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PEDAGOGIA SPECIALE

Il ruolo della pedagogia speciale

La pedagogia speciale è un sapere in divenire poiché le scoperte portano con sé continue migliorie.

Alla pedagogia speciale sono dovuti molti dei risultati sul piano della lotta alla marginalità sociale e per il
riconoscimento dei diritti delle persone con disabilità.

In ogni epoca il diverso suscita paura e repulsione in coloro che si considerano normali, questa reazione porta
all’ esclusione di tali soggetti. La pedagogia speciale pone al centro del suo pensiero l’educazione di questi
soggetti speciali che hanno bisogni speciali, si è capito che bisogna lottare per rivendicare il loro diritto ad
essere considerati persone educabili anche se vivono ai margini di un’insistenza che richiede sempre aiuto e
sostegno. Essi infatti sono in grado di attivare le loro potenzialità in risposta ad interventi educative speciali.

La pedagogia speciale deve proporre percorsi innovativi, di integrazione. Nello specifico è una scienza che
deve interagire e collaborare in modo interdisciplinare con scienze mediche, psicologiche, sociologiche.
Infatti i grandi fondatori di questa scienza furono dei medici che capirono l’importanza dell’educare. Esempi:

• nel 1800 ITARD riconobbe in un bambino selvaggio, trovato nella foresta, un’umanità che poteva
essere educata;
• la Montessori, la quale intuì che per i soggetti disabili era necessario un approccio oltre che medico
anche pedagogico.

La pedagogia speciale ha lottato per far sì che la società riconoscesse che questi” diversi” erano persone che
come tali potevano e dovevano avere diritto all’istruzione, al lavoro e all’ utilizzo dei servizi.

Dapprima lo Stato si prendeva cura di loro mai istituzioni chiuse (scuole e istituti speciali), ma coloro che
lavoravano con queste persone si resero conto che isolarsi non era una scelta valida. Al contrario, l’uomo per
sviluppare al massimo le proprie potenzialità ha bisogno di fare esperienza nella vita normale con tutti coloro
considerati privi di deficit. Solo con la legge n.157 del1977 si ha la piena integrazione del soggetto con
disabilità nella scuola italiana nelle classi comuni.

Che cos’è la disabilità?

E’ la risultante dell’ interazione di base dipiù elementi legati alle CONDIZIONI DI SALUTE INDIVIDUALI;

Ai FATTORI PERSONALI e ai FATTORI CONTESTUALI.

Quel è dunque il ruolo della pedagogia speciale?

È quello di “sollecitare a favorire la formazione globale della personalità dei soggetti con necessità educative
particolari (persone con disabilità ma non solo), valorizzandone le capacità presenti” e “offrire risposte
specifiche a problemi personali particolari in contesti di normalità “ (Pavone). La pedagogia speciale deve
dare risposte “ai bisogni di educativi là dove si trovano e non la risposta ai bisogni raggruppati per categorie”
(Canevaro). Il ruolo della pedagogia speciale non è quindi quello di portare la persona alla normalità ma di
favorire lo sviluppo del potenziale umano, l’autonomia, la crescita, la progettazione, la partecipazione. Qui si
parla non tanto di bisogni speciali ma umani. Dobbiamo ripensare al concetto di normalità, ognuno di noi è
una normale eccezionalità. Per questo bisogna andare oltre la diagnosi e oltre le etichette.

Qual è il compito della pedagogia speciale?

È “quello di distinguere nel soggetto le componenti legate al deficit- di competenzaanche di altre discipline
– ricercando le condizioni utili a ridurre lo svantaggio conseguente alla relazione con il contesto” (Pavone).

Quali sono le parole chiavi della pedagogia speciale?


INTEGRAZIONE/INCLUSIONE: Oggi in Italia siamo più vicini alla prospettiva inclusiva che alla semplice
esperienza di integrazione. Il termine inclusione è stato educativo utilizzato per la prima volta in ambito con
la Dichiarazione di Salamanca del 1994.

L’inclusione non va intesa solo in ambito scolastico. Si tratta di un cambiamento e di rinnovamento culturale.

INTEGRAZIONE: il contesto si organizza nel INCLUSIONE: il contesto è già pronto ad


momento in cui si presenta un nuovo problema affrontare un bisogno senza aspettare che di
manifesti
E’ una SITUAZIONE E’ un PROCESSO ( che prevede il contributo di più
persone)
Ha un approccio COMPENSATORIO
Si riferisce all’AMBITO EDUCATIVO Si riferisce alla GLOBALITA’ DELLE SFERE educativa,
sociale e politica
Guarda al SINGOLO Guarda a TUTTI GLI ALUNNI e a tutte le loro
potenzialità
Interviene PRIMA SUL SOGGETTO e poi sul Interviene PRIMA SUL CONTESTO e poi sul soggetto
contesto
Incrementa una RISPOSTA SPECIALISTICA ( dà una TRASFORMA LA RISPOSTA SPECIALISTICA IN
risposta a quel tipo di disabilità) ORDINARIA

