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INNOVAZIONI LEGISLATIVE.
1990miglioramenti della scuola di base.
La scuola media inferiore è ferma al 1968, questo perché le innovazioni legislative non sono
riuscite a cogliere le trasformazioni culturali della società e del contesto.
Quali sono gli elementi fondamentali per la progettazione? C’è solo la dimensione cognitiva? La
ricerca identifica delle aree di lavoro che la didattica deve necessariamente tenere in
considerazione:
Area cognitiva.
Area affettiva-relazionale.
Area psicomotoria.
Quando si lavora in un contesto di apprendimento si deve tenere conto di queste 3 aree di lavoro.
Cioè, dobbiamo progettare un percorso che tenga conto, allo stesso tempo, della dimensione
cognitiva, della dimensione affettiva-relazionale e di quella psicomotoria. Se si vuole costruire una
didattica di qualità, nessuna di queste aree può essere lasciata indietro.
Come già affermato, l’insegnamento è un percorso che va dall’intenzione al progetto. Il docente
deve innanzitutto definire le finalità educative generali che sono quelle di garantire a tutti e a
ognuno il massimo dell’apprendimento, sviluppando le potenzialità del soggetto e rispettando le
sue caratteristiche personali.
Il problema che ci si deve porre dopo aver definito le finalità educative generali è: data l’enorme
varietà dei contesti e dei soggetti, com’è possibile determinare dei percorsi formativi validi per
tutti? Bisogna chiarire quali sono le identità forti e le problematiche in campo perché, nella scuola
e, in generale, in tutti i contesti di apprendimento, non esistono costanti ma continue variabili che
devono essere individuate e definite per poter progettare il lavoro.
Queste variabili sono pressoché infinite ma posso essere raggruppate in: conoscenze,
atteggiamenti, comportamenti, relazioni e risorse. Tutte queste variabili vanno a costituire un
processo che si presenta sempre diverso ma che il docente deve poter ricondurre ad un prodotto
minimo garantito per tutti.
Si deve pensare ad un docente capace di predisporre, governare (gestire) e valutare i processi
formativi; capace di costruire itinerari didattici specifici e sviluppare, nel soggetto in
apprendimento, abilità di base (conosce, comportamenti e atteggiamenti all’interno delle 3 aree di
lavoro cognitiva, affettiva-relazionale e psicomotoria) e competenze complesse (processi, metodi,
percorsi da costruire).
Il lavoro di insegnamento, quindi, deve essere progettato in interventi formativi (lavoro di
progettazione) di cui si possa valutare l’efficacia.
LA PROGETTAZIONE:
definizioneprogettare significa reagire al diffuso individualismo (cioè un insegnante detentore di
un sapere), alla ideologia di un compito-missione che si risolve tutto nella conoscenza del singolo
insegnante, per far uscire il docente da una dimensione storica datata che vede, non più un
docente nel pieno delle proprie competenze, ma una dimensione di docenza tradizionale che
punta sull’artigianalità e sull’individualismo dei compiti richiesti.
Occorre, quindi, andare verso una progettazione di interventi formativi che si fondi sulla capacità
di pensare strategicamente per organizzare le attività, correlarle tra loro, calibrarle, per scegliere e
produrre i materiali più opportuni al fine di valutarne l’impatto e i risultati effettivamente
raggiunti.
Tutto questo lavoro non può essere svolto da soli: si progetta lavorando e comunicando con i
colleghipossiamo operativamente affermare che la progettazione è SEMPRE ATTIVITA’
COLLEGIALE (attività di gruppo); l’attività di realizzazione può essere individuale e l’attività di
valutazione è attività collegiale.
DIMENSIONE COLLEGIALE DELLA PROGETTAZIONE: cosa comporta il lavoro in team con i colleghi?
Occorrono delle CAPACITA’ DI DIALOGO tra gli operatori, in quanto, ognuno ha una dimensione di
linguaggio professionale. Quindi, questo lavoro in team presuppone una condivisione di linguaggio
professionale che sia comune a tutti. Il linguaggio professionale del docente si compone di due
elementi fondamentali:
1. di un linguaggio specifico della DISCIPLINA che insegna e che lo qualifica come esperto
della materia.
2. Di un linguaggio specifico della PROFESSIONE, cioè un linguaggio che svolge nell’uso e che
lo qualifica come insegnante.
Il linguaggio specifico della professione consente a due docenti di discipline diverse di interagire
tra loro.
Nella quotidianità si presentano delle difficoltà oggettive nella comunicazione tra docenti, causate
principalmente da:
Diverso retroterra culturale-formativo.
Scarso spirito di appartenenza al gruppo.
Mancata formazione alla professione.
Continuo operare in modo individuale.
I momenti collettivi istituzionali sono: il collegio docenti, il consiglio di classe, commissioni e
comitati. Tali momenti, però, si concludono spesso con ambiguità operativa e incomprensione
comunicativa.
Un ulteriore problema nella comunicazione tra docenti riguarda il lessico specifico utilizzato.
Infatti, ogni ambiente professionale tende a tutelare il proprio lessico (es. linguaggio utilizzato dai
medici). Questi, sono linguaggio altamente specialistici che sono compresi solo dagli addetti ai
lavori, che tendono a trasferire anche nella comunicazione quotidiana. Si tratta del cosiddetto
gergo corporativo.
Le parole del mestiere non posseggono soltanto motivazioni di tipo specialistico ma anche di tipo
relazionale, perché da un lato facilitano e rendono più veloce ed efficiente la comunicazione
all’interno dell’organizzazione, dall’altro lato preservano la loro identità professionale.
Quindi, per risolvere questo problema, bisogna iniziare a ragionare sul lessico professionale del
docente e, in particolare, sulla sua condivisione attraverso l’individuazione di alcune parole chiave
che ogni docente deve conoscere.
Si distinguono due tipologie di linguaggio della professione docente: una di matrice disciplinare e
una di matrice pedagogico-didattica. L’obiettivo è quello di costruire un linguaggio pedagogico-
didattico comune, capace di far dialogare soggetti che provengono da identità diverse.
IL LINGUAGGIO.
Perché bisogna riflettere sul linguaggio? Perché, se la programmazione è un evento collegiale, è
evidente che il tema del linguaggio e della relazione che intercorre tra i gruppi di lavoro è una
questione importante.
Se è vero che è necessario avere un lessico professionale comune, il lessico professionale del
docente diventa uno dei punti fondamentali per una buona didattica. Dobbiamo distinguere due
tipologie di linguaggio: quello disciplinare e quello pedagogico-didattico.
Per quanto riguarda il LINGUAGGIO DISCIPLINARE: ogni area disciplinare sviluppa una propria
terminologia, che deriva dalla ricerca teorica e sperimentale specifica di ogni ambito scientifico.
Quando parla della sua materia, il docente si caratterizza come l’esperto di quella disciplina ed
esperti diversi utilizzando linguaggi diversi. Il linguaggio disciplinare è una forma attraverso la
quale si organizza una specie di “potere” del docente ma, questo linguaggio si può trasformare in
una nicchia che lo isola dagli altri. Le NICCHIE LINGUISTICHE sono una forma di manifestazione
di rigidità culturale e di chiusura comunicativa.
Si pone però un problema: da una parte si ha l’obbligo di utilizzare il linguaggio specifico della
disciplina, dall’altra parte si mette in evidenza la difficoltà che questo linguaggio porta nella
comunicazione e relazione con gli altri colleghi.
