofisti
che insegnano, a pagamento, l'arte del persuadere, la retorica, in classi frequentate
dai nuovi ceti sociali, rinnovando così l'istruzione, che va oltre le due discipline del
ginnasio: la ginnastica e la poesia epica.
Ora è il linguaggio che viene sottoposto a uno studio che alleni ad avere ragione
nelle dispute. Le scuole dei sofisti hanno successo, ma trascurano di formare il
soggetto alla virtù e alla verità, alle quali si deve guardare nella pòlis per uscire
davvero dalla sua crisi e rinnovare la vita sociale con nuovi principi morali, non di
tradizione ma personalizzati.
Cambi non si preoccupa di dire che ci sono sofisti diversi; ci sono i mercanti della
parola ma ci sono sofisti molto raffinati per cui l'etica andava insieme all'arte del
discorso; è una tradizione scientifica che poi arriva ad Isocrate e Cicerone; a cui si
deve l'espressione “vir bonus dicendi peritus” chi è l'oratore che dobbiamo educare?
Una persona buona, retta e che sia anche esperta nel discorso
Entra in gioco la formazione; cambi tende a vedere formazione nel suo accento
legato alla bildung
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Una svolta che ha poi tenuto campo, in pedagogia (che nasce anch'essa in questo
tempo come sapere razionale e universale dell'educare/istruire/ formare), per più di
due millenni, fino quasi ad oggi e legando strettamente la pedagogia alla filosofia.
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formato); rapporto di pura sudditanza per chi ascolta; Platone spalle larghe; nel
momento in cui cambi introduce formazione lo fa attraverso due figure
esemplificative del maestro mentre successivamente parla di autoformazione;
perché le due cose sono in tensione
Qui nasce la Paideia, poi trascritta in Humanitas, poi in paideia Christi e Perfectio, in
Dignitas hominis e Bildung (Sola).
In questo sviluppo se io trascrivo una stessa radice si tende a idealizzare una forma
immaginaria di educazione; dignitas hominis l'orazione della dignità
dell'uomo di Pico della Mirandola; questa orazione che viene considerata fondativa
del concetto di dignità dell'uomo; secondo Pico della Mirandola l'unico aspetto di
dignità che l'uomo ha e che l'uomo può decidere di essere una bestia o avvicinarsi
agli dèi; un elemento che gli dava la facoltà di farsi degno
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La distinzione in senso gerarchico la troviamo espressa con chiarezza nella
Repubblica di Platone. In quella società "sana" si distinguono i tipi di cittadini relativi
alle diverse qualità umane: ci sono i produttori, poi i guerrieri, infine i governanti.
Uomini con qualità intellettuali e morali diverse, che si formano in scuole differenti.
Per i produttori ci sarà la bottega. Per i guerrieri la formazione musaica, con
ginnastica e poesia epica. Per i governanti la filosofia e la dialettica delle idee. Qui
educazione, istruzione e formazione sono ben distinte e motivate in tale distinzione
sulla tipologia antropologica che si dà per-natura.
Se insegno tutto a tutti per tutta la vita non c'è alcuna differenza tra educazione,
formazione e istruzione perché la finalità è la stessa per tutti e per tutte, le discipline
sono sempre le stesse per tutti quindi non c'è una riflessione sull'istruzione e sulla
formazione che sia separata dall'idea di educazione in senso ampio di tutto
l'individuo; si sovrappongono le tre cose
Sono solo due esempi, ma significativi di modalità diverse di rapporto tra i tre fattori;
anche opposte. E potremmo continuare portando altri esempi tra loro difformi: anche
solo nel Moderno con Cartesio e Rousseau, con Locke e Kant, Spinoza e Vico ecc.
Allora tra questi tre fattori c'è un gioco complesso e di squadra, ma sempre instabile
e riaperto a seconda di tempi e luoghi e Weltanchauungen.
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Visione del mondo di quel momento; Visione che può rendere conto di tutti gli aspetti
dell'esistenza; ogni cosa trova il suo posto; racchiude tutto quello che succede
E si pensi qui alle due pedagogie di Marx, quella giovanile dell'"uomo onnilaterale”
da un lato che regola il processo educativo sulla formazione stessa e quella tarda
della "scuola politecnica" che mette al centro le istanze produttive della società e
una visione dell’istruzione funzionale allo sviluppo proprio della società socialista.
Il primo Marx era più hegeliano è più immerso nell'idea di Bill propria di goete, di
Schiller, di Ficte dell'uomo che si forma come uomo completo che trova nella
formazione di sé non tanto una realizzazione della società ma è lui a formarsi
completamente e quindi a realizzare la società
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realtà Faust è stato buono Dio lo salva e gli salva l'anima
Quella visione è la visione tipica della Bildung e il soggetto Faust che si forma
completamente in tutte le sue parti arti, mestieri, scienza, poesia è un uomo
completo, un uomo rinascimentale come l'uomo vitruviano è un uomo
completamente sviluppato ma questo sviluppo non si ferma nell'uomo, non è un
esteta è un sapere che si riversa nella società
Questa era una visione molto forte all'epoca tant'è che aveva influenzato anche il
primo Marx che vedeva nello sviluppo dell'uomo completo non di un mestiere, una
ricaduta positiva per una società in quanto tale
il secondo Marx quello più fortemente marxista più legato al manifesto del partito
comunista eccetera eccetera vede invece in una formazione tecnica per la società
una possibile educazione più efficace per la società di quell'altra formazione e tra
l'altro è la visione che ebbe successo nella riduzione del 1917 dell'unione sovietica
L'educazione in Unione Sovietica non prevedeva e non ha previsto per tantissimo
tempo gli esami nei gradi dell'istruzione e secondo l'indirizzo che si prendeva, si
conseguiva un titolo che tutti i lavori erano pagati dalla stessa maniera era lo
stipendio sociale
Si può imputare a Marx un'utopia che non è realizzabile e quindi forse qualche cosa
della nella teoria non funziona
il primo parlava di altre cose che in altre epoche e questo che vi sta dicendo cambi
delle due visioni
Come c'è anche una dialettica alla Hegel fondata sulla sintesi tra i tre fattori, che
insieme li collega eli gerarchizza. E si pensi alla pedagogia di Gentile e alla sua
stessa visione della scuola scandite nettamente su presupposti hegeliani, perfino
nella stessa Didattica del suo Sommario.
La riforma gentile del 1923 è una riforma che ha poco a che vedere con l'ideologia
fascista; la fascistizzazione della scuola si deve a bottai; successivamente gentile
esce dal partito fascista nel 24 quindi la riforma che scrisse gentile quasi in
autonomia non viene mai applicata per una motivazione principale il fascismo è stato
innanzitutto populismo; l'immagine della scuola gentile aveva tantissime criticità ma
era una scuola incredibilmente selettiva con esami di Stato ad ogni passaggio tra il
biennio delle elementari al triennio delle elementari, dalla quinta classe elementare
alla prima classe delle scuole medie, per uscire dalla terza media, per entrare nel
liceo, il biennio di liceo e dopo il quinto anno e per entrare all'università l'ultimo
esame di Stato; sempre commissione esterne
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Questa è una così tanto selettiva che certamente è anche classista perché chi si può
permettere un'istruzione a casa andrà meglio di chi farà solo la scuola, quindi, è
chiaro che fosse anche classista e bottai tutto questo lo sfumo particolarmente e
allora lì sì effettivamente la scuola divenne più a immagine degli ideali propri del
fascismo
Anche se lì tra sintesi e gerarchia si riapre poi di fatto un dissidio in chiave sociale: la
vera formazione come Bildung viene riservata ai "migliori" di fatto già socialmente
determinati come tali (e qui è Platone che ritorna).
Vi cita Platone come cosa di idealità che si i nasca filosofi, guerrieri eccetera
C'è poi anche una dialettica alla Adorno, negativa e senza sintesi, che si concentra
sull'opposizione la quale apre alla critica e al rilancio di ciò-che-non-c'è-ma-
dovrebbe-esserci E tra critica e utopia tiene vivo un processo formativo inquieto e
radicale, da tenere fermo nel nostro tempo storico così complesso e aperto.
Vuol dire che questa dialettica negativa che non si non ha una sintesi sapete la
triade hegeliana tesi, antitesi e sintesi. Adorno critica radicalmente l'idea che vede
anche come illuminista di Hegel di poter trovare una sintesi sociale, culturale,
politica, economica a istanze contrapposte e dice no in realtà la tensione rimane
tale, c'è una tutta una dialettica negativa in cui quello che possiamo porre come
sintesi è ciò che non c'è ma a cui potremmo tendere.
Per Hegel il momento della storia è: c'è una tesi, matura l'antitesi ,queste due cose
piano piano si integrano e va verso una sintesi; dopo la seconda guerra mondiale ad
oggi i rappresentanti della scuola di Francoforte dicono no non funziona così la storia
purtroppo non superiamo davvero niente perché la sintesi supera la tesi e supera
antitesi le cose rimangono così e rimane un negativo che non riesce ad essere
superato
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Tutto ciò ben testimonia i rapporti complicati e dinamici che corrono tra quei tre
"fattori" e pertanto la necessità di ripensarli sempre in forma rinnovata e proprio nella
dialettica che li connette nei vari tempi storici e nei diversi modelli di società.
Quello che cambia ha fatto è semplicemente darmi attraverso delle piccole incursioni
in autori e momenti degli spaccati delle epoche in cui farvi vedere che le i rapporti tra
educazione, formazione e istruzione sono sempre diversi a seconda di quello che si
osserva
4. E oggi?
Nel nostro Mondo postmoderno, globalizzato, tecnicizzato, attraversato dal dominio
del Mercato e da quello del Disincanto come si dispongono quei tre fattori?
In modo critico e utopico possiamo dire seguendo Adorno. Infatti l'educazione è stata
demistificata. L'istruzione si è tecnologizzata implicando metamorfosi cognitive e
perfino "coscienziali". La formazione si è ricollocata al centro ma ridefinendosi in
forma più dinamico-drammatica e affidata a un soggetto che si sa insieme come più
fragile e come più necessario e che non si può non vivere in forma sempre
problematica (e sempre di più).
Che si vede in forma problematica; è una cornice in cui lui inserisce la sua proposta
cioè se io dico penso l'educazione in un mondo postmoderno non sto dicendo penso
l'educazione nel 2023 penso l'educazione assumendo come coordinate per riflettere
quelle delle teorie che mi dicono che la nostra epoca è postmoderna; quest’elenco di
cambi è per collocare il suo pensiero
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criterio della cura e alle sue diverse forme che stanno oggi al centro dell'agire
educativo, e teorico e pratico.
Il 68 propone una critica; quella temperie culturale che poi dura fino agli anni 70
soprattutto psicoanalismo francese per esempio Félix Guattari e Gilles Deleuze che
hanno scritto l'anti Edipo un'opera esplicitamente anti Freud; quella temperie
culturale ha fatto sì che le agenzie educative nelle quali Cambi colloca anche la
famiglia si siano ripensate in maniera differente
Come se l'istruzione così ipotizzata si concentra più sulla techne che sulla
trattazione del sapere
Per esempio la competenza ad una lettura avvertita di un testo del 900 di pedagogia,
un conto è che io auspicabilmente vi riesca a far capire perché quella competenza vi
è utile e perché quella competenza può essere anche a sua volta messa in
discussione
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soprattutto i tempi della scuola sono spesso tempi molto contratti e questo non vale
solo in Italia, vale nella maggior parte dei paesi occidentali e allo stesso tempo il
corpo docente degli insegnanti di ogni ordine e grado sono pressati da tante
richieste molto diverse tra loro e spesso è per loro difficile sottrarsi a spinte differenti;
cioè ad ogni insegnante chiediamo tantissime cose e spesso sull'istruzione si
riversano un'enormità di richieste sociali e nel nostro tempo spesso non si capisce
che cosa debbano fare esattamente gli stessi insegnanti anche in classe
3) Il ritorno della formazione come Bildung al centro della cultura pedagogica più
riflessiva e filosofica e un po' in tutto il mondo occidentale, dall'Europa agli Usa, alla
stessa Italia. In particolare è stato elemento determinante il rilancio della cura-di-sé
come paradigma oggi fondamentale nel la società degli individui e del soggetto-
multiplo e in costante formazione. Già con Foucault nel 1984 con il testo su La cura
di sé la formazione come cura personale tornò al centro del dibattito sia filosofico sia
pedagogico con un successo quasi planetario. Il che veniva a dimostrare una vera
emergenza formativa e un'idea di soggetto che si incardinava nel suo processo di
sviluppo sulla coltivazione di sé anche e proprio attraverso quegli "esercizi spirituali”
già cari agli antichi, ma ripresi e approfonditi con forza dai contemporanei.
Formazione da pensare e costruire proprio sul principio della problematicità e della
apertura-come-tensione-oltre, partendo dall'io come-sé.
cambi si schiera con forza e con su una visione e cioè fa sua la visione di ma del
termine formazione come bildung, come formazione completa dell'essere umano, il
ritorno quindi alla formazione come Bildung
La terza parte che di cui parlava cioè questo passaggio della formazione attraverso
la cura di sé questa è una questione assai delicata perché l'espressione cura di sé è
un'espressione che in parte si deve ad una dottrina molto antica, molto lontana da
noi che lo stoicismo; esso poneva la cura di sé, del singolo soggetto come finalità
propria della scuola filosofica dello stoicismo cioè l'individuo si rende autonomo
rispetto al ciò che gli succede attorno, la divisione era netta mi devo preoccupare
delle cose che dipendono da me, non mi devo preoccupare in nessuna maniera
delle cose che non dipendono da me
Questa idea molto forte dello stoicismo è un'idea sviluppata in un periodo storico
cioè dell'ellenismo in cui gli ideali greci diventavano ideali universali e non più di una
città-stato e quindi l'immagine del saggio storico non era più un'immagine radicata
ad Atene ma è un'immagine che poteva essere esportata perché non era non era più
detto che lo stoico avrebbe vissuto nelle condizioni sociali della perfetta città-stato di
Atene dove avrebbe avuto il suo ruolo, una sua finalità, un suo riconoscimento
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Lo stoicismo invece permette di immaginare un'ideale cosmopolita del saggio; il
saggio non è importante di quale nazione è, non è importante dove viva, si
riconosce in una comunità più ampia di saggi che non sono più limitati ad un luogo
geografico
Lo stoico può vivere in qualunque parte dell'impero, per i filosofi appartenenti all'età
classica era più difficile che potessero separarsi da Atene proprio come
impostazione filosofica. Ecco in quel contesto nello stoicismo l'idea di cura di sé
diventa un qualcosa che si muove nell'ottica della contrapposizione verso la società;
cioè la società può andare pure male, o pure bene ma io devo avere la mia integrità;
non vengo a patti con quello che mi come viene fuori, io creo il mio profilo, io mi
prendo cura di me
Ci sono degli esercizi spirituali tipici dello stoicismo che Michel Foucault nell'ultima
parte della sua vita riadatta facendo delle interpretazioni degli stoici al contesto
occidentale contemporaneo riscoprendo una sorta di cura di sé del soggetto; gli
ultimi libri di Foucaut sono stati dedicati a questo e cerca di riattualizzare questo
concetto trasformandolo profondamente perché non c'è tutta l'idea della cosmologia
propria dello stoicismo
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Gli ideali classici del dell'educazione dell'istruzione e dell'essere umano che è
profondamente diversa da noi quindi è chiaro che sono difficilmente utilizzabili
Cura sui su totalmente distaccata dal se si ritengono sbagliati i dettami sociali; quindi
è chiaro che la nostra società ha dei parametri diversi
è snaturata anche di la stessa idea di studi umanistici, l'idea di studi umanistici era
completamente diversa quando è nata, era pensata ad una società aristocratica in
diverse maniere a seconda delle epoche però una società aristocratica, in cui
comunque le persone che studiavano non dovevano lavorare perché tanto si vive di
rendita e se non si era nobili si andava sotto un mecenate che vi pagava per non
fare niente se non per studiare però era l'esercizio del pensiero, noi possiamo non
snaturare quell'idea di studi umanistici, cioè se vogliamo utilizzarla dobbiamo
saturarla si tratta di capire quanto una qualunque l'idea o qualunque ideale del
passato risponda sia alle esigenze di oggi e quanto possa dirci ancora qualcosa
quell'ideale
l'ideale degli studi umanistici di alcune discipline a prescindere dal lavoro che si farà
possono essere formative e un'ideale ancora valido; si ritiene che alcuni testi siano
formativi di una sensibilità di una coscienza della propria lingua nazionale, cioè che
siano in quanto tali significativi
Questa è ancora una visione libera da una finalità immediata negli studi si è saturata
perché non era così però è ancora ricontestualizzata cambiata più o meno
profondamente ma senza la visione precedente è difficile che ne avremmo avuto
quella di oggi
Così possiamo dire che oggi è proprio la sovreminenza della formazione a guidare il
gioco dei tre fattori, rendendosi categoria reggente nella pedagogia attuale, pur ben
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attraversata da forti opposizioni sia da parte dell'educazione/conformazione come
della stessa istruzione sempre più tecnologizzata, ma che nella loro parzialità
reclamano uno spazio sempre più deciso e sensibile per la formazione del soggetto-
come-persona.
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Baldacci non indica una conclusione bensì delle proposte per interpretare questi due
termini
Massimo Baldacci come Franco cambi appartiene alla a versante laico della
riflessione pedagogica italiana mentre Michele corsi rappresenta in maniera più che
autorevole a una degli esponenti del versante cattolico della riflessione teorica e
storica riguardante la pedagogia e scienze dell'educazione
La forza di cambi è una cosa spesso volutamente verbosa nel senso insiste molto,
mette molti aggettivi spesso e volentieri utilizzarli le costruzioni in cui c’è o/e per
indicare una compresenza di fattori senza dover scegliere se sono in alternativa o in
continuità quindi tradizionalmente sapere differenza tra et et e out out è una scelta
consapevole, non è un vezzo linguistico ed è più vicino non coincidente per qual è la
posizione di cambi ma è più vicina ad un pensiero tendenzialmente che è
postmoderno
Tant'è che uno dei suoi allievi Alessandro Mariani ordinario a Firenze ha iniziato la
sua carriera scrivendo sull'educazione postmoderno un pochino di verità
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L'apertura di Baldacci è già programmaticamente più aperta di quella di Cambi;
Cambi apre con un'analisi storica quindi ponendo l'avvicendamento di educazione,
formazione e istruzione in una chiave che in ogni periodo ha trovato una loro un
differente bilanciamento una di differente vicinanza; non così Baldacci
Sebbene sia perciò difficile tracciare criteri certi e precisi, è però possibile tentare di
individuare alcuni principi che possano quanto meno orientare il giudizio pedagogico
nel discriminare tra un campo e l'altro, tra quello formativo e quello educativo. In
questo contributo, ci proponiamo di svolgere un'indagine generale su questo
problema, benché nella forma di meri appunti di lavoro, senza pretese di
sistemazione rigorosa della materia. Iniziamo da un'osservazione preliminare,
desunta dall'esame degli usi linguistici di questi termini nel discorso pedagogico. In
tale discorso il termine "formazione" appare di uso più ampio e più neutro di quello di
educazione.
Più ampio poiché il termine “formazione" viene impiegato anche nella definizione di
altri termini pedagogici: si definisce l'istruzione come formazione scolastica,
l'acquisizione di competenze lavorative come formazione professionale, fino al punto
che la stessa educazione viene talvolta definitiva nei termini di formazione della
personalità (da Bertin¹, per esempio).
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somiglianza di famiglia cioè dice Wittgenstein tra due concetti o due idee spesso non
c'è una logica unione che non è data nella capacità del linguaggio di dire la realtà
Una delle massime importanti di Wittgenstein è: “ciò di cui non si può parlare si deve
tacere” e significa che ci sono dei limiti del linguaggio che il linguaggio stesso non
può superare se cerca di superarli non è che non si debba parlare perché non c'è
una maniera razionale di risolvere questi
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"formazione" anche per profili che da un punto di vista generale sarebbero
considerati come negativi, come nell'esempio del mafioso, mentre il termine
"educazione" sembra prestarsi meno a questo scopo.
Non solo valori all'interno dell'educazione sono valori esterni all'educazione; valori
che tutte le discipline, tutti i saperi concorrono a formare, cioè, è una visione più
complessa, più ampia a cui l'educazione contribuisce. Anche la visione
dell'educazione buona in questo caso non può non tener conto oggi come oggi delle
conoscenze
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Queste prime considerazioni non risolvono però il problema della polisemica dei
concetti di educazione e di formazione. Rispetto a ciò, passiamo allora a una
prospettiva che ha tentato di sfrondare radicalmente connotazioni di questi concetti,
eccessivamente numerose, per concentrarsi sulla loro denotazione (usiamo questi
termini come equivalenti alle nozioni fregeane di senso e riferimento).
Quindi denotazione e connotazione sono concetti differenti e in questo caso dice che
cosa intende dire per semplificare il discorso sfondare radicalmente quelle definizioni
che vogliono attribuire, aggettivare dei concetti per vedere che cosa sono invece
quelle definizioni in quanto tali; l'idea di definire una casa o definire i colori delle
persiane eccetera non che quelle cose non concorrano alla definizione della casa
ma non è essenziale
Quindi passaggi di Baldacci guardo questi concetti; vedo un pochino di utilizzo del
linguaggio anche comune seppur pedagogico come fare a afferrare questi concetti
senza che me li perdo in mille rivoli di definizioni? Penso a La Porta che ha collegato
il concetto di educazione e formazione a quello di apprendimento. L’apprendimento
che è molto più specifico; l'apprendimento che fate a scuola è un apprendimento
ordinato e l'apprendimento che fate a casa è quello del sistema di formazione
informale o non formale eccetera eccetera
La strada della proposta di La Porta era in fondo in fondo non c'era differenza tra
educazione e formazione perché entrambi i casi opero un apprendimento che fa
crescere il soggetto o può non farlo crescere eccetera. Quindi voleva riavvicinare
anche il processo educativo a quello dell'istruzione
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In secondo luogo, la riduzione ad apprendimento soddisfa l'esigenza di fissare il
riferimento o denotazione di questi concetti, ma non quella di individuare il loro
senso (ossia la seconda dimensione semantica di un concetto, nella prospettiva
fregeana) e in termini distintivi l'uno rispetto all'altro. Infine, lo stesso concetto
dell'apprendimento non si presenta univoco. Le differenti teorie sull'apprendimento
(comportamentiste, cognitiviste, strutturaliste, costruttiviste ecc.), evidenziano infatti
che questo campo di fenomeni è bisognoso a sua volta di articolazione concettuale.
La Porta proponeva una sola lettura del termine apprendimento declinandolo poi per
educazione e formazione mentre Baldacci dice l'apprendimento può essere di vario
tipo allora proviamo a problematizzare dice Baldacci il concetto d'apprendimento e
vediamo come funziona la prospettiva di La Porta
Bateson i tre tipi di apprendimento che propone sono 3 tipi di apprendimento che
vanno sempre più in profondità d'accordo dal primo apprendimento al terzo
Bateson fa un tipologico non tanto cronologico, cioè nel senso guarda gli
apprendimenti, perché il problema è che per molte fasi della vita noi non sappiamo
quello che viene esattamente; cioè per esempio un neonato quante volte cambia
forma mentis. Se taglia gli apprendimenti che si fanno nella vita ne riconosce alcuni
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che sono apprendimenti come tenderemo a definire normalmente cioè qualcosa che
imparava che apprendiamo davvero cioè che è un apprendimento superficiale
Es. Devo imparare una poesia, la prima cosa che cercherò di fare per
l'apprendimento a memoria e leggerla ripeterla alla fine di questo lavoro realizzerò
una modificazione durevole della mia struttura cognitiva; cioè ho imparato una
poesia, è il tipo di apprendimento uno che sarebbe il proto apprendimento
Nel secondo tipo di apprendimento dopo aver imparato 2,3,4,10 poesie scopo che
alcune cose funzionano altre no per esempio se ripeto soltanto quella poesia
tantissime volte senza magari studiare qualcosa dell'autore o cercare sul dizionario
alcune parole che mi fanno rimanere impressa la struttura della poesia impiego
molto più tempo per apprendere inizio ad avere una capacità di apprendere ad
apprendere, cioè di decidere quali strategie cognitive siano utili per apprendere e
studierò quindi in maniera diversa le poesie. In questo caso il passaggio tra proto e
deutero apprendimento è un passaggio secondo Bateson non totalmente cosciente,
cioè nel senso che io cambio la strategia di educazione, imparo ad imparare, ma lo
faccio senza essermi posto la questione di come imparare
Il terzo livello di apprendimento invece è quello in cui io mi pongo come obiettivo di
modificare attivamente le maniere in cui io imparo e quindi divento “maestro di me
stesso” cioè riesco a guardare dall'esterno per alcune discipline, per alcuni concetti,
per alcuni ambiti del sapere e riesco a vedere dove sbaglio e mi pongo il problema di
come cambiare, non una semplice una semplice abitudine ma una vera e propria
forma mentis che naturalmente è operazione complicata
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invece, esse riguardano ambiti professionali, la formazione si definisce
professionale, anche se sarebbe riduttivo pensare che essa si esaurisca in simili
apprendimenti. La formazione di secondo ordine si riferisce al deutero-
apprendimento; è inerente alla strutturazione di abiti mentali che si danno come
"qualità” personali: forme di mentalità, competenze ecc. Quando queste sono
relative ad ambiti professionali, siamo al secondo livello della formazione
professionale. Un professionista ben formato, infatti, non possiede soltanto
conoscenze e abilità, bensì competenze: è in grado di usare conoscenze e abilità
come strumenti per gli scopi del proprio campo d’attività. La formazione di terzo
ordine si riferisce all'apprendimento di terzo livello; è una formazione sui generis,
perché concerne il disapprendimento degli abiti mentali posseduti e la capacità di
formarsene di nuovi.
Non è che il terzo tipo si basa sul disimparare gli abiti mentali, si basa sul valutare gli
abiti mentali; cioè io devo essere in grado di capire se quegli abiti mentali sono
funzionali o no, non è che li devo cambiare a prescindere perché magari sono
efficaci; il terzo tipo di apprendimento consiste ma anche per Bateson nella
possibilità di cambiare coscienziosamente la forma mentis di un ambito ma questo
vuol dire che se la voglio cambiare è perché l’ho valutata e la ritengo efficace; quindi
diciamo il presupposto del terzo tipo di apprendimento e la valutazione perché il
cambiamento della forma mentis può derivare anche da condizioni esterne ma
acquisireste una seconda forma mentis non perché se ne è passati al terzo tipo di
apprendimento ma soltanto perché le condizioni esterne hanno portato ad acquisire
un'altra; la consapevolezza e la capacità di valutare in questo; è un autovalutazione
Si tratta di un processo più raro e difficoltoso rispetto a quelli dei primi due livelli, ma
che rende conto dei mutamenti di mentalità che si possono verificare nel corso della
vita. Questi tre livelli, sebbene logicamente distinti, sono connessi nelle pratiche
formative. A tali note occorre aggiungere che mentre l'apprendimento 1 è diretto e
manifesto, l'apprendimento 2 è di tipo collaterale (avviene parallelamente
all'apprendimento 1 e in connessione con esso) e, perciò, è poco evidente. Inoltre,
l'apprendimento 1 produce risultati a breve-medio termine, mentre l'apprendimento 2
dà i suoi frutti solo a medio-lungo termine. Queste caratteristiche sono rispecchiate
nei livelli della formazione. La formazione di primo ordine concerne risultati diretti e a
breve termine circa l'acquisizione di conoscenze e abilità. La formazione di secondo
ordine è, invece, inerente agli effetti formativi di lungo termine, in termini di
mentalità e competenze. La formazione di terzo ordine, più rara, consiste nella
trasformazione degli abiti mentali in seguito a mutamenti esistenziali significativi (un
cambiamento della professione, per esempio, può innescare questo tipo di processo
formativo).
27
Baldacci la pone dal punto di vista della condizione esterna che mi obbliga o mi
consiglierebbe di cambiare i miei abiti mentali e quindi dovrei essere in grado di farlo
e non come efficacia degli stili di apprendimento che invece è maggiormente il
discorso di Bateson
Sulla base di questa architettura logica, si può tentare una specificazione del
concetto di educazione rispetto a quello di formazione. Entro tale architettura, questa
operazione non prende però tanto la forma della specificazione di un ambito
completamente distinto: se il campo d'uso del concetto di formazione ha
un'ampiezza tale da coprire l'intera articolazione dei livelli d'apprendimento, allora il
concetto di educazione si può chiarire nei termini di una sottospecificazione del
concetto di formazione, tale da farlo corrispondere a uno di tali livelli.
Anche la creazione di una forma mentis non è detto che sia una cosa positiva se lei
ha un'esperienza di apprendimento negativa o in un contesto mortificante la sua
forma mentis verso per esempio la disciplina può essere del tutto negativa allora che
cos'è quella educazione cioè dopo che ho diviso in formazione in tre momenti
appiccico alla seconda la creazione della forma mentis di rifiuto della matematica,
della pedagogia, della storia allora è educazione? Non sarebbe un gran successo
come operazione schematica di collocazione quindi dice sì appartiene alla seconda
tipologia al deutero-apprendimento alla formazione di forma mentis al plurale ma
soltanto quando questo cambiamento di forma mentis, di approcci eccetera più
generale è inscrivibile in un'idea più generale di miglioramento dell'essere umano
28
Riassumiamo le posizioni provvisoriamente raggiunte. Il concetto di formazione si
presenta più ampio e neutro di quello di educazione, in termini empirici si presenta
riducibile al concetto d'apprendimento, coprendo l'intero ventaglio dei suoi livelli
logici. A questo proposito, il concetto di educazione si presenta invece come una
sottocategoria della formazione di secondo ordine (corrispondente al deutero-
apprendimento), caratterizzata dalla differenza specifica di darsi come un
miglioramento della persona in quanto essere umano. In questo modo, però, il
concetto di educazione tende a perdere la neutralità della mera formazione,
rinviando in qualche modo a un modello d'uomo o a una concezione dell'essere
umano (con tutti i problemi che questo comporta). In altre parole, mentre il concetto
di formazione, grazie anche alla riduzione empirica ad apprendimento, sembra
trattabile nell'ambito delle asserzioni meramente fattuali, il concetto di educazione --
introducendo il requisito del miglioramento dell'uomo in quanto essere umano - pare
implicare inevitabilmente giudizi di valore (legati all'idea di cosa costituisca
concretamente tale miglioramento) e posizioni normative, rispetto alla mera
formazione.
Quello vi che sta dicendo Baldacci pone una delle questioni classiche dei problemi
della pedagogia che è l'autonomia o no della pedagogia come scienza come ambito
del sapere
29
Riteniamo che sia preferibile serbare alla pedagogia il carattere di disciplina unitaria,
capace d'integrare aspetti scientifici e filosofici, anche a costo della presenza di
componenti ideologiche (nel senso chiarito).
Posizione di John Dewey nelle fonti di una scienza dell'educazione; Dewey si pone
esattamente lo stesso problema, le fonti della scienza educazione viene un po’ prima
di esperienza educazione e si domanda sì bene la pedagogia, eravamo alla fine
dell'Ottocento, diventa scienza come la sociologia diventa scienza, la psicologia
diventa scienza ma, siamo ancora in ambito positivistico, qual è l'autonomia di
questa scienza? Perché, se devo andare a mendicare i concetti da altre discipline
ma allora non sono autonomo, la risposta di Dewey è un'analogia con l'ingegneria.
Sceglie ingegneria esattamente perché come per la scelta del gangsterismo era una
scelta rivolta ai suoi lettori dell'epoca perché i lettori dell'epoca statunitensi vedevano
nell'ingegneria uno dei massimi punti di realizzazione anche dell'operosità
statunitense in particolare in due opere nei due grandi ponti degli Stati Uniti
perché l'ingegneria era evidente, riesco a creare le costruzioni che non ci sono mai
state, l'ingegnere mi permette tutto questo e nessuno metterebbe in dubbio che le
l'ingegneria sia una scienza ma l’ingegneria utilizza la matematica,l’aritmetica, la
fisica, la statica però non è che perché utilizza la matematica poi non si definisce
come scienza e allora perché la pedagogia non si dovrebbe definire come scienza?
La pedagogia può esattamente come l'ingegneria utilizzare dei concetti di altre
discipline che Dewey definisce fonti di una scienza dell'educazione non per
trasformarsi o per avere un carattere ancillare rispetto a quelle discipline, ma trova la
sua autonomia come per l'ingegneria nel porsi delle domande che non sono né di
matematica, né di fisica, né di filosofia, né di psicologia, né di sociologia ma si pone
dei quesiti che cerca di affrontare, delle difficoltà, dei problemi che sono di carattere
educativo
Io mi domando come portare e con l'educazione l'essere umano a quel modello; il
mio problema è educativo le risorse le trovo dove mi serve e per Dewey le fonti
privilegiate di una scienza dell'educazione sono la filosofia, la psicologia e la
sociologia esattamente come tutta la matematica, la statica, la fisica sono delle fonti
privilegiate per l'ingegneria ma l'ingegnere non cerca di risolvere in maniera originale
il teorema matematico perché non è un matematico cerca di costruire il ponte e per
questo perde la sua autonomia il problema è diverso, il problema a cui deve
rispondere
Nello stesso modo di cui ipotizza propone che venga pensata all'autonomia
dell'educazione non quindi attraverso materiali che utilizza nelle sue costruzioni e
per le sue costruzioni ma nella finalità che si pone come disciplina se non c'è un
proprio pedagogico, un proprio educativo allora certo che non si sta facendo il
pedagogista o la pedagogista ma sta facendo il filosofo lo storico
Rispetto a queste ultime, piuttosto che tentare una loro problematica espulsione, ci
pare che la condizione necessaria e sufficiente per salvaguardare il tenore
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epistemologico della pedagogia, consista nella loro esplicitazione trasparente in
qualità di assunti della particolare impostazione pedagogica prescelta.
È discorso minuto allora la pedagogia diventa ideologia, perché devo assumere delle
connotazioni iniziali? La risposta è no non è che si diventa ideologia basta esplicitare
quali sono le idee che si hanno alla base
il problema di fondo che è molto intuitivo è: allora che vuol dire che ci sono tante
idee di educazione o meglio ci sono tante pedagogie quante teste ci sono a
pensare? perché poi ognuno di noi anche fa’ in maniera più o meno cosciente, ha
idee di miglioramento di riferimento tra tanti punti che danno l'idea di essere umano
allora Baldacci dice no c'è una visione trascendentale, cioè comune a tutti in quanto
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l'io trascendentale e che mi permette di guardare alla questione educativa in maniera
unitaria e poi di vedere le declinazioni dell'educazione come casi particolari di linea
generale
In questo caso Baldacci parlando di formazione vi ridice quello che vi ha detto già
Cambi però lo cambia un pochino di segno
Prima era la sua visione che dice la differenza tra educazione e formazione la posso
recuperare nel chiamare tutto formazione differenziando e poi infilando educazione
in una sottospecie di caso specifico; poi fa un passo indietro perché stava definendo
educazione e non formazione cioè anche se ha dedicato tutta la parte formazione
adesso riprende il discorso passando a formazione ma non vedendola nella sua
visione ma in quella che normalmente viene utilizzata nelle comunità pedagogiche
Tale modello trova le proprie radici storiche nei grandi paradigmi umanisti della
formazione, che mirano alla coltivazione dell'umanità dell'uomo, come la bildung del
neoumanesimo tedesco", sistematicamente evocata da coloro i quali attribuiscono
questo significato alla formazione.
32
La formazione si realizza attraverso un itinerario di appropriazione di questo
universo di significati e di valori, nel corso del quale il soggetto instaura un dialogo
personale con le Grandi opere della cultura. Il secondo significato è quello di
formazione professionale. In questo modello si mira a equipaggiare gli individui di un
repertorio di conoscen-ze, abilità, competenze e atteggiamenti necessari per la
partecipazione al mondo del lavoro. Tale modello ha recentemente unificato il
concetto di formazione del "professionista", il quale era in precedenza suddiviso tra
una formazione professionale più elevata, riservata ai quadri dirigenziali, e un
addestramento professionale indirizzato a formare abilità meramente esecutive. Le
trasformazioni dei modi di produzione, col passaggio a modelli post-fordisti, e lo
sviluppo del settore terziario hanno resa obsoleta l'idea di un mero addestramento
professionale. La concezione di una professionalità basata sulle "competenze", e la
necessità di atteggiamenti mentali flessibili e aperti al cambiamento, in un'epoca di
continui e rapidi mutamenti, hanno portato all'unificazione della preparazione del
lavoratore-professionista sotto il concetto di "formazione professionale". I due usi
principali del termine "formazione" nel discorso pedagogico attuale, sono dunque
legati ai distinti concetti della formazione culturale e di quella professionale. Tali
concetti fanno valere prospettive parziali: il primo è legato alla formazione dell'uomo
in quanto essere umano (e come tale tende a confluire in un'accezione particolare
del concetto d'educazione) il secondo alla formazione dell'uomo in quanto
lavoratore.
Si tratta, perciò, di due modelli da porre in relazione dialettica, non tanto allo scopo
di pervenire a una loro improbabile sintesi, quanto per assicurare una tensione
antidogmatica al discorso sulla formazione. Concludendo, la pedagogia ha bisogno
di entrambi i termini (educazione e formazione) per articolare il proprio discorso.
Pertanto deve evitare sia di considerarli come meri sinonimi, sia di irrigidirne il senso
in definizioni dogmatiche. Si tratta invece di analizzarne gli usi allo scopo di per-
venire a soluzioni parziali, capaci di serbare un'apertura critica al discorso
pedagogico.