• persona CON DISABILITA’, CON DISAGIO, CON DIFFICOLTA’: oggi non si parla più di persona con
handicap, o portatore di handicap, o diversamente abile. Il deficit, per quanto evidente e pervasivo,
non è mai rappresentativo di tutta la persona;
• PROGETTAZIONE/PROGETTO DI VITA, ossia quello che vogliamo raggiungere
• QUALITA’ DI VITA
• LAVORO DI RETE/UNITARIETA’ D’INTENTI: bisogna lavorare sempre in modo coeso
• INTERVENTO PRECOCE: la rilevazione precoce risulta fondamentale per l’acquisizione di obiettivi
nell’ambito del progetto di vita

1.2 ORIGINI E SVILUPPO DELLA PEDAGOGIA SPECIALE

La Pedagogia Speciale (PS) è per la maggior parte degli autori quella disciplina che si occupa dell’educazione
di persone portatrici di diversità sul piano individuale o sociale a causa di deficit o di difficoltà. Nel tempo la
PS ha cambiato notevolmente profilo, in base ad una molteplicità di fattori, tra cui fa da capolista l’idea stessa
della diversità e della minorazione. Quest’ultima infatti è mutata negli anni, svincolandosi sempre più da
quelle credenze o concezioni, prive di alcun riscontro empirico, che ne hanno condizionato l’impatto sociale.
Come la pedagogia generale, anche la PS non ha confini ben delineati ed un approccio alquanto eterogeneo
e complesso. Questo giustifica come mai anche la definizione di PS sia cambiata, passando attraverso
difettologia, ortopedagogia, pedagogia emendativa, pedagogia riparatrice, pedagogia dell’handicap…