Quindi, occorre capire come costruire un linguaggio capace di far interagire in maniera forte
docenti provenienti da ambiti diversi. Tale linguaggio comune va utilizzato principalmente per
quanto riguardo le competenze metodologiche che sono comuni e trasversali.
Si può affermare che, se il linguaggio disciplinare “divide” (distingue), quello pedagogico-didattico
dovrebbe unire e accomunare la professionalità del docente. Eppure, è proprio in questo campo
che si riscontrano le maggiori incomprensioni, dovute al pressappochismo e l’ingenuità di alcuni, e
al dogmatismo e allo sperimentalismo di altri.
NB: bisogna spostare l’attenzione sulle necessità, sui bisogni, sulle aspettative del soggetto in
apprendimento.
Alla luce di un’attenta costruzione di un linguaggio pedagogico-didattico che consenta ai docenti di
dialogare tra di loro e di dare sostanza al lavoro nell’interesse del soggetto in apprendimento,
possiamo parlare di PROGETTAZIONE FORMATIVA.
Con progettazione formativa si intende insegnare-apprendere in situazione (nel contesto), facendo
leva sulle motivazioni dell’allievo, immergendolo in situazioni, ambienti e contesti progettati
appositamente per lui.
Un intervento formativo per apprendere una competenza, è un insieme organizzato di azioni che
non vive in forma autoreferenziale, ma un insieme organizzato di azioni che si innesta in un
sistema sociale di processi, che è complesso, mutevole e variato.
Il PROGETTARE, da un punto di vista metodologico è un processo UNIVERSALE (cioè vale per tutti i
docenti), solo parzialmente vincolato dal suo oggetto, che diventa un modo di pensare e di
affrontare la realtà al fine di trasformarla. Dobbiamo considerare il “progettare”, non solo un
elemento fondamentale dal punto di vista metodologico, ma ad una vera e propria “forma mentis”
per la ricerca applicata. Quando si parla di forma mentis per la ricerca applicata, ci si riferisce ad
un approccio complessivo che diventa un vero e proprio metodo di ricerca applicata, costruendo
un insieme organizzato di azioni: come?
Individuazione, ricerca e posizionamento dei problemi.
Formulazione di ipotesi e di modelli risolutori.
Controllo applicativo degli esiti dell’azione.
La PROGETTAZIONE abbraccia e comprende un insieme di attività che va dall’analisi della domanda
formativa, alla ideazione degli interventi che la possono soddisfare; dall’analisi del contesto,
individuando le risorse e i vincoli al disegno di un modello operativo coerente con gli obiettivi
prefissati, per giungere all’applicazione in classe dell’intervento progettato e alla sua valutazione.
Quindi, la progettazione diventa la rappresentazione anticipata (prefigurata) dell’azione e, in
quanto tale, fa parte dei processi della professionalità docente.
PRECISAZIONI TERMINOLOGICHE.
Esistono 4 concetti chiave di cui dobbiamo conoscere il significato: programma, progetto,
programmazione e progettazione.
PROGRAMMA: è una raccolta di intenti che esprime la volontà di portare a termine delle attività
per ottenere uno specifico risultato. La maggior parte dei programmi si presenta come un elenco
di obiettivi da raggiungere e/o di azioni da svolgere.
I programmi scolastici vengono chiamati tecnicamente “indicazioni nazionali” o “orientamenti”.
Tali programmi sono liste di intenzioni formative, di contenuti culturali e scientifici, di modalità
d’intervento.
Il programma ha due caratteristiche fondamentali: è UNIVERSALE ed UNIFORME (cioè vale per
tutto il territorio del nostro Paese)viene stabilito da responsabili delle politiche formative ed è
prescrittivo (obbligatorio) per tutti coloro che frequentano un determinato indirizzo di studi.
PROGRAMMAZIONE: riguarda le azioni volte a determinare gli standard generali dell’istruzione, ad
analizzare le realtà socioeconomiche e culturali entro cui si collocheranno gli interventi scolastici, a
commisurare la pertinenza tra gli standard formativi generali (quello che dovrebbe essere fatto) e
le caratteristiche specifiche dell’utenza a cui è diretto il programma di formazione.
Quali sono i luoghi di responsabilità della programmazione? (dove la programmazione si
organizza)li dobbiamo immaginare come luoghi concentrici, a progressivi livelli di decisione.
Questi luoghi o livelli di responsabilità sono 6:
1. Livello unitariosi muove su base europea; in questo livello si fissano le finalità universali
della scuola; si stabiliscono i protocolli di comunicazione tra le diverse politiche e pratiche
scolastiche nazionali; si determinano gli standard che tutti gli Stati dell’Unione si
impegnano a raggiungere.
2. Livello nazionaleogni Stato, attraverso i programmi (indicazioni nazionali) indica gli scopi,
gli obiettivi e le competenze per ogni indirizzo di studi. Presenta un’articolazione di
massima dei contenuti ed alcune indicazioni metodologiche e valutative comuni.
3. Livello localesi muove su base territoriale regionale o sub-regionale, dove si mediano (si
fanno entrare in relazione) le indicazioni generali, con le realtà sociali, culturali,
economiche del territorio di riferimento. Per questo tipo di programmazione, sono
fondamentali attente analisi delle specifiche situazioni che caratterizzano realtà anche
vicine ma con bisogni formativi diversi.
4. Livello scolasticola collegialità dei docenti adegua e adatta le indicazioni generali e locali
alle caratteristiche specifiche dell’utenza del proprio istituto, riferendosi esplicitamente
all’ambiente culturale e sociale da cui provengono gli studenti.
5. Livello classetutti i docenti che insegnano in quella classe o a uno specifico gruppo di
allievi, fissano le competenze comuni e trasversali che impegnano l’intero consiglio di
classe o parte di esso. Ovviamente, ciascuno studente raggiungere questi obiettivi comuni
sulla base delle proprie responsabilità.
6. Livello disciplinareriguarda la programmazione del singolo docente o dei docenti che
afferiscono ad un’area disciplinare. Tale livello stabilisce le priorità nello sviluppo delle
competenze; stabilisce le sequenze concettuali (come sviluppare il lavoro); stabilisce gli
standard di accettabilità relativamente alle produzioni degli studenti.
Gli obiettivi di apprendimento sono comuni per tutti ma l’insegnante propone approcci
diversi per raggiungerli (flessibilità della programmazione).
NB: uno dei LIMITI nel tema della programmazione e dei programmi è che spesso prevale la
dimensione astratta delle intenzioni, invece devono necessariamente sostanziarsi, cioè diventare
concrete ancorandosi al reale, rappresentato da PROGETTI e PROGETTAZIONI con le quali si passa
ad una operatività concreta.
PROGETTO: disegno di ricerca e di azione che, coerentemente con il programma di riferimento,
determina: le strategie operative; le conoscenze e i saperi; i metodi e le tecniche, i sistemi di
valutazione e di verifica, a partire sa situazioni effettivamente analizzate e ottimizzando le risorse a
disposizione. Un progetto deve essere pertinente, cioè deve rispondere ai bisogni reali dell’utenza,
deve essere fattibile rispetto alle risorse e realizzabile in attività didattiche concrete. In altre
parole, il progetto deve essere SOSTENIBILEla sostenibilità di un progetto mette in relazione
l’aspetto di ricerca e l’aspetto teorico con la fattibilità concreta del progetto.
