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DISPENSA di

DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA

Prof.ssa Alessandra Lo Piccolo

Parte I
1. L’educazione personalizzata
Negli ultimi anni, nell’ambito della ricerca educativa, si è assistito ad un crescente mutamento di
prospettiva nella riflessione sul processo di insegnamento-apprendimento, con ricadute anche sul
versante metodologico.
Dall’uso obsoleto del termine “individualizzazione” ritenuto particolarmente efficace per esprimere
l’iter didattico riguardante per lo più la persona disabile, ci si è posti il problema che
l’individualizzazione così considerata creasse piuttosto una separazione dei confini contestuali
riguardanti il disabile e il gruppo classe di appartenenza. Veniva a costituirsi così un duplice
intervento didattico: uno rivolto al gruppo, l’altro rivolto al singolo. Questo concetto è stato
superato nell’ottica dell’integrazione del disabile cercando di programmare sempre più interventi
rivolti a tutti i membri del contesto educativo cui andava rivolta l’azione didattica.
Recentemente ci si è spinti oltre. Il problema di creare percorsi educativi formativi per ogni
componente del gruppo classe ha messo in luce due aspetti fondamentali: l’unicità di ogni persona
appartenente al gruppo, indipendentemente dalla presenza di uno stato specifico di disabilità, e la
globalità della persona stessa interessata in un processo di interazione e di scambio continuo con gli
altri e con il contesto sociale e ambientale.
Tenendo conto di ciò si è cominciato a parlare di “educazione personalizzata”, ossia rivolta alla
“persona” nel suo significato più autentico, unico ed irripetibile.
Rivedendo alcuni concetti consueti in Pedagogia, si condivide pienamente quanto afferma García
Hoz (2005) secondo cui l’educazione personalizzata risponde sostanzialmente all'esigenza
educativa di stimolare il soggetto affinché vada perfezionando la capacità di governare se stesso e la
propria vita e, di conseguenza, di attuare la propria libertà personale, partecipando con le sue
caratteristiche peculiari alla vita comunitaria.
Gli studi più recenti sulle differenze nella personalità hanno condotto a due tipi di interventi in
campo educativo. Se le caratteristiche di una persona sono tali da renderla incapace di compiere
determinate azioni, che per altri soggetti della stessa età cronologica sono perfettamente adeguate,
sembra evidente che questa persona non possa seguire il processo di apprendimento ordinario,
pertanto necessita di un trattamento pedagogico adeguato, ossia di un’educazione “speciale”. Ma,
anche quando le differenze di personalità non sono così evidenti, comunque ne esistono sempre tra
diversi soggetti posti a confronto, in quanto ogni soggetto è diverso per natura da un altro. In questo
caso, seppure l'educando sia considerato un soggetto idoneo a ricevere un’azione educativa
ordinaria, comunque necessita di un’attenzione “personalizzata”. Ciò si distingue dal creare un
percorso educativo per il singolo. «Quando l'educazione si realizza in modo tale che un maestro
stimola e dirige il processo educativo di un solo alunno, ci troviamo dì fronte all’educazione
individuale» (García Hoz, 2005, p.25).
Storicamente, come lo stesso autore ricorda, l’educazione individuale si è realizzata in certe
situazioni aristocratiche, cioè quando essa era rivolta a un solo alunno, generalmente un principe o
un nobile che si avvaleva dell'opera di un maestro. Nel momento in cui l’azione educativa è stata
rivolta ad un utenza sempre più vasta, in quanto per necessità e per diritto rivolta alla popolazione di
un determinato territorio, ha cessato di avere la caratteristica dell’esclusività ed è divenuta
un'attività di tipo sociale.
Dall’educazione individuale si è passati di fatto a un’educazione collettiva, propria delle istituzioni
scolastiche. Ad ogni modo sia l’educazione collettiva che l’educazione individuale sono comunque
forme parziali, incomplete del processo educativo. Sempre García Hoz (2005, p.25) fa notare che:
«L’educazione individuale, isolando il soggetto da coloro che possono stabilire con lui delle
relazioni sociali di parità, annulla la principale fonte di fecondità della vita umana. D’altra parte,
l’attenzione esclusiva di un maestro verso un solo alunno suole comportare, di conseguenza, che
questi confidi troppo nell'intervento dell'educatore.» In tal modo, infatti, non si consente
all’educando di mettere in azione le proprie risorse autoeducative e ciò comporta l’insorgere di
notevoli difficoltà per lo sviluppo delle sue capacità personali. L’educazione comune, propone
García Hoz, rende materialmente possibile la relazione tra simili; però, egli afferma «nemmeno
nelle forme classiche di insegnamento collettivo era favorito il contatto realmente personale tra i
mèmbri di una stessa scuola. Le sollecitazioni educative erano uguali per tutti, uguale era la
spiegazione del maestro, uguali i libri da utilizzare; però la risposta alle sollecitazioni e il lavoro di
ogni alunno si realizzavano in modo individuale, separati gli uni dagli altri. Pertanto, in una
apparente comunità, vi era solo una aggregazione di vite individuali, senza altro contatto che quello
puramente esteriore» García Hoz, (2005, p.25).
Ne risulta che se l’insegnamento collettivo implica per l’insegnante l’utilizzo di uguali stimoli per
tutti gli alunni, lasciando che questi reagiscano individualmente, mentre l’insegnamento individuale
offre la possibilità di una costante attenzione alle particolari difficoltà e/o attitudini e interessi che
l'alunno può incontrare nel processo educativo.
In termini più recenti, l’insegnamento individualizzato risulta un tentativo di armonizzare gli aspetti
dell’insegnamento individuale e di quello collettivo: da una parte vi è un’offerta di attenzione e di
aiuto alle esigenze specifiche della persona, dall’altro si offre l’opportunità di confronto e di
socializzazione.
L’aspetto distintivo dell’'insegnamento individualizzato sta nel fatto che non si va a valutare nello
specifico il risultato o il rendimento dell'alunno, piuttosto il processo del suo apprendimento, in
modo tale che ogni alunno possa usufruire dell’aiuto per lui maggiormente necessario, possa trovare
ciò di cui ha veramente bisogno, affinché il processo di apprendimento e di sviluppo della sua
persona si realizzi nella maniera efficace.
Oggi l’idea di “educazione individualizzata” si è ulteriormente trasformata; l’attenzione è posta sul
soggetto, non più come un’unità le cui caratteristiche tendono ad isolarlo dal contesto collettivo;
piuttosto si vuol trovare la via per rafforzare la peculiarità della sua personalità, affinché sia resa
integrata e maggiormente efficiente per la società.
Con tali premesse, risulta inevitabile e obbligatorio parlare di educazione personalizzata. Il più
profondo significato dell’educazione personalizzata, afferma García Hoz, (2005, p. 27), «consiste
non nell’essere un modo o un metodo nuovo e più efficace di insegnamento, ma nel convertire il
lavoro di apprendimento in un elemento di formazione personale attraverso la scelta di compiti e
l'accettazione di responsabilità da parte dell'alunno stesso».

1.1 La persona al centro del processo educativo


La personalizzazione dell’educazione, come evidenziato precedentemente, si distingue
dall’insegnamento individualizzato, ma accoglie l’istanza dell’individualizzazione e delle
differenziazioni didattiche, reinterpretandole secondo l’approccio sapienziale - umanistico (Chiosso,
2004), mirando alla “totalità del processo educativo”, all’integralità della persona e della sua vita.
L’educazione personalizzata si fonda, infatti, sulla considerazione dell'essere umano come
“persona”, intesa non semplicemente come un organismo che reagisce a determinati stimoli
dell'ambiente, piuttosto come un essere attivo che osserva e modifica il mondo che lo circonda.
Personalizzare significa dunque riferirsi a una persona non isolata, bensì appartenente ad una
comunità ed interagente con essa.
L'educazione personalizzata è tale pertanto se si realizza in un soggetto che ha caratteristiche
proprie e che coltiva tali caratteristiche affinché, attraverso le proprie capacità personali, offre se
stesso e il proprio vivere operando in un contesto sociale per il bene proprio e per quello altrui.
La persona è la ragione più profonda dell'educazione personalizzata in quanto è l’essere creato di
dignità superiore ad ogni altro, e assume tale importanza poiché è autentica, irripetibile e quindi
assolutamente preziosa.
L’aspetto più elevato di essa, su cui l’azione educativa interviene, è l’esercizio della propria libertà
e questo riconduce alla capacità di scelta in un contesto così variegato e, spesso, confuso che la
società odierna propone.
In questa prospettiva «la relazione educativa deve essere impegnata a sostenere il soggetto nello
sforzo, nelle difficoltà, nell’esercizio delle sue capacità di scelta, nell’assunzione delle
responsabilità» (Macchietti, 1996, p.63-74) e il suo impiego deve rivolgersi soprattutto alla
promozione dell’educazione morale e di quella religiosa.
Non è possibile vivere senza saper esercitare un criterio personale nel valutare le persone, le
situazioni, le scelte più opportune; e ciò vuol dire vivere con libertà. «Il concetto di libertà che dà
vita all'educazione personalizzata si fonda principalmente sulla considerazione che la libertà
costituisce la base dell'attività umana, nei suoi atti specifici prima indicati: la scelta, l'accettazione e
l'iniziativa» (García Hoz, 2005).
Se l’educazione personalizzata vuole preparare la persona a reagire a tutte le possibili situazioni che
la vita possa offrire, nel modo opportuno, deve tenere conto sia dell'atto di scelta che di quello di
accettazione.
Quando in una istituzione scolastica è offerta l’opportunità di scelta e di iniziativa, sicuramente si
contribuisce alla formazione del pensiero creativo nella costruzione del proprio percorso di vita.
L’alunno che partecipa attivamente alla formulazione dei progetti di lavoro che lo riguardano può,
infatti, apportare il suo contributo personale e, quindi, contribuire al proprio successo e a quello
altrui. La comprensione degli obiettivi, la scelta dei mezzi e il confronto costante tra il progetto e la
sua realizzazione creano, a poco a poco, nel soggetto la capacità di proiettarsi nel futuro e di
progettare quindi il futuro della propria vita.
Da questo punto di vista, l'educazione personalizzata ha una dimensione prospettica, poiché cerca di
realizzare l'educazione in funzione della società che i bambini, gli studenti di oggi creeranno
domani. Essa si pone, pertanto, come stimolo e aiuto per la formulazione personale di un progetto di
vita e per la sua realizzazione e, affinché ciò sia possibile realmente, occorre educare innanzitutto
alla scelta e all’esercizio della libertà personale.
Investire sulla capacità di scelta e sull’esercizio della libertà personale esige, però, orientare anche
l’educazione affettiva dell’educando, la quale è indispensabile per la maturazione dell’identità, che
si realizza attraverso la graduale conquista di atteggiamenti di sicurezza, di stima di sé, di fiducia
nelle proprie capacità e di motivazione ad apprendere. Questi traguardi non possono essere
considerati fini a se stessi; «l’educazione della persona suppone la formazione del carattere nel
rapporto proattivo con la realtà sociale, mentre l’auto-realizzazione della personalità, lasciata a se
stessa, rischia di escludere l’alterità» (Perucca, 2002, p.15).
Tutto l’essere “persona”, dunque, è pienamente coinvolto nel processo educativo; porre al centro
dell’azione scolastica la persona, essendo la scuola per sua natura un’istituzione educativa dove si
educa alla cultura e ai valori, significa che tutti gli operatori interagenti, a diversi livelli, nella
scuola devono impegnarsi per uno scopo comune: garantire ad ogni alunno di essere in grado di
coltivare il proprio potenziale di umanità e così di essere protagonista attivo della costruzione della
propria personalità.
Perché ciò avvenga la scuola è chiamata a “comprendere” e a custodire tutte le manifestazioni della
persona e della sua vita integrale e a far convergere tutti gli atti educativi verso il medesimo fine.
Il traguardo cui tende l’educazione personalizzata è quello di far sì che ogni persona sia in grado di
«scoprire fra le molteplici possibilità che la vita offre, quali sono quelle maggiormente in accordo
con le proprie disposizioni e di disegnare la trama che dà loro unità» cioè di «formulare il progetto
personale di vita, tanto nel suo versante interiore, intimo, quanto nella sua manifestazione esterna,
di relazione con la realtà, e specialmente con i nostri simili, gli uomini” e con il “mondo del
lavoro». (Macchietti, 2005, in La Marca, 2005, p. 26).
A sostegno di questa tesi offre un determinante contributo Piaget (1974), il quale già sosteneva che
impegnarsi per la soddisfazione del diritto all’educazione significa garantire a ciascun uomo l’intero
sviluppo delle sue funzioni mentali, l’acquisizione delle conoscenze, come pure dei valori morali,
che corrispondono all’esercizio di dette funzioni, fino all’adattamento alla vita sociale. Di
conseguenza, significa soprattutto assumere l’impegno, tenendo conto delle attitudini personali, che
distinguono ciascun individuo, di non distruggere o sciupare nessuna possibilità che porta in sé e di
cui la società è chiamata ad avvantaggiarsi per prima.
Ma affinché ciascuno offra alla società il proprio contributo, deve prima conoscersi, scoprire il
proprio potenziale umano, le proprie risorse, le proprie specifiche peculiarità: le proprie
“eccellenze”.
Il compito più delicato della progettazione educativa consiste proprio nello scoprire questa
peculiare eccellenza in campi personali, nei quali un alunno può scegliere i propri obiettivi
individuali: discipline scolastiche, temi culturali e di attualità, attività produttive, divertimenti e
hobby, attività artistiche (García Hoz, 2005).
L’intero percorso di apprendimento deve essere progettato per valorizzare le caratteristiche
individuali e promuovere l’eccellenza personale.
Un apprendimento è personalizzato, infatti, quando non si realizza attraverso l’adattamento dei
contenuti disciplinari alle capacità degli alunni, ma quando viene articolato in obiettivi adeguati ai
reali bisogni di ciascun alunno. «Personalizzare significa insieme riconoscere e potenziare le
singolari differenze, promuovere il fondamentale bisogno di ogni persona di comunicazione e
condivisione» (García Hoz, 2005, p.28).
Nelle Indicazioni Nazionali (2004) si legge che gli insegnanti definiscono gli obiettivi formativi che
devono essere adatti e significativi per i tutti i loro alunni e, attraverso la progettazione delle Unità
di Apprendimento, li aiutano a raggiungerli e a trasformarli in reali competenze. Anche nel testo
delle Ultime Indicazioni per il Curricolo (2007) è dato all’insegnante della scuola dell’infanzia il
compito di definire gli obiettivi di apprendimento relativi ai campi di esperienza, definendoli sulla
base dei traguardi delle competenze.
Affinché tali obiettivi siano veramente “personali”, infatti, devono tener conto delle potenziali
capacità degli alunni, devono promuoverle, valorizzarle e portarle a compimento. Poiché non tutti
gli allievi hanno le stesse risorse di base, né gli stessi interessi, né si trovano nelle stesse condizioni
di vita, occorre stabilire degli obiettivi che permettano di sviluppare al massimo le capacità di ogni
persona, nonché offrire diversi percorsi in base alla varietà di interessi di ogni studente.
Secondo Bernal Guerrero (2002) un percorso educativo personalizzato è efficace quando tende alla
valorizzazione della diversità e alla scoperta dell’“eccellenza personale”; quando oltre a garantire la
promozione della capacità di conoscere e di trasformare il mondo rafforzi le relazioni e sociali,
potenzi la capacità di comunicazione, di espressione, di comprensione attraverso le diverse forme di
linguaggio. L’educazione raggiunge la sua massima qualità quando riesce a scoprire e a sviluppare
ciò che, con un'espressione classica, si può definire “eccellenza personale”.
Ogni uomo si distingue dagli altri per una particolare abilità; ogni uomo è, potenzialmente,
superiore agli altri in qualche aspetto della vita. Questa superiorità non gli è data in senso assoluto:
nessuno è eccellente in tutto, né lo è per sempre né in ogni circostanza della vita.
La superiorità o l'eccellenza di cui si parla è quella particolare attitudine o quell’accentuato interesse
che una persona possiede rispetto ad un qualcosa di specifico; il compito più delicato
dell’educazione consiste proprio nel far scoprire ad ognuno la propria peculiare eccellenza.
Nelle istituzioni scolastiche, quando si progetta un intervento educativo – didattico si è sempre
chiamati a indicare gli obiettivi comuni, cioè quelli che devono essere perseguiti e raggiunti da tutti
i soggetti a cui l’azione didattica è indirizzata e gli obiettivi individuali, ossia quelli propri di ogni
studente tenendo presente la singolarità propria di ogni persona e la propria peculiare eccellenza.
Va da sé che l'identificazione di una determinata eccellenza, da parte dell’educando, può generare
un atteggiamento compiacimento, di vanità, e, possibilmente, di disprezzo verso gli altri.
Per scongiurare questo rischio è bene tenere presente che ogni alunno possiede una determinata
caratteristica che lo porta a raggiungere una determinata eccellenza; non esistono persone prive di
attitudini o di interessi particolari, quindi non esistono persone prive di una propria eccellenza.
Perché una eccellenza abbia valore educativo, deve essere fruttuosa per sé e per gli altri. Inoltre,
poiché al centro del processo educativo stanno l’apprendimento e la persona, ciò dà forza alla
valorizzazione dei soggetti che apprendono nella loro unicità e originalità, secondo i loro ritmi di
apprendimento, cognitivi, affettivi, nel rispetto e nel riconoscimento dei vari contesti ambientali.

1.2 Le espressioni dell’educazione personalizzata


Il quadro dell'educazione contemporanea oggi si confronta con una realtà particolarmente
complessa e incerta. Tuttavia, l’attenzione negli ultimi anni si è orientata, con sempre maggior
incidenza, sulla valutazione in termini di “ripresa” dei valori dell’uomo che, come si può notare
anche dagli ultimi documenti ministeriali, «continuano ad essere proposti come nuclei di senso
ispiratori della costruzione dell'identità personale e del sistema sociale nel suo complesso» (Perla,
2005, in La Marca, 2005, p.95).
L’impegno del sistema educativo di istruzione e di formazione, come si diceva precedentemente, è
totalmente orientato “per la persona” dell'allievo della quale vanno salvaguardate e valorizzare le
proprie eccezionalità.
Assumendo tale presupposto al nostro discorso, emerge un aspetto di rilevante significato: se
l'educazione esige uno sviluppo armonico, integrale e integrato della persona, il percorso scolastico
deve essere orientato a coinvolgere tutti gli aspetti della persona nella sua integrità, tenendo quindi
presente le sue caratteristiche culturali, sociali, di genere, di età, ma anche riconoscendole e
valorizzandole tutte le potenzialità che possiede sotto il profilo cognitivo, espressivo, caratteriale.
Nei documenti nazionali della Riforma ministeriale del 2004, così come nelle ultime indicazioni per
il curricolo del 2007, non viene assolutamente negata l’importanza delle discipline, ma si evidenzia
che qualunque sapere disciplinare assume valore se contribuisce realmente e significativamente alla
promozione della persona nella sua interezza.
La riflessione fatta sulle connotazioni peculiari della “persona”, cui il fatto educativo mira a
custodire e potenziare, ci portano ad analizzare tre aspetti dell’azione educativa ad essa rivolta;
quelli che García Hoz, (2005) definisce gli orientamenti fondamentali dell'educazione
personalizzata, ossia: la singolarità, l’autonomia, l’apertura.

La singolarità
A fondamento dell’essenza della persona c’è la singolarità, che implica, come ricorda García Hoz
(2005) una differenziazione qualitativa in virtù della quale ogni uomo è quello che è, quindi diverso
dagli altri.
L’educazione personalizzata che si presenta come educazione integrale e quindi di arricchimento e
di unificazione dell'essere e della vita umana, non può prescindere dal considerare l’aspetto della
“singolarità” della persona. «Dal punto di vista della singolarità personale, la finalità
dell'educazione consiste nel rendere il soggetto cosciente delle sue capacità e dei suoi limiti
personali, considerati sia qualitativamente che quantitativamente. E poiché la vita dell'uomo si
realizza non solo nella sua intimità, ma anche in relazione con il mondo che lo circonda, è
necessario un ulteriore ricorso al mondo affinché la conoscenza di sé sia suscettibile di una
utilizzazione pratica esercitando la virtù della prudenza. L’orientamento educativo ha qui il suo
fondamento più evidente» (García Hoz, 2005, p.29).
La manifestazione esterna della singolarità della persona è l'originalità. Essere originale è come
essere creatore, infatti, il significato di originalità è pressoché identico al concetto espresso dal
termine creatività.
L’uomo è per natura un essere originale e creativo, infatti, sa trovare soluzioni diverse a situazioni
problematiche ed è per questo capace di progredire.
In ambito educativo coltivare la creatività è l’attività più propria e più completa dell'educazione
personalizzata, poiché lo sviluppo dell’originalità o della capacità creativa è proprio un principio
unificatore dell’intero processo educativo: intelligenza e fantasia, realtà e capacità, infatti, si
unificano nell’atto della creazione.
Questa dimensione educativa, si costruisce sulla base delle differenze personali e per ciò riduce il
rischio che l’educazione collettiva comportava: un insegnamento omologato rivolto ai tanti
indistintamente.
Tenendo presente quanto detto e la tesi di Guilford (1950), secondo la quale esistono dei caratteri
primari di creatività che sono in relazione principalmente con la fluidità e l'originalità della
risposta, la flessibilità del pensiero, la capacità di inventare nuove idee e di elaborarle, possiamo
asserire che intelligenza e creatività sono realtà differenti, benché molto legate tra loro. Nonostante
ciò non esiste un concetto chiaro di creatività. Si tratta, infatti, di un’attività così complessa che è
stato difficile darne una definizione. Tutti gli studiosi però concordano nel dire che la creatività è
una proprietà che appartiene, in quantità maggiore o minore, ad ogni uomo e, come ricorda García
Hoz (2005), si manifesta in tre maniere differenti: come ritrovamento o scoperta (archeologo),
come una improvvisa illuminazione (artista o ricercatore), come parte integrante del processo
produttivo; in quest’ultimo caso non si è di fronte né a un caso né ad una scoperta ma
semplicemente al lavoro dell’uomo.
In riferimento a quest’ultimo concetto, oggi si manifesta con forza la necessità di educare e di
coltivare la creatività di ogni persona in quanto elemento distintivo della stessa che le consente di
apportare un significativo contributo alla comunità di appartenenza.
Libertà, creatività, autenticità, se esasperate, possono diventano egocentrismo, individualismo e
narcisismo ma se aperte alla reciprocità sociale, creano rispetto, produttività e solidarietà e
promuovono una convivenza operosa, collaborativa e pacifica. «Il fatto che, al naturale divenire
della persona, l’educazione debba lasciare spazi di autenticità creativa non significa che non la
debba condurre a misurare il proprio crescere con la presenza di altri, a coniugare, cioè, la propria
identità e la propria cultura con quella degli altri» (Perucca, 2002, in Cuccurullo, 2002).
Purtroppo, coltivare la creatività nelle scuole oggi, significa per molti creare soltanto attività
laboratoriali o progetti extracurricolari, specialmente con riferimento all’esercizio di abilità
espressive di tipo artistico. Ma in realtà non è così: la creatività, proprio perché è il tratto distintivo
di ogni uomo, caratterizza l’azione umana di per sé e quindi essa trova posto in tutte le forme
espressive e in tutte le aree della conoscenza.
Nei primi livelli dell'educazione istituzionale (scuola dell’infanzia e scuola primaria) esiste un gran
numero di possibilità, che vanno dalla scrittura creativa fino all'ideazione di problemi matematici,
passando per tutta la gamma dell’espressione plastica e dinamica (García Hoz. 2005).
Successivamente presenteremo le metodologie ritenute da noi maggiormente efficaci per lo
sviluppo e il potenziamento delle abilità espressive nel bambino.