Se si sceglie soltanto una delle due visioni e la sintesi è impossibile a meno di non
essere post-marxisti ma almeno che ritiene attenzione non si voglia avere
l'egemonia totale
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Cassese bibliografia ragionata
Dopo tre anni pieni di guerra mondiale non può parlare del ruolo della scienza nella
società e di chi fa scienza nella società senza pensare a quello che gli avviene
intorno
la scienza come professione inevitabilmente il titolo tradisce lo spessore del titolo
tedesco perché la parola tedesca per professione da noi è abbastanza tecnica; nel
senso di Weber come dovere, la parola Beruf in tedesco indica sia il dovere
individuale cioè se io scelgo di fare qualcosa quello che è il mio dovere; indica anche
il compito,cioè la responsabilità in questo senso anche nel nostro senso la
professione non poteva essere il discorso di Weber come il termine professione è
professione nel senso di professionalizzante ma è professione anche nel senso di
professione di fede
la riflessione di weber in un periodo che è stato uno dei periodi più caotici della storia
europea indicava nei due termini forti la scienza e la politica, i due casi capisaldi di
una società come immaginarsi nel ruolo dell'uomo e della donna di scienza e
dell'uomo della donna politica assumendo su di sé anche la tragicità degli eventi
In quel momento si era visto in modo più lampante come anche l'intellettuale più
raffinato potesse poi corrompersi e fuoriuscire dal suo ruolo dell'uomo di scienza per
mettersi il cappello di agitatori di folle, di opportunista; questo nell'università tedesca
dell'epoca voleva dire vado in classe devo parlare della Rivoluzione francese e dico
ai miei allievi in quel momento storico arruolatevi e non è che è lo faccio non come
politico lo faccio come professore
ci sono personaggi anche del mondo accademico che utilizzano la loro statura
intellettuale per difendere o pugnare posizioni che nulla hanno a che vedere con i
ruoli istituzionali, cioè non si sono basati su loro conoscenza delle situazioni che
commentano
Weber tutto questo l'aveva visto, lo riesce a descrivere in una maniera che è insieme
delicata e poi perché non si straccia le vesti, cioè nel senso non dice ecco è la rovina
di tutto; vi fa vedere che è ancora possibile far cose, che ancora possibile ragionare
e si tratta del dell'impegno di tutti e di ciascuno; perché ci sono anche altri autori
come per esempio Benda che in un testo famosissimo dell’ inizio del 900 il
34
tradimento dei chierici; i chierici erano quelli che pagavano per le università e il
tradimento era il fatto che si trinceravano dietro le ideologie comunismo e poi i
totalitarismi del fascismo e del nazismo e quello è il tradimento dell’intellettuale; c'è
Husserl con la questione della scienza di nuova cioè ci sono tanti in quel momento
che riflettono sulla crisi del sapere e quindi anche di chi del sapere fa la propria
professione
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Lezione 5 del 18 ottobre
Il titolo è un titolo che racchiude due opere di Weber cioè il lavoro intellettuale come
professione, le due opere contenute sono la scienza come professione e la politica
come professione
Entrambe queste due opere sono strutturate, sono pensate inizialmente come due
opere lette agli studenti in due occasioni diverse 1917 e 1919 in questo caso le date
sono fondamentali
Weber è uno dei padri della sociologia quindi mai farebbe delle riflessioni sganciate
o atemporali; nel caso si scelga invece un argomento come la scienza come
professione o la politica come professione cioè quali sono le condizioni; per entrambi
i testi; alle quali è possibile fare scienza o fare politica come professioni
Il 1917 è un anno in cui l'Europa e in particolare la Germania è ancora all'interno
della Prima guerra mondiale e il 1919 invece vede la fine della prima guerra
mondiale quindi il clima è totalmente diverso la Germania ha perso
Ci sono già però sottotraccia i germi del nazifascismo in Germania e anche in
Austria
Si vede come quel tipo di società non tiene più e quindi sia degli atti violenti e
consulti non riescono ad essere razionalizzati all'interno della comunità; si vuol
mostrare non le grandi teorie o le grandi riflessioni ma come era il piccolo che non
teneva più non il grande, è come fosse possibile che quei germi non abbiano trovato
anticorpi
vedete che non regge più quel modello sociale quindi se non regge più il modello
sociale e politico, di conseguenza, quello che avviene dopo non si riesce veramente
più a controllare
I testi di Weber nascono dallo stesso interrogativo seppure per un momento
precedente cioè com'è possibile che in Europa il fazzolettino di terra considerato il
più corto nella fine dell'Ottocento che aveva vissuto i fasti di essere un vero e proprio
territorio di riferimento per gli altri paesi, per la cultura e per una prima riflessione
ancora acerba per molti aspetti ma che non era avvenuta da altre parti per esempio
sull'universalità dei diritti dell'uomo e del cittadino, con la rivoluzione francese con la
Repubblica cisalpina
Nell 800 la Repubblica cisalpina, nord-est italiano, con le campagne napoleoniche fu
la prima Repubblica ad avere nell'ordinamento il ruolo rieducativo della pena nel
carcere in cui no la pena non detentiva perché dovevamo punire qualcuno ma
perché dobbiamo rieducarlo per riportarlo in società
L'Europa aveva fatto anche se certamente non soddisfacenti in maniera definitiva
però dei passi avanti che altre culture coeve non avevano fatto
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La discussione sulla pena di morte e delle pene di Cesare Beccaria cioè la società si
era interrogata su se stessa in maniera forte
le nazioni avevano iniziato ad avere e quindi i popoli una loro autonomia; l'Italia si
forma la Germania si fonda nel 1861 per entrambe e le monarchie assolute non solo
più assolute hanno sempre un Parlamento e la storia sembrava di andare in una
determinata direzione e che la storia fosse intenzionata ad andare in quella direzione
si percepiva anche come cultura diffusa
Per esempio la diffusione nelle capitali europee dei quotidiani stranieri per l'Europa
del 700 in cui tutti si facevano la guerra, in cui il secolo prima c'era stata la guerra dei
trent'anni e tutti avevano combattuto contro tutti; nel 700 tutti si sono fatti guerre però
separatamente con la rivoluzione francese ci sono state le campagne napoleoniche
invece l'ottocento è segnato da una trasformazione radicale fortissima
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Lo shock di vedere che quella formula in cui è l’humus del positivismo e anche delle
contestazioni radicali nel marxismo per esempio l'idea di internazionalità, di
internazionalismo del marxismo certamente superava lo stato ma superava lo stato
nazionale col potere, non come formula perché tutti avrebbero dovuto avere gli
stessi diritti quindi non si poteva eleggere qualcuno che avesse più diritto, non c'era
la democrazia rappresentativa che invece era uno dei fondamenti degli Stati
nazionali ma non è una contestazione di questo e tra l'altro il marxismo confermava
l'idea di progresso; cioè il marxismo mi diceva certo adesso il proprietario è
schiacciato ma ci sarà la dittatura del proletariato e poi l'internazionale comunista
cioè comunque la direzione era sempre in positivo, non era una società immobile
che erano le grandi visioni della società e delle politiche precedenti
La prima guerra mondiale scompagina; ripristina l'odio per gli altri e in questa
tragedia immane che fu la prima guerra mondiale sul banco degli accusati non vi fu
soltanto la politica o l’arte militare bensì anche la cultura perché voi pensatori,
filosofi, sociologi, politologi avete detto che la fine della storia, il progresso eccetera
poi torniamo indietro le trincee della prima guerra mondiale quanto di più disumano
ci sia mai stato, perché ovviamente la battaglia era spesso corpo a corpo
Per paesi che fino ad allora si erano pensati amici che era ancora più scioccante, tra
l’altro, le dimensioni dell’Europa tutto più drammatico perché le differenze sono in
pochissimi chilometri
La cultura in se rispose autodefinendosi in crisi e sono tanti gli autori che lo fecero
alcuni seppero anche vedere tutto questo cioè seppero anticipare tutto questo tra
questi ci fu Nietzsche, in particolare il Nietzsche non tanto sull'ambiente delle nostre
scuole anche perché quello è un testo giovanile bensì il Nietzsche delle opere
mature cioè umano troppo umano soprattutto il primo volume
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una scelta sbagliata se scelgo io il fallimento è mio e poi la seconda parte
dell'aspetto tragico e perché non è detto che tutti si facciano la stessa scelta e se ci
si frammenta il conflitto è scontato che è l'altra faccia del relativismo culturale; cioè
da un lato relativismo culturale mi permette anche di caldeggiare una libertà per tutti
e ciascuno di essere ciò che si è da un lato chiunque direbbe sì certo verso tutti
siamo liberi ma la tua libertà finisce dove comincia quella dell'altro sì ma tu la pensi
così, ma mi ha appena detto che ognuno sceglie per sé nella mia visione la mia
libertà non finisce dove finisce quella degli altri e mi dici che sbaglio ma tu hai detto
che ognuno deve scegliere; no perché questo non si sceglie non convince in base a
cosa in base alle leggi; allora la minaccia è se non lo fai vai in galera ma questa non
è libertà
Ci sono tante visioni che addolciscono le varie posizioni però che il relativismo non
sia anche un rischio non, cioè, nessuna persona seria ve lo direbbe il che non vuol
dire che non si debba correre perché magari altre visioni hanno rischi maggiori
si chiama l’età della comparazione proprio perché ognuno di noi può comparare
soppesare le varie possibilità in campo senza avere già l’unità di misura della
tradizione come metro di giudizio
Nel caso del primo conflitto mondiale le ragioni storiche si intrecciano in maniera
inestricabile con le vicende culturali e politiche e in questo senso, tutto ciò si collega
al singolo e al fare scienza e a fare politica perché la Germania dell’epoca, cioè
prima la Russia e poi la Germania avevano una sola istituzione per definire la
scienza cioè in cui si facesse scienza; l'università
L'università non in generale ma una specifica università, cioè quell'università che la
Russia prima e poi la Germania si diede come istituzione definitoria; l’istituzione che
definisse in senso forte l'idea di scienza
Quindi cercare di scienza e questa università era l'università che oggi chiamiamo
università Humboldtiana cioè un'università nata sul modello descritto dal testo
dedicato alle istituzioni di cultura tedesche scritto da William von Humboldt
l'università ha delle funzioni come le tutte le istituzioni; la prima missione
dell'università in Italia è la ricerca, la seconda missione dell'università è la didattica,
la terza missione dell'università sono tutte quelle attività che l'università fa con il
territorio, cioè, che non sono didattica universitaria ma non sono neanche ricerca
Le altre due missioni quello della ricerca è quella della didattica non sono affatto
scontate; cioè non è detto che un'istituzione debba fare ricerca e didattica insieme
questo modello è il modello Humboldtiano; per la prima volta all'inizio del
dell'Ottocento, Humboldt rispondendo alla sollecitazione del suo stato, che era lo
stato prussiano scrisse un'opera che era dedicata ad immaginare come le università
prussiane dovessero organizzarsi al fine di servire meglio lo stato non il sapere
perché lo stato prussiano riforma radicalmente le sue istituzioni in particolare dopo le
sconfitte con la Francia
Il testo è assieme molto ideale ma allo stesso tempo incredibilmente definitorio; Von
Humboldt nel testo scrive sulla scorta di autori precedenti in particolare Fichte, il
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Fichte dei discorsi alla nazione tedesca; Von Humboldt dice l'università è libera e
nell'università i docenti devono fare allo stesso tempo ricerca e su quella ricerca fare
lezione ai loro allievi questo rappresenterà un progresso per lo stato tutto perché
porta avanti ovviamente l'avanzamento del sapere ed il suo insegnamento
Questa visione pretende dagli studenti che loro colmino tutto quello che c'è tra la mia
piccola scoperta e lo stato dell'arte
È un modello elitario quando c'erano poche persone all'università che comunque sia
che non funzionava benissimo neanche allora però era suggestivo ma accanto a
questa suggestione c'era però un altro aspetto Von Humboldt nonostante sembri che
dia la libertà assoluta ai docenti di fare quello che volevano in realtà no per due
ragioni: la prima è concettuale, la seconda è politica.
la prima ragione è che Von Humboldt diceva si è liberi ma all'interno delle cattedre
definite dal punto di vista statale per i saperi che occorrono allo stato
seconda cosa Von Humboldt che è un intellettuale e non in senso stretto,
universitario soprattutto nella prima parte della sua vita non si fidava affatto degli
universitari cioè la selezione dei docenti non era in capo all'università; la faceva lo
stato cioè la libertà era assoluta ma all'interno del recinto definito dallo stato
Quell’università, quella Humboldtiana fu però il modello nutrito da Fichte, da Hegel
per molti aspetti; divenne il modello per tante altre nazioni per l’università francese
attraverso Victor Cousin che fu un filosofo abbastanza vicino alla visione hegeliana
della filosofia ma ebbe anche ruoli politici e penso bene di fare una cosa tipica poi di
quella che diventerà l’educazione comparata cioè di andare in Prussia di passarci
circa due anni e di seguire l'università e prendere appunti e fare un report che poi è
stato pubblicato libro; quindi con la cultura dell'idealismo tedesco stanno facendo
delle cose che se mi sembrano egregie e riformiamo quindi il nostro sistema
universitario sulla base di questo modello Humboltiano
naturalmente idealismo e dove si devono essere ispirati Croce e poi gentile per le
riforme universitarie considerando come il neoidealismo italiano quel modello; ed è
un modello che da qui arriva negli Stati Uniti non soltanto l'Italia ma anche dalla
Germania e al Giappone diventando quasi il modello dell'università
C’è un altro modello: il modello del cardinale Newman che negli scritti sull'università
propone un'altra visione di università; per Newman l'università non ha tanto la
funzione verso la scienza, ma la funzione verso la società; la visione dello Stato in
Gran Bretagna è molto diversa da quella tedesca c'è la corona, l'individualismo
nasce l'Inghilterra cioè c'è una visione in cui il singolo è più importante del collettivo
d'accordo mentre la Germania non ha mai avuto questa visione
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l'università di Newman è un'università che si pone come primo obiettivo la didattica,
non la ricerca e pretenderebbe di formare il cittadino, non lo studioso; quindi i saperi
sono l'architrave dell'università ma servono per imparare la cittadinanza cioè per
rendere gli studenti degli uomini del mondo e allora l'avanzamento del sapere non
sarà fatto nelle università ma sarà fatto dalle Accademie; cioè la ricerca non è fatta
nell'università dall'università bensì dagli universitari anche ma nella loro veste di
accademici nelle accademie; cioè in quei centri che sono dedicati unicamente al
l'avanzamento della conoscenza e in cui si entra per ragioni differenti da quelle per
cui si viene selezionati nelle università
Le ragioni per cui sì e un buon docente non sono le ragioni per cui si ha un buon
ricercatore e un buono studio sono proprio cose diverse; cioè saper insegnare
dipende da tantissimi aspetti dando per scontata la competenza molto forte
le università fanno didattica, formano i cittadini e quindi i docenti devono essere
ottimi educatori; invece le accademie selezioneranno magari anche soltanto docenti
universitari, ma soltanto due docenti universitari che sapranno anche fare ricerca in
maniera egregia e saranno anche magari soltanto fare ricerche non saper insegnare
quindi non saranno docenti universitari ma saranno accademici delle accademie
essendo una delle università tanto da noi questa cosa non è passata che abbiamo
attribuito il nome di accademici e ai docenti universitari proprio indicando l'unione
inscindibile tra accademia e università
Accademia dove si fa solo sapere e l'università dove si fa didattica e ricerca
Nel quadro dell'università Humboldtiana in cui si fa didattica e ricerca, il problema è
che quelle istituzioni che si erano diffuse come forma, perché come istituzioni in
quanto tali già esistevano in tutta Europa, che rappresentavano la perfetta unione tra
lo studio ed insegnamento; in quelle istituzioni che sono nate le generazioni che poi
avrebbero dilaniato l'Europa; nel senso che ci siamo dotati delle istituzioni dal punto
di vista del sapere più avanzate, più innovative e la classe dirigente che nasce da
quelle istituzioni
Non era tanto vero per l'Italia per tutte le ragioni storiche; la classe dirigente dell'Italia
per tanti decenni non fu mai formata dall'università perché c'erano i ceti sia nobili sia
i borghesi in altre nazioni non fu così ed effettivamente il ceto dirigente formato da
questa università Humboldtiane fece la Prima guerra mondiale
La questione è cosa hanno fatto le università per evitare che questo avvenisse se
sono i templi della cultura se sono ciò che rappresenta il punto più alto del sapere
dell'essere umano del suo avanzamento e della sua diffusione come fare la
professione, come caricare su di sé il Beruf, il dovere della scienza in un contesto
come quello del 1917?
Questa è la domanda da cui parte Weber; questa conferenza di Weber cerca di
rispondere a quali sono le condizioni affinché un singolo individuo possa scegliere di
fare della scienza la propria professione in questo momento
41
La scienza come professione
Dovrò parlarvi, secondo il vostro desiderio, della «scienza come professione».
Ebbene, è una specie di pedanteria di noi economisti, alla quale voglio attenermi,
quella di prendere sempre le mosse dalle condizioni esterne e quindi, in questo
caso, dalla domanda: come si configura la scienza come professione nel senso
materiale della parola? Ciò significa oggi, in pratica, essenzialmente questo: come si
configura la situazione di un laureato che abbia deciso di dedicarsi
professionalmente alla scienza nell’ambito della vita accademica?
Quindi prima si parlerà delle condizioni esterne del fare scienza, quindi l’oggetto del
confronto e poi si parlerà invece delle condizioni interne del fare scienza nella prima
parte Weber insieme con ironia, cultura e anche sfacciataggine vi parla delle
condizioni materiali del fare scienza, della vita accademica, di come entrare nella
vita accademica dopodiché però le cose si complicano perché invece qual è la
disposizione d'animo interna, quali sono le condizioni interne del soggetto che
dedica la sua vita alla scienza
Per comprendere in che cosa consista su questo punto la peculiarità della situazione
tedesca è opportuno procedere comparativamente e richiamare alla nostra mente
come stiano le cose all’estero, nel paese che sotto questo aspetto presenta la più
netta antitesi nei nostri confronti, e cioè negli Stati Uniti.
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esame, per lo piú semplicemente formale, davanti alla facoltà, e tiene quindi lezione
senza ricevere stipendio alcuno – compensato soltanto mediante le tasse
d’iscrizione al suo corso – su un argomento che egli stesso stabilisce entro i limiti
della sua venia legendi.
del suo desiderio, della passione per la propensione a una singola disciplina
Questa visione, cioè questo primo passo quello della libera docenza era di
derivazione medievale, cioè nel medioevo quando si conseguiva il dottorato si
acquisiva la licenzia ubique docendi e cioè la possibilità di insegnare ovunque
In Germania l'avevano mantenuta più o meno nella stessa maniera la differenza è
che il dottorato era stato sostituito da questo esame di abilitazione dell’insegnamento
non perché lo stato non esiste più ma è una cosa un po’ diversa mentre questo
esame era effettivamente un esame a cui si arrivava ci si presentava in maniera del
tutto privata e libera
però era totalmente casuale
In America la carriera comincia normalmente in modo del tutto diverso, cioè con
l’assunzione in qualità di «assistente», in maniera simile a ciò che avviene di solito
da noi nei grandi istituti delle facoltà di Scienze naturali e di Medicina, dove la
formale abilitazione a libero docente viene conseguita soltanto da una frazione degli
assistenti, e spesso soltanto tardi. Questa differenza significa praticamente che da
noi la carriera di un uomo di scienza è costruita interamente su presupposti
plutocratici.
vuol dire che, se sei ricco puoi iniziare la carriera sennò no perché se inizio della
carriera è un momento in cui si è pagato pochissimo o addirittura in maniera quasi
irrisoria se hai di che vivere puoi cominciare la carriera accademica altrimenti non si
capisce come dovresti sopravvivere
43
Ciò non può capitare a un libero docente tedesco: una volta che egli diventa tale,
non lo si può piú cacciar via. Certamente egli non può avanzare «pretese». Tuttavia
può comprensibilmente pensare, dopo esser stato attivo per alcuni anni, di avere
una specie di diritto morale a esser preso in considerazione: anche – e ciò è spesso
importante – in merito all’eventuale abilitazione di altri liberi docenti. La questione se
in linea di principio si debba dare l’abilitazione a ogni studioso di valore o se invece
si debba tener conto del «fabbisogno dell’insegnamento», e se quindi si debba
concedere ai docenti già esistenti un monopolio dell’insegnamento, è un dilemma
penoso, connesso con il doppio volto della professione universitaria a cui ora
accenneremo.
Seconda a quella di stabilire l'abilitazione se ci sono delle necessità in quell'ambito
Per lo più si decide per la seconda alternativa. Ma ciò comporta un aumento del
pericolo che l’ordinario della materia in questione, nonostante la massima
coscienziosità soggettiva, dia la preferenza ai suoi scolari. Personalmente, io ho
seguito il principio – sia detto di passaggio – che uno studioso laureato con me
debba dar prova di sé e conseguire l’abilitazione presso un altro professore e in
un’altra università. Ma il risultato fu che uno dei miei allievi più bravi venne respinto
perché nessuno credette che questo fosse il motivo.
intende dire che chiaramente se la selezione è fatta dal docente che ha quella
cattedra ma ci sono persone che si sono formate con lui e che fanno gli studi nella
sua materia, col suo imprinting e degli altri che invece vengono da fuori con
imprinting di altri docenti è più facile che nonostante tutta la coscienziosità del
mondo io preferisco i miei lui e Weber dice in realtà io sarei contento del contrario ti
laurei con me ti vai a confrontare in un'altro contesto dove puoi far vedere di essere
veramente brillante, il problema è che però quelli dell'altro contesto se non la
pensano così e si vogliono tenere i più brillanti pensano che quello che tu mi hai
mandato sia lo scarto
Questo è un meccanismo che spesso succede anche a oggi anche nel senso
comune se c'è una persona brava tienitela tu non mandarla un'altro per farla formare
meglio perché se sente solo la mia voce poi inevitabilmente è una replica più
originale di quello che già faccio io ma questo fa crescere poco la persona che si
forma con me
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Lezione del 25 ottobre 2023
Confronto che Weber stava facendo tra il sistema universitario tedesco e quello
americano perché il primo gesto che compie per comprendere come fosse possibile
nella sua epoca la scienza come professione era di indagarne le condizioni esterne
Per indagare queste condizioni esterne, invece di compiere un’analisi specifica del
sistema universitario di accesso all’università e ruoli universitari quello che noi oggi
chiamiamo carriera accademica
Perché per scienza come professione Weber intende innanzitutto la professione di
ricercatore e di insegnante, di docente nell'università e questo non è una
partigianeria di Weber per l'ambito universitario bensì è perché effettivamente in quel
momento nella cultura tedesca il ruolo di quelle che noi chiamiamo accademie era
molto molto debole e quindi Weber può non prenderlo in considerazione
mentre se l'avesse scritto questo testo un inglese è difficile infischiarsene della Royal
Society o di altri istituti importanti di cultura e per un tedesco effettivamente
soprattutto da Humboldt l'università era il cuore della ricerca e e della scienza come
professione
Weber ricordava come il mandare un giovane che dovesse prendere l'abilitazione in
in un'altra sede poteva essere vista come un una scelta a doppia lama no con
perché da un lato per lui era una crescita della singola persona dall'altra però poteva
essere vista come un modo per allontanare qualcuno che invece non si tenesse
particolarmente capace
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elementare della lingua tedesca, gli viene assegnato qualche altro corso, magari fino
a poeti della levatura di Uhland. Infatti, sono gli organismi ufficiali a prescrivere il
programma, e a esso l’assistente americano è altrettanto vincolato quanto da noi
l’assistente d’istituto.
il modello americano prevede che sia l'università a dire quali corsi e quindi quali
contenuti debbano essere impartiti nei singoli insegnamenti; mentre in Germania
essendo libertà del docente scegliere il proprio percorso diventa diverso il rapporto
che il singolo ha con gli insegnamenti
l'istituto è di solito la scuola cioè un liceo cioè e quindi i nostri programmi ministeriali
quelli che erano i programmi ministeriali
Possiamo ora osservare con chiarezza che da noi il più recente sviluppo della
struttura universitaria procede, in vasti settori della scienza, nella direzione di quella
americana. I grandi istituti di medicina o di scienze naturali sono imprese di
«capitalismo di stato».
Non possono venir amministrati senza cospicui mezzi imprenditoriali. E anche qui si
presenta la medesima situazione che si ha dove s’insedia l’impresa capitalistica,
cioè la «separazione del lavoratore dai mezzi di produzione». Il lavoratore, vale a
dire l’assistente, è vincolato agli strumenti di lavoro che sono messi a sua
disposizione dallo stato; in conseguenza di ciò egli viene a dipendere dal direttore
d’istituto allo stesso modo dell’impiegato in una fabbrica – infatti il direttore
s’immagina, in perfetta buona fede, che l’istituto sia «suo» e lo governa a piacimento
– e la sua posizione è spesso precaria al pari di qualsiasi esistenza «proletaroide» o
dell’assistente di un’università americana.
Weber se pensate anche i vostri studi senza Internet avete immediatamente l'idea
fino a quando lo studio è basato su pochissimi testi quindi diciamo con un rapporto
semi artigianale di ognuno di noi a casa (acquisto il testo e sono autonomo) quindi
non sono un proletario, con l'immagine del capitalismo, separato dai suoi mezzi di
produzione, i suoi strumenti
Nel momento in cui devo invece fare una ricerca seria mi serve la biblioteca non
posso acquistare tutti i testi che mi servono per fare ricerca e tantomeno poter
rimanere aggiornato e la biblioteca però viene amministrata all'università rimanendo
nella biblioteca dell'università
46
in questo senso chi produce è nella condizione di un proletario; il proletario non
possiede né la terra, né l’aratro, né il trattore è il padrone che glielo dà e lui lavora
per
Se sei un biologo, un fisico tutte le attrezzature per fare esperimenti sono
dell'università, se io ti nego l'accesso al laboratorio tu non rimani un fisico; cioè non è
che puoi dire sono un fisico e studio la composizione delle particelle però il Cern non
mi fa entrare nell'acceleratore di particelle non è che lo posso fare a casa
in questo senso effettivamente la condizione del ricercatore, dello studioso è in un
sistema capitalistico cioè in cui il chi produce e separato dai suoi strumenti, non li
possiede e non è una critica perché non è che c'è un'alternativa
nell'ambito umanistico ci sono alternative cioè nel senso che per esempio oramai
con le biblioteche digitali moltissimo di ciò che contemporaneo è disponibile anche
online però nonostante questo la che ci sia una separazione per esempio anche
nell'ambito umanistico per le riviste; le riviste costano molto
I vantaggi tecnici sono del tutto indiscutibili, come in tutte le imprese capitalistiche e
al tempo stesso burocratizzate. Ma lo «spirito» che in esse domina è ben diverso
dall’atmosfera tradizionale delle università tedesche. C’è un abisso quanto mai
profondo, esteriormente e interiormente, tra il dirigente di una grande impresa
universitaria di stampo capitalistico e il solito ordinario di vecchio stile – anche
nell’atteggiamento interiore. Ma non vorrei qui soffermarmi ulteriormente su questo
punto. Tanto all’interno quanto all’esterno l’antico ordinamento universitario è
diventato fittizio.
Weber sta dicendo questo dell'università tedesca Humboldtiana nel 1917; l'università
Humboldtiana non ha nemmeno 100 anni già non funziona più, perché gli ideali
dell'istruzione sono importantissimi ma sono importantissimi anche i numeri
dell'istruzione e qualunque istituzione educativa al cambio dei numeri cambia di
natura
Nel momento in cui c'è per esempio il classico discorso i licei di una volta erano
migliori non è non è affatto vero non abbiamo nessun dato a supporto di questa
affermazione gli unici studi che abbiamo dagli anni 70 fino ad oggi sul rendimento
degli studenti delle scuole superiori ci dicono che la situazione non è cambiata, cioè,
non abbiamo migliorata
La percezione che se ne ha è la classica affermazione ma oggi tutti vanno alle
scuole superiori si questo non è un problema dovrebbe essere una cosa bella e
allora le scuole di secondo grado si svolgono la stessa funzione nelle scuole
secondarie di secondo grado di cinquant'anni?
No, cioè nel senso che non è la stessa cosa fare lezione con 10 persone in classe
per tutto il percorso invece di 30; la selezione anche degli insegnanti è
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completamente diversa e quindi è chiaro che siano istituzioni differenti che siano
migliori o peggiori no ma cambiano profondamente
I numeri anche all'università, anche per la natura dell'università e anche per quello
che sta dicendo Weber era cambiata totalmente; un conto è all'università pensata da
Von Humboldt per un manipolo di giovani prussiani che avrebbe dovuto mandare
avanti lo stato; un conto dell'università dell'inizio del 900 che l'università non è di
massa ma è già più ampia e ancora di più l'università del 69 in poi in Italia
Nel 1969 c'è la legge che abolisce la filiazione tra cioè tra una scuola secondaria di
secondo grado di un tipo e l'accesso all'università; dal 1969 è slegato a questo
aspetto quindi ci si può iscrivere a prescindere dalla scuola secondaria del secondo
grado fatta e quindi i numeri esplodono
l'università può rimanere la stessa ovviamente no; cioè se io in classe nel corso di
filosofia ho soltanto persone che vengono dal classico, vengono da scuole
secondarie di secondo grado in cui vengono fatte queste lingue non posso fare la
stessa lezione il che non vuol dire che non ci saranno davanti a me gli studenti che
probabilmente c'erano prima che venivano dal classico ma sono una minoranza
è ovvio che cambiano le istituzioni ma cambiano non soltanto perché pensiamo ad
un'università diversa ma soprattutto perché cambia la popolazione studentesca e
cambiano i docenti
è esattamente come dire nel corso di laurea di Scienze educazione si scrivono
soltanto chi quelle studentesse che hanno fatto il liceo socio psicopedagogico
perché voglio essere sicuro di poter partire a un certo punto in poi questa è una
canalizzazione dell'istruzione che è presenti in altri paesi ma non qui
per capire le istituzioni educative guardate non soltanto, ma anche i numeri
dell'istruzione e anche quando fate dei paragoni tra paesi differenti
la famosa Finlandia che viene citata quando si deve parlare di un sistema di
istruzione che funziona i finlandesi in totale sono poco più di quattro milioni è un
paese che si organizzerà in maniera diversa dall'Italia; in Finlandia si fanno molte più
ore a scuola e meno ore di lezione perché l'inverno finlandese dura da inizio ottobre
a metà maggio la parte centrale di questi mesi è buia; la maggior parte delle attività
anche le attività sportive eccetera vengono fatte dentro le scuole perché è molto più
facile organizzare la vita
Qui arriviamo in una delle prime riflessioni che vanno in una direzione e che può
sembrare incredibilmente cinica ma che come vedete poi dopo viene messa in
prospettiva ed è un'osservazione molto forte di Weber perché dice “ma vorrei qui
soffermarmi ulteriormente su questo punto tanto all'interno quanto all'esterno l'antico
ordinamento universitario è diventato fittizio” a questa affermazione che avevamo
letto prima Weber collega un'altra cosa
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Ma è rimasto, e anzi si è sostanzialmente accresciuto, un elemento proprio della
carriera universitaria: che un libero docente del genere, e per di più un assistente,
riesca finalmente a insediarsi nella posizione di ordinario e perfino di direttore
d’istituto, è una questione che dipende soltanto dal caso.
E ritengo, in base a questa esperienza, di avere una vista più acuta per scorgere il
destino immeritato dei molti per i quali il caso ha giocato e ancora gioca in senso
opposto e che, nonostante tutta la loro bravura, attraverso questo apparato di
selezione non pervengono al posto che a essi spetterebbe.
49
Che il caso, e non la bravura in quanto tale, abbia un ruolo così grande, non dipende
soltanto, e neppure in misura preminente, dalle debolezze umane che naturalmente
s’incontrano in questo processo di selezione come in qualsiasi altro.
cioè dice non è un desiderio delle persone di voler far andare le cose in questo
modo
50
dipendere la decisione da motivi puramente oggettivi. Si deve infatti chiarire ancora
che il fatto che la decisione dei destini accademici sia, in misura così estesa, frutto
del «caso» non dipende soltanto dall’insufficienza della selezione mediante la
formazione di una volontà. Ogni giovane che senta la vocazione dello studioso deve
piuttosto avere ben chiaro che il compito che lo aspetta presenta un duplice volto.
Quindi il caso non l'interesse individuale o la volontà di far andare le cose in una
determinata maniera, e poi vi dirà ancora qualcosa sul tipo di selezione e adesso un
altro elemento che accentua il ruolo del caso
Egli deve esser qualificato non soltanto come studioso, ma anche come insegnante.
E questi sono lungi dal coincidere. Si può essere uno studioso di primo piano e un
insegnante addirittura pessimo: basti rammentare l’attività d’insegnamento di uomini
come Helmholtz o come Ranke. E questi non sono eccezioni rare. Ma le cose
stanno ora in modo tale che le nostre università, specialmente le piccole università,
sono tra di loro in una ridicola concorrenza per le frequenze. I proprietari di case
delle città universitarie celebrano come una festa il millesimo studente, e il
duemillesimo preferibilmente con una fiaccolata. Gli interessi alle tasse d’iscrizione
dei singoli corsi – bisogna ammetterlo apertamente – risentono della nomina di un
titolare «alla moda» in discipline affini, e anche prescindendo da ciò il numero degli
ascoltatori rappresenta una verifica tangibile, espressa in cifre, mentre le qualità di
dottrina sono imponderabili e spesso (com’è del tutto naturale) contestate nel caso di
arditi innovatori.
se c'è un docente che è la moda gli studenti vanno più facilmente a seguire quel
corso questo non dice niente della qualità di quello studioso e neanche della qualità
delle sue lezioni in senso stretto perché la dottrina cioè il sapere e gli effetti delle
lezioni sono spesso imponderabili; cioè nel senso che magari anche delle lezioni che
non attirano molte persone sono lezioni magari dall'esterno meno efficaci ma che vi
danno degli strumenti e dei rudimenti della disciplina che poi invece vi servono
effettivamente e quegli studenti diventano degli studiosi, dei migliori; non si può in
questo modo valutare un docente
Il fatto di essere alla moda non significa pressoché nulla e questo lo vedete anche
oggi palesemente non tanto nelle università anche se anche un po’ nell'università
ma soprattutto nei mezzi di comunicazione; cioè personaggi che parlano un grosso
modo in qualche cosa senza alcun titolo scientifico rispetto agli argomenti che
trattano perché mediaticamente funzionano; era un problema anche allora
Di Galimberti viene continuamente ripresa un intervista che lui ha fatto riguardante le
parole che gli studenti conoscono; è una interpretazione sbagliata di un caso di
studio de Mauro
51
Perciò tutto soggiace il più delle volte a questa suggestione della benedizione e del
valore incommensurabile dell’uditorio numeroso. Quando di un docente si dice che è
un cattivo insegnante, ciò costituisce per lo più la sua condanna a morte
accademica, quand’anche egli fosse il migliore studioso del mondo. Ma la questione
se egli sia un buono o un cattivo insegnante trova risposta nella frequenza di cui lo
onorano i signori studenti. È però un fatto che, se gli studenti si affollano intorno a un
professore, ciò è determinato in larghissima misura da circostanze puramente
esterne, come il temperamento o perfino il timbro della voce – e ciò in una misura
che non si crederebbe possibile.
qui invece c'è un passo molto bello e molto anche famoso di Weber
Weber non sta parlando della politica e tuttavia Weber è stato accusato anche per
questo testo, nell’avere una visione elitaria dell'università e non c'entra nulla; sta
dicendo che le lezioni con le folle oceaniche, con le aule ad anfiteatro eccetera non
fanno nascere quel tipo di rapporto con la cultura che è propria dell’aristocrazia dello
spirito, del piccolo cenacolo che lavora insieme
Dice infatti la democrazia è una bellissima cosa ma sa bene dove sta cioè
ovviamente nella politica e la democrazia va bene non nel sapere quindi non è per
una visione elitaria della cultura cioè nel senso che non perché sia per una visione
democratica della cultura perché non si non si pone questo problema per Weber e
tra l'altro non si poneva neanche questo problema nell'università dell'epoca
l'università era con numeri relativamente piccoli e basata anche per la carriera
universitaria sul criterio plutocratico, cioè, chi ha i soldi può fare la carriera
accademica perché può rischiare
in America il sistema burocratico, da noi un sistema plutocratico; non è un università
d’élite quella a cui pensa Weber è il rapporto con il sapere che lui pensa elitario e
per elitario intende dire direzione cioè che le persone devono essere portate per
sapere devono, e lo vedremo nelle condizioni interne, devono avere una
predisposizione d'animo o costruirsi una predisposizione d'animo di un certo tipo
52
D’altra parte, è senz’altro vero che saper esporre i problemi scientifici in modo tale
che una mente incolta ma capace di apprendimento possa comprenderli, e che essa
pervenga a farsene un’idea propria – ciò che per noi è la cosa decisiva – costituisce
forse il compito pedagogicamente più difficile.
Certamente: ma non è il numero degli ascoltatori che decide se esso sia stato
assolto. E proprio quest’arte costituisce – per ritornare al nostro tema – un dono
personale, e non coincide affatto con le qualità scientifiche di uno studioso. A
differenza dalla Francia, però, noi non abbiamo alcuna corporazione di «immortali»
della scienza, ma secondo la nostra tradizione le università devono soddisfare a
entrambe le esigenze: quella della ricerca e quella dell’insegnamento. Ma è un
puro caso che le capacità relative si trovino riunite in un uomo.
Perché sta parlando di tuo padre e il confronto anche in questo caso comparativo è
con la Francia perché
l’accademie Françeise fondata da Richelieu tra il 1634/1635 i cui membri erano e
sono tuttora chiamati immortali
l'Accademia francese, la cupola è e sotto la cupola degli scranni che sono numerati
e chi viene eletto dagli altri dell'accademia a essere un accademico acquisisce il
titolo di immortale e i posti sono numerati sono meno di 100 e non si liberano se non
con la morte quindi il numero prefisso ed è fisso dal 1635
l'Accademia Francese che non è soltanto letteraria ma anche scientifica, cioè, è
depositaria simile alla nostra crusca della lingua francese ed è pensata alla ricerca e
questa istituzione così come le altre sono tutte istituzioni in cui si fa solo ricerca
Weber dice lì si può diventare ottimi studiosi e si può essere eletti soltanto per le doti
scientifiche non serve far bene lezione; mentre noi che teniamo insieme i due aspetti
la coincidenza di queste due cose è casuale non è che se siete buoni studiosi si è
anche dei buoni insegnanti e si potrebbe essere anche dei buoni insegnanti senza
essere degli studiosi migliori di quell'ambito
La questione didattica era già lì presente, la risposta per esempio di gentile che va in
tutt'altra direzione negli stessi anni, perché gentile scrive di pedagogia negli stessi
anni e poi arriva alla riforma gentile; la risposta di gentile è netta, contraria, aggira
Weber tornando indietro nella cultura tedesca cioè all'idealismo per fare il
neoidealismo italiano; dicendo esattamente il contrario chi sa di una disciplina sa
anche insegnare non serve la didattica e quindi io strutturo l'università italiana nella
riforma gentile come l’università Humboldtiana in cui ricerca e didattica vanno
insieme ma seleziono i docenti soltanto per l’aspetto scientifico
53
Questo deriva proprio da una biforcazione che ha preso la cultura italiana che
rispetto ad altre culture ma che per esempio in Germania nonostante Weber non si è
modificato cioè Weber denunciava queste cose ma l'università tedesca ha
mantenuto l'aspetto di unione tra didattica e ricerca e la didattica non viene valutata
La vita accademica è quindi alla mercé del caso. Quando dei giovani studiosi
vengono a chiedere consiglio per l’abilitazione, la responsabilità che ci si assume
accogliendo la richiesta è quasi insopportabile. Se si tratta di un ebreo, gli si
risponde naturalmente: «Lasciate ogni speranza». Ma anche a chiunque altro
bisogna domandare, in coscienza: crede di poter tollerare di vedersi passare avanti,
di anno in anno, una mediocrità dietro l’altra, senza amareggiarsi e corrompersi
interiormente? A ciò si riceve ovviamente ogni volta la medesima risposta:
naturalmente, io vivo soltanto per la mia «vocazione»; però almeno io ho saputo
solamente di pochissimi che abbiano sopportato questa situazione senza subire
danni interiori. Questo mi sembrava necessario dire intorno alle condizioni esterne
della professione di studioso.
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Credo però che vogliate, in realtà, ascoltare qualcosa d’altro, e precisamente della
vocazione interiore alla scienza. Al giorno d’oggi la situazione interiore nei confronti
dell’esercizio della scienza come professione è condizionata anzitutto dal fatto che la
scienza è pervenuta a uno stadio di specializzazione prima sconosciuto, e che tale
rimarrà sempre in futuro.
Allora il tema il primo tema della predisposizione interna, per usare il termine di
Weber delle condizioni interne della scienza come professione riguarda l'interazione
tra lo sviluppo del sapere, che è fondamentale per Weber perché oggi lo
definiremmo anche un sociologo della conoscenza quindi si occupa dello sviluppo
storico del sapere
Guardando allo sviluppo storico del sapere la prima cosa che gli balza agli occhi è
l'elemento della specializzazione; cioè il sapere si va sempre più specializzando
Weber sapeva che già nella sua epoca, e correttamente dice e le cose andranno
sempre più in questa direzione, il sapere diventa sempre più non frammentato, ma
specializzato; i propri meriti scientifici vengono misurati sul frammento di sapere in
tutto il sapere
Non soltanto esteriormente, no certo, ma proprio interiormente le cose stanno in
modo che soltanto nel caso di una rigorosa specializzazione l’individuo può acquisire
la sicura coscienza di produrre qualcosa di realmente compiuto in ambito scientifico.
Tutti i lavori che sconfinano in campi contigui, come talvolta ci accade di fare, e
come proprio i sociologi, per esempio, fanno per necessità ripetutamente, sono
gravati dalla rassegnata coscienza che essi possono fornire allo specialista tutt’al piú
impostazioni utili nelle quali egli non s’imbatte tanto facilmente muovendo dai punti di
vista propri della sua disciplina, ma che il proprio lavoro deve inevitabilmente
rimanere incompiuto.
In questo senso è elitario Weber non nel senso di censo, nel senso di numeri e che
interiormente la scienza è andata in quella direzione, i saperi sono andati in quella
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direzione e quindi se io indago come sociologo e come studioso le condizioni del
fare scienza non posso che partire dall'esterno; il sapere andava in quella direzione
ma se il sapere andava in quella direzione interiormente la disposizione dell'animo
deve potermi dire realmente il destino della mia anima; non vuol dire altro che me
stesso io dipendo professionalmente, scientificamente dalla capacità di vedere che
tutto è in quella piccolissima interpretazione
Altrimenti non avrà mai fatto dentro di sé ciò che si può chiamare l’«esperienza
vissuta» della scienza. Senza questa strana ebbrezza derisa da chiunque non sia
iniziato, senza questa passione, senza questo convincimento che «dovevano
passare millenni prima che tu venissi al mondo, e altri millenni attendono in silenzio»
– per la riuscita di questa tua congettura – uno non possiede la vocazione per la
scienza, e farà bene a dedicarsi ad altro.
Infatti per l’uomo in quanto uomo non ha valore alcuno ciò che non può fare con
passione.
Weber cerca anche con fatica, con insistenza di tenere assieme una visione
disincantata se volete cinica della scienza come professione del caso, l'aspetto
plutocratico, gli elementi esterni eccetera; ma poi quando si passa invece alla
dimensione interna è una passione individuale e non si educa; Weber non parla
affatto di un'educazione
Ora, però, sta di fatto che, per quanto grande sia tale passione, per quanto autentica
e profonda possa essere, il risultato è ben lungi dal poter essere garantito.
Certamente essa costituisce una condizione preliminare per il fattore decisivo:
l’«ispirazione». Oggi negli ambienti giovanili è assai diffusa l’opinione che la scienza
sia diventata un esercizio di calcolo che viene compiuto nei laboratori o nelle
cartoteche statistiche soltanto con il freddo intelletto e non con tutta l ’«anima», al
pari di quanto avviene «in una fabbrica». A questo proposito si deve anzitutto
osservare che in questa opinione per lo più non c’è affatto chiarezza su ciò che
avviene in una fabbrica né su ciò che avviene in un laboratorio. Nell’uno come
nell’altra all’uomo deve venire in mente un’idea – e proprio l’idea giusta – per
produrre qualcosa di valore. Ma quell’idea non si ottiene per forza. Non ha nulla a
che fare con un qualsiasi freddo calcolo. Certamente, anche questa è una
condizione preliminare imprescindibile. Nessun sociologo, per esempio, avrà da
pentirsi di aver fatto per mesi, anche in età avanzata, molte decine di migliaia di
calcoli del tutto banali. Non si può tentare impunemente, se si vuol conseguire
qualche risultato, di scaricarli del tutto su qualche strumento meccanico; e ciò che
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alla fine ne vien fuori è spesso irrisorio. Ma chi non «ha un’idea» determinata sulla
direzione del calcolo che sta compiendo e, durante il calcolo stesso, sulla portata dei
risultati particolari che si raggiungono, non ne trae neppure quel minimo.
Normalmente l’idea matura soltanto sul terreno di un duro lavoro. Non sempre,
s’intende: l’idea di un dilettante può avere, sotto il profilo scientifico, la medesima
portata, o una portata maggiore, di quella dello specialista. Molte delle nostre
impostazioni e delle nostre conoscenze più importanti sono dovute proprio ai
dilettanti. Il dilettante si distingue dallo specialista – come Helmholtz ha detto a
proposito di Robert Mayer – solamente in quanto gli manca la salda sicurezza del
metodo di lavoro e non è quindi in grado, nella maggior parte dei casi, di controllare
la portata della sua idea e di valutarla o di applicarla. L ’idea non sostituisce il
lavoro. E il lavoro, da parte sua, non può sostituire o suscitare a forza l’idea, più di
quanto non possa farlo la passione. L’una e l’altro – soprattutto entrambi insieme – la
suscitano. Ma essa viene quando le aggrada, e non quando piace a noi. È infatti
vero che le cose migliori vengono in mente a qualcuno – come dice Hearing –
fumando il sigaro sul divano, oppure – come narra di sé Helmholtz con precisione di
scienziato della natura – passeggiando per una strada lievemente in salita, o in
modo analogo, ma in ogni caso quando non le si aspetta, non già lambiccandosi e
cercando a tavolino. Esse non sarebbero però certamente venute in mente senza
avere dietro di sé quel lambiccarsi a tavolino e quella ricerca appassionata.
Comunque sia, chi lavora scientificamente deve anche tener conto di quel caso che
pervade ogni lavoro scientifico: viene o non viene l’«ispirazione»? Si può essere un
eccellente lavoratore e non avere mai avuto una propria idea valida. Ma è un grave
errore credere che ciò avvenga soltanto nella scienza e che in un ufficio, per
esempio, le cose stiano diversamente che in un laboratorio. Un commerciante o un
grande industriale privo di «fantasia negli affari», cioè senza idee, senza idee geniali,
è per tutta la vita soltanto qualcuno che rimane, nel migliore dei casi, un commesso
o un impiegato tecnico: non produrrà mai innovazioni organizzative. Nel campo della
scienza l’ispirazione non ha affatto un ruolo maggiore – come immagina la
presunzione degli studiosi – che nel campo dei problemi della vita pratica che un
imprenditore moderno deve affrontare. E d’altra parte non ha un ruolo minore – cosa
che viene anch’essa sovente misconosciuta – che nel campo dell’arte. È un’opinione
puerile ritenere che a tavolino, munito di un regolo o di altri mezzi meccanici o di
macchine calcolatrici, il matematico giunga a qualche risultato scientificamente
valido; la fantasia matematica di un Weierstraß è naturalmente orientata in modo del
tutto diverso, nel suo senso e nel suo risultato, dalla fantasia di un artista, e anche
sotto il profilo qualitativo è fondamentalmente differente da essa. Non però per
quanto riguarda il procedimento psicologico. L’una e l’altra sono ebbrezza (nel senso
della mania di Platone) e «ispirazione».
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collega il lavoro, la disciplina se volete e entrambe sono precondizioni per
l'ispirazione
Che qualcuno abbia ispirazioni scientifiche dipende da destini che ci sono nascosti,
ma soprattutto da un «dono». A causa, non da ultimo, di quella indubbia verità, un
atteggiamento comprensibilmente popolare tra la gioventù si è posto al servizio di
alcuni idoli, il cui culto vediamo oggi largamente diffuso a tutti gli angoli di strada e in
tutte le riviste. Quegli idoli sono la «personalità» e l’«esperienza vissuta».