PROGETTAZIONE: è, conseguentemente alla definizione di progetto, l’insieme delle attività volte
ad organizzare in modo sistematico: le risorse umane; le risorse materiali; le risorse intellettuali e
tecnologiche disponibili o accessibili, finalizzate alla produzione di modelli operativi o progetti
esecutivi di interventi didattici.
L’attività di progettazione implica la presenza di alcune fasi, che devono avere una corrispondenza
con le definizioni di progetto e progettazione. Occorre fare attenzione all’ordine con il quale tali
fasi si presentano.
Fasi operative dell’attività di progettazione:
1. Analisi della situazione globale e specificadove mi trovo? Qual è il contesto di
riferimento? In questa fase si elaborano delle ipotesi al fine di costruire un percorso di
apprendimento. Questa analisi deve basarsi su dati concreti.
2. Definizione degli esiti formativi e calibratura degli obiettivisi definiscono gli obiettivi che
si vuole e si deve raggiungere e contestualmente si esegue la loro calibratura nello spazio e
nel tempo, all’interno del percorso di apprendimento.
3. Articolazione degli interventi in fasi, moduli o unitàin questa fase si struttura
concretamente il lavoro e tale strutturazione è libera.
4. Individuazione delle strategie di insegnamento, dei metodi e delle tecniche didattichela
domanda che ci si pone in questa fase è: “come voglio raggiungere gli obiettivi?”.
5. Scelta dei media, delle modalità e delle tecnologie di comunicazioneanche nella scelta
dei media e delle tecnologie di comunicazione c’è una certa libertà, senza tralasciare, però,
la dimensione universale, in quanto tutti devono avere le stesse possibilità.
6. Definizione dei criteri di verifica, degli standard di valutazione e degli indicatori di
monitoraggiola fase della valutazione viene vista come elemento di miglioramento e non
solo come raggiungimento di obiettivi. I criteri di verifica devono essere chiari e condivisi;
gli indicatori di monitoraggio aiutano a capire se si sta seguendo il percorso nel modo
corretto.
7. Distribuzione dei compiti e ripartizione delle attivitàin questa fase sono importanti
alcune parole chiave:
Gruppo.
Coinvolgimento.
Non perseguire troppa socializzazione.
Partecipazionecoinvolgere il soggetto per stimolarlo nel processo di
apprendimento.
È possibile dare anche un’altra definizione di progettazione in ambito
formativoPROGETTAZIONE DEGLI INTERVENTI FORMATIVI=si fonda sulle capacità di pensare
strategicamente, mettendo in relazione i fattori complessi dell’apprendimento e
dell’insegnamento, nell’organizzazione degli ambienti e delle attività, individuando la scelta delle
priorità, producendo materiali, con la verifica dei risultati e con la valutazione dell’impatto
dell’offerta formativa e nell’analisi degli effetti a medio e lungo termine.
NB: nella scuola è necessario progettare percorsi, interventi e un’offerta formativa valida perché è
l’unico modo per individuare e per condividere le sequenze più adatte agli obiettivi, agli allievi e
alle situazioni da costruire o gestire.
L’organizzazione delle esperienze di apprendimento è strettamente integrata/correlata con
l’organizzazione didatticase si vogliono costruire delle esperienze di apprendimento concrete,
non posso prescindere da una corretta, forte e strutturata organizzazione didattica.
Se si vogliono costruire conoscenze è meglio partire dall’esperienza per poi giungere alla
rappresentazione e successivamente alla formalizzazioneil concetto è: come mi avvio a costruire
conoscenze? Si parte dall’esperienza del soggettopoi alla rappresentazione (far vedere e far
esercitare il soggetto)si passa infine alla formalizzazione (il concetto viene acquisito).
Se si vuole comunicare saperi o conoscenze può bastare la lezione, più o meno interattiva,
arricchendola di supporti tecnologici (audio-video).
Se si ha il bisogno di costruire abilità, è funzionale la sequenza: spiegazione-dimostrazione-
esercitazione.
Se si ha la necessità di sviluppare competenze, sono preferibili procedure di probelm-solving
collegate all’esperienza dei soggetti in apprendimento.
Se si ha la necessità di potenziare i sistemi di padronanza (potenziare quello di cui già si ha
padronanza), la modalità di approccio didattico più utile riguarda la moltiplicazione dei contenuti
d’uso delle competenze.
Progettare in ambito formativo significa, innanzitutto, tradurre in azione formativa intenzionale la
volontà di porre in essere una visione del futuro dell’uomoin altre parole, quando metto in
campo un’azione formativa intenzionale (pensata, costruita), ho davanti l’essenza della
dimensione educativa e dell’azione pedagogico-didattica, cioè ho una visione delle aspettative e
dei bisogni della condizione futura dell’uomo.
La progettazione, quindi, non è riducibile ad una tecnica, benché faccia riferimento ad un
complesso di tecniche anche complesse ma, essa costituisce il dispositivo attraverso cui si procede
all’implementazione/costruzione di un progetto di società, di uomo, di educazione.
UNITA’ FORMATIVE.
Per unità formativa si prendono in considerazione diverse tipologie di progettazione didattica.
NB: nessuna proposta formativa è universalmente valida e ognuna di esse, a diverso titolo,
presenta punti di forza e punti di debolezza, ovvero, elementi di efficacia ed elementi di criticità.
È necessario individuare una tipologia di progettazione, la più adatta e mirata alla specifica
situazione didattica, formativa o scolastica.
Tipologie di progettazione:
1. Progettazione LINEAREi punti di forza (quando questo tipo di progettazione è efficace):
Nella definizione di piccoli segmenti didattici.
Nell’acquisizione di comportamenti adeguati e/o meccanismi.
Nell’apprendimento mnemonico di formule, schemi e testi poetici.
Nella costruzione di operazioni manuali concrete.
Nella istruzione programmata attraverso percorsi step by step per analizzare gli
effetti delle procedure didattiche.
2. Progettazione per CONTENUTIquando è efficace?
Nell’analisi dei contenuti disciplinari.
Nella ricerca dell’essenzialità dei saperi.
Nell’articolazione e classificazione dei contenuti.
3. Progettazione per SITUAZIONIpunti di forza:
Nel consolidamento dell’apprendimento mediante l’analisi delle esperienze
dell’allievo.
Nella spendibilità immediata delle competenze acquisite.
Nell’apprendimento tecnologico e/o professionale.
Per l’apprendimento con soggetti in difficoltà (BES).
4. Progettazione per PADRONANZEpunti di forza:
Nell’articolazione delle padronanze e delle competenze (Piano dell’Offerta
Formativa).
Nella corrispondenza tra processi di apprendimento e metodologia
dell’insegnamentoil docente si deve calare nella realtà nella quale si muove.
5. Progettazione INDIVIDUALIZZATAriservata agli allievi in situazione di handicap o con
particolari difficoltà di apprendimento. Tale progettazione è spesso richiesta dalle norme
vigenti nel settore.
A tutti gli altri, non va individualizzato l’insegnamento, va invece facilitata la
personalizzazione dell’apprendimento, questo può avvenire mediante una didattica
modulare.
CARATTERISTICHE DI UN PROGETTO.
Innanzitutto, il progetto ha delle fasi molto chiare, a disposizione di tutti.
Si può costruire un progetto riflettendo su 2 aspetti:
1) le fasi per l’elaborazione di un progetto;
2) gli elementi organizzativi per l’elaborazione di un progetto.
NB: tutti i soggetti, dalla nascita alla morte, possono essere destinatari di un progetto.