L’ autonomia
L’autonomia conferisce all’uomo una dignità superiore agli altri esseri che lo circondano, in quanto
lo pone come soggetto. Nella relazione soggetto-oggetto, infatti, il soggetto si trova sempre in una
posizione dominante rispetto all’oggetto.
L’uomo dimostra la sua superiorità rispetto al mondo attraverso la conoscenza e l’azione: la prima
in quanto l’uomo è in grado di possedere qualcosa della realtà che conosce, la seconda perché
soltanto l'uomo può accostarsi alle cose ed essere capace di modificarle in base a certe idee
concepite in precedenza.
Il mondo della cultura (il sapere) e il mondo della tecnica (il fare) hanno origine da queste due
possibilità di dominio che l’uomo, per sua natura, possiede.
Ogni uomo, essendo soggetto, ha potere sugli oggetti conosciuti e può agire su essi “in autonomia”
ma proprio questa caratteristica, che pone l’uomo al di sopra di ogni altro essere, può diventare una
seria minaccia per il suo benessere e per quello della comunità, se la sua azione non viene
finalizzata al bene del singolo e del collettivo.
La massima espressione dell'autonomia, ricorda García Hoz (2005) è la capacità di autogoverno, la
capacità di essere legge a sé stessi, il possesso e l'uso effettivo della libertà. Nel suo significato più
ampio la libertà indica l’assenza di costrizioni: infatti, libertà equivale a indipendenza; in questo
senso essa potrebbe essere intesa come “libertà da”. Essa ha però anche il senso positivo di scelta,
come capacità di autodeterminare le proprie azioni, quindi di poter scegliere in ogni momento della
vita l’azione che si vuol compiere, che si considera migliore tra le diverse possibilità che la
situazione offre; in questo senso la liberta può essere intesa come principio di attività e si esprime
come “libertà per”.
È proprio questa la superiorità dell’uomo rispetto gli altri esseri: poter scegliere come agire, e se ciò
è fatto con maturità e autogoverno allora la libertà diventa feconda.
Quando la libertà si realizza scegliendo tra possibilità ancora da scoprire si può parlare di iniziativa
personale che rappresenta un obiettivo dell'educazione della libertà.
L’educazione della libertà trova la sua autentica espressione nello sviluppo della capacità di scelta
ed educare a scegliere bene è un preciso obiettivo dell'educazione personalizzata.
L’uomo è comunque un essere creato, per tanto ha nella sua natura un limite invalicabile. Egli non
può creare dal nulla, può soltanto conoscere e agire su quanto è gia stato creato da Dio, inoltre a
volte l’intervento dell’uomo viene ostacolato da contesti ostili, o situazioni difficili; quando avviene
ciò occorre saper “misurare” le proprie forze e accettare di non poter superare quel dato problema o
di non saper affrontare quella certa situazione o ancora di avere sbagliato nel fare o nel dire
qualcosa. Anche l’accettazione è comunque una scelta e l’uomo va educato ad essa.
Ogni persona compie le proprie scelte e prende le proprie decisioni liberamente, sulla base dei
propri valori etici e delle proprie convinzioni personali. In questa prospettiva si pone a fondamento
l’importanza di “saper scegliere”, ossia di saper orientare le proprie scelte al bene personale e
comunitario. La cultura e i suoi valori devono essere fruiti non come strumenti di omologazione,
bensì come mediatori di un impegno comune e responsabile finalizzato a costruire nell’oggi il
futuro dell’uomo (Perucca, 2002, in Cucccurullo, 2002). Educare oggi alla “libertà”, nelle sue
accezioni più autentiche, significa quindi educare la persona ad “essere” persona, integrandosi
nell’ambiente mantenendo la propria specificità, grazie alla quale poter intervenire in esso
apportando un continuo e fruttuoso contributo.
Tenendo presente quanto detto, possiamo asserire che la libertà di iniziativa, la libertà di scelta e la
libertà di accettazione sono gli obiettivi dell’educazione personalizzata in funzione all'autonomia
dell'uomo.

L’apertura
L’uomo tende, per sua natura, a creare relazioni con l’altro; tali relazioni potremmo definirle
spontanee. Ma egli vive all’interno di istituzioni sociali, pertanto è chiamato a vivere relazioni, che
potremmo definire, di “dovere”, e se consideriamo che egli nasce in un contesto già costituito, che
non sceglie, possiamo ricavare che anche i legami, le relazioni parentali sono di fatto imposte. Da
qui la necessità di educare l'uomo a questo tipo di relazioni sociali.
Le relazioni familiari sono una prima tipologia di relazioni sociali; esse sono, inizialmente, imposte
ma in esse prendono vita tutta una serie di relazioni affettive speciali che non si trovano in nessun
altro tipo di comunità; d’altra parte, poiché la famiglia è una comunità data all’uomo quando nasce,
man mano che questi cresce è capace di tendere a una famiglia costituita sulla base di proprie
decisioni. Le relazioni familiari manifestano più di ogni altro tipo di relazione, la necessità di una
libertà di accettazione e, successivamente, di una libertà di scelta.
Esistono altre relazioni sociali, invece, che rispondono pienamente alla spontaneità dell'uomo,
rispetto alle quali egli si mantiene costantemente libero: sono tutte le relazioni la cui finalità è lo
stare insieme: si tratta delle relazioni di amicizia.
Infine, occorre ricordare la necessità, insita nell’uomo, di cercare la risposta ai tanti interrogativi da
sempre irrisolti. In questo caso siamo di fronte alla vocazione umana verso la trascendenza che può
essere soddisfatta solo quando l’uomo stabilisce relazioni con Dio.
Si evince pertanto l’esigenza di preparare l'uomo alle relazioni di collaborazione nella vita sociale,
in ambito lavorativo, familiare, di amicizia e di vita religiosa; obiettivi, questi, che l’educazione
personalizzata mira a promuovere, perseguire, raggiungere.
2. Creatività e personalizzazione
Usualmente con il termine “creatività” si intende la capacità di creare, cioè produrre qualcosa di
nuovo e originale, o di inventare.
L’atto del creare è stato percepito per lunghissimo tempo come attributo esclusivo della divinità,
mentre all’uomo è stato dato l’attributo di inventore e/o innovatore. Soltanto negli anni ’50 la parola
creatività entra a far parte del lessico italiano e viene attribuita all’atto umano.
L’idea di creatività, infatti, nel corso del tempo, ha subito dei cambiamenti, ma soprattutto è stata
affiancata a determinate e specifiche discipline, come la matematica, l’arte, la musica, la letteratura,
la psicologia e, per ognuna, sembra assumere significato diverso e allo stesso tempo complementare
l’uno all’altro.
Il termine “creatività” dà, inoltre, l’idea di “libere espressioni”, cioè di produzioni personali libere
da vincoli o condizionamenti. In realtà non è esatto pensare all’atto creativo come atto libero;
almeno per quanto attiene il concetto di creatività umana.
La creatività nell’espressione dell’uomo mette in gioco aspetti profondi della sua personalità e si
lega fortemente alle pregresse esperienze, per questo motivo, non può essere definita libera
espressione essendo, inevitabilmente, condizionata dalla storia individuale della persona; essa non
nasce dal nulla. Inoltre, poiché l’uomo vive in un contesto sociale che lo determina in un dato modo
ed entra con esso in continuo rapporto, non è neppure possibile attribuire l’aggettivo “libero” ad
un’espressione, quella creativa appunto, che una volta esternata fa anch’essa parte del sistema
sociale di riferimento.
“Creare” significa propriamente produrre qualcosa di nuovo che soddisfi un determinato bisogno.
Solo ciò che risponde efficacemente ad un bisogno ottiene il riconoscimento sociale di prodotto
creativo, innovativo. La creatività, dunque, come ambito dell’agire umano fa riferimento a fattori
individuali e a fattori sociali: al primo si riferiscono le caratteristiche dell’individuo creativo, alle
seconde il riconoscimento da parte di terzi. Non bisogna trascurare però che esiste una componente
culturale che tramanda, all’interno di una determinata cultura, ciò che è “creativo” da ciò che non lo
è. Detto ciò, come possiamo definire la creatività? Dal punto di vista socio – biologico la creatività
è una delle funzioni cognitive che contribuiscono all’adattamento evolutivo: l’uomo, infatti, è un
animale capace di “creare” il proprio mondo, di adattarlo e trasformarlo secondo le proprie
esigenze. L’aspetto individuale della creatività non è l’unico da considerare: la creatività si
manifesta, infatti, non soltanto nella capacità personale di risolvere problemi dati ma attraverso una
serie di capacità proprie dell’uomo, prima fra tutte quella relazionale. La persona creativa deve
sapersi relazionare e affermare se vuole proporre il suo prodotto innovativo, infatti, alcuni studiosi,
a seguito di studi di ricerca su diversi soggetti, hanno rilevato che le persone più creative si
connotavano tutte per socievolezza, perseveranza, indipendenza dal giudizio, autorevolezza,
assertività, leadership e doti comunicative. Ma le qualità in sé non servono a determinare l’essere
creativo, infatti, ciò che attribuisce l’appellativo in realtà è il giudizio della società.
È la comunità che riconosce o meno e valorizza le eccellenze. Diverse società e diverse culture
danno una definizione differente alla creatività e al “fare” creativo. In alcune culture il creativo, la
persona originale, si ritiene eccentrica rispetto alle norme sociali condivise dalla comunità, in altre è
considerato un genio, una persona da valorizzare per la sua eccellenza personale. Lo studio della
creatività va al di là della semplice e superficiale individuazioni dei fattori che ne favoriscono
l’espressione, essa coinvolge molteplici aspetti della vita dell’uomo: aspetti sociali, culturali,
psichici e biogenetici.
La maggioranza degli studiosi (Guilford, 1950; Bruner, 1968; Gardner, 1991;) definisce la
creatività” come la facoltà di “creare” qualche cosa di nuovo, che prima non c’era, attingendo
contemporaneamente a dati reali e al frutto dell’immaginazione, alle attività dell’emisfero sinistro e
a quelle dell’emisfero destro del cervello”. Infatti, come è noto, il cervello dell’uomo è costituito
essenzialmente da due emisferi: il sinistro, sede del pensiero, della logica, del ragionamento
matematico e dell’uso della parola che controlla la parte destra del corpo e l’emisfero destro che,
oltre a controllare la parte sinistra del corpo, elabora l’immaginazione, il linguaggio analogico e il
simbolo.
Oliverio e Oliverio Ferraris (1978) nella loro definizione di cervello creativo, partono da ben note
evidenze empiriche che hanno evidenziato come gli emisferi cerebrali abbiano caratteristiche e
competenze diverse. In particolare, l’emisfero sinistro è più analitico, razionale e logico, usa
simboli e concetti astratti, e soprattutto, è la sede delle aree del linguaggio. L’emisfero destro, ha
una natura non verbale e non razionale; è più sintetico e concreto e si caratterizza per la sua capacità
analogica, cioè per la possibilità di portare ciò che è ignoto nel dominio del noto tramite
associazioni e metafore. Mentre la parte sinistra del cervello sembra percepire gli stimoli in modo
analitico, l’emisfero destro li percepisce nella loro globalità. Nell’emisfero destro quindi è facile
rintracciarvi le caratteristiche della creatività.
Da recenti studi si è notato come nella nostra società tutte le attività dell’emisfero sinistro siano
maggiormente sviluppate e valorizzate nel corso del tempo. La scarsa valorizzazione delle facoltà
non razionali, quindi, potrebbe essere la principale causa della mancanza di creatività, notata da
diverso tempo, ormai, nella nostra cultura. C’è da dire però che la creatività si esercita sviluppando
e potenziando l’interazione tra i due emisferi del cervello, ciò significa che ragione e fantasia
devono lavorare insieme per sfociare in creatività.
Nella scuola non è possibile prediligere un genere di attività, di tipo logico-razionale, da un altro
genere di tipo pratico e fantasioso; si farebbe un enorme torto alla crescente personalità degli alunni
che, già nell’apprendere in modo “personale” danno vita alla propria capacità creativa.
La componente creativa dell’alunno non deve essere pertanto inibita, perché spesso ritenuta
inconsueta, né deve essere indirizzata dall’espressione del docente. Si pensi all’Emilio di J. J.
Rousseau1 (1712-1778): questi è l’esempio di educando che segue pedissequamente il progetto
educativo del suo educatore; ma cosa accadrebbe se l’alunno proponesse un proprio stile elaborando
proprie idee, regole? Nel caso in cui ciò avvenisse, è compito del docente accogliere l’atto
propositivo, oserei dire “creativo”, dell’alunno e, nelle norme di rispetto interpersonale, entrare in
dialogo con lui per cogliere quanto di “personale” vi è nella sua proposta.
Questo atteggiamento, non inibendo la personalità dell’educando, né mortificandola in alcun modo,
offre opportunità di confronto, di apertura, di crescita e di stimolo non indifferenti.
La componente creativa, a scuola, quindi, deve essere utilizzata per fare emergere gli stili cognitivi
degli alunni e favorire le procedure di didattica differenziata, consentendo all’insegnante di
conoscere davvero il proprio alunno e allo studente di avere valorizzate le proprie capacità.
La possibilità di “essere”, per mezzo dell’espressione creativa, favorisce negli alunni la motivazione
allo studio e la partecipazione di tutti.

1
Jean Jacques Rousseau, uno dei padri della pedagogia moderna, nel romanzo “Emilio”, ha narrato il percorso
educativo di un giovane educando, descrivendo i processi propri dell’educazione alla libertà.
2.1 Creatività e intelligenza
La creatività è considerata, in ambito psicologico, come la capacità o l’insieme di capacità che
favorisce l’adattamento; più generalmente ad essa viene riferito quell’insieme di capacità mentali
indicate semplicemente con il termine “intelligenza”; fa riferimento a questo concetto la capacità di
risolvere i problemi e trovare soluzioni (problem solving).
Le capacità creative, infatti, contribuiscono alla risoluzione dei problemi e, solitamente, le persone
più dotate di questa capacità, sono ritenute “creative” e, comunque, notevolmente dotate sul piano
dell’intelligenza. Il “creativo”, più che colui che risolve i problemi dovrebbe essere colui che ne
scopre dei nuovi e si attiva per trovarne la soluzione. Chiunque, infatti, memore di un’esperienza
personale o generalizzando le informazioni acquisite, può trovare la risoluzione a determinati
problemi. In questo caso, la persona è sicuramente dotata di intelligenza, ma la si può definire
“creativa”?
Il soggetto intelligente, per la risoluzione dei problemi, fa riferimento a quelle regole conosciute e,
per quanto complesso possa essere applicarle alla realtà, trova il modo di farlo.
Il creativo, invece, piuttosto che applicare quanto già scoperto da altri, dovrebbe essere capace di
riformulare il problema da risolvere, secondo il proprio punto di vista, quindi fornire nuove
soluzioni, cioè delle risposte innovative e utili.
Secondo Guilford (1950) la creatività non è una funzione unitaria o uniforme ma si compone di
molteplici fattori o capacità mentali primarie. In particolare, essa risiede nel “pensiero divergente”
le cui caratteristiche principali sono la flessibilità, l’originalità, la fluidità o la capacità di produrre
rapidamente una successione di idee che soddisfa determinate richieste. La flessibilità è intesa come
la capacità di abbandonare i vecchi modi di pensiero e avviarsi lungo nuove direzioni. L’originalità
è la capacità di produrre risposte non comuni o associazioni non convenzionali. La fluidità del
pensiero, a sua volta, si divide in quattro sotto componenti quali: la fluidità verbale o capacità di
produrre delle parole; la fluidità associativa o capacità di produrre il maggior numero di sinonimi,
fluidità espressiva o capacità di combinare parole per soddisfare le esigenze della struttura della
frase e la fluidità ideativi, ovvero al capacità di problem solving.
Nella prospettiva psicoanalitica proposta da Freud (1985), successivamente sviluppata da altri
studiosi, la creatività è interpretata come la capacità di far ricorso a contenuti inconsci o preconsci
particolarmente vivaci e produttivi. Wallas (1926) ha scomposto il pensiero creativo in quattro stadi
che passano per le fasi di preparazione, incubazione, illuminazione e verifica. La fase di
preparazione vede il soggetto creativo impegnato nelle operazioni preliminari volte alla raccolta,
alla ricerca delle idee creative. La seguente fase di incubazione fa riferimento a quell’arco
temporale nel quale l’idea creativa si sedimenta all’interno della mente del soggetto e il materiale
raccolto subisce un processo inconscio di elaborazione. L’illuminazione fa riferimento alla
soluzione del problema da parte del soggetto creativo e, in fine la verifica che è il riscontro dell’idea
sul piano della realtà.
Wertheimer (1880-1943), nell’ambito della psicologia della Gestalt, fa coincidere la creatività con il
pensiero produttivo o insight (o illuminazione). Per tale studioso il processo creativo consiste,
infatti, nel passaggio da una situazione strutturalmente instabile o insoddisfacente ad una situazione
che offre una soluzione o, in altri termini, ad una Gestalt migliore.
Bruner (1968) partendo dalla definizione di atto creativo, contraddistinto dalla presenza di una
sorpresa produttiva, afferma che il segno distintivo di un’azione creativa è che essa genera una
sorpresa produttiva. Il concetto di sorpresa produttiva si riferisce ad un atto inatteso che colpisce
l’osservatore, provocando in lui stupore o meraviglia.
Lo sviluppo delle neuroscienze e delle discipline cognitive ha messo in relazione il concetto di
creatività con il “tipo” di intelligenza posseduta dai soggetti; questi studi, infatti, abbracciano il
modello di intelligenza dal carattere multi-dimensionale2, che valorizza le singole abilità possedute
dall’uomo e che, insieme, determinano l’intelligenza della persona. L’uomo, infatti, non possiede
un solo tipo di intelligenza ed è privo degli atri tipi e non è la diversa tipologia di intelligenza a
distinguerlo da altri uomini.
Nel corso del tempo, numerosi studi, effettuati al riguardo, hanno riconosciuto che l’intelligenza
non è altro che un insieme di abilità che dipendono dal funzionamento del cervello; essa, cioè
dipende da come il cervello umano mette in relazione le capacità percettive, mestiche e di
comparazione degli stimoli. Tutto ciò, inoltre, è governato dal patrimonio genetico che, chiaramente
si diversifica da persona a persona. Nonostante il carattere di ereditarietà appare condiviso da più
gruppi di ricerca che uno dei fattori che maggiormente determina lo sviluppo dell’intelligenza è
l’esercizio delle abilità che la costituiscono: la memoria si può esercitare e così pure la capacità di
percepire e di mettere a confronto più stimoli. Per molti studiosi, quindi, la creatività non è
semplicemente espressione di intelligenze, piuttosto è parte integrale delle capacità e delle abilità
che la determinano.
Altri autori, invece, sono propensi a considerare una rilevante autonomia delle capacità creative
rispetto a quelle dell’intelligenza. Barron (1958), uno dei maggiori esponenti nel campo della
ricerca sulla creatività, sostiene che l’intelligenza sia sostanzialmente un costrutto i cui confini sono
dati dagli strumenti di misurazione, utilizzati durante ricerche empiriche. Secondo l’autore, se
l’intelligenza è misurata come l’insieme delle capacità che consentono al soggetto di dare risposte
corrette a quesiti di natura verbale o logico-matematica, la creatività non può, in alcun modo, essere
accomunata ad essa. Fornire risposte corrette facendo riferimento a informazioni già possedute non
è sufficiente per definire quel determinato soggetto, un creativo.
Sulla base del suo approccio empirico, Barron ha esaminato gli studi effettuati che hanno indagato
sulla relazione tra creatività e intelligenza e ha notato che dagli studi condotti emergeva
costantemente un dato: le persone giudicate particolarmente creative in campo artistico, scientifico,
letterario, ecc., avevano punteggi elevati ai test di intelligenza generale; però comparando tali
misurazioni di intelligenza con gli indici di creatività, basati sul giudizio di terzi, la proporzione non
reggeva più: creatività e intelligenza si dimostravano scarsamente correlate tra loro.
Da questa ricerca Barron generalizzò una sua ipotesi, secondo la quale essere creativi implica un
fare innovativo, un produrre qualcosa di nuovo e utile, o comunque che sia corrispondente a bisogni
reali e condivisi dalla comunità, tale da poter essere giudicato originale, innovativo e funzionale.
Un problema che ancor oggi la ricerca sulla creatività deve affrontare riguarda la mancanza di test
adeguati per la misurazione delle abilità creative; molti test, costruiti in forma di risposta aperta o a
scelta multipla, utilizzati su diversi soggetti e in diverse occasioni, hanno dimostrato una scarsa
specificità. Il criterio era, infatti, quello di rilevare le risposte inusuali, rispetto alla media delle
risposte offerte, ma questo non ha consentito di rintracciare la personalità creativa; anche soggetti
chiaramente disturbati, infatti, fornivano risposte inusuali, da essere giudicate creative, pur non
essendolo.
2
Il modello di intelligenza a cui ci si riferisce è quello descrittivo sviluppato dal ricercatore Howard Gardner. Lo
psicologo (1985) ha proposto una teoria, definita “teoria delle intelligenze multiple”, secondo la quale esistono 7 tipi di
abilità (linguistica, logico-matematica, spaziale, musicale, corporeo – cinestesica, interpersonale, intrapersonale),
ciascuna delle quali è identificata, dallo studioso, come un tipo distinto di intelligenza che implica l’attività di
meccanismi cerebrali complessi. Successivamente Gardner ha individuato un’ottava intelligenza, quella naturalistica e
ha ipotizzato la presenza di una nona intelligenza, ossia quella esistenziale.
A differenza della misurazione dell’intelligenza, caratterizzata dall’elemento di predittività delle
risposte, quella della creatività è una misurazione ben più difficile da svolgere: non si sa ancora,
infatti, se i test finora utilizzati siano in grado di prevedere la riuscita reale del soggetto in campo
creativo. La scarsa predittività dell’intelligenza ai fini del successo creativo sembra confermare la
tesi di Barron e altri ricercatori sulla scarsa correlazione tra intelligenza e creatività. Essere
intelligenti è probabilmente un prerequisito per l’espressione della creatività ma essere creativi
comporta il possesso di qualità distinte da quelle che determinano l’intelligenza.
Alcuni studiosi, tra i quali Arieti (1976), hanno sostenuto che, in certi casi, l’intelligenza possa
costituire un freno all’espressione della creatività. Il ricercatore, analizzando la relazione tra
creatività e malattie mentali, ha notato che soggetti in cui erano presenti forme di inibizione, di
rigidezza ed eccessiva autocritica possedevano un quoziente intellettivo molto elevato.
Intelligenza e creatività appaiono quindi dei costrutti distinti sebbene interrelati. Molti ricercatori
concordano nel ritenere possibile che le capacità cognitive atte all’espressione dell’intelligenza
contribuiscono sicuramente anche alla riuscita in ambito creativo ma una elevata intelligenza non è
sufficiente a garantire il successo in campo creativo.
Vygotskij (1973) assimila la creatività all’attività creativa o combinatrice del pensiero umano.
Quest’ultima, riferendosi alla creazione di immagini, o azioni nuove, si differenzia dall’attività
riproduttrice del pensiero che si limita solo a riprodurre o ripetere comportamenti acquisiti in
precedenza dall’individuo. L’attività creativa o combinatrice del pensiero origina dalla capacità
combinatoria del cervello che non si limita solo a conservare e riprodurre l’esperienza antecedente
del soggetto, ma anche a rielaborare creativamente e combinare tra loro i diversi elementi
dell’esperienza, generando situazioni e comportamenti nuovi.
Di certo la creatività riveste un ruolo centrale tanto nella ricerca di soluzioni originali ed innovative
(problem solving) quanto nell’analisi, e relativa ottimizzazione di situazioni e processi complessi
(problem making). Più che una dote del carattere essa rappresenta una forma mentis dell’individuo,
un modo di rapportarsi alla realtà, di concepire e vivere la vita. Tale habitus mentale, attraverso
un’opportuna formazione, può essere appreso ed incrementato da ogni persona.