C'è stato un momento del 900, in cui la cultura europea dopo la belle époque vide un
crescere di quello che vi sta dicendo Weber specializzazione, razionalizzazione lui lo
chiamerà in questo lavoro disincantamento del mondo
Vi furono correnti opposte soprattutto tra la prima guerra mondiale e la seconda
guerra mondiale che a questo modo di razionalizzazione della vita risposero con un
un'apertura all'esperienza personale, l'ebbrezza del della personalità che dicevano sì
vero il mondo è questo ma poi è l'esperienza vissuta che conta non il calcolo e la
scienza in quanto tale e questo aprì in maniera molto forte le porte all'irrazionale cioè
al rincorrere i miti fondativi come per esempio come la razza Ariana, ad un certo
vitalismo tipico di quel momento storico
Lo stesso Nietzsche e la visione che diedero del superuomo fin dalla traduzione
Nietzsche non è superuomo perché è oltre uomo e che indicava non il superuomo
che ha i poteri straordinari, ma qualcuno che si svincolava da quelli che lui riteneva
essere dei vincoli che avevano caratterizzato la nostra concezione di essere umana;
quindi slegandosi per esempio dai valori della tradizione in quanto tale otteneva uno
statuto di oltre uomo cioè di oltre quella definizione che noi davamo dell'essere
umano ma non c'entrava nulla con la forza della razza tedesca
Tuttavia l'attenzione a reagire a situazioni di difficoltà aggrappandosi a credenze
razionali è stata sempre forte della storia dell'essere umano il problema è che di
solito non si riescono a controllare cioè tenere a bada, non è facile socialmente ed è
un problema nel senso stretto di solito quando prendono slancio poi è difficile
richiuderle in singoli in singoli ambiti
tali pulsioni poi vengano rilanciate anche da persone che dovrebbero avere gli
strumenti per non per saperne la pericolosità d'accordo e che sono tutte sono
sempre le stesse argomentazioni in tutta la storia dell'umanità è impressionante cioè
per esempio la contrapposizione tra la scienza è il dubbio
la percezione che si ha da parte di chi non è all'interno di quelle discipline e che in
fondo in fondo dipende da come me la sento questa cosa cioè perché tanto le
opinioni sono uguali
nel dibattito sulla scuola in cui ci sono non delle verità ultime ma lo stato dell'arte in
determinati ambiti sappiamo che in maniera probabilistica in maniera statisticamente
58
significativa alcune cose funzionano meglio alcune cose funzionano peggio e l'ultima
parola su queste cose non è l'ultima parola ma ci sono delle evidenze che vanno in
proiezione con il carattere probabilistico proprio delle scienze sociali, delle scienze
umane della ripetibilità dell'esperimento
In educazione noi non possiamo fare degli esperimenti negativi perché eticamente
non c'è concesso;
il nazifascismo nasce con la diffusione di culti del tutto irrazionali la razza Ariana, il
ritorno alla cultura unica ecc… ma che rispondevano proprio al culto della gioventù,
della forza agli elementi nella nostra cultura fortemente pagani del tutto irrazionali
il ruolo dell'educazione dovrebbe educare innanzitutto a rendersi conto delle cose
che possono essere scienze, delle cose che non possono essere scienza e del ruolo
che gli intellettuali e chi fa scienza dovrebbero essere in grado di distingue ciò che è
sapere e ciò che non lo è
ma se il dibatto pubblico è inquinato, se non si parte da questo e si apre a elementi
irrazionali ma è difficile convivere civilmente perché poi le contrapposizioni diventano
forti e diventano radicali e diventino identitarie siccome tu pensi quello di
quell'argomento allora tu sei quello
se l'opinione pubblica si fa trasportare dalla pura foga di qualunque tipo sia, di solito
questo viene evitato perché in periodi storici differenti la foga a altrui è minore ma
perché di solito ci sono dei corpi dello Stato che garantiscono di riequilibrare tra la
passione individuale o di popolo se la voce ufficiale va dietro alle passioni del popolo
è un attimo
sia con Weber sia con intellettuali di Cassese e in maniera differente Esposito
la scienza come professione è esattamente questo e anche intellettuali esattamente
questo ancora di più per alcuni aspetti Cassese perché parla proprio di tutte le
istituzioni in cui rientrano perfettamente anche le istituzioni scolastiche
59
Lezione del 26 ottobre
seconda parte del testo cioè le condizioni interne del fare scienza
accennava ai due idola del suo tempo cioè la personalità e l'esperienza vissuta
L’una e l’altra sono strettamente connesse: domina infatti l’opinione che la seconda
sia costitutiva della prima e le appartenga. Ci si affanna a «fare esperienza» –
poiché questo fa parte della condotta di vita che si addice a una personalità – e, se
non ci si riesce, si deve almeno fare come se si possedesse questo dono. Una volta
questa «esperienza vissuta» si chiamava sensazione. E di ciò che fosse e
significasse la «personalità», si aveva – ritengo – un’idea più appropriata.
C'è un riferimento a uno degli autori dell'epoca con cui si confrontava Weber che è
William Dilthey che è importante in ambito estetico perché è anche un teorico
dell'arte
Ma su questo proposito si possono ben sollevare dei dubbi; in ogni caso occorre
essere un Goethe per poterselo permettere, e ognuno dovrà per lo meno concedere
che neppure uno come lui, la cui figura è unica nel corso di millenni, è riuscito a non
farne le spese. Le cose non stanno diversamente in politica: ma di ciò non si dirà
nulla oggi.
Nel campo della scienza non è certo una «personalità» colui il quale, al modo di un
impresario, si presenta sul palcoscenico insieme alla causa a cui dovrebbe
dedicarsi, e vorrebbe giustificarsi col «fare esperienza», e domanda: come
dimostrerò di essere qualcosa di più di un semplice «specialista», come riuscirò a
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dire qualcosa che nessun altro abbia ancora detto, nella forma o nella sostanza,
come faccio io? – un fenomeno che oggi si presenta su larga scala e che lascia
ovunque un’impronta di meschinità, avvilendo colui che si pone tale domanda,
mentre l’intima dedizione al proprio compito, e a esso soltanto, lo innalza all’altezza
e alla dignità della causa che proclama di servire. Anche per l’artista le cose non
stanno diversamente. A queste condizioni preliminari del nostro lavoro, che esso ha
in comune con l’arte, si contrappone un destino che lo differenzia profondamente dal
lavoro artistico. Il lavoro scientifico è inserito nel corso del progresso.
È un aspetto molto importante naturalmente con non proprio limiti ma in questo caso
è segnato dal contesto in cui Weber tiene la sua relazione perché quello che sta per
affermare riguarda una sorta di differenziazione tra il fare artistico e il fare scienza
che si basa su una visione abbastanza lineare del sapere visione che in parte nel
corso del secolo scorso è stata resa anche un pochino più problematica però la
differenza resta
E invece nel campo dell’arte non c’è – in questo senso – alcun progresso. Non è
vero che un’opera d’arte di un’epoca in cui siano stati elaborati nuovi mezzi tecnici o
magari le leggi della prospettiva si trovi per questa ragione a livello un poco più alto,
dal punto di vista puramente artistico, di un’opera d’arte sprovvista di ogni
conoscenza di quei mezzi e di quelle leggi – se questa era materialmente e
formalmente adeguata, cioè se aveva scelto e dato forma al proprio oggetto come
era necessario fare a regola d’arte senza l’applicazione di quelle condizioni e di quei
mezzi. Un’opera d’arte realmente «riuscita» non viene mai superata, non invecchia
mai; l’individuo può valutare la sua importanza in maniera personalmente differente;
ma nessuno potrà mai dire di un’opera realmente «riuscita» in senso artistico che
essa sia «superata» da un’altra anch’essa «riuscita». Al contrario, ognuno di noi sa
che, nella scienza, ciò che egli ha fatto sarà invecchiato dopo dieci, venti,
cinquant’anni. Questo è il destino, anzi, questo è il senso del lavoro della scienza, al
quale esso è sottoposto ed esposto in un modo del tutto specifico rispetto a tutti gli
altri elementi della cultura per i quali pur vale la stessa cosa: ogni «riuscita»
scientifica comporta nuove «questioni» e vuole essere «superata» e invecchiare. A
ciò deve rassegnarsi chiunque voglia servire la scienza. Alcuni lavori scientifici
possono conservare durevolmente la loro importanza come «mezzi di godimento» a
causa della loro qualità artistica, oppure come mezzo di formazione. Ma essere
superati scientificamente – è bene ripeterlo – è non soltanto il destino di noi tutti, ma
anche il nostro scopo.
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contemporanei, alcuni classici ci parlano oggi in con dicendoci cose diverse da
quelle che dicevano ai loro contemporanei ma continuano a parlarci
nel caso dell’arte non ci sarebbe il meccanismo del dire siccome oggi posso leggere
o posso assistere a Teatro alla rappresentazione di x allora Shakespeare non mi
serve più e chiaro che nel momento in cui abbiamo la fisica quantistica, le conquiste
attuali studiare Newton può essere storia della scienza ma non è scienza
Newton è superato il che non vuol dire che perda valore Newton ma non è più c'ho il
punto di riferimento perché il punto di riferimento è lo stato dell'arte di una disciplina
tutto questo lo dice per quella frase che viene subito dopo che occuperà quasi tutto
il resto del lavoro
Non possiamo lavorare senza sperare che altri procedano più avanti di noi. In linea
di principio, questo progresso tende all’infinito. E con ciò perveniamo al problema del
senso della scienza.
si sta per trattare il problema del senso della scienza perché ovviamente nelle
disposizioni interne in quel discorso che aveva fatto della dipendenza dell'anima dal
dettaglio è difficile lasciare tra parentesi il senso in generale della scienza da un lato;
dall'altro è la domanda più complicata ed è in buona misura quella per cui tutto il
lavoro è stato scritto da Weber
Infatti non è per nulla ovvio che qualcosa che è sottoposto a una legge siffatta
possa avere in sé un senso e una ragione. Perché mai ci si dà da fare intorno a ciò
che, nella realtà, non giunge e non può mai giungere alla fine? Ebbene, anzitutto per
scopi puramente pratici, cioè per scopi tecnici nel senso più ampio della parola: per
poter orientare il nostro agire pratico in base alle aspettative che l’esperienza
scientifica ci indica. Bene. Ma questo significa qualcosa solo per l’uomo pratico. Qual
è però la posizione interiore dell’uomo di scienza nei confronti della propria
professione, ammesso che egli cerchi, in generale, di averne una? Egli afferma di
esercitare la scienza «per amore della scienza» e non soltanto perché altri possano
in tal modo conseguire successi di carattere economico o tecnico, perché possano
nutrirsi, vestirsi, illuminare, governare meglio. Ma quale lavoro fornito di senso egli
crede dunque di compiere con queste creazioni sempre destinate a invecchiare,
lasciandosi incanalare in questa attività, divisa in settori, che procede all’infinito? Ciò
richiede alcune considerazioni generali. Il progresso scientifico è una frazione, e
invero la frazione più importante, di quel processo di intellettualizzazione al quale
sottostiamo da secoli e contro il quale oggi di solito si assume posizione in una
maniera così straordinariamente negativa. Rendiamoci conto, in primo luogo, di ciò
che propriamente significa, dal punto di vista pratico, questa razionalizzazione
intellettualistica a opera della scienza e della tecnica orientata scientificamente.
Vuole forse significare che oggi noi altri, per esempio ogni persona presente in
questa sala, abbiamo una conoscenza delle condizioni di vita nelle quali esistiamo
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maggiore di quella di un Indiano o di un Ottentotto? Ben difficilmente. Chiunque di
noi viaggi in tram non ha la minima idea – a meno che non sia un fisico di
professione – di come esso fa a mettersi in movimento; e neppure ha bisogno di
saperlo. Gli basta di poter «fare assegnamento» sul modo di comportarsi della
vettura tranviaria, ed egli orienta il suo comportamento in base a esso; ma non sa
nulla di come si faccia per costruire un tram capace di mettersi in moto. Il selvaggio
ha una conoscenza incomparabilmente migliore dei propri utensili. Se oggi
spendiamo del denaro, scommetto che, perfino se vi sono colleghi economisti qui
presenti, quasi ognuno avrà pronta una risposta diversa alla domanda: come il
denaro fa sì che con esso si possa comperare qualcosa – ora molto, ora poco? Il
selvaggio sa in quale modo riesca a procurarsi il suo nutrimento quotidiano e quali
istituzioni gli servano a tale scopo.
qui viene un passo molto famoso che è rimasto nella storia della sociologia, della
sociologia della conoscenza
La scienza questo processo che tende all'infinito, che non ha un arresto possibile e
che in quanto tale potrebbe sembrare insensato perché ognuno di noi fa un piccolo
passetto ma che viene superato subito dopo eccetera eccetera
Weber dice questo processo è una parte molto importante di un processo generale
della nostra società che è quello appunto disincantarsi
non dovete prendere questo termine come strettamente negativo è descrittivo; cioè
nel momento in cui appunto io guardo un qualcosa non penso più a ma c'è dietro un
Dio buono, malvagio e che fa succedere questo non penso ad un influsso magico
penso che ci sia una spiegazione razionale e come dice Weber facciamo
affidamento anche come fede a che ci sia o ci possa essere una spiegazione
razionale dei fenomeni che ciò che osserviamo; è in questo senso il disincantamento
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Ma questo processo di disincantamento, proseguito per millenni nella cultura
occidentale, e in generale questo «progresso», del quale la scienza costituisce un
elemento e una forza motrice, ha un qualche senso che vada al di là del piano
puramente pratico e tecnico? Questa domanda la trovate formulata in termini
fondamentali soprattutto nelle opere di Lev Tolstoj. Egli vi è pervenuto attraverso una
via a lui peculiare. Il suo problema centrale si rivolgeva in misura crescente alla
questione se la morte fosse un fenomeno dotato di senso oppure no. E la sua
risposta è che per l’uomo civilizzato non lo è. E non lo è perché la vita individuale
dell’uomo civilizzato, inserita nel «progresso», nell’infinito, non potrebbe avere, per il
suo senso immanente, alcun termine. Infatti c’è sempre ancora un progresso
ulteriore da compiere dinanzi a chi c’è dentro; nessuno, morendo, è arrivato al
culmine, che è posto all’infinito. Abramo o un qualsiasi contadino dei tempi antichi
moriva «vecchio e sazio della vita» poiché si trovava nel ciclo organico della vita,
poiché la sua vita, anche per quanto riguarda il suo senso, gli aveva portato alla sera
del suo giorno ciò che poteva offrirgli, poiché per lui non rimanevano enigmi che
desiderasse risolvere ed egli poteva perciò averne «abbastanza».
Una società che si pensa conclusa in cui il ciclo della vita è fortemente definito in
un'infanzia,in un'età matura e in una vecchiaia; pensate alle tante rappresentazioni
che arrivano fino al 1500 nel 1600 dell'età della vita ogni età ha le sue
caratteristiche, ogni età ha i suoi parametri e il suo compimento; già nel 900
figuriamoci oggi è abbiamo un rapporto profondamente diverso anche per questioni
meno serie di quelle di cui parla Weber
si può avere un rifiuto della propria condizione per tante ragioni si può rifiutare la
propria vita ma non esserne sazio perché il mondo ci dice che ci sono ancora cose,
da vedere, cose da fare, da scoprire che se vivessimo un pochino di più vedremmo
cose che non abbiamo mai visto
Di ciò che la vita dello spirito continuamente produce egli coglie soltanto la minima
parte, e sempre soltanto qualcosa di provvisorio, mai di definitivo: perciò la morte è
per lui un accadimento privo di senso. E poiché la morte è priva di senso, lo è anche
la vita della cultura in quanto tale, che proprio in virtú della sua «progressività» priva
di senso imprime alla morte un carattere di assurdità. Ovunque, nei suoi ultimi
romanzi, quest’idea costituisce il motivo fondamentale dell’arte di Tolstoj. Quale
posizione possiamo assumere a questo proposito? Ha il «progresso» in quanto tale
un senso riconoscibile che vada al di là del piano tecnico, in modo che porsi al suo
servizio possa diventare una professione fornita di senso?
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La parola scelta da Weber per professione ha un senso in tedesco molto più forte è
Beruf; quindi è molto forte perché di fatto incrocia professione nel nostro senso,
professione nel senso di vocazione in senso forte ma anche, che invece è meno
forte da noi, anche nel termine professione se vogliamo interpretarlo come
professione non ha il senso di dovere così forte come Beruf
Beruf è anche un dovere un qualcosa che si ha come responsabilità individuale
La questione dev’essere posta. Ma non si tratta più soltanto della questione della
vocazione alla scienza, cioè del problema: che cosa significa la scienza come
professione per colui che si dedica a essa? bensì anche di un altro problema: che
cos’è la professione della scienza nella vita complessiva dell’umanità? e qual è il suo
valore? L’antitesi tra passato e presente è qui enorme. Vi ricorderete dell’immagine
meravigliosa all’inizio del libro VII della Repubblica di Platone: quegli uomini in una
caverna incatenati, il cui viso è rivolto alla parete di roccia davanti, mentre alle loro
spalle sta la sorgente di luce che non possono vedere, e perciò guardano soltanto le
ombre che essa getta sulla parete e cercano di comprenderne la connessione.
Finché a uno di loro riesce di spezzare le catene, ed egli si volta e vede: il sole.
Abbagliato brancola all’intorno e farfuglia di quel che ha visto. Gli altri gli dànno del
pazzo. Ma gradualmente impara a vedere nella luce, e allora il suo compito diventa
quello di scendere tra gli uomini delle caverne e di condurli alla luce. Egli è il filosofo,
ma il sole è la verità della scienza, che sola non va in caccia di fantasmi e di ombre
ma del vero essere.
questo è un momento in cui Weber riassume a suo uso e consumo il mito della
caverna che magari per Platone voleva dire anche dell'altro, ma lui ne prende
l'aspetto in senso stretto di episteme
con Socrate prima e Platone dopo per una delle primissime volte viene posta
nell'agenda della nostra cultura occidentale una differenza che prima non veniva
percepita cioè la differenza tra doxa e episteme d'accordo
la è l'opinione un'opinione personale; ognuno di ha delle opinioni che non sono
fondate su un sapere ma sono opinioni personali e non ci interessa nemmeno
metterle alla prova del sapere in senso stretto
l’episteme invece è la scienza cioè è quello di cui si può dare ragione con un
procedimento razionale
la contrapposizione era forte e radicale perché all'epoca di Socrate prima e di
Platone poi la contrapposizione era con le credenze mitologiche; gli dei che
governano il destino del mondo questo che viene messo sotto accusa da Socrate
prima anche se non sappiamo in che maniera e da Platone poi ed è questo in
maniera forte si riferisce non soltanto ma anche il mito della caverna
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un conto è accontentarsi di qualcosa di cui non cerchiamo la ragione e la prendiamo
come pura opinione diffusa, le ombre sono la realtà del mondo, discorso diverso
invece è indagare con metodo scientifico, l’episteme, le ragioni di quei fenomeni ed è
da questo termine che viene il termine epistemologia
Ebbene, chi si pone oggi in questo modo di fronte alla scienza? Oggi il modo di
sentire soprattutto della gioventù è l’opposto: le costruzioni concettuali della scienza
sono un mondo sotterraneo di astrazioni artificiali che cercano, con le loro mani
esangui, di cogliere il sangue e la linfa della vita reale, senza però mai riuscirci. Qui
nella vita, in ciò che per Platone costituiva il gioco d’ombre sulle pareti della caverna,
pulsa la vera realtà: tutto il resto sono fantasmi tratti da essa e privi di vita, e
nient’altro. Come si è compiuta una tale svolta? L’appassionato entusiasmo di
Platone nella Repubblica si spiega, in ultima analisi, con il fatto che allora per la
prima volta si era scoperto consapevolmente il senso di uno dei grandi strumenti di
ogni conoscenza scientifica: il concetto. Esso è stato scoperto, in tutta la sua portata,
da Socrate. Non da lui soltanto al mondo: in India potete trovare inizi analoghi di una
logica come quella di Aristotele. Mai però con questa coscienza della sua
importanza. Qui per la prima volta sembrò disponibile uno strumento con il quale si
poteva costringere chiunque nella morsa della logica, in modo da non lasciarlo
uscire senza ammettere o di non saper nulla o che questa e non altra è la verità,
l’eterna verità, che non può mai perire come invece passano l’agire e l’indaffararsi
degli uomini ciechi. Fu questa la straordinaria esperienza che capitò ai discepoli di
Socrate. E da ciò sembrava conseguire che, se solo si fosse trovato l’esatto concetto
del bello, del buono, o anche del coraggio, dell’anima, e via dicendo, si potrebbe
cogliere anche il suo vero essere, e ciò sembrava di nuovo aprire la via per sapere e
per insegnare come agire correttamente nella vita, soprattutto come cittadino. A
questa questione, infatti, tutto riportava la mentalità eminentemente politica dei
Greci. Perciò si coltivava la scienza. Accanto a questa scoperta dello spirito greco si
presentava, come prodotto dell’età del Rinascimento, il secondo grande strumento
del lavoro scientifico, l’esperimento razionale, come mezzo di un’esperienza
controllata in maniera affidabile, senza il quale la scienza empirica moderna sarebbe
impossibile. Anche in precedenza si era fatto ricorso all’esperimento: nella fisiologia,
per esempio, in India, al servizio della tecnica ascetica yoga; nella matematica, tra
gli antichi Greci, per scopi di tecnica bellica, e nel Medioevo a scopi estrattivi. Ma
aver innalzato l’esperimento a principio della ricerca in quanto tale è un contributo
proprio del Rinascimento. Gli aprirono la strada i grandi innovatori nel campo
dell’arte: Leonardo e i suoi pari, e in modo caratteristico soprattutto gli sperimentatori
nella musica del Cinquecento con i loro clavicembali sperimentali. Da questi
l’esperimento passò nella scienza soprattutto a opera di Galilei, e nella teoria a
opera di Bacone; in seguito lo adottarono le scienze esatte nelle università del
continente, in primo luogo in Italia e in Olanda.
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seppure ripetibile rimanda e lo sapevano già all'inizio del 900 rimanda
all'individualità dello sperimentatore
questa individualità coinvolta nell'esperimento teneva banco all'epoca era l'epoca di
Husserl, della filologia, cioè era un dibattito molto forte molto denso e non era un
dibattito soltanto di quel momento storico era un dibattito che nasce con Galileo
Galilei
Galileo Galilei invita i suoi colleghi dell'università di Padova a guardare nel telescopio
per vedere che la luna non era un astro perfetto come diceva Aristotele ma aveva i
crateri; alcuni suoi colleghi sono presi in giro nell'opera di Galileo Galilei con la figura
di Simplicio in cui rappresenta alcuni aristotelici dell'epoca ridicolizzandoli, dicendo
al lettore vedete questi vogliono negare l'evidenza non vogliono guardare nel
telescopio perché sono convinti della loro dottrina e quindi non si fanno condizionare
dall’esperienza e non vogliono mettersi in discussione
il problema era che all'epoca e anche quando scrive Weber un conto era
l'esperimento, un conto era l'aspetto teorico dell'esperimento
l'esperienza che facciamo cioè quello che osserviamo ci inganna era questo il
problema degli aristotelici, gli aristotelici dicevano guarda la teoria è che quel
quell'astro deve essere perfetto per avere quella traiettoria nel cielo perché il
problema era che non sapevano se fosse un satellite o no e Galileo Galilei non
riusciva a spiegare matematicamente il moto dei pianeti e lo fece infatti Keplero non
Galileo Galilei
loro dicevano se tu non mi dai il calcolo matematico io non mi posso fidare dei miei
sensi perché i miei sensi mi ingannano
nella ricostruzione che vi propone Weber la questione dell'esperimento in qualche
modo va sia nella direzione dell'epoca, delle discussioni che avvenivano durante
l'inizio del 900, ma in qualche modo è anche un gancio per tener viva l'attenzione dei
suoi ascoltatori dell'epoca
le epistemologie delle scienze umane, delle scienze sociali e delle scienze esatte
sono differenti cioè nessuno pretende la ripetibilità di un esperimento con le stesse
condizioni in ambito pedagogico solitamente si tendono a fare delle indagini
quantitative; però un conto è la prospettiva di una scienza umana o di una scienza
sociale, discorso completamente diverso e quella lunga tradizione da Popper verso
noi della falsificabilità degli esperimenti che però riguardano un determinato tipo di
scienza
noi a differenza di Weber abbiamo problematizzato di più il concetto di scienza
perché nel momento in cui fa il suo ingresso anche la teoria quantistica è un gran
casino per cercare di capire cosa sia scienza e cosa no perché pensate
semplicemente alle teorie dei buchi neri che sono state teorie fino alla foto del buco
nero che c'è stata due anni fa; sapevamo la teoria, la riuscivamo a capire di rimando
per le onde gravitazionali come si muovevano le informazioni dello spazio però non
avevamo mai visto un buco nero e però in quel caso abbiamo accettato che la teoria
non avesse delle controprove perché noi abbiamo un'altra visione della scienza
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la questione della sperimentazione è sempre stata al cuore della scienza in generale
però noi abbiamo un una pluralità di epistemologia e una pluralità di protocolli
il problema è perché non viene confutata perché non riusciamo come nel caso dei
buchi neri ad avere degli strumenti che possano permettere la confutazione o perché
non riusciamo a trovarla, cioè, sono due cose due profondamente diverse
Che cosa significava la scienza per quegli uomini alla soglia dell’età moderna? Per
gli sperimentatori nel campo dell’arte come Leonardo e per gli innovatori nella
musica essa significava la via per giungere alla vera arte, il che voleva dire per loro
alla vera natura. L’arte doveva essere elevata al rango di una scienza, e al tempo
stesso, soprattutto, l’artista doveva essere elevato al rango di un dottore, sia
socialmente sia per quanto riguarda il senso della sua vita. Questa è l’ambizione che
sta alla base, per esempio, anche del Trattato della pittura di Leonardo. E oggi? «La
scienza come via per arrivare alla natura» – ciò suonerebbe come una bestemmia
alle orecchie dei giovani. No, tutt’al contrario: liberazione dall’intellettualismo della
scienza, per fare ritorno alla propria natura e quindi alla natura in generale! Forse
come via per arrivare all’arte? Non c’è neppur bisogno di una critica. – Ma all’epoca
dell’origine delle scienze esatte della natura, ci si attendeva dalla scienza ancora di
più. Se rammentate il detto di Swammerdam «vi reco qui la prova della provvidenza
di Dio nell’anatomia di un pidocchio», potete vedere ciò che il lavoro scientifico, sotto
l’influenza (indiretta) del Protestantesimo e del Puritanesimo, considerasse allora
come proprio compito: la via per giungere a Dio.
Questa via non la si trovava più nei filosofi, nei loro concetti e nelle loro deduzioni:
che non si potesse trovare Dio per la via per la quale lo aveva cercato il Medioevo,
ben lo sapeva tutta la teologia pietistica di quel tempo, Spener soprattutto. Dio è
nascosto, le sue vie non sono le nostre vie, i suoi pensieri non sono i nostri pensieri.
Ma nelle scienze esatte della natura, dove si poteva cogliere fisicamente la sua
opera, là si sperava di rintracciare le sue intenzioni riguardo al mondo. E oggi? Chi
crede oggi ancora – all’infuori di alcuni grandi fanciulli, quali si possono trovare
proprio nelle scienze della natura – che le conoscenze dell’astronomia o della
biologia o della fisica o della chimica possano insegnarci qualcosa sul senso del
mondo, o anche soltanto sulla via per la quale si possa rintracciare un tale «senso»,
dato che ce ne sia uno? Esse sono semmai adatte a soffocare alla radice la fede
che vi sia qualcosa come un «senso» del mondo! E, finalmente, la scienza come via
per arrivare «a Dio»? Essa, la potenza specificamente estranea alla divinità? Che
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tale essa sia nessuno può oggi dubitarne nel suo intimo, che lo ammetta oppure no.
La liberazione dal razionalismo e dall’intellettualismo della scienza costituisce il
presupposto fondamentale della vita in comunione con il divino: questa, o qualcosa
di significato identico, è una delle parole d’ordine che si ritrovano ovunque nel modo
di sentire dei nostri giovani credenti o che aspirano a un’esperienza religiosa. E ciò
vale non soltanto per l’esperienza religiosa, ma per l’esperienza vissuta in generale.
Ma la via che viene imboccata è paradossale: si eleva ora alla coscienza e si
sottopone alla sua lente proprio l’unica cosa che l’intellettualismo non aveva ancora
toccato, cioè proprio le sfere dell’irrazionale. A ciò perviene infatti, in pratica, il
moderno romanticismo intellettualistico dell’irrazionale. Questa via per liberarsi
dall’intellettualismo produce il risultato esattamente opposto a quello che si
prospettano come fine coloro i quali la percorrono. – Che infine, con ingenuo
ottimismo, si sia celebrata la scienza, ossia la tecnica per il dominio della vita che ha
il suo fondamento nella scienza, come la via per giungere alla felicità, posso ben
trascurarlo dopo la critica distruttiva di Nietzsche a quegli «ultimi uomini» i quali
«hanno trovato la felicità». Chi ci crede più, all’infuori di alcuni grandi fanciulli sulle
cattedre o nei comitati di redazione? Ritorniamo al nostro discorso. Qual è, dati
questi presupposti intrinseci, il senso della scienza come professione, dal momento
che tutte queste illusioni precedenti – «la via al vero essere», «la via alla vera arte»,
«la via alla vera natura», «la via al vero Dio», «la via alla vera felicità» – sono
naufragate? La risposta più semplice l’ha data Tolstoj con queste parole: «Essa è
priva di senso perché non dà alcuna risposta alla sola domanda importante per noi:
che cosa dobbiamo fare? come dobbiamo vivere?» Il fatto che essa non dia questa
risposta è assolutamente incontestabile. La questione è solamente in quale senso
non dia «nessuna» risposta, e se in luogo di questa non possa per caso dare un
qualche aiuto a chi si ponga la questione in termini corretti. Oggi si parla spesso di
una scienza «senza presupposti». Ce n’è una? Dipende da ciò che s’intende. In ogni
lavoro scientifico si presuppone sempre la validità delle regole della logica e della
metodologia, di questi fondamenti generali del nostro orientamento nel mondo. Ma
questi presupposti sono, per quanto riguarda la nostra particolare questione, per lo
meno problematici. Si presuppone inoltre che il risultato del lavoro scientifico sia
importante nel senso di essere «degno di essere conosciuto». E qui hanno
chiaramente la loro radice tutti i nostri problemi. Infatti questo presupposto non può
essere a sua volta dimostrato con i mezzi della scienza. Può essere soltanto
interpretato nel suo senso ultimo, che si dovrà poi respingere oppure accogliere a
seconda della propria presa di posizione ultima di fronte alla vita.
Questo è il nucleo del messaggio, del senso, della prospettiva di Weber questa qui è
detto in maniera molto stringata e nelle pagine che seguono le illustrerà
Assai diverso è inoltre il tipo di relazione del lavoro scientifico con questi suoi
presupposti, a seconda della loro struttura. Le scienze naturali come per esempio la
fisica, la chimica, l’astronomia, presuppongono come ovvio il fatto che le leggi ultime
dell’accadere cosmico – costruibili, fin dove arriva la scienza – siano degne di essere
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conosciute. Non soltanto perché con queste nozioni si possono raggiungere
successi tecnici, ma – se esse devono costituire una «professione» – «per se
stesse». Questo presupposto non è però assolutamente dimostrabile; e meno che
mai si può dimostrare se il mondo che esse descrivono sia degno di esistere, se cioè
abbia un «senso», e se abbia un senso esistere in esso. Questo esse non se lo
chiedono.
Qui la scienza dell'arte Weber intende l'estetica cioè la parte della filosofia che si
occupa delle teorie dell'arte
Il fatto che vi siano opere d’arte costituisce, per l’estetica, un dato. Essa cerca di
stabilire a quali condizioni questo fatto si presenti. Ma non si pone la domanda se il
dominio dell’arte non sia magari un regno di magnificenza diabolica, un regno di
questo mondo, e perciò nella sua profonda essenza opposto al divino e, nel suo
spirito profondamente aristocratico, contrario alla fratellanza. Essa non si chiede
quindi se debbano esservi opere d’arte. Oppure prendiamo la giurisprudenza: essa
stabilisce ciò che è valido secondo le regole del pensiero giuridico, in parte
logicamente cogente e in parte legato a schemi convenzionali; vale a dire, stabilisce
se determinate regole giuridiche e determinati metodi di interpretazione sono
riconosciuti come vincolanti. Non risponde alla domanda se debba esservi il diritto e
se si debbano stabilire proprio quelle regole; essa può indicare soltanto che, se si
vuol ottenere un risultato, questa regola giuridica costituisce, secondo le norme del
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nostro pensiero giuridico, il mezzo appropriato per conseguirlo. O prendete le
scienze storiche della cultura. Esse ci insegnano a comprendere i fenomeni della
cultura – politici, artistici, letterari e sociali – in base alle condizioni del loro sorgere.
Ma non offrono di per sé una risposta alla questione se questi fenomeni culturali
fossero e siano degni di sussistere; e neppure rispondono all’altra questione se
valga la pena conoscerli.
Weber non sta dicendo qualcosa di poco conto, scontato nel senso che nonostante
il tono che non è quasi mai enfatico sta prendendo di petto una tradizione specifica
tutta tedesca che è la tradizione della Bildung cioè sta dicendo noi diamo come
presupposto scontato che entrare in contatto con le grandi opere del passato formi
l'uomo sia la Bildung dell'essere umano
sta pensando a Schiller, a Goethe e in buona misura anche a Hegel e sta pensando
anche a quella tradizione che è presente tuttora, per esempio, in Italia del formarsi
immaginato con il contatto con i grandi monumenti in senso ampio del passato
non è che ci sia una dimostrazione scientifica dell'inesauribile valore per la vita
umana dei grandi classici del passato; non c'è nessuna dimostrazione scientifica che
questo funzioni, che questo migliori la vita
Soffermiamoci ancora sulle discipline che mi sono più vicine, e cioè sulla sociologia,
sulla storia, sull’economia politica e sulla dottrina dello stato, nonché su quelle forme
di filosofia della cultura che si propongono di darne un’interpretazione. Si afferma – e
io lo sottoscrivo – che la politica non si addice all’aula di lezione. Non vi si addice da
parte degli studenti. Vorrei deplorare, per esempio, che nell’aula del mio vecchio
collega Dietrich Schäfer a Berlino gli studenti pacifisti si affollassero intorno alla
cattedra e facessero un chiasso simile a quello che gli studenti anti-pacifisti devono
aver fatto nei confronti del professor Foerster, dal quale mi trovo quanto mai lontano
su molti punti nelle mie opinioni. Ma la politica non si addice neppure da parte del
docente: non si addice proprio quando questi si occupa di politica dal punto di vista
scientifico, e allora meno che mai. Infatti la presa di posizione politica pratica e
l’analisi scientifica di formazioni politiche e di partiti sono due cose differenti. Quando
uno parla della democrazia in una riunione popolare, non fa alcun mistero della
propria presa di posizione personale: anzi, prendere partito in modo chiaramente
riconoscibile è il suo dannato dovere, ciò a cui è tenuto. Le parole di cui si serve non
71
sono allora strumenti di analisi scientifica, bensì strumenti di competizione politica
nei confronti della presa di posizione altrui. Esse non sono un vomere per dissodare
il terreno del pensiero contemplativo, bensì spade contro gli avversari, mezzi di lotta.
Ma in una lezione o in un’aula sarebbe sacrilegio usare la parola in questa maniera.
Se vi si parlerà di «democrazia», per esempio, se ne presenteranno le diverse
forme, si analizzerà il modo in cui esse funzionano, si stabilirà quali conseguenze
particolari l’una o l’altra hanno sulle condizioni di vita, e poi si contrapporranno a
esse le forme non democratiche di ordinamento politico cercando di giungere fin
dove l’ascoltatore sia in grado di trovare il punto dal quale poter prendere posizione
in merito in base ai suoi ideali ultimi. Ma l’insegnante genuino si guarderà bene
dall’imporgli, dall’alto della cattedra, una qualsiasi presa di posizione, sia
esplicitamente sia con la suggestione – poiché il modo più sleale è naturalmente
quello di «far parlare i fatti».
si manipolano un po’ gli eventi storici portando in aula solo quelli a favore della
propria posizione; è così con una piccola aggiunta che è un escamotage retorico che
trovate in tutti i piazzisti di idee quando quello che si presenta viene detto ma non
vedete che le cose stanno così, cioè non è una mia opinione è che le cose mi dicono
che le mie idee sono giuste e che di solito che le vostre sono sbagliate; ed è un
metodo fortemente scorretto che può essere tollerabile in campagna politica perché
e un'altra cosa ma fatta da un docente universitario è quanto mai disdicevole
d'accordo perché chiunque studi un argomento sa che non sono i fatti a parlare cioè
se fosse così sarebbe tutto semplicissimo qualunque questione su cui ci si
accapiglia sarebbe risolvibile con un tratto di penna non è così e dirlo
Perché mai, precisamente, non dobbiamo farlo? Premetto che diversi tra i miei
stimatissimi colleghi sono del parere che questa auto-limitazione non possa venir
messa in atto e che, se anche lo fosse, sarebbe un capriccio evitare di prendere
posizione. Ora a nessuno si può dimostrare scientificamente quale sia il suo dovere
di professore universitario. Da lui si può pretendere soltanto l’onestà intellettuale di
riconoscere che la constatazione dei fatti, la determinazione di rapporti matematici o
logici o della struttura interna di beni culturali da una parte, e dall’altra la risposta alla
questione del valore della cultura e dei suoi contenuti particolari – e quindi del modo
in cui si deve agire entro la comunità civile e i gruppi politici – sono due problemi
assolutamente eterogenei. Se poi egli domanda perché non debba trattarli entrambi
nell’aula di lezione, gli si deve rispondere: perché il profeta e il demagogo non si
addicono alla cattedra universitaria. Al profeta e al demagogo è stato detto: «Esci
per le strade e parla pubblicamente».
Citazione biblica
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Parla, cioè, dov’è possibile la critica. Nell’aula di lezione, ove siede di fronte ai propri
ascoltatori, questi devono tacere e l’insegnante parlare, e io ritengo irresponsabile
approfittare della circostanza che gli studenti sono obbligati, per andare avanti, a
frequentare il corso di un insegnante e che qui a nessuno è concesso di
controbatterlo con la propria critica, non già per essere loro di aiuto – com’è suo
compito – con le sue conoscenze e le sue esperienze scientifiche, ma per inculcare
in essi la sua personale concezione politica. È certamente possibile che l’individuo
riesca solo in maniera insoddisfacente a nascondere le sue simpatie soggettive.
Allora egli si espone alla critica più spietata davanti al foro della sua propria
coscienza. E ciò non prova nulla, poiché anche altri errori puramente di fatto sono
possibili e nulla provano contro il dovere di cercare la verità. Io lo rifiuto anche e
precisamente nel puro interesse della scienza. Mi offro di provare, sulle opere dei
nostri storici, che ogniqualvolta l’uomo di scienza esprime il suo proprio giudizio di
valore, cessa la piena comprensione dei fatti. Ma ciò esula dal tema di questa serata
e richiederebbe lunghe considerazioni critiche. Io domando solamente: come può da
una parte un cattolico credente e dall’altra un massone – in un corso sulle forme di
chiesa e di stato o sulla storia della religione – come possono mai essere condotti a
un’eguale valutazione di questi argomenti? È escluso.
Quando Weber dice massoni non intende qualcosa di segreto e di nascosto parla
delle corporazioni massoniche che hanno una particolare storia di rapporto
conflittuale con le chiese
la domanda è se io, mettiamo il credente ma non deve essere per forza un credente
può essere anche qualcuno nutrito da una fortissima ideologia di qualunque tipo di
destra di sinistra se a me interessa soltanto la parte ideologica, allora la scienza non
73
ha valore perché se è un presupposto ultimo e non se ne può fare discussione in
ambito scientifico allora la scienza non ha senso
Questo è un passaggio molto importante, può sembrare una fine inattesa cioè stava
facendo un discorso neutro e poi rispunta una funzione etica dell'insegnamento
nelle pagine che seguono Weber si sofferma su questa possibilità e nonostante il
tono cerchi di essere sempre abbastanza neutro vedete quanto è sofferto perché
non sta parlando in generale sta parlando di suoi colleghi che andavano in classe
dicendo arruolatevi per la Germania oppure disertate, lasciate le vostre case e
diventate terroristi contro lo stato, siamo in piena Prima guerra mondiale; e un
qualcosa di molto più profondo
Finora ho parlato soltanto dei motivi pratici che consigliano di evitare di imporre una
presa di posizione personale. Ma non è tutto qui. L’impossibilità di presentare
«scientificamente» una presa di posizione pratica – eccetto nel caso della
discussione dei mezzi in vista di uno scopo presupposto come già dato – deriva da
motivi ben più profondi. Essa è priva di senso in linea di principio per il fatto che i
diversi ordini di valori che esistono al mondo stanno tra loro in una lotta
inconciliabile.
E qui Weber cita apostrofato come il vecchio Mill, John Stuart Mill uno dei padri del
pensiero liberale
Il vecchio Mill – la cui filosofia non intendo peraltro elogiare, ma che su questo punto
ha ragione – dice in qualche luogo: partendo dalla pura esperienza si perviene al
politeismo.
74
che cosa vuol dire che partendo dalla pura esperienza si perviene al politeismo, che
se si cerca di guardare con l'oggettività che ci è concessa da noi esseri umani che
siamo comunque di parte; ma se si cerca di non nascondersi le difficoltà di vedere la
realtà sotto un'unica cifra con un'unica chiave e se non si sceglie un solo Dio
d'accordo però per interpretare la realtà se si guarda la realtà in questo modo il
risultato più comune è quello di un politeismo dei valori
È un'espressione famosa di Mill perché è una delle radici del liberalismo classico che
cerca di disinnescare il possibile conflitto tra gli individui a partire dalle loro idee,
riconoscendone non la relatività assoluta, cioè non che qualunque cosa va bene, ma
che si si può accettare una eterodossia nelle negli ideali e nella composizione degli
ideali
Qui sono i due paesi in guerra e c'era il lunghissimo dibattito cultura tedesca e
civilizzazione francese quindi non è che sia un riferimento casuale
Anche qui si combattono tra di loro dèi diversi, e ciò per ogni tempo. Avviene come
nel mondo antico, non ancora sottratto all’incanto dei suoi dèi e dei suoi demoni, ma
soltanto in un altro senso: come i Greci sacrificavano ora ad Afrodite e ora ad Apollo,
e soprattutto ognuno agli dèi della propria città, così è ancor oggi, che ci siamo
disincantati e spogliati della veste mitica, ma intimamente vera, di
quell’atteggiamento. Su questi dèi e nella loro lotta domina il destino, non certo la
«scienza». È possibile solamente comprendere che cosa sia il divino nell’uno e
nell’altro caso, vale a dire nell’uno e nell’altro ordinamento. Ma con ciò la questione è
assolutamente preclusa a qualsiasi discussione in un’aula di lezione e da parte di un
professore, anche se naturalmente non è affatto risolto l’enorme problema di vita che
vi è racchiuso. Qui però hanno la parola potenze diverse dalle cattedre universitarie.