FASI PER L’ELABORAZIONE DI UN PROGETTO (sono 5): il progetto trova un ordine preciso che
servirà a dare una strada per raggiungere degli obiettivi di qualità (coerenza e rigore).
1. Analisi della situazione iniziale del mio contesto (classe, attività sportiva,
etc.)acquisizione di conoscenze, informazioni, di elementi fondamentali che servono a
formulare un’ipotesi di lavoro. Tale analisi non può procedere per sensazioni, ma si deve
basare su dati concreti, reali e verificabili. La formulazione di un’ipotesi errata può
invalidare tutto il percorso progettuale.
2. Definizione degli obiettivi sulla base delle indicazioni della situazione iniziale. Si hanno 2
tipologie di obiettivi:
Obiettivi diretti/didatticiacquisizione di qualcosa di concreto e facilmente
verificabile.
Obiettivi indiretti/educativielementi che necessitano di un periodo più lungo per
essere acquisiti.
3. Scelta dei contenuti, con i quali si pensa di raggiungere gli obiettivimomento di libertà
per i docenti (possono scegliere i contenuti che ritengono opportuni). Per quanto riguarda
la scuola abbiamo un programma di riferimento su cui basare i contenuti.
4. Scelta delle metodologie (sono acquisite dalla comunità scientifica).
5. Valutazioneè l’elemento che garantisce qualità e innovazione al progetto. All’interno di
un progetto si valuta TUTTO: la capacità del docente di strutturare il percorso, la capacità di
rendere reale l’analisi della situazione iniziale; gli obiettivi; la scelta dei contenuti e delle
metodologie.
La valutazione torna indietro a permeare tutte le fasi dell’elaborazione di un progetto.
La valutazione non può essere la fase finale perché essa permette di rivedere il progetto nel
suo insieme.
ELEMENTI ORGANIZZATIVI PER L’ELABORAZIONE DI UN PROGETTO:
1. Tempi per l’elaborazione di un progetto e per la sua realizzazioneinterviene l’esperienza
(ci indica la tempistica). Quado si stabiliscono i tempi bisogna considerare anche:
Particolari condizioni della classe/del contesto.
Particolari esigenze del territorio.
Condizione familiare prevalente.
2. Spazi.
NB: di solito tempi e spazi sono definiti insieme.
3. Strumenti e materiali (risorse)per raggiungere gli obiettivi che mi sono posta, di quali
strumenti e materiali ho bisogno? Di quali risorse dispongo?
4. Metodologie e didatticafunzionalità del percorso (come organizzo la didattica).
5. Sistemi di valutazionetutti gli elementi concreti che ci consentono di dare sostanza ad un
progetto. Tali sistemi riguardano: indicatori, forme concrete di monitoraggio, indicatori in
itinere, indicatori del raggiungimento finale degli esisti del progetto. Tali elementi ci
consentono di dare una lettura quantitativa alla realizzazione del progetto. Una
caratteristica dei sistemi di valutazione riguarda la CONDIVISIONE (cioè la conoscenza da
parte di tutti di questi sistemi di valutazione).
NB: il progetto è uno strumento che abbiamo per organizzare e proporre la nostra visione del
lavoro da fare e degli apprendimenti da costruire.
DIDATTICA SPECIALE.
Capire com’è maturata la percezione attuale del concetto di DISABILITA’evoluzione sostanziale
anche dal punto di vista linguistico.
NB: molte volte è la società stessa a stimolare dei cambiamenti e delle trasformazioni.
EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI DISABILITA’: si è evoluta nei decenni una modalità che ha
consentito non più di vedere le problematiche solo ed esclusivamente nei singoli Paesi, ma di dare
alle singole nazioni, un punto di riferimento internazionale valido per tutti. Nel concetto di
evoluzione della disabilità, molto importante è il ruolo giocato dall’Organizzazione Mondiale della
Sanità (OMS).
In questi anni l’OMS ha elaborato strumenti di classificazione per l’osservazione e l’analisi delle
patologie organiche, psichiche e comportamentali delle popolazioni, al fine di migliorare la qualità
delle diagnosi fatte su tali patologie.
L’idea principale è quella di diminuire progressivamente la dimensione sanitaria di valutazione
complessiva di queste criticità, proprio per capire non tanto la misura e l’identificazione della
singola patologia, ma quanto questa incide nella vita delle persone.
Nel 1970 viene pubblicato l’ICD, ovvero la classificazione internazionale delle malattiequesto è
un documento che fa il punto sulla situazione eziologica delle patologie, fornendo le principali
caratteristiche cliniche e relative indicazioni diagnostiche.
Successivamente, l’OMS elabora un nuovo manualenon si pone l’attenzione solo sulle cause
delle patologie, ma sulle loro CONSEGUENZE, sull’importanza e sull’influenza che il contesto
ambientale esercita sullo stato di salute delle persone. Per quanto riguarda ciò, l’azione educativa
che mettiamo in campo, può fare la differenza perché ogni soggetto è educabile, cioè può essere
destinatario di un intervento educativo (tema dell’EDUCABILITA’ del soggetto).
Progressivamente tende a farsi spazio il paradigma BIOPSICOSOCIALE di saluteè il paradigma di
salute, cioè una disabilità che comincia progressivamente a perdere la sua accezione di malattia e
diventa condizione esistenziale.
1980: una nuova classificazione internazionaleICDH, International Classification of Impairments
Disabilities and Handicaps. È molto importante perché per la prima volta si approfondisce il
concetto di disabilità, di diagnosi e si vanno a definire 3 termini chiave del problema:
menomazione, disabilità e handicap.
- MENOMAZIONEqualsiasi perdita o anomalia a carico di una struttura o di funzioni
psicologiche, fisiologiche o anatomiche; caratterizzate dal deficit di un apparato funzionale,
meccanico-corporeo o di sistemi della funzione mentale.
- DISABILITA’qualsiasi restrizione o carenza, conseguente ad una menomazione, della
capacità di svolgere un’attività nel modo o nei limiti ritenuti normali da un essere umano.
Un’esteriorizzazione di uno stato patologico, congenito o acquisito, transitorio o
permanente, con riferimento alle capacità funzionali che si esprimono nelle azioni della vita
quotidiana.
- HANDICAPuna condizione di svantaggio, vissuta da una persona, in conseguenza di una
menomazione o disabilità, le cui conseguenze sono culturali, sociali, economiche,
ambientali, essendo una condizione legata alla diminuita capacità di rispondere alle
aspettative e alle norme proprie di un contesto di vita.
NB: questa classificazione presenta una visione LINEARE e CONSEQUENZIALE dello stato di salute-
malattia, che porta alla condizione di handicap. Visone lineare sta a significare che si parte dalla
malattiamenomazionedisabilitàhandicap.
L’handicap, pur derivando da una malattia o da una menomazione, non si identifica con essa,
perché rappresenta lo svantaggio che la persona vive all’interno di una determinata situazione.
Queste indicazioni internazionali vengono recepite in maniera precisa anche dalla cultura italiana
che, nel 1992, elabora una LEGGEla 104 del 1992: “legge quadro per l’assistenza, l’integrazione
sociale e i diritti delle persone con disabilità”.
Viene definita legge quadro perché stabilisce una cornice entro la quale, non solo si muovono
delle definizioni precise, ma si danno anche una serie di obiettivi legislativi da raggiungere nel
tempo. Possiamo dire che la legge quadro disegna un percorso, fatto anche di eventi legislativi
posteriori.