2.2 Creatività tra realtà e fantasia


I processi che stanno alla base dell’immaginazione sono stati messi in luce da Vygotskij (1973) che
li spiega descrivendo un ciclo che passa attraverso specifici passaggi.
Inizialmente gli elementi della realtà che hanno innescato l’immaginazione, sono sottoposti ad un
iniziale processo di dissociazione. Tale meccanismo consiste nel fatto che gli elementi della realtà
sono suddivisi nelle loro singolari parti: alcune di queste acquistano un particolare risalto, mentre
altre cadono completamente nell’oblio.
Il processo di dissociazione è fondamentale per la fantasia perché contribuisce a spezzare il legame
naturale esistente tra gli elementi della realtà; esso rappresenta, quindi, il presupposto per la
creazione di nuovi legami. In seguito, gli elementi della realtà sono sottoposti ad un processo di
alterazione e mutamento che è fondato sulla alterazione e rielaborazione degli elementi che
compongono la realtà. Infine, gli elementi della realtà sono sottoposti ad un processo di
associazione basato sulla riunione degli elementi in precedenza dissociati e trasfigurati. Esso,
quindi, rappresenta il momento conclusivo dell’immaginazione poiché combina tra loro immagini
isolate costruendo un vero e proprio quadro di insieme.
Osservando il comportamento dell’uomo è possibile individuare, nella complessità della sua
attività, due aspetti differenti: alcune azioni sono orientate alla riproduzione di comportamenti già
conosciuti o elaborati da altri, altre azioni hanno delle caratteristiche più singolari.
Nel primo caso si tratta di attività che si possono definire “riproduttrici” e sono strettamente legate
alla memoria. In esse non si crea nulla di nuovo; l’azione si riduce a una, più o meno esatta,
ripetizione di ciò che già esiste.
Nel secondo caso si mette in atto un’attività combinatrice o “creativa”. Ciò avviene, ad esempio,
quando si immagina il futuro; in tal caso, infatti, non avviene un recupero di informazioni bensì si
dà sfogo alla fantasia. In attività di questo tipo l’elemento fondante è proprio il creare immagini o
azioni nuove.
A questa attività creativa, che si fonda sulla facoltà combinatoria del cervello umano, la psicologia
ha dato il nome di “fantasia” o “immaginazione”; con questi termini si intende comunemente tutto
ciò che è irreale, fuori dalla realtà delle cose. In verità, riporta Vygotskij (1972, p.6)
«l’immaginazione, in quanto fondamento di ogni attività creativa, si manifesta in tutti – senza
eccezione – gli aspetti della vita culturale, rendendo possibile la creatività artistica, scientifica e
tecnica».
Solitamente si ritiene che la creatività sia una peculiarità di pochi individui, perlopiù di chi ha
prodotto delle grandi opere d’arte o ha realizzato grandi scoperte scientifiche, e così via, ma non è
scientificamente corretto affermare ciò. «La creatività sussiste di fatto non solo dove realizza
insigni, storiche creazioni, ma dovunque c’è un uomo che immagina, combina, modifica e realizza
qualcosa di nuovo, anche se questo qualcosa di nuovo possa apparire un granello minuscolo in
confronto alle creazioni dei geni. […] La creatività è una condizione indispensabile dell’esistenza, e
tutto ciò che travalica i limiti della routine, tutto ciò che ha in sé foss’anche uno iota di nuovo, deve
la sua origine al processo della creatività umana» (Vygotskij, 1973, p.22).
Esiste un forte legame tra immaginazione e realtà: ogni creazione immaginaria è composta da
elementi colti dalla realtà di cui l’individuo ha già avuto modo di far esperienza. L’immaginazione,
quindi, utilizza sempre materiale esistente nella realtà e, anche se essa può raggiungere, nel suo
processo combinatorio, sempre più nuovi livelli, gli elementi di partenza sono sempre quelli primari
della realtà. «L’attività creatrice dell’immaginazione è in diretta dipendenza dalla ricchezza e
varietà della precedente esperienza dell’individuo, per il fatto che questa esperienza è quella che
fornisce il materiale di cui si compongono le costruzioni della fantasia. Quanto più ricca sarà
l’esperienza dell’individuo, tanto più abbondante sarà il materiale di cui la sua immaginazione potrà
disporre» (Vygotskij, 1973, pp.29-30).
Da quanto espresso finora, l’immaginazione appare, quindi, il fondamento di ogni attività umana,
sia essa di natura artistica, scientifica e tecnica. Ogni prodotto della fantasia (quadro, storia, fiaba) è
composto da elementi della realtà, trasfigurati e rielaborati. Di conseguenza, l’immaginazione
diviene un mezzo di dilatazione dell’esperienza del soggetto che grazie ad essa ha la possibilità di
immaginare anche ciò che non ha mai visto. I prodotti finali della fantasia, una volta creati,
cominciano, infatti, a sussistere come oggetti reali. La fantasia e la razionalità sono due competenze
che vivono un rapporto di complementarietà. Entrambe le funzioni (razionalità e fantasia)
cominciano a comparire nel corso del secondo anno di vita del bambino. In età prescolare i bambini
incominciano a sviluppare la competenza rappresentativa, che consente loro di immaginare oggetti
e situazioni assenti alla sua vista e di giocare simbolicamente con gli oggetti stessi.
Secondo la prospettiva dell’autore esistono fattori interni ed esterni alla persona che condizionano e
favoriscono lo sviluppo dell’immaginazione: il primo fattore psichico alla base dell’immaginazione
è il bisogno, inteso come la necessità avvertita dal soggetto di realizzare impulsivamente qualcosa.
Parimenti, perché emerga l’immaginazione è necessaria la spontanea insorgenza nella mente del
soggetto degli elementi che costituiscono il fondamento della sua stessa creazione. Accanto a tali
fattori interni, un grande peso perché si manifesti la creatività in un soggetto, è esercitato
dall’ambiente. Solo, infatti, se ci sono le adeguate condizioni ambientali, l’immaginazione
soggettiva può emergere.
Dal punto di vista pedagogico, se si vuole formare una persona capace di svolgere una buona
attività creativa, quanto detto evidenzia l’importanza di estendere sempre più le esperienze del
bambino. Infatti, quanto più il bambino avrà visto, udito, toccato, conosciuto, sperimentato e
assimilato, quanto più sarà la sua capacità di mettere in relazione gli elementi della realtà e dare loro
significato, tanto più significativa e produttiva sarà la sua attività immaginativa.
Il legame tra fantasia e realtà è più complesso rispetto a quanto detto finora. Abbiamo detto che la
fantasia si appoggia alla memoria per creare sempre nuove combinazioni fantastiche, ma avviene
anche che gli elementi della combinazione fantastica non siano elementi della realtà piuttosto è il
prodotto già pronto della fantasia che si lega ad un qualche complesso fenomeno della realtà.
Vygotskij (1973) cita l’esempio di chi si compone un quadro di un avvenimento storico appreso.
Non si conoscono gli elementi reali e il quadro, dice l’autore, appare il risultato dell’attività creativa
dell’immaginazione. Esso non riproduce, infatti, cose recepite precedentemente, ma crea
dall’esperienza stessa delle combinazioni nuove.
Esiste ancora un altro legame tra attività immaginativa e realtà ed è quello “emozionale”. Questo è
un legame, dice Vygotskij (1973) di cui si possono distinguere due aspetti: da un lato «ogni
sentimento ed ogni emozione tendono a prender corpo in determinate immagini ad essi
corrispondenti. L’emozione, quindi, è dotata in parte di una capacità di selezionare certe
impressioni, pensieri e immagini, affini allo stato d’animo che ci domina in quel dato momento»
(Vygotskij, 1973, p.33), dall’altro le immagini della fantasia forniscono un linguaggio interiore al
nostro sentimento. «Quest’ultimo seleziona elementi isolati della realtà e li combina insieme in un
legame, che viene condizionato interiormente dal nostro stato d’animo, anziché dall’esterno e dalla
logica delle immagini in se stesse» (Vygotskij, 1973, p.34).
Questa influenza che il fattore emozionale ha sull’attività combinatrice della fantasia è detta: legge
del segno emozionale comune. C’è, infine, un altro tipo di legame tra fantasia e creatività, il cui
fenomeno viene definito legge della realtà dell’immaginazione; ciò avviene quando
l’immaginazione influisce sui sentimenti. Il sentimento, infatti, non meno del pensiero, stimola la
creatività dell’uomo, anzi, dice Vygotskij (1973, p.38), «ogni sentimento (o emozione) dominante,
ha bisogno di concentrarsi in un’idea o in un’immagine che gli dia corpo, che lo sistemi, senza di
che rimarrebbe allo stato fluido…».
Gli studi della psicologia dello sviluppo e della pedagogia hanno approfondito, negli anni, il tema
della creatività infantile e del suo sviluppo. Sin dalla prima infanzia, infatti, si riscontra che i
bambini hanno una fervida immaginazione e attivano processi creativi soprattutto attraverso il gioco
e il disegno. In realtà, afferma Vygotskij (1973), non è il gioco o il disegno ad esprimere creatività
quanto piuttosto la rielaborazione combinatrice di esperienze personali che consentono al bambino
di costruire una nuova realtà, cui dare vita attraverso il gioco o il disegno.
È interessante considerare, a tal proposito, come l’attività immaginativa lavori in modo peculiare e
singolare non solo a livello soggettivo ma anche in relazione all’età della persona. Abbiamo più
volte detto che l’immaginazione dipende dall’esperienza; nel caso del bambino piccolo, va da sé
che l’esperienza si organizza in modo graduale ma la sua immaginazione,rispetto quella dell’adulto
ha una maggiore originalità.
Molti studiosi ritengono che nel bambino l’immaginazione sia più ricca che nell’adulto e che
l’infanzia sia il periodo della vita in cui la fantasia dell’uomo avrebbe il suo massimo sviluppo; ma
ciò non si accorda con quanto mettono in evidenza altre tipologie di studi sull’immaginazione
infantile. Vygotskij (1973) evidenzia come l’esperienza dei bambini sia, invece, molto più povera
rispetto a quella degli adulti e come gli interessi dei primi siano, senza alcun dubbio, più semplici
ed elementari. Egli sostiene che «il bambino è in grado d’immaginare assai meno dell’adulto, ma
crede di più ai prodotti della sua immaginazione, e ne ha minor controllo: cosicché, se si intende
l’immaginazione nel senso improprio della parola, cioè come qualcosa d’irreale, d’inventato,
indubbiamente egli ne possiede di più che l’adulto. Tuttavia, non solo il materiale indispensabile
all’immaginazione per le sue costruzioni è più povero nel bambino che nell’adulto, ma anche il
carattere delle combinazioni che a tale materiale si applicano, e la loro qualità, e la loro varietà,
sono molto inferiori alle combinazioni dell’adulto» (Vygotskij, 1973, p.54). A conferma di ciò
avviene naturalmente e spontaneamente nella crescita di ogni uomo una sorta di decadimento della
fantasia infantile quando il ragazzo abbandona le manifestazioni immaginative del gioco e del
disegno, tipiche dell’infanzia, e guarda a se stesso e al mondo con occhio più critico.

2.3 Creatività ed espressione


Il mondo odierno, nelle sue innumerevoli e a volte contraddittorie caratteristiche e manifestazioni,
sia di tipo sociali che naturali, offre un ricco contenuto che agevola e incrementa fortemente
l’apprendimento nell’età infantile.
Anche nella scuola, infatti, si attua, da tempo ormai, un nuovo modo di impostare l'insegnamento;
ciò che viene particolarmente curato è l’approccio alla persona. In esso un posto di riguardo spetta
alla capacità espressiva, nel senso di manifestazione esterna di ciò che si è e di ciò che si sa. A tal
riguardo appare essenziale curare tutti gli aspetti dell’espressione personale, verbale e non. Il
contenuto culturale dell'educazione si enuncia nella espressione verbale, in quella numerica, in
quella plastica e dinamica della realtà naturale. Come è facilmente deducibile da quanto detto è che
l’espressione costituisce l’essenza di ogni attività educativa. Nessuna realtà può essere compresa,
infatti, se non la si esprime in qualche modo.
Volendo utilizzare un’espressione di García Hoz (2005), l’espressione ha soprattutto un valore
transitivo: uno si esprime e un altro raccoglie il significato dell’espressione. Pertanto con questo
temine si include sia l’attività di colui che “esprime”, ossia manifesta qualcosa, sia quella di colui
che riceve tale manifestazione.
Ciò che differenzia l’espressione umana, inoltre, da qualunque altra forma espressiva, è che può
essere considerata una fase dell’attività psichica dell’uomo, quando include il processo di
riflessione.
Al sostantivo espressione seguono, come evidenzia, García Hoz (2005,) quattro aggettivi, i quali
vengono assunti per definire le possibili forme di espressione e danno origine ad altrettanti tipi di
attività espressiva; essi sono: l’attività linguistica in funzione dell'espressione verbale; l’attività
matematica in funzione dell'espressione numerica; l’attività tecnica e artistica in funzione
dell’espressione plastica; l’attività musicale, drammatica e, in generale, ritmica in funzione
dell’espressione dinamica.
Le attività citate costituiscono praticamente lo schema formale e tecnico-operativo del lavoro
scolastico, infatti, agli aggettivi menzionati vengono incluse le tradizionali materie d’insegnamento
che, più che essere concepite come “materie” oggi sono intese quali “nuclei di esperienza”, intorno
ai quali si progettano tutti i mezzi di espressione.
Da ciò si evince il nesso rapporto tra espressione e apprendimento: infatti il valore educativo
dell'espressione sta proprio sul fatto che esso è il culmine di un complesso processo intellettuale che
sfocia in una conoscenza o in una abilità e che, essendo personale, quindi unico e originale,
caratterizza e condiziona l’espressione.
L’espressione sintetizza il processo di apprendimento in quanto è la manifestazione esterna di ciò
che il soggetto ha appreso, e pertanto soltanto essa può rivelare l’andamento del processo educativo.
Si potrebbe dire, in altri termini, che l’espressione sia il risultato finale di un lavoro ed
effettivamente un qualsiasi lavoro efficace si manifesta in una espressione corretta e sufficiente; ma,
è anche vero che una espressione accettabile ha bisogno prima di un lavoro efficace. Infatti, sebbene
l’espressione sintetizzi il lavoro, non è necessario la completa realizzazione di un’attività per
definirla; anche le realizzazioni parziali del lavoro sono di fatto testimonianza dello stesso. Dunque
è possibile parlare di “successioni di espressioni” che si realizzano compiutamente nell’espressione
totale; a parimenti la successione di certe attività sfocia nel risultato del lavoro.
Quanto detto finora non deve limitarci alla considerazione dell’espressione, intesa come lavoro
materiale; essa riflette anche e, soprattutto, ciò che potremmo definire “lavoro intellettuale”.
Espressione e lavoro intellettuale costituiscono proprio il nucleo della formazione culturale
dell’uomo di oggi, ossia di quel tipo di uomo che sa utilizzare, trasformare, personalizzare tutte le
possibilità che gli si offrono, obiettivo, anch’esso, fondamentale dell’educazione personalizzata.
L’atto espressivo, riconducibile alla singolarità ed originalità personale, è per sua natura un atto
“creativo”, in quanto la persona, con i suoi tratti di originalità e di irripetibilità, di unicità e di
diversità esige di essere considerata il centro e l’elemento principale di ogni progettazione didattica
e di ogni intervento educativo. Ciò perché educare la persona significa consentirle di “coltivare”
tutto il proprio potenziale, in termini di: umanità, affettività, sensibilità, percezione, espressione,
socialità, intelligenza, ossia tutte le funzioni che interagiscono nella personalità individuale, in
modo che il potere di ognuna di esse onori il potere delle altre, per consentire una piena costruzione
e una integrale manifestazione dell’io individuale (Macchietti, 1996). Come la stessa autrice riporta,
in un altro contributo, il processo educativo deve mirare a coltivare l’umanità di ciascun uomo per
consentirgli di divenire ed essere capace di definire e di attuare il proprio e personale progetto di
vita (Macchietti, 1996).
La persona, pertanto, deve essere messa nelle condizioni di sviluppare la sua inclinazione
fondamentale, le sue attitudini, le ricchezze di cui è depositaria per metterle a servizio di sé e degli
altri ma per poterlo fare deve sviluppare una personale capacità di esternare quanto possiede.
A tal fine, nella scuola, attraverso l’acquisizione di conoscenze disciplinari e l’esercizio di abilità, si
vuole sviluppare e consolidare tutti quegli aspetti fondamentali della personalità e del carattere di
ogni alunno che riguardano il piano cognitivo, quello affettivo, sociale, morale e religioso.
La scuola ha anche il compito di orientare gli studenti verso scelte di vita sane e fruttuose per sé e
per il sociale e quindi a vivere attivamente. Per raggiungere tale fine, si è dell’avviso che non può
più bastare l’accumulo di saperi, ma occorre sviluppare in ciascun alunno un’attitudine generale nel
porre e trattare i problemi e nell’utilizzare i saperi già conosciuti e le esperienze vissute, per la
soluzione di situazioni problematiche in atto.
L’incontro che ogni bambino ha con i sistemi simbolico-culturali, sin dalla scuola dell’infanzia, gli
consente di dare “forma” e “struttura” ai suoi modi di conoscere, poiché offre oggetti, parole, idee,
immagini alla sua disponibilità ad apprendere. La scuola ha il compito di organizzare questi
incontri, creando un ambiente favorevole e predisponendo un vasto campo di esperienze che
possano contribuire allo sviluppo di ogni bambino. Questi diversi contesti di incontro e di crescita
culturale servono, così come recenti studi di psicologia affermano, a produrre nei bambini diversi
interessi e differenti stili di pensiero, quindi diverse intelligenze.
Volendo fare una sintesi possiamo dire che l’espressione, intesa quale competenza della persona, è
tale quando si fonda su tre prerequisiti fondamentali: la percezione che la persona ha di sé,
l’esperienza che fa di sé e l’ideale di sé cui tende. Questi tre elementi concorrono alla costruzione
dell’identità personale che si manifesta attraverso la scelta di valori esistenziali, la scelta degli
obiettivi che ci si prefigge di raggiungere, la scelta di un progetto di vita cui tendere.
Intendendo quindi competente la persona che “esprime” se stessa, nell’accezione di cui sopra, non
possiamo intendere l’acquisizione della competenza espressiva il semplice risultato del connubio
“saperi-abilità”; essa va ben oltre e si pone ad un livello massimo di “competenza personale”,
manifestando, tra l’altro anche l’aspetto metacognitivo dell’esperienza personale, in quanto forma
esterna del processo di costruzione e decostruzione della conoscenza finalizzato alla risoluzione di
un determinato problema o bisogno interno o esterno alla persona.

3. La competenza espressiva
Nello scenario educativo odierno appare sempre con maggiore convinzione, la necessità di far
convergere tutte le energie e le risorse umane e materiali verso un obiettivo di fondo corrispondente
alla promozione e allo sviluppo delle potenzialità del soggetto che apprende, affinché questi acquisti
un’autonoma capacità di affrontare le diverse esperienze, imparando a riconoscere e ad utilizzare gli
strumenti necessari per meglio vivere tali esperienze.
Guardare alle potenzialità della persona non significa soltanto educare alla conoscenza di sé e allo
sviluppo di competenze di ruolo, che permettono di assolvere a compiti sociali, ma soprattutto
educare alla capacità di investire su di sé, di progettare la propria vita e per questo occorre
consentire lo sviluppo di competenze umane che consentono di poter vivere la propria vita in modo
dignitoso e umanamente realizzato (Nanni, 2003).
La logica per competenze richiede un cambiamento di prospettiva: la scuola non più intesa nella sua
tradizionale forma di contenitore del sapere “ricettivo – riproduttivo”, bensì come ambiente in cui il
sapere si organizza di continuo in termini di produttività attraverso i contenuti disciplinari che, in
forma aggregata, offrono nuove chiavi di lettura del reale. Per Frabboni (1999), l’affermazione di
una didattica delle competenze richiede la ricerca di un rapporto fecondo tra le diverse discipline, in
modo tale che al centro della didattica ci sia l’acquisizione di competenze di diverso livello che
man, mano si integrano tra loro organizzando un sapere che va oltre il disciplinare.
Nelle Indicazioni Nazionali (2004), si parla di Unità di Apprendimento come occasioni di sviluppo,
di maturazione e di trasformazione delle capacità della persona in competenze, attraverso
l’acquisizione di conoscenze e di abilità. Esse, infatti, non hanno una funzione informativa di
contenuti e nozioni, ma una funzione formativa perché sono progettate come occasioni per lo
sviluppo globale della persona dell’alunno: si strutturano quali percorsi atti a sviluppare, in maniera
armonica e integrale, le capacità intellettuali, motorie, linguistiche, espressive, estetiche, affettive,
sociali, morali e religiose di ciascuno, affinché possa conoscersi e possa utilizzare strategie
personali per comprendere la realtà, capirla e trasformarla. Ogni alunno quindi deve essere messo
nelle condizioni di vivere esperienze significative per la costruzione di tutte le dimensioni della
propria personalità e di sentirsi protagonista di un fare che sollecita sempre il sapere. Anche se nelle
Ultime Indicazioni per il curricolo (2007) non si parla nello specifico di Unità di Apprendimento,
permane l’orientamento di progettazione di un “percorso di apprendimento” il cui traguardo resta
l’acquisizione di competenze da parte degli alunni. Per quanto concerne il concetto di competenza,
inoltre, prima di entrare nello specifico della didattica, sembra importante evidenziare la nascita del
concetto stesso al fine di coglierne l’importanza in ambito educativo-didattico.
L’affermazione del concetto di competenza in ambito educativo sembra, infatti, derivare da
significati diversi che tale termine ha definito in diversi ambiti linguistici, psicologici e sociali. «La
nozione di competenza in ambito linguistico e psicologico rinvia alla distinzione fra le strutture e le
operazioni mentali che spiegano l’azione individuale e i comportamenti osservabili che ne
derivano» (Maccario, 2006, p.35).
In ambito linguistico, il concetto di competenza acquista una certa rilevanza grazie a Chomsky
(1970), che conferisce significato distinto alla nozione di performance e di competenza. Secondo il
linguista la competenza è costituita da tutto ciò che un determinato soggetto è in grado, seppure
idealmente, di realizzare grazie al proprio materiale biologico; al contrario la performance è data
dal comportamento osservabile, quindi è riflesso della prima.3 Secondo l’interpretazione data da
Chomsky (1970) il concetto di competenza si lega fortemente al concetto di intelligenza che, a sua
volte, richiama in causa le componenti biologiche. Alcuni studiosi hanno sviluppato una nozione di
competenza che richiama funzioni psicologiche come la memoria, la percezione, l’attenzione, che
sono disposizioni di per sé innate ma che si sviluppano e potenziano mediante stimoli esterni
relativi al contesto ambientale e culturale di riferimento. Da tali contributi, nell’ambito della
psicologia dello sviluppo cognitivo, si è giunti a ritenere che tra competenza e performence esista
una distinzione netta secondo la quale la prima avrebbe un carattere innato preesistente, mentre la
seconda sarebbe piuttosto l’attualizzazione della competenza in una determinata situazione.
In ambito scolastico, la distinzione tra competenza e performance, posta da linguisti e psicologi,
tende ad essere superata. La risposta dell’allievo è di fatto legata non soltanto al proprio potenziale
ma anche alle caratteristiche del gruppo classe, degli insegnanti e del contesto scolastico. Riferisce
Maccario (2006, p.37): «per sua stessa natura, la situazione educativa rende difficile l’utilizzo, in
campo educativo, del tandem competenza /performance così come è definito dai linguisti e dagli
psicologi. Per esempio, nel momento in cui un futuro insegnante svolge un’attività di stage in una
classe, il suo modo effettivo di gestire la classe (la sua performance) dipende tanto dalle relazioni
che vi si sviluppano con gli allievi (una delle caratteristiche della situazione educativa) che dalla
preparazione della sua attività, registrata a priori su una scheda. […] Come potrà essere analizzata
tale attività se non prendendo in considerazione incessantemente l’insieme delle variabili che
l’hanno determinata? Esse dipendono tanto dalla situazione educativa che dalle competenze dello
studente e dalla sua performance».