Alcuni fattori che hanno influito positivamente sulla definizione di PS che intendiamo noi oggi sono stati: *
l’emancipazione civile generale; * la “scoperta dell’infanzia”; * le accelerazioni scientifico in ambito
neurologico, psichiatrico, neuromotorio, psicologico; * l’incremento dei saper inerenti le pratiche abilitative
e riabilitative; * l’emergenza di nuovi professionisti e nuovi sapere professionali; * ecc. Come si può
riconoscere che il pensiero dell’uomo sull’educazione appartenga costituzionalmente all’umanità ed alle sue
origini, così si può ritenere che la diversità e la disabilità abbiano da sempre attivato la riflessione dell’uomo
e conseguenti azioni sociali. La storia, dunque, della PS tiene conto sia di come si sia evoluto il pensiero
pedagogico orientato ai temi della formazione di persona disabili o in condizioni di diversità o disagio, sia di
quella “pedagogia speciale popolare”, di cui parla J. Bruner, diffusa e osservata da familiari, baby sitter,
educatori per dedizione o per professione, che spesso si è traslata in atti normativi ed istituzionali. Appare
evidente che la PS si sia costruita sulle trame delle visioni del mondo e delle concezioni dei saperi che hanno
marcato la storia del pensiero negli ultimi due secoli, passando quindi attraverso l’illuminismo, il positivismo
empirista, lo spiritualismo del tardo ottocento, fino alla postmodernità ed al neorealismo ed oltre. Più della
pedagogia generale, la PS si è connessa in modo transdisciplinare con la biologia, le “scienze cognitive” e le
scienze neurofisiologiche, dando vita ad un quadro poliedrico di presenze ed approcci alla PS. Questa sua
visione transdisciplinare rende difficile delineare una storia della PS, perché non c’è una univocità concettuale
e terminologica; ciononostante possiamo riconoscere che la vicenda della PS è fortemente ancorata a storie
individuali, di studiosi e di intraprendenti costruttori di servizi, che hanno optato per un ambito di lavoro
connotato dalla diversità e dalla sofferenza, e per il formidabile interesse scientifico di affrontare sacche di
oscurità ed imprevedibilità a carico dello sviluppo e del comportamento umano. Dinamicità e mutazione
accompagnano da sempre la PS, per effetto del cambiamento dei contesti civili che qualificano la storia
dell’integrazione sociale in generale, ma diventa pressante nell’ultimo secolo il problema della integrazione
tra il livello popolare delle pratiche di tutela ed educazione dei disabili, ed il livello selezionato del pensiero
scientifico nella sua multiformità disciplinare. Anche le operazioni di periodizzazione della PS non sono prive
di criticità; tuttavia si può scandire la storia della PS in: * prodromi (fino al 700); * XIX secolo; * XX secolo; *
contemporaneità. Il lavoro di storicizzazione della PS ha come scopo mettere a disposizione degli studiosi
una documentazione ampia della mole di produzioni e di esperienze, unitamente ad una necessaria azione
di razionalizzazione criteriale, che può porsi come la linea teorico-epistemologica, ovvero quel filo conduttore
che tiene insieme tutte le cose, quella costante di identificazione che va ricercata nella Educabilità.
Associando, quindi, la storia del pensiero pedagogico in materia speciale e il principio di educabile, è facile
notare la costruzione di una curva di educabilità, che pertiene sia alla persona disabile, sia alla posizione
culturale dei contesti vissuti, sia ancora alla curiosità scientifica connessa ai multilaterali problemi biologici
ed educativi. Nella seconda metà del 1900, con l’avvento di nuove tecnologie e la conquista dello spazio,
prende piede in USA una svolta culturale e pedagogica di potenziamento dei processi formativi delle nuove
generazioni, dei programmi e delle metodologie di insegnamento. Qui l’educabilità, spinta dall’ottimismo
pedagogico, si mostra sempre più fiduciosa nella scienza e nella tecnologia, orientandosi verso una
“programmazione di obiettivi”, dunque a forme di coraggio ed audacia educativa fondati sull’affidamento ai
poteri delle azioni didattiche ed abilitative, quali la prevenzione, la riabilitazione, la terapia, l’orientamento…
Tutto ciò appare ancora più evidente quando riferito a persone definite, fino a quel momento, incurabili, di
scarso valore sociale, come ad esempio i ciechi, i sordi, i deboli mentali, i menomati, i cerebrolesi ecc. I primi
autori, nel 1700, a maturare una tendenza all’accettazione, al trattamento abilitativo ed al principio
dell’educabilità, sono Itard, impegnato dapprima con i sordo-muti e poi con l’enfant sauvage, e Seguin,
impegnato con le forme gravi di ritardo mentale e con lo studio dell’idiozia. Tra la fine del 1700 e l’inizio del
1800 inizia una vera e propria analisi dei contesti di vita, il che prelude all’idea di ricondurre alla normalità
sociale i comportamenti devianti, classificati nella capiente categoria di “amorali”, da piegare alle regole della
comunità, secondo il principio della Educazione totale, pervasiva e normativa dello stesso esistere del malato.
Nonostante quindi prendano piede gli istituti come i manicomi, in cui queste persone “anormali” vengono
segregate per non disturbare il senso comune, in taluni autori dediti ai bambini difficili, tra cui soprattutto
Don Bosco, emerge il concetto di prevenzione, ovvero di educabilità per tutti. Tale pensiero prosegue e si
rafforza con l’opera di grandi figure poliedriche, come Montessori, Decroly, Claparede, Montesano ecc.
Credere in una educabilità come attrattore disciplinare include pertanto l’impegno intellettuale e
l’accettazione del rischio, ma che fornisce grande sviluppo delle proprie potenzialità, accompagnato dal
contributo etico delle relazioni umane che si vengono a creare. Di grande interesse storico ed antropologico
è certamente l’esplorazione di come, sin dalla classicità greca, l’uomo ha concepito l’anomalia fisica e
psichica. Da Komenski (1592-1670) deriviamo il principio dell’insegnare tutto a tutti, secondo un
insegnamento graduale e ciclico nella prospettiva della onnisapienza o pansofia; tale pensiero troverà una
sua accelerazione nel secolo successivo grazie ai lavori di Rousseau, sensibile ai principi di libertà e
uguaglianza, nonché dell’illuminismo. Nel secolo dei lumi emergono intensi interessi della società e degli
studiosi intorno alla vicenda ed alle destinazioni dell’uomo nella sua singolarità. Ritorna il tema critico, già
noto alla cultura preclassica, della relazione mente-corpo, di quanto il pensiero sia o meno biologicamente
contaminato dal corpo. Si sviluppano le scienze evolutive, che concentrano le loro attenzioni sulle età
antecedenti a quella adulta; si presta maggiore attenzione ai reali e dinamici intrecci biologico-sociali
dell’uomo, ma anche ai processi biopsichici. Rousseau (1712-1778) riprende tutti questi temi nelle sue opere
“La nuova Eloisa” ed “Emilio”, centrate sulla focalità della persona come individuo, colto principalmente
come “essere sociale”. Rousseau assume e sintetizza temi importanti per la Modernità: l’individualità delle
storie, il senso delle relazioni tra individuo e società, il tema del selvaggio, la forza dell’educazione. Sullo
sfondo di questa weltanschaung e cultura precorritrice di inclusività, prende forma il più significativo tra i
paradigmi della Pedagogia e si determina, con il giovane Itard, la “svolta della educabilità”. Il ritrovamento
nel 1798 dell’enfant sauvage rende urgenti una serie di problemi e di temi teorici inerenti lo sviluppo e
l’ambiente, la comunicazione umana, la funzionalizzazione dei deficit, le pratiche apprenditive ecc. Con
l’esperienza del giovane Victor, la PS entra a far parte delle “scienze del comportamento” e, d’altro canto, si
iscrive nella tradizione della Pedagogia come scienza dell’educazione. La “curva” attivata alla fine del 700
diviene sempre più consistente nel secolo successivo, diventando motivo di diffusa professionalità, anche
pedagogica, tale che si prolunga ed estende lungo una dinamica di crescente affermazione. L’educabilità
perviene ad ulteriore delimitazione concettuale nel paradigma della normalizzazione, utilizzato con significati
parzialmente sovrapponibili ed in costante evoluzione. Se ne ricava una categorizzazione degli eventi
secondo un criterio scientifico-professionale: * Educabilità come sfide individuali, es. Hellen Keller, persone
che danno corpo ad una sfida ai contesti di vita, nell’intento di soddisfare il “bisogno di integrazione”; *
Educabilità come imprese educative, complesse azioni in ambito medico, psichiatrico, educativo a favore di
disagiati attuate da enti morali, filantropici o religiosi o singole personalità; * Educabilità come assetto
scientifico e professionale, in cui l’educabilità si pone come acceleratore intellettivo che spinge ad affrontare
questioni essenziali; * Educabilità come fiducia, per effetto del radicale incremento operato negli ultimi
decenni dalle neuroscienze a disvelare processi neurofisiologici e loro stati di diversità o di patologia. Ciò ha
provocato l’apertura di scenari di ottimismo pedagogico, in cui si è venuto a creare un connubio neuro-
pedagogico, riscontrato in molte pratiche abilitative e riabilitative. L’educabilità è dunque motivo di impresa
scientifica e professionale, pertanto generatrice di educabilità, territorio di azioni educative promozionali
della funzionalità umana nei migliori modi possibili, secondo la logica perseverante e positiva da molti
identificata nell’invito: “Io non mi arrendo!”, che ben esprime la Tradizione della Educabilità.