Della legge 104 è estremamente significativo l’articolo 3va a definire la persona portatrice di
handicap: “colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o
progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione, di integrazione lavorativa e
tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione”.
Nel 2001: viene emanata l’ICF (International Classification of Functioning Disabilities and
Health)è una classificazione che mette in atto l’approccio circolare del modello biopsicosociale.
Il punto fondamentale di questo modello è il concetto di salute, di benessere, di welfare
(l’attenzione non è più posta sulla singola problematica).
L’ICF va a definire meglio il concetto di disabilità: per disabilità nell’ICF si intende la risultante di
una complessa e continua interazione tra la condizione di salute e i fattori contestuali, che sono
personali ed ambientali.
L’ICF fa riflettere anche sul termine HANDICAP che viene sostituito da ATTIVITA’ e
PARTECIPAZIONE SOCIALEper attività si intende l’esecuzione di un compito o di un’azione; per
partecipazione sociale si intendono aree della vita, come l’apprendimento, la comunicazione, la
cura della persona. Attività e partecipazione sociale rappresentano le condizioni in cui potrebbero
esserci, oltre alle capacità, anche limitazioni, disturbi o malattie.
Al concetto di disabilità è affiancato quello di FUNZIONAMENTOogni soggetto ha una identità
che deve essere riconosciuta e non attribuita; ha una propria organizzazione interna complessiva,
per cui è necessario capirne l’equilibrio e il cambiamento. In generale, il funzionamento è il
rapporto di interdipendenza, tra il soggetto e l’ambiente ed è un fenomeno cognitivo, affettivo,
sociale. (Quanto l’ambiente influenza il soggetto e viceversa, tale da diventare un fenomeno
cognitivi, affettivo, sociale).
Ci sono degli ELEMENTI CHE CONDIZIONANO LE ATTIVITA’ DEL SOGGETTO:
1) Le condizioni di salute relative a un disturbo o ad una patologia.
2) Le funzioni e le strutture corporee.
3) La partecipazione.
4) I fattori ambientali.
5) I fattori personali.
PROBLEMATICHE RELATIVE ALLA VARIE DISABILITA’ (di cosa dobbiamo tenere conto quanto
entriamo in relazione con un soggetto disabile).
DEFICIT VISIVO: le difficoltà di adattamento all’ambiente, cui va incontro il bambino privato del
canale visivo, sono da mettere in relazione con almeno 2 problematiche:
1) la dimensione sensoriale;
2) la frequenza, la qualità e lo spessore delle relazioni interattive nella sfera familiare, educativa e
sociale.
L’analisi dei deficit e della loro influenza nello sviluppo degli allievi con disabilità è un contributo
alla conoscenza di elementi che caratterizzano e condizionano l’adattamento del soggetto,
facilitando un incontro tra l’allievo e l’educatore.
Ma non basta l’analisi clinica del danno; si devono considerare gli impedimenti che rendono
difficoltosa la realizzazione personale. Non esiste il non vedente tipo, ogni persona privata della
funzionalità visiva è, a suo modo, speciale.
Ci sono delle leggi che ci aiutano a definire il deficit visivo, in particolare, si fa riferimento a 2
eventi legislativi:
- La legge 155 del ’65 “si intendono privi della vista, coloro che sono colpiti da cecità
assoluta o hanno un residuo visivo non superiore a 1/10 in entrambi gli occhi e con
eventuale correzione.
- La legge 138 del 2001rimanda alle classificazioni internazionali, in particolare, alla
classificazione dell’OMS. Tale legge individua ciechi e ipovedenti, non misurando il residuo
visivo ma ragionando sull’ampiezza del campo visivo.
Per orientare la nostra azione dobbiamo essere a conoscenza delle tipologie di cecità:
- Cecità sensoriaè dovuta a cause periferiche o oculari per compromissione della retina o
delle vie ottiche.
- Cecità cerebraleè connessa a cause centrali per interessamento dei centri nervosi dei
lobi occipitali.
- Supplenze sensorialisono modalità di utilizzazione dei sensi integri per ottenere
informazioni sul mondo esterno.
NB: la cecità sensoria non compromette il processo delle supplenze sensoriali.
La situazione del soggetto non vedente dalla nascita rispetto a quello diventato cieco è molto
diversala memoria dell’esperienza visiva consente la costruzione di un sistema di
rappresentazioni molto differenze e più funzionale.
Quali sono i fattori eziologici alla base della cecità in età evolutiva?
- Cataratta congenita.
- Atrofia dei nervi ottici.
- Glaucoma congenito.
- Aplasia retinica.
NB: è fondamentale il riferimento costante a concetti guida di integrazione e inclusione da
svilupparsi attraverso una didattica speciale di qualità.
LO SVILUPPO DEL BAMBINO CON DEFICIT VISIVO: in particolare si parla del tema
dell’ORGANIZZAZIONE PERCETTIVAè la funzione di sintesi percettiva nella costruzione dell’atto
percettivo. Questa funzione di sintesi è svolta dal TATTO, perché opera con il contributo degli altri
sensi, nell’esplorazione dell’ambiente. L’OLFATTO si associa agli altri sensi, li completa nella
conoscenza; anche il GUSTO è molto importante perché è utile ad entrare in relazione con la
complessità della sintesi percettiva del bambino e ci da la possibilità di giocare ulteriori carte.
Sviluppo dell’AREA MOTORIAil bambino manifesta consistenti carenze di orientamento
nell’ambiente e di movimento nello spazio. La mancanza del canale sensoriale comporta difficoltà
nell’elaborazione di quel sistema di afferenze fondamentali, sia per la programmazione che per
l’esecuzione dell’atto motorio.
Nell’area motoria, un costante rifornimento di informazioni afferenti è essenziale per la corretta
esecuzione dell’ultima componente di qualsiasi movimento volontario, ovvero, il controllo del suo
corso e la correzione di ogni errore fatto. Per fare questo, dobbiamo dare costante riferimento di
informazioni (collocare con la voce nello spazio).
Il bambino non vedente ha bisogno di corretti interventi di educazione motoria volti, in particolare,
alla strutturazione, integrazione dei prerequisiti strutturali e funzionali del movimento e
all’acquisizione della fondamentale abilità di spostarsi con sicurezza nell’ambienteDINAMICA
DELL’AUTONOMIA. Per fare questo, quali sono le indicazioni operative? Il bambino con deficit
visivo deve essere costantemente sollecitato all’esplorazione del proprio corpo e di quello degli
altri, in primo luogo quello dei suoi genitori, per conoscere le sue singole parti. L’esperienza
corporea deve essere soggettiva e individualizzata, resa piacevole, ad esempio, con l’ausilio del
gioco e della musica. Intanto che procede questo percorso di presa di conoscenza e autonomia del
proprio corpo e delle condizioni nelle quali il soggetto si trova a muoversi, attraverso l’attività
motoria ci si prefigge di correggere atteggiamenti e posture inadeguate.
Sviluppo dell’AREA COGNITIVAper l’area cognitiva del bambino con deficit visivo, dobbiamo
tener presenti alcuni elementi importanti:
- I tempi necessari al bambino non vedente per percorrere le fasi dello sviluppo cognitivo, si
avvicinano a quelli dei bambini normo-vedenti, in misura direttamente proporzionale alla
precocità di un opportuno intervento educativo finalizzato a rendere attivo il bambino non
vedente (prima cominciamo a lavorare ad un opportuno intervento educativo, maggiore
sarà la vicinanza delle fasi dello sviluppo cognitivo rispetto a quello dei bambini normo-
vedenti.