3
Noam Chomsky formula il concetto di competenza linguistica per contrastare l’approccio comportamentista che
spiegava lo sviluppo del linguaggio sulla base di meccanismi “stimolo-risposta”, quindi a condizionamenti esterni alla
persona parlante. L’autore fece notare come, partendo da tale assunto, fosse impossibile dare una spiegazione alla
rapidità con cui un bambino acquisisce le principali strutture linguistiche. Al fine di dare una spiegazione a ciò, egli
ipotizza l’esistenza di una sorta di predisposizione innata, comune a tutti gli uomini che definisce “organo mentale” che
conferisce a ciascun soggetto una disposizione ideale e intrinseca alla produzione e alla comprensione del linguaggio. In
tal senso la competenza risulta essere interna alla persona. Le performance linguistiche, invece, essendo manifestazioni
concrete della competenza possono anche allontanarsi dalla competenza ideale inscritta nelle potenzialità del soggetto,
in quanto sono soggette e condizionate da fattori di ordine organico, comportamentale o socio-contestuale.
La progettazione didattica che mira all’acquisizione da parte del soggetto delle competenze umane,
oltre che di ruolo, deve necessariamente considerare tutti questi aspetti della relazione educativa ed
utilizzare l’esperienza e il sapere stesso non come punto di arrivo, bensì come “strumento per…”.
Infatti, come riportano le ultime Indicazioni per il curricolo (2007), le conoscenze e le abilità, che
pian, piano l’alunno acquisisce, devono essere generalizzate, quindi applicate in campi sempre più
vasti, affinché la rete dei collegamenti tra le conoscenze, le abilità e il mondo possa estendersi e
quindi l’azione educativa possa dare il suo frutto nella scuola e anche nella vita.
Le capacità di ogni essere umano, il potenziale innato di cui si diceva, sono le risorse di cui egli
dispone (capacità di comunicare, di esprimersi, di simbolizzare, di ragionare, di volere, ecc.) e
rappresentano una potenzialità, una propensione della persona a fare, a pensare, ad agire in un
determinato modo, in modo “creativo”, cioè diverso da quello di altre persone.
La funzione specifica dell’educazione è quella di consentire a ogni persona di sviluppare, esercitare,
consolidare le proprie potenzialità maturandole in competenze.
I contenuti, quindi altro non sono che il supporto per il raggiungimento di una competenza, mentre
le conoscenze e le abilità risultano essere veri e propri strumenti della persona che, se li assimila e li
personalizza, può utilizzarli per tutta la sua vita.
«Le competenze si manifestano nelle prestazioni di chi, in un dato contesto, utilizza le conoscenze e
le abilità acquisite, sfrutta opportunamente le risorse e i mezzi presenti, si assume liberamente la
responsabilità di modificare una situazione anche infrangendo schemi e regole note, risolve un
problema o esegue un compito imprimendovi il suo sigillo personale» (Sacristani Mottinelli, 2004,
p.33).
Si è competenti, pertanto, quando «si decidono le azioni buone mentre si compiono, le si valuta e le
si corregge nella situazione concreta e particolare, si esplorano gli elementi impliciti nelle azioni
stesse per tenerne conto in quelle successive, si ristrutturano significati e fini sulla base dei mezzi
impiegati» (Bertagna, 2004, pp.37-38). Il soggetto competente è colui che sa attivare le stesse
conoscenze e applicare abilità anche in situazioni differenti da quella originaria e attuale, perché è
capace di cogliere le caratteristiche comuni esistenti in contesti tra loro differenti. Le competenze,
pertanto, sono esiti che chiamano in causa la totalità della persona e ne mettono in atto conoscenze,
abilità, attitudini fisico-percettive, affettive, intellettive, operative, espressive. Esse sono il risultato
globale di processi contestuali e soggettivi e l’espressione personale di esse è la manifestazione
esterna di ciò che la persona ha assimilato, interiorizzato e rielaborato a livello personale.

2. La competenza espressivo-simbolica
Precedentemente si è fatto riferimento all’espressioni dell’educazione personalizzata individuate da
García Hoz (2005), quali: la singolarità, l’autonomia e l’apertura. Si è detto che esse si riconducono
al concetto di singolarità e originalità dell’essere persona, alle sue peculiarità in quanto essere
“libero” e “sociale”. In ambito relazionale, la forza della comunicazione e, fra tutti i livelli
comunicativi, quello linguistico appare, nella nostra cultura, di maggior forza.
L’analisi sulla dimensione linguistica della persona e della relazione dell’uomo con la parola pone
l’attenzione sulle possibilità di sviluppo della libertà umana che consente la valorizzazione delle
numerose virtù possedute da ciascuno.
La persona libera, infatti, nel rapporto comunicativo con gli altri, esprime la propria creatività
linguistica che può risultare di notevole interesse per definire l’educabilità dell’uomo. Essa non è
da intendere come una semplice arte o attitudine di alcuni soggetti eccezionali. Chi è in grado di
parlare creativamente esprime soprattutto se stesso, la propria volontà di significato. La parola
creativa è l’espressione del potere linguistico della persona; il dire creativo esige attenzione affinché
quello che viene espresso corrisponda esattamente a quello che si intende dire.
Se da un lato la creatività linguistica comporta la possibilità di prendere le distanze da frasi
stereotipate e luoghi comuni, dall’altro è l’espressione del modo di significare in termini di
originalità ed intelligenza e coinvolge la responsabilità e la libertà dell’io, pertanto mette in gioco il
suo potere di decisione autonoma.
La letteratura sulla linguistica offre, a tal proposito, notevoli contributi che si identificano con la
rivendicazione del diritto dell’uomo alla valorizzazione delle proprie potenzialità. De Saussure
(1968) sostiene che il mondo della langue è un mondo dentro il quale il soggetto giunge con tutta la
sua forza innovativa. Il parlare deve essere inteso come concetto che integra e rende compresenti
parole e langue, espressività e convenzionalità, creatività e norma.
Chomsky (1970) adopera il termine “creatività” in senso stretto e indica il carattere inedito che
possono avere i segni linguistici in quanto combinazione di monemi. Partendo da un numero finito
di unità di base (i monemi) e con un numero finito di regole sintattiche, la lingua serve a produrre e
riconoscere un numero potenzialmente infinito di frasi, molte delle quali mai formulate prima e
tuttavia dicibili e comprensibili.
Le esperienze di educazione alla creatività espressive-linguistica esigono l’impegno a considerare
l’uomo nella sua struttura pluridimensionale e nell’armonia delle sue funzioni, quindi, la scuola, in
particolar modo, è chiamata in causa nella promozione e nel sostenimento della parola libera e
creativa attraverso l’esercizio di molteplici forme esperienziali di espressione creativa.
La promozione dell’espressione personale è, quindi, una condizione indispensabile per la vita
sociale e per l’esercizio della libertà della persona, perché attraverso essa è possibile stabilire
relazioni umane. In tali rapporti l’uso della parola si pone in una collocazione determinante in
quanto consente l’esternazione del proprio pensiero, degli affetti, delle emozioni.
L’educazione all’espressione risulta di importanza fondamentale nella prospettiva dell’educazione
personalizzata in quanto presuppone un’azione educativa continua atta a far convergere una serie di
fattori cognitivi e linguistici in direzione del loro sviluppo armonico ed equilibrato. L’espressione
linguistica, orale e scritta, infatti, consente all’uomo di manifestare il proprio universo cognitivo e
affettivo a sé e agli altri e di entrare in relazione con il mondo circostante. La complessità del
fenomeno linguistico-espressivo richiede, per l’appunto, la padronanza di competenze comunicative
che devono integrarsi a vari livelli.
Se la comunicazione ha un aspetto intrinsecamente sociale, l’espressione propone una dimensione
più personale, infatti, l’espressione e la comunicazione si realizzano attraverso il linguaggio, che
manifesta l’interiorità dell’uomo, ma richiamano tutta una serie di specificità della persona che
riguardano l’aspetto più intimo e “originale” e allo stesso tempo globale e integro della persona.
Qualsiasi azione didattica che si proponga di stimolare e promuovere lo sviluppo espressivo verbale
negli alunni esige di muoversi all’interno di una riflessione che, partendo dalle potenzialità della
persona, si orienti alla ricerca del significato autentico della sua espressione.
La persona umana, che per natura, dicevamo, è portata a vivere socialmente si ritrova
inconsapevolmente dentro relazioni sociali già dal momento in cui nasce in quanto è inserita di fatto
in un contesto sociale comunitario.
Da questa situazione ne deriva la naturale tensione all’interazione con l’altro (primo fra tutti la
madre) attraverso meccanismi comunicativi, in primo tempo spontanei e istintivi, via, via sempre
più strutturati e articolati. Nel primo caso la comunicazione è esclusivamente di tipo non verbale e
si affida in toto alla capacità interattiva del corpo; nel secondo, invece, ci si trova di fronte a una
realtà più complessa della comunicazione che riguarda l’espressione orale ossia l’interazione di
pensiero, parola, emozioni, desideri, sentimenti, ecc.
L’uomo, infatti, pur iniziando a comunicare attraverso il corpo, man mano cresce comunica e
interagisce con i propri simili soprattutto mediante l’espressione verbale, un’espressione del tutto
personale seppure fonda le sue radici su codici comuni e condivisi.
Per quanto concerne l’espressione verbale, l’analisi interpretativa dei contributi di ricerca a tal
proposito evidenziano il primato della dimensione linguistica della persona e dell’impiego del
linguaggio orale nei suoi aspetti creativi, pragmatici e socio-comunicativi, confermando il ruolo che
l’espressione linguistica ha nell’educazione della persona e nel processo di sviluppo di essa a livello
affettivo-relazionale e cognitivo.
Per comunicare l’essere umano si è sempre servito in modo privilegiato del linguaggio in quanto
mezzo che rende la persona capace di esprimere il proprio mondo interiore, esperienziale e
cognitivo. Mencarelli (1972) sostiene che il linguaggio è uno strumento di rivelazione della
personalità, di determinazione e di possesso di precise forme di “cultura umana” e quindi di
comunicazione.
Per la costruzione della personalità il linguaggio verbale ha un ruolo fondamentale in quanto non
soltanto potenzia la comunicazione ma favorisce l’interazione e l’integrazione sociale, lo sviluppo
del pensiero e l’espressione della vita emotivo-affettiva e relazionale. L’espressione verbale è di
fondamentale importanza nella vita sociale e individuale perché grazie alla padronanza sia ricettiva
(comprensione) che produttiva di parole e frasi, è possibile intendere gli altri e farsi intendere,
catalogare, ordinare, sottoporre ad analisi l’esperienza e trasformarla (De Mauro, 1989).
Attraverso l’uso del linguaggio, inoltre, è possibile organizzare e tramandare la propria cultura e,
proprio la lingua rappresenta, come evidenzia Bruner (1967), la forza dinamica della cultura di una
determinata società. L’autore evidenzia come il linguaggio costituisca, per l’uomo, uno dei
principali strumenti atti alla trasmissione di informazioni, di valori, di tradizioni, di norme. Ogni
comunità, infatti, possiede un proprio repertorio linguistico costituito da diverse forme linguistiche
che vengono utilizzare nelle più svariate circostanze dai parlanti, modificandosi in base al contesto
di riferimento e alle dinamiche di interrelazione che i parlanti mettono in atto nelle diverse azioni
sociali: da quelle familiari a quelle pubbliche come dibattiti, conferenze, ecc.
Esiste, inoltre, un altro aspetto proprio del linguaggio, in relazione al suo rapporto con i processi
mentali messi in atto per la sua comprensione e per la sua fruizione. Ausubel (1995) osserva che è
soprattutto in virtù del linguaggio che gli uomini sono capaci di imparare concetti astratti, di
apprendere per ricezione in modo significativo, di risolvere significativamente complessi problemi
di relazione senza venire direttamente in contatto con gli oggetti e i fenomeni in questione; questa
abilità è la “rappresentazione simbolica” che comincia a svilupparsi allor quando il bambino
sviluppa il pensiero simbolico. Il bambino che impara a parlare, evidentemente, è impegnato a
memorizzare il codice linguistico del proprio gruppo sociale di appartenenza ma, allo stesso tempo,
attraverso il linguaggio costruisce un quadro della realtà che lo circonda e della realtà che è interna
a se stesso.
Pertanto mentre il bambino compie una costruzione della realtà sta compiendo la sua personale
costruzione del suo sistema semantico, con il quale codifica la sua realtà; nasce da questo primo
importantissimo passo la percezione di sé e la visione della vita strettamente personale ed unica. Al
riguardo, fa notare Titone (1964), se il linguaggio è una manifestazione della totalità della persona,
esso è essenzialmente espressione-comunicazione dell’essere umano nella sua singolarità:
espressione di sé a sé, e comunicazione di sé agli altri.
La natura dell’espressione è pertanto un fatto estremamente personale ma anche sociale e, quindi,
collettivo: si comunica, infatti, per esprimere se stessi e ci si esprime per comunicare agli altri.
L’anello di congiunzione tra espressione e comunicazione è la parola, mezzo che nasce dalla
comunità ma che assume significato dalla storia personale dell’uomo, dall’esperienza e dalla
conoscenza che ha di sé e del mondo.
L’analisi interpretativa dei diversi contributi, soprattutto di quelli che rivendicano il riscatto dei
significato della dimensione linguistica della persona e del linguaggio verbale orale nei suoi aspetti
creativi, pragmatici e socio-comunicativi, hanno riaffermato il ruolo che la lingua parlata ha nella
comunicazione linguistica e nella maturazione affettiva e cognitiva della persona.
La parola, in particolar modo, ripropone la precedenza della dimensione sonora su quella visiva e
l’immediatezza di una condizione comunicativa capace di avvalorare unicità e singolarità,
originalità ed espressività personali. La parola orale, rispetto a quella scritta, infatti, consente
all’uomo l’espressione dei propri pensieri e del personale universo culturale e conoscitivo in modo
più autentico e creativo, a ragione della minore tendenza al controllo che in essa viene esercitata.
Il linguaggio è così centrale all’interno del processo educativo che il suo ruolo è sempre stato
primario rispetto al resto, infatti, nessuno può concepire un’educazione senza di esso. La maggior
parte di quello che si apprende, lo si fa attraverso il linguaggio verbale; il sistema verbale ha una
duplice modalità di articolazione: l’espressione orale e l’espressione scritta.
Gli usi del linguaggio possono suddividersi in due coppie parallele: il parlare e l’ascoltare, da una
parte; lo scrivere e il leggere, dall’altra. Gli elementi di ciascuna coppia sono, ovviamente,
complementari. Le quattro forme distinte di comunicazione sono tutte coinvolte nel processo che
porta un essere umano a raggiungerne un altro e ad entrare in contatto con lui, e sono essenziali nel
rapporto educativo.

3.1 L’espressione verbale orale


Per quanto attiene alla dimensione espressivo-comunicativa di tipo verbale della persona il
linguaggio è sicuramente il mezzo di comunicazione e di informazione maggiormente utilizzato.
Tra tutte le modalità espressive e comunicative possedute dall’uomo, la facoltà di parlare non può
porsi al pari delle altre, poiché come indica Chiosso (1999) la parola non è soltanto uno strumento
di comunicazione, ma qualcosa che appartiene alla struttura ontologica della persona che la
qualifica come “persona umana”.
L’acquisizione dell’uso della parola assume pertanto un’importanza fondamentale nel processo
educativo della personalità, basti pensare che una insufficiente padronanza lessicale deficita molto
l’apprendimento scolastico o la comprensione di un testo, ecc.
Nel processo educativo la lingua deve essere posta a fondamento dello stesso sia in quanto veicolo
di trasmissione di informazioni che di comunicazione ma anche in quanto strumento per lo sviluppo
cognitivo, logico, creativo e della dimensione dell’espressività personale e interpersonale.
Il linguaggio è costituito da un complesso e articolato codice di carattere socioculturale e la lingua
che lo costituisce è al centro dello stesso sistema di comunicazione.
Nella sua specificità il linguaggio orale assume un ruolo di strumento fondamentale nella
strutturazione degli eventi comunicativi realizzabili dai soggetti che interagiscono.
L’espressione orale e l’espressione scritta sono le forme dell’espressione verbale; esse presentano
alcune differenze a cui si collegano particolari abilità o funzioni cognitive. Parlare e scrivere non
sono solo modi alternativi di compiere le stesse cose, bensì sono modi di fare cose differenti, sono
modi diversi di dire e di esprimere i significati linguistici. La lingua orale e la lingua scritta, in
quanto effettivamente sistemi simbolico-comunicativi distinti e autonomi, si strutturano in modi
diversi e per scopi differenti. Halliday (1992) sostiene che parlare e scrivere sono modi diversi di
esprimere gli stessi significati, cioè realizzazioni alternative del potenziale semantico del
linguaggio: tutto ciò che può essere detto nella scrittura può anche essere detto nel parlato, e
viceversa. Ma è pur vero che ci sono significati specifici per i quali parlare e scrivere non
esprimono la stessa cosa: è il principio secondo cui ogni lingua è adatta ad esprimere i significati
della cultura all’interno della quale si è essa stessa sviluppata, ma non è altrettanto bene attrezzata
per esprimere i significati di un’altra cultura. Lo studioso chiarisce che vi sono diverse visioni del
mondo incorporate nel discorso parlato e nella scrittura e, dal punto di vista di chi impara,
leggere/scrivere, ascoltare/parlare sono modi diversi di apprendere perché sono modi diversi di
conoscere e di rappresentare l’esperienza.
Il parlare costituisce un’operazione più complessa dello scrivere e del leggere e certamente è più
difficile un suo controllo per rendere l’azione più efficace. Le frasi parlate sono determinate in gran
parte dalle esigenze del dialogo, caratterizzato dall’incontro tra interlocutori che si trovano in un
rapporto “faccia a faccia”. Il linguaggio orale presenta i connotati della fluidità e della
scorrevolezza, infatti, quando si parla o si ascolta non è possibile correggere, migliorare, sul
momento, la propria esecuzione: non si può tornare indietro su ciò che si è appena detto, anzi, il più
delle volte, i tentativi di tornare sulle parole già dette provocano spesso confusione.
La tradizione linguistico-culturale ha considerato la lingua parlata come
priva di forma e senza caratteristiche poiché, si ritiene, il parlato spontaneo contiene molti errori, le
frasi sono di solito brevi e l’intero tessuto dell’espressione verbale è ricco di esitazioni e di silenzi.
L’atto di comunicazione orale è, indubbiamente, un fenomeno molto complesso ed è soggetto ad
influenze che la lingua scritta, per sua natura, non subisce; comporta una serie complessa di
elementi che vanno dal contenuto vero e proprio della comunicazione alla forma grammaticale, dal
suo aspetto psicologico a quello sociale. In esso entrano in gioco le più diverse componenti quali la
voce, i gesti, la mimica che sono parti integranti del messaggio.
In quanto fortemente ancorata alla realtà, la lingua orale è ricca di mezzi
espressivi e contemporaneamente di ambiguità. Sulla produzione linguistica orale incide una serie
di fattori che possono dipendere dal soggetto o dalla situazione extralinguistica e la comunicazione
ne risulta in qualche modo condizionata e influenzata.
La comunicazione in lingua orale ha, dunque, una sua fisionomia molto particolare: tiene conto
dell’aspetto linguistico vero e proprio che condiziona l’articolazione dell’esperienza umana, ma
anche di alcuni fattori di varia natura che la caratterizzano. Arcaini (1967, pp.348-351) così
sintetizza tali fattori: «psicologici, dovuti alle caratteristiche individuali del parlante (temperamento,
carattere, sensibilità) che si traducono sul piano del parlato nei più diversi modi (strutturazione della
frase, inserimento di parole emotive, segni visibile fuori dal contesto linguistico); sociali, che
mettono in opera i vari elementi citati ma il cui fine è di agire sull’interlocutore».
Nella determinazione del senso del discorso orale intervengono sistematicamente diversi fattori: la
compresenza degli interlocutori, l’uso di mezzi espressivi non verbali, quali la mimica facciale, lo
sguardo, i gesti, le posture che, essendo soggette a interpretazione soggettiva da parte
dell’interlocutore, sorreggono e amplificano il messaggio trasmesso dal parlante e ne favoriscono la
comprensione. Tali mezzi possono integrare o sostituire parti di enunciato, segnalare accordo,
disaccordo o stati d’animo di chi parla e collegare l’enunciato con il contesto extralinguistico.
Ogni parlato naturale, in qualsiasi lingua, è connotato di schemi di intonazione e ritmo, da una
“melodia del parlato”. L’intonazione è il movimento melodico, l’innalzamento e l’abbassamento
del tono. Il ritmo è la “battuta” della lingua, che le conferisce un’organizzazione nel tempo.
Ambedue sono caratteristiche prosodiche e sono parte del sistema della lingua.
Nella comunicazione orale è inoltre possibile che il parlante faccia riferimento a presupposizioni,
conoscenze e valori condivisi dall’interlocutore, a sottintesi, a elementi della situazione
comunicativa, a informazioni inferibili dal contesto complessivo. La presenza contemporanea, nella
comunicazione faccia a faccia, di emittente e ricevente permette, infatti, un continuo rimando,
attraverso i deittici, alla situazione extralinguistica, favorendo in questo modo il recupero, da parte
del ricevente, di quanto lasciato implicito (Bertocchi et alii, 1986).
La sequenza parlata è correggibile a seconda delle intenzioni del parlante, dell’esito dei suoi atti
comunicativi, della reazione dell’interlocutore: cambiamenti di programma ed autocorrezioni
entrano nel discorso e sono recepite dall’ascoltatore; nello scritto verrebbero cancellati da chi
scrive. Inoltre le pause e le esitazioni, le autocorrezioni, le frasi incompiute e in genere la “sintassi
fratta”, conferiscono al parlato un carattere di frammentarietà (Berretta, 1978) che persiste anche
nel parlante più competente; essa, in quanto caratteristica dell’espressione orale non deve essere
considerata elemento di scarsa competenza linguistico-espressiva.