Chi vorrà mai provarsi a «confutare scientificamente» l’etica del Sermone della
Montagna, per esempio la massima: «Non resistere al male», oppure l’immagine del
porgere l’altra guancia? Eppure è chiaro che, dal punto di vista intra-mondano, qui si
predica un’etica della mancanza di dignità: si deve cioè scegliere tra la dignità
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religiosa, che questa etica comporta, e la dignità virile, che predica qualcosa di ben
diverso: «Resisti al male, altrimenti tu sei corresponsabile del suo prevalere».
Dipende dalla propria presa di posizione ultima che questo sia il diavolo e quello il
dio, e l’individuo deve decidere quale sia per lui il dio e quale il diavolo.
E così avviene per tutti gli ordinamenti della vita. Il grandioso razionalismo della
condotta di vita metodica, che scaturisce da ogni profezia religiosa, aveva
detronizzato questa pluralità di dèi a favore dell’«unico dio che ci occorre» e poi si è
visto costretto, di fronte alle realtà della vita esteriore e interiore, a scendere a quei
compromessi e a quelle relativizzazioni che tutti conosciamo dalla storia del
Cristianesimo. Ma ciò è oggi «realtà quotidiana» per la religione. Gli antichi dèi,
spogliati del loro incanto e perciò in forma di potenze impersonali, si levano dalle loro
tombe, aspirano a dominare sulla nostra vita e ricominciano la loro eterna lotta. Ma
ciò che proprio all’uomo moderno è tanto difficile, e sommamente difficile alla
giovane generazione, è essere all’altezza di una tale realtà quotidiana. Tutto
quell’affannarsi in cerca dell’«esperienza vissuta» deriva da questa debolezza. Infatti
è debolezza non poter guardare al volto severo del destino del tempo.
Weber parla in chiave metaforica cioè non è che pensi che Zeus si risvegli e
pretenda dei sacrifici
Ma il destino della nostra cultura è appunto quello di essere diventati di nuovo più
chiaramente consapevoli di ciò, dopo che per un millennio l’orientamento esclusivo –
vero o presunto – verso il grandioso pathos dell’etica cristiana aveva abbagliato i
nostri occhi.
Weber sta dicendo una cosa abbastanza semplice ma enormemente gravosa, nel
momento in cui non abbiamo più per il processo di disincantamento del mondo la
rete di sicurezza di una qualunque ideologia che giustifichi ogni aspetto della nostra
vita
non parliamo della religione in quanto religione da teologi parliamo della religione in
quanto fatto sociale; in questo la religione non era affatto differente dall'etica
rivoluzionaria degli enciclopedisti francesi che parlavano di religione laica o dal
marxismo rivoluzionario o da un positivismo molto stretto perché sono tutte ideologie
che vi dicono com'era il mondo e come voi vi dovete comportare nel mondo e sono
deterministiche se voi farete questo ottenete questo e coprono tutti gli aspetti della
vita perché hanno uno e un solo senso dell'esistenza, dell’esistenza del mondo
dell'esistenza delle relazioni sociali
76
Quello che dice Weber e no in realtà no il nostro tempo ci dice che il nostro destino è
quello di non poter più credere non individualmente, non come convincimento ultimo
ma come forma di moneta sociale a una qualunque ideologia; in questo senso che
rispuntano i vecchi dèi, è in questo senso che dice non c'è più il monoteismo di una
volta che poteva essere quello religioso, ma poteva essere quello di una qualunque
altra ideologia, bensì la pluralità delle divinità e quindi dei possibili ideali, delle
possibili interpretazioni dell'esistenza reclamano la loro dignità non come qualcosa a
cui aderire totalmente ma come qualcosa da guardare in faccia e da soppesare
individualmente
Qui Weber sta parlando di qualcosa di un pochino più intimo
Il fatto che le nostre conoscenze, il sapere per usare la terminologia di Weber il
processo di disincantamento a cui abbiamo sottoposto anche gli ideali ci fa dire che
no è chiaro che poi intimamente si sceglierà però che cosa abbiamo per fermare il
lavorio del dubbio sulle nostre scelte
In questo Weber e radicale la scienza non ci viene in aiuto casomai c'è un'etica
proprio nel rispetto della pluralità della realtà attraverso la cattedra universitaria e in
questo senso è una forma di etica verso una realtà che è non lasciandosi ingabbiare
da una e da una visione e una soltanto deve poter essere trasmessa come tale a
alle nuove generazioni senza appiattirla in una visione presentata come convalidata
dai fatti che ci parlano però proprio per questo non è una posizione relativistica a
cuor leggero no è sì decidi ma le conseguenze sono enormi
la cosa è assieme più intima e dà conto della nostra esistenza
la visione del sapere che ha Weber è profondamente diversa da quella che aveva
Nietzsche ma questa considerazione della realtà deve moltissimo a un paragrafetto
di umano troppo umano il primo volume; questo paragrafo è il ventitreesimo ed è
intitolato l'età della comparazione
sorgere del di una sensibilità che Weber cerca di irreggimentare in Nietzsche come è
senza redini è molto viscerale
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che si offrono alla comparazione; esso ne lascerà morire la maggior parte cioè tutte
quelle che saranno rifiutate da tale sentimento. Allo stesso modo ha ora luogo una
scelta tra le forme e le consuetudini di moralità superiore, la cui meta non può
essere altro che la scomparsa delle moralità inferiori (in Nietzsche è uno dei suoi
punti forti). Questa è l’età della comparazione! È questo il suo orgoglio, — ma,
giustamente, anche la sua sofferenza (forme di vita differenti convivono una accanto
all'altra possiamo esperirle e questo è orgoglio della nostra epoca ma è un peso, una
sofferenza perché non abbiamo più le sicurezze) Non ci spaventiamo di questa
sofferenza! Al contrario comprendiamo il compito che l’età ci pone nel modo più
grande che possiamo (questo è esattamente il destino dell’epoca di Weber): per
quanto la posterità ci benedirà, — una posterità che si saprà altrettanto al di sopra
delle concluse civiltà originarie dei popoli quanto della civiltà del paragone, della
comparazione ma che guarderà con riconoscenza entrambe le specie di civiltà come
di antichità venerabili.
Questo testo del 1878 ed è una delle prime opere più mature dopo i lavori più
giovanili
non è una filiazione diretta; non è che Weber commenti Nietzsche anche perché le
sensibilità sono molto diverse; però il tipo di diagnosi della cultura è molto simile;
della cultura e dei modi di vita e della cultura senso ampio e sono visioni quella di
Nietzsche e quella di Weber che in qualche modo vogliono evitare in modi differenti il
nichilismo europeo dell'epoca; perché l'altra possibilità nel vedere tutto questo
crogiuolo di cose differenti e dire niente ha senso ed è una tradizione specifica
quella del nichilismo europeo soprattutto di quegli anni
ne Weber ne Nietzsche anche se in maniere differenti vanno in questa direzione, in
una direzione del nichilismo o in una direzione di un relativismo indifferentista però
entrambi hanno fortemente coscienza del tramonto di una possibilità di giustificare
razionalmente scelte ultime e valori ultimi
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Lezione del 27 ottobre
il contatto di Weber con una sensibilità che seppure non diffusa capillarmente era
però abbastanza condivisa ed è la sensibilità di vivere un periodo senza precedenti
di crisi sia di quella che viene chiamata identità europea, sia crisi del sapere, della
conoscenza a cui la l'Europa aveva fatto affidamento
Questa crisi deriva da diversi fattori in cui il più eclatante è la prima guerra mondiale
Weber risente anche di una percezione derivante dal fatto che il mondo diventava
sempre più piccolo l'aumento degli scambi, una minore difficoltà nei trasporti, negli
spostamenti di cose e di persone comportò nell'arco dell'Ottocento prima e poi
all'inizio del 900 una facilità di dialogo, di conversazione con modi di vita, ideali,
valori differenti
questa conferenza avviene un mese dopo l'instaurazione del primo paese che si
riconosceva come comunista, che si diceva comunista e che abbatte la nobiltà russa
che è quella zarista; che estromette la possibilità della libertà di culto, cioè è la prima
volta che avviene una cosa del genere in Europa
l'Europa vide tantissime guerre di religione anche tra le più cruente ma erano
sempre delle guerre di religione che non escludevano la possibilità del sacro; l'unica
parentesi ci per alcuni aspetti similari durante i pochissimi momenti del terrore
giacobino della rivoluzione francese; per quanto significativa, per quanto impattante
dal punto di vista culturale, politico e umano la evoluzione francese è una rivoluzione
che a parte rientrare molto rapidamente all'interno del regime napoleonico quindi
concludendosi in maniera profondamente diversa non era un progetto il governo era
un progetto dirompente in cui si fa la dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino
in cui c'è la religione laica, una vera e propria liturgia laica quel momento venne
ricordato per più di un secolo come l'unico momento in cui il i nostri territori
ripudiano la religione
non era un ripudio della religione ma era un ripudio della ricchezza o della vicinanza
al potere della Chiesa dell'epoca
I rivoluzionari perseguitarono i cristiani o i cattolici ma casomai il prete che non dava
da mangiare al popolo
Per un sociologo come fu Weber il vedere una prospettiva puramente libresca
com'era il comunismo, una vera e propria teoria politica e filosofica come sia il
capitale di Marx e sia il libro di riferimento del partito comunista di Marx ed Engels
vederla realizzata come prospettiva politica, istituzionale e assistere a un qualcosa
che cambiava l'identità stessa dell'essere umano interpretato in chiave europea
per gli ascoltatori dell'epoca tedeschi vedere delle persecuzioni e l'abbattimento di
una religione perché oppio dei popoli era qualcosa da cui difficilmente si poteva
prescindere
weber aveva introdotto questo termine che stride tantissimo con la riflessione
precedente disincantata è legata quasi soltanto a delle osservazioni che non si
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spostano neanche sul versante assiologico cioè di dover essere di morale, di etica
bensì soltanto dal punto di vista di analisi della situazione
parlare invece di destino della nostra epoca è tutt'altro registro
Infatti l’errore che muoverebbe una parte dei nostri giovani se a ciò volessero
rispondere «già, ma veniamo a lezione per fare un’esperienza vissuta che non si
riduca ad analisi e a constatazioni di fatto» – l’errore sarebbe quello di cercare nel
professore qualcosa di diverso da ciò che sta loro di fronte, cioè una guida e non un
insegnante. Ma noi sediamo in cattedra solamente in qualità di insegnanti. Si tratta di
due cose ben differenti, e di ciò possiamo convincerci facilmente. Permettetemi di
condurvi ancora una volta in America, poiché là queste cose si possono spesso
vedere nella loro più tangibile originarietà.
Non entra ancora in argomento; qui le sta dicendo qualcosa di pre critica cioè le sta
dicendo: per capire meglio il nostro il nostro contesto guardo questo stesso aspetto
da un'altra parte perché lì riesco ad osservare queste cose nella loro più tangibile
originarietà
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Questo fa sì che per molti sociologi e per Weber gli Stati Uniti non avendo un peso
eccessivo della storia e della tradizione che può essere nutritivo ma può essere
anche soverchiante, schiacciare il cambiamento potevano attribuire ruoli, delle
funzioni che fossero unicamente fondate su quello che serviva loro perché potevano
emanciparsi maggiormente da quello che erano state in altri momenti e che magari
tenderebbero a restare più per forza d'inerzia che per reale utilità
Ed effettivamente gli Stati Uniti si danno delle istituzioni che riecheggiano quelle
europei per molti aspetti ma attribuiscono delle funzioni che in Europa non sarebbero
mai state attribuite
Pensate al diritto. La funzione della giuria vuol dire emanciparsi totalmente dal diritto
romano non è un passaggio mentale fortissimo cioè non è riconoscere la legge
incarnata nel magistrato ma riconoscere l'amministrazione della legge e la pena
amministrata da tuoi pari a cui tu parli e che vengono coordinati da un'altra persona;
è proprio un'altra idea di società cioè vuol dire siamo una comunità certo che serve
qualcuno che amministri la giustizia ma poi la decisione me la danno non le persone
che hanno fatto un percorso di studi e che se volete sono per la mentalità americana
una casta i magistrati, i giudici
Non c’è in senso stretto il valore legale del titolo di studi negli stati uniti
Noi abbiamo per le scuole secondarie di secondo grado e per l'università quello che
viene chiamato il valore legale del titolo di studio; sono titoli che abilitano a
professioni o ad altri percorsi uguali in tutta Italia e non possono essere legalmente
considerati in maniera diversa negli stati uniti no
Il giovane americano non ha rispetto per nulla e per nessuno, per nessuna tradizione
e per nessun ufficio, all’infuori che per la prestazione personale: questa è ciò che
l’Americano chiama «democrazia».
Non essendoci il peso della storia il professore tedesco che sale in cattedra e si fa
rispettare perché è in cattedra e non per quello che dice negli Stati Uniti non l’aveva
nemmeno presa
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Per quanto la realtà possa comportarsi pur sempre in maniera distorta in rapporto a
tale contenuto di senso, esso è però questo, ed è ciò che qui ci importa.
Dell’insegnante che gli sta di fronte il giovane americano ha quest’opinione: egli mi
vende le sue conoscenze e i suoi metodi in cambio del denaro di mio padre, così
come l’erbivendola vende a mia madre il cavolo. Tutto qui. Tuttavia, se l’insegnante
è per esempio un campione di football, allora è in questo campo anche una guida.
Ma se non lo è (o se non è qualcosa di simile in altri sport), egli è appunto solo un
insegnante e nulla più, e a nessun giovane americano verrà in mente di farsi
vendere da lui delle «intuizioni del mondo» o delle regole direttive per la sua
condotta di vita. Ora, così formulata, noi respingiamo una posizione siffatta. Ma
dobbiamo domandarci se in questo modo di sentire, che ho intenzionalmente spinto
all’estremo, non si annidi un nocciolo di verità.
Oscar Wilde è prossimo a Weber e il confronto con gli Stati Uniti; è di taglio
comparativo ma la scelta degli Stati Uniti oltre alle ragioni di natura scientifica
rispondeva anche ad un'altra cosa che allora era tipica per gli ascoltatori perché gli
Stati Uniti erano un banco di prova un po’ della cultura europea e un po’ di
un'osservazione politico-istituzionale a partire da Tocqueville che scrive sulla
democrazia americana, ne dà un'immagine importante ragionando sulle diverse
forme di governo legate ai popoli e da allora gli intellettuali una delle cose che faceva
era leggere gli Stati Uniti con le lenti della cultura europea se
Oscar Wilde mescola delle osservazioni serie a cose che fanno molto ridere siccome
Oscar Wilde fu un autore di aforismi c'è n'è uno che recita: “gli Stati Uniti sono l'unico
paese ad essere passato dalla barbarie della preistoria, alla decadenza senza
passare per la civiltà”; coglie alcune cose degli Stati Uniti
Fratelli d’armi e sorelle d’armi! Voi venite alle nostre lezioni con la pretesa di trovare
in noi qualità di capi, e non pensate che, di cento professori, almeno novantanove
non pretendono e non potrebbero pretendere di essere non soltanto campioni di
football della vita, ma neppure in generale «guide» nelle faccende della condotta
della vita. Riflettete: il valore dell’uomo non dipende certo dal fatto di possedere
qualità di guida. E in ogni caso le qualità che fanno di qualcuno uno studioso illustre
e un insegnante universitario non sono quelle stesse che ne fanno una guida sul
terreno dell’orientamento pratico della vita o, più specificamente, della politica. È un
puro caso che qualcuno possegga anche questa qualità, ed è quanto mai pericoloso
che qualcuno, stando in cattedra, si senta esposto alla pretesa di possederla. E
ancor più pericoloso, poi, è quando a ogni insegnante universitario viene data facoltà
di comportarsi in aula come una guida. Infatti coloro che ritengono di esserlo più
degli altri lo sono spesso meno di tutti; e soprattutto lo stare in cattedra non offre in
proposito alcuna possibilità di conferma. Il professore che si senta chiamato a fare il
consigliere dei giovani e goda della loro fiducia, dovrà porsi di fronte a essi in un
rapporto personale da uomo a uomo. E se si sente chiamato a intervenire nelle lotte
tra le intuizioni del mondo e tra le opinioni di partito, dovrà farlo al di fuori, sul
mercato della vita: nella stampa, nelle assemblee, nei circoli, dove gli pare. Ma è
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troppo comodo dar prova del proprio coraggio di credente là dove i presenti, e
fors’anche coloro che la pensano diversamente, sono condannati al silenzio. Voi mi
porrete infine la domanda: se così stanno le cose, che cosa offre allora propriamente
la scienza di positivo per la «vita» pratica e personale? E con ciò ritorniamo al
problema della scienza come «professione». In primo luogo, naturalmente, la
scienza offre conoscenze relative alla tecnica per dominare razionalmente la vita, gli
oggetti esterni al pari dell’agire dell’uomo: ebbene, con ciò siamo pur sempre – voi
direte – al punto dell’erbivendola del ragazzo americano. Questa è precisamente la
mia opinione.
Ma in secondo luogo offre qualcosa che questa erbivendola non può dare: i metodi
del pensiero, l’attrezzatura e la formazione in vista di quello scopo. Direte forse che,
se questi non sono le verdure, non sono tuttavia più che il mezzo per procurarsele.
Bene, lasciamolo per oggi da parte. Ma fortunatamente la funzione della scienza non
è ancora finita; noi siamo in condizione di aiutarvi a conseguire un ulteriore risultato:
la chiarezza. Naturalmente a patto di possederla noi stessi. Se questo è il caso,
possiamo illustrarvelo: rispetto al problema del valore, di cui di volta in volta si tratta
– vi prego di riferirvi come esempio, per semplicità, ai fenomeni sociali – si possono
assumere praticamente diverse posizioni.
Ora questi mezzi possono essere di per sé tali che voi crederete di doverli
respingere. Si deve allora scegliere appunto tra lo scopo e i mezzi indispensabili. Lo
scopo «giustifica» questi mezzi oppure no? L’insegnante può mettervi davanti la
necessità di questa scelta, ma non può fare di più, finché vuole rimanere un
insegnante e non diventare un demagogo. Egli può naturalmente ancora dirvi: se
volete questo o quell’altro scopo, allora dovete mettere in conto questa o quell’altra
conseguenza concomitante che si verifica in conformità all’esperienza; è di nuovo la
medesima situazione. Tuttavia questi sono pur sempre problemi del genere di quelli
che possono presentarsi anche a ogni tecnico, il quale deve decidere in
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innumerevoli casi secondo il principio del minor male o del meglio relativo. Ma per lui
una cosa, quella principale, è di solito data: lo scopo. Non è questo però il nostro
caso, non appena siamo di fronte a problemi realmente «ultimi». E con ciò siamo
giunti alla funzione ultima che la scienza in quanto tale può assolvere al servizio
della chiarezza, e al tempo stesso ai suoi confini: noi possiamo – e dobbiamo –
anche dirvi che questa o quest’altra posizione pratica può essere derivata con
coerenza interna e quindi con serietà, per quanto riguarda il suo senso, da questa o
da quell’altra fondamentale concezione del mondo – magari da una soltanto, o forse
anche da più, ma non mai da questa o quell’altra.
Lui dice se io come docente nelle scienze sociali ma anche in altri campi, posso
illustrarvi, posso avere la responsabilità di condurvi alla chiarezza anche per vedere
le conseguenze di alcune azioni, oppure di alcune prese di posizione ma posso farlo
in alcuni ambiti dando per scontate le scelte che si fanno rispetto agli scopi in un
insegnamento prettamente tecnico in ambito sociale non è così lo scopo che ognuno
di noi si prefigge può essere discordante, può essere anche opposto in questo senso
questo tipo di scelte sono rette non soltanto da una questione disciplinare ed
evidente e quindi argomentabile, razionale ma riposa su quello che Weber chiama i
convincimenti ultimi
Sta dicendo la chiarezza può voler dire anche che a partire dallo scopo, dalla
conclusione che vi proponete è responsabilità del docente illustrarvi quali siano le
concezioni del mondo dietro quelle decisioni, dietro quegli scopi ultimi, magari
possono anche diverse a confluire e a supportare quel tipo di decisione, ma è mia
responsabilità a dirvi che due magari concezioni non possono essere tenute nello
stesso nello stesso percorso che porta a quella decisione
Se vi risolvete per questa presa di posizione, voi servite questo dio – per parlare
metaforicamente – e offendete quell’altro. Infatti, se rimanete fedeli a voi stessi,
pervenite necessariamente a queste e a quest’altre conseguenze ultime dotate di
senso. Questo si può fare, almeno in linea di principio. Questa funzione è assolta
dalla disciplina speciale della filosofia e dalle discussioni di principio, per loro
essenza filosofiche, delle discipline particolari. Possiamo quindi, se comprendiamo
bene il nostro compito (il che dev’essere qui presupposto), costringere l’individuo, o
per lo meno aiutarlo, a rendersi conto del senso ultimo del suo proprio operare.
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Le due cose per Weber sono direttamente consequenziali cioè se io non vi do una
visione del mondo giusta e una soltanto, non vi condiziono a pensare anche
indirettamente che quella visione del mondo sia giusta e che l'altra sia sbagliata
giusta o sbagliata intendo eticamente, moralmente; il discorso che invece posso fare
è dirvi i vostri scopi ultimi, i vostri ideali ultimi sono tutti giusti o sono tutti sbagliati
non è compito mio dirvelo ma se avete questo ideale, questo ideale ha le sue radici
in questa concezione del mondo e ha inevitabilmente queste conseguenze per la
storia, per le storie sociale, per le storie politiche; quest'altro ideale ha quest'altra
filiazione serve un altro Dio e ha delle altre conseguenze
Essere consapevoli dei contesti di provenienza e di appartenenza
Es. si può essere patrioti senza esseri nazionalisti ma se io mi definisco patriota o mi
definisco nazionalista servo due dei differenti e nessuno può definirsi nazionalista e
per il rispetto di tutti i popoli perché è una bestialità dal punto di vista culturale,
storico, logico quindi se lo dico o mi sto ingannando o sto ingannando gli altri
la responsabilità del docente per Weber per il professore universitario che si occupi
di politica o che sia di questioni vicine alla politica non è dirvi il nazionalismo è
sbagliato e dirvi se al nazionalismo unite il rispetto degli altri popoli è un errore
perché non funziona cosi, non ha mai funzionato così non ha nella sua radice questo
eccetera
è come se qualcuno dicesse io sono per un'economia liberale ma la mia visione
degli dell'economia liberale e che e tutti debbano avere di che vivere nella stessa
maniera non è così; ci può essere un pensiero liberale anche volto ad aiutare gli
ultimi ma non che tutti debbano avere nella stessa maniera anche perché è contrario
alla radice stessa dell'idea di liberalità in economia
Posso dimostrargli storicamente culturalmente e anche logicamente che cosa
comporta quella adesione, dove si fonda quel pensiero questo ma a scegliere
sceglie lui e non sono io a giudicare le scelte altrui in classe non all'esterno;
all’esterno posso pensare a quello che voglio ma me lo tengo per me, ma in classe
non posso avere un atteggiamento diverso a o condannare la scelta di qualcuno
compiuta nella legalità
nell'ambito delle scelte legali il ruolo dell'insegnante non è quello di guidare perché
guidereste sempre con la vostra testa non con la testa degli altri e diventa discorso
profondamente differente
in questo senso per Weber le due cose non sono in contrapposizione; Weber pensa
nel rigore, nella chiarezza, nella serietà della propria funzione posso mostrarvi che
cosa significa al suo tempo vedere la Germania come riferimento del mondo, vuol
dire fare la guardia a quegli altri non vuol dire bearsi delle proprie tradizioni e si porta
dietro altre conseguenze inevitabilmente
Questo non mi sembra troppo poco, anche per la vita puramente personale. Se un
insegnante riesce in questo compito sarei tentato di dire che si è messo al servizio di
potenze «etiche»: del dovere di promuovere la chiarezza e il senso di responsabilità;
85
e credo che sarà tanto più capace di assolvere tale funzione quanto piú
coscienziosamente evita da parte sua di imporre o di suggerire all’ascoltatore una
presa di posizione. Questa impostazione, che qui vi ho prospettato, muove
certamente da un dato di fatto fondamentale: che la vita, in quanto poggia su se
stessa e deve essere compresa in base a se stessa, conosce soltanto l’eterna lotta
reciproca di quegli dèi – cioè, fuor di metafora, l’inconciliabilità e quindi l’insolubilità
della lotta tra i punti di vista ultimi possibili in generale di fronte alla vita, vale a dire la
necessità di decidere tra di essi.
Faust
Ciò non nel senso dell’atto di nascita, ma nel senso che, anche di fronte a questo
diavolo, se si vuol farla finita con lui, non vale ricorrere alla fuga, come oggi avviene
così volentieri, ma bisogna scrutare bene fino in fondo le sue vie per vedere la sua
potenza e i suoi confini.
la lotta o lo stigma non degli intellettuali in quanto persone cioè non del singolo
intellettuale ma di una visione intellettualistica dei problemi è un tipo di critica che
periodicamente spunta quasi sempre nella nostra cultura, in altre culture no perché
hanno un rapporto diverso col sapere ma da noi succede spesso ed è contrapporre
un sapere teorico ad una consapevolezza pratica e torna periodicamente nella
nostra cultura
86
o un elemento della meditazione di saggi e di filosofi sul senso del mondo – è
certamente un dato di fatto imprescindibile della nostra situazione storica, al quale,
se vogliamo restare fedeli a noi stessi, non possiamo sfuggire. E se di nuovo insorge
in voi Tolstoj e vi domanda «Chi può rispondere, dato che non lo fa la scienza, alla
domanda: che cosa dobbiamo fare? e come dobbiamo dirigere la nostra vita?»,
oppure, nel linguaggio che abbiamo usato questa sera «Quale degli dèi in lotta
dobbiamo servire? o forse qualcun altro, e chi mai?», allora occorre dire che la
risposta spetta a un profeta o a un redentore.
Se questo non c’è o se il suo annuncio non è più creduto, non lo indurrete certo a
scendere su questa terra per il fatto che migliaia di professori, in veste di piccoli
profeti retribuiti dallo stato o privilegiati, tentino di usurparne il ruolo nelle loro aule di
lezione. Potrete soltanto ottenere una cosa, cioè che non coglierete mai nella sua
piena importanza il fatto decisivo che il profeta, che tanti della nostra più giovane
generazione invocano, non c’è.
In questo è radicale Weber non sta parlando dal punto di vista religioso non gli
compete; la questione è il che fare, cioè, qualcuno che vi dica come comportarvi
razionalmente non per fede se ci si sposta nel campo della fede nessun discorso
della scienza come professione ha senso
87
nell’Orfismo, nel Parsismo, nel Buddhismo, nelle sette induistiche, nel Taoismo, nelle
Upaniṣad e naturalmente anche nel Giudaismo.
88
Meno che mai, poi, un’altra scienza. Al contrario, in ogni teologia «positiva» il
credente giunge al punto in cui vale la massima agostiniana: credo non quod, sed
quia absurdum est.
Ho fede in questo aspetto della mia religione non perché non lo sia ma perché è
assurdo
89
il presupposto ultimo affonda in una scelta individuale che ha conseguenze, che
appartiene a delle sfere di divinità diverse ma che non hanno una spiegazione
ultima, razionale perché se fosse la sola semplice ragione ad amministrare la nostra
vita tutta forse di misurabile con la ragione le cose sarebbero molto più semplici
non può essere spiegato dalla ragione e quindi va accettato
può spiegare perché lei crede in questo, può spiegare perché le sembri più sensato
più umano ma quando dice più umano dipende da che concetto ha dell'essere
umano
è per questo che Weber in un momento di crisi dell’Europa la contrapposizione tra
visioni differenti o porta al conflitto, conflitto aperto, insolubile oppure si accetta una
pluralità di punti di vista e ci si sposta sul piano delle conseguenze, dei portati che
hanno determinate scelte ma in chiave che si quella è razionale e scientifica ed è
volta alla chiarezza alla serietà e alla consequenzialità delle azioni
90
Lezione del 2 Novembre
Allora eravamo nel momento del discorso di Weber in cui la questione dei valori, la
questione della razionalità dell'argomentazione e quindi l'attribuzione a chi sceglie di
far la scienza come professione di professare la scienza nella sua vita era attribuito il
compito di mostrare la catena che dai convincimenti ultimi poteva arrivare alle scelte
o al contrario dalle scelte, dalle posizioni risalire in maniera consequenziale ai valori
ultimi
era la questione del politeismo dei diversi dei, chi viene servito; era giunto al
momento delicato e dedicato ancora oggi dell'inghippo di questo discorso, cioè di
risalire da scelte ai valori ultimi e viceversa, l'inghippo rappresentato dalla religione
perché la religione pone una cesura in qualunque razionale ricostruire una catena
decisionale
nel momento in cui si crede qualcosa perché si crede e basta ma perché si crede
per fede tutto questo fa fuoriuscire il discorso dal binario razionale il che non vuol
dire che non sia un discorso ammissibile perché parlando di valori ultimi ve l'ha già
detto Weber non c'è una spiegazione razionale del valore stesso ultimo però la
religione questo rappresenta in maniera plateale
le ultime pagine sono dedicate proprio a questo delicatissimo momento non soltanto
di dialogo, scontro, dialettica tra fede e ragione ma anche ad una sorta di vero e
proprio accorato appello di Weber e che risulta essere ancora vibrante anche
dell'incertezza di quel momento
91
forte vitalità; mentre nei secoli precedenti soprattutto 1700 e 1800 queste tradizioni
erano viste come tradizioni che allontanavano gli individui o dalla società o dalla
ragione; dalla ragione soprattutto nell'illuminismo dalla società soprattutto
nell'ottocento
All'inizio del 900 questa dimensione che noi diremmo misticheggiante è stata
riscoperta in maniera molto forte, il che non vuol dire che tutti gli studi sulla mistica
di quel periodo fossero tendenziosi o artefatti però c'era un clima in cui invece di
vedervi l'elemento fortemente religioso vi si vedeva l'elemento di slancio individuale
anche se mistico
l'inizio del 900 ha accentuato questi aspetti del misticismo cioè l’esperienza molto
partecipata ed è una tendenza che poi a per esempio era in qualche modo presente
anche nei diari dei soldati della seconda guerra mondiale
la Seconda guerra mondiale è stata la prima guerra in cui parte dei militari che
andavano nel fronte e si drogavano però l'esperienza veniva narrata in questa
maniera come slancio come
92
È il destino della nostra epoca, con la razionalizzazione e l’intellettualizzazione a
essa propria, e soprattutto col suo disincantamento del mondo, che proprio i valori
ultimi e piú sublimi si siano ritirati dalla sfera pubblica per rifugiarsi nel regno
oltremondano di una vita mistica o nella fratellanza delle relazioni immediate tra gli
individui. Non è accidentale che la nostra arte piú elevata sia intima e non
monumentale, né che oggi soltanto all’interno delle comunità piú piccole, nel
rapporto da uomo a uomo, nel pianissimo, pulsi quel qualcosa che corrisponde a ciò
che un tempo pervadeva come un soffio profetico, in forma di fiamma impetuosa, le
grandi comunità, e le teneva insieme.
sta dicendo invece di inventarvi religioni ma penso lo intenda più come delle sorte di
idealismi diciamo se sentite questa esigenza di affidarvi a qualcosa di cui fidarvi
rivolgetevi alla chiesa cioè le religioni che già esistono che sono consolidate che
vengono vissute largamente mi misericordiosamente aperte; quindi dà questa
immagine positiva piuttosto che andarvi a impelagare in un qualcosa che non sapete
dove vi porterà e che non avendo basi profonde magari vi porta a fare baggianate
Più che far baggianate qualunque ideologia nasca senza una profezia; fuor di
metafora qualunque ideologia non sia autentica cioè non sia nata nei secoli con la
gestazione propria delle chiese e che quindi perde perdono ovviamente le loro punte
Il cristianesimo prima di diventare quello che è stato ha passato a fil di spada legioni
di infedeli però perduto come tutte le grandi ideologie o chiese; cioè nel momento in
cui ci si afferma si lotta l'infedele il problema è che lo fanno quasi tutte le ideologie
quando nascono e non è che se nascono più tardi poi non lo fanno
Più che baggianate è che e che fate disastri ed era quello che era successo anche
con lo stato nazionale che fino a quando era un elemento di coesione europeo
funzionava dopodiché quando diventò da patriottismo puro e semplice nazionalismo
si porta con sé il fatto che tu voglia invadere la Polonia e prendere lo spazio vitale
che ti serve per vivere
93
A chi non si è in grado di sopportare virilmente questo destino della nostra epoca
esattamente quello che vi diceva Nietzsche sulla comparazione mi diceva questa è
la sua forza la sua bellezza il fatto di essere l'epoca della comparazione ma è anche
la sua sofferenza e che occorre scegliere a chi non è in grado di sopportare il
disincantamento del mondo e di vedere le cose come stanno allora è meglio che
affidi se stesso e la sua sorte riguardo ai convincimenti ultimi in porti sicuri
94
Nel 1917 quando non c'era ancora stata né la soluzione finale, né la persecuzione
sistematica degli ebrei già però Weber riusciva a intravedere quello che poi sarebbe
successo e d'altronde la questione di Dreyfus datava già qualche anno
ai miei occhi si pone anche, sta parlando della religione al di sopra di quella profezia
dalla cattedra che non si è resa ben conto del fatto che entro l’aula di lezione
nessun’altra virtú ha valore al di fuori, appunto, della semplice onestà intellettuale.
Questa, l'onestà intellettuale, ci comanda di mettere in chiaro che oggi tutti coloro i
quali vivono in attesa di nuovi profeti
forse si rifà al fatto che i suoi colleghi come ha già anticipato nel corso del testo cioè
stanno prendendo posizioni su ambiti che lui ritiene invece debbano essere neutri
nel momento in cui si insegna cioè io vi do gli strumenti per capire il mondo e le varie
ideologie però non vi indirizzo ad una determinata ideologia anche se voi avete
bisogno di aderire a qualcosa quindi forse sta riprendendo questo brancolamento nel
buio tipico della sua epoca però sta approfittando anche per fare una critica ulteriore
diciamo a chi prende posizioni e approfitta di questa situazione per invece
rispondere in maniera inadeguata alle richieste che gli avevano
la questione era che non è che non ci fosse risposta è che la l'attesa era strutturale
si doveva rimanere vigili in attesa della risposta quello che Weber rimprovera e che
questi forzano la risposta cioè vogliono la risposta c'è l'hanno e invece di attenderla
invece di aspettare invece di sputare nell'oscurità il baluginare di una possibile luce
forzi la risposta e esci dall'attesa esci dalla razionale della razionale sospensione
propria dell'intelletto che si può affidare ma non perché ha la parola ultima di
sicurezza perché se avessi una parola ultima di sicurezza sarebbe una profezia, una
rivelazione un qualcosa di mistico ma non è quello che riguarda la scienza
Questo tema della risposta è un tema centrale in tutta la Bibbia tant'è che il uno dei
racconti uno tra i racconti brevi più suggestivi di Franz Kafka è il guardiano del
cancello in cui la dinamica è più o meno la stessa è un tizio che va villa fino al
guardiano del cancello gli chiede di poter entrare nel cancello il guardiano nega
sempre e lui aspetta tutta la vita e non c'è la fa più e desiste il guardiano diceva
allora se desisti devo dirti che questo cancello è stato creato soltanto per te e solo tu
potevi attraversarlo ma visto che non attraverserai chiudo e me ne vado ed è
ovviamente per Kafka un destino cosmologico che riguarda gli esseri umano ma è la
tradizione ebraica è la terra promessa che non c'è mai il popolo errante
la parte in cui lui afferma che chi decide di intraprendere il percorso della scienza
come professione deve magari descrivere le varie ideologie senza prendere una
posizione e quindi la responsabilità dell'educare e del trasmettere il sapere e
quant'altro sta non nel cercare di creare un mondo giusto ma nel cercare di creare
un mondo consapevole
sì per due ragioni per Weber perché c'è troppa disparità tra usando la sua
terminologia tra chi in cattedra e chi non lo è e se io tollero che invece di spiegare
95
educhi nel senso deteriore del termine cioè formi, voi come fate o mi date carta
bianca e allora mi credete sulla parola ma io vi posso mostrare una cosa e non tutto,
posso sottilmente ingannarvi posso anche non farlo posso anche farlo in buona fede,
posso farlo perché io ho una percezione limitata di quegli argomenti e quindi tendo a
ripeterla e nessuno Stato neanche la Prussia precedente e poi la Germania
seleziona i docenti per questo
Non siamo selezionati per trasmettere delle ideologie o dei convincimenti che
possano dirimere le questioni o i dubbi tra diverse scelte possibili di vita non è la
nostra funzione e sarebbe sinceramente sarebbe agghiacciante
sì sicuramente quello che lei ha detto è vero il puntare sulla consapevolezza e
tuttavia il termine consapevolezza rimanda per Weber, più che consapevolezza e
chiarezza perché la consapevolezza di solito almeno nel nostro vocabolario è un
qualcosa di individuale; la chiarezza è esterna, la chiarezza la posso anche ridare a
qualcun altro mentre Weber sposta il discorso proprio sull'elemento interpersonale
dell'insegnamento, io mostro vi faccio vedere e facendo vedere e mostrando
ovviamente mi apro alla contestazione se io convinco non mi apro la contestazione
il testo di Cassese e un testo molto breve, molto agile davvero molto didattico
affronta queste cose attraverso una duplice completezza una competenza storico
istituzionale e una competenza invece di natura ovviamente giuridica
Per Cassese come anche per Weber si tratta di capire quali sono i lineamenti, le
coordinate le condizioni di possibilità degli intellettuali oggi come oggi
È un testo critico anche un testo che vuole essere critico; che vuole prendere una
posizione riguardo alla tematica di cui sta parlando; vi offre un brevissimo spaccato
della storia del degli intellettuali cioè da quando nasce questo termine, come viene
utilizzato inizialmente per poi spostarsi direttamente sulla contemporaneità
l'unica parte un pochino tirata via, ed è una questione generazionale, è il ruolo dei
dei mezzi di comunicazione digitali, social network eccetera che non è una parte
sufficientemente tratteggiata mentre è chiaro che abbiano un ruolo oggi anche nella
definizione di intellettuale molto molto forte
l'intellettuale non è il né lo scienziato, la scienziata; né in altro modo il politico, la
politica; l'intellettuale è quel ruolo, quella figura in cui un uomo o una donna che
possono avere un ruolo politico, possono avere un ruolo scientifico decidono di fare
quello che Weber consigliava di fare a chi voleva prendere una posizione, dismette il
mantello tra virgolette del suo ruolo cioè non si fa né politico, né studioso, né
studiosa e sceglie di confrontarsi con gli altri alla pari nel momento in cui prendo la
parola se voglio essere un intellettuale, se voglio fare lo studioso faccio lo studioso
andrò in TV o sui social media a dire qualcosa di prettamente scientifico ma quello
non è fare intellettuale fa il divulgatore
96
l'intellettuale ha un'altro approccio è anche un ruolo che fin dall'inizio è impegnato
socialmente
nella nostra tradizione l'intellettuale a differenza dello studioso, della studiosa si
distingue da questi perché prende posizione è esattamente il contrario di quello che
Weber dice nella scienza come professione, cioè l’intellettuale è intellettuale proprio
perché prende posizione sennò sarebbe lo studioso
esattamente come per Weber e lo vedremo per Cassese ciò che è deprecabile è
quando le due figure non riescono più a distinguersi cioè quando lo studioso sulla
cattedra inizia a fare l'intellettuale con la forza della cattedra e quando l'intellettuale
invece fa l'intellettuale ma mantandosi della neutralità della scienza d'accordo
ne va del rapporto educativo no ne va del dell'atto educativo in tutte le sue
dimensioni in cassese ne va l'atto educativo in società
Dall'ottocento la coscienza europea è passata anche attraverso il dibattito
intellettuale che si è svolto al di fuori del sistema di istruzione nazionale, Weber vi
parla del sistema nazionale d'istruzione e Cassese vi parla del lagone pubblico
entrambi mettono paletti differenti perché differenti sono le figure
97
Lezione del 3 Novembre
il testo di Cassese intellettuali è pubblicato nella collana parole contro tempo del
mulino che è una collana pensata per intervenire nel dibattito contemporaneo
il testo è il più semplice che avete in programma e per me rappresenta una buona
cerniera tra Weber e Esposito perché in Weber i due elementi scomposti nei due
testi di Cassese e Esposito sono presenti entrambi però in maniera molto più
agglomerata quando Weber parla della scienza come professione parla insieme
dell'istituzione universitaria e dello studioso; parla dello studioso nella sua veste di
studioso e quindi di professore, di persona che sale in cattedra e parla anche
dell'intellettuale nel momento in cui dismette i vasti del professore può partecipare al
dibattito pubblico
in Cassese il riferimento alle istituzioni è molto rapido perché si concentra invece
sulla figura dell'intellettuale diversamente
Esposito si dedica e specificamente alla questione delle istituzioni
Esposito è un filosofo quindi un minimo più di articolazione del discorso dal punto di
vista concettuale c'è
il primo paragrafo del primo capitolo del testo è intitolato sono tempi bui
I. tempi bui
Tempi bui sia per gli intellettuali, sia per i mezzi di cui si valgono per farsi ascoltare.
Se «uno vale uno», l'uno vale l'altro, non c'è differenza tra il sapiente e l'ignorante.
Se tutti possono dialogare con tutti, se Internet dà voce a due terzi degli abitanti del
pianeta, se i media tradizionali (one to many), di cui di solito gli intellettuali si valgono
per raggiungere il proprio pubblico, sono in crisi, chi ascolta gli intellettuali?