- Tramite una buona coordinazione tattile, cinestesica e uditiva, il bambino non vedente può
compensare efficacemente la relativa povertà dei riferimenti percettivi ambientali.
- Conservazione delle qualità fisiche: nei bambini con disabilitò visiva si trovano, in generale,
le medesime tappe di sviluppo osservate presso i soggetti vedenti.
- Linguaggio verbale: il bambino non vedente, ad un’analisi superficiale, non sembra avere
problemi nel linguaggio. Spesso, però, si verifica un fenomeno detto VERBALISMO: è
l’utilizzo di espressioni verbali riferite all’esperienza visiva e per tanto prime di significato
per il non vedente. Quando parliamo dobbiamo entrare nella logica e nelle esigenze
concrete del soggetto che ha delle problematiche, che non gli consentono di mettere
insieme espressioni verbali riferite alle esperienze visive. Il verbalismo si presenta su 3
livelli:
1) Nella costruzione del linguaggio reale e concreto.
2) Nell’uso di parole denotanti concetti visivi, ma che per i non vedenti diventano
concetti astratti.
3) Nell’uso di parole che denotano concetti astratti.
Se vogliamo superare il verbalismo, dobbiamo pensare a utilizzare, in quel contesto, un
linguaggio verbale che porta all’acquisizione del linguaggio come strumento preminente di
comunicazione, che richiede l’associazione di un significante ad un significato, sancito da
una convenzione. In altre parole, con un linguaggio chiaro, concreto, comprensibile, capace
di consentire al soggetto non vedente un’immediata sinergia tra le parole e il significato
che attribuiamo alle parole.
Alla luce di questi elementi, possiamo cominciare a riflettere su linee educative specifiche: gli
obiettivi del processo educativo del non vedente, sono sovrapponibili a quelli di ogni altra persona
anche se richiedono, per essere adeguatamente perseguiti, di opportuni adattamenti per quanto
riguarda metodologie e sussidi. Ci sono 2 momenti significativi nell’educazione del bambino non
vedente:
1. Educazione sensoriale motoria nella prospettiva dell’esplorazione e della conoscenza
dell’ambiente.
2. Educazione alla lettura e alla scrittura.
Abbiamo bisogno di costruire un percorso per il bambino con deficit visivo, che porta
all’ampliamento delle potenzialità del bambino, attraverso interventi mirati di educazione
sensoriale motoria, fondamentale nella prospettiva dell’esplorazione e della conoscenza
dell’ambiente; un’educazione alla lettura e alla scrittura con riferimento, sempre crescente, alle
nuove tecnologie informatiche.
ESPLORAZIONE DELL’AMBIENTEsi concretizza grazie all’educazione sensoriale, finalizzata al
massimo sfruttamento delle capacità sensoriali residue e grazie ad una educazione motoria,
indirizzata alla conoscenza del proprio corpo e al corretto utilizzo dello stesso. L’atteggiamento
corretto dell’educatore è quello di porsi in posizione di osservatore ed intervenire unicamente per
aiutare il bambino a cogliere gli stimoli dell’ambiente. L’educatore non si deve interporre come
mediatore dell’esperienzadeve lasciare autonomia al bambino e quindi lasciarlo sbagliare.
La stimolazione di continue e appropriate esperienze tattili, motorie e acustiche, deve essere
indirizzata all’ambiente familiare e poi allargarsi ad altri contesti. La percezione senso-motoria
nell’esplorazione dell’ambiente diventa una percezione immaginativo-motoria. Nel soggetto non
vedente dobbiamo andare verso una conoscenza analitica del contesto nel quale si trova ad
operare. Per fare questo, nell’esplorazione dell’ambiente, il bambino non vedente utilizza alcuni
elementi:
- Concetti topologici.
- Lateralità.
- Rotazioni.
- Valutazione delle distanze.
NB: se li utilizza, vuol dire che sono gli elementi sui quali si deve lavorare.
EDUCAZIONE ALLA LETTURA E ALLA SCRITTURAla scrittura braille richiede al bambino non
vedente il possesso di alcune abilità pre-requisiziali:
1. Una buona capacità percettivo-tattile.
2. Coordinazione bi-manuale.
3. Affermata capacità di linguaggio.
4. Capacità ritmica.
5. Strutturazione di prerequisiti funzionali del movimento per conoscere le relazioni spaziali e
riconoscere immagini motorie dei segni grafici.
EDUCAZIONE LOGICO-MATEMATICA ED ESPRESSIVAla matematica è un’attività mentale con
un’origine percettiva-attiva. Se nell’area logico matematica si riscontrano difficoltà, lo scarso
rendimento è dovuto alle scarse conoscenze che il bambino ha della realtà circostante (mancanza
di esperienze). Le forme di espressione devono essere costantemente stimolate; tali forme
espressive sono: il linguaggio, la scrittura, la mimica, la musica, il disegno. Tali forme di espressione
stimolano le capacità creative e contribuiscono alla costituzione di una dimensione immaginaria
utile a conoscere quello che non si vede.
NUOVE TECNOLOGIE PER GLI ALLIEVI CON DEFICIT VISIVOoggi abbiamo dei supporti tecnologici
a disposizione dei non vedentidisplay braille (periferica aggiuntiva che permette la lettura delle
informazioni visualizzate sullo schermo); i programmi di sintesi vocale (permettono di ascoltare e
quindi leggere qualsiasi programma); gli screen reader (software che leggono il contenuto dei file).
Ci sono delle criticità dovute all’uso delle tecnologie:
- La necessità di una continua alfabetizzazione, perché i linguaggi e i supporti cambiano.
- Mantenere prioritario l’apprendimento tradizionale del braille.
DISABILITA’ MENTALE: presenta una varietà sintomatologica molto forte, da non scambiare per
sintomo di lesioni cerebrali, sindromi malformative o disturbi di natura psicopatologica
(depressione, ansia, iperattività)per quanto ci sforziamo di dare una categoria complessiva di
disabilità mentale, dobbiamo sapere che ogni soggetto presenta peculiarità molto forti.
L’unica visione possibile dell’uomo è quella di una totalità costituita da corpo e mente, che può
subire alterazioni nel corso del suo sviluppo, tali da generare deficit di natura cognitiva, motoria,
sociale o emotiva.
Il ritardo mentale si affronta in base a 2 paradigmi di riferimento:
1) Approccio neuropsichicoindaga i limiti in specifiche funzioni cognitive come: la
memoria, il linguaggio, la percezione o l’attenzione, rapportandole a ritardi/deficit
strutturali del sistema nervoso.
2) Prospettiva psicometricaè interessata alla costruzione di strumenti di misura che
possano differenziare i soggetti normodotati da quelli con deficit cognitivo, attraverso test
intellettivi.
La classificazione categoriale del ritardo mentale su cui gli studi convergono, è quella americana:
DSM-IV del ’94: questo lavoro degli studi americani sulla classificazione categoriale del ritardo
mentale, collocano il ritardo mentale secondo il numero di sintomi morbosi. In questi lavori, la
persona viene definita affetta da ritardo mentale in base a 3 criteri precisi:
1. Quoziente intellettivo inferiore a 70.
2. Esistenza di limiti significativi nei comportamenti adattivi.
3. Comparsa delle manifestazioni prima dei 18 anni.
Il manuale DMS distingue 4 gradi di gravità del ritardo:
- Grado lieve QI da 50 a 70.