3.2 L’espressione verbale scritta


II linguaggio scritto è uno strumento formale, decontestualizzato, privo dell’ambiguità che connota
l’oralità e che le deriva dal fatto di utilizzare simultaneamente più sistemi e più canali. In quanto
mancante del contesto, che invece connota il discorso orale conferendogli significato, lo scritto
sviluppa una grammatica elaborata e fissa.
Il sistema di scrittura è il mezzo con cui i significati creati dalla particolare lingua vengono espressi
in forma visiva anziché parlata, mediante l’utilizzo di una serie di simboli che hanno valori
convenzionali per rappresentare le parole della lingua.
La scoperta della scrittura, la sua introduzione e il successivo sviluppo nella cultura,
precedentemente caratterizzata dall’oralità, ha fatto emergere nuove abilità e competenze
intellettuali. Il pensiero, svincolato dal contesto, è divenuto capace di interpretare i messaggi
linguistici a partire dalla parola e dalle loro connessioni logiche, stimolando, progressivamente, la
capacità interpretativa e lo sviluppo del ragionamento logico, che ha permesso argomentazioni più
ampie, categorizzazioni più sistematiche, codificazioni più precise di quelle consentite, appunto,
dalla cultura orale.
La parola scritta espone chiaramente in sequenza ciò che nella parola parlata è rapido e implicito.
La scrittura, però, non è in grado di inglobare tutte le caratteristiche del parlato; è difficile, infatti,
riprodurre i tratti della lingua parlata conosciuti come caratteristiche prosodiche e paralinguistiche.
Nonostante la relazione tra il sistema linguistico scritto e quello parlato sia notevolmente
complessa, gli antropologi sono propensi ad affermare che, per comprendere la natura della parola
parlata, è utile metterla a confronto con la forma scritta. Secondo McLuhan (1976),
l’interiorizzazione della tecnologia dell’alfabeto fonetico trasporta l’uomo dal mondo magico
dell’orecchio al mondo neutro della vista. Nelle culture in cui è assente l’accentuazione visiva data
dall’alfabeto, si instaurano altre forme di coinvolgimento sensoriale e di apprezzamento culturale.
Le popolazioni a cultura orale vivono in un mondo di suoni che hanno un significato diretto e
personale per l’ascoltatore.
Il linguaggio scritto è una funzione verbale del tutto particolare che si distingue dal linguaggio orale
anche per la sua struttura e modalità di funzionamento psicologico. Il linguaggio scritto è un
linguaggio senza l’aspetto espressivo, intonazionale e sonoro. Vygotskij (1990) mostra che, nei
tratti più essenziali del suo sviluppo, il linguaggio scritto non riproduce affatto la storia del
linguaggio orale, che la somiglianza tra i due processi è sintomatica sul piano esterno piuttosto che
essere una somiglianza di fondo. Il linguaggio scritto non è la semplice traduzione del linguaggio in
segni grafici, come la padronanza del linguaggio scritto non è la semplice assimilazione della
tecnica della scrittura.
Il linguaggio scritto è legato fin dall’inizio alla consapevolezza e alla intenzionalità; i motivi stessi
dello scritto sono più astratti, intellettuali e lontani da un bisogno. Il linguaggio scritto è un
discorso-monologo, una conversazione con il foglio bianco della carta, con un interlocutore
immaginario o solamente rappresentato che costringe il bambino ad agire in modo più intellettivo.
Poiché il linguaggio scritto è un linguaggio per un interlocutore assente, in confronto al linguaggio
orale, rappresenta una forma di linguaggio sviluppato al massimo e con una articolazione sintattica
complessa, dal momento che per enunciare ogni pensiero dobbiamo usare molte più parole di
quanto non facciamo nel linguaggio orale.
Gli elementi che facilitano l’abbreviazione del linguaggio orale, cioè la conoscenza del soggetto e
l’immediata trasmissione di un pensiero mediante l’intonazione, sono totalmente esclusi nel
linguaggio scritto. Per questo motivo si è costretti ad usare molte più parole quando si scrive
rispetto a quando si parla anche per esprimere lo stesso pensiero.
Nel linguaggio scritto si deve trasmettere, mediante le parole e la punteggiatura, ciò che nel
linguaggio orale è trasmesso con l’intonazione e la percezione immediata della situazione. Nel
linguaggio scritto la comprensione si stabilisce esclusivamente mediante le parole e la loro
combinazione, per questo la sua articolazione sintattica è consistente.
Vi sono più modi di concepire i rapporti e le differenze tra la lingua parlata e la lingua scritta. Un
primo modo concepisce la lingua scritta come la trascrizione della lingua parlata; secondo questo
punto di vista, la differenza tra la lingua parlata e quella scritta è fondamentalmente nel tipo di
mezzo fisico adoperato come veicolo della comunicazione. Saper scrivere significa produrre i segni
visivi sulla carta e conoscere le regole di trascrizione; saper leggere consiste nella capacità visiva di
riconoscere i segni scritti e poi ritradurli.
L’altro modo di concepire i rapporti tra la lingua parlata e la lingua scritta riguarda tutti i
meccanismi cognitivi e sociali che stanno dietro alla produzione di segnali fisici o alla loro
ricezione da parte del destinatario. La lingua scritta si basa certamente su un sistema di trascrizione
della lingua parlata e questo è inevitabile dato che la lingua parlata come capacità viene acquisita
prima della lingua scritta.
Il modo più adeguato di considerare lingua parlata e lingua scritta è di vederle come due diversi
modi di comunicare ossia come due diversi modi di espressione individuale e sociale.

4. La competenza espressivo-pratica
Il linguaggio verbale è, senza dubbio, il mezzo più efficace per esprimere idee complesse e astratte
ma, l’uomo, come abbiamo precedentemente detto, non si avvale solo della parola per comunicare.
II sistema della comunicazione non verbale, denominata anche extralinguistica e paralinguistica,
accompagna, completa, modula, ritma ciò che è detto con le parole. Esso è rappresentato dagli
sguardi e dalle espressioni del viso, dai gesti e dai movimenti, dalle posture del corpo, dalle distanze
tra i comunicanti, dal tono e dalle inflessioni della voce ed anche dal modo di vestirsi, pettinarsi,
ecc. e, trasmettendo messaggi e informazioni indipendenti dal codice linguistico, in un certo senso,
esprime più in profondità e con immediatezza la soggettività dell’essere umano.
Il soggetto competente dal punto di vista comunicativo è, solitamente, in grado di utilizzare una
serie di abilità di carattere differenziato: linguistiche, relative alla componente verbale del discorso
e alle regole formali che consentono di operare con un determinato linguaggio; paralinguistiche,
relative alle caratteristiche prosodiche che accompagnano i messaggi linguistici (tono di voce,
enfasi, cadenza, pause); cinesico-gestuali, relative al ruolo svolto dai movimenti del corpo, dagli
atteggiamenti del volto- dalla mimica e dai gesti; prossemiche, che si riferiscono agli atteggiamenti
spaziali assunti nel corso dell'interazione comunicativa; pragmatiche, relative ai comportamenti
messi in atto nel corso dell’interazione; socioculturali, relative ai contesto e alle situazioni sociali;
semiotiche, inerenti la capacità di impiegare una pluralità di codici espressivi oltre quello verbale.
I messaggi interpersonali della comunicazione quotidiana percorrono simultaneamente vie uditive e
visive, rinforzandosi reciprocamente o talvolta contrapponendosi in eventuali contrasti di
significato. Una scrollata di spalle, una smorfia, un’alzata di sopracciglia, un gesto con le mani:
questo tipo di tratti che accompagnano la produzione di quello che può essere chiamato il “testo
verbale”, forma una vera comunicazione simultanea non secondaria, considerato che può
modificare, integrare, annullare il significato letterale di ciò che viene detto.
Gli studiosi di pragmatica hanno evidenziato che «la pragmatica della comunicazione riguarda ogni
posizioni del corpo, i gesti, le espressioni del viso, le inflessioni della voce, la sequenza e il ritmo
delle stesse parole, e ogni altra espressione non verbale del soggetto, come anche i segni di
comunicazione presenti in ogni contesto in cui ha luogo una interazione» (Watziawick et alii, 1971,
p.55).
In genere si opera una distinzione fondamentale fra comportamenti paralinguistici e
sovrasegmentali (tono di voce, grida, inflessione, intonazione, timbro, velocità di elocuzione) e le
modalità gestuali, non linguistiche, che trasmettono il messaggio attraverso i movimenti del corpo, i
gesti, le posture, le espressioni facciali, ecc. Il settore visivo-gestuale abbina i movimenti dei
muscoli facciali e anche di altre membra alla stimolazione dei recettori visivi. Per Titone (1964) lo
schema di questo canale comunicativo è sostanzialmente identico a quello della comunicazione
linguistico-verbale: una serie di reazioni comportamentali di un individuo (trasmittente) produce
una serie di stimoli che possono venire interpretati da un altro individuo (il ricevente), e viceversa.
Il linguaggio parlato è, dunque, solo uno dei mezzi di comunicazione.
Nella nostra complessa cultura, e quindi nel sistema di insegnamento che essa produce, è
praticamente impossibile trasmettere tutto il contenuto della comunicazione educativa con i soli
comportamenti non verbali. I comportamenti non verbali da soli non possono assicurare tutta la
comunicazione.
Nell’uomo la comunicazione non verbale si lega a quella verbale, nel manifestare gli stati emotivi e
modi di essere del parlante. Alcuni comportamenti non verbali servono direttamente ai messaggi
verbali concretizzandoli, illustrandoli, ritmandoli, punteggiandoli; in parecchi casi essi assicurano
una migliore comprensione, ma tale effetto varia a seconda delle caratteristiche cognitive e affettive
degli individui.
Il linguaggio non verbale si adatta manifestamente meglio ad esprimere i sentimenti e gli
atteggiamenti immediatamente percepibili dall’interlocutore, e la rapidità, la moltiplicazione, la
combinazione dei comportamenti permettono una comunicazione affettiva di grande ricchezza.
Come linguaggio a sé, il comportamento non verbale esprime emozioni atteggiamenti inconsci o
semicoscienti, fornendo un gran numero di informazioni. Esso può anche sostituirsi deliberatamente
al linguaggio verbale e trasmettere le stesse informazioni di questo, ad esempio quando si parla a
gesti.
II comportamento non verbale, inoltre, può confermare e rinforzare il messaggio verbale (annuire
con un cenno del capo mentre si dice di sì), può sostituirlo (rispondere con un sorriso anziché con
parole), può completarlo o chiarirlo, ma anche contraddirlo (assumere un’espressione sarcastica
mentre si fa un complimento). Può essere fonte di ambiguità ed anche di mistificazione. In ogni
caso la comunicazione non verbale ha una funzione essenziale nella strutturazione e nel controllo
dell’interazione sociale.
Garcìa Hoz et alii, (2000) evidenziano come molti dei problemi di comunicazione interpersonale, le
“incomprensioni”, i conseguenti conflitti, dipendono proprio dalla non corrispondenza o dalla
aperta contraddizione tra canali verbali e non verbali.
Un genitore o un insegnante, ad esempio, che comunica a parole al bambino una grande
disponibilità e contraddice questo messaggio con una postura e una mimica che esprimono invece
disinteresse e scarso coinvolgimento, crea un conflitto di interpretazione della propria
comunicazione.
Analizziamo nel dettaglio le varie componenti dell’espressione paraverbale, cominciando da quelli
che più direttamente riguardano gli aspetti extralinguistici non verbali.
Lo sguardo ha un ruolo importantissimo nell’instaurare una relazione, nella comunicazione,
nell’espressione dei sentimenti. In generale tutto il corpo partecipa alla comunicazione ma, al
contrario delle altre parti del corpo, la testa fornisce informazioni relative alla natura delle emozioni
provate quali interesse, disgusto, gioia, anche se informa poco sulla loro intensità. I movimenti della
testa insieme a quelli delle mani adempiono a una doppia funzione, come ad esempio lo sguardo
che organizza la presa di parola fra due interlocutori e accentua alcuni contenuti verbali, quali le
idee principali e la fine delle frasi. I movimenti della testa giocano un ruolo importante soprattutto
perché lo scuotimento si pone come segno di attenzione, di partecipazione e come regolatore di
scambi.
I movimenti delle mani, accompagnando i comportamenti verbali, sono anch’essi grandi rivelatori
di significati interni; essi, infatti, tendono ad ampliarsi man mano cresce l’emozione nel discorso.
Questo si spiega intuitivamente perché noi osserviamo i movimenti corporei di un interlocutore per
scoprire il suo stato d’animo.
Anche le posture sono portatrici di messaggi. Le posture dei soggetti variano sensibilmente secondo
i sentimenti provati: un’affettività positiva è espressa dalla distensione, mentre un’affettività
negativa si manifesta con una tensione e con l’inibizione dei movimenti. Un aumento netto e
progressivo dei movimenti delle gambe indica un atteggiamento negativo davanti all’interlocutore
perché genera nervosismo.
Le interazioni, verbali o no, si collocano in uno spazio la cui particolare occupazione fornisce un
primo quadro significativo. La distanza che separa due individui che comunicano è tutt’altro che
indifferente: una forma di interazione si verifica a una distanza “di rispetto”, un’altra implica quasi
necessariamente un avvicinamento, a volte un contatto fisico. La prossemica è la scienza che studia
propriamente i fenomeni dello spazio umano. Hall (1968) ha dimostrato, nella sua teoria
“prossemica”, che le distanze spaziali tra i soggetti umani, che egli definisce la dimensione
nascosta, costituiscono una sorta di “linguaggio” attraverso cui gli uomini si passano vere e proprie
comunicazioni. Egli classifica le distanze interpersonali in quattro categorie: distanza minima dove
la distanza dell’altro si impone e invade il sistema percettivo; distanza personale che si può
intendere come una piccola sfera di protezione che un organismo crea attorno a sé per isolarsi dagli
altri; distanza sociale o rispettosa caratteristica tra persone che lavorano insieme; distanza pubblica
posta fuori dalla cerchia che riguarda direttamente il soggetto.
Un messaggio verbale cambia significato anche secondo il modo nel quale viene espresso. Esiste un
paralinguaggio, dunque un complesso di comportamenti paraverbali, la cui importanza è consistente
ed evidente.
Gli elementi paralinguistici si distinguono in “tratti prosodici”, in quanto riguardano non
l’articolazione di una singola unità isolabile, ma l’andamento dinamico della catena parlata, cioè la
combinazione sintagmatica di fonemi, e/o “tratti soprasegmentali”, in quanto riguardano non il
segmento minimo, ma il continuum di segmenti minimi.
Quando nel parlato spariscono le articolazioni sintattiche che hanno funzione logica, il valore
semantico dell’enunciato è trasmesso dall’intonazione. L’interesse sull'intonazione, afferma Di
Raimondo (1997), tende in genere ad identificare eventuali corrispondenze fra l’intonazione stessa
da una parte e il significato e la sintassi dall’altra. Ciò presuppone l’ipotesi che l’intonazione utilizzi
un codice convenzionale, dal momento che il parlante seleziona l’andamento melodico più
confacente alla propria intenzione, e l’interlocutore lo interpreta adeguatamente. Nell’aspetto
prosodico della competenza comunicativa interagiscono i linguaggi verbale e musicale: la prosodia
viene considerata l’interfaccia tra i due linguaggi e rivela le intenzioni comunicative del parlante.
In quanto al significato dell’enunciato, bisogna precisare che esso non deriva solo dal contenuto
espresso ma anche dagli aspetti sonori del discorso, questi ultimi, talvolta, hanno addirittura il
sopravvento sul primo, come quando un’affermazione assume tono ironico o una frase gentile è
espressa con tono minaccioso. Sono i contorni melodici che rivelano l’entusiasmo, l’incertezza, la
sicurezza, l’aggressività dei locutori. La varietà degli aspetti paraverbali ritma e modula gli aspetti
linguistici.
Il quadro che è emerso da queste brevi considerazioni è composito ed intricato. Certamente è uno
stimolo inequivocabile alla riflessione e alla conseguente affermazione della necessità di un
potenziamento della personale espressività non verbale, come pure della capacità di controllo e
orientamento della stessa.

4.1 L’espressione artistica


L’arte è l’espressione umana per antonomasia. Ogni società, dalla più primitiva alla più sofisticata,
si è espressa attraverso essa. L’espressione artistica è per l’uomo un’attività personale altamente
gratificante ed emozionante in quanto “creatrice”.
«I bambini usano l’arte come mezzo di apprendimento, mediante lo sviluppo di concetti che
assumono una forma visibile, attraverso la produzione di simboli che afferrano e sono un’attrazione
dell’ambiente, e infine tramite l’organizzazione e la disposizione di questi simboli in una singola
configurazione» (Lowenfield e Brittain, 1984, p.9), pertanto possiamo dire che l’arte agevola e
sollecita l’esperienza di apprendimento del bambino.
In ambito educativo l’espressione artistica riveste un ruolo fondamentale in quanto attività dinamica
e unificante allo stesso tempo. Attività come il disegno, la pittura o la manipolazione, per essere
svolte, comportano un procedimento complesso che attiva, nel bambino, l’utilizzo di diversi
elementi delle sue esperienze contemporaneamente; egli, infatti, inconsapevolmente, deve compiere
un processo di sintesi e di ricomposizione delle esperienze vissute per dare espressione a nuovi
significati. Nel processo di selezione, interpretazione e rimodellamento degli elementi il bambino
esprime parte di sé: esprime cioè il suo modo di vedere, di sentire, di emozionarsi: manifesta
all’esterno il suo io.
Nel nostro attuale sistema educativo l’arte è ancora considerata una delle fonti di apprendimento e,
senza alcun dubbio, lo è ed è giusto che la si apprenda attraverso lo studio della sua storia, ma
varrebbe la pena soffermarsi sulla sua dignità d’essere una “forma” specifica ed autentica di
apprendimento.
L’uomo impara naturalmente attraverso i sensi: la vista, l’olfatto, il tatto, l’udito e il gusto lo
mettono in relazione con il contesto in cui è inserito. Lo sviluppo della percezione dovrebbe, quindi,
essere uno degli aspetti più importanti, da valorizzare, di tutto il processo educativo. «Toccare,
vedere, ascoltare, sentire e assaporare comportano l’attiva partecipazione dell’individuo. È evidente
che perfino bambini molto piccoli sentano la necessità di essere veramente coinvolti in queste
esperienze. […] l’educazione artistica è la sola, tra le diverse materie scolastiche, che sviluppa
realmente le esperienze sensoriali» (Lowenfield e Brittain, 1984, p.23).
Quanto maggiore è l’esperienza che il bambino fa dei e con i propri sensi, tanto maggiore è la sua
sensibilità e la consapevolezza delle proprie funzioni percettive e, maggiore è questa, maggiori
risultano le possibilità di apprendimento.
Le attività di pittura e di disegno, in particolar modo, attivano un costante processo di assimilazione
e di restituzione: attraverso tali attività, infatti, l’uomo attinge, dall’ambiente circostante, attraverso
la propria sensibilità percettiva, svariati elementi che successivamente ripropone in forma nuova
grazie alla propria creatività. Questa operazione, che coinvolge diverse abilità cognitive della
persona, non deve mai essere mortificata, piuttosto promossa e potenziata poiché consente la
capacità di utilizzare il materiale appreso, di manipolarlo e di personalizzarlo, quindi renderlo
innovativo.
Educare all’arte e attraverso l’arte sembrano avere significato equivalente ma non è così. Nel primo
caso si fa un esplicito riferimento al concetto di estetica, all’educazione al gusto del bello, nel
secondo ci si riferisce all’utilizzo del mezzo espressivo artistico per l’educazione sotto tutti i suoi
aspetti: cognitiva, affettiva, relazionale, espressiva. Sicuramente entrambi gli aspetti vanno coltivati
ma, dal punto di vista educativo occorre fare un distinguo, sulla base del soggetto educando e degli
obiettivi che il nostro intervento educativo vuol raggiungere. Infatti, se per l’adulto l’arte è per lo
più, soltanto qualcosa che ha a che fare con l’estetica, per il bambino non lo è affatto; essa è
essenzialmente un mezzo espressivo.
«Il bambino è un essere dinamico; l’arte diventa per lui il linguaggio che esprime i suoi pensieri.
Egli vede il mondo diversamente dal modo in cui lo rappresenta, e col crescere le sue espressioni
cambiano» (Lowenfield e Brittain, 1984, p.16). Il prodotto artistico del bambino non è mai
perfettamente corrispondente alla realtà, è piuttosto una sua rielaborazione; egli non rappresenta una
determinata cosa appresa ma esprime, più che altro, il modo in cui ha percepito quella data cosa. Per
questo motivo la produzione artistica di un bambino non può essere soggetta a giudizio rispetto a
parametri del gusto, del bello, né del reale; essa è il prodotto finale di un complesso processo
creativo. Non è la conoscenza dell’arte che rende l’artista creativo bensì è la pratica del processo
creativo che permette all’arte di prendere vita. L’esperienza dell’arte deve quindi servire
principalmente a questo scopo: consentire alla persona lo sviluppo dell’espressione della propria
creatività ed originalità.
Dal punto di vista dell’espressione artistica, oltre al disegno e, più in generale alla rappresentazione
grafica, la musica rappresenta un altro elemento di particolare importanza per l’uomo in quanto è un
linguaggio e una forma espressivo-comunicativa in cui il piano emotivo e quello cognitivo trovano
pieno sfogo e sono inscindibili.
La musica fa pensare, aiuta a rievocare episodi, esperienze, sentimenti, porta ad esprimere,
mediante il corpo e il movimento, tutta una serie di emozioni. Anche questa forma artistica, come
l’arte pittorica, necessita dello sviluppo armonico di tutti i sensi e, allo stesso tempo, amplia e affina
la sensibilità percettiva della persona.
Il senso preposto all’acquisizione dei suoni è l’udito. Esso si attiva già dalle prime esperienze di
localizzazione delle fonti sonore che appaiono quando il neonato orienta la testa verso il suono
percepito. Pian piano cresce, il bambino è sempre più attratto dai suoni percepiti nell’ambiente, che
siano naturali o artificiali, e quindi fortemente stimolato a livello cognitivo, attraverso il processo di
esplorazione e di decodifica del suono e quello di produzione dello stesso. Il suono assume
significato comunicativo nelle prime espressioni linguistiche del bambino, come ad esempio la
lallazione. Ma è nel periodo compreso fra i 3 e i 6 anni che, secondo l’approccio stadiale di Piaget
(1974), il bambino comincia a sviluppare delle prime forme spontanee di canto. Di solito si tratta di
vocalismi che sembrano volere esplorare le possibilità di intonare, di seguire ritmi semplici e
melodie. A questa età, inoltre, quando il bambino ha già imparato a camminare, alla sollecitazione
uditiva egli dà anche una risposta motoria, manifestando delle prime forme spontanee di danza. A
tre anni, infatti, il bambino è già perfettamente in grado di cantare e di danzare. Man mano egli
cresce, questa attività, principalmente spontanea e un po’ goffa, matura e si manifesta in forme
maggiormente articolate e coordinate. Da quanto detto, appare di estrema importanza educare il
bambino all’espressione artistica di tipo musicale poiché, anche se innata e spontanea, nel momento
in cui si struttura in base a modelli dati, attraverso i meccanismi di assimilazione e di ricostruzione
dell’esperienza stessa, conferisce al soggetto che le dà vita notevole flessibilità e fluidità mentale,
fisica e relazionale.
La musicale si può facilmente sintetizzare, in ambito didattico, quale mezzo educativo per far
acquisire ai discenti conoscenze e competenze, di tipo non professionale, che consentano loro di
comprendere la realtà nella quale vivono e, allo stesso tempo di comunicare ed esprimersi attraverso
il suono e la musica.
Tra le abilità che l’educazione musicale sviluppa, in termini di espressione di sé, emerge fra tutte
l’ascolto. Esso è rivolto non soltanto alla musica, intesa come l’insieme strutturato e organizzato di
suoni, ma anche a tutta la vasta gamma di suoni naturali esistenti e con cui sin da neonati si entra in
contatto. Suono e musica sono, infatti, componenti di primo piano della realtà; attraverso di essi si
esprimono sentimenti, stati d’animo, idee, modi di essere, si comunica e si socializza. L’educazione
all’ascolto quindi, in tal senso, è di estrema importanza e necessita di attenzione e di continua
stimolazione.
Un’altra abilità che l’educazione musicale sviluppa è quella relativa alla produzione vocale e
strumentale della musica. Da decenni, ormai, nella scuola, educare alla musica equivale a
trasmettere le nozioni teoriche in un primo momento e, successivamente, esercitare l’abilità pratica.
In tale processo di apprendimento il corpo assume un’importanza fondamentale sia
nell’acquisizione delle conoscenze musicali che nell’esercizio pratico. Il corpo, infatti, ha una
funzione ineludibile poiché qualsiasi esperienza sensoriale e qualsiasi conoscenza hanno origine in
esso, a livello sensoriale e cognitivo, e si manifestano attraverso esso. Secondo Piaget (1974)
qualunque tipo di apprendimento è facilitato dall’attività motoria in quanto le operazioni mentali,
compiute dal soggetto, sono il risultato di un processo che, in modo progressivo, interiorizza le
azioni compiute dal corpo. Le esperienze, quindi, che passano attraverso la corporeità si completano
e si concettualizzano meglio rispetto a quelle effettuate solo con il pensiero.
La musica favorisce l’apprendimento sia poiché suscita coinvolgimento emotivo sia perché stimola
il movimento che conferisce all’esperienza vivacità e dinamismo.
In questo senso musica e movimento danno luogo a percezioni di tipo sinestesico. Le sinestesie
percettive esercitano la loro influenza sia nella produzione motoria globale ( corsa, passo, danza),
sia su quella fino motoria (disegno, pittura e scrittura). Ciò avviene soprattutto nel bambino, il quale
avverte proprio l’esigenza di tradurre graficamente ciò che lo colpisce e lo coinvolge: il simbolo
gestuale e grafico rappresenta, in tal senso, l’immediata traduzione del suono.
Un ulteriore tratto di importanza che l’espressione artistica musicale offre è dato dalla relazione
ritmo-movimento. L’acquisizione e lo sviluppo del senso ritmico, infatti, dipendono quasi
esclusivamente dal movimento fisico. Il concetto di ritmo è strettamente correlato a quello di
“tempo”, inteso come categoria fondamentale che marca le differenze vitali di un prima-adesso-poi,
è il senso dell’attesa, del desiderio, dell’evoluzione o della ripetizione.
Secondo Piaget (1974) al termine del periodo senso-motorio, il bambino padroneggia il tempo solo
sul piano pratico, mentre in età prescolare può avvalersi anche di una nozione del tempo, che però è
solamente intuitiva e si basa da un lato sulla percezione dell’ordine di successione degli eventi,
dall’altra sulla valutazione soggettiva delle durate. Per quanto riguarda l’ordine degli eventi, il
bambino può, basandosi su percezioni o immagini mentali, coordinare nel tempo più fatti mentre li
osserva (ad esempio stabilire chi è arrivato primo in una gara di corsa) o ricostruire semplici
sequenze di fatti quotidiani, (come ad esempio, le azioni che si compiono per andare a letto). Prima
dei 5 anni, dunque, il tempo non è concepito come qualcosa di oggettivo, ma è legato ai risultati
dell’azione (tempo locale). Inoltre, come evidenzia Nicolodi (1992) il tempo è un’esperienza
emozionale prima che razionale, vissuta già nei primi mesi di vita sull’asse bisogno-soddisfazione e
successivamente su quella del desiderio-soddisfazione.
Infatti, già nella vita intrauterina si manifestano forme di ritmi motori spontanei (ritmo cardiaco,
respiratorio, dell’attività muscolare, etc. ...) che, dopo la nascita, si arricchiscono e si adeguano alle
condizioni temporali imposte dall’ambiente di vita. Il processo attraverso cui si realizza l’equilibrio
tra i ritmi ambientali e i bioritmi prende il nome di sintonizzazione e assegna un ruolo fondamentale
alla relazione madre-bambino. Se, infatti, il ritmo dei movimenti della madre riesce ad adeguarsi al
tempo proprio del piccolo, si realizza uno “scambio tonico sincrono” tramite un vero fenomeno di
risonanza, che ha delle ripercussioni sia sullo sviluppo cognitivo futuro che sull’equilibrio tonico-
emotivo.
Da queste prime forme espressive di movimento nascono, se stimolate e orientate, forme più
complesse e organizzate di movimento (ad esempio la ginnastica) che, se coniugate alla musica
prendono il carattere della danza.
L’esercizio ritmico è importante poiché, attraverso il ritmo il bambino impara “l’orine temporale” e
ciò, a sua volta, gli consente di stabilire dei punti di riferimento temporali scanditi da intervalli,
accenti, pause, ecc.
Al riguardo molti studiosi della Gestalt evidenziano il fatto che i fenomeni non vengono percepiti
dal bambino come aggregati indistinti, bensì come forme d’insieme che hanno una propria struttura.
In esse è possibile distinguere un aspetto quantitativo, corrispondente all’intervallo temporale di
durata, e un aspetto qualitativo, cioè il modo in cui gli elementi percepiti si organizzano in una
struttura (ritmo).
Relativamente al primo aspetto, l’intervento didattico dovrà mirare a far acquisire al bambino (entro
i 6 anni) la discriminazione di durate brevi, medie e lunghe.
Per ciò che concerne il ritmo sarà importante distinguere tra ritmi regolari, che caratterizzano eventi
che si ripetono con costanza (ta ta ta), ritmi periodici, in cui la ripetizione regolare riguarda insiemi
di eventi (ti ta-ti ta-ti ta), ed infine ritmi irregolari, tipici di eventi che pur ripresentandosi non lo
fanno seguendo un intervallo costante (es. onde del mare). Le attività da proporre devono pertanto
«favorire l’espressione dei ritmi motori spontanei e la possibilità di sincronizzarli a supporti sonori
adatti; educare la percezione uditiva dei ritmi e più particolarmente quella delle strutture ritmiche»
(Le Boulch, 1984, p.146).
L’acquisizione della competenza espressiva musicale si manifesta attraverso la capacità, da parte
del bambino di “seguire”, “mantenere” e “produrre” autonomamente un determinato ritmo.