1.3 LA PEDAGOGIA SPECIALE A SCUOLA: IL MODELLO ITALIANO

L’Italia agli inizi degli anni 70 si adoperò concretamente affinché venissero rispettati i diritti dei più deboli e
scelse come strumento di cambiamento la scuola. Con la legge 118 del 1971, ma soprattutto con la legge 517
del 1977, si sancì il dovere che la scuola di tutti aprisse i suoi cancelli ai bambini con deficit: si era intuita la
necessità che anche la persona con problemi fisici, sensoriali o mentali potesse frequentare le aule
scolastiche dove anche gli alunni senza disabilità quotidianamente si attivavano per crescere come cittadini.
All’articolo 2 della legge 517/77 si afferma che è possibile progettare attività integrative, per gruppi di alunni
della stessa classe o di classi diverse, finalizzate anche ad attuare interventi individualizzati in relazione alle
esigenze degli allievi in genere e interventi a sostegno dei bambini disabili. La scuola italiana, nonostante
siano passati 40 anni da questa legge, con tutte le sue difficoltà riesce ancora oggi a proporre, nonostante
tutto, percorsi formativi idonei, capaci di aiutare gli allievi con deficit a diventare più uomini. Il “Modello
italiano” si basa su questi punti: 1. Nessuno può rifiutarsi di accogliere un soggetto con disabilità nel contesto
classe; 2. La certificazione di disabilità porta automaticamente alla collaborazione tra servizio sanitario-
riabilitativo e scuola; 3. L’insegnante di sostegno non è per il solo soggetto disabile, ma reca il suo contributo
specializzato a tutta la classe; 4. I consigli di classe sono coscienti della situazione del ragazzo disabile e lavoro
in unità di intenti; 5. I genitori sono sempre coinvolti nelle scelte operative e didattiche; 6. La scuola deve
avere un piano dell’offerta formativa significativo dal punto di vista dell’inclusione; 7. All’interno della scuola
ci sono gruppi di lavoro specializzati per l’educazione e la formazione dei soggetti disabili; 8. Le famiglie dei
bambini senza deficit accettano la presenza in classe di un bambino con deficit.

1.4 L’OMS e la dimensione pedagogica dall’ICIDH all’ICF

Intorno al 1970 si capì che per potersi occupare adeguatamente della salute delle persone, le informazioni
diagnostiche delle varie malattie dovevano essere accompagnate da informazioni riguardanti le possibili
conseguenze sulle condizioni di vita della persona. Le informazioni di cui disponeva l’OMS, raccolte nella ICD
– International Classification Disease, erano insufficienti, perché non fornivano dati sulle conseguenze delle
malattie sul funzionamento della vita, chiamate poi disabilità. Sorge però anche il problema sull’accezione
che si dà al termine disabilità: secondo il modello medico la disabilità era la conseguenza ad un problema di
salute; secondo il modello sociale, invece, la disabilità era determinata dall’ambiente di vita. Si provvide
quindi a creare una classificazione univoca, che nasceva dal confronto dei due modelli: nel 1980 l’OMS fonda
l’ICIDH – International Classification of Impairments, Disabilities and Handicaps. Però non fu chiaro ancora in
che termini si poneva rispetto a ciascuno dei due modelli. Poiché nessuno dei due modelli interpretativi della
disabilità era esaustivo, si scelse col tempo di optare per una terza via, un modello bio-psico-sociale, che
tenesse conto di tutte le prospettive. Tale modello permetteva una visione olistica della persona ed è
descritto all’interno dell’ICF – International Classification of Functioning, Disability and Health. L’ICF propone
tre livelli di osservazione: 1. Livello del corpo, ovvero della menomazione di funzione o di struttura corporea;
2. Livello della persona, cioè della limitazione dell’attività o restrizione alla partecipazione; 3. Livello
dell’ambiente, ovvero fattori che agiscono da barriere o da facilitatori.