- Grado medioQI da 35 a 50.
- Grado graveQI da 20 a 35.
- Grado gravissimoQI inferiore a 20.
- Casi borderlinepresentano QI compreso tra 50 e 70.
I deficit cognitivi si valutano con strumenti psico-diagnostici accreditati a livello internazionale, in
particolare, dalle scale psicometriche si deduce la cosiddetta “ETA’ MENTALE”: il confronto tra le
capacità medie di ogni fascia di età e il QI che indica il rapporto tra età mentale ed età cronologica.
Le prestazioni che si discostano dalla media determinando un QI inferiore a 70, costituiscono il
primo segnale di ritardo mentale. Questo è un criterio psicometrico che permette una distinzione
quantitativa dell’intelligenza, ma a noi non è sufficiente perché non evidenzia a pieno le
potenzialità del soggetto.
TRATTI COMUNI nella diagnosi di ritardo mentale:
1. Riduzione della forza e dell’ampiezza delle funzioni psichiche superiori (attenzione,
memoria, linguaggio).
2. Condotte imitative e stereotipate che limitano l’autonomia e l’originalità.
3. Difficoltà di astrazione, deduzione e formulazione di ipotesi.
NB: la singolarità è uno dei tratti che connota la persona umana, insieme alla sua libertà, alla sua
autonomia e alla sua originalità. Non è, pertanto, riconducibile ad uno stereotipo determinato dal
tipo di deficit (il tipo di deficit non definisce automaticamente uno stereotipo comportamentale).
Allo stesso modo, lo sviluppo evolutivo, non si compie alla stessa maniera e con gli stessi ritmi,
perché questo determina una eterocronia (diversità di tempo) tra i diversi livelli di capacità.
La diagnosi di ritardo mentale può essere fatta anche in presenza di altre condizioni patologiche,
ad esempio, possiamo calcolare che circa l’80% di soggetti che presentano disturbi generalizzati
dello sviluppo, tra cui l’autismo, presentano disabilità mentale. Possiamo individuare fattori che
determinano il ritardo mentale nell’ottica dello sviluppo educativo:
- Cause organiche ereditarie o acquisite.
- Fattori psico-affettivi.
- Condizionamenti di natura socioculturale.
Non si può ricondurre ad unico fattore un grado più o meno elevato di deficit cognitivo. Qualsiasi
sia la sua natura, endogena o esogena, esso incide sul cervello in via di sviluppo alterando
l’organizzazione neurobiologica.
Il ritardo mentale, come forma di alterazione della mente, compromette, di solito in maniera
permanente, lo sviluppo individuale. Proprio per questo aspetto risulta improprio parlare solo di
ritardo che investe le aree cognitive, affettive e adattive della persona, con minore o maggiore
gravità.
STRATEGIE EDUCATIVE DI INTERVENTOl’approccio neuropsicologico al ritardo mentale si è
sostanzialmente focalizzato sul rapporto tra le strutture del sistema nervoso e le funzioni mentali.
Se è vero che l’apprendimento non può incidere su una lesione organica, si può, però, agire
sull’uso di processi strategici necessari per elaborare le informazioni apprese, puntando sulle aree
rimaste intatte (sufficientemente attive). Così descritto, il ritardo mentale, per quanto grave e
duraturo, non è perciò da considerare immutabile e ineducabile. Si deve chiarire su quali
manifestazioni carenti dei soggetti con ritardo mentale si può intervenire perché educabili e, su
quali non si può intervenire perché immodificabili a livello strutturale. Tutti gli studi ci dicono che il
cervello umano è una struttura plastica e autopoietica, estremamente modificabile nel tempo e
influenzabile anche quando è lesa o condizionata da messaggi genetici che ne rallentano lo
sviluppo.
[Autopoiesi=capacità di un sistema complesso, per lo più vivente, di mantenere la propria unità e
la propria organizzazione attraverso le interazioni reciproche dei suoi componenti].
La plasticità del cervello umano raggiunge il suo apice in età evolutiva, è importante, quindi,
decondizionare agendo tempestivamente su tutti i possibili fattori di disturbo. Molti studi ci dicono
che interventi e strategie di recupero di natura educativa, possono modificare le strutture neurali.
L’educazione deve rivendicare la propria importanza e il proprio ruolo. Dal punto di vista
educativo, si deve stimolare, sostenere e rafforzare, le capacità cognitive e l’apprendimento,
armonizzando tutto con la vita affettiva e sociale del soggetto.
Gli interventi di recupero rispetto alla disabilità mentale e rispetto alle strategie educative
d’intervento da mettere in campo, devono indirizzarsi alle funzioni mentali compromesse
partendo da quelle strumentali (percezione, motricità, linguaggio), arrivando a quelle superiori
dell’apprendimento, dell’adattamento all’ambiente, dell’autonomia e della creatività.
I processi evolutivi fondamentali che sono compromessi nel ritardo mentale sono 2:
1. L’elaborazione dell’esperienza.
2. La costruzione di un mondo interno soggettivo, distinto dalla realtà esternainterverremo
riparando o costruendo il senso di autonomia e indipendenza per l’integrazione scolastica
sociale.
Alla luce di queste riflessioni, dobbiamo pensare a un percorso che dovrà essere preciso,
dettagliato e il bambino avrà bisogno di: obiettivi, contenuti, metodologie e di strumenti di
valutazione strettamente individualizzati e specifici.
AUTISMO: le sicurezze espresse fin ora in altri contesti di disabilità, nell’autismo assumono una
dimensione molto meno condivisa. Qualcuno dice che dell’autismo ancora si sa poco ma, in realtà,
ci sono numerosi studi che aiutano ad approfondire questa problematica. L’intero impianto di
questa problematica non appare, dal punto di vista scientifico, troppo condivisa. Qualcuno parla di
un vero e proprio “enigma”, su cui attualmente si ha disaccordo in merito ad alcuni elementi, tra i
quali:
- La dimensione eziologica.
- La dimensione della patogenesi.
- La tipologia d’intervento (riabilitativo, abilitativo, educativo).
Nel DMS-IV del ’94, l’autismo viene definito come: “disturbo generalizzato dello sviluppo, che
determina disturbi di natura qualitativa su 3 aree specifiche:
1) L’interazione sociale, con la tendenza all’isolamento, al rifiuto del contatto fisico e
all’evitamento oculare.
2) La comunicazione verbale e non verbale attraverso un’attività immaginativa.
3) Un repertorio ristretto e ripetitivo dei comportamenti e degli interessiSTEREOTIPIE”.
DIAGNOSI DI AUTISMOcos’è necessario per fare una diagnosi di autismo:
- L’insorgenza dei sintomi prima dei 3 anni (tra i 10 e i 20 mesi).
- La presenza di almeno un elemento per ognuno dei 3 criteri prima descritti.
Una diagnosi deve essere:
- Sintomatologicaattraverso protocolli diagnostici specifici finalizzati all’analisi del
comportamento.
- Normativamisurazione del QI attraverso scale dedicate: la scala Wechsler per gli adulti e
la scala Wisc-r per i bambini.
- Funzionalecapacità attuali e potenziali nelle diverse funzioni umane. Tali capacità sono:
attenzione, memoria e motricità.
La diagnosi di autismo viene effettuata in primo luogo dai genitori, che sono i primi ad accorgersi
del disturbo del bambino e poi, dall’equipe multidisciplinare (vista la complessità del disturbo,
sono necessarie professionalità specifiche).