4.2 L’espressione motoria


Nella crescita di ogni individuo, tra tutti gli aspetti che lo caratterizzano, lo sviluppo della motricità
si caratterizza come il trampolino di lancio al conseguimento di molteplici competenze, in quanto
offre al bambino l’opportunità di esplorare l’ambiente e di compiere svariate esperienze, mediante
l’attività di prensione, di deambulazione e, più in generale di movimento. Se, infatti, lo sviluppo
della motricità mette il bambino nella condizione di potere esplorare l’ambiente circostante e
favorire, di conseguenza, lo sviluppo cognitivo, allo stesso modo, molte operazioni mentali
dell’area cognitiva sono il risultato di interiorizzazioni delle azioni compiute sul piano della
motricità. Ciò vale anche inversamente, infatti, lo sviluppo di certe conoscenze può favorire
notevolmente quello di abilità psicomotorie specifiche.
Lo sviluppo della motricità segue due orientamenti: da una parte, esso si rivolge verso l’oggetto da
toccare, manipolare, modificare, prendere, esprimendo, quindi, un carattere pragmatico e utilitario;
dall’altra parte, si rivolge verso la persona esprimendo la soggettività del movimento stesso.
Per il bambino l’espressione motoria è una delle manifestazioni più spontanee in quanto rappresenta
l’esperienza naturale, la forma originale e spontanea di stare al mondo, di esplorarlo, di viverlo, di
rappresentarlo. Il bambino «possiede la caratteristica di privilegiare il tono e il movimento come
mezzo per esprimere le sue emozioni, le sue immagini interne profonde in rapporto con il mondo»
(G. Nicolodi, 1992, pag. XIII), intorno ai 3, 4 anni, infatti, il corpo rappresenta per il bambino,
l’unico mediatore e strumento di conoscenza, di apprendimento, nonché espressione dello sviluppo
affettivo ed emotivo.
L’uomo non nasce adattato all’ambiente che lo accoglie ma ad esso si adegua pian, piano, e in
questa ricerca di equilibrio entra a farne parte lo sviluppo motorio e l’efficacia del movimento,
sempre più volontario ed articolato. Ad ogni modo è certo ed evidente che i primi movimenti del
bambino, appena nato, sono considerabili come “gesti di espressione”, in quanto ne esprimono i
bisogni primari in modo del tutto spontaneo ed istintivo. «L’efficacia del gesto in un mondo umano
passa innanzitutto attraverso il suo significato espressivo» (Le Boulch, 1971, p.104).
Sin dalla nascita il dialogo del bambino con il mondo si effettua mediante relazioni tonico-emotive.
Quando comincia a stabilire dei legami tra i suoi desideri e le circostanze esterne il bambino è in
grado di percepire i volti e di seguire con lo sguardo i movimenti ampi. In questo periodo egli non
ha ancora un’attività motoria volontaria e coordinata, l’espressione facciale e posturale è di tipo
emotivo e risulta essere una sorta di appello per richiamare l’attenzione degli adulti per il
soddisfacimento dei suoi bisogni.
Sul piano della motricità transitiva, il bambino comincia a maturare una certa coordinazione
motoria quando tende a interagire con l’ambiente, ad esempio nel prendere gli oggetti; riguardo
all’aspetto espressivo i suoi movimenti si connotano di valenza affettiva ed emotiva, ad esempio
sorride alle persone conosciute, dà loro le mani, ecc.
Intorno ai tre anni emerge il bisogno di affermarsi (Le Boulch, 1971). A partire da questa età il
bambino comincerà ad accettare l’esistenza significativa di persone esterne al proprio nucleo
familiare, a livello comunicativo e relazionale, creando un proprio “io sociale”. Gli scambi
relazionali con l’altro si susseguono nel tentativo di soddisfare il bisogno di equilibrio e di armonia
tra l’io e il mondo.
L’espressività motoria spontanea del bambino è supportata quindi dal bisogno di affermazione del
proprio “sé”. Tale espressione perde la sua spontaneità quando il bambino diventa cosciente
dell’effetto che la sua presenza e la sua azione produce negli altri. Ciò avviene intorno ai quattro
anni di età, detta “l’età commediante” (Le Boulch, 1971, p. 110), quando il suo movimento e i suoi
gesti assumono significato volontario, coordinato e finalizzato ad ottenere uno scopo; ne è da
esempio il gioco simbolico e di imitazione che il bambino compie a questa età.
In questo periodo della sua vita il bambino frequenta la scuola dell’infanzia e si vede coinvolto in
una serie di attività volte a facilitargli la naturale interiorizzazione e rappresentazione del proprio
corpo, fermo e in movimento, in modo completo e strutturato e a favorirgli l’acquisizione di
competenze di motricità fine e globale.
Il bambino, attraverso i giochi di movimento, impara a muoversi con destrezza nell’ambiente
circostante, controllando e coordinando sempre più il movimento degli arti liberamente e in base a
suoni, rumori, musiche e indicazioni dategli dall’insegnante.
L’animazione psicomotoria è alla base del gioco infantile ed è costituita da creatività gestuale. I
bambini, infatti, attraverso le espressioni motorie, da principio incerte e poi sempre più articolate e
coordinate, manifestano il proprio stato emotivo, contentezza o noia, allegria o tristezza, desiderio
di stare insieme agli altri o bisogno di stare per conto proprio.
Tali esperienze si connotano, dunque, di un carattere empatico e piacevole o piuttosto repressivo ed
ostile, influenzando enormemente l’atteggiamento corporeo, la gestualità e la naturale espressione
motoria del bambino. In contesti poco rassicuranti o in situazioni poco serene la naturale spinta
all’azione del bambino può essere compromessa al punto da insorgere dei veri e propri disturbi
espressivi di tipo comportamentale e/o linguistici. Ne sono esempi tipici: l’eccessiva compostezza,
stati di inibizione al gioco, apatia e inattività o, al contrario, aggressività e iperattività, balbuzie,
afasie, ecc. questi disturbi espressivi sono, spesso, frequenti nei bambini che utilizzano il proprio
corpo come mezzo espressivo di un loro disagio interiore. A confermare ciò si riporta il contributo
di Aucouturier (1992, in Nicolodi, 1992), il quale evidenzia lo stretto rapporto tra corpo e psiche
che, nel bambino, si esprime proprio nell’atteggiamento motorio. Egli dice che: «L’espressività
motoria del bambino rappresenta l’unicità tra psiche e soma ed è proprio su di essa che dovrebbero
fondarsi tutte quelle pratiche, educative o terapeutiche, che vengono definite “psicomotorie”»
(Nicolodi, G., 1992, p. XIII). Il bambino, infatti, attraverso la sua corporeità, oltre ad apprendere e
sperimentare la realtà esterna, manifesta la propria realtà interna, il proprio modo di essere, di
percepirsi e di percepire il mondo.
Dal punto di vista della relazione comunicativa la prima forma espressiva dell’uomo è costituita da
grida e vagiti con variazioni di tono; da questa spontanea produzione si passa pian, piano ad una
espressione comunicativa più chiara ed articolata, legata anche ad una mimica facciale e a gesti
appropriati e coerenti al contenuto del messaggio. La relazione “parola-gesto” è determinante per
l’espressione di un determinato concetto, in quanto ne esprime significato e coerenza rispetto anche
al contesto in cui la conversazione avviene. Nella relazione con gli adulti, il bambino non apprende
soltanto le caratteristiche del codice linguistico comunitaria ma assume anche i gesti socialmente
significativi ad esso legati.
Il corpo, nel contesto relazionale, assume un’importanza fondamentale nell’imporre la nostra
presenza all’interno di un gruppo. Con il corpo, infatti, si esprime il proprio accordo o disaccordo
rispetto la questione di cui si discute, si manifesta vicinanza fisica a chi suscita simpatia e viceversa
ci si allontana da chi produce antipatia. «L’espressione del corpo, soprattutto nelle sue
manifestazioni toniche, è la traduzione di un altro registro delle relazioni emozionali e affettive
profonde, siano esse coscienti o inconsce. Sia l’espressione tonica di ordine mimico, gestuale
oppure verbale, essa rappresenta un vero linguaggio affettivo […] che obbedisce ad ogni sorta di
criteri socio-culturali» (Le Boulch, 1971, p.113).
Espressione motoria ed espressione verbale trovano piena maturazione nella pratica comunicativa
linguistico-gestuale quando il bambino sviluppa una autentica forma di comunicazione intenzionale
con il suo contesto di appartenenza.

4.3 L’espressione tecnica


L’espressione tecnica rientra in quelle forme espressive di tipo pratico e manifesta la capacità
organizzativa, di esercizio del controllo e dell’ordine, di saper compiere scelte opportune in base a
criteri dati e agli obiettivi prefissati. Essa esprime, potremmo dire, la capacità lavorativa, intesa
come sintesi di una serie di abilità che la scuola promuove allorquando stimola i bambini a
perseverare nell’impegno personale fino a terminare un’attività o, comunque, a raggiungere un
obiettivo prefissato.
Lo sviluppo di tale espressione non è innato ma si conquista nel tempo, mano a mano che il
bambino matura un adeguato senso sociale e le diverse abilità del “fare”. Di certo è innato il
bisogno di relazionarsi ad altri ed è una condizione naturale nascere in un contesto sociale. La
socialità rappresenta una delle caratteristiche dell’essere umano che si presenta in forma complessa
in quanto costituita da più componenti di ordine cognitivo, affettivo ed emotivo.
Tale caratteristica è, per ogni individuo, il «risultato di una sua adesione ad una certa “cultura”»
(Petter, 1992, p.308). Quando un bambino comincia il suo percorso di vita e tende spontaneamente
verso tale forma di relazione con il sociale, agisce secondo regole istintive grazie ad un rapporto di
particolare intesa emotiva ed empatica con l’adulto di riferimento. In questo periodo della vita si
intrattengono relazioni solo con chi compiace e consente di poter soddisfare i bisogni primari. La
capacità di entrare in relazione con l’altro dipende, infatti, solo ed esclusivamente dal riscontro
emotivo che gli altri suscitano in noi e viceversa.
Intorno ai tre anni di età l’incidenza dell’adulto nella vita del bambino si fa sentire maggiormente
come “orientatrice” e “regolatrice” di certe abitudini comportamentali quali: l’igiene personale, il
controllo sfinterico, il riordinare, l’abbandonare comportamenti egocentrici, pericolosi e dannosi
(Petter, 1992); ma anche come “promotrice” del fare e dell’agire per perseguire uno scopo: prendere
un giocattolo, costruire una torre con le costruzioni, scarabocchiare un foglio, colorare un disegno,
imparare a pronunciare con chiarezza le parole, acquisire fluidità espressiva, cantare una canzone,
ecc.
Il bambino, pur manifestando grande entusiasmo di apprendimento, non si adatta di certo molto
facilmente né immediatamente alle nuove regole, piuttosto diviene molto più attivo nel senso che
«utilizza il suo corredo percettivo e cognitivo per elaborare i segnali e i messaggi che gli
pervengono, accettandoli, modificandoli o respingendoli e col suo comportamento modifica a sua
volta gli atteggiamenti e i comportamenti degli adulti» (Petter, 1992, p.312).
Quando il bambino frequenta la scuola dell’infanzia, vive pienamente questa fase dello sviluppo e,
inoltre, si trova a fronteggiare nuove situazioni relazionali e nuovi elementi caratterizzanti la
socialità. Anche se la scuola si basa essenzialmente sul rispetto della libertà e della spontaneità
personale, tuttavia deve necessariamente orientare verso l’assunzione di comportamenti corretti, atti
allo stare insieme ad altri, oltre che all’acquisizione di criteri e di tecniche di lavoro che possano
rendere il bambino sempre più abile.
La spontaneità nel fare, che caratterizzava i primi anni di vita del bambino, viene, dunque,
incanalata verso un duplice obiettivo: acquisire regole di condotta per stare bene con se stessi e con
gli altri; acquisire modalità e tecniche di lavoro specifiche, conoscenza dei vari strumenti di lavoro e
del loro possibile impiego e sviluppo di abilità nella produzione di vario materiale. Tutto ciò non è
semplice da ottenere. Il bambino, non abituato a stare in un grande gruppo di coetanei, tenderà a
mettere in atto delle resistenze, ma pian piano, mediante l’esercizio di semplici regole di vita
quotidiana e di gioco, conquisterà coscienza di ciò. Ne saranno indicatori espressivi una serie di
comportamenti di ordine etico e tecnico che il bambino comincerà ad attuare come, ad esempio, lo
scambio del materiale da lavoro o di gioco con gli altri compagni, il riordinare il materiale dopo
averlo utilizzato, il rispettare le regole condivise come lo stare in silenzio quando altri parlano,
chiedere di andare al bagno, ecc.
Dal punto di vista proprio dell’espressione tecnica è possibile osservare il grado di maturità degli
alunni in situazioni di lavoro individuale o di gruppo. È interessante, al riguardo, osservare il loro
comportamento di fronte ad una consegna di lavoro, annotando: le modalità organizzative, la scelta
dei materiali, la capacità di seguire le indicazioni date, il rispetto dei tempi stabiliti, l’impegno e la
soddisfazione manifesta alla realizzazione del proprio lavoro. Tutti questi sono indici importanti che
denotano una maturità cognitiva ed espressiva nei confronti di se stessi, degli altri e del proprio
lavoro.
L’esercizio delle regole che limitano l’agire spontaneo ma incanalano il bambino verso obiettivi di
“buona condotta” genera capacità di controllo personale e delle circostanze, prudenza nell’agire,
rispetto verso il proprio lavoro e quello altrui, gioia nel fare, inoltre, sviluppa precisione e affina le
capacità di: analisi, confronto, ordine, classificazione, valutazione e risoluzione dei problemi.
Dal punto di vista della verifica degli obiettivi educativi, attraverso l’espressione tecnica è possibile
individuare la maturità del bambino rispetto a tutte le funzioni messe in gioco nell’apprendimento e
quindi è possibile valutarne l’avvenuta acquisizione della competenza espressiva.
L’espressione tecnica, inoltre, nel momento in cui si manifesta fortifica la formazione del criterio
personale e la capacità di valutare situazioni concrete e di adeguarne sforzo e impegno, esercitando,
come si dirà nel paragrafo successivo, una forte influenza positiva sull’educazione morale.

4.4 L’espressione etica


Si è già evidenziata la relazione tra l’opera tecnica dell’uomo e la rilevanza etica che essa assume
nel momento in cui le viene attribuito uno scopo positivo orientato al bene; tale è l’aspetto morale
implicito dell’educazione al fare e a perseguire il bene.
Questa cornice definisce lo sfondo comune della vita sociale e di quella morale cui l’uomo è
chiamato sin dal primo istante della sua vita. L’uomo, infatti, nasce già membro di un gruppo
sociale ed entra inevitabilmente in un gioco di rapporti con altri; ciò gli favorisce l’assunzione delle
regole o norme sociali e morali del gruppo di appartenenza.
Così come si è notato nello sviluppo della socialità, anche lo sviluppo morale segue determinate fasi
caratterizzate da continui scambi emotivi tra l’interiorità del soggetto e l’ambiente esterno.
L’acquisizione delle norme, regolatrici dell’azione, non ha un carattere puramente tecnico ma
richiama l’interiorizzazione personale di valori. L’espressione etica è pertanto espressione integrale
della persona, infatti, consta di tutto il bagaglio esperenziale del soggetto, sotto il profilo cognitivo,
affettivo, emotivo e relazionale. Quando si parla di morale, infatti, si fa riferimento ad una morale
teoretica, costituita dall’«insieme di conoscenze e convinzioni che sono presenti in un individuo, in
funzione soprattutto degli insegnamenti ricevuti» (Petter, 1992, p.326), ed un comportamento
morale concreto relativo più che altro alle decisioni che la persona prende di fatto in situazioni
conflittuali.
Lo sviluppo morale comincia a realizzarsi presto, quando il neonato compie le prime esperienze di
comportamenti ripetuti con una certa regolarità, ad esempio: la regolarità del cibo e del sonno,
indossare prima la biancheria intimi a poi i pantaloni e la camicia, e così via. Queste esperienze
vissute con regolarità consentono al bambino di sviluppare la concezione dell’ordine temporale
entro il quale collocare ogni evento.
Nella scuola si persegue tale obiettivo nel compiere determinati “format” comportamentali, ossia
routine che scandiscono il tempo di lavoro e l’intera giornata scolastica.
La presa di coscienza della regolarità non riguarda soltanto la nozione del tempo che scorre bensì
l’acquisizione di comportamenti indotti o spontanei conformi a delle determinate regole. Sebbene le
ragioni che stanno alla base della norma sfuggano alla coscienza del bambino, attraverso
l’attuazione di esse nel gioco, ad esempio, il bambino le interiorizza e ciò concorre naturalmente al
suo sviluppo morale.
La regola è fondamentale poiché innanzitutto stabilisce una condizione di parità tra i componenti
del gruppo classe e, inoltre, conferisce ordine e serietà all’azione compiuta e all’attività da svolgere.
La maturità della vita morale del bambino si manifesta nell’espressione etica, ossia nell’agire
secondo un criterio personale di scelta rettamente formato, utilizzando tutti i criteri morali
interiorizzati.
Il riflesso morale di ogni attività intellettuale ed espressiva si traduce in una espressione personale,
quella etica appunto, che non si riduce però alle semplici funzioni relazionali e sociali e le loro
relative abilità (anche se proprio esse ne costituiscono il punto di avvio per lo sviluppo delle virtù
morali), piuttosto si manifesta nella capacità di percepire un “sé” e di porlo a confronto con il “sé”
altrui, la capacità di accettare le critiche, di affermare le proprie idee, di ascoltare gli altri, di
decentrarsi, di riconoscere e discernere le proprie emozioni, di conversare e di cooperare rispettando
gli altri e le regole condivise.
Parte II

Linee metodologiche per la promozione della competenza espressiva


Fin ora si è cercato di identificare un possibile modello di competenza; si è evidenziando come
all’interno del concetto “competenza” entrino in gioco elementi quali capacità e conoscenze che,
correlati tra loro, dovrebbero consentire l’organizzazione di risposte risolutive a determinati
problemi in contesti diversi. Conoscenze e abilità, insieme alle risorse personali dei soggetti, si
integrano in una rete operativa determinata e organizzata che prende il nome di “attività”. L’attività
educativo-didattica nasce e si concretizza in un determinato contesto, le cui caratteristiche
determinano la “situazione educativa”, che risulta essere particolarmente condizionante l’intero
approccio didattico, in termini di scelte organizzative relative a forme e modalità di intervento.
Poiché «una competenza si definisce, […], sempre in relazione ad una categoria di situazioni»
(Maccario, 2006, p.123), appare evidente la necessità di costruire contesti finalizzati e situazione
opportunamente strutturate per realizzare un insegnamento capace di stimolare competenze.
Bisogna, pertanto, riflettere su come possa essere appresa una determinata competenza da parte
degli alunni, quali condizioni creare per favorire l’apprendimento che conduce all’acquisizione di
essa, quali sono gli oggetti culturali di cui l’alunno necessita di avere conoscenza per maturare un
significativo apprendimento e quindi acquisire la competenza cui mira l’intervento educativo.
A questi quesiti non è facile dare una risposta definita; essi, infatti, più che risposte richiedono
ulteriori approfondimenti e aprono nuovi scenari problematici di carattere educativo. «Non è facile,
[…], trovare modelli esplicativi così comprensivi e, nel contempo, sufficientemente operativi da
orientare l’insegnamento scolastico. Possiamo dire che non esiste, attualmente, un modello in grado
di rendere conto di tutti gli aspetti che entrano nell’esperienza formativa che un allievo vive a
scuola» (Maccario, 2006, p.125).
In questo capitolo si cercherà di offrire spunti di riflessione su strategie e proposte metodologiche
che possono risultare efficaci nella promozione della competenza espressiva, in cui l’alunno risulta
parte attiva della costruzione del proprio apprendere nel “fare esperienza di sé”; sfondo comune in
cui operare è il “laboratorio”, quale «luogo-spazio mentale di apprendimento nella direzione della
mediazione didattica (tra istanze di ricerca mono-pluri-transdisciplinari) e della trasformazione (dei
saperi disciplinari, dei ruoli agiti da docenti e da studenti)» (Perla, 2005, in La Marca, 2005, p.93).
Saranno quindi presentate alcune metodologie di apprendimento, da intendersi come itinerari
possibili, per promuovere lo sviluppo di abilità espressive e acquisire la relativa competenza: la
narrazione, il disegno, il gioco, la drammatizzazione.