Dobbiamo rassegnarci al trionfo degli apedeuti, come veniva chiamato nella Francia
dell'illuminismo chi, non capace o non incline a seguire un corso severo di studi,
congiura a screditare il sapere, così facendosi un merito della propria ignoranza? Si
può ritenere che la figura dell'intellettuale sia ancora riconosciuta? Gli intellettuali
sono ascoltati o messi ai margini?
quando Cassese dice questo, lui lo fa in molto rapida, divulgativa in realtà dietro
buona parte degli argomenti che tratta Cassese c'è un'ampia bibliografia
contemporanea
sono due i temi pedagogicamente rilevanti: il primo elemento è la crisi delle del degli
esperti, ci sono tanti testi soprattutto negli Stati Uniti sul su questo; il secondo tema è
quello della perdita della mediazione
il primo la crisi degli esperti tanti ragioni e la conseguenza delle condizioni a
contorno attuali comunicative, politiche, sociali fa sì che l'autorevolezza della voce
98
esperta perda di spessore e questo lo vedete in tutti i campi veramente e in tutti i
paesi occidentali e ed è la prima volta nel corso della nostra civiltà occidentale che
succede una cosa del genere cioè che l'esperto o la esperta x di un tema non registri
una maggiore autorevolezza sociale rispetto a quel tema; diverso discorso è che i
politici non rilancino invece la voce o la posizione degli esperti rispetto a ad altre voci
d'accordo
Questo è un fenomeno molto interessante dal punto di vista educativo perché la
scuola, l'istruzione in generale si basa sul ruolo dell'autorevolezza degli esperti
quindi se socialmente si riceve un input che va in direzione diametralmente opposta
è una situazione complicata
la mediazione: una parte della storia della pedagogia soprattutto nel 900 ha riflettuto
sul ruolo di mediazione di una figura educativa in senso ampio di educazione e di
istruzione quindi sia nel sistema formale, sia in quello informale, sia in quello non
formale quale sia il ruolo di mediazione proprio della figura X tra chi apprende e i
contenuti che sono oggetto di apprendimento
nel caso di chi media non c’è una semplice e mera trasmissione dei però se non c'è
una mera trasmissione dei contenuti allora qual è il ruolo di mediazione, quanto
interviene sul contenuto, cosa sceglie, come lo sceglie eccetera eccetera
se il dibattito è stato ampio sulla figura di mediazione sul modi lo spessore eccetera
quello che era avvenuto molto raramente è che la mediazione in quanto tale fosse
considerata negativa
Cassese parla anche di quello che avviene in società, quindi si riferisce tanto al
contesto che oggi definiremo colto, ma anche ad una percezione sociale che l'autore
ha
In questo caso non è soltanto una percezione di Cassese il ricorso a fonti personali e
dirette invece che a una mediazione consapevole è molto diffusa come approccio e
questo però pone tanti problemi tante questioni educative che non sono né risolte né
affrontate in maniera sistematica
Ad esempio molto spesso nelle scuole vengono dati dei compiti che prevedono
anche una ricerca online da fare perché si educa anche alle fonti però questo è un
qualcosa che deve essere educato cioè il riconoscimento di fonti autorevoli, ciò che
invece non è autorevole ciò che è casuale ecc.… per fare questo un tempo c'era il
mediatore cioè colui o colei che si poneva tra voi e ciò che volete apprendere, ciò di
cui volete parlare questa figura è fortemente in crisi un po’ perché ognuno può
cercare quello che vuole e un pochino perché vi sono comunità, persone che si
pongono non come mediatori bensì come veri e propri megafoni di cose
il ruolo sociale dei social media è un ruolo sociale enorme e la scuola ma che si
abbia la coscienza che i contenuti che vengono proposti a persone che vivono in
quel mondo si rivolgono è necessario quindi questo è il quadro in cui queste
domande di cassese acquistano senso
99
Non c'è dubbio che il trionfo dei populismi nutra il rifiuto degli intellettuali.
L'atteggiamento populista e le forze politiche che lo suscitano o lo coltivano sono
fondati su un falso egualitarismo che, a seconda dei casi, o dichiara di poter fare a
meno degli intellettuali, spesso accusati di avere tradito le aspettative popolari, o li
relega in una posizione in- feriore, oppure ne fa un uso strumentale. Si ripete un
fenomeno tipico di tutti i momenti di crisi, come quello degli anni '30 del secolo
scorso. Nel 1935 lo storico olandese Johan Huizinga lamentava il «generale
indebolimento del raziocinio», l'«immane demenza dell'ora nostra», il «tramonto
dello spirito critico», l'«atrofia della coscienza intellettuale» e segnalava il fenomeno
per cui «i freni critici vengono meno».
Huizinga, un autore che ha dedicato anche degli scritti al gioco, Homo Ludens
Nel 1999 due psicologi della Cornell University, David Dunning e Justin Kruger,
hanno messo a punto un'interpretazione, denominata ora «effetto Dunning-Kruger»,
per cui più si è ignoranti, più si ha fiducia di non esserlo. Si tratta di una sovrastima
legata all'assenza di conoscenza del proprio pensiero, alla mancanza di
autoriflessione, all'assenza di metacognizione. A questo si aggiunge quello che
l'economista Israel Kirzner ha chiamato «vincolo dell'ignoranza pura inconsapevole»
(quando non sappiamo di non sapere ciò che non sappiamo).
E di questo provate amplia dimostrazione nel nostro paese nel dibattito pubblico più
o meno di qualunque tema in particolare sulla scuola, sull'istruzione è uno dei temi
che più vengono affrontati da tutti con una strana credenza di fondo, siccome sono
andato a scuola posso parlare di scuola
100
non funziona esattamente in questo modo che se si frequenta un ambiente allora se
ne può parlare si può parlare della sua struttura, delle riforme, dei metodi di
insegnamento si studia come per tutte le cose e poi si parla
Ebbene, questa è una delle cause della diffusione delle tendenze anti-
intellettualistiche, che non riconoscono il valore della competenza e persino la
deridono. Diffusissimo è anche quel circolo vizioso per cui tante persone cercano
soltanto conferme a ciò che già sanno o credono, prigioniere di un vizio cognitivo, il
confirmation bias, per cui tendono a muoversi entro un ambito delimitato dalle loro
convinzioni acquisite, vogliono che risulti vero ciò in cui credono, concentrandosi su
ciò che conferma loro conoscenze, speranze o timori, senza obiettività o distacco.
Es. se voi siete convinti che l'acqua della pioggia non bagni siete fate una ricerca
online le prime 31 pagine di risultati che vi dicono che no effettivamente la pioggia
bagna poi c'è un risultato 1 di tutte le ricerche che ritiene che la pioggia non bagni
ebbene quella viene presa come una conferma delle proprie idee
l'elemento formativo della valutazione con il giudizio e non con il voto numerico ci
sono studi che sono concordi il voto di per sé non dice nulla dipende da come lo si
viene utilizzato da tante cose ma è molto più efficace il giudizio descrittivo perché ha
un valore formativo e perché si sottrae ad alcune dinamiche proprie del voto
numerico mentre col voto numerico si può fare ma poi occorre avere un giudizio
descrittivo sia e comunque pone la questione della dell'uniformità ed è il motivo per
cui il voto è poco efficace ieri un personaggio ministeriale ha dichiarato alle scuole
primarie occorre al voto numerico perché il giudizio genera confusione
tuttavia il problema esiste perché poi perché poi non aveva ragione Cartesio non è
vero che il penso e dunque sono esistono anche persone che non pensano e sono
lo stesso ecco
Secondo l'americano Tom Nichols, vi sono molte altre cause di questa «morte della
competenza». In primo luogo, la mercificazione dell'istruzione superiore, con la
diffusione di false università, la concezione dello studente come un cliente da
soddisfare, l'aumento del numero dei corsi di insegnamento che è facile superare,
l'inflazione dei voti agli esami.
101
In secondo luogo, l'irrilevanza degli intellettuali pubblici, la cui voce diventa sempre
più flebile, mentre aumenta la fiducia acritica nell'oracolo elettronico Google.
Non intende che Google ci dice le cose Google fa la ricerca e noi ci affidiamo a
quella ricerca però in questo caso non è colpa di Google, Google non vi dice che
quelli sono gli elementi più importanti sono quelli che cercate voi perché le ricerche
sono profilate
In terzo luogo, l'affidamento in ciò che si è letto sui giornali o ascoltato alla radio
(quest'ultima, poi, dà anche a tutti la possibilità di esprimersi su tutto, aumentando
l'autostima dell'incompetente). In quarto luogo, l'esplosione dei social, che spingono
alla reazione immediata, senza far pausa, ascoltare, riflettere, assorbire, digerire.
L'epidemia dell'ignoranza non produce effetti soltanto sulla società. Essa mina anche
la democrazia, che ha bisogno del rapporto esperti-cittadini. La democrazia è
fondata sull'uguaglianza politica, per cui i voti di tutti sono uguali. Ma l'uguaglianza
davanti alla legge non vuol dire che i cittadini siano realmente uguali. Uguaglianza
dei diritti non significa, in altre parole, uguaglianza dei talenti o delle conoscenze. Le
élite, i competenti, sono un ingrediente critico essenziale della democrazia.
quando Cassese parla invece del rapporto élite, conoscenza, democrazia è molto
mirato
Del resto il rifiuto della competenza e l'affermazione che l'uno vale l'altro, e cioè che
l'uomo comune non si distingue da chi sa, è contraddetta da coloro che la
sostengono. Questi non possono non riconoscere, nella vita di ogni giorno, un posto
particolare a ogni portatore di un sapere o di un saper fare, per istituire, ad esempio,
quelle che vengono chiamate comunemente ed erroneamente «task force». Alla
base di queste affermazioni sbagliate c'è un errore di fondo, quello di mescolare
uguaglianza dei punti di partenza con uguaglianza dei punti di arrivo. La circostanza
che tutti siano uguali alla partenza non significa che vi sia uguaglianza anche nei
punti di arrivo, perché c'è chi si ferma, chi prende altra strada, chi non è retto dalle
sue forze. Inoltre, l'anti-intellettualismo populista dimostra quanto poco
autenticamente populi- ste siano le forze politiche che propugnano un tale punto di
vista, perché non si tratta di annullare l'élite intellettuale, ma di fare in modo che tutti
possano accedervi. E che dire degli intellettuali stessi, metà dei quali apprezza, metà
critica gli intellettuali, quando non concorre a suscitare l'anti-intellettualismo?
Accanto al filosofo americano Michael Walzer, sostenitore dell'intellettuale
generalista che scende dalla montagna e diviene critico sociale, e al filosofo italiano
Norberto Bobbio, ammiratore dell'intellettuale mediatore, il cui metodo di azione è il
dialogo razionale (ascolto dell'interlocutore, messa in questione della propria verità,
apertura verso l'altro), si levano le voci di un Julien Benda, critico delle passioni
politiche dell'intellettuale che schierandosi tradisce il suo compito, di un Noam
102
Chomsky, contestatore degli intellettuali asserviti ai potenti, di un Richard A. Posner,
indagatore del declino della figura dell'intellettuale, e di un Alberto Asor Rosa, che si
chiede se siamo dinanzi alla liquidazione delle forme tradizionali della cultura o
all'esaurimento della funzione intellettuale tout court.
Alberto Astor Rosa era professore di letteratura italiana alla Sapienza interprete
artefice del 68 della Sapienza
Insomma, «non bisogna lasciar giocare gli intellettuali con i fiammiferi», come
iniziava una bella poesia di Jacques Prévert? In conclusione, il rifiuto degli
intellettuali, da una parte, e il loro silenzio o la critica dell'intellettualismo, ritenuto
anacronistico, dall'altra, privano la società di un lievito essenziale, quello dell'opera
intellettuale, che promuove il «mercato delle idee», coltiva la consapevolezza sociale
della propria storia, rende meno asfittiche le proposte della politica.
La bibliografia è ragionata
Nicholson ha pubblicato nel 2017 questo testo che si chiama la morte delle
dell'expertise e
Cassese non vi elenchi soltanto i testi ma dica anche quali sono i temi all'interno dei
testi o degli articoli
II Chi è l’intellettuale?
«Intellettuale» era inizialmente un aggettivo. Si può dire che sia diventato un
sostantivo alla fine dell'800, a opera del notissimo scrittore francese Émile Zola.
Questi scrisse il 13 gennaio 1898 sul giornale «L'Aurore» un editoriale che riempiva
l'intera prima pagina, intitolato l'accuse, diretto al presidente della Repubblica
francese Félix Faure, per denunciare pubblicamente le malefatte a danno del
capitano Alfred Dreyfus. A questa vicenda, che si chiuderà soltanto dopo la morte di
Zola, si deve l'uso moderno della parola e con questo l'individuazione di una figura
sociale, l'intellettuale.
103
Alfred Dreyfus accusato di tradimento preso come capro espiatorio dall'esercito e dal
governo francese, in realtà scelto lui come capro espiatorio mandato anche in esilio
perché ebero e quindi facilmente identificabile come il traditore
Epicuro una delle massime è stai nascosto cioè stai lontano dalla società
Intellettuale non è neppure l'uomo di scienza chiuso nel suo campo di studi o nel suo
settore disciplinare, prigioniero di un solo metodo. Max Weber, noto per i suoi ampi
interessi, dichiarò una volta, a chi gli ricordava la necessità di seguire le norme del
suo campo disciplinare, «non sono un asino, non ho un campo». Lo stesso può dirsi
del metodo. Con-duce a conclusioni ridicole l'idea che l'economista studi con metodo
economico, il giurista con metodo giuridico, il sociologo con metodo sociologico,
perché non vi sono divisioni metodologiche rigide e spesso è proprio dalla
confluenza di più metodi che discendono innovazioni disciplinari importanti (si pensi
sol- tanto all'importanza delle analisi statistiche epidemiologiche per il progresso
della medicina).
104
Ciò non significa in nessun modo che il Cassese stia criticando la specializzazione è
il passo successivo che sta criticando cioè il fatto che poi ci si confini a pensare
unicamente in maniere già codificate anche perché altrimenti non avrebbe citato
Weber che della specializzazione non parlava male
L'intellettuale non porta a un pubblico più vasto soltanto il suo sapere disciplinare. È
uno specialista, ma non scrive e non parla solo della sua specialità. Le competenze
sono concatenate, non restano in un recinto (anzi, il premio Nobel per l'economia
Friedrich von Hayek ha scritto che «nessuno può essere un grande economista se è
solo un economista»), possono essere interconnesse, e anche messe in discussione
dagli incompetenti, rispetto ai quali i competenti hanno l'obbligo di spiegare, perché
c'è un punto, nel mondo più vasto di quello della scienza, dove competenza e
democrazia si incontrano, e quindi la competenza deve poter esser messa in
discussione, e il competente deve accettare la sfida e non chiudersi nel suo guscio,
facendo valere solo i suoi titoli. Anzi, la spiegazione deve poi ampliarsi e diventare
educazione. Ed è per questo che l'intellettuale è impegnato innanzitutto in un'attività
di riflessione in pubblico e di istruzione del pubblico in generale. Qui sta la sua
attitudine multiforme, che lo fa uscire dal suo campo strettamente specialistico. Dopo
aver detto quel che un intellettuale non è, si possono passare in rassegna le qualità
che l'intellettuale deve avere. La prima sua dote è «l'istinto esplorativo»
(un'espressione nata in antropologia), perché suo compito è di dare il «senso delle
possibilità» (Robert Musil), indicare le realtà non ancora nate, far sentire la «musica
dell'anima inquieta» (Eugenio Montale).
Robert musil è l'autore dell'uomo senza qualità uno dei romanzi più importanti del
900
i tre romanzi del 900 ritenuti canonicamente indispensabili sono l'uomo senza
qualità, l’Ulisse di Joyce e la ricerca del tempo perduto di Proust
l'uomo senza qualità gioca proprio sulla duplicità del concetto di essere con qualità
ed essere senza qualità come essere polimorfi e quindi adattabili a più possibilità e
quindi in questo senso il senso delle possibilità
La seconda dote è quella di saper affrontare o scendere a patti con il passato, per
trarne una lezione per il presente (i tedeschi, che hanno dovuto fare i conti con il loro
passato nazista, si riferiscono a questo con la parola composta
Vergangenheitsbewältigung). Infatti, «noi camminiamo su orme, e tutta la vita non è
che un riempire di presente le forme mitiche originarie» (Thomas Mann),
approfittando delle grandi eredità che ci offre il passato.
105
La terza dote è la funzione cosmopolita. In un mondo che ha accorciato o annullato
le distanze, grazie agli aerei e a Internet, chi abbia un'esperienza puramente
nazionale non riesce neppure a comprendere e valutare i movimenti d'idee nazionali.
Ciò accade per due motivi: in primo luogo, perché, per vedere e comprendere i
fenomeni, è necessario sia conoscerli da dentro, sia poterli osservare da fuori; in
secondo luogo, perché la comparazione favorisce la comprensione.
il filo rosso della comparazione come metodo conoscitivo attraversa tutta la nostra
cultura e ha Il primo passo compiuto da Weber e qui viene posta come condizione di
uno sguardo capace di leggere i fenomeni
Il trattao di versailles 1919 è quello che pone fine aalla prima guerra mondiale
106
porta ad una facilità di sviluppare un'attitudine all'attenzione e se lo faccio in età
infantile è un habitus
l'altra cosa uguale che fotografa proprio quello che dice Cassese la Svezia elimina il
i supporti digitali delle scuole è falsa nel senso che il progetto precedente della
Svezia per la scuola dell'infanzia 3 6 anni era di eliminare i giochi e le risorse che
non fossero digitali e di passare tutto in digitale per le scuole primarie i testi; l'attuale
governo svedese che il primo governo svedese ad essere di centrodestra ha detto
no noi osteggiamo questa norma e vogliamo che il libro sia presente assieme alle
risorse digitali; il governo tra l'altro non ha fatto una norma per ora
I letterati sono stati tra gli intellettuali più impegnati, perché spesso ispirati all'idea di
«alternare studi di critica letteraria ed esame di problemi morali»: queste sono parole
di Luigi Russo, critico del «Don Abbondio della vita politica ed accademica» e
dell'«accademico prudente e serioso». Bisogna anche, però, abbandonare l'idea che
gli intellettuali siano solo i «litterati», perché possono giocare il ruolo di intellettuale
107
anche il medico, il giornalista, l'editore, il parroco. Come ha osservato Antonio
Gramsci, che ha tradotto in italiano una questione che travagliava la più accorta
cultura europea, quella dei clercs, «tutti gli uomini sono intellettuali [...] ma non tutti
gli uomini hanno nella società la funzione di intellettuali». Il quid proprium
dell'intellettuale è indicato con chiarezza proprio da Gramsci. Consiste «nel me-
scolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, "persuasore
permanente"». L'intellettuale si rivolge, con lo scritto o la parola, a un pubblico più
vasto degli specialisti del suo settore o della sua disciplina, disposto ad ascoltarlo.
scriveva che questi sono «una categoria generica di soggetti di cui si può cogliere la
funzione e - quando esiste - la coscienza soltanto in relazione al loro contesto socio-
culturale e soltanto nel momento in cui tale relazione è attiva».
108
l'educazione ai media data la prima decade del millennio dalla fine degli anni 90
c'era l'idea che i mezzi di comunicazione dovessero essere i mezzi di comunicazione
One to One dovessero essere oggetto di attenzione ma poi già dal 2000 la cosa era
ampiamente diffusa il problema è sempre lo stesso noi abbiamo come classe
insegnanti quella più vecchia d’Europa e questo è un problema la seconda è che gli
aggiornamenti sono totalmente rapsodici e liberi e questo è un altro problema non
c'è nessuno scatto di carriera legato a valutazioni e questo è un altro problema
è difficile far passare nella sensibilità comune questo aspetto perché c'è una realtà
ampia di popolazione che tecnicamente rema contro
siamo il paese con il numero più basso di laureati in Europa e questo è un altro
problema perché un sistema di istruzione che viene frequentato per meno anni è
chiaramente un sistema di istruzione che poi ha meno un modo di intervenire e
formare i cittadini e dei cittadini del futuro
questo vi dà però perfettamente la presentazione di dove portano sia i convincimenti
personali che travalicano il buon senso sia la necessità, la convenzione di dover
rispondere immediatamente
109
Lezione del 10 novembre
Ma a che titolo e su quali temi parla? Se uno storico affronta problemi sociali, un
filologo classico il tema della democrazia, un fisico questioni di organizzazione della
ricerca, cioè se un esperto si esprime su materie che non rientrano nel suo campo
diretto di studi, a che titolo parla, visto che non è legittimato a fornire la sua opinione
dagli studi compiuti? Non rischia di diventare un «tuttologo»? La risposta a questa
domanda è difficile.
Nello spazio pubblico, gli intellettuali portano sia un sapere specialistico, ma in forme
accessibili, sia un'attitudine alla ricerca, alla ragionevolezza, al dialogo, anche ove
necessario una «vis polemica».
Una forza
Hanno, quindi, titolo a essere ascoltati per il loro impegno nel dibattito pubblico, in
quanto portino teorie, punti di vista, pensieri nutriti dalla ragione. Devono tener conto
di un divario sul quale nel 1770 Edmund Burke richiamava l'attenzione nei suoi
Thoughts on the Cause of the Present Discontents: «è invero assai raro che gli
uomini si sbaglino nei loro sentimenti circa la mala condotta della cosa pubblica;
altrettanto raro che vedano giusto nel riflettere sulle sue cause [...]; la maggior parte
degli uomini, in fatto di politica, è in ritardo di almeno cinquant'anni».
Le riflessioni sulla causa del nostro scontento che è un'opera famosa perché che
guarda con sospetto a quello che poi sarà il l'ottocento l'avvento della società di
massa
110
Burke diceva in una società che sta rifiutando l’elitismo dell'ancien regime che è già
tramonta però il problema è che l’elitismo aveva un vantaggio che per entrare a far
parte dell’élite culturale di un paese c'era una selezione brutale e poi alla fine
effettivamente emergevano i migliori erano pochissimi ma non ci si faceva problema
a buttar fuori chi era meno che eccellente per il semplice fatto che tanto non è che
sta fuori dalla vita sociale o pubblica però è chiaro che la questione è diversa una
società massificata più complicato
Detto questo in generale, bisogna poi distinguere, come faceva Norberto Bobbio,
secondo il quale gli intellettuali si dividono in due principali categorie, gli «ideologi» e
gli «esperti». I primi «elaborano principi in base ai quali un'azione si dice razionale in
quanto conforme a certi valori proposti come fini da perseguire». I secondi,
«suggerendo le conoscenze più adatte per raggiungere un determinato fine, fanno sì
che l'azione che vi si conforma possa dirsi razionale secondo lo scopo».
111
quello che vi sta dicendo Bobbio è quello di Weber cioè è il ruolo in cui l'intellettuale
fa il passo indietro e dice non è importante quello che io penso delle tue finalità, il
mio ruolo è chiarirti se quelle scelte che si compiendo sono razionali rispetto al
modello valoriale che tu hai che e la finalità che vuoi perseguire
un'ideologia può essere anche fortemente razionale
per esempio un'idea basata lo scientismo, una fede smodata nella scienza ha
tantissimi punti di forza che è difficile da scardinare da una persona che magari non
è molto all'interno delle epistemologie delle scienze contemporanee perché la prima
cosa che si dice non vedi quanti progressi abbiamo fatto negli ultimi vent'anni e
come fai a non credere fermamente in tutta la scienza
Direi a te come comportarti in base a quali principi regolare le tue azioni perché il
fine tanto te lo dò io, lo do per scontato, lo do per condiviso quello che si vuole ma
certamente non te lo chiedo perché l'ho già
Foucault è stato uno dei grandi intellettuali della Francia degli anni 70 soprattutto dal
68 in poi docente universitario, ma universitario sui generis perché non ha mai
insegnato veramente in università se non per una brevissima parentesi era
professore al college de France visse una vera e propria seconda giovinezza a
Barkley negli Stati Uniti
Foucault rappresenta perfettamente le contraddizioni dell’intellettuale
l'Iran uno dei paesi dell’area mediorientale, araba che prima degli altri si emancipò
da un ruolo preminente dell'islamismo no tant'è che in Iran all'inizio degli anni 70 la
rivoluzione del 68 dei costumi dopodiché per contrastare l'influenza occidentale e
statunitense su quel fazzoletto di territorio l’URSS appoggio il ritorno di quelli che
oggi definiamo talebani e in particolare con Khomeini perché Khomeini ha studiato a
Parigi
112
Per un sentimento radicato di antiamericanismo una parte dell'intelligentia e degli
intellettuali europei appoggio Khomeini; Foucault scrisse diversi articoli in appoggio
dell’islamismo di quelli islamismo radicale nel quale Foucault che era omosessuale
dichiarato secondo quella stessa ideologia doveva essere lapidato
Infischiandosene delle conseguenze per quel popolo un filosofo intelligentissimo,
coltissimo come Foucault che tutto aveva poche dei costumi morigerati; però
appoggi pubblicamente il regime di Khomeini
anche se in maniera differente il padre dell'esistenzialismo Sartre che appoggia
Stalin ed era stato ospite di Stalin in Russia perché era alternativa la Russia è
ancora l'alternativa e quindi l'ideologia aveva la meglio
Foucault e Sartre sono gli autori e i padri di alcune delle correnti filosofiche più
emancipatorie rispetto al singolo individuo; l'esistenzialismo la storia della sessualità
gli ultimi libri di Foucault cioè davvero emancipatori come abbozzi però a volte
l'ideologia alla meglio
113
i tre esempi più eclatanti in Italia di questa figura sono: Leon Battista Alberti scrive
uno dei trattati pedagogico belli del 400 i libri della famiglia; scrive dei trattati di
carattere architettonico; un altro trattato sulla pittura il de pictura; scrive opere teatrali
incredibili; opere letterarie incredibili e poi riesce a progettare e realizzare il tempio
malatestiano di perché era l'idea dell'uomo completo che quindi è sa tanto di
scienza, di arte, però anche di cose pratiche
in maniera differente Michelangelo poeta, scrittore, scultore, musicista mentre c'è
l'esempio di Da Vinci tutte queste figure poliedriche caratterizzano la nostra storia
la cosa fondamentale che questi intellettuali era di certo capaci di attraversare
discipline differenti e quindi interloquire con tante parti dell'allora classe
dell’intellettuale però tuttavia il pubblico era soltanto la testa individuale e non il
popolo
La data di nascita della figura, riconosciuta socialmente, può dirsi sia il 14 gennaio
1898, quando Georges Clemenceau chiamò a raccolta artisti, professori, scrittori per
firmare, sull’«Aurore», il Manifeste des intellectuels e schierarsi a fianco di Émile
Zola nel sostenere l'innocenza di Alfred Dreyfus. Da allora, hanno svolto la funzione
di intellettuali, di guardiani delle pubbliche virtù, tipi diversi di studiosi, uomini di
lettere, filosofi, più tardi, anche giuristi, politologi, sociologi, economisti, fino a
informatici come Bill Gates, chiamati alla ribalta dai tempi, in relazione ai problemi e
temi che divenivano predominanti nelle varie epoche e assurti anche a personaggi
letterari (basta pensare alle file di intellettuali che si trovano nelle opere gure di uno
scrittore a cavallo tra Oriente e Occidente come Ivan Turgenev). Più tardi, nella
tradizione socialista e comunista, gli intellettuali sono stati spesso considerati come
un ceto a sé, nell'espressione «operai, contadini e intellettuali». Alla base vi è una
definizione risalente ad Alfred Weber, degli intellettuali come una catego- ria
oscillante (freischwebende Intelligenz). Invece, il sociologo della conoscenza Karl
Mannheim ravvisava l'esistenza di un legame, dovuto all'educazione, mentre li
considerava in larga misura indipendenti dalle classi, «socialmente emancipati», con
la conseguenza di un'«instabilità sociale», ma anche di capacità di «mediazione
dinamica tra le varie concezioni in contrasto».
114
famiglia più o meno media ma che affronta il terremoto di casamicciola e finisce in
Abruzzo e gentile che invece è un corso studiorum molto più lineare e tranquillo
figure di intellettuali altissime che però hanno estrazioni di ceto differenti e che
neanche dopo essere diventati intellettuali apparterranno allo stesso cieto
Da buon lettore anche di Weber Cassese la prima cosa che dice è che comunque
una parte degli intellettuali nel mondo d'oggi viene dall'università e quindi si
seleziona anche attraverso il processo universitario
Negli ultimi vent'anni con molta più insistenza si ha un'immagine del reclutamento e
quindi del concorso universitario folle cioè nel senso che ci sono inchieste, denunce
quello che dice Cassese è fortemente vero di fatto molto spesso non molto spesso i
concorsi universitari sono una cooptazione con concorso cioè io voglio quello
studioso perché so che è bravissimo faccio un concorso in quell'ambito molto
probabilmente vince quella persona perché è davvero brava tant'è che in molti casi
sapendo che la persona è molto brava molte persone non si presentano
le comunità scientifiche si raggruppano piccoli ambiti se c'è qualcuno che ha un
allievo o una leva molto molto bravo che inizia a frequentare lo stesso circuito prima
che questa persona faccia un concorso
115
il sapere ha un elemento di aleatorietà ma non è possibile non conoscere qualcuno
che lavora sulle stesse tematiche perché il nostro lavoro è conoscere le
pubblicazioni su quella tematica
tutte le comunità scientifiche sostengono un rapporto maestro allievo poi può essere
più o meno forte è chiaro che già oggi è meno forte di un tempo
un rapporto di questo tipo nelle società intellettuali viene pensato come reciproca
influenza; è chiaro che la figura di riferimento è quella che ha l'obbligo di influenzare
le generazioni più giovani ma viene ritenuta necessaria e in qualche maniera dovuta
l’influenza delle nuove generazioni sul maestro, questo è alla base della filiazione
intellettuale nessuno pensa ad un rapporto soltanto in un senso dall'alto al basso di
perché altrimenti è lo stesso maestro che non cresce
È nel rapporto maestro-allievo che si trova la prima fucina di intellettuali. Questo poi
maturerà e si svilupperà in rapporti più complessi, la scuola, il gruppo di ricercatori,
la «squadra», il laboratorio, nei quali si verificherà anche la capacità di lavorare con
116
gli altri, di ascoltare e farsi ascoltare. La situazione presente è stata magistralmente
descritta dal latinista Ivano Dionigi: «Sono ragazzi in cerca di fratelli maggiori, di
padri, di maestri. Noi li abbiamo avuti e ci siamo addirittura permessi il lusso di
conte- starli e rimuoverli: con un antagonismo non privo di durezze, fallimenti e
deviazioni, che tuttavia ci ha consentito di restare vivi, inseriti nella realtà e partecipi
della causa comune. Loro, i maestri, i fratelli maggiori, i padri li cercano e non li
trovano; fanno parte per loro stessi e si allontanano in una lenta, silenziosa, invisibile
secessione».
non sono d'accordo con Dionigi perché secondo me questa cosa non può non tener
conto del fatto che l’università è cambiata perché altrimenti sembra che uno non
voglia essere un maestro di qualcun altro per cattiveria e poi un conto è essere un
uno studioso di latino a Pisa a Parma a Roma un conto era finire nella piccola
università di provincia anche di allora e cercare maestri perché anche allora c'erano
le differenze enormi tra le sedi universitarie e quindi anche possibilità di crescita
intellettuale a seconda dei casi
117
diverso il discorso è se io voglio parlare di educazione sui giornali lì se c'è un sentire
negativo rispetto a me non troverò mai spazio
A volte la censura entra anche nelle istituzioni ma anche semplicemente la difficoltà
che prendere la parola se non si è già efficaci ed efficienti o a meno che io non
faccia la dichiarazione eclatante che oggi è molto più facile da fare perché non c'è
bisogno che qualcuno la riconosca e quindi la pubblichi
perché propone un'ipotesi così tanto irreale ma che sicuramente accende un
dibattito e il dibattito di persone che si prendono a male parole fa audience il dibattito
di persone che sono posate su ipotesi che sono vicine ma si differenziano perché
inevitabilmente si differenziano non faranno mai audience
A livello appunto di formazione di una formazione di una coscienza collettiva italiana
che non vuol dire di un'uniformità dell'idea che gli italiani devono avere ma una
capacità di leggere quella cosa poi scrivere la propria opinione prima se non capisci
la situazione è difficile che tu scriva un'opinione che abbia qualunque
È un problema enorme per la scuola il distinguere un'opinione informata e
un'opinione non informata nel momento in cui tutto si equivale ed è molto difficile per
gli adulti figuriamoci per i ragazzi che non hanno neanche l'esempio dei mezzi di
comunicazione di trent'anni fa in cui quando c'era un diverbio acceso era epocale
come cosa perché di solito il reciproco riconoscimento tra le parti
anche la televisione utilizza, cioè, consuma i suoi personaggi
pensa che quelle persone credano davvero a quello che dicono e la bramosia del
sconvolgere il borghese erano le affermazioni che venivano fatte per rompere
l'ordine ricevuto
è sinonimo di una disonestà intellettuale enorme perché quello non viene detto dallo
studioso in quanto studioso, cioè, li smetti la tua statura di studioso e quindi quella di
opinionista che dice la qualunque ma non dipende dal tuo ruolo
può essere la mia opinione può essere qualunque cosa ma appunto è che accetti di
essere contestato su quello che dico un conto è che dica no voi non potete capire
perché i miei studi vi pare che voi capiate perché le cose stanno così; così si
dismette quell'abito che però non può valersi di quei titoli
questo vale ancor di più per l'istruzione quello che salta agli occhi per chiunque
guarda da un po’ di anni di dibattito e che a prescindere dalle posizioni che scelgono
di conseguenza si prendono a riferimento delle figure che nulla centrano col dibattito
sulla scuola ma parlano di scuola quindi se avrò un'idea progressista dell'istruzione
allora mi scelgo Montanari, barbero e questi che parlano di scuola; ho un'immagine
più fondata su una conservazione dello status quo allora scelgo Mastrocola eccetera
persone con la scuola e con il dibattito sulla scuola non c'entrano nulla e ovviamente
servono soltanto per ribadire le cose in cui voi credete ma non a darvi degli elementi
in più ma a dire in una maniera che sembra di auctoritas quello che voi pensate
delle idee che comunque non accettano cioè son così cioè le cose stanno così e
perché stanno così perché ve lo dico io
118
quello che vi dice appunto del anche della difficoltà di emanciparsi ad esempio dalla
censura o da un'egemonia culturale forte lo vedete in queste pagine
Sappiamo inoltre che, negli anni più recenti, gli intellettuali hanno perduto quei luoghi
di formazione e di aggregazione che erano le riviste generaliste (si pensi a
«Leonardo», «La Voce» e «Lacerba» nella prima parte del Novecento, nonché a «La
Critica» di Benedetto Croce, più tardi a «Società», sotto la direzione di Gastone
Manacorda e di Carlo Muscetta, e «Belfagor» di Luigi Russo).
119
Gl'intellettuali fascisti, riuniti in congresso a Bologna, hanno indirizzato un manifesto
agl' intellettuali di tutte le nazioni per spiegare e difendere innanzi ad essi la politica
del partito fascista. Nell' accingersi a tanta impresa quei volenterosi signori non
debbono essersi rammentati di un consimile e famoso manifesto, che, agli inizi della
guerra europea, fu bandito al mondo dagli intellettuali tedeschi: un manifesto che
raccolse, allora, la riprovazione universale, e più tardi dai tedeschi stessi fu
considerato un errore. E, veramente, gl' intellettuali, ossia i cultori della scienza e
dell' arte, se come cittadini, esercitano il loro diritto e adempiono il loro dovere con l'
ascriversi a un partito e fedelmente servirlo, come intellettuali hanno solo il dovere di
attendere, con l' opera dell' indagine e della critica, e con le creazioni dell' arte, a
innalzare parimenti tutti gli uomini e tutti i partiti a più alta sfera spirituale, affinché,
con effetti sempre più benefici, combattano le lotte necessarie. Varcare questi limiti
dell' ufficio a loro assegnato, contaminare politica, letteratura e scienza, è un errore,
che, quando poi si faccia, come in questo caso, per patrocinare deplorevoli violenze
e prepotenze e la soppressione della libertà di stampa, non può dirsi neppure un
errore generoso.
120
Lezione del 15 novembre
121
IV. I compiti degli intellettuali
Cassese lo dice subito non è un elenco esaustivo sono dei cenni a possibili degli
compiti intellettuali
Per quanto possa apparire strano, vi sono oggi nello spazio pubblico tante parole
che vengono caricate di un sovrappiù di significati e che finiscono per creare
aspettative, valori, ideologie: «popolo», «democrazia», «rappresentanza» sono solo
tre esempi. Bisogna, quindi, liberare le persone dall'esclavage de l'esprit che
discende da un cattivo uso del vocabolario.
Esclavage schiavitù
L'intellettuale non si dirige soltanto ai cultori della sua disciplina: deve quindi usare e
illustrare con cura le parole. Il secondo compito è quello di assicurare che i morti si
trasformino in antenati, cioè di aiutare una società a ricostruire nel modo più corretto
il proprio passato. Questo, come è noto, è ricostruito, reinventato nello spazio
pubblico. Gli stessi storici collaborano a questa opera: ogni storia è storia
contemporanea. È stato calcolato che quasi ogni generazione di storici ha riscritto la
storia della Rivoluzione francese. In Italia, ad esempio, sarebbe ora di accorgersi dei
molti tradimenti che sono stati fatti alla tanto accanitamente difesa e discussa
122
Costituzione del 1948, e che, al di là delle sue debolezze, c'è anche una
Costituzione dimenticata che andrebbe riscoperta.
Il terzo compito dell'intellettuale è quello scolpito da Ernest Renan nei suoi Souvenirs
d'enfance et de jeunesse: «L'essentiel dans l'éducation, ce n'est pas la doctrine
enseignée, c'est l'eveil». Questo vale anche per il compito dell'intellettuale che si
rivolge al pubblico. Bisogna far pensare, mettersi tra gli anywhere, coloro che
guardano il mondo da tanti punti diversi, perché sono troppi i somewhere, quelli che
guardano il mondo da un solo posto.
Uno scrittore ha spiegato perché non leggesse i giornali: perché illustrano le «cose»,
senza far intendere il «senso delle cose». I giornali registrano quello che accade
ogni giorno, non quello che è accaduto per molti altri giorni e continua ad accadere,
e che per questo non è una novità, ma non è meno importante di quello che è
accaduto il giorno prima. Ecco il quarto compito dell'intellettuale, fornire una
prospettiva, spiegare quel che sta sullo sfondo, permettere di capire in quale
direzione ci si muove, illustrare i significati, tradurre il linguaggio di una tradizione
culturale nel linguaggio di altre tradizioni, o fare affermazioni autorevoli che arbitrano
controversie di opinioni (queste due ultime sono le funzioni indicate dal sociologo
polacco Zygmunt Bauman). Il quinto compito è quello dell'«uso pubblico della
ragione» di fronte «all'intero pubblico dei lettori». Sono le espressioni usate da
Immanuel Kant, al quale ha fatto eco Benedetto Croce: «Come intellettuali hanno il
solo dovere di attendere, con opera dell'indagine e della critica [...] a innalzare [...]
tutti gli uomini e tutti i partiti a più alta sfera intellet- tuale». In questa veste,
l'intellettuale deve far vedere quel che è lì da tanto tempo, ma che nessuno nota
perché è consueto; così, epifanizzando fatti per sé insignificanti, dà loro un potere
manifestante. Oppure deve illustrare non i fatti come tali», ma «il sistema di concetti
attraverso i quali li consideriamo» (Robert Musil), «la cornice interpretativa in cui i
fatti sono inquadrati», per assicurare un'in- frastruttura intellettuale (Massimo
Adinolfi), perché è sbagliata la dicotomia che divide il nostro pensiero in due aree,
una di fatti che possono essere stabiliti senza controversia, un'altra di valori, nella
quale siamo sempre in disaccordo, descrizione della realtà come è e nostro sistema
123
concettuale. Il sesto compito prescrive che l'intellettuale non deve soltanto criticare,
ma anche proporre o suscitare proposte, per «innovare con nuovi modi gli ordini
antiqui» (Machiavelli). Questo pone il problema del rapporto tra coloro che sono
chiamati a interpretare e coloro che sono chiamati a trasformare il mondo, tra
pensiero e azione, tra teoria e pratica. O Da ultimo, c'è la funzione internazionale
cosmopolita degli intellettuali, come la chiamava Antonio Gramsci, divenuta
particolarmente importante a causa del progredire di quel complesso di fenomeni
che chiamiamo riassuntivamente «globalizzazione». Non esiste campo del sapere
nel quale non vi siano società scientifiche o, almeno, reti che legano studiosi
nazionali. In alcuni di questi campi, il progresso dell'universalizzazione è tanto forte
che le scuole e le istituzioni nazionali possono essere considerate come
distaccamenti locali di organismi complessivamente globali.
Anche nell'ambito pedagogico qualunque tema che venga trattato unicamente nel
contesto nazionale ma pensare di esaurire la trattazione di quel tema con una
prospettiva soltanto nazionale semplicemente è sbagliato; non c'è nessun tema che
sia soltanto nazionale educativo e anche quando è un qualcosa di peculiare
dell'Italia la comprensione non può che essere anche tanto ma anche in dialogo
quello che avviene al di fuori
Nello svolgere questi compiti, possono essere molte le occasioni nelle quali
l'intellettuale può avere la tentazione di giungere a compromessi. Per questo motivo,
occorre ricordare l'insegnamento di Max Weber per cui «l'uomo politico può venire a
compromessi, ma il dotto non li deve coprire». Ma questo non vuol dire che
l'intellettuale non deve essere tentato di mettersi al servizio del potere, come fece
Turgot accettando la nomina a ministro nel 1774, tanto da far scri- vere a
D'Alembert, in una lettera a Federico II, «la vertu au pouvoir».
L’intellettuale che viene eletto come ministro e D’Alembert scrive la virtù è al potere
cioè nel senso della virtù intellettuale
Questo, però, non è lo scopo dell'azione intellettuale, come dimostrò a metà del
secolo scorso con due novelle raccolte in un volume intitolato polemicamente
Engaged in Writing, una chiara parodia dell'intellettuale francese engagé, l'inglese
Stephen Spender.
queste due novelle fanno vedere come quando l'intellettuale ha come unico scopo
quello di un piacere e piacere al potere o quando si percepisce soltanto come
124
portatore di valori politici e schiaccia tutta la sua attività intellettuale su tali valori
diventa una caricatura di sé stesso e queste due novelle sono effettivamente molto
molto efficaci
C'è, poi, la platea più ampia, che va al di là delle élite, perché la responsabilità prima
di tutti gli intellettuali, creatori e portatori di valori culturali, è quella di estendere la
cultura oltre la cerchia delle élite, come osservato da Bobbio. Massimo Adinolfi ha
così commentato: «Prima di mettere nelle mani del popolo un potere sovrano,
costituente, procuriamoci un popolo istruito, educato, acculturato, competente».
Questa è una questione delicatissima dei nostri decenni che educativamente si può
annoverare tra le questioni centrali per molti aspetti perché le nostre democrazie che
vengono definite democrazie avanzate sono democrazie che hanno la caratteristica
di investire il cittadino che le compongono di una responsabilità per molti versi
soverchiante
chiedono attraverso lo strumento referendario in particolare di essere competenti in
discipline spesso complesse, complicate che richiederebbero un percorso di
familiarizzazione serio e continuato questo fa sì che se il potere politico e assieme la
classe intellettuale se non dovessero vigilare con attenzione lo strumento
125
referendario invece di trasformarsi in un esercizio di democrazia diventa uno
strumento per assecondare gli umori della pancia e dei sondaggi dell’opinione
pubblica
126
Perché questo compito degli intellettuali sia chiaro, occorre distinguere «scuola» e
«istruzione». Se la scuola serve primariamente alla formazione di persone in età
scolare, l'istruzione comprende una cerchia più vasta, si potrebbe dire la società in
generale. A questa cerchia più vasta, o a una parte di essa, si dirige l'attività extra
moenia dell'intellettuale, il quale porta a tale pubblico più vasto dati, riflessioni, punti
di vista nuovi, e tali comunque da innalzarne il livello di formazione. Per Gramsci,
«l'intellettuale è sempre solidale con un gruppo sociale: gli intellettuali meridionali a
base artigiana e contadina, attraversati da aspirazioni rivoluzionarie, si trovano
innanzi il grande intellettuale tipo Croce, solidale con la borghesia agraria, che riesce
a staccarli dalla massa contadina [...] "facendoli partecipare alla cultura nazionale ed
europea”, ossia portandoli in un'altra tematica in realtà spezzando il loro nesso
organico, storico, reale» (così Eugenio Garin riassumeva la posizione di Gramsci).