L’ICF è strutturato in due parti e 4 componenti, contrassegnato ciascuno da un codice alfanumerico: Parte
prima: Funzionamento e disabilità Componenti: b (body) = funzioni corporee; s (structure) = strutture
corporee; d (doing) = attività e partecipazione Parte seconda: Fattori contestuali Componenti: e
(environment) = fattori ambientali.

1.5 PEDAGOGIA SPECIALE E DISABILITÀ INTELLETTIVA

Pinel riteneva l’idiozia come una categoria nosografica autonoma, distinguendosi da qualsiasi altra forma di
“sragione”. Secondo lui l’idiozia non era curabile. Sulla sua scia, Esquirol, suo allievo, distingue l’idiozia in
idiozia vera e propria, di grado avanzato, e in imbecillità, di grado più lieve. Di fatto l’esperienza con l’enfant
sauvage di Itard e gli studi successivi di Séguin, hanno dimostrato che l’idiozia è curabile. Séguin definisce
l’idiozia come “un’infermità del sistema nervoso che ha per effetto radicale di sottrarre tutti o parte degli
organi e delle facoltà del bambino all’azione regolare della volontà”. Per l’autore è possibile intervenire
mediante un metodo educativo che egli definisce “fisiologico”, che considera la persona globalmente, con la
finalità di una sua integrazione culturale, sociale e persino lavorativa. Alla fine dell’800 Sollier, nel distinguere
l’idiozia e l’imbecillità, supera i lavori di Esquirol ponendo le basi per una prima distinzione tra dimensione
quantitativa e dimensione qualitativa delle possibili cause del deficit mentale. Per Sollier, infatti, nell’idiota
si notano i tratti di un arresto più o meno grave dello sviluppo mentale, mentre nell’imbecille sono presenti
i tratti di uno sviluppo anormale. In Italia nel 1874 viene fondata la Società di Freniatria. Il suo fondatore,
Verga, definisce gli idioti frenastenici (dal greco FREN = mente e ASTENIA = debolezza) per ricordare che più
che una vera e propria malattia della mente, si tratta di una “debolezza” delle funzioni cerebrali, considerata
comunque inguaribile. Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo ci furono molteplici iniziative con finalità
educative e di ricerca: nel 1894 viene fondata la rivista L’Ortofrenia; nel 1899 viene fondata la prima scuola
per i bambini deficienti; nel 1900 viene fondata la prima Scuola Magistrale Ortofrenica. Questo era il contesto
in cui ha operato la Montessori, che ha sottratto alle cure prettamente assistenziali e filantropiche i bambini
deficienti mentali. In occasione del II Convegno dei Pedagogisti, che si tenne a Napoli nel 1901, Montessori
presentò una classificazione dei deficit mentali, che orientò la distribuzione di questi bambini nelle varie
classi: i casi gravi-ineducabili finivano negli istituti medico-pedagogici; i casi medio-gravi finivano nelle classi
speciali; i casi lievemente tardivi andavano nelle classi differenziali. Nonostante il lavoro di questi pionieri
dell’educazione speciale, le condizioni sociali delle persone “sub-normali” rimasero le stesse per lungo
tempo. Con la Dichiarazione dei diritti delle persone con ritardo mentale emanata dall’ONU nel 1971 iniziano
ad acquisire un minimo di integrazione sociale e di interesse generale, almeno come casi di studio. In Italia le
cure prettamente assistenziali, che non sono mai mancate verso questa tipologia di persone, permette di
creare quella sensibilità sociale tale, che dà avvio, nella seconda metà degli anni 70, al processo di
integrazione scolastica nelle “classi comuni” di tutti gli allievi. Questo permette di capire, nell’arco di un
trentennio, che con le dovute attenzioni anche le persone con ritardo mentale possono aspirare ad una
propria maturazione e crescita personale, nella realizzazione di un percorso esistenziale orientato
all’autonomia. Con i nuovi studi sulla mente, sul pensiero e sull’intelligenza di fine novecento, si palesa l’idea
che il Ritardo Mentale non sia una malattia e che anche l’indice di Q.I. sia una nozione arbitraria nella
demarcazione tra funzionamento “normale” e “anormale”. Si concepisce ormai l’idea di una funzione in
movimento, un processo che costruisce strutture cognitive in relazione ai contesti culturali e linguistici e che
evolve lungo tutto l’arco vitale dell’individuo. Si tratta di consapevolezze che maturano nell’elaborazione
normativa internazionale e che trovano pieno riconoscimento nell’ICF, il quale promuove un approccio bio-
psico-sociale, che tenga conto di tutti gli aspetti che coinvolgono la vita dell’uomo. In virtù di questo
approccio i nuovi documenti ICD-11 e DSM-V sostituiscono la locuzione “ritardo mentale” con quella di
“disabilità intellettiva”. Inoltre alle sole misure quantitative del Q.I., in questa nuova edizione vengono
preferite la valutazione delle funzioni intellettive e del funzionamento adattivo, in relazione agli
apprendimenti.