1 Costruire l’apprendimento
L’apprendimento, in ambito cognitivista-costruttivista è spiegato mediante una metafora, attraverso
la quale l’'immagine del soggetto in apprendimento è rappresentato come un attivo costruttore della
propria conoscenza.
Il cognitivismo, infatti, pone l’accento sul patrimonio personale di risorse cognitive che ogni
persona possiede, in termini di conoscenze e di capacità di elaborazione delle stesse; sulla base di
questa prospettiva è possibile affermare che l’acquisizione di conoscenza ha un carattere
costruttivo. Apprendere non è mai un semplice immagazzinamento di svariate informazione,
piuttosto si tratta di un processo di costruzione tra esperienze e conoscenze che via, via si
acquisiscono nel corso della vita; pertanto il ruolo del soggetto che apprende è necessariamente
attivo e questo spiega la centralità dell’attività personale di chi apprende nel rapporto
insegnamento-apprendimento, particolarmente evidenziata nel panorama educativo negli ultimi
decenni. Attenzionare la persona prende dunque il significato di prendersi cura di come ogni
soggetto organizzi e strutturi gli stimoli esterni trasformandoli in rapporto a se stesso, la propria
struttura personale, al contesto di riferimento, alle esperienze pregresse. «In prospettiva cognitivista,
il discente è attivo costruttore delle proprie conoscenze nel senso che queste ultime vengono
costruite attraverso un processo di elaborazione attiva degli stimoli esterni. Il concetto di attività
conoscitiva può essere inteso soprattutto come ricezione, selezione e trattamento delle informazioni
esterne al soggetto, che può essere più propriamente definito, secondo lo studioso canadese,
ricettore attivo d’informazioni» (Maccario, 2006, p.131).
Secondo la prospettiva costruttivista, invece, il processo di costruzione di conoscenza, più che
basarsi sull’attività di elaborazione attiva degli stimoli provenienti dall’esterno, risulterebbe essere
un vero e proprio processo di recupero, revisione e riaggiustamento delle conoscenze.
In una prospettiva di integrazione, tra interpretazione cognitiva e costruttivista dell’apprendimento,
Maccario (2006, p.132), propone di «considerare l’apprendimento come un processo consistente
nell’attività riflessiva che il soggetto sviluppa sul proprio patrimonio conoscitivo sollecitato dagli
stimoli provenienti dall’esterno».
In base a questa interpretazione, l’apprendimento coinciderebbe con la creazione di una “realtà
soggettiva”, in quanto realizzata attraverso le strutture conoscitive dei soggetti. Pertanto gli stimoli
provenienti dall’esterno risulterebbero efficaci ai fine dell’apprendimento solo quando il soggetto si
trova nella possibilità di manipolarli ed elaborarli mediante la propria azione, le proprie operazioni
mentali e le proprie strutture di conoscenza, che, così utilizzate, troverebbero occasione di sviluppo
ed evoluzione.
All’interno della cornice costruttivista, offre un notevole contributo, al riguardo, l’epistemologia
piagetiana, che vede nel rapporto tra assimilazione e accomodamento il fondamentale dinamismo
dell’apprendimento. Secondo Piaget (1974) l’azione compiuta dal soggetto in situazione di
apprendimento costituirebbe il principale fattore di sviluppo dell’apprendimento stesso: «La
conoscenza deriva dall’adattamento delle conoscenze del discente alle situazioni con le quali egli si
confronta nel proprio ambiente. Questo adattamento si realizza grazie alle combinazioni dei
processi di assimilazione e di accomodamento attraverso i quali il discente rivede le vecchie
conoscenze, le adatta o le ricostruisce integrando gli ostacoli della nuova situazione con la quale si
confronta» (Jonnahert, 2002, in Maccario, 2006, p. 259).
In quanto creatore di nuove conoscenze, il soggetto diviene, dunque, il “regista” del proprio
apprendimento. In tale direzione, alla base dell’apprendimento stanno, in un rapporto di
interdipendenza, esperienza e ragione, oggetto di apprendimento e soggetto che apprende, per cui il
soggetto non può costruirsi una rappresentazione del mondo esterno se non attraverso le proprie
azioni e le proprie operazioni.
Il coinvolgimento attivo e partecipato del bambino al processo di apprendimento nasce nel
momento in cui il sapere a lui proposto è visto in modo interessante e ciò avviene quando lo
coinvolge sia intellettualmente che fisicamente. Il bambino, infatti, ha bisogno di esperire in prima
persona e con tutti i sensi l’oggetto di conoscenza perché diventi realmente appreso. L’esperienza,
d’altra parte implica già, per sua natura, il provare, il toccare, l’odorare, il gustare, il sentire, ecc.,
dunque un vero e proprio coinvolgimento sensoriale, razionale ed emotivo della persona nella
realtà.
La scuola più d’ogni altra istituzione educativa deve offrirsi quale luogo privilegiato del “fare
esperienze”, offrendo occasioni diverse di scoperta di sé, degli altri e del mondo.
L’attivazione del conoscere e dell’agire, diventa in tal senso, nel contesto scolastico, ciò che fa
scaturire il “gusto” dell’apprendimento personale in quanto conferisce all’azione compiuta dal
soggetto che apprende un continuo, e sempre più consapevole, esercizio della propria libertà di
pensiero e di azione, una maggiore conoscenza e controllo di sé, la maturazione di competenze
necessarie per la risoluzione di problemi di diversa natura che, prima o poi il soggetto è chiamato ad
affrontare.

2. La didattica laboratoriale
In didattica il concetto teorico di “esperienza” si traduce in quello pratico di “laboratorio”, luogo
preposto allo svolgimento di attività impegnative a carattere sperimentale.
Il soggetto che è in situazione di apprendimento, nel laboratorio, ha la possibilità di costruire la
propria conoscenza attraverso l’impiego totale di sé, sia a livello cognitivo che fisico, e questo
comporta un apprendimento costruttivo per la vita; infatti, una conoscenza, quando è vissuta
interamente dalla persona, viene appresa per sempre.
Negli Orientamenti per la scuola materna del 1991, il laboratorio veniva presentato tra le modalità
organizzative dell’ambiente educativo come «condizione necessaria per basare l’apprendimento
sulla ricerca e per dare un largo posto alle attività di produzione» (Rubagotti, 1991, p.281). Esso
però assumeva la struttura di un ambiente preposto ad attività specifiche per il cui svolgimento
necessitavano mezzi, spazi, materiali e strumenti diversi da quelli utilizzati comunemente durante le
abituali attività didattiche svolte in sezione / classe. Il laboratorio, pertanto, si presentava quale
luogo specializzato che, affiancando gli ambienti delle aule, veniva utilizzato per allietare le ora
scolastiche dei bambini e renderle meno monotone. Ogni insegnante avrebbe potuto usufruire
dell’ambiente laboratoriale in base alle attività che avrebbe voluto far svolgere ai propri alunni:
artistiche, pittoriche, musicali, psicomotorie, ecc.
Oggi si hanno nuove linee di metodo per la progettazione dei laboratori didattici ma, soprattutto, si
è assunto un nuovo criterio di pensare al laboratorio.
La Riforma del 2004 ha, infatti, proposto un modello formale relativi alla struttura e alle funzioni
del laboratorio presentato quale «luogo-spazio mentale di apprendimento nella direzione della
mediazione didattica (tra istanze di ricerca mono-pluri-transdisciplinari) e della trasformazione (dei
saperi disciplinari, dei ruoli agiti da docenti e da studenti ecc.)» (Perla, 2005, in La Marca, 2005,
p.93).
Se in passato il laboratorio era considerato il luogo attrezzato in cui produrre cultura attraverso la
metodologia della ricerca ed era utilizzato sulla base della competenza dell’insegnante, oggi, oltre a
mantenere le sue caratteristiche specifiche è ufficialmente introdotto nei documenti della Riforma
del 2004 come modalità per lo sviluppo e l’arricchimento delle competenze.
Tenendo presente che centro dell’interesse educativo è la persona e la sua crescita, nella
realizzazione dei laboratori non possono non confluire tutte le peculiarità che fanno di ogni
intervento didattico un grande “contenitore conoscitivo ed emozionale”. In tale direzione, infatti, il
saper fare nel laboratorio si configura come sapere complesso che coinvolge emozioni, volizioni,
relazioni, significati da mediare in competenze.
Il laboratorio supera l’ottica dell’esercizio del fare come semplice agire, ma converte l’esperienza
concreta in un intreccio armonico e dinamico di svariate realtà, nelle quali il bambino,
sperimentandosi con il proprio agire, acquisisce conoscenza di sé e del mondo, matura la propria
identità e acquisisce competenze (Ferroni 2004).
La competenza, come più volte sottolineato, non si riduce ad un passaggio addizionale di
conoscenze, né all’esercizio attività a carattere motorio o espressivo, essa coniuga «sapere e azione,
ideazione e realizzazione, valorizzando il nesso mente-mano ed esprimendo quelle capacità
procedurali della mente che rientrano nella categoria del fare “complesso”: il saper porre domande,
il saper fare collegamenti logici, il saper elaborare discorsi argomentati, il saper scrivere e così via»
(Perla, 2005, in La Marca, 2005, p.97 ).
Un altro aspetto estremamente importante è costituito dal processo di interazione tra pari e di
rapporto di reciprocità e di scambio nonché di comunicazione, verbale e non-verbale, che il
laboratorio determina. In esso, infatti, prendono parte intere scolaresche o, comunque, gruppi di
alunni, che insieme svolgono determinate attività, poiché condividono uno o più scopi.
Questo è un aspetto molto importante poiché lavorare insieme, condividere interessi, scopi,
materiali, spazi, svolgere insieme delle attività in cui necessità aprirsi all’altro, crea un “gruppo di
lavoro” che è qualcosa di ben diverso dallo “stare insieme” in gruppo. Nel gruppo di lavoro, infatti,
si sviluppa il “sentimento di appartenenza” che «si correla alle più profonde dinamiche individuali
(anche inconsce) e contribuisce a determinare l'identità personale degli allievi (identità che si
esprime, come è noto, anche attraverso la formazione del sentimento di ruolo ovvero di
“appartenenza” a un determinato gruppo)» (Perla, 2005, in La Marca, 2005, p.98).
Per la gestione del gruppo in attività laboratoriali possono essere individuate quattro direzioni di
investimento: la prima consistente nell’individuazione delle regole quale “base normativa” del
gruppo; la seconda riguardante l’aumento degli spazi e dei tempi per il confronto e il dialogo tra i
membri del gruppo, in modo che tutti possano esprimere liberamente le proprie opinioni, emozioni,
vissuti, senza paura del giudizio altrui; la terza riguardante la messa in atto di attività stimolanti il
carattere riflessivo-emozionale; e l’ultima direzione riguardante l’ascolto attivo tra i membri del
gruppo-classe. Quest’ultima direzione assume in sé le altre, infatti attraverso un ascolto attivo si
stabiliscono rapporti di appartenenza, di reciprocità, di unione empatica, ma perché questo avvenga,
l’insegnante non deve solo possedere una buona competenza professionale ma anche umana,
affinché essere modello di vero interesse verso l’altro (Ferroni, 2004). Nell’ascoltare gli altri
occorre, infatti, «una reale volontà di capire quello che dicono e di assumere il loro punto di
osservazione sul mondo» (Perla, 2005, in La Marca, 2005, p. 99) di comprendere chi sono. In tal
senso il lavoro di gruppo è assai utile non solo per creare reciprocità, ma anche per giungere a
produrre un “punto di vista originale sulle cose” che sia espressione del singolo e del gruppo in
quanto comprende e, allo stesso tempo supera, le individualità.
Da quanto detto emerge la visione di una “didattica laboratoriale” con alunni che pensano e
agiscono, che si approcciano alla scoperta dei primi saperi costruendoli insieme all’insegnante e agli
altri compagni. Una didattica, questa, che suscita il bisogno del fare, il desiderio di agire, di dare
visibilità oggettiva alle produzioni dei bambini, ponendoli protagonisti dal “fare”, costruttori del
“sapere” attraverso il proprio “essere”.

3. Strategie, metodi ed itinerari per lo sviluppo espressivo


«In una educazione personalizzata l’alunno è una persona capace di utilizzare tutte le capacità
mentali e pratiche nelle quali rientrano tutte le forme dì espressione» (García Hoz, 2005, p.93). È
opportuno ricordare che sono possibili diverse forme di espressione, anche se nella pratica didattica
ci si occupa più della dimensione intellettuale dell’educazione, lasciando alla forma espressiva
verbale il primato su tutte le altre.
Anche quando il bambino si impegna in attività di tipo pratico la forma espressiva manifesta viene
comunque condizionata dalla richiesta dell’insegnante, perdendo la sua naturale connotazione
creativa ed originale, in quanto propria della persona.
Accade spesso nelle scuole, purtroppo, che dopo aver eseguito un’attività di pittura su superficie o
carta, un bambino di tre, quattro o cinque anni di età dica ciò che ha fatto cercando di soddisfare la
richiesta dell’adulto per ottenerne gratificazione e riscontro positivo. In realtà l’atto espressivo ha
importanza in quanto tale, ossia come prodotto realizzato da quella persona in quel determinato
contesto; l’aspetto valutativo del risultato non deve confondere il bambino rispetto all’importanza
che comunque assume il suo prodotto. Non è corretto definire un lavoro “fatto bene” o “fatto male”,
poiché il bambino finisce con l’identificarsi in esso e, di conseguenza, con attribuire quel giudizio
di merito alla sua persona.
Le riflessioni appena fatte ci portano a concludere che nella scuola il bambino deve esercitare
“liberamente” la propria capacità espressiva mediante ogni genere di attività pratica; ciò perché, se
da una parte è bene esercitare forme di espressione più adatte alla vita intellettuale del bambino,
dall’altra parte, è necessario che egli sperimenti ogni genere di forma espressiva della natura umana
(che già possiede potenzialmente) in quanto rivelatrice di un certo modo di vivere.
Inoltre, poiché tutti i bambini sono capaci di stabilire relazioni spontanee che determinano la
formazione dei gruppi e danno origine a una certa organizzazione, seppure informale, è opportuno
mettere in atto strategie educative che consentono di sviluppare coesione e partecipazione attiva del
gruppo, avendo, ad esempio, un obiettivo comune come: attività pittoriche per realizzare un murales
o delle scenografie, giochi di gruppo, realizzazione di un prodotto teatrale.
Per realizzare ciò occorre però saper gestire il grande gruppo. Tenendo conto che il soggetto è
l’elemento principale dell’azione educativa e che scopo primario è il suo apprendimento, necessita
un’organizzazione attenta ad ogni persona: occorre quindi offrire opportunità di espressione ad ogni
singolo alunno in modo che ciascuno abbia il suo spazio per ascoltare, per confrontarsi, per agire,
per creare.
È possibile creare diverse situazioni di apprendimento: ogni alunno può lavorare in collaborazione
con gli altri o contando unicamente sulle proprie forze, ciò dipenderà dalla situazione che gli si
propone.
García Hoz (2005) individua quattro situazioni di apprendimento in funzione del modo di
raggruppare gli alunni: gruppo grande: espositivo; gruppo medio: colloquiale; gruppo piccolo:
lavoro cooperativo; soggetto isolato: lavoro individuale. Egli insite sulla stretta relazione che esiste
tra una modalità di lavoro e le altre e dice che l’efficacia di ogni forma dipende, in gran parte, dalla
programmazione delle attività che devono seguire un unico obiettivo educativo, un unico tema di
fondo in modo tale da non essere attività tra loro slegate, bensì legate in modo tale da completarsi
reciprocamente.
La collaborazione con gli altri, insegnanti e compagni, si può realizzare in gradi diversi, attraverso
la comunicazione, nella quale l’alunno è stimolato da diverse fonti (uditive nel caso dell’ascolto di
testi, visive nel caso della visione di una videocassetta, orali nel caso della spiegazione
dell’insegnante, ecc.) ma ha perlopiù un ruolo semplicemente recettivo. Questo tipo di
comunicazione si può stabilire in un gruppo numeroso di alunni. Quando la comunicazione diventa
reciproca, quando cioè chi espone genera un confronto dialogico, si realizza un colloquio; in questo
caso ognuno è fonte di stimolo per l’altro e la comunicazione può attuarsi solo verbalmente.
Con il piccolo gruppo, invece, è possibile creare un’altra situazione di apprendimento: quella del
lavoro collettivo.
D’altra parte, non si può dimenticare il valore educativo del lavoro individuale, ossia delle
situazioni di apprendimento nelle quali il bambino conta solo su sé stesso. La capacità di apprendere
e le abitudini di lavoro hanno bisogno di potersi esercitare anche senza la presenza fisica del
maestro o dei compagni, ciò consente al bambino di trovare in se stesso le risorse necessarie per la
soluzione dei problemi, superando paure e incertezze e sviluppando così sicurezza nelle sue
capacità.
Per quanto attiene ai metodi di insegnamento e alle strategie didattiche, che particolarmente
stimolano l’espressione creativa del bambino nella scuola dell’infanzia, ci sembra opportuno
evidenziare l’importanza della narrazione, del disegno, del gioco e della drammatizzazione, poiché
ognuna di esse risponde alle necessità e ai bisogni cognitivi, affettivi e relazionali del bambino di
età prescolare offrendogli adeguati stimoli e possibilità di sviluppo dei diversi linguaggi espressivi e
delle sue potenzialità personali che concorrono all’acquisizione della competenza espressiva.

3.1 La narrazione
Narrare storie, eventi, episodi del passato è una delle attività più antiche e radicate nella cultura
dell’uomo. Organizzare l’esperienza in forma narrativa sembra sia un atto spontaneo che accomuna
uomini di diverse epoche e culture, tuttavia, tale abilità non è innata ma si sviluppa e prende forma
mediante l’approccio che sin da bambino, l’uomo fa del testo narrato. Infatti, l’esperienza della
narrazione risulta formativa e preziosa anche a livello affettivo-emotivo sia per chi ascolta che per
chi legge. Ascoltando la narrazione eseguita da altri il bambino impara a formulare un proprio
pensiero narrativo che, pian, piano diventa sempre più organizzato e definito. Il bambino sin dai
primi anni di vita manifesta un vero e proprio bisogno di storie che l’adulto ha il compito di
soddisfare nel modo più consono. Da queste esperienze, infatti, si sviluppano molte abilità di tipo
espressivo linguistico, rappresentativo iconico, immaginative ed anche affettive e relazionali.
L’attività narrativa è un’esperienza fondamentale per lo sviluppo armonico del bambino; sin dalla
prima infanzia, infatti, i bambini vivono le loro esperienze sociali in forma di racconto, ascoltando
quotidianamente la ricostruzione di eventi e le discussioni da parte degli adulti. Man, mano che il
bambino cresce, queste forme “spontanee” di racconto si arricchiscono con l’esperienza di
narrazioni più complesse.
Insieme al gioco, la narrazione può essere considerata fra le prime espressioni del pensiero
simbolico del bambino, in quanto, rappresenta la modalità del pensiero con cui si utilizza
“qualcosa” per significare “qualcos’altro”.
L’attività simbolica si manifesta in epoca precoce. Sin da neonato, infatti, il bambino attribuisce un
significato simbolico ad un oggetto reale (si pensi alla suzione del pollice richiamando l’idea del
seno materno). Tale attività sembra avere diverse funzioni: se da un lato, infatti, gli psicologi
cognitivi la considerano un’attività conoscitiva finalizzata alla comprensione della realtà, dall’altro
gli psicologi psicoanalitici la considerano una modalità per dare forma ai vissuti emotivi interni e
comunicarli all’esterno.
La capacità immaginativa del bambino, che sta alla base della fantasia e della creatività, si
manifesterebbe proprio nelle attività simboliche (gioco di finzione e invenzione di storie) che,
pertanto, dovrebbero essere incoraggiate sin dall’età infantile.
Una delle attività che consentono di alimentare l’immaginario infantile è proprio l’ascolto di storie.
Così come il gioco simbolico, infatti, anche la narrazione di eventi e/o storie, rappresenta per il
bambino il tentativo di dare un senso all’esperienza, sebbene attraverso modalità diverse. Se nel
gioco di finzione il bambino rappresenta, drammatizzandole, situazioni di vita reale o fantastica, in
cui i giocatori assumono un ruolo differente da quello reale e si inseriscono all’interno di una
cornice ludica formata da spazi e oggetti che assumono un significato diverso da quello reale, nel
momento in cui il bambino ascolta il racconto di un evento, o di una storia non fa altro che creare
una cornice all’interno della quale inserisce i personaggi e i loro comportamenti, utilizzando il
linguaggio verbale come simbolo, a differenza di quanto avviene nel gioco dove ciò è reso
dall’azione.
Tra i tre e i cinque anni di età, in modo particolare, si verifica un notevole sviluppo delle abilità
narrative, dovuta anche alla tendenza, da parte del bambino, di “trasgredire” le regole linguistiche
precedentemente apprese. In questi anni cresce anche l’interesse verso gli eventi inattesi e
“spettacolare”, ricercati dai bambini nelle storie da essi preferite.
Stern (1987) evidenzia come la comparsa del linguaggio sia per il bambino una tappa importante
nel processo di costruzione del proprio Sé. L’emergere del “senso di un Sé verbale”, secondo
Bondioli (1996), consente al bambino di costruire una rappresentazione diversa dal vissuto reale,
che gli permette di guardare a se stesso da prospettive diverse. Vygotskij (1934), in anni precedenti
alle ricerche di Stern, aveva attribuito molta importanza al linguaggio che il bambino rivolge a se
stesso, ritenendolo la prima manifestazione di ciò che diventerà linguaggio interiore.
Il bambino che frequenta la scuola dell’infanzia, si ritrova dentro un processo a duplice via: da una
parte si orienta verso l’organizzazione del mondo esterno svolta dal pensiero narrativo, dall’altra
verso l’organizzazione del mondo interno, relative al vissuto personale.
La funzione di organizzare il mondo esterno, svolta dal pensiero narrativo, è evidente nelle
narrazioni di azioni di routine (script). Essi sono rappresentazioni schematiche di eventi sociali che
vengono apprese precocemente e, sul piano narrativo, corrispondono al resoconto verbale della
sequenza delle azioni che caratterizzano una determinata situazione. La funzione di organizzazione
del mondo interiore, invece, è rintracciabile nelle pure precoci narrazioni di esperienze personali
che riguardano conoscenze più specifiche relative al vissuto personale. (Baumgartner e Devescovi,
2001). Le storie fantastiche, a tal proposito, assumerebbero un’importanza fondamentale
nell’acquisizione di conoscenze della realtà e nella ricostruzione dell’esperienza vissuta dal
bambino. Già intorno ai 4 anni appare nel bambino il tentativo di produrre racconti fantastici anche
se una vera e propria competenza di questo tipo richiede un processo di apprendimento molto lungo.