Le riflessioni di Gramsci sono importanti perché, come Bobbio osservava nel 1954,
gli appunti dal carcere erano tutto quello che possedevamo in Italia sul problema
della storia dell'organizzazione degli intellettuali. Più tardi, Alberto Asor Rosa
lamenterà la decadenza progressiva e la mediocrità disperante, nonché il
disfacimento accelerato, di ogni lavoro intellettuale che si svolgesse dentro il quadro
della società denominata «capitalistica».
Un altro intellettuale che qui non viene è Paolo Rossi che è stato un filosofo, storico
della scienza era anche membro dell'accademia dei lincei e Speranze ha un peso
pedagogico enorme
il testo è dedicato a bilanciare il dibattito. Abbiamo intellettuali, storici, autori, autrici
storiche che oscillano tra la le sconfinate speranze e il catastrofismo e si mostra con
rapidità come entrambe queste visioni siano inconsistenti non ci sono indizi né di
catastrofe né delle magnifiche sorti progressive ci sono ragionevoli speranze per
alcuni miglioramenti perché la storia questo ci dice e anche delle criticità che occorre
affrontare
sono argomentazioni capziose e che non hanno un tenuta teorica vera; le questioni
sono sempre più minute
Astor Rosa è un catastrofista da buon marxista
127
l'intelligenza e il capitale. Gli uomini di scienza (ingegneri, fisici, medici, filosofi
positivi o "sociali") e di genio (artisti, poeti) dovevano essere il nuovo sacerdozio che
avrebbe riorganizzato l'Europa, imponendosi ai governi con l'autorità del sapere
come una volta aveva saputo fare la Chiesa» (così lo storico italiano Delio Can-
timori ne riassumeva il pensiero nel 1942). Per Saint-Simon, «la società deve essere
riorganizzata ad opera dei dotti, dei “sapienti”; questa organizzazione dovrà venire
dall'alto, e dovrà essere imposta dai governi. Triplice utopia: possibilità di una
riorganizzazione completa immediata della società; capacità degli uomini di scienza
a compiere una tale opera; volontà dei sovrani di favorire tale riforma».
È una visione utopica da tirannia illuminata; io sono il sovrano consulto i miei saggi i
miei saggi mi dicono come deve andare nella società e impongo alla società
Era un'utopia anche nel 700 ma non è un'utopia soltanto oggi e per utopia non si
intende qualcosa di bello e realizzabile e qualcosa anche di confino cioè imporre a
tutti una visione per quanto salvifica non è granché
128
VI. La democrazia ha bisogno degli intellettuali
Gli intellettuali servono alla società: informano, alimentano il dibattito pubblico,
forniscono le coordinate concettuali, aiutano il pubblico a entrare nei meandri del
pensiero, a ragionare con la propria testa.
Ma servono anche alla democrazia? Dal momento in cui dal suffragio ristretto si è
passati al suffragio universale, non parrebbe necessaria una funzione democratica
propria degli intellettuali. Tutti hanno diritto al voto, tutti possono essere eletti. Basta
avere il requisito dell'età, e non avere commesso reati che comportano la privazione
dell'elettorato attivo o passivo. Non sono richiesti requisiti di conoscenza per
partecipare alla politica. Che bisogno c'è, quindi, di una funzione educativa come
quella svolta dagli intellettuali? Di essa poteva esserci bisogno in quegli anni in cui si
passò dal suffragio censitario (ristretto a coloro che per ragioni di famiglia o di
fortuna erano i «possidenti») al suffragio capacitario (ampliato a coloro che
sapessero leggere e scrivere). Ora che l'istruito e l'incolto possono votare e
accedere alle cariche pubbliche, perché la democrazia dovrebbe avere bisogno degli
intellettuali? Per rispondere a queste domande, occorre fare una digressione sulla
democrazia, per illustrare quale componente epistocratica (nel senso del governo
dei competenti o dei tecnici) vi sia nella democrazia rappresentativa.
nel caso invece dell'epistocrazia la prima parte della parola Kratos è sempre governo
la prima parola è episteme ed è episteme scienza
quindi quando parliamo di epistocrazia parliamo di un governo di una di una gestione
della cosa più pubblica basata non sul popolo bensì sui presupposti conoscitivi di chi
di quel governo fa parte
L'elezione era considerata ancora alla fine del XVIII secolo il mezzo per «assicurarsi
come governanti degli uomini dotati di molta saggezza per ben discernere, e molte
virtù per perseguire il comune bene della società». Questa frase fu usata da
Hamilton (o Madison) nel Federalista n. 57, per rispondere all'accusa che la camera
129
dei rappresentanti fosse scelta tra una classe di cittadini che simpatizzavano assai
poco con le esigenze delle masse. I padri fondatori americani aggiungevano che il
sistema elettivo rappresentava una caratteristica essenziale del regime repubblicano
e che il modo più efficace per evitare che gli eletti si corrompessero era quello di
delimitare la durata del mandato in modo da far sentire ai rappresentanti la loro
responsabilità nei riguardi del popolo. Il fondatore del diritto pubblico italiano, uno
studioso che è stato attivo anche come uomo politico per più di trent'anni, Vittorio
Emanuele Orlando, riteneva che l'elezione fosse una «designazione di capacità»: un
gruppo ristretto di elettori indicava quelli che riteneva capaci di gestire problemi
collettivi. Chi votava sceglieva non solo kratos, ma anche aretè ed episteme, non
solo forza, ma anche virtù e competenza.
C'è stato un lungo periodo in cui essendo ristretto l'ambito dei votanti vi era l'idea
che si conoscesse pressoché direttamente il gruppo di candidati e si votasse non
tanto per, ma anche per affinità di vedute ma soprattutto perché si designava il
migliore per svolgere un ruolo
il dibattito era su quello implicitamente che cosa significava questo implicitamente
significava che io dichiaravo di essere meno competente e che quindi io in quella
funzione sarei stato inadeguato e questo che salta nel passaggio nella percezione
del passaggio tra le elezioni epistocratiche basate sulla competenza a quelle basate
sul semplice demos sul popolo
in quarant'anni si è trasformata completamente la corsa alle elezioni e la maggior
parte delle proposte elettorali vi dice noi siamo come voi non siamo meglio cioè noi
che ci vogliamo far votare noi siamo del popolo noi siamo come voi è esattamente
l'inversione io ti voto perché sei proprio come me d'accordo tant'è che io potrei stare
al tuo posto ma non ci sto anzi se hai una competenza tecnica ti guardo con
sospetto ed è una completa inversione dell'ordine elettorale e del processo mentale,
politico che c'era all'interno di quelle che erano già democrazia ma in organizzate in
maniera differente
130
Idea, quest'ultima, molto singolare e persino smentita dalle norme. Singolare perché
è palese che l'aver attribuito ai cittadini un compito tanto gravoso quanto il governo
della «casa comune», in condizioni di uguaglianza, non comporta che tutti i cittadini
siano egualmente edotti delle esigenze di gestione della «casa comune», capaci di
scegliere tra i diversi indirizzi di gestione, abili nello scegliere le persone giuste,
idonei ad assumere essi stessi funzioni di governo. La parificazione di uguaglianza
formale e di uguaglianza sostanziale in materia politica è poi smentita dalla
Costituzione, la quale riconosce la prima, ma prevede che la Repubblica abbia il
compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto
la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono l'«effettiva partecipazione all'or-
ganizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3).
E James Burnham e Jean Meynaud affacciavano nelle loro opere la possibilità che
al governo fossero chiamati dei tecnici (tecnocrazia).
Di fatto, per circa un secolo, il vuoto creato dal suffragio universale, che non assicura
la scelta secondo kratos, aretè ed episteme insieme, è stato riempito da un altro
sistema di formazione e di selezione: gli Stati hanno delegato il compito di superare
le disuguaglianze tra i cittadini, ai fini della partecipazione politica, ai partiti, che
hanno svolto il compito di «palestra» per la Bildung e la selezione dei candidati.
131
Aretè la virtù, l’idealità della figura
Episteme scienza, conoscenza
I partiti politici, quindi, hanno supplito gli Stati in un compito essenziale, quello di
portare persone capaci e con esperienza alla guida di quella macchina complessa
che sono oggi i poteri pubblici. Ma, a un certo punto, anche i partiti sono venuti
meno, si sono «liquefatti».
altri paesi in cui la tradizione dei partiti è meno forte invece si sono dotati di vera e
propria università
fornisce a tutti un vocabolario comune con cui dibattere della cosa pubblica
l'assenza di profilo culturale giuridico della nostra classe dirigente è un problema
la legittimazione è del voto popolare
nel momento in cui però non c'è una seria formazione politica è un problema
Oggi, anche per la diffusione di istanze populistiche, molte classi dirigenti, nel nuovo
millennio, hanno raggiunto - ma non in tutti i Paesi in maniera eguale - un grado di
mediocrità tale da suscitare reazioni antidemocratiche. Una di queste, molto ben
articolata, si trova nel volume di Jason Brennan, programmaticamente intitolato
Contro la democrazia, un'opera nella quale il punto di partenza che l'epistocrazia (il
governo di coloro che conoscono, dei competenti) condurrebbe a migliori decisioni,
più giustizia, più prosperità. La democrazia rappresentativa è criticata principalmente
perché la maggior parte dell'elettorato ha inclinazioni che lo portano a deviare
sistematicamente da scelte razionali. L'evidenza empirica offerta da Brennan è
impressionante: basti pensare ai costi del terrorismo per gli Stati Uniti (350 persone
morte negli ultimi cinquant'anni e 30 miliardi di dollari), comparati con quelli della
guerra al terrorismo (8 mila morti, senza calcolare i circa 100- 200 mila civili
innocenti stranieri, e una spesa oscillante tra 3 e 4 trilioni di dollari).
132
Questi inconvenienti inducono Brennan a proporre di distribuire il potere politico in
proporzione alla conoscenza o competenza. Secondo Brennan, parlamenti, elezioni
in concorrenza, libertà di parola sono compatibili con un regime epistocratico. L'unica
differenza sarebbe che i cittadini non avrebbero eguale diritto di votare e di essere
vo- tati. Sono accettabili le proposte epistocratiche di Brennan? In primo luogo,
Brennan non considera come operano gli ordini giuridici democratici. Negli
ordinamenti democratici, democrazia è contrapposta o integrata da democrazia:
negli Stati Uniti, si vota per le contee, per gli Stati, per il Congresso (separatamente
per la Camera dei rappresentanti e per il Senato). Dunque, un popolo non
competente può essere controllato e corretto da altre istanze popolari. Inoltre, i
poteri pubblici non sono tutti egualmente democratici, perché non tutto il potere è
affidato a istituzioni democratico- elettive. Il potere è ripartito e in larga misura nesso
nelle mani di competenti, quali sono i funzionari amministrativi e i giudici federali, a
partire dalla Corte suprema, organismi tutti che possono contrapporsi al potere
affidato a organi elettivi, composti di personale scelto sulla base delle competenze,
del loro sapere o della loro esperienza, secondo il merit system. Dunque, gli odierni
ordinamenti sono già in larga misura epistocratici, come Brennan stesso riconosce
quando considera il potere della Corte suprema di dichiarare incostituzionali atti
deliberati da organi democratici.
questo una cosa che viene dimenticata nel dibattito italiano quando si dice ha il
potere del popolo no perché altrimenti si inceppa la democrazia; il popolo designa i
suoi rappresentanti che portano avanti le istanze che noi abbiamo ritenuto più
convincenti nel momento del voto queste istanze sono misurate e commisurate dagli
altri organi che correggono eventuali storture rispetto alla legge che tutti noi diamo
per assodata perché quella che condividiamo nel vivere civile di un paese
quella è la funzione del giudice dire quali sono i limiti all'interno di cui si può
legiferare a meno che non si volesse cambiare Costituzione e legge vigente ed è il
motivo per cui sono selezionati non sulla base del il voto bensì sulla base del merito
Insomma, Brennan, come molti studiosi della democrazia, non presta attenzione al
pluralismo, alla ripartizione del potere tra organismi diversi, agli ampi spazi nei quali
operano organismi i cui meccanismi di selezione sono epistocratici o meritocratici,
or- ganismi che possono giungere persino a controllare quelli democratici in senso
stretto, perché elettivi. Né presta attenzione al fatto che spesso si adopera la parola
«democrazia» per indicare la parte per il tutto (la democrazia americana, la
democrazia italiana, per in- dicare il sistema politico americano o quello italiano). Il
tutto, la restante parte dei poteri pubblici, una volta esclusi gli organismi elettivi,
costituisce la parte più consistente, di gran lunga più ampia, dei sistemi politici (de-
gli Stati).
La nostra democrazia come sapete è tripartita i poteri e gli altri due poteri non sono
né le forze dell'ordine l'esercito elettrico né la magistratura è elettiva
133
Negli ordinamenti contemporanei vi sono però spazi per innestare ulteriori elementi
epistocratici e affidare i sistemi politici a mani più esperte. Se all'idraulico e al medico
è richiesto di conoscere un mestiere, può essere opportuno richiedere a chi deve
svolgere un compito tanto più socialmente importante come quello di rappresentante
o di governante, un certo grado di preparazione. La Costituzione italiana, all'articolo
48, pone accurati limiti a questa possibilità di ampliamento dell'epistocrazia, perché
dispone che «il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o
per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicata
dalla legge». Esso, due pur limitando le possibili limitazioni, apre spiragli. Inoltre, la
Costituzione italiana richiede l'abilitazione per l'esercizio delle professioni (articolo
33), dispone che l'accesso agli uffici pubblici avvenga sulla base dei requisiti stabiliti
dalla legge (articolo 51), stabilisce il requisito del compimento dei 50 anni per
diventare presidenti della Repubblica (articolo 84), prevede l'accesso agli impieghi
pubblici e alla magistratura previo superamento di un concorso (articoli 97 e 106). Ci
si può chiedere perché si impongano questi requisiti per l'accesso a tante cariche e
non ad altre. La conclusione di queste osservazioni è che l'epistocrazia può operare
come correzione della democrazia, come un suo limite, non al posto della
democrazia, salvo tornare al suffragio limitato per livello di istruzione. Oggi il
suffragio universale è il meccanismo principale per dare legittimità al governo e non
se ne può fare a meno. Tuttavia, requisiti ulteriori di candidabilità possono essere
disposti, insieme con azioni positive che diano un contenuto al principio di
uguaglianza in senso sostanziale, per rendere concreto il comma 2 dell'articolo 3
della Costituzione, secondo il quale la Repubblica ha il compito di rimuovere gli
ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la li- bertà e
l'uguaglianza dei cittadini, impediscono l'«effettiva partecipazione all'organizzazione
politica, economica e sociale del Paese». Uno di quegli ostacoli è costituito
dall'istruzione e a rimuoverlo possono contribuire, oltre al sistema scolastico,
intellettuali attenti al compito di contribuire a formare l'opinione pubblica.
134
Lezione 17 novembre
135
all'epoca di Internet, quando tutti possono salire in cattedra e alcuni dei mezzi di cui
solitamente si vale l'intellettuale raggiungono sempre meno persone (penso
principalmente ai quotidiani)?
È vero che la concisione e non è amica di un ragionamento più disteso è anche vero
che però Internet permette anche una riflessione più distesa non è obbligatoriamente
legato alla brevità l'esempio giusto
nel momento in cui sceglie questa questione della brevità poi l'articolata in tanti
passaggi certamente sono veri se si sposa soltanto la brevità come caratteristica
Internet
136
come è accaduto negli ultimi anni, la contestazione degli stessi intellettuali e del loro
compito extra moenia.
Gli intellettuali non devono, quindi, fare geremiadi (questo è un punto sottolineato da
Posner), ma assumere un atteggiamento cooperativo, «far sorgere speranze anche
là dove sembra che prevalgano le tenebre» (è un'espressione del cardinale
Casaroli). L'intellettuale, poi, non deve stare necessariamente sempre sul campo di
battaglia, valendosi dei mezzi di diffusione del pensiero, a cominciare dai giornali,
senza i quali la sua azione sarebbe ben limitata. Gli fa bene stare di tanto in tanto
sulla turris eburnea, perché «l'uomo che sta a terra ha il potere di agire, ma non
sempre il potere di vedere, né è in grado di scappare dalla rete che il destino e le
sue precedenti azioni hanno intrecciato intorno a lui. L'uomo sulla torre ha il potere di
vedere ma non quello di agire; la sola cosa che può fare è metter in guardia. [...] La
sentinella può solo suonare l'allarme. Ma anche soltanto per fare questo deve
rimanere nella torre» (Erwin Panofsky).
E, poi, l'intellettuale che vive immerso nella realtà deve, di quando in quando, essere
avvertito di quel che Jorge Borges scriveva in Altre inquisizioni: «Il vero intellettuale
rifugge dai dibattiti contemporanei: la realtà è sempre anacronistica».
solitamente per realtà si intende il susseguirsi dei giorni, ciò che finisce nei giornali e
quindi il quotidiano in senso stretto ora spesso questo non dà conto davvero di
un'epoca è soltanto un susseguirsi di eventi che mappano ciò che avviene già ma
non quello che si prepara
l'intellettuale dovrebbe occuparsi di quello che sta per avvenire in questo senso se si
guarda soltanto ciò che c'è si rischia di perdere ciò che si sta preparando
Un altro vizio frequente tra gli intellettuali è quello dell'ideologismo, vizio particolar-
mente grave in un'epoca nella quale la maggior parte delle ideologie è messa in
dubbio. Molto meglio dell'intellettuale ideologo, portatore di una fede, che offre
soluzioni, l’intellettuale raziocinante, che offre percorsi, mette sull'avviso, aiuta a
pensare. L'intellettuale può fare proposte, ma non per affermare un suo «credo»,
piuttosto per rispondere più razionalmente a bisogni sociali, non dimenticando di
137
illustrare premesse e conclusioni, alternative possibili, modelli stranieri, perché il suo
compito è a metà strada tra quello dell'utopista e quello del riformatore e
dell'educatore.
Anche in questo caso sentite con chiarezza l'eco di Weber qualcuno che mostra
conseguenze, strade e percorsi cerca di mostrarne la pluralità
All'intellettuale, nella funzione che gli è propria, non fa male, infine, una certa dose di
umiltà. Non deve ritenersi un «unto» e pensare che non risponde a nessuno. La sua
opinione ha spesso un peso sproporzionato sia alla categoria alla quale appartiene,
sia alla ristrettezza delle sue conoscenze specialistiche. Alla sua capacità di «fare
prediche» non sempre corrisponde quella di seguirle: può insegnare il buon governo,
non saper gover- nare bene. È consigliabile quindi che gli intellettuali mandino a
memoria quella poesia di Jacques Prévert
Perché questa affermazione perché questo passaggio conclusivo perché nel capitolo
delle conclusioni ricorda come questo impegno intellettuale non debba che lui
gestisce non debba essere schiacciato sull'idea di impegno nel senso di partigianeria
di scelta di una parte e adesione a quella parte bensì di impegno nel senso di essere
coinvolti da quello che si fa senza tradire il proprio mestiere cioè senza diventare
tuttologi, oracolari o profeti
il rischio che un'epoca come la nostra e per come la nostra intendo dire un'epoca
appartenente alle tante epoche della società di massa il rischio che la politica
l'educazione e la formazione delle nuove generazioni sia deputata e affidata
all'istrione di turno
138
in un momento in cui la cultura chiamiamola classica per capire è molto debole, un
momento in cui il riconoscimento della dignità personale è più legato a questioni
meramente economiche e di immagine
come si regola l'educazione in questo nella maggior parte delle volte in Italia
rifiutando tutto non è proprio efficacissima come strategia e la consapevolezza della
propria epoca e della particolarità dell'epoca epoca dovrebbe condurre a
considerazioni un pochino più approfondite
gli insegnanti gli educatori non può non vivere pienamente la sua epoca non dovete
essere totalmente alieni da chi educate e trovare il bilanciamento passa anche
attraverso il condividere una rete di riferimenti che ogni paese ha
il ruolo di intellettuale è uno di questi ed è prezioso ma è tanto prezioso quanto può
essere nocivo
gli intellettuali che prendono la parola in pubblico e affermano cose che invece di
aiutare la comprensione la danneggiano è esattamente quello che non dovrebbero
fare
la trasformazione delle affermazioni fatte non più in una spiegazione del reale, non
più in un disvelamento o una operazione di disincantamento del mondo bensì una
sorta di predica che complica la realtà e ve la mostra in maniera molto diversa
In forma di prologo
«Vitam instituere>>> In un angolo remoto, ma cruciale, della nostra tradizione, il
lemma vitam instituere che la cultura umanistica ha legato al testo di un giurista
romano, Marciano pone una domanda rimasta aperta. Al suo centro vi è la relazione
enigmatica tra istituzione e vita umana. Bisogna resistere alla tentazione ricorrente di
considerarle due polarità divergenti, solo a un certo momento destinate a incontrarsi,
o scontrarsi.
139
vitam vita anche nei due termini greci di zoo e bios la vita più animale la vita più
intellettuale è qualcosa che di per sé è movimento, in evoluzione, in trasformazione
l'istituzione nella sua stessa etimologia riporta invece il carattere di stabilità, di
permanenza
quindi vita e istituzione sembrano cozzare come realtà una dinamica, una statica e
non dinamica e statica per accidente; al contrario sono caratteristiche inseparabili
che ne danno la sostanza delle due cose non c'è vita se non c'è movimento; non c'è
istituzione, se non c'è stabilità
la proposta che vi fa Esposito e quella invece di cercare di non pensarle come due
polarità contrapposte
E riconoscerle, piuttosto, come i due lati di un'unica figura che delinea insieme il
carattere vitale delle istituzioni e la potenza istituente della vita. Cosa altro è, del
resto, la vita se non istituzione continua, capacità di rigenerarsi lungo percorsi inediti
e inesplorati? In tale senso è stato detto da Hannah Arendt che gli esseri umani non
cessano mai di iniziare qualcosa di nuovo perché, essendo venuti al mondo all'atto
della nascita, sono essi stessi un inizio. A questo primo inizio ne ha fatto seguito un
altro, costituito dalla facoltà del linguaggio, che si può considerare una seconda
nascita. E da essa che ha preso origine la città, la vita politica che ha aperto
l'orizzonte della storia, pur senza mai recidere il filo che la lega alla propria radice
biologica. Per quanto diverso da esso, il regime del nomos non si è mai separato da
quello del bios.
Anzi la loro re- lazione si è fatta sempre più stretta, al punto che oggi è divenuto
impossibile parlare di «politica» fuori dal riferimento alla vita. Le istituzioni sono al
centro di questo passaggio. Esse costituiscono il ponte attraverso il quale il diritto e
la politica modellano le diverse società, differenziandole e articolandole tra loro.
Perciò non è possibile, per gli uomini, anche nelle circostanze più drammatiche,
smettere di istituire la vita, di ridefinirne contorni e obiettivi, contrasti e occasioni. Dal
momento che è la vita stessa ad averli istituiti, immettendoli in un mondo comune
che fa tutt'uno con i simboli che di volta in volta lo esprimono. Questa dimensione
simbolica, che plasma le istituzioni non meno di quanto è plasmata da esse, non è
qualcosa che si aggiunga alla vita umana dall'esterno, ma ciò che la rende tale,
distinguendola da ogni altro tipo di vita. Nessuna vita umana è riducibile a pura
sopravvivenza, a «nuda vita», secondo la celebre espressione di Walter Benjamin.
Benjamin scrisse pagine molto significative sul perseguitato il concetto di nuda vita è
stato ripreso per descrivere l'orrore dei campi di sterminio il fatto che la vita
140
personale non esistesse più nel campo di sterminio che fosse ridotto a puro dato
biologico
C'è sempre un punto in cui essa sporge oltre i bisogni primari, accedendo all'ambito
dei desideri e delle scelte, delle passioni e dei progetti. Essendo fin da sempre
istituita, la vita umana non coincide mai con la semplice materia biologica, anche
quando è schiacciata, dalla natura o dalla storia, sulla sua falda più dura. Anche in
quel caso, fin quando è tale, la vita rivela un modo di essere che, per quanto de-
formato, violato, calpestato, resta quello che è: una forma di vita. A conferirle questa
qualifica è la sua appartenenza a un contesto storico fatto di relazioni sociali,
politiche, culturali. Ciò che fin dall'inizio ci istituisce, e che noi stessi continuamente
istituiamo, è la rete di rapporti nella quale ciò che facciamo acqui- sta rilievo per noi,
ma anche per gli altri.
141
Lezione del 22 novembre
eravamo entrati nel testo in maniera abbastanza didascalica iniziando dal prologo
sempre a firma dell'autore e avevamo visto che le prime affermazioni di Esposito
riguardavano una possibile separazione nelle nostre tradizioni tra istituzione e vita
questa tensione tra la vita come bios, zoe come trasformazione invece l'istituzione
come stabilità e quindi il fatto che le due cose si sovrapponessero molto poco
al contrario esposito dice no in realtà no perché l'istituzione è istituzione è vita e la
vita non può che continuamente istituire e vediamo che cosa significa e come viene
affrontato questo connubio tra due cose a volte possono sembrare distanti
Questa difesa precede ogni altra opzione, ne è condizione e presupposto. Ma, dopo
la prima vita, insieme a essa, dobbiamo difendere anche la seconda, quella istituita e
capace di istituire.
142
La stessa cosa vale per il dibattito intorno all'eutanasia non riguarda un elemento
che ha una dimensione di natura strutturale del nostro vivere insieme
sto legiferando sulla dimensione biologica della persona e non è affatto scontata
come cosa è un un'evoluzione molto tarda negli ordinamenti legislativi degli Stati
perché prima il corpo era o appannaggio della singola persona o oggetto della
religione
il fatto che lo stato diventi a tutti gli effetti uno stato etico in un senso in senso molto
libertario o in senso molto conservatore per quanto riguarda queste tematiche ma si
va ad intervenire in una sfera differente
il discorso di Esposito e proprio questo cioè oltre alla vita cioè la pura vita, la
dimensione biologica anche la dimensione di bios culturale
Perciò, per restare in vita, non possiamo rinunciare all'altra vita, alla vita con gli altri,
cui si lega il senso più intenso della communitas.
Esposito utilizza il termine communitas e non comunità per due ragioni innanzitutto
perché il termine comunita ha dei rimandi particolari per la sua etimologia eccetera e
poi perché Esposito ha pubblicato un altro libro dal titolo communitas e quindi fà
riferimento alla versione di comunità
Ciò vale sul piano orizzontale della società e sulla linea verticale delle generazioni.
Compito primario delle istituzioni non è solo quello di consentire a un insieme
sociale la convivenza in un dato territorio, ma anche di assicurare la continuità nel
mutamento, prolungando la vita dei padri in quella dei figli. Anche a questa necessità
va ricondotto il senso dell'institutio vitae. Prima ancora che al loro impiego
funzionale, le istituzioni rispondono al bisogno degli uomini di proiettare qualcosa di
sé al di là della propria vita della propria morte - prolungando, per così dire, la prima
nascita nella seconda.
143
I. L'eclissi
1. Dalla pandemia
È questa trama profonda che la pandemia da coronavirus ha rischiato di spezzare
con una violenza inaspettata. Sulla sua fenomenologia si è scritto molto con
intenzioni e argomenti che qui non è il caso di riprendere. Ciò su cui va orientata
l'attenzione è la relazione tra emergenza del virus e risposta delle istituzioni. Se
riusciamo a sollevare lo sguardo dalle ferite profondissime che la pandemia ha
impresso nel corpo del mondo, il compito che adesso si profila è quello di istituire di
nuovo la vita o, più ambiziosamente, di istituire una vita nuova. Si tratta di
un'urgenza che precede ogni altra necessità di tipo economico, sociale, politico,
perché costituisce l'orizzonte, materiale e simbolico, da cui tutte le altre traggono
senso. Dopo essere stata per mesi sfidata, e a tratti sovrastata, dalla morte, la vita
sembra reclamare un principio istituente in grado di restituirle intensità e vigore. Ma
non è possibile farlo senza prima porre una domanda di fondo sul modo in cui, in
particolare in Italia, le istituzioni hanno replicato alla sfida del virus. Per conservare
equilibrio nel giudizio, bisogna guardarsi da generalizzazioni, distinguendo e
articolando piani diversi di discorso. Certamente, nello sforzo di contenere il male, da
parte di istituzioni regionali, nazionali e internazionali, gli aspetti negativi non sono
mancati, tanto che si può perfino sostenere che in certi momenti abbiano prevalso.
Non è possibile dimenticare inadeguatezze, insufficienze, ritardi che hanno
caratterizzato i primi interventi, producendo talvolta danni irreparabili non solo sul
piano sociale, ma, soprattutto in alcune aree, anche su quello della salute. A tale
deficit di risolutezza si è aggiunto, a volte, un eccesso di invadenza negli stili di vita
individuali, anche quando ciò non era indispensabile, con costi politici, economici e
sociali assai rilevanti. Lo spostamento dei confini, tra legislativo ed esecutivo, a
favore del secondo, determinato dall'uso, non sempre necessario e a volte arbitrario,
della decretazione d'urgenza è arrivato, in alcuni momenti, a minacciare la stessa
tenuta democratica di sistemi politici apparsi in affanno nel tentativo, inevitabilmente
per- dente, di rincorrere ed eguagliare l'efficacia delle procedure più drastiche
attivate da regimi autoritari. Nella seconda ondata della pandemia, tuttora in corso,
errori di calcolo e inadempienze sono sembrati ancora più evidenti, con effetti che
nei prossimi mesi potremmo misurare. Per non parlare del numero spaventoso di
vittime, superiore a quello dei paesi europei comprabili al nostro. Ciò detto, è
opportuno porci la domanda sul ruolo delle istituzioni in termini rovesciati: come
avremmo retto all'attacco del virus senza di esse? Cosa sarebbe accaduto, qui e
altrove, se fosse mancato un quadro istituzionale in base al quale orientare i nostri
comportamenti? Guardato da questo punto di vista, si deve riconoscere che l'apporto
delle istituzioni è apparso, per non poco tempo, l'unica risorsa disponibile. Non mi
riferisco solo alle amministrazioni regionali e nazionali, ma a tutte le istituzioni
presenti sui territori aggrediti dal virus - dagli organismi sociali agli ordini
professionali, alle associazioni non governative - che hanno costituito l'ultima linea di
resistenza nei confronti della pandemia. Se il virus non ha travolto tutti gli argini,
dilagando indisturbato, si deve essenzialmente a esse.
144
questione del ruolo delle istituzioni come certamente problematico certamente in
alcuni casi erroneo ma a cui dobbiamo moltissimo anche soltanto da durante
coronavirus ci sono state debolezze, contraddizioni, degli errori in una situazione in
cui per fortuna sono state le istituzioni a garantire
Certo, come è stato detto, si è agito in stato di emergenza e dunque, anche se i due
concetti non sono sovrapponibili, di eccezione rispetto alla normalità istituzionale. Ma
intanto si è trattato di uno stato, non prolungabile definitivamente, successivamente
legittimato dal Parlamento. E, soprattutto, provocato non da una volontà sovrana di
estendere il controllo sulle nostre vite, bensì da un misto di necessità e contingenza
del tutto imprevedibile e ben diverso da un progetto mirato all'asservimento della
popolazione. Come è noto ai giuristi, tra le fonti primarie del diritto, insieme alla
consuetudine e alla legge scritta, vi è la necessità. È evidente il ruolo che, nel caso
in questione, ha giocato una tragica contingenza, con la conseguente necessità di
arginarla. Vero è che a proclamare lo stato di emergenza, e predisporre la risposta a
esso, è pur sempre una decisione soggettiva di chi ne ha facoltà. Ma, nel caso in
questione, è difficile negare il grado di oggettività di una vicenda che, nella sua
genesi e nei suoi effetti, ha assai poco di volontario o programmato. Allo stesso
modo è innegabile che, nei nostri regimi intensamente biopolitici, la sanità sia
diventata questione direttamente politica all'incrocio inquietante tra politicizzazione
della medicina e medicalizzazione della politica. Come è evidente che la sensibilità
per la salute sia nettamente aumentata rispetto a ogni altro tipo di società
precedente. Ma non mi pare che questo sia un male. Che il diritto alla vita sia
considerato il presupposto indiscutibile su cui si basano tutti gli altri segna una
conquista di civiltà rispetto alla quale non è possibile arretrare. In ogni caso l'attuale
regime biopolitico non va confuso con un sistema centrato intorno alla sovranità, di
cui costituisce una modificazione profonda. Immaginare di trovarci in balia di un
potere illimitato, volto a padroneggiare le nostre vite, non tiene conto del fatto che da
tempo la centralità della decisione è esplosa in mille frammenti, in buona parte
autonomi dai governi nazionali e collocati persino in uno spazio transnazionale.
La sovranità è un atto di imperio di un soggetto che può essere anche una persona o
una realtà istituzionale ma è una decisione di imperio
è una monarchia assoluta il Vaticano cioè non è che c'è un'altro organo che dice
questa decisione non va bene
quello che invece sta dicendo Esposito e che nelle democrazie avanzate non esiste
nessun soggetto che possa prendere una decisione di imperio il DPCM è l'atto più
vicino a una decisione d'imperio ma comunque deve essere all'interno delle regole
istituzionali della magistratura e delle forze armate, dei tre poteri dello Stato
145
ormai non c'è più una dimensione soltanto nazionale ma c'è una dimensione anche
transnazionale cioè il potere e la sovranità è esplosa
nel momento in cui vi è l'approvazione degli organi competenti della comunità
europea la legislazione nazionale non conta niente perché siamo all'interno di un
patto economico in cui i prodotti a marchio CEE possono circolare nel mercato
Ebbene, si può dire che in Italia le istituzioni abbiano nel complesso, e con tutti i limiti
anzidetti, retto all'urto della malattia, attivando i propri anticorpi immunitari.
Naturalmente sappiamo che ogni reazione immunitaria rischia, se intensificata oltre
una certa soglia, di provocare una malattia autoimmune. Ciò accade quando la
società viene esposta a un eccesso di desocializzazione. Il problema dei nostri
sistemi politici è sempre quello di trovare un equilibrio sostenibile tra comunità e
immunità, protezione e compressione della vita. La forza, ma anche la duttilità, delle
istituzioni si misura sulla capacità di adeguare il livello di difesa alla minaccia in atto,
evitando sia di sottostimarne sia di ingigantirne la percezione.
questo per esempio lo vedete ancora meglio nei problemi della scuola il dibattito sui
problemi della scuola ci sono delle questioni che periodicamente vengono messe
come il problema della scuola e di solito è una sovraesposizione e produce
immancabilmente un sistema di rifiuto
146
Essi esprimono un'energia istituente che anche le istituzioni dovrebbero mantenere
viva per «mobilitarsi» e, per certi versi, oltrepassarsi.
2. Istituzioni e movimenti
Questa duplice esigenza di istituzionalizzazione e mobilitazione è stata oscurata
soprattutto tra gli anni Sessanta e Settanta, quando si è andata affermando una
rigida contrapposizione tra istituzioni e movimenti. Se si ripercorre con uno sguardo
d'insieme il dibattito degli ultimi decenni, lo si vede spaccato in due polarità
apparentemente inconciliabili, poste l’una in contrasto radicale con l'altra. Da un lato
la riproposizione di un modello conservativo di istituzione, refrattario a ogni
trasformazione; dall'altro una proliferazione di movimenti anti-istituzionali irriducibili
all'unità di un progetto comune. Il risultato di una simile divaricazione è stato uno
scollamento sempre più netto tra politica e società. A una logica istituzionale chiusa
in sé stessa, incapace di parlare al mondo sociale, si è opposto un pulviscolo di
proteste diverse, inca paci di saldarsi in un fronte politicamente incisivo.
147
dalle scuole dell'infanzia alla fine delle scuole secondarie di primo grado le scuole
medie tutte le italiane, tutti gli italiani ricevono la stessa istruzione
Ci sono paesi che decidono di dare la stessa istruzione per meno anni, ci sono paesi
che decidono di dare le stesse istruzioni per più anni e questo vuol dire formare la
società successiva in maniere diverse
Se io come la Germania, la Svezia altri paesi decido che dopo l'istruzione
elementare deve iniziare una differenziazione a seconda del lavoro e del futuro che
si vuole avere il momento di intreccio sociale tra classi sociali diverse è minore
il sistema scolastico italiano differenziava i percorsi subito dopo le scuole elementari
cioè nella nostra Repubblica quando viene scritta la costituzione l'unico troncone
comune della scuola erano solo i 5 anni dopodiché già ci si differenziava e avviano
vari indirizzi di scuola media e a seconda dell'indirizzo che si prendeva si veniva
canalizzati o nei licei o gli istituti tecnici o i niente e a loro volta le scuole secondarie
di secondo grado, le scuole superiori potevano dare accesso a determinate facoltà o
a nessuna facoltà o a tutte le facoltà uno solo il classico dava accesso a tutte le
facoltà
nel 1962 dopo un dibattito molto annoso venne introdotta la scuola media unica
prima in fase sperimentale 62 poi a regime 63
Fu un cambiamento epocale l'impatto sociale enorme perché è una fase della vita in
cui l'individualità si forma sempre di più non sono soltanto tre anni in più in vita in
comune sono tre anni di vita comune in cui le persone si formano e che inoltre che
cosa cambia il fatto che la conoscenza reciproca diventa maggiore le esigenze
reciproche
Che le scuole secondarie a cui si può scrivere sono per la prima volta tutte perché la
scuola media unica dà accesso a tutte le scuole superiori non c'è alcuna
canalizzazione precoce
il 68 nasce sei anni dopo la scuola media unica perché la pressione anche dalle
scuole secondarie di secondo grado alle università è forte perché più mistante la
popolazione delle scuole secondari
quando Esposito vi parla dello scollamento tra istituzioni e società tra istituzioni e
movimenti nel mondo della scuola, nel mondo dell'istruzione questo lo vedete in
maniera evidente perché il nostro paese nonostante tantissimi movimenti che si
sviluppano in questi anni non riesce a produrre una riforma organica del sistema di
istruzione
non ci riesce perché le forze in campo sono troppe e le istituzioni si chiudono e qual’
è stata l'unica strada che si sono inventati per trasformare un po’ il mondo
dell'istruzione prima dei decreti quasi d'imperio a cui dobbiamo l'apertura del 1969 la
rimozione della canalizzazione dalle scuole secondarie di secondo grado
all'università, per la prima volta dal 69 in poi ci scrive a qualunque facoltà a
148
prescindere dalla scuola dai fatta secondaria secondo grado; seconda strategia i
lunga stagione dei decreti delegati 72-73-74 sono esattamente questo
il decreto delegato vuol dire che il governo delega a un gruppo sicuramente di
persone la decisione sulla materia il che vuol dire evitare la discussione
parlamentare perché la discussione parlamentare avrebbe creato come aveva
creato in precedenza del d vicoli ciechi in cui siccome noi abbiamo due camere
esattamente equipollenti dal punto di vista delle leggi ogni volta tra Camera e Senato
veniva cambiato qualcosa nelle varie proposte e non si riusciva a concludere l'iter
i decreti delegati infatti non fecero una riforma strutturale del sistema di istruzione
ma intervennero per modernizzare il mondo della scuola e aprirla un pochino di più
alla società
l tempo pieno rispondeva esattamente alla stessa esigenza della scuola media unica
perché si voleva che la società sviluppasse in maniera più coesa e quindi siccome
allora le scuole elementari duravano soltanto con il tempo con il tempo pieno
effettivamente si creava comunità
il tempo pieno si sviluppa più nelle grandi città che nelle campagne
l'obiettivo del tempo pieno era cercare di rimuovere quegli ostacoli che la
costituzione poneva come problematici per la piena cittadinanza
149
Nonostante l'incomparabile potenzialità analitica, l'opera di Foucault finiva per
riproporre, insomma, una nozione di «istituzione» non troppo lontana da quella
«totale», teorizzata negli stessi anni da Irving Goffman nel suo celebre libro
Asylums. Diversamente da Franco Basaglia – che orientava la propria cri- tica a un
tipo ben determinato di istituzioni manicomiali, contribuendo a smantellarle Foucault
tendeva ad attribuire valenza oppressiva a tutte le istituzioni. Nel loro insieme esse
costituivano per lui un blocco compatto, destinato a confinare la vita entro spazi
sorvegliati e rigidamente suddivisi, comprimendo istinti e tendenze naturali. La
prospettiva di Foucault, pur ricchissima di squarci ermeneutici fecondi, va inscritta in
un quadro interpretativo largamente condiviso da un ampio schieramento
intellettuale. Si può dire che su tale concezione, chiusa e difensiva, dell'istituzione,
convergessero in quegli anni autori di destra e di sini- stra, sia pure con intenzioni
contrapposte: i primi per rafforzarla, i secondi per contestarla e, in ultima analisi,
abbatterla. Leggendo in successione le pagine sull'istituzione di autori come Sartre,
Marcuse e Bourdieu da un lato, o come Schmitt e Gehlen dall'altro, non è difficile
riscontrare una sottile convergenza su un'interpretazione statica e inibente
dell'istituzione.
il testo che dice sì queste visioni sono differenti ma alla fin fine però hanno tutti
un'unica idea o un'idea molto vicina di istituzioni
Anche per i sociologi della cultura Peter Berger e Thomas Luckmann, in un diverso
quadro argomentativo, le istituzioni sono dispositivi artificiali necessari a ordinare,
selezionandole, le tendenze naturali. L'idea di fondo che ispira tali analisi è che la
natura umana, abbandonata a sé stessa, finirebbe per autodistruggersi. Alla sua
origine - lungo un vettore che arriverà da un lato alla sinistra radicale di Herbert
Marcuse e dall'altro alla destra etologica di Konrad Lorenz – vi è la tesi freudiana
della civilizzazione come inibizione degli istinti primari. Per Freud la «civiltà»
definisce l'insieme delle istituzioni che differenziano la nostra vita da quella animale,
150
servendo al duplice scopo di proteggerci dalla natura e di regolamentare i nostri
rapporti con gli altri.
le istituzioni in totem e tabù è una delle rappresentazioni più forti di quelle istituzioni
in questo senso i fratelli uccidono il padre per liberarsi dal padre ma lo introiettano
come autolimitazione attraverso la creazione di istutuzioni
In Freud il padre è la legge nella mitopoietica freudiana la figura del padre è la figura
della legge e il padre non è detto che sia un uomo il padre è una figura superiore
insomma non è detto che sia il padre però di fatto coincideva
per liberarsene viene ucciso dei figli si commette parricidio ma questo non vuol dire
però poi non aver bisogno delle norme e quindi e quindi la figura del padre si
istituzionalizza ma ci appartiene
è una rappresentazione fortissima delle istituzioni
Dall'immaginare lo stato tedesco prussiano o l'imperatore dell'impero asburgico
come un'entità esterna al pensare che invece è un mio bisogno psicologico che
esternalizzo in qualcosa che mi dà delle direttive senza le quali non potrei vivere è
proprio qualcosa di enorme
151
anarchiche segue lo stesso filo di ragionamento, che alterna richiamo rivoluzionario
al potere costituente ed evocazione della potenza destituente. A collegarli, sia pure
per contrasto, è una richiesta di immediarezza contro ogni mediazione istituzionale.