1.6 PEDAGOGIA SPECIALE E DEFICIT VISIVO

Braille intuì che la lettura tattile della linea o delle lettere contornate fosse lenta ed artificiosa. Sostituì
dunque la linea con il punto. Il metodo, ideato da Barbier, prevedeva un sistema di 12 punti. Ma era ancora
troppo artificioso. Braille ridusse i punti da 12 a 6, quanti entravano in un polpastrello. Il codice Braille è un
codice a rilievo, che con 64 segni indica il sistema alfabetico, numerico e musicale. Ciascuna lettera è inscritta
in uno spazio di 6mm di altezza per 3mm di larghezza. I punti sono disposti in 3 righe per un massimo di due
punti per ciascuna riga. Nonostante varie opinioni discordanti, il metodo Braille è ancora oggi quello più
utilizzato per l’inclusione dei ciechi. Il primo istituto per ciechi in Italia in cui si insegnava il metodo Braille
sorse a Napoli nel 1818, poi si estesero nuovi istituti su tutto il territorio. Il maggiore tiflologo del Novecento
fu Romagnoli. Ipovedente grave alla nascita per una congiuntivite neonatale, all’età di 30 anni diventò cieco
totale. Si laureò in filosofia con una tesi su Introduzione all’educazione dei ciechi e divenne il primo professore
di filosofia cieco in Italia. Si occupò fin da subito di didattica dei ciechi. Nel 1910 fondò la Società degli
insegnanti ciechi italiani. Ebbe l’onore di essere chiamato dal Ministero della Pubblica Istruzione a controllare
su tutto il territorio quali fossero le migliori scuole per ciechi per poterle rendere statali. Nel 1926 fu chiamato
a dirigere la prima Scuola di metodo per gli educatori dei ciechi a Roma. Arrivò a porsi come antesignano
nella teorizzazione dell’integrazione scolastica degli alunni non vedenti, proponendone l’inserimento nelle
scuole comuni, pur consapevole che la temperie culturale dell’epoca non era ancora matura per
concettualizzare questa soluzione inclusiva. Fu lo studioso italiano che meglio riuscì ad elaborare la riflessione
tiflopedagogica precedente e a teorizzare in modo organico una pedagogia del non vedente e una
criteriologia di intervento volta llo sviluppo globale della personalità dei privi della vista.

Nel caso del non vedente i sensi vicarianti sono l’udito ed il tatto. Se viene ipervalorizzato solo l’udito si hanno
i cosiddetti blindismi o ciechismi, tra cui vi sono il camminare in un certo modo, il dondolarsi, lo strofinarsi gli
occhi in continuazione, i monologhi egocentrici prolungati. Occorre fare leva anche sulla percezione tattile,
soprattutto per quelle conoscenze che nei ciechi non sono automatiche, tipo l’esplorazione e la percezione
dello spazio, del proprio corpo e dei rapporti tra più oggetti nello spazio. Bisogna prestare attenzione anche
all’avvicinamento del bambino non vedente alla lettura, che diventa lo strumento di inclusione sociale e di
stimolazione della fantasia, nonché facilitatore dell’astrazione e della rappresentazione mentale.
1.7 PEDAGOGIA SPECIALE E DEFICIT UDITIVO

Dal confronto tra l’abate de l’Epee ed Heinicke nasce la querelle tra il metodo dei segni e il metodo orale
nella educazione dei sordi. De l’Epee considerava il gesto come il mezzo naturale con cui i sordi comunicano,
che rende il linguaggio mimico un sistema di segni metodici convenzionali, capaci di cogliere il contenuto dei
vocaboli. Heinicke era convinto che la parola fosse la forma naturale del pensiero in grado di togliere il sordo
dall’isolamento; de l’Epee riteneva che il pensiero preesistesse alla parola e che potesse esprimersi anche
attraverso i segni. Itard scelse, nel suo lavoro con i sordomuti, di non ricorrere al metodo gestuale,
preferendo un iter rieducativo capace di sfruttare le potenzialità integre dei canali visivi, tattili e cinestetici.
Dopo un anno di lavoro Itard aveva condotto gli alunni sordi a leggere dal labiale suoni e frasi semplici, purché
l’interlocutore parlasse lentamente. In Italia uno dei maggiori studiosi dell’educazione agli audiolesi fu
Pendola, che nei suoi lavori abbandonò il metodo gestuale per favorire il metodo orale. Lo sviluppo del
dibattito metodologico conduce a tentativi di integrazione tra i due metodi, con la concretizzazione di
percorsi diversificati. Mentre in Europa il metodo gestuale fu bandito, in USA le due modalità, orale e
gestuale, continuarono a convivere e ad essere sviluppate parallelamente. Verso la fine del 900, in Italia,
Volterra privilegia la competenza bilingue, che consente l’efficace apprendimento di entrambi i metodi. Col
graduale inserimento di bambino sordo nella scuola statale nasce la cultura dell’integrazione. Il soggetto con
deficit uditivo grave non può utilizzare solo il linguaggio orale, ma l’acquisizione della competenza linguistica
dovrà essere accompagnata dall’uso del linguaggio gestuale. L’inclusione scolastica e sociale del sordo si
fonda sull’adozione di un approccio multi-prospettico e comunicativo globale in cui non va dimenticato
l’apporto sempre più mirato e scientificamente evoluto del processo di protesizzazione, ancora oggi
predominante.