EZIOLOGIAle cause sono ancora in parte sconosciute. In linea di massima si tende a non
evidenziare un’unica causa. Possiamo, quindi, definire una “catena causale”si individuano
almeno 3 fattori alla base dell’autismo:
1) alterazioni strutturali e funzionali del SNC;
2) le influenze genetiche;
3) le evidenze biochimicheun’alterazione dei sistemi neurotrasmettitori implicati in alcune
funzioni umane.
STATO DELLA RICERCA OGGI: si è cercato di chiare questa problematica attraverso l’unione di studi
di diversa natura. Si possono individuare studi di natura neuroanatomica, studi di natura genetica
e modelli teorici di riferimento. Nel tempo, i modelli teorici di riferimento che si sono susseguiti
sono stati molti, tra i quali ritroviamo:
1. Il primo modello fu teorizzato da Leo Kanner nel 1943fu il primo a parlare di autismo
infantile precoce. La causa è dovuta ai cosiddetti “genitori frigorifero”, cioè, incapaci di
percepire e rispondere ai bisogni fisici ed emotivi del bambino che, per difesa, si chiude in
una forma di isolamento sociale. Questo approccio è stato messo in relazione con il
modello psicoanalitico.
2. Modello psicoanaliticoin voga fino agli anni ’60-’70; tale modello dice che la causa
dell’autismo è riscontrabile in deficit del contatto affettivo. Oggi è considerato un modello
superato.
3. Modello organicista (anni ’70)ci dice che la causa dell’autismo la possiamo trovare in
cerebro lesioni con gravi problemi sensoriali. La loro singolare sintomatologia è un
tentativo di “cura” per risolvere i problemi di natura sensoriale. Anche questo modello,
oggi, è considerato superato.
4. Modello etologico (anni ’80)individua la causa dell’autismo in deficit da conflitto
motivazionale: nel soggetto si manifestano, contemporaneamente, tendenze di
avvicinamento ed evitamento, che protratte nel tempo, provocano forti ritardi nello
sviluppo. È stato un modello fortemente discusso.
5. Modello comportamentista (dagli anni ’80 ad oggi)la causa dell’autismo sta in una
sindrome neurobiologica: nel soggetti si manifestano comportamenti che si possono
modificare predisponendo adeguatamente l’ambiente. Lo possiamo considerare un
modello ampiamente condiviso.
6. Modello socioaffettivo (anni ’80-’90)la causa dell’autismo è riscontrabile in un deficit
primario della socio-affettività: la mancanza della naturale tendenza umana alla
intersoggettività, determina un’incapacità di entrare in relazione e comprendere gli altri. È
un modello, oggi, in parte condiviso.
7. Modello della teoria della mente (anni ’90 ad oggi)individua la causa dell’autismo in un
deficit della teoria della mente: sottolinea la mancanza di un modello cognitivo innato che
si manifesta interno ai 4 anni e che ci rende capaci di intuire e comprendere gli stati
mentali altruiprocesso noto come “MENTALIZZAZIONE”. Tale modello è, oggi,
ampiamente condiviso.
8. Modello della teoria della simulazione incarnata (seconda metà anni ’90)tale modello
individua la causa dell’autismo in un deficit del “sistema mirror”: è un sistema
ipofunzionante nella corteccia pre-motoria che rende incapaci di riconoscere e
comprendere le azioni e le intenzioni altrui. Tale modello è, oggi, ampiamente condiviso.
9. Modello della teoria delle funzioni esecutive (anni ’90 ad oggi)individua la causa
dell’autismo in un deficit delle funzioni esecutive: operazioni mediate dai lobi frontali che
consentono di organizzare volontariamente azioni, secondo sequenze ordinate e
gerarchiche. Cioè, il soggetto si esprime attraverso sequenze non ordinate e non
gerarchiche. Questo modello, oggi, è ampiamente condiviso.
10. Modello della teoria della coerenza centrale (dagli anni ’90 ad oggi)individua la causa
dell’autismo in un “deficit di coerenza centrale”: disfunzione cognitiva che impedisce al
soggetto di ricondurre ad unità, stimoli e/o rappresentazioni per avere una visione organica
ed unitaria del tutto, a cui attribuire un significato. Tale modello è ampiamente condiviso.
PROGRAMMI D’INTERVENTO: vista la ricchezza dei contributi teorici, i programmi d’intervento
sono molti e diversi a seconda che si orientino sui singoli deficit, ovvero: sul deficit della teoria
della mente; sul deficit comunicativo; sul deficit relazionale; sul deficit cognitivo-
comportamentale. I programmi d’intervento più significativi sono:
- Il programma TEACCHè un programma d’intervento di matrice cognitivo-
comportamentale, elaborato negli Stati Uniti negli anni ’70, che ha alcune linee base
d’intervento:
Valutare i punti di forza e di debolezza.
Potenziare le capacità rilevate e/o carenti.
Organizzare e strutturare i tempi e gli spazi.
Fare un lavoro di formazione dei genitori attraverso il “parent training”.
Il programma tende a potenziare le abilità comunicative, sociali, cognitive, al fine di
favorire l’autonomia personale e sociale del soggetto, con un grande lavoro sull’ambiente,
rendendolo strutturato. Più sono le abilità possedute, più l’ambiente è strutturato, migliore
è l’adattamento e la conseguente autonomia del soggetto.
- Programma sulla teoria della mentela sua finalità è quella di sviluppare la capacità di
riconoscere le emozioni, intuire e comprendere gli stati mentali altrui, sulla base di azioni e
pensieri degli stessi. Gli obiettivi di tale programma sono:
Riconoscere le emozioni proprie e altrui.
Insegnare a discriminare le false credenze.
Insegnare i gioco di finzione.
Le linee guida operative sono:
Scomporre le abilità in unità semplici.
Usare rinforzi per velocizzare gli apprendimenti.
Proposte in un ambiente naturale.
Usare come riferimento per le proposte d’intervento, le tappe di sviluppo del
soggetto normodotato.
- Programma della comunicazione facilitatail suo obiettivo è quello di facilitare lo sviluppo,
sempre più autonomo, della comunicazione attraverso un “facilitatore”, cioè, un assistente
che fornisce supporto fisico ed emotivo alla comunicazione. Come possiamo intervenire?
Attraverso l’uso di tastiere multimediali; attraverso immagini e foto e attraverso software.
IL BAMBINO AUTISTICO NEL CONTESTO DI APPRENDIMENTO: il senso di un intervento educativo è
che nulla può rimanere com’è, cioè, l’intervento educativo deve cambiare anche di poco la
situazione in atto.
Indicazioni operative:
- Concetto di integrazione reciprocail contesto deve adattarsi al bambino e il bambino
deve adattarsi al contesto.
- Seguire delle parole chiave nella strutturazione del lavoro:
1) è necessario il concetto di programmazione congiuntaparte da una
programmazione tra gli insegnanti e la reste di alleanze esterne.
2) Organizzazione e strutturazione di spazi e tempi.
3) Uso di una didattica speciale che valuti le abilità, per verificare l’efficacia di
programmi d’intervento.
4) Utilizzare i compagni come risorsa insostituibile.
NB: in generale nella didattica, nella dimensione pedagogica-educativa e sui tempi della speciale,
la nostra idea ineludibile è l’EDUCABILITA’ del soggettoanche le situazioni più complesse sono
educabili e su questo dobbiamo esercitare al meglio il nostro contributo, attraverso la nostra
professionalità.