Quella che va liberata, secondo una visione antropologica radicalmente affermativa,
è la duidità di un rapporto sociale non più filtrato dal politico. Ciò che conta è il
carattere immediato del rapporto. L'autentica comunità, per questa linea di pensiero,
è caratterizzata non più dal legame sociale, ma dal suo scioglimento. Gli esiti politici,
o meglio impolitici, di tale ragionamento sono davanti ai nostri occhi
152
Lezione del 24 novembre
Guardato dal nostro angolo di visuale, tale carattere verbale dell'instituere, rispetto al
sostantivo institutio, riveste un'importanza strategica perché conferisce al concetto
una tonalità dinamica capace di proiettarlo oltre la dimensione statica che avrebbe
successivamente assunto.
se io dico istituire o istituito o istituzione indico due processi diversi indico qualcosa
che si sta per compiere, che sta compiendo, oppure la stabilità dell’istituzione
153
Nella ricchissima produzione giuridica romana «istituire» voleva dire non solo
stabilire determinate situazioni, ma anche produrle artificialmente in base alle
esigenze che di volta in volta si presentavano. È stato soprattutto il geniale storico
del diritto È romano Yan Thomas a insistere su questa attitudine «operativa» del
diritto romano stesso. Il suo carattere istituente si allargava fino ad abbracciare la
stessa fondazione di Roma. Ma ancora più curioso è il fatto che a essere istituita,
vale a dire usata artificialmente per determinati scopi, fosse la stessa nozione di
«natura». In un testo, intitolato appunto L'institution de la nature, Thomas ravvisa
una vera e propria inversione del rapporto tra istituzione e natura. Anziché essere la
natura a condizionare il diritto, vincolandolo ai valori in essa contenuti, a Roma è il
diritto ad adoperare ai propri fini la nozione di «natura». Ovviamente tale procedura
presuppone una preventiva opera di denaturazione del ius. Il diritto romano non è
mai sottoposto a principi che trascendano la sua sfera di azione. Esso è sempre
libero di trasgredirli, come accade con l'istituto della schiavitù, dichiarato dagli stessi
giuristi romani contra naturam.
ci sono delle tradizioni giuridiche che si fondano in maniera diretta sulla natura
cioè, io dico in natura le cose vanno così però siccome siamo una società dobbiamo
darci delle regole che non possono essere basate sulla semplice osservazione della
natura mi serve una codificazione di quelle leggi
quindi dico in natura siamo tutti uguali perché nasciamo tutti uguali e quindi
dobbiamo essere tutti uguali ma per natura codifico qualcosa che già esiste
oppure posso essere io a dire a me non interessa io mi metto d'accordo con un
contratto sociale direbbe Rousseau e se ci mettiamo d'accordo noi diamo le leggi
alla natura e addirittura possiamo fare cose che sono contro la natura e dirlo
esplicitamente
la schiavitù per il romani era contro la natura perché gli uomini tendenzialmente sono
uguali ma posso dire che invece esiste l'istituto della schiavitù perché è funzionale
alla nostra società è contro natura non interessa perché il diritto è più forte della
natura e quindi lo ius il diritto si emancipa si denatura e quindi si tira fuori dalla
natura non dice più è lo ius Nature il diritto di natura è il diritto romano e detta legge
sulla natura
Naturalmente c'è un confine che il diritto non può varcare. Ma si tratta di un limite di
carattere fisico o biologico: ad esempio, un padre non può essere più giovane del
figlio, come una donna non può partorire contemporaneamente un numero illimitato
di gemelli. Mentre, invece, l'incesto, possibile in natura, è vietato dalla legge. Non è,
insomma, la natura, ma la legge, a stabilire cosa sia fattibile o meno, all'interno dei
confini oggettivi che circoscrivono l'esperienza umana. Ma l'autonomia del diritto, nei
confronti di ogni principio naturale, non si ferma qui. Non solo esso può prescindere
dalla natura, ma può adoperarla per finalità innaturali. Colpisce l'uso strumentale del
concetto di «natura» da parte dei giuristi romani in funzione dei loro diversi scopi. A
154
partire da quello, a Roma particolarmente delicato, dell'affrancamento di uno
schiavo. Per sottrarlo alla condizione servile, il diritto si richiama allo stato naturale
degli esseri umani, che esso stesso ha violato quando ha istituito la schiavitù. In
questo modo una condizione innaturale quella di schiavo – viene abrogata attraverso
il ricorso fittizio al principio naturale dell'eguaglianza.
Quando gli schiavi diventavano liberi la cosa che si diceva era appunto che io ti
deschiavizzavo perché ti riportavo all'eguaglianza con me; però l'eguaglianza con
me lo facevo nell’ambito di diritto di natura cioè siamo tutti uguali che io stesso
avevo negato nel momento in cui ti avevo fatto schiavo
Così la natura viene contraddetta due volte prima facendo di un essere umano,
naturalmente libero, uno schiavo, e poi liberandolo mediante il riferimento
strumentale a un canone naturale. La potenza innaturale del diritto, insomma, si
spinge al punto di adoperare i protocolli naturali contro sé stessi. In tal modo fa della
natura lo strumento dell'istituzione e dell'istituzione il presupposto della natura.
Il diritto romano è così forte e per questo insiste sul diritto umano che detta le norme
del possibile
L'adozione dei figli delle coppie omogenitoriali l'obiezione del governo e quella non è
una famiglia naturale; la risposta che si potrebbe dare dal fronte laico o se volete il
diritto romano è ma che cos'è una famiglia naturale lo decide il diritto
È una contrapposizione da qui in poi c'è sempre se non prima tra la natura che ogni
volta codificò come naturale vado in una direzione se la definisco
il genere sulla carta d'identità è quello biologico a prescindere anche dalle operazioni
perché dal diritto io sancisco non lo stato rifatto ma quello che la natura ha deciso
oppure no oppure il diritto che è più forte della determinazione naturale
155
Ciò, tuttavia, piuttosto che spezzare ogni relazione tra natura e istituzione, la
riconfigura diversamente, inserendo tra esse un terzo elemento, costituito da Dio,
che le modifica entrambe. Che la natura sia «data» non significa, infatti, come nella
filosofia greca, che sia eterna, ma che è stata «donata» dal Creatore alle creature. In
tal modo, piuttosto che scomparire, il principio istituente è trasferito dalla sfera del
diritto a quella della teologia. La natura è indisponibile al diritto perché letteralmente
nelle mani di un Deus institutor.
Se non è più il diritto a dirmi ci che è naturale forzando la natura stessa allora se la
natura non è una natura che viene percepita come data in quanto tale ma è una
natura che Dio ha deciso essere così e quindi la fonte del diritto cioè dei limiti dentro
i quali devo legiferare, posso legiferare mi sono dati da Dio sempre è sempre natura
per i canonisti romani ma è natura nel senso che è come Dio ha istituito la natura
è il motivo per cui fino a relativamente poco tempo fa la sacra Rota non poteva
concedere divorzi perché nel momento in cui la famiglia naturale è costituita da Dio
attraverso il matrimonio il diritto umano della sacra Rota non può scindere un legame
naturale creato da Dio
vede nel matrimonio l’accettazione di Dio su quella coppia
la sacra Rota a meno di casi che si forzano un po’ concede il divorzio soltanto in
alcune condizioni particolari
156
Chiesa avete due modelli completamente differenti da un lato c'è il modello o
evangelico o dell'antico testamento poi Agostino i dialoghi
il De Civitate Dei è un tomo ponderoso in cui Agostino fa l'esercizio utopico di
Platone che immagina una Repubblica che è retta però da tre classi con la
differenza che invece c'è Dio e quindi invece di Repubblica è già quello che poi sarà
in futuro la res pubblica cristiana
questo vuol dire immaginare una repubblica ideale retta delle leggi superando il
diritto umano in un momento in cui l'impero romano non è ancora un impero a tutti
gli effetti cristiano
157
le due visioni sono due visioni che non solo conciliabili in nessuna religione
noi cerchiamo di far coincidere il più possibile una morale che non sia troppo
distante dal cattolicesimo con un'etica pubblica
Poi a un certo punto c’è un momento di frizione e quel momento di frizione lo
mettiamo a sistema cerchiamo di aggirarlo
non c'è una flessibilità di questo tipo ci può essere attraverso dei rilanci un pochino
fatti di forza
si possono dare i sacramenti anche alle persone omosessuali e che ovviamente per
la dottrina cristiana effettivamente è impossibile è un peccato se è un peccato e non
ti stai pentendo non puoi prendere il sacramento della comunione e quindi
teoricamente non funziona
158
a una modalità autoritaria di carattere trascendente. Tale passaggio avviene in
parallelo con il transito semantico dalla categoria di «persona», pertinente al singolo
individuo, a quella di persona ficta o repraesentata, introdotta nel lessico giuridico da
Sinibaldo de' Fieschi (papa Innocenzo IV), in riferimento a entità non umane, come
possono essere un'università o un monastero, titolari di determinate prerogative. A
qualificare tale svolta è la sua caratterizzazione verticistica, evidente nel confronto
dell'istituzione con le figure della corporazione e della fondazione. Mentre la prima si
esprime nella volontà dei propri membri riuniti nel collegium e la seconda è adibita
alla conservazione di un bene collettivo, l'istituzione è connotata dalla presenza di un
elemento autoritario, vigente non solo all'atto della genesi, ma lungo l'intero arco
della sua durata. Questa tonalità autoritaria resta impressa a lungo nel concetto di
«istituzione». A partire da allora, anche nella sua versione secolarizzata, essa
continua a evocare un potere stabilito una volta per tutte, una modalità ripetitiva del
proprio modo di essere e fun- zionare. Ciò che prevale nel concetto di «istituzione» è
una sorta di reiterazione sottratta alla storia e irrigidita nella fissità di un eterno
presente. L'istituito, il suo esito prefissato e irrevocabile, predomina sull'istituente.
Benché per tutti i secoli di mezzo la categoria di «istituzione» non si riferisca
all'organismo statale, ancora in via di formazione, l'institutio rimanda intensamente a
ciò che è «stato», allo «stabilito». Non interpella la storia nel suo momento
costituente, ma dal lato della permanenza.
questo lo percepite ancora oggi noi nella maggior parte dei casi quando ci
domandiamo che cosa è quell’istituzione spesso ce lo domandiamo non da come si
è generata quella istituzione ma come i lineamenti quell'istituzione perché la
prendiamo come dato di fatto
è una visione tutta occidentale che dà al passato un valore molto diverso da quello
che danno altri popoli
noi diamo al passato un potere di definire il presente, siamo come si usa dire una
civiltà delle rovine, conserviamo le nostre rovine e diciamo quelle rovine sono parte
della nostra identità anche quando abbiamo una visione rivoluzionaria però
comunque lo diciamo rispetto al prima e anche soltanto la parola rivoluzione quello
indica che c'è una realtà data che si è stratificata nel tempo e noi la vogliamo
cambiare
molte culture non l'hanno; la cultura cinese classica, confuciana e poi imperiale da
tutto un altro valore al passato e così altre culture e così l’islamica che prende invece
l'arrivo dell'islamismo come un taglio netto tant'è che si distruggono le vestigia della
cultura precedente
159
modo l'esito di una prassi artificiale viene storicamente assimilato a un dato di
natura, a sua volta corrispondente alla volontà divina, di cui l'institutio è espressione
terrena. Istituzione è ciò che consente a un dato potere di durare nel tempo senza
essere messo in discussione dai suoi membri.
quindi da un lato la nostra costituzione non è male dall'altro farne un feticcio perché
c'è quella parola e non un'altra sembra dare un suo stato di natura o di ineluttabilità
a qualcosa che è un compromesso tra uomini anche con tutta la fallibilità, il peso del
tempo
la nostra costituzione divide ancora il mondo per razze anche per contestare la
differenza di trattamento delle razze perché il momento prima avuto le leggi razziali
perché ovviamente in quel momento quella era la teoria antropologica più forte
c'è un altro utilizzo del verbo istituere o delle istituzioni quello di educazione
in buona parte dei testi fino all'Ancien Regime si parla di istituzione dei bambini
perché il carattere dinamico in questo caso perché paradossalmente proprio nel
momento dell'Ancien regime in cui l'istituzione è sovrana e la quindi il termine è
sempre più codificato e codificante, rigido in realtà il carattere dinamico rimane nella
parte pedagogica
cioè è l'istitutio e la pratica in cui il giovane viene formato e diventa tutto cioè viene
istituito alla vita proprio nel senso di dargli di lineamenti che occorrono per poter
svolgere l'ufficio di uom,o di essere umano
è un carattere fortemente dinamico in pedagogia molto più che nel diritto perché il
diritto si schiaccia effettivamente su prima le signorie e poi i poteri assoluti dei
sovrani mentre la parte pedagogica rimane ancora più dinamica
160
Lezione del 5 dicembre
Questa storia si chiude, o si modifica radicalmente, già nel corso della Rivoluzione
francese. Nella stagione finale dell'Ancien régime qualcosa come un sistema
amministrativo comincia a prendere corpo in maniera per certi versi esterna alla
volontà sovrana, perché necessariamente in rapporto con organizzazioni, poteri,
interessi non interamente rappresentati dalla monarchia. È un primo, sensibile, spo-
stamento verso il moderno concetto di «istituzione». Adoperato in un primo momento
in negativo – ad esempio nella costituzione francese del 1791 per definire gli ordini
nobiliari e le corporazioni medioevali che venivano aboliti, esso comincia poco alla
volta ad affermarsi come il complesso degli organi in cui si articola la vita sociale e
politica di un paese. Il contrasto tra i nuovi regimi costituzionali e quello
prerivoluzionario segnala di per sé il carattere mobile e differenziato delle istituzioni
politiche. Eppure ciò non basta a orientare in direzione dinamica la logica
istituzionale, facendo emergere una prassi istituente. Nonostante la svolta dalla
tradizione medioevale alla filosofia politica moderna, un elemento autoritativo
permane ancora a lungo. Già Hobbes, pur in un orizzonte categoriale drasticamente
rinnovato, riproduce sia il carattere personale dello Stato Leviatano sia l'assolutezza
del suo potere.
Hobbes è uno degli autori che ha portato più avanti e più alle estreme conseguenze
la riflessione su quella che viene definita ragione di Stato
161
tradizionalmente la riflessione politica quindi la riflessione etico-politica o morale e
politica era guidata da principi etici da cui si facevano discendere per deduzione
principi generali etici deduzione gli atti da fare in politica
questo non vuol dire che tutti gli atti decisi in politica fossero etici e morali ma la
giustificazione di quegli atti lo doveva essere
quindi io potevo pur volere invadere il paese a fianco o da imperatore sottomettere
una popolazione, tuttavia, dovevo dare una mano di vernice etico-morale ai miei atti
pensate alle crociate non è che conquistiamo e sconfiggiamo gli arabi, gli islamici
turchi convertiamo gli infedeli
dopodiché con il passare dei secoli in particolare da una triade di autori cioè
Machiavelli, Gucciardini e Botero tre autori, due all'inizio del 500 uno verso la fine del
500 viene coniata questa espressione ragione di Stato
per ragioni di Stato a volte erroneamente si intende qualcosa che dipende da ragioni
contingenti allo stato in realtà l'espressione rimanda ad una questione più forte cioè
in questi autori all'inizio e poi alla fine del 500 si dice no in realtà la morale o l'etica e
risponde a principi generali spesso è inefficace per comprendere le situazioni e per
prendere delle decisioni
per loro la politica non era nazionale o internazionale era la politica propria delle
signorie e dei principati delle monarchie
quindi in politica le decisioni devono essere prese attraverso una riflessione che
tenga conto unicamente delle ragioni dello Stato e non dell'etica e non della morale
cioè dell'efficacia delle azioni e delle condizioni a contorno
era un passaggio epocale perché voleva dire e non è che forse un passaggio
indolore ed era una riflessione drammatica anche per gli stessi autori che la
facevano
dicevano la situazione politica istituzionale è tanto complessa che rifarsi sempre a
delle ragioni ideali ed etiche e inefficace per capire quello che occorre fare perché le
decisioni basate sull'etica e sulla morale sono efficaci se tutti quanti noi adottiamo lo
stesso criterio reale, la stessa cornice valoriale e allora possiamo dar per scontato
che, se io risparmio il nemico il mio avversario risparmierà me; se poi questa
condivisione di etica valoriale salta allora io non posso essere più sicuro di nulla
per queste ragioni Machiavelli prima, Guicciardini in maniera diversa ma più radicale,
e poi Giovanni Botero alla fine del 500 viene pubblicato questo testo la ragion di
Stato in cui questo viene messo nero su bianco anche se una tra le primissime
espressioni viene utilizzata proprio da Guicciardini
Guicciardini fa un esempio del conflitto tra Firenze e Pisa e sottolinea se noi
dovessimo ragionare moralmente, cioè noi abbiamo ragionato moralmente e quindi
una volta sconfitta Pisa abbiamo dato la libertà comunque ai Pisani questo in realtà
per la ragion di Stato è sbagliato perché noi o l'avremmo dovuti uccidere tutti per
impedire che loro ci riattaccano oppure una volta sconfitti quantomeno gli uomini li
avremmo dovuti castrare in modo tale che non si riproducessero e questo per la
162
ragion di Stato era perfettamente lineare è una città che mi fa guerra io una volta che
lo sconfiggo certo di controllarlo ma se poi è autonomo è molto probabile che torni a
farmi guerra moralmente non posso suggerire quello che ho appena detto ma per la
ragion di Stato questo andrebbe bene
Questo tipo di riflessione è portata alle estreme conseguenze per molte ragioni
proprio da Hobbes con la figura del leviatano
il leviatano uno dei testi più famosi di Hobbes; il leviatano è questo mostro mitologico
che controlla tutto e tutti e nel frontespizio dell'opera il leviatano vedete questo omino
con la corona che rappresenta il sovrano assoluto e il corpo di questa figura è
rappresentato da tutti i suoi sudditi e la città davanti a lui è invece deserta
il leviatano è un soggetto il monarchia assoluta per eccellenza e Luigi
quattordicesimo il re sole è colui che riesce a rappresentare tutti e tutto e la sua
volontà, una volontà del tutto slegata da qualunque riflessione etico-morale perché
ha la sua logica il sovrano non gli importa nulla di doversi giustificare
il sovrano è assoluto, è sovranità incarnata quindi le cose sono reali perché il
sovrano le nomina, è un qualcosa di totalizzante controlla tutto e quindi la ragione di
Stato non diventa più una ragione razionale di azione nel reale, nella politica bensì
addirittura proprio la volontà sovrana del re
vedete il sovrano; la città è completamente vuota e anche le campagne e tutti i
sudditi sono orientati verso la testa del sovrano ed è una delle rappresentazioni più
forti ecco dell'idea di monarchia assoluta
nel testo l'istituzione come prassi istituente come capacità di dar corpo a stili di vita
tra loro diversi è un un'istituzione che nell'ambito del Leviatano è praticamente
inscindibile cioè il sovrano nomina e fa esistere
in questo senso vi diceva Esposito quella prassi istituente passa dall'istituzione al
sovrano
163
bipolarità teologico-politica all'interno della quale si disporrà l'intero dibattito
contemporaneo sull'istituzione, sdoppiato nei due fronti radicalmente contrapposti
che già conosciamo. Da un lato la sua assunzione «katechontica», cioè difensiva,
orientata al necessario mantenimento dell'ordine; dall'altro l'opzione messianica per
la sua destituzione. Il contrasto tra istituzione e movimenti, da cui siamo partiti, trova
in questa dicotomia la propria genesi.
164
Lezione del 7 dicembre
Eravamo arrivati al secondo capitolo del testo dedicato alla questione del ritorno
dell'istituzione nel dibattito culturale e politico
abbiamo visto l'altro versante del rapporto che la nostra cultura ha istituito con le
istituzioni cioè il rapporto conflittuale che ha visto una sparizione, un oblio delle
istituzioni a cui si contrappone questo secondo capitolo
II. Il ritorno
1. Sociologia
Il ritorno delle istituzioni, nello scenario culturale novecentesco, non passa per lo
Stato, ma per la società. A inaugurare uno sguardo nuovo su di esse, prima ancora
della politica e del diritto, è la nascente scienza sociologica. Non tramite Weber terno
al paradigma hobbesiano dell'ordine ma lungo il filone che va da Émile Durkheim a
Marcel Mauss. Proprio questi, in un saggio pubblicato nel 1901 con Paul Fauconnet
nella Grande Encyclopédie, afferma che oggetto privilegiato della sociologia sono
appunto le istituzioni. Come le istituzioni dipendono dal contesto sociale in cui sono
impiantate, così questo è modellato da esse. È una prima, netta, presa di distanza
dalla concezione verticale di institutio, dipendente gerarchicamente da una volontà
superiore. Le istituzioni non sono il prodotto di volontà particolari, ma l'esito di forze
impersonali che precedono gli individui, determinandone i comportamenti. I soggetti,
piuttosto che formarle, ne sono essi stessi formati mediante l'educazione trasmessa
lungo la catena delle generazioni. In tal modo la sociologia francese si situa fuori dal
quadro concettuale del positivismo giuridico. Non è il soggetto sovrano a plasmare le
istituzioni in base alle proprie decisioni, ma sono esse a tracciare i margini entro i
quali il legislatore deve muoversi. Piuttosto che costruirle, l'individuo si trova da
sempre inscritto nella loro grammatica.
questo movimento della riflessione sociologica forse non proprio solo sociologica ma
adesso su questo si concentra Esposito nel concepire le istituzioni
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È un punto di svolta, da cui anche il tema classico dell'institutio vitae acquisisce
nuovo significato: la vita non è solo oggetto, ma anche soggetto, di istituzione, con
cui forma un unico movimento. A partire da qui si avvia una riconversione del
concetto, che sposta l'accento dall'istituito all'istituire, con un deciso mutamento
semantico rispetto al paradigma hobbesiano-weberiano. Ma quali sono gli elementi
che fanno delle istituzioni, piuttosto che il freno della dinamica vitale, il suo canale di
diffusione all'in- terno della società? Innanzitutto la capacità, da parte di ciascuna di
esse, di generarne altre in un processo potenzialmente infinito. A questo proposito
Mauss ricorda che il culto degli antenati nasce all'interno dei riti funeari, esattamente
come questi derivano da procedure magiche anteriori e così via, in una sorta di
arretramento genealogico tendenzialmente infinito, perché ogni origine appare
scaturire da un'altra precedente. Come la vita degli uomini rivela il suo intero
significato solo se inserita nel corso delle generazioni, così quella delle istituzioni va
situata in un processo genetico che dal passato si allunga nel futuro. Centrale, in
questa nuova prospettiva, è il riferimento a una prassi effettuale, tesa a modificare la
realtà. A differenza degli atti giuridici, che si limitano a legittimare situazioni
sedimentate, le procedure istituzionali «sono efficaci in sommo grado, creano,
fanno».
Nel proseguo di questo paragrafo Esposito aggiunge degli elementi propri della
riflessione sociologica in questo momento storico
il secondo paragrafo del secondo capitolo cambia disciplina, invece di guardare la
sociologia guarda il diritto
2. Diritto
I primi, e più influenti, teorici dell'istituzionalismo giuridico sono il francese Maurice
Hauriou e l'italiano Santi Romano. Senza entrare nei dettagli della loro opera, basti
osservare che essi sono i primi a superare la concezione personalistica dell'institutio
medioevale, poi trasferita nella logica della sovranità assoluta terrena. Ciò che
Hauriou contesta è la dottrina positivistica sostenuta in Germania dai teorici del
diritto Carl Gerber, Paul Labande Georg Jellinek - che interpreta le norme di legge
come espressione della volontà statale. Sostenere che l'intera produzione giuridica
scaturisca dal volere del legislatore vuol dire perdere di vista il lungo processo di
formazione degli stessi Stati nazionali, insieme alle leggi e alle consuetudini che li
precedono e a volte li eccedono.
la sociologia lega in questo ritorno delle istituzioni, il farsi delle istituzioni al farsi della
società quindi non schiaccia le istituzioni come non schiaccerà neanche il diritto
come avevamo visto in precedenza né sulla volontà di un singolo, di potenti né sulla
volontà assoluta del sovrano come avevamo visto nel percorso del primo capitolo
che si concludeva se volete con riferimento a Hobbes
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il diritto fa la stessa cosa ma lo fa legando lo sviluppo delle leggi non ad un desiderio
di una persona, di poche persone bensì ad una dinamica che è certo legislativa ma
che risente delle società all'interno delle quali queste leggi prendono corpo
Per quanto riguarda l'istruzione voi questo lo vedete con molta facilità oggi se
pensate alle tante riforme che si sono succedute dell'università, della scuola primaria
della scuola dell'infanzia ,delle scuole secondarie non è che c'è una decisione unica
e avulsa dal contesto sociale legislativo che dà origine alla riforma certamente c'è un
lato, una prospettiva rispetto ad un'altra o ad altre ma fa di questo un totale atto di
imperio è una visione un po’ troppo semplicistica delle riforme anche in ambito
dell'istruzione
Tutto il 900 riguardo alle istituzioni si scardina un'idea in questo è efficace l’
espressione di Esposito eccessivamente verticistica delle istituzioni
Dopo aver spiegato Hauriou e santi romano Esposito compie un'ulteriore passaggio
questa è la conclusione della riflessione riguardo salti romano
A spingersi ancora più avanti nella critica della sovranità statale è il sociologo del
diritto franco-russo Georges Gurvitch in un'ulteriore, e più estrema, versione di
istituzionalismo, che rompe anche il rapporto tra ordinamento e organizzazione.
Distinguendo un diritto organizzato da uno non organizzato, Gurvitch assegna a
quest'ultimo maggiore energia del primo. Mentre il diritto non organizzato può
sussistere senza quello organizzato, non vale l'inverso. Anzi, se si chiude nella sua
corazza normativa, il diritto si tramuta in una forma di dominio destinato a opprimere
la società. In questa versione radicale di istituzionalismo il diritto non solo nasce dal
basso di una società attraversata da tensioni e conflitti, ma è pienamente immanente
167
a questa. Esso non dipende da una volontà sovrana trascendente, ma fa tutt'uno
con istanze e movimenti irriducibili ai codici e alle leggi stabilite.
stiamo vedendo come nelle diverse discipline torna la questione dell'istituzione nel
suo legame più dinamico con la vita e col trasformarsi nel tempo
3. Filosofia
Il terzo confronto critico con l'istituzione, distinto ma contiguo a quelli con la
sociologia e con il diritto, è aperto dalla filosofia. Per coglierne la genesi bisogna
guardare soprattutto alla corrente fenomenologica, inaugurata in Germania dagli
studi di Edmund Husserl e diffusa in Francia da Maurice Merleau-Ponty già dagli
anni Cinquanta del secolo scorso. Ma perché proprio la fenomenologia, cioè un
pensiero apparentemente lontano da una proiezione politica? In realtà questa
immagine di maniera è contraddetta dall'impegno etico-politico di diversi suoi
esponenti. Ma, per altri versi, si potrebbe sostenere che proprio l'apparente
posizionamento impolitico della fenomenologia l'abbia tenuta a riparo da opzioni
filosofico-politiche rivelatesi successivamente fallimentari o altamente problematiche.
Se si guarda alla Francia, le prospettive di due filosofi come Raymond Aron e Jean-
Paul Sartre, largamente influenti sui versanti liberale e marxista, sono difficilmente
riconducibili a un'idea innovativa di prassi istituente. Quanto alla Germania, a una
svolta istituzionalistica non potevano condurre né la cultura posthegeliana, ancorata
a una filosofia monistica dello Stato, né l'ontologia heideggeriana, costretta, dopo la
gravissima implicazione con il nazismo, a ripiegare in direzione impolitica.
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«relazione», che inserisce il soggetto individuale in un tessuto di reciprocità
condivisa con gli altri.
4.Politica
Naturalmente, nel ritorno in campo del pensiero delle istituzioni, insieme alla
sociologia, al diritto e alla filosofia, non può mancare la politica. In questa ripresa di
interesse, anzi, essa occupa un posto di primo piano, situandosi nel punto di
raccordo e tensione con la società. L'autore che meglio aiuta a capire questa
triangolazione è Claude Lefort, allievo prediletto e curatore delle opere di Merleau-
Ponty.
169
Per lui, infatti, il compito della politica è appunto «l'istituzione del sociale».
Per intendere il senso di questa espressione, non bisogna confondere il termine con
nessuna delle istituzioni già presenti nella società, ma riferirsi alla stessa prassi
politica, in quanto tale istituente. A congiungere istituzioni, società e politica è la
funzione del conflitto. La politica, infatti, istituisce la società dividendola in due campi
inevitabilmente conflittuali. O, meglio, portando a consapevolezza la divisione che fin
dall'origine la percorre. La società, ogni società, passata e presente, è sempre divisa
tra valori e interessi contrapposti. Ma spesso non sa di esserlo, immaginandosi unita
nella pretesa compattezza del popolo. Ebbene, la prassi istituente è ciò che rende la
società cosciente di essere divisa e del luogo preciso in cui passa la divisione. Ciò
spiega il rapporto complesso che lega politica e società. L'una non potrebbe esistere
senza l'altra, pur senza coincidere con essa. La società è l'unico spazio in cui si
esercita la politica. Ma ciò vale anche all'inverso. Come non può esistere politica
senza società, così non può esistere società senza politica. Perché senza la
funzione qualificante della politica, ossia senza le decisioni che di volta in volta essa
prende, ogni società sarebbe uguale alle altre. Solo la politica, e più precisamente il
conflitto che l'at- traversa, conferisce alla società il suo senso specifico, rendendola
diversa da tutte le altre. È la sua istituzione politica, ad esempio, a differenziare la
società di antico regime da quella moderna; o a distinguere una società democratica
da una totalitaria.
Per «potere», insomma, dal punto di vista istituente, non deve intendersi un
dispositivo di dominio, ma ciò che fornisce a ogni società la sua configurazione
istituzionale. Ovviamente il ruolo, la forma e le prerogative del potere variano
storicamente in base alle diverse organizzazioni sociali.
Da questo punto di vista si può dire che, sotto il profilo genealogico, il primo
pensatore del potere istituente sia stato Machiavelli. Nessuno come lui ha colto e
teorizzato il carattere produttivo del conflitto politico nella società. Non in contrasto
con l'ordine, ma in relazione necessaria a esso. Diversamente da Hobbes, che pone
in alternativa ordine e conflitto, condizionando la nascita del primo all'estinzione del
secondo, per Machiavelli il conflitto è il motore fondamentale dell'ordine politico. Egli
è forse l'unico pensatore moderno per il quale esso è non solo originario, ma anche
insuperabile. È originario, cioè istituente, perché non è preceduto da nulla. Neanche
dalle parti in conflitto tra loro, le quali, piuttosto che causa, ne sono l'effetto.
Insuperabile perché connesso costitutivamente all'attività politica.
Insomma, istituzione è ciò che tiene insieme gli interessi contrapposti, evitando che il
conflitto politico degeneri in violenza. Si pensi, ad esempio, per restare a Machiavelli,
all'istituto romano del tribunato della plebe, di cui si tratta diffusamente nei Discorsi.
170
I discorsi sono i discorsi sopra la prima deca di Tito Livio è un testo fondamentale
della nostra tradizione e per pensare l'Italia del 500
Esso, nato dal conflitto politico tra patriziato e plebei, aveva il ruolo di organizzarlo in
re- lazione ai rapporti di forza di volta in volta determinati. Così, diversamente da
Hobbes, che riconduce la politica allo Stato, Machiavelli la lega alla dinamica delle
istituzioni. Per Hobbes l'unica istituzione possibile e necessaria alla sopravvivenza
della società è quella statale. Per Machiavelli, che vive in un paese, come l'Italia del
Cinquecento, privo di Stato, le istituzioni politiche, civili, religiose, militari eccedono
l'orizzonte statale, lo precedono, ma anche l'oltrepassano.
il capitolo questo dedicato al ritorno delle istituzioni si chiude con un capoverso che
pone delle domande che poi guideranno il resto del testo
171
Allo stesso modo la stessa istituzione oltre a voi ha il personale tecnico,
amministrativo, i docenti a loro volta portatori di esigenze, di visioni differenti
entrano in agonismo queste visioni queste necessità certo che entrano in una
visione agonica, l'università come istituzione ha alcune esigenze che deve mediare
perché ci sono altre esigenze e questo aspetto fa sì che l'università e la società tutta
si trasformi non è un'istituzione che replica se stessa nel suo chiuso e perché si è
deciso
in questo senso il pensiero politico-istituzionale ha reintrodotto un elemento anche
attraverso i classici l'elemento del conflitto all'interno della visione dell'istituzione e
per altri aspetti, per altri pensatori, per altre tradizioni è invece quanto di più positivo
esista per positivo è il termine tecnico
l'educazione positiva e l'educazione negativa di Rousseau; è il positivo e quando si
impone qualcosa, il negativo e quando si creano le condizioni perché ci sia un libero
sviluppo non si interviene direttamente
in questo senso nelle istituzioni vi è una coesistenza di positivo e di negativo ed è
questo che viene indagato nel capitolo successivo cioè il ruolo del negativo
all’interno delle istituzioni
Il capitolo dedicato alla produttività del negativo è un capitolo che indaga un aspetto
a prima vista eccentrico rispetto alla trattazione del generale del libro e che a sua
volta si struttura in maniera differente
l'inizio del capitolo è dedicato a un tema quello della fine della mediazione che
intende mettere a fuoco proprio questo elemento sorgivo del negativo all'interno
delle istituzioni
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collidenti, portate a negarsi a vicenda, pur senza arrivare a cancellarsi l'un l'altra. Si
può dire anzi che il carattere peculiare dell'istituzione risieda precisamente nella loro
implicazione reciproca.
Da qui l'antinomia del concetto, che sem- bra metterlo in contrasto con sé stesso:
l'esito del movimento istituente è la stabilità dell'istituzione. Piuttosto che divellere
l'antica radice, la novità s'incardina in essa, estendendola e insieme rafforzandola.
Da qui il carattere singolare della sua logica. Che tiene insieme movimento e
stabilità, mutamento e permanenza, innovazione e conservazione. L'istituzione non
nasce ex nihilo, ma sempre da qualcosa anch'essa a suo tempo istituita,
contemporaneamente da preservare e innovare. Ma ecco la domanda che continua
a interpellare gli interpreti senza trovare una risposta convincente come si può
preservare una novità senza negarla?
Torna la questione del negativo. Perché il processo istituente sia produttivo, occorre
che dia vita a qualcosa che non gli preesista. E infatti, una volta istituita, l'istituzione
acquisisce una realtà esteriore al movimento che l'ha prodotta. Questo elemento di
esteriorità, o autonomia, del risultato rispetto all'intenzione soggettiva che ha portato
a esso, appare ineliminabile. È ciò che Hegel chiama «spirito oggettivo». Si tratta del
momento in cui lo spirito si realizza nell'effettualità, appunto oggettiva, delle
istituzioni, al cui culmine si colloca quella, suprema, dello Stato. Il presupposto di tale
concezione è l'impossibilità, per l'attività del soggetto, di durare senza oggettivarsi in
qualcosa che in qualche modo la sorpassi.
173
Tuttavia questo moto di contestazione questo negativo viene internalizzato all'interno
delle istituzioni viene portato dentro ed è un successo di quel movimento non a sua
volta una loro negazione
nelle due pagine successive Esposito vi cita due autori che finora non aveva
utilizzato in senso stretto cioè Marx e Richer e che hanno visioni differenti delle
istituzioni
Di maggiore interesse è l'ultimo capoverso di questo paragrafo perché tira le somme
di quello che è stato detto prima
174
il secondo paragrafo del quarto capitolo riguarda le protesi dell'umano
per protesi dell'umano non significa nient'altro che entità, le istituzioni che servono
per esercitare meglio il proprio essere umani, essere cittadini in questo senso protesi
il discorso che porta avanti in questo paragrafo l'autore oscilla tra riflessione politica
e riflessione filosofica e soprattutto l'autore con cui dialoga è Gehlen
2. Protesi dell'umano
Non può sfuggire il tono esplicitamente conservatore del discorso di Gehlen, la cui
biografia non è esente da vistosi compromessi politici con il regime nazista. Quello
che manca alla sua teoria delle istituzioni, e in genere alla sua antropologia negativa,
è una valutazione adeguata della socialità originaria, e dunque della creatività, della
natura umana. Ciò rischia di capovolgersi in una sorta di rinaturalizzazione delle
stesse istituzioni che hanno spinto l'uomo al di là della dimensione naturale. È
quanto, in un celebre confronto, Gehlen obiettò Adorno: le istituzioni non sono solo
una protesi tecnica originata dalla mancanza della natura umana, ma il frutto di un
determinato sviluppo storico. Perciò il nostro destino non dipende solo dalla loro
tenuta, ma soprattutto dalla loro disponibilità al mutamento.
175
noi naturalmente a questo contrapponiamo ma per noi piuttosto che una tabellina in
più ci interessa il fatto che sia incluso in una società e non escluso da essa
qui vedete che sono due visioni che non sono conciliabili e sono due visioni in cui
Weberaniamente si sceglie a seconda di quello che si crede di quello a cui aderiamo
come principio ultimo non è che possiamo giustificare in altra maniera per esempio il
valore dell'inclusione se aderiamo a un ideale del genere è un'ideale etico-sociale
in pedagogia e scienze dell'educazione non siamo una scienza in questo senso che
possa procedere per esperimenti è falsificante possiamo fare raffronti geografici,
temporali eccetera ma non possiamo creare delle condizioni negative anche soltanto
per rafforzare quello che crediamo
questo è lo stesso identico discorso che fa Gehlen per le istituzioni, cioè, se sono
naturali non possiamo mettere in discussione, il problema è che questo porta a
giustificare qualunque istituzione venga creata
allora innanzi fascismo è un bisogno di ordine che la società esprime naturalmente
3. Istinti e istituzioni
Partendo da presupposti non lontani da quelli di Gehlen, in un breve testo degli anni
Cinquanta, Gilles Deleuze interpreta il negativo della prassi istituente in una chiave
più aperta.
Deleuze autore francese e uno dei pensatori della differenza interprete anche di
Foucault e al contesto da Roland Barthes a Delidà che caratterizzò gli anni 60 e 70
della riflessione francese
Differentemente da coloro che vedono nelle istituzioni una coartazione delle forze
vitali, egli vi riconosce una potenza affermativa volta a favorirne lo sviluppo. Non solo
l'istituzione non soffoca il libero dispiegamento degli istinti, ma, a certe condizioni, ne
consente l'espansione. Anziché esercitare un effetto inibitorio sulle tendenze
naturali, apre a esse uno spazio di soddisfazione altrimenti precluso.
Se Gehlen vede nelle istituzioni una protesi per impedire quello che naturalmente
faremo; una protesi naturale per impedire la lotta contro di tutti contro tutti la
tendenza al disordine eccetera
Deleuze vede un elemento di naturalità nelle istituzioni ma al contrario cioè ci
dotiamo di istituzioni perché possono farci fare di più non impedirci delle cose che
riteniamo negative qui il negativo è negativo positivo
176
Può interpretare il negativo in tutti questi autori ma anche nello stesso Hegel cioè da
Hegel non come il segno meno davanti a un numero quindi negativo in meno bensì
in un qualcosa di segno opposto a quello che c'era e che si cerca di mettere in
discussione d'accordo
il negativo del fascismo e l'antifascismo e il negativo della scuola degli anni 60 sono i
moti che danno vita ai decreti delegati
non è che dovete immaginare il positivo come una cosa buona, il negativo come una
cosa cattiva possono essere anche due cose non obbligatoriamente molto buone o
non obbligatoriamente molto cattive
sono bisogni che si contrappongono ma nel contrapporsi non è che una è positiva
nel senso classico del termine e una e negativa
Egli arriva a tale conclusione mediante una sconnessione tra istituzione e legge, che
spinge quest'ultima dal lato del negativo, riservando alla prima una connotazione
positiva.
La legge è il negativo non perché sia negativa la legge in quanto tale ma perché
rispetto alla visione che ha Deleuze dell'uomo, dell'essere umano e delle istituzioni;
l'essere umano propone cose, cioè inevitabilmente nella sua vita fa cose
Deleuze è un vitalista quindi l'essere umano è impossibile, è l’irradiarsi di forme di
vita la legge frena questo, irreggimentata questo e non perché è attiva ma perché
altrimenti è impossibile la vita in comune
una legge che regolamenti i comportamenti reciproci si oppone al desiderio sessuale
di ciascuno e di ciascuna però questo non vuol dire che né nel desiderio sessuale né
delle leggi che regolamentano i rapporti sociali o sanzionino comportamenti ritenuti
di volta in volta negativi sia negativa come legge entrambi gli elementi però uno si
contrappone all'altro, non è che non si contrapponga
Mentre la legge rinchiude l'azione umana entro confini segnati da obblighi e divieti,
l'istituzione le fornisce modelli funzionali una realizzazione agevolata. È Deleuze può
sostenere la tesi inusuale che, se per questo che «la tirannia è un regime in cui vi
sono molte leggi e poche istituzioni, la democrazia è un regime in cui vi sono molte
istituzioni e pochissime leggi». Alla base di tale affermazione c'è un rovesciamento di
priorità nella relazione tra diritto, politica e società. Norma giuridica e decisione
politica non precedono, ma seguono, i bisogni storicamente istituiti. Perciò vero
legislatore non è chi legifera, e tantomeno chi comanda, ma chi istituisce. Da qui un
passaggio destinato a riannodare quel nodo tra stato naturale e stato politico che,
all'origine della filosofia politica moderna, Hobbes aveva drasticamente tagliato. Il
punto di riferimento di tale ragionamento, che rivaluta la natura umana, tuttavia, non
è Rousseau, ma Hume. E ciò per un doppio motivo. Intanto perché, attraverso
177
l’utilitarismo di Hume, Deleuze si pone al di fuori del mitologema del contratto
sociale.
E poi perché, anziché opporre la natura alla cultura, le integra in una modalità che
abbandona il dualismo moderno a favore di una nuova prospettiva. Per l'utilitarismo
l'asse portante della società non è la legge, ma l'istituzione. Mentre il fine di una
società governata dalla legge è garantire ai sudditi, o ai cittadini, il godimento di diritti
naturali legittimati dal contratto, l’intendimento di una società plasmata dalle
istituzioni è rendere i cittadini soggetti di una prassi confacente ai loro bisogni.