1.8 PEDAGOGIA SPECIALE E SINDROME AUTISTICA

Di autismo si è cominciato a parlare dalla metà del 900, ma il primo caso che racconta di una persona
apparentemente sana, ma con disturbi del carattere simili a quelli di chi soffre di autismo, risale al 1747. Il
termine autismo risale al 1908, utilizzato per la prima volta da Bleuer, psichiatra svizzero, per indicare una
particolare forma di ritiro dal mondo causata dalla schizofrenia. Nel 1943 Kanner descrisse il comportamento
particolare di 11 bambini che differiva da quello di ogni altra sindrome riscontrata fino a quel momento.
Kanner parlò di autismo infantile precoce. Asperger, nello stesso periodo, parlò di psicopatia autistica per
indicare un disturbo che interessava la popolazione infantile, con una sitnomatologia simile a quella di
Kanner, ma con capacità cognitive nettamente superiori e senza alterazioni del linguaggio. Gli interventi
educativi su bambini autistici furono sperimentati dalla Simons e da Fenichel. La Simons fondò nel 1955 una
delle prime scuole al mondo dedicate al trattamento di soggetti autistici. Il suo approccio era centrato sulle
potenzialità di questi bambini e si fondava sui principi della precocità, intensività e durata dell’intervento.
Significativa la sottolineatura della presenza di abilità nascoste in ogni bambino fatta dalla Simons. Anche
Fenichel fondò in America un centro per il trattamento dei bambini con questa sindrome. Egli era convinto
sostenitore dell’esistenza di cause biologiche nell’autismo e del fatto che i bambini dovessero restare in seno
alla famiglia, con i genitori assunti al ruolo di partner nel trattamento. Nel ventennio successivo a Kanner ed
Asperger, le principali teorie cercarono nel rapporto madre-figlio una possibile causa dell’autismo.
Bettelheim sviluppò il concetto di madre frigorifero, indicando un tipo di rapporto caratterizzato da carenza
di contatto fisico, pratiche alimentari anormali, difficoltà nel linguaggio e/o nel contatto visivo con il figlio.
L’autismo perciò sarebbe una risposta del figlio, un meccanismo di difesa estrema rispetto a contesti
relazionali vissuti come potenzialmente in grado di annullarlo come persona. La Tustin sostenne che l’autismo
fosse legato sia ad un difetto delle cure da parte della madre, che ad una incapacità del bambino di far buon
uso della figura materna. Si verrebbe dunque a verificare una rottura troppo precoce del legame madre-figlio,
in un’epoca in cui il bambino non è in grado di gestirla. Mahler elabora una teoria dell’autismo infantile che
sottolinea il ruolo dell’Io nello sviluppo del processo di adattamento con la realtà esterna. L’atteggiamento
difensivo del bambino deriverebbe da un trauma subito nelle prime fasi di sviluppo (“fase autistica” o “fase
simbiotica”), che renderebbe il bambino incapace di utilizzare le cure materne, costringendolo ad utilizzare
altri sistemi per sopravvivere, detti “meccanismi di mantenimento” psicotici. Il primo a sostenere che alla
base dell’autismo non vi fossero i genitori, ma disturbi di tipo organico fu Rimland. Nonostante a questa
ipotesi collaborarono in molti, con diversi studi, non si riuscì a trovare un aspetto particolare da poter
considerare come caratteristico di ogni forma di autismo. Un primo approccio ad un intervento educativo va
ascritto alla Elgar, che fece uso di un insegnamento strutturato e di supporti visivi per fornire informazioni
comprensibili agli allievi. A lei si ispirarono i lavori di due grandi figure: Lovaas e Schopler. Lovaas delineò un
modello d’intervento rivolto ai bambini autistici elaborato secondo i principi dell’analisi comportamentale
applicata. Tale programma, pur avendo avuto diverse critiche, ha comunque fornito risultati documentati
estremamente significativi, consentendo anche ad alcuni bambini di arrivare ad avere una vita discretamente
adattata. La principale riserve che fu fatta a Loovas fu l’utilizzo di rinforzi negativi e di stimoli punitivi.
Attualmente l’analisi comportamentale applicata (ABA – Applied Behavior Analysis) rappresenta forse il
modello di intervento che riscuote maggiore validazione scientifica e che, nelle sue applicazioni più recenti,
prevede anche un approccio molto naturalistico, con l’insegnamento del comportamento nel contesto in cui
lo stesso si manifesta, utilizzando stimoli e rinforzi sempre presenti nell’ambiente. I principi su cui si fondava
il trattamento proposto da Lovaas erano: 1. Il luogo privilegiato dove svolgere l’intervento era la casa, la
scuola e qualsiasi altro familiare al bambino; 2. L’intervento deve essere iniziato precocemente,
possibilmente prima dei 5 anni, e sviluppato intensamente; 3. L’intervento va condotto secondo le strategie
proposte dall’analisi comportamentale applicata; 4. Le unità di comportamento per l’autonomia che vengono
insegnate devono essere prima piccole e semplici, per poi passare ad altre più ampie e complesse. Il lavoro
di Schopler permise di realizzare il programma TEACCH, il quale, al pari dell’ABA, riscuote grande successo a
livello internazionale. Il programma TEACCH mirò a favorire, sin dall’inizio, l’adattamento della persona con
disturbo autistico nel proprio ambiente di vita, attraverso precise modalità organizzative e specifiche
strategie educative personalizzate. Si concentrava su due aspetti particolari: da un lato potenziare le capacità
del bambino, dall’altro modificare l’ambiente affinché potesse adattarsi alle capacità del bambino autistico.
Alla fine degli anni 70 una serie di studi permise a Wing e Gould di scoprire che non esisteva una sola forma
di autismo, ma ben tre diverse tipologie: 1. Gli isolati o inaccessibili, che risultano simili ai soggetti descritti
da Kanner; 2. I passivi, con comportamenti di indifferenza nei confronti dell’ambiente circostante; 3. Gli attivi
ma bizzarri, che sono socialmente presenti, ma con azioni inconsuete. Si apriva la strada verso la delineazione
di uno spettro autistico. Lo studio metteva in mostra come i disturbi della comunicazione, della
socializzazione e dell’immaginazione avessero la tendenza ad apparire insieme, piuttosto che in maniera
isolata. Dagli anni 80 in poi sono stati sviluppati vari modelli per cercare di sviluppare i sintomi dell’autismo:
1. Deficit di teoria della mente (Frith-Cohen) = nell’autismo la disfunzione cognitiva, da cui deriverebbero gli
altri sintomi, consiste in una incapacità di rendersi conto del pensiero altrui; 2. Coerenza interna del sistema
cognitivo (Frith-Happé) = ogni individuo possiede una coerenza interna che permette di riconoscere la
maggior parte degli elementi comuni nei vari contesti; nell’autismo manca la coerenza interna; 3.
Compromissione delle funzioni esecutive (Ozonoff) = nell’autismo verrebbe mancare la capacità di problem
solving, che fa capo alle funzioni esecutive, ovvero quelle svolte dai lobi frontali che consentono il controllo
volontario del comportamento cognitivo e motorio.

1.9 PEDAGOGIA E SINDROME DI DOWN

1866 Down pubblica il primo articolo che descrive in maniera dettagliata le caratteristiche dell’idiozia
mongola. 1876 Fraser e Mitchell forniscono la prima descrizione clinica di una paziente con la Sindrome di
Down. 1959 Lejeune individua nell’anomalia cromosomica la vera causa della Sindrome di Down. 1961 la
rivista The Lancet sceglie la locuzione “Sindrome di Down”. 1966 Penrose e Smith pubblicano il testo Down’s
Anomaly, inquadrando la Sindrome di Down come condizione genetica specifica. Nel suo testo Down utilizzò
la classificazione etnografica su base craniometrica introdotta dall’antropologo tedesco Blumenbach, il quale
proponeva una classificazione dell’umanità in 5 razze: 1. Razza bianca o caucasica; 2. Razza rossa o americana;
3. Razza olivastra o malese; 4. Razza gialla o mongola; 5. Razza negra o africana. Partendo da questa
classificazione delle etnie e sulla base di un’attenta osservazione degli idioti, Down giunse alla conclusione
che questi potevano essere ricondotti alla razza mongola. Down descrisse in maniera dettagliata e accurata
le caratteristiche fisiche e comportamentali dell’idiozia mongola. Secondo le credenze dell’epoca l’idiozia
mongola di Down era una degenerazione della “razza bianca” verso la “razza gialla”, sostenendo quindi che
questo tipo di idioti fosse riconducibile ad una tipologia evolutivamente regredita. Down però non riuscì ad
individuare le cause della sindrome. Nel 1876 Fraser e Mitchell fornirono la prima descrizione clinica di un
paziente con questa specifica sindrome, incanalando gli studi verso i tratti somatici, lo sviluppo mentale e
l’incidenza statistica. Soltanto nel 1959 si riuscì a capire, grazie ai lavori di Lejeune, che la causa scatenante
della sindrome era la trisomia del cromosoma 21. I grandi cambiamenti socioculturali del Novecento e le
nuove scoperte medico-scientifiche riguardo alla sindrome, richiesero per questa patologia una nuova
terminologia: grazie alla rivista The Lancet nel 1961 si mutò da “mongolismo” alla locuzione “Sindrome di
Down”, in onore del suo primo scopritore. Nel 1966 Penrose e Smith pubblicano il testo Down’s Anomaly,
inquadrando la Sindrome di Down come condizione genetica specifica e separandola da tutte le altre forme
di ritardo mentale.

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