178
è chiaro che le istituzioni mettono un freno a questo perché mi dicono che per
lavorare, per sopravvivere devo lavorare e devo lavorare almeno un tot di ore al
giorno perché altrimenti non metto insieme il pranzo con la cena e tuttavia mi
garantiscono che quelle ore al giorno sono sufficienti per poter sopravvivere e che
quindi posso continuare a fare anche dell'altro
quindi da un lato certo che frenano dall'altro questo frenare non soltanto rende
possibile ma aumenta le possibilità
Per quanto necessaria alla sua soddisfazione, l'istituzione non è l'istinto. Richiede
una distanza che, se non lo nega direttamente come fa la legge, lo sdoppia
attraverso il diaframma dell'immaginazione. Ciò inverte le proporzioni tra istituzione e
legge. L'istituzione, si può dire, è l'affermazione di un negativo, contrariamente alla
legge, che è la negazione di un positivo. A porle in contrasto non è un'opzione
assoluta tra affermazione e negazione, ma il modo in cui esse s'incrociano e il punto
prospettico da cui tale incrocio è guardato. Se la legge guarda al positivo – il dato
naturale, la tendenza - dal punto di vista della negazione, l'istituzione guarda al
nega- tivo dal punto di vista dell'affermazione.
il quarto capitolo si intitola oltre lo stato e in questo capitolo Esposito vi propone una
serie di esempi che fanno vedere come la formula statale da cui discendevano delle
istituzioni entri in crisi per alcuni aspetti non è questo che interessa ad Esposito
riflettendo sullo stato in quanto tale ma cercando di capire quale possa essere il
ruolo delle istituzioni in un momento in cui è lo stato ad essere fortemente indebolito
questa formula si è indebolita il ruolo delle istituzioni non più con l'individuo ma con
lo stato è un rapporto e che va pensato
è quello che viene fatto appunto in queste pagine
179
Lezione del 13 dicembre
4. Immaginario sociale
Il rapporto tra istituzione e immaginazione è al centro della teoria di un altro au-tore,
Cornelius Castoriadis, certamente il più radicale nel rivendicare il carattere creativo
della prassi istituente. Ciò deriva da un lato dalla sostanziale identificazione dei due
ter- mini: immaginare qualcosa significa istituirla, facendo di un non-essere un
essere. Dall'altro dalla precedenza di questo immaginario istituente nei confronti di
ogni altra realtà. Se il reale, in tutte le sue forme e manifestazioni, è sempre istituito,
vuol dire che non esiste nulla prima dell'atto che gli dà espressione: né individuo né
società, né natura né cultura, né economia né politica. In tal senso la teoria di
Castoriadis si colloca fuori da tutte le principali correnti filosofico-politiche
novecentesche. Se è esterna alla concezione liberale, che pone al primo posto
l'individuo, lo è altrettanto a quella marxista, che fa dell'istituzione una risultante del
modo di produzione. Quando, invece, sia l'individuo sia il modo di produzione
assumono senso solo se socialmente istituiti. Il soggetto individuale è sempre
inscritto dentro rapporti sociali che ne condizionano i comportamenti, così come la
classe trova rilievo istituzionale nella relazione che instaura con associazioni,
sindacati, partiti.
C’è la specificità di castoriadis rispetto alle altre teorie che erano state presentate
dallo stesso Esposito
180
Per ripararsi da questa evenienza, occorre mantenere in vita il sottile equilibrio tra
essere e divenire, storia e natura, che assegna alla prassi istituente una forma
dialettica. L'attività umana non può reggere in mancanza di un negativo capace di
fare attrito nel flusso del divenire. Ha bisogno di sedimentarsi, e stabilizzarsi, in
pratiche rituali, simboliche, sociali, politiche, senza le quali non sarebbe in grado di
resistere alla pressione del tempo. Ma evitando di scivolare in una forma di
determinismo naturalistico, dal momento che non esiste una natura umana esterna
ai dispositivi storico-sociali che di volta in volta, e sempre differentemente, la
plasmano con risultati diversi. L'esito ultimo di questo processo è quello in cui
l'immaginario assume una forma specificamente politica, coincidente con il
passaggio dall'eteronomia all'autonomia. È il momento in cui una data società si
riconosce libera da vincoli trascendenti, di tipo teologico o naturale, affidandosi
all'autodeterminazione. Politica è la capacità autoriflessiva attraverso cui la società
vince la propria alienazione a potenze esterne, riconoscendosi padrona del proprio
destino. Solo allora si può dire che assuma in pieno la propria storicita.
181
tornare a una società della sostanza, il concetto era qualunque società è una società
dello spettacolo poi può cambiare lo spettacolo ma qualunque è così e quindi non
c'è il ritorno a un qualcosa di originario c’è casomai il partecipare allo spettacolo
specifico anche adottandone le regole e però cercando di cambiarla dall'interno
Erano autori che riuscivano a essere provocatori anche con pochissimo in un
momento che anche in Francia era di boom economico quindi anche del lavoro,
della riuscita personale
I situazionisti creavano l'internazionale situazionista ci sono delle persone che si
sono riconosciute in questa idea di un'istituzione non istituzionale
il quarto capitolo si intitola oltre lo stato in questo capitolo Esposito cerca di mostrare
come alcuni sviluppi storico istituzionali mettono in crisi quel modello che avevamo,
visto illustrato agli stessi Esposito attraverso soprattutto attraverso Hobbes
sono comunque un potere e un istituzione messe ampiamente in discussione dal
corso della storiografia
il primo paragrafo si intitola testualmente istituzioni senza sovrano
Il 1989 è un momento in cui la società nel bene e nel male ripensa se stessa
Sia che voi foste vicini a un'idea di socialismo di aspirazione ideale sia che voi foste
invece lontani dalla visione del tipo l'alternativa non era un'alternativa teorica era
un'alternativa pratica cioè nel momento in cui io caldeggio un modello oggi non
posso che immaginare un modello ad esempio socialista integrato in una società
occidentale
fino a 89 io potevo immaginare sia quello detto ma anche un'alternativa radicale che
era lì esisteva
era proprio diverso un conto è entrare in linea con un modello esistente o in
contrapposizione come difesa se io non ero d'accordo alla possibile trasformazione
del mio paese un conto invece è fare un discorso all'interno di una koinè, di un
modello culturale che comunque è uno veramente assai diverso magari
182
Come si è già osservato, individualismo metodologico e cultura marxista, per quanto
contrapposti, si sono trovati alleati in quest'opera di deistituzionalizzazione della
politica. A lungo le istituzioni sono state considerate, anziché soggetti decisivi del
gioco politico, meri contenitori dei comportamenti individuali e collettivi. Classi
sociali, modelli economici, trasformazioni tecnologiche sono apparsi fattori
determinanti delle dinamiche politiche assai più della prassi istituente. Poi, a un certo
momento, lo scenario è cambiato: le istituzioni hanno cominciato ad apparire sempre
più rilevanti nel definire, orientare, trasformare le agende politiche. E, a loro volta, le
agende politiche hanno dovuto tenere sempre più conto delle istituzioni,
riconoscendone il rilievo con un'intensità che ha appunto indotto a parlare di «nuova
scoperta». Tuttavia, a differenza di quanto ritengono March e Olsen, questa
«riscoperta» delle istituzioni non dipendeva da quello che negli stessi anni Gabriel
Almond definiva Return to the State, ma, al contrario, dalla riduzione, sempre più
vistosa, della sua centralità.
Vero è che lo Stato è sempre stato interpretato, non senza ragione, come la prima e
più comprensiva delle istituzioni. E tuttavia proprio questo primato, per certi versi
scontato, viene a essere messo in mora dai processi di globalizzazione intensificati
proprio alla fine degli anni Ottanta, in conseguenza della risoluzione della Guerra
fredda. Oggi sappiamo bene quanto quei processi fossero contraddittori e ineguali,
sfidati, spesso con successo, da resistenze e derive a essi contrarie. Ma è assai
dubbio che, sul tempo lungo, qualcosa potrà fermare, o addirittura rovesciare, il
tramonto del modello Westfalia, vale a dire dell'assetto moderno fondato sulla piena
autonomia degli Stati sovrani come unici titolari della decisione politica.
Questa è una dinamica che è una delle sfide educative e sociali; è una delle
questioni sul tavolo
pensate al alle tensioni che continuamente si rincorrono in Italia nel suo rapporto con
l'Europa e la dinamica talmente irrazionale di ciò che si rimprovera l'Europa; il fatto
che nelle partite del sulla questione europea le posizioni di partiti singoli erano
abbastanza nette degli anni 90 all'inizio ì adesso incredibile confuse cioè persone
che rinfacciano all’Europa di essere troppo invasive per le quote latte e
183
contemporaneamente ricordano all’Europa di non avere posizioni politiche forti sui
conflitti altrove
se chiedi che la comunità europea abbia posizioni forti coese, tutti i paesi insieme
rispetto a questioni gravissime e di lunga prospettiva come conflitti in altre parti del
mondo cioè non è che puoi chiedere l'autonomia del tuo stato quando ti servono
cose serissime ma locali e vuoi una politica coesa e se non c'è la politica coesa
allora c'è l’Europa
se traete le conseguenze dell'una la posizione dell'altra arrivate presupposti
completamente opposti
ci sono tre materie che sono di prerogativa nazionale che vuol dire che la comunità
europea può dare indicazioni ma non sono vincolanti queste tre aree di competenza
nazionale sono la difesa, la sanità e istruzione
perché in queste tre aree la comunità europea può dare delle indicazioni ma non
possono essere vincolanti vuol dire che non sarebbe mai illegittimo sanzionare un
paese per non essersi adeguato alle normative riguardo a queste tre
una politica estera unica vorrebbe dire compenetrare le esigenze di paesi che vivono
situazioni diverse in maniera molto diversa e bisognerebbe compenetrare necessità,
situazioni, elettorato
alcuni paesi per tradizione dagli anni 60 hanno creato dei percorsi privilegiati per
quelli che vorrebbero fare il parlamentare in Europa
alcuni paesi si sono dotati qui persone che lavorano su questo è che lavorano per
l'istruzione ed è il motivo per cui spesso le richieste italiane non passano ma perché
non abbiamo una classe politica che si è preparata
qui lo si vede bene come questione perché lo stato come contenitore delle istituzioni
e le istituzioni internazionali pensate al peso di istituzioni come per università l’EUI o
l'Ocse per l'educazione sono istituzioni sovranazionali che però a volte lavorano con
lo stato e altre volte invece si creano delle tensioni forti
184
pandemica pro duca, sul tempo breve, forme di chiusura fobica all'interno del confini
nazionali. Ma la stessa possibilità di contrastare il virus con misure strutturali, in
termini medici ed economici, richiede pur sempre una rete di connessioni di
dimensioni almeno continentali, se non mondiali.
la globalizzazione ha portato con sé una dimensione inedita perché fino alla seconda
guerra mondiale anche la borsa che era già un importantissima però quella borsa è
una borsa che adottava la legislazione del paese in cui si svolgeva perché le
dimensioni erano seppure ma locali con la virtualizzazione della moneta le leggi di
mercato sono leggi che praticamente sono sganciate dagli Stati nazionali e sono
legate alla mia residenza cioè dove io dichiaro le tasse
mentre prima se avessi dovuto fare i soldi con la borsa di Wall Street sarei stato con
le regole statunitensi e quindi la borsa avrebbe alimentato l'economia statunitense
sganciandola quella ricchezza non arricchisce nessuno
il plusvalore non torna sulla società perché ose ho soldi veri per pagare meno tasse
possibili e cerco di andare dove sono poco conto
questa dinamica internazionale in cui si può essere insieme radicato in luogo e
slegati da quel luogo la cosa paradossale è che tutte le questioni intorno al
cosmopolitismo sia conto l'educazione nazionale, non nazionale sono stati superati
185
Naturalmente, nella scena squadernata, ma anche slabbrata, della globalizzazione,
ac- canto a istituzioni di questo tipo, ne esistono altre, anch'esse non governative,
espressive di precisi interessi economici come il Fondo monetario internazionale o
l'Organizzazione mondiale del commercio, per non parlare di lobbies e corporations
di natura ancora più opaca.
questo quadro della tensione tra stato e istituzioni che non si riducono allo stato che
lo superano in molti casi perché
per esempio l’istituzione per molti aspetti meritoria come l’OMS ha tensioni molto
forti con gli Stati
in alcuni di questi paesi la carestia riguarda una grande maggioranza della
popolazione non tutta che però è quella piccola fetta di popolazione che sta bene ad
esprimere i rappresentanti dello Stato per l'OMS e questo ha ulteriori contraddizioni
3. Giustizia sovversiva
Non è detto che la relazione tra diritto e politica - la politicizzazione del diritto debba
passare per la centralità dello Stato.
186
prima nel paragrafo precedente la questione del diritto privato è una questione molto
delicata perché appunto ve l'ho già accennata quando vi avevo detto delle tasse
però qual è il limite del diritto, qual è l'estensione del diritto e qual è l'estensione che
può far valere il diritto all'interno del singolo momento
il problema è che il contenzioso si ripresenterà sempre non c'è una norma giuridica
su cui fa leva il nostro sistema cioè può dire non avete pagato adeguatamente per
quello che state avendo
però non è che c'è un ente terzo che amministri questo tipo di controversie quindi
quell'aspetto, quella tensione si vede molto bene nell'ambito del diritto pubblico e del
diritto privato
Al contrario, essa può derivare dalla frammentazione del sistema giuridico in una
serie di istituzioni situate fuori dall'orbita statale. È la strada intrapresa dal sociologo
del diritto Gunther Teubner. Allievo del teorico dei sistemi Niklas Luhmann, egli
prende le mosse dal radicale decentramento dei processi di costituzionalizzazione
che hanno investito la società contemporanea. Teubner ritiene che tali dinamiche
non possano più essere analizzate con gli strumenti concettuali del diritto pub- blico
europeo, ma vadano ricondotte a una forma di «costituzionalismo senza Stato».
Anche il tradizionale riferimento alle istituzioni internazionali gli appare inadeguato,
dal momento che esse rimandano pur sempre alla relazione tra i diritti sovrani dei
diversi Stati. Non è però neanche possibile ipotizzare qualcosa come una
costituzione mondiale, inimmaginabile in un contesto geopolitico eterogeneo come
quello in cui viviamo. E allora? L'unica via praticabile è quella di riconoscere una
molteplicità di costituzioni sociali né interamente pubbliche né interamente private,
prodotte nelle varie sfere in cui si differenzia la società contemporanea: economia,
scienza, tecnologia, media, medicina, istruzione, trasporti, ecc. Ormai la distinzione
tra pubblico e privato è superata da una policontestualità irriducibile a una logica
binaria, perché articolata in una costellazione di universi semantici ortogonali rispetto
alle classiche dicotomie moderne. Semmai la distinzione tra pubblico e privato,
scorporata da quella tra Stato e società, riemerge all'interno di ogni settore, con un
effetto di continue tensioni conflittuali. Un primo tipo di conflitti è quello che insorge
tra i diritti dei singoli Stati nazionali e le regole, in continua metamorfosi, delle nuove
aggregazioni postnazionali.Insomma, il solco tra diritto e giustizia re- sta
drammaticamente aperto. A impedire di colmarlo è proprio il carattere autopoietico,
cioè privo di riferimenti esterni, dei differenti sistemi sociali. Se ciò vale per ogni
sistema, vale ancora di più per quello, rigidamente formalizzato, del diritto. Come
sostiene Luhmann, esso svolge una funzione immunitaria, cioè neutralizzante, nei
confronti dei conflitti che investono la società.
Il sistema di diritto è pensato per immunizzare la società a cui si riferisce quel diritto
dalle derive dei reati anche per consentire di pacificare eventuali conflitti
qual è il rischio di ogni pratica immunitaria? che si sviluppi una malattia autoimmune
187
il diritto deve mantenersi sull'essere immunizzante ma non sviluppare forme tanto
aggressive di diritto da impedire la ragione stessa che andava a moderare
se io voglio sanare l’utilizzo dell'alcol posso fare delle leggi; quanto posso spingermi
nel limitare il fenomeno senza che il fenomeno stesso mi sfugga tra le mani
questo vale dei comportamenti individuali ma anche per i comportamenti sociali
questo elemento regolatorio, immunitario ma che si presta poi a una malattia
autoimmune cioè ad un sistema che sviluppa esso stesso il problema da cui invece
voleva allontanarsi
È un discorso molto simile a quello che fa Weber per il fondamento della scienza
cioè non è la giustizia a potersi dare il fondamento del diritto
non può essere la pedagogia a dire perché è meglio essere educati che non essere
educati ma non può essere giustificata dalla pedagogia
quello che Weber diceva per la scienza non è la scienza a poterci dire perché la
scienza è importante se non a proporre delle visioni alternative ma che non sono mai
ultimative
perché una visione diversa che essere umano che non si riduce posso difenderla si
ma non posso dire che la mia giusta è quella è sbagliata
la giustizia in qualunque paese non fonda lei stessa diritto e viceversa cioè non è il
diritto e viceversa
non è il diritto a dirci questa è giusta, è un sistema di valore che però è diverso di
paese in paese
Esso può accostarsi alla giustizia solo in termini negativi, come ciò che esso non è,
né può mai diventare, riconoscendo il proprio insuperabile limite. Può, certo, cercare
di bilanciare i torti, ma solo all'interno delle proprie procedure e in merito a casi
188
particolari. Del resto proprio nel particolare risiede la sua estrema risorsa politica. Si
tratta di abbandonare una concezione generale e totalizzante di politica. Essa è
andata a fondo insieme alle categorie moderne che l'hanno ispirata, dando luogo
alla proliferazione istituzionale che abbiamo di fronte. Rispetto alla quale, nonostante
i ricorrenti rigurgiti nazionalistici, non sarà possibile tornare ai vecchi modelli
statocentrici. Ma non è neanche possibile immaginare una globalizzazione senza
confini. Ciò che va fatto, piuttosto, è valorizzare la molteplicità in atto, articolando la
varietà dei vari linguaggi istituzionali in una rete «leibniziana» di monadi indipendenti
e interrelate.
Questo lo vedete in maniera plateale oggi come oggi ne senso che voi vedete
diverse sfere del pubblico in momenti di tensioni ha messo in così tanta tenzione il
pubblico, il privato e le diverse sfere del pubblico e le dinamiche come quasi sempre
avviene solo proprio plateali nel vocabolario nel negli interessi contrapposti nel non
farsi problema nel dire quanto siano contrapposti gli interessi
la questione è che sono davvero espressione di una contrapposizione tra micro
realtà in cui sembra impensabile l'unità dello Stato cioè l'idea che qualcuno possa
farsi carico delle necessità contrapposte che sono presenti all'interno dello stato era
l'azione di composizione delle differenze propria della politica
oggi l'idea che si possa rappresentare soltanto una piccola parte e che si possa
rivendicare di rappresentare una piccola parte sembra passata tranquillamente
all'interno delle istituzioni
l'idea che per esempio la scuola sia una componente in conflitto con altri componenti
della società è questione aperta e in una dinamica come quella occidentale in cui la
differenziazione e la specializzazione sono dinamiche non vertibili è molto difficile
pensare ad una società ambigua una sociali domani meno sfaccettata di quella di
189
oggi il comporre questioni diverse e il poter dare una voce che possa parlare
componendo i conflitti non facendoli esplodere
190
Lezione del 14 dicembre
4 Oltre lo Stato?
Ovviamente quando si parla di «orizzonte poststatuale» non s’intende un mondo
senza Stati. Dopo lo Stato- si può ben dire- c’è ancora lo Stato. Un'osservazione
analoga si può fare per la sovranità, stressata, sfibrata, sfidata da processi di
decostituzionalizzazione, ma ancora presente e operante, con modalità e intensità
diverse, in tutto il pianeta.
quando si stava parlando della tensione tra stato e istituzioni che appartenevano a
contesti e differenti
Del resto, una volta contestato il carattere necessariamente statale delle istituzioni,
sarebbe difficile escludere lo Stato dal loro novero. Ciò da cui occorre guardarsi è lo
schema bipolare che contrappone ordine statale e ordine globale o, anche, sovranità
e governo, senza accorgersi che si tratta di fenomeni non solo inestricabilmente
intrecciati, ma storicamente inscritti l'uno nell'altro. D'altra parte, come gli storici
dell'economia sanno bene, è impossibile separare nascita e sviluppo del capitalismo
dal contenitore statale in cui hanno avuto storicamente luogo, certo dilatandolo fino a
deformarlo, senza tuttavia arrivare mai a sfondarlo. Ciò vale, più in generale, per la
relazione tra politica ed economia, mai riconducibile «a somma zero», dal momento
che perfino i processi di spoliticizzazione a favore dell'economia globale hanno una
genesi e un esito politici.
c'è uno sguardo anche a contesti altri per esempio in particolare quello del Nord
Africa e il Brasile
ritorna un autore che era stato già menzionato da Esposito cioè Etienne Balibar
191
anche dopo che questo si è formato, continuano a produrre politica. Chiusa
l'esperienza comunale con la costituzione degli Stati assoluti, solo a tratti, e per rari
momenti, il paradigma istituente è riemerso in superficie nella storia moderna. Dopo
la stagione delle rivoluzioni una sua ri- presa è riconoscibile alla fine della Seconda
guerra mondiale. Una prima volta quando sono state scritte alcune costituzioni, tra
cui quella italiana, e sono state poste a Ventotene le basi dell'Unione Europea.
Ventotene stato insieme un luogo di confino in cui però personaggi importanti come
Altiero Spinelli e altri hanno redatto un manifesto di Ventotene
è uno dei primi documenti in cui in maniera sistematica e non più mazziniana si è
caldeggiava la formazione di un’Europa, unità confederata in realtà come soggetto
più forte di quello attuale perché per Altiero Spinelli l'Europa che si immaginava a
Ventotene doveva superare anche la divisione della difesa cioè un una realtà
territoriale con un unico esercito
Tutto questo avveniva durante la seconda guerra mondiale e quindi la volontà, lo
sforzo di superare l'entità statale e i nazionalismi derivava anche se non soprattutto
dalla tragedia che si stava vivendo perché era una tragedia che in maniera orale
rimandava ad una conflittualità interna alla visione stessa di uno stato
l'unione europea ha avuto due momenti di costituzione momento era nell'unione
della CEE, la comunità economica europea che nasceva con il versante economico
particolare li dopodiché questa idea della comunità economica europea si evolve e
diventa Unione europea che oltre ai versanti strettamente economici ne aveva anche
di altri ma che non arriva ad una posizione così forte come quella caldeggiata da
Spinelli e da tanti altri che pensavano ad una vera e propria Federazione di stati
il modello sono gli Stati Uniti
Gli Stati Uniti che hanno la doppia dimensione quella statale del singolo stato
esattamente come l'organo più alto per dirimere qualunque questione legale anche
all'interno di uno stato e la Corte Suprema
l'Europa non ha niente di tutto questo non ha un esercito, non ha una sola politica
estera istituzionalizzata e non ha una sola difesa istituzionalizzata ma soprattutto
non ha un luogo in cui dirimere questioni legali con valore vincolante
La Corte di Strasburgo può condannare un paese quel paese può tenerne conto ma
oppure non tenerne conto ovviamente non tenerne conto poi vuol dire avere meno
facilmente accesso a determinati fondi eccetera o come costringersi ad una
maggiore marginalità all'interno della politica europea però può non adeguare alle
sue leggi
La prima linea è quella che tratta della relazione tra istituzioni pubbliche e istituzioni
private, in qualche modo dialettizzate la categoria di «comune». Come hanno
argomentato Pierre Dardot e Christian Laval in un libro ricco di riferimenti al
paradigma istituente, per «comune» non si deve intendere un bene o un insieme di
192
beni, e neanche una comunità, in qualsiasi modo declinata. Comune è la forma
cooperativa della prassi istituente come creazione, al contempo sociale, giuridica e
politica, di nuovi processi istituenti, dotati di durata temporale, attraverso
associazioni, organizzazioni, reti, destinate ad allargare, in ogni ambito, il cerchio
dell'inclusione sociale. La seconda linea, ancora da attivare, è quella che passa tra
organizzazioni politiche di paesi diversi nel nostro caso soprattutto in area europea
unite da finalità comuni di carattere civile, sociale, ambientale. Anche in questo caso,
più che di istituzioni esistenti partiti, sindacati, gruppi parlamentari tratta di istituire
nuovi organismi capaci di subentrare alle esauste famiglie politiche novecentesche,
liberali, popolari, socialiste, che ancora siedono nel Parlamento europeo. Nessuna di
queste appare in grado di fronteggiare le sfide a cui siamo chiamati. Anche da
questo lato la pandemia in corso costituisce un banco di prova decisivo non solo per
le istituzioni nazionali e transnazionali, ma per il pensiero istituente che va
maturando in vari epicentri della riflessione contemporanea.
il quinto capitolo è dedicato a un tema che avevamo già in qualche modo intravisto
riguardante in particolare questo termine di biopolitica
ricordatevi che il testo inizia con una contrapposizione tra istituzione e vita una
contrapposizione che viene ipotizzata che si cerca di mettere in prospettiva però a
tutti gli effetti una vera e propria contrapposizione
la biopolitica era stata introdotta dallo stesso Esposito quando stava parlando delle
varie forme di potere e di pubblica specificando che oggi come oggi qualunque
approccio politico e anche geopolitico riguarda anche quella sfera che è propria della
vita e non della vita civile
V. Istituzioni e biopolitica
1. Biopolitica
Torniamo, in conclusione del nostro per- corso, al lemma vitam instituere, con cui lo
abbiamo aperto. Cosa vuol dire istituire la vita? La vita si lascia istituire? O è essa a
penetrare nella sfera delle istituzioni, rigenerandole? A essere in discussione, in tali
do- mande è, evidentemente, quella relazione tra vita e politica che da qualche
tempo è rubricata con il termine «biopolitica». Ma, proprio in rapporto a essa, si pone
una questione che chiama in causa il pensiero politico contemporaneo. Come si
rapportano – e, prima ancora, sono compatibili – i paradigmi di istituzione e
biopolitica, oppure rimandano a les- sici concettuali troppo eterogenei per potersi
integrare?
questo era quello che si domandava all'inizio del testo però con i termini bios Zoe e
biopolitica
Personalmente credo che lavorare al loro incrocio sia non solo possibile, ma
necessario. Del resto l'attuale pandemia, che costituisce inevitabilmente lo sfondo di
193
tali ri- flessioni, ci richiama alla necessità di questo doppio sguardo. Che essa si situi
in un orizzonte biopolitico, è sotto gli occhi di tutti. Mai come nell'anno appena
trascorso politica e vita hanno intrecciato le loro orbite, con esiti altamente
problematici e ancora incerti. Perché a essere messa in questione dal virus è stata la
vita biologica di intere popolazioni. Che non si sia trattato solo di questo, che a
essere in gioco sia anche altro - la comunità, la lIbertà, l'economia è pacifico. Resta il
fatto che il Covid-19 ha attaccato prima di tutto la nostra sopravvivenza,
determinando una serie di provvedimenti di tipo palesemente biopolitico. Le misure
immunitarie che sono state prese, prima o poi in tutto il mondo, sul piano medico e
sociale, hanno tale tonalità. Si può anzi dire che mai come in questa circo- stanza si
sia rivelato, nella forma più conclamata, il nucleo immunologico della biopoli- tica
contemporanea.
194
Ma il carattere biopolitico della crisi pandemica non ha escluso, anzi ha richiesto,
l'intervento delle istituzioni in una prova ardua che non le ha lasciate immutate.
Proprio esso reclama una prassi istituente all'altezza della situazione. Se e in quale
misura sarà effettivamente attivata è ancora presto per dirlo. Sta di fatto che, dalle
più piccole alle più grandi - dall'azienda sanitaria locale all'Unione Europea -, tutte le
istituzioni coinvolte hanno prodotto dei cambiamenti al proprio interno. Insomma, sul
piano reale, biopolitica e istituzioni costituiscono i versanti complementari di uno
stesso processo. Tuttavia, se nei fatti i due paradigmi si tengono saldamente, sul
piano della teoria la loro integrazione appare meno fluida. Resta la percezione di uno
scarto, di un dislivello, che sembra allontanare nel pensiero quanto è prossimo nella
realtà. Nell'ambito delle categorie, biopolitica e istituzioni appartengono a due
semantiche non solo diverse, ma, almeno apparentemente, estranee. Da dove
nasce questa sensazione di etero- geneità? Partiamo da una definizione diffusa.
Spesso si dice che per «biopolitica» deve in- tendersi un'implicazione diretta tra
politica e vita biologica che salta le mediazioni istituzionali. In verità le cose sono più
complesse, nel senso che ogni immediatezza, per durare nel tempo, deve pur
sempre passare per una forma di istituzionalizzazione. E infatti ciò accade in tutte le
procedure biopolitiche, compresa quella, emergenziale, dello stato di eccezione,
anch'esso necessariamente applicato attraverso determinati dispositivi istituzionali.
195
in questo senso la politica diventa biopolitica e crea degli Stati di eccezione che
rompono il siamo tutti uguali
la nostra Costituzione porre il mantenimento della vita come valore primario
Che ciò non risulti pienamente evidente, o resti addirittura in ombra, deriva
probabilmente da uno scarto concettuale tra lessico biopolitico e lessico istituzionale,
originato dal modo in cui Foucault ha elaborato il concetto di «biopolitica». Senza
poterne ricostruire neanche per sommi capi i passaggi, si può dire che la sua
«allergia» teoretica alla grammatica istituzionale nasca dal prevalente tono
antigiuridico della sua intera opera, in particolare nella stagione della svolta
biopolitica. Già nelle pagine conclusive di La volontà di sapere, che introducono la
nuova categoria, Foucault scrive che «l'esistenza in questione non è più quella,
giuridica, della sovranità, ma quella, biologica, di una popolazione». Come sempre la
sua prospettiva è felicemente ambivalente. Se da un lato la critica al dispozione del
sovrano entra in sintonia con il pensiero istituente, dall'altro la presa di distanza dalla
dimensione giuridica finisce per trascinare in un cono d'ombra anche le istituzioni.
Foucault nel momento in cui si istituisce l'idea di biopolitica lo fa all'interno della sua
prospettiva
la sua prospettiva anche per gli anni in cui è stata formulata è una prospettiva
fortemente anti-istituzionale quindi effettivamente nonostante in moltissime pagine di
Foucault si parli delle istituzioni pensate alle pagine dedicate alla follia,
all'istituzionalizzazione di manicomi
l'uscita dai vincoli e a volte anche dalle trappole delle istituzioni nella riflessione di
Foucault è quasi sempre un'uscita individuale o contro le istituzioni, non di riforma
interna delle istituzioni e dalla nascita della follia anche le parole delle cose ma
soprattutto la volontà di sapere e alla fine della storia della sessualità le istituzioni
sono quel qualcosa che deve essere in qualche modo superato poi non c'è una
proposta durale di Foucault ed è anche quello che gli rimproveravano alcuni
contemporanei
Come Foucault afferma nello stesso testo, all'esaurimento del regime sovrano, il
biopotere non si rapporta più a soggetti di diritto, ma a esseri viventi, modellati sul
piano individuale dalle discipline e su quello pubblico dal controllo sociale. Tale
passaggio di fase è segnato dalla sostituzione del sistema giuridico della legge con il
dispositivo, appunto biopolitico, della norma. Ciò non vuol dire che le istituzioni della
giustizia spariscano, ma che s'integrano sempre più con una serie di apparati, medici
e amministrativi, le cui funzioni, più che sanzionatorie, sono soprattutto
normalizzatrici. In questo senso prosegue Foucault siamo di fronte a una
regressione della dimensione giuridica. Legislazioni, costituzioni, codici, scaturiti
dall'età della Rivoluzione, hanno la funzione di celare, dietro le loro rumorose
esibizioni, un potere essenzialmente regolatore. Da allora «è la vita, molto più che il
196
diritto, che è diventata la posta in gioco delle lotte politiche, anche se queste si
formulano attraverso affermazioni di diritto».
Le affermazioni di diritto da allora è la vita molto più che il diritto è diventata la posta
in gioco delle lotte politiche anche se queste si formulano attraverso affermazioni dei
allora no magari sono io a essere è tutto chiaro oppure ci sono delle cose oscure in
questo con sincerità affermazioni di diritto che intende lui allora le affermazioni di
diritto tradizionalmente sono quei provvedimento disposizioni di legge e regolano lo
stato delle persone senza riferimenti al alla dimensione individuale individuale eh si
parla di uomini e donne come per l'inglese e generalistico no ma pensate io non
sono fuori piano però è sicuramente una persona particolarmente geniale e colpito
molto poi non mi ha mai convinto fino in fondo ma ha un vantaggio in questo senso è
una mia debolezza che fu a un francese meraviglioso se leggete o in francese mi
convince perché è come Freud discòidi è una scrittura tanto bella che anche se mi
dicesse che in fondo in fondo noi siamo tutti uffi vuol dire sembra sia in fondo ha
ragione no prestito e incredibilmente convincenti che riescono AA superare e pure la
stessa cosa boh ha trovate linguistiche eccezionali ed è una quasi barocca
soprattutto quella del dei primi testi di parole Detto questo ha detto che certamente
non sono facoltà però pensate a quanto sia forte della Lega dal punto di vista olistico
cioè per poter leggere la realtà a prescindere se poi va bene o no quella lettura no
ma per poterci entrare nella realtà l'idea che dall'età delle rivoluzioni cioè dalla dalla
dalla fine dell'anno no del 189 e le legislazioni si son fatte sempre più invasive nella
dimensione biologica e vitale delle persone rispetto a prima pensate per esempio AI
provvedimenti che si seguono sulla sulle disabilità nella scuo no eh poi scusa dirette
vagli a dire vagli a dire che è sbagliato cioè nel senso che certo che quella non è un
non è di diritto no che non parla di tutti di tutte ma identifica tipologie che non
dipendono da qualità individuali e si da una dimensione biologo ok e fu questo ha
delle conseguenze specifiche ma anche se ci si ferma la prima parte cioè a alla più
alla alla parte di interpretazione che di diagnosi efficace e molto efficace non non c'è
dubbio lo ripeto secondo me questo perché le avevo già accennato lo si vede
nell'ambito dell'istruzione ma lo si vede in maniera ancora più eclatante nell'ambito
del della procreazione cioè il fatto che paesi diversi abbiano leggi diverse per le varie
forme di procreazione assistita fra altri e eterologo cioè nel senso che che il fatto che
la legge entri nella dimensione personale per eccellenza no quella della della sfera
sessuale riproduttiva beh caspita se non è una dimensione biologica e biopolitica a
prescindere da quali siano i provvedimenti no ma l'idea di poter vendere e non fare
quello che farebbe certo avrebbe degli ateisti ma quello che è possibile
scientificamente perché la politica potrebbe non legiferare cioè potrebbe dire io dato
che mi sono dotata come politica di istituzioni che reputo essere quelle a cui
attribuisco la responsabilità delle azioni scientifiche della sicurezza delle azioni che
anime non sapevate prima durante la pandemia avete fatto avrete familiarizzato con
tutti gli enti che si occupano della sicurezza dei farmaci no e idem l'ordine dei medici
no addirittura che abbiamo ordini per ogni singola fascia di medici medici generici i
pediatri eccetera quindi abbiamo già volendo quelli che che le istituzioni che ci
devono dire che cosa si può fare in sicurezza no la politica potrebbe dire ok se si
197
può fare sicurezza si fa e quindi legifera andando dietro la scienza non regolando la
scienza ma la politica non l'ha mai fatta questa non ha mai fatto questa scelta al
bene al contrario ha detto no io voglio sapere qual è il quadro ma poi decido io che
cosa è legittimo e che cosa no e non lo faccio in punta di piedi cioè con dispositivi di
diritto ma lo faccio decidendo a seconda della dimensione biopolitica degli indi tant'è
e dico OK una fecondazione eterologa va bene se si è eterosessuali non va bene se
si omosessuali eh è un cambio di registro e paradossalmente lo so che è assurdo
ma le costituzioni di 200 anni fa non non avevo mai fatto una discriminazione del
genere perché non avrebbero mai pensato di poter deliberare in maniera assoluta su
delle tipologie di persone della loro sfera biologica OK cioè i scusate la terminologia
è datata mi rendo conto ma è solo per capirci matti OK non è che avessero un
regime di diritto differente dal normale era l'effetto che nessuno si lamentava che
fossero rinchiusi ma non c'era una disposizione di legge e identificandosi come
matto allora d'accordo ed infatti quando poi dal all'ottocento in poi si creano invece i
manicomi con la dichiarazione di pazzia EE quella fu l'istituzionalizzazione della follia
è uno dei primi passi forti della ok così più chiaro il quadro e quindi diciamo che la
politica si è sempre più addentrata nella nella vita istituzionalizzando alcune
dimensioni diciamo della nostra vita biologica giusto Assolutamente sì con e per
essere chiaro perché mi rendo conto che altrimenti possono creare degli
intendimenti questo con effetti di fronte cioè nel senso che da un lato e una tutela no
cioè e io le esponga a delle strade differenti per soggetti che hanno una condizione
di vita differente a vantaggi e poi svantaggi no beh può essere discriminatorio da un
lato e può essere protezione dall'alto secondo me lo è sempre tutti e due professore
perché comunque perché perché quando ci quando si entra nel contesto proprio di
malattia o di diversità ecco mi passi questo termine non è tanto bello comunque ci
può essere sempre una lettura bifocale no c'è sempre chi è d'accordo e chi non lo è
nell'atteggiamento biopolitico quindi nelle scelte istituzionali no molti mi scusi quando
dice per esempio faccio l'esempio del finita il fine vita per esempio oppure la stessa
disabilità non tutti la hanno lo stesso pensiero no di inclusività quando vengono
dettati le leggi no questo su questo ha ha ragione però io forse mi sono spiegato
male io intendevo dire che è un per usare le parole dei termini di foto e anche di
Esposito e questo è un dispositivo che può essere utilizzato in un senso o in un'altro
esplicitamente non come interpretazione cioè anche anche dal dal punto di vista del
legislatore può mettere nero su bianco che vuole discriminare ok quindi
palescandolo non Alessandro scusi il i provvedimenti contro la la la la possibile
adozione da parte di coppie omogenitoriali no è esplicitamente una discriminazione
cioè non è che tu ebbe latamente dicendo voi siccome mate persone del vostro
stesso sesso avete un intervento appunto sì cioè e una posizione molto molto forte
molto identitaria che poi non durerà i il il classico l'espressione infelice ma molto
efficace di di quanto un gatto in tangenziale cioè nel senso che come tutti i
provvedimenti più o meno quasi tutti provvedimenti di questo governo però Detto
questo è comunque una situazione che da adesso crea molti problemi soprattutto in
quelle realtà in cui in un vuoto legislativo si è optato per una strada rispetto ad un'al
quindi quando parla quando lei dice che fore anti istituzionale è perché lui contesta
questo aspetto proprio lecito del legislatore di dichiararsi contro o pro qualcosa cioè
lui lo lo pensa più e attitudinale perché lui vorrebbe più neutralità cioè che poi fosse
198
fosse no lui vede delle istituzioni una inevitabile forma di lievitazione d'accordo ed è
questo che lo distingue per esempio da che era stato richiamato anche nel vostro
testo deleuze proprio perché invece per lui no l'istituzione poteva essere anche una
forma di vita che liberava delle possibilità non era obbligatoriamente una negazione
di di possibile d'accordo OK allora
Ciò che colpisce, in queste espressioni, è una disgiunzione, se non una contrapposi-
zione, tra la sfera della vita e quella del diritto, in qualche modo contraddittoria con il
para- digma stesso di biopolitica. Nel momento in cui la politica investe direttamente
la vita bio- logica, potenziandone lo sviluppo, i disposi- tivi giuridici della legge
tendono a essere so- stituiti da quelli, più duttili e pervasivi, delle norme. Ma, si
potrebbe obiettare, dove altro si collocano, le norme, se non nel quadro mo- bile
delle istituzioni, ovvero dell'amministra- zione, dell'istruzione, della sanità, della fami-
glia, della religione, della sessualità? Il pro- blema sta, evidentemente, nella
definizione, più o meno larga, di «istituzione». Senza entrare troppo nel dettaglio, si
può dire che, tra le due polarità della sovranità e della vita, le istituzioni vengano da
Foucault associate alla prima, in opposizione alla seconda. No- nostante la svolta
biopolitica, o proprio in ra- gione di essa, insomma, egli lascia inindagato il luogo in
cui le istituzioni incrociano la vita. Esse la controllano, la sorvegliano, la selezio-
nano, ma non la potenziano. Così come, all'al- 132
tro angolo del quadrante, la vita non irrora le istituzioni, abbandonandole alla loro
chiusura. C'è qualcosa, in questa divaricazione, che investe lo stesso concetto di
«biopolitica», ponendolo in una qualche distonia con una condizione contemporanea
che pure, per altri versi, interpreta pienamente. Si direbbe che sin dalla sua
elaborazione originaria esso con- tenga un elemento di ambivalenza, e anche di
irrisolutezza, che riguarda proprio la defini- zione di «vita» nella sua relazione con
quella di «politica». La mia impressione è che Fou cault non abbia pensato le due
polarità della «biopolitica» - il bios e la politica - in un unico blocco semantico, ma
separatamente, per poi successivamente congiungerle in una maniera che finisce
per sovrapporre, e dun- que anche sottoporre, l'una all'altra. O la vita risulta catturata
da un potere destinato a esercitare violenza su di essa, o è la politica a essere
deformata, e in ultima analisi sorpas- sata, da una vita insofferente di ogni vincolo
formale. Sono precisamente le due derive cui, nell'elaborazione successiva a quella
di Fou- cault, il paradigma di biopolitica è rimasto esposto. Ciò è al contempo causa
ed effetto della rottura concettuale tra vita e istituzione. 133
A separarle drasticamente è la figura del po- tere. Nel momento in cui esso pare
appro- priarsi delle istituzioni, adoperandole per il controllo e il dominio sulla vita,
questa non può che contrastarle frontalmente. Ma, a quel punto, privo di argini, il
flusso della vita ri- schia di perdere, insieme al rapporto con le istituzioni, anche
quello con la politica. 2. Doppia nascita Il punto cieco della filosofia politica con-
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temporanea resta il mancato incontro tra isti- tuzioni e vita: l'inafferrabilità di
quell'insti- tutio vitae stampato all'ingresso della civiltà giuridica occidentale. Se,
come si è visto, per Foucault la vita può espandersi solo fuori dalla gabbia
oppressiva delle istituzioni, per Hannah Arendt, al contrario, queste vanno tenute a
riparo dalla pressione della vita. Va intanto riconosciuto che quello arendtiano è il più
intenso pensiero istituente del Novecento. Tutta la ricerca della pensatrice converge
nell'impegno di costruire istituzioni politiche capaci di resistere all'urto del tempo. Ma
fuori da quel regime sovrano accettato, invece, 134
come presupposto indiscusso da larga parte del pensiero politico moderno. Proprio
su questa eccedenza si può misu- rare l'originalità della sua prospettiva rispetto al
quadrante filosofico circostante; e anche la sua difformità nei confronti della seman-
tica biopolitica, che Arendt assume, ma, per così dire, in negativo, non dal lato della
sua opportunità, ma da quello dei suoi rischi. Più che mai lontana dal paradigma
hobbesiano dell'ordine, la filosofa non si riconosce nean- che in quello di governo,
ancora riconducibile a un registro monistico. Quando, invece, per lei l’agire politico si
articola in una rete diffusa di istituzioni irriducibile a un unico punto di comando.
Estranea a tutte le teorie contrat- tualistiche - compresa quella, democratica, di
Rousseau - che presuppongono l'omogeneità del popolo, Arendt si riconosce
piuttosto nel principio della separazione dei poteri che da Montesquieu arriva al
federalismo americano. Per impedire un eccessivo accumulo di po- tere, le istituzioni
devono essere molteplici e diverse tra loro. Ma più che ai meccanismi istituzionali, o
a singole istituzioni, l'attenzione di Arendt è rivolta al principio istituente in quanto
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