La narrazione di storie nell’infanzia


Fin dalla prima infanzia, generalmente, i bambini vivono l’esperienza dell’ascolto di storie, che
sono loro raccontate o lette ad alta voce da un adulto. I piccoli mostrano il più delle volte un grande
interesse nei confronti di questa attività, che sembra svolgere diverse e importanti funzioni
all’interno del loro processo di crescita.
La prima e, forse, più antica di queste è quella di rappresentare e trasmettere le condotte, gli
atteggiamenti e i valori diffusi in una determinata cultura. In passato, quando i testi scritti non erano
diffusi, il patrimonio culturale di interi popoli era affidato ai racconti orali, che conservavano la
memoria del popolo stesso, svolgendo un’importante funzione inculturativa. Questa stessa funzione
si è tramandata sino ai nostri giorni: quando un adulto racconta o legge una storia a un bambino gli
propone, infatti, sotto forma di evento esperienziale, i modelli e le norme di comportamento del
gruppo sociale di appartenenza, orientando così il suo modo di pensare e di agire. Questa attività,
quindi, diventa un canale attraverso cui il bambino acquisisce informazioni sul mondo che lo
circonda e sugli eventi della vita che gli permettono di sviluppare il senso di Sé, degli altri e delle
cose.
Un altro aspetto rilevante del racconto e della lettura di una storia riguarda la dimensione
comunicativa privilegiata che si costruisce tra bambino e adulto nel corso dell’attività narrativa. Si
tratta, infatti, di un momento in cui il bambino percepisce di avere totalmente le attenzioni
dell’adulto; è per ciò un momento che svolge un’importante funzione dal punto di vista affettivo-
relazionale, in quanto crea «un’occasione del tutto speciale di condivisione di emozioni e sentimenti
che giova all’intesa e alla sintonizzazione reciproche» (Cardarello, 1995, p.43).
Vivere le prime esperienze di approccio al testo scritto in un contesto pregnante dal punto di vista
affettivo, contribuisce anche ad alimentare quel “piacere” di leggere che sarà alla base della
motivazione alla lettura e allo studio negli anni succesivi.
Quanto esposto in precedenza non lascia alcun dubbio sull’importanza della promozione delle
esperienze di narrazione già a partire dall’età prescolare. A tal proposito Pontecorvo (1991) offre un
contributo rilevante sottolineando l’importanza che la narrazione nell’età prescolare riveste per lo
sviluppo del bambino a livello linguistico, a livello cognitivo e a livello emotivo, soprattutto se
condotta in contesti sociali significativi.
L’ascolto di racconti letti o narrati sembra esercitare, sin dalla prima infanzia, una positiva influenza
sullo sviluppo della competenza linguistica del bambino in quanto consente di stabilire un primo
contatto con il testo scritto che favorisce lo sviluppo e l’acquisizione delle abilità sottese alla lettura
e alla scrittura.
A livello cognitivo l’esposizione alla narrazione di storie produce effetti positivi in merito allo
sviluppo del pensiero narrativo: la fruizione di storie e racconti fornisce, infatti, ai bambini
l’occasione di sviluppare la “competenza narrativa passiva” che si manifesta quando il bambino
dimostra di comprendere il contenuto di quanto ha ascoltato. Al riguardo Stein e Glenn (1988)
riconoscendo la presenza di una serie di elementi costanti in ogni narrazione, hanno elaborato una
“grammatica” delle storie. Essi descrivono la struttura dei racconti come un alternarsi di stati
(eventi) che si susseguono, innescando delle relazioni, fino alla risoluzione della situazione. Una
storia semplice è costituita da un ambiente (stato) e un episodio (sequenza di eventi legati tra loro
da un rapporto causale). L’abitudine all’ascolto di testi narrativi consentirebbe al bambino, secondo
gli autori, di elaborare una propria conoscenza, omogenea alla “grammatica”, denominata
“schema”. Una volta acquisito lo “schema” durante l’ascolto della narrazione, esso diventa la
struttura portante sulla quale il bambino costruirà, successivamente la propria competenza narrativa
attiva che manifesterà nel momento in cui dimostra di essere in grado di inventare storie.
Per quanto concerne l’aspetto dello sviluppo emotivo ed affettivo, gli studiosi rilevano una forte
incidenza tra narrazione e vita emotiva. Corrao (1991) rivela come già Freud parlava di una
funzione terapeutica dell’attività narrativa riferendosi al ruolo giocato da quest’ultima nella
risoluzione di conflitti. Anche Bettelheim (1975) ha notato una correlazione tra i conflitti psichici
dei suoi pazienti e le fiabe che essi dichiaravano di preferire.
Secondo questo psicoanalista la tipologia maggiormente incidente sull’inconscio umano sono le
fiabe. Lo studioso descrive la vita interiore del bambino come estremamente caotica e agitata da
desideri e pulsioni che egli sente come inaccettabili. Il racconto fiabesco, ricorrendo alla fantasia,
offre una visione del mondo che richiama alla realtà ma in forma semplificata. Nella fiaba, infatti,
non ci sono possibilità di fraintendimenti: tutto è bianco o nero, buono o cattivo, bello o brutto,
giusto o sbagliato; i personaggi si distinguono tra loro in quanto tipici ed unici con caratteri, spesso,
opposti con lo scopo di far emergere le differenze per meglio essere comprese dal bambino.
Bettelheim (1975) pone enfasi sulle caratteristiche del protagonista, solitamente eroe buono, con cui
il piccolo tende a identificarsi in quanto è la figura maggiormente attraente poiché vincente e quindi
capace di imporsi, all’interno del racconto, come modello cui inspirarsi.
Mills e Crowley (1986) considerano le esperienze narrative delle vere e proprie “metafore
terapeutiche” in quanto offrono ai bambini la possibilità di entrare in contatto con le proprie
emozioni e di elaborarle in modo indolore. Secondo questi studiosi, infatti, durante il racconto, il
bambino ha la possibilità di sviluppare un senso di identificazione con i personaggi e gli eventi;
attraverso tale meccanismo di identificazione egli riesce a “creare un ponte” per collegare la
situazione narrativa alla propria vita reale, riuscendo così a superare il senso di isolamento che
avverte rispetto al proprio problema. Questa situazione rende il conflitto meno grave e, quindi, più
facile da affrontare.
Appare evidente, da quanto detto fin’ora, l’importanza della narrazione in ambito educativo.
Dopotutto sembra importante riflettere ulteriormente sull’incidenza che essa ha ai fini
dell’acquisizione della competenza espressiva da parte del bambino e su quali siano gli strumenti e
le modalità migliori per garantirne l’esercizio nella pratica didattica.

3.1 Narrazione ed espressione


L’ascolto di storie lette da un adulto esercita un’influenza notevole sullo sviluppo delle competenze
espressive e comunicative.
Le modalità attraverso cui il bambino esprime se stesso, sono molteplici, ma è possibile ricondurle a
due fondamentali tipologie: espressione verbale o simbolica (sia orale che scritta), che si serve della
parola, e espressione non verbale, che utilizza dei codici diversi da quello verbale.
L’ascolto di storie consente al bambino di familiarizzare con il linguaggio verbale, quindi di
acquisire competenze grammaticali, sintattiche e semantiche, e contribuisce a fare vivere esperienze
che sollecitano lo sviluppo di competenze legate all’espressività corporea attraverso attività di
drammatizzazione, mimo, danza, grafico-pittorica e plastico- manipolativa.
Pur nella loro specificità, le competenze che la lettura di storie promuove concorrono pertanto al
raggiungimento di importanti traguardi formativi.
La lettura si configura come uno strumento principe per il possesso e l’arricchimento dei mezzi
espressivi. Essa, infatti, incrementa il patrimonio lessicale degli allievi in modo più efficace rispetto
ad altri strumenti didattici. Più precisamente come sostiene Nobile (2004), nella sua veste di lettura
attiva, critica e selettiva, essa, da un lato, impedisce la cristallizzazione della lingua nell’uso
codificato, dall’altro assicura la conservazione, l’arricchimento e la diffusione di un patrimonio
lessicale fatto di espressioni, modi di dire, immagini, metafore, sfumature.
Inoltre l’esperienza affettiva e comunicativa del racconto orale della lettura ad alta voce da parte
degli adulti può contribuire alla formazione di una solida motivazione alla lettura, perché i bambini
possono istaurare un rapporto affettivo con la parola scritta e, avvicinandosi a un libro, possono
rievocare il contesto vissuto, ricco di valenze affettive e comunicative. Attraverso la lettura, il
bambino deve avere occasione di usare la propria fantasia per conoscere la realtà che lo circonda,
per anticipare attraverso l’immaginazione proprio quelle stesse qualità che non sono ancora
pienamente sviluppate in lui, ma che egli vorrebbe possedere. Durante la lettura, infatti, il lettore
ricrea e si rappresenta in piena libertà e senza alcun vincolo, le scene, le situazioni, i luoghi, gli
ambienti e i paesaggi in cui la vicenda narrativa è calata; parimenti, egli dà un volto ed una
fisionomia ai personaggi interpretando liberamente gli elementi e i dati descrittivi contenuti nel
testo. Gli Orientamenti per la scuola materna del 1991, le Indicazioni nazionali del 2004, così come
le Indicazioni per il curricolo del 2007, focalizzano l’attenzione sull’importanza dell’accostamento
precoce alla lettura ad alta voce di libri o altri scritti, riconoscendo a quest’attività un ruolo
fondamentale sia per la costruzione della competenza linguistica orale che per la promozione della
prima esplorazione della lingua scritta, creando le premesse per un positivo rapporto con i libri e
con la lettura.
La lettura ad alta voce, condotta da un adulto significativo per il bambino, rappresenta il primo
momento di un percorso scolastico il cui obiettivo si configura nella seguente espressione: formare
un “buon lettore”, un lettore cioè che sia in grado di penetrare il significato del testo, assumendo un
ruolo attivo che gli consenta di interpretare e argomentare, di interrogarsi e di problematizzare,
andando anche oltre il testo e sperimentando così il piacere di leggere.
Quella appena esposta è la premessa per consentire ai piccoli alunni di poter divenire dei “bravi
lettori”; il processo educativo che consente ciò è abbastanza complesso in quanto è definito da più
variabili interconnesse tra loro. Innanzitutto fare dei bambini dei lettori motivati ed abituati alla
lettura vuol dire principalmente saperli educare al “gusto della lettura”.
L’interesse per la lettura non va imposto ma contagiato attraverso l’esempio, l’entusiasmo, la gioia,
la soddisfazione per un’esperienza significativa e appagante, nella consapevolezza che la lettura è
un elemento imprescindibile per la crescita di una persona. Nobile (2004), riflettendo sulla relazione
che lega la formazione umana e la lettura, indica nei genitori e negli insegnanti i mediatori per
eccellenza tra i lettori e il libro.
L’insegnante che educa l’alunno a “saper leggere” deve porsi tra lettore e libro in modo autentico e
gratuito, deve essere in grado di guidare e incoraggiare, di far leggere e far cercare che cosa c’è “in”
e “oltre” le parole.
In tale direzione, il libro rappresenta una possibilità particolare di formare una mentalità analitica e
sequenziale, critica e creativa, logica e riflessiva; al libro va riconosciuta la sua connessione
privilegiata con lo strumento linguistico e l’attività cognitiva che esso stimola.
Inserita in una tale prospettiva anche la “prima alfabetizzazione” cui la scuola dell’infanzia deve
concorrere, abbandona il significato di “alfabetizzazione strumentale” per assumere quello di
“alfabetizzazione allargata”, calata da subito in una dimensione socio-comunicativa (Formisano,
1991).
Per la realizzazione di tale progetto, nella scuola dell’infanzia, è necessario porre una particolare
attenzione all’attuazione delle scelte organizzative, metodologiche e didattiche.

3.2 Per una efficace narrazione ai bambini


La predisposizione di spazi appositamente attrezzati e di appositi momenti dedicati all’attività di
lettura, da svolgere con i bambini all’interno delle ore scolastiche, costituisce una delle componenti
fondamentali del percorso di alfabetizzazione infantile, sin nella scuola dell’infanzia.
Sin dagli Orientamenti per la scuola materna del 1991 fino ad arrivare alle Indicazioni per il
curricolo (2007) si è data molta importanza alla predisposizione di ambienti preposti e attrezzati per
tale uso; il riferimento esplicita la creazione dell’“angolo della lettura” da creare dentro la sezione
e, laddove è possibile della “biblioteca scolastica”.
La necessità di allestire un “angolo per la lettura” in sezione è da intendersi quale spazio,
opportunamente arredato, finalizzato allo svolgimento di diverse attività: dalla lettura ad alta voce
dell’insegnante, alla consultazione autonoma dei testi, da soli, in coppia o in gruppo. Questo
ambiente dovrebbe essere strutturato in modo da consentire di ritagliare una dimensione “privata” e
confortevole, in cui il bambino abbia piacere di stare; per questo dovrebbe essere arredato con
morbidi cuscini, moquette o tappeti sul pavimento, e scaffali di grandezza adeguata affinché i
bambini possano prendere i libri e riporli a loro posto autonomamente.
Per quanto riguarda la biblioteca scolastica, la sua presenza e la possibilità di frequentarla assume
un’importante funzione di stimolo per la motivazione alla lettura e alla cultura del libro. Frontini
(1989) sottolinea come sia possibile, già nella scuola dell’infanzia, far sperimentare attivamente al
bambino il funzionamento della biblioteca, sollecitandolo a scegliere con autonomia i libri da
leggere e a rispettarli in quanto patrimonio comune. La studiosa suggerisce di dotare la biblioteca di
due schedari: una con i titoli dei testi, l’altra con le schede personali dei bambini, affinché sia
facilmente gestibile il meccanismo del prestito in autonomia da parte dei piccoli fruitori. Per far
acquisire al bambino il rispetto del testo, Frontini (1989) suggerisce anche di porre il libro dentro a
un sacchetto di stoffa personale, affinché si mantenga ben custodito e si riporti in biblioteca senza
essere maltrattato.
Oltre alla dimensione spaziale in cui leggere, occorre prestare attenzione ai tempi di lettura. La
dimensione temporale occupa una posizione tutt’altro che marginale nella vita infantile: assegnare
ad un’attività un tempo ben determinato, significa, infatti, per il bambino dare a tale attività
un’importanza fondamentale.
Frontini (1989) distingue i momenti della lettura spontanea da quelli della lettura programmata. La
lettura programmata solitamente è organizzata dall’insegnante per quanto attiene la scelta dei tempi
e del libro da leggere; la lettura spontanea va curata, invece, in tutti quei particolari che possono
attrarre il bambino e facilitarne la fruizione dei libri che devono essere facilmente comprensibili e
utilizzabili.
Le tipologie di libri da utilizzare sono diverse: per la lettura organizzata ci si orienta su testi
narrativi, fiabe, favole; per la lettura spontanea si prediligono i libri-gioco, gli albi illustrati e i
cartonati.4
Un aspetto che necessita un’adeguata attenzione riguarda gli stili di lettura. È opportuno precisare
che, in questo contesto, la parola “stile” assume il significato di “modalità di approccio al testo”.
Tale modalità risulta strettamente connessa alla personalità del lettore e fa riferimento sia ai
particolari paralinguistici adottati, ad esempio, dall’insegnante durante la lettura ad alta voce, sia
alle strategie messe in atto prima, durante e dopo l’attività per favorire la comprensione del testo.
Condiziona lo stile narrativo anche il rapporto adulto-bambino. Una realtà narrativa avviene tra
genitori e figli in ambiente familiare, un’altra realtà è sicuramente quella esistente in ambiente
scolastico quando a leggere è l’insegnante che si rivolge a un gruppo di alunni.

4
I libri per i piccoli sono classificati sulla base di criteri che consentono di orientarne la scelta sulla base di parametri
che ne distinguono caratteristiche e qualità di testo. I libri adatti alla fruizione dei bambini molto piccoli sono
caratterizzati da uno stretto rapporto “testo-immagine”; essi si distinguono in: cartonati, prendono il nome dal materiale
con cui sono realizzati, solitamente hanno forma regolare di quadrato o di rettangolo con angoli arrotondati per essere
sfogliati con facilità. Essi sono costituiti da immagini di oggetti animali, ambienti familiari e riguardano semplici storie.
I libri – gioco, sono libri utilizzati come giocattoli, nel senso che richiedono l’intervento attivo dei bambini; sono
realizzati con materiale diverso (carta, legno, stoffa, plastica, ecc,) e vanno esplorati attraverso i cinque sensi. Fanno
parte di questa tipologia i libri-animati che si caratterizzano dal fatto di subire delle trasformazioni azionando specifici
meccanismi (libri con buchi, leve, finestrelle, cordicelle, luci, ecc.)
Gli albi illustrati, considerati i più adatti per i bambini di età prescolare, hanno generalmente forma rettangolare e sono
realizzati per lo più con materiale plastico; ne esistono di diversi e la distinzione consiste principalmente rispetto al
testo: esistono quelli il cui testo è narrativo, con sole figure e con solo testo, più o meno esteso.
I libri di fiabe che si prestano particolarmente per il racconto ad alta voce da parte dell’adulto. Essi narrano di eventi
fantastici e meravigliosi, quasi soprannaturali, con un finale sempre lieto e riparatore del problema che intesse tutta la
trama.
Cardarello (1995) ha evidenziato tre modalità di interazione adulto-bambino durante la lettura:
quella che si istaura quando sia il lettore che l’ascoltatore guardano insieme le figure del testo,
quella quando l’adulto opera una ricostruzione verbale delle immagini e il bambino ascolta
osservando le figure, la situazione in cui la narrazione avviene senza il supporto delle figure.
Approfondendo questa problematica Cardarello (1995) evidenzia come le diverse modalità di
lettura possano essere ricondotte a due stili peculiari, definiti in dialogato e narrativo.
L’impiego dell’uno o dell’altro stile sembra essere condizionato dall’età del bambino, infatti, ai
bambini dai tre ai cinque anni di età, sembra che gli insegnanti tendano ad adottare un approccio
dialogato nella lettura dei testi, caratterizzato con frequenti interruzioni, da domande per verificare
la comprensione da parte dei bambini ed eventuali spiegazioni. Questi interventi costituiscono una
sorta di scaffolding (letteralmente “impalcatura”) che consente al bambino non soltanto di
comprendere il testo ma anche di affinare la propria competenza linguistica, espressiva e
comunicativa.
Lo stile narrativo, invece, sarebbe utilizzato con i bambini molto piccoli (sotto i due anni) in quanto
non ancora in grado di interagire con l’adulto in forma dialogica rispetto al testo ascoltato e con i
bambini di età superiore ai cinque anni, ritenuti capaci di seguire e comprendere la storia con una
certa autonomia. Questa modalità si caratterizza dalla totale assenza di interruzioni durante la
narrazione.
La scelta dei due approcci varia in base, dicevamo, all’età degli ascoltatori ma anche rispetto al
contesto di riferimento e all’obiettivo della narrazione. Martinez e Teale (1991) hanno condotto
uno studio sulle strategie di lettura che li ha portati a sostenere l’esistenza di almeno tre aspetti
condizionanti e determinanti lo “stile” di conduzione dell’attività di lettura; essi sono: il focus del
discorso dell’insegnante, il tipo di informazione che egli intende dare ai bambini e le strategie
utilizzate per organizzare e condurre l’interazione.
Il focus del discorso è costituito da ciò che l’insegnante vuol mettere in rilievo, ossia gli aspetti
determinanti della storia. Il tipo di informazione può essere, secondo gli autori, distinto in sei
tipologie: esplicite nel testo, esplicite nelle immagini, legate al background, inferenziali, finalizzate
a far compiere elaborazioni personali, relative all’attività di leggere la storia. Per quanto riguarda le
strategie per gestire l’interazione gli autori distinguono sette diverse categorie: invitare, dare
informazioni, riesaminare, ricapitolare, sollecitare una lettura e reagire al testo. Durante la lettura a
voce alta ogni insegnante può scegliere di privilegiare un particolare aspetto della storia, di
focalizzare la propria attenzione su un tipo di informazione e di utilizzare delle strategie
tralasciandone altre.
Tra le modalità privilegiate per far accrescere l’interesse e la comprensione del testo da parte dei
bambini erge sicuramente la lettura ad alta voce, cui si è fatto più volte riferimento. Essa
indubbiamente favorisce l’accostamento del bambino al testo scritto e va promossa a due livelli: un
primo, più superficiale, di comprensione letterale del significato oggettivo del testo (contenuto,
trama, personaggi); un secondo livello orientato, piuttosto verso una comprensione più
approfondita, finalizzata a comprendere la logica degli eventi e comprendere quindi il senso
profondo della storia.
Per raggiungere questo obiettivo necessita un’attenta e precisa preparazione della lettura a voce alta;
tale preparazione consta di diverse fasi cha prendono il via da una lettura attenta e ripetuta del testo
da parte dell’insegnante, per meglio conoscerlo e comprenderlo. Una prima lettura sarà finalizzata a
cogliere gli elementi principali della storia, il contenuto, i personaggi, gli ambienti, la struttura della
storia e il tono di essa. Le letture successive, invece, serviranno per individuare gli elementi che
possono trasmettere l’atmosfera della narrazione: dizione, tono, timbro, volume, intensità e
accentazione con cui pronunciare le parole. Una particolare attenzione deve essere data alle pause,
sia indicate dalla punteggiatura del testo, sia per creare patos: pause di respiro, silenzi più o meno
lunghi.
Infine è opportuno compiere una selezione a priori delle immagini da far vedere, delle parti da
rileggere sulla base delle scelte relative al focus del discorso, al tipo di informazione e alle strategie
da utilizzare (Blezza Picherle, 1996).
Un’ultima riflessione riguarda il “dopo-lettura”. L’esplorazione del testo, infatti, non può esaurirsi
con la lettura ad alta voce dell’adulto, per familiarizzare con il testo il bambino ha bisogno di
manipolare l’oggetto libro ma anche di “entrare in contatto” con il testo ascoltato. A tal fine e, con
lo scopo di utilizzare la narrazione lo sviluppo delle competenze espressive del bambino, è
opportuno prolungare l’esperienze della narrazione con attività di altro genere ma ad esse legate. Le
attività di “dopo-lettura”, come indica Blezza Picherle (1996), possono essere suddivise in due
gruppi: attività didattiche “sul o nel testo” e le attività didattiche “oltre il testo”.
Le prime «conducono il piccolo lettore ad entrare all’interno della storia […] al fine di
comprenderla e di interpretarla meglio» le seconde «portano fuori dal racconto e allontanano il
lettore dalla dimensione narrativa dello scritto» (Blezza Picherle, 1996, pp. 222-223), sviluppando
competenze anche in altri ambiti. La scelte delle attività da svolgere dipende dagli obiettivi che ci si
prefigge di raggiungere e, chiaramente, dal racconto letto: vi sono, infatti, storie che offrono spunti
per lo svolgimento di attività di esplorazione linguistica, altre che si prestano maggiormente per lo
svolgimento di attività sulla trama/struttura narrativa, altre ancora che favoriscono la conduzione di
attività sugli elementi narrativi ed altre, infine, che offrono spunti per realizzare esperienze
“espressivo-comunicative” come drammatizzazioni, attività musicali, grafico-pittoriche, ed anche
giochi di gruppo con utilizzo di materiale strutturato o semi-strutturato, giochi imitativi,
conversazioni guidate e attività espressive a carattere ludiforme.

3.2 Il disegno
Il disegno rappresenta il primo segno dello sviluppo intellettuale dell’uomo e dell’interesse estetico
fin dai popoli antichi. Il desiderio di disegnare è profondamente radicato bambino e si manifesta sin
da quando si sviluppano le prime abilità di coordinazione fino-motoria. Il disegno, inoltre, è uno dei
modi più tangibili di espressione e come tale può essere equiparato al discorso verbale. Il
linguaggio, infatti, nella sua modalità verbale, scritta e rappresentativa, rivela forme espressive
abbastanza diverse fra loro, ma con una stessa finalità: informare, comunicare e narrare.
Il bambino utilizza il disegno come mezzo complementare al linguaggio verbale, mediante il quale
mostra la sua personalità, le sue conoscenze, le sue emozioni e la sua creatività nel rielaborare le
esperienze vissute mostrando la capacità di combinarle fra loro al fine di costruire una nuova realtà,
rispondente alle sue esigenze e alla sua curiosità.
Disegnare inoltre costituisce un atto di fiducia verso l’altro, in quanto è un modo per farsi conoscere
e di rivelare anche gli aspetti più intimi e nascosti di noi stessi. I bambini lo fanno in modo naturale
e inconsapevole e per questo motivo le loro produzioni risultano ricche di messaggi. Per questo
motivo l’attività grafica si presenta come un ottimo strumento per seguire l’evoluzione dello
sviluppo del bambino sotto il profilo emotivo, intellettivo, percettivo e creativo.
L’attività grafica assume per il bambino una duplice funzione: è uno dei mezzi che egli utilizza per
analizzare, descrivere e narrare gli esseri e le cose e, allo stesso tempo, è espressione della sua vita
emotiva. Disegnando, infatti, il bambino esprime liberamente i propri stati d’animo e le proprie
sensazioni insieme a sentimenti e impulsi profondi; pertanto i disegni dei bambini rivelano tratti
peculiari della loro personalità.
Da questo punto di vista il disegno infantile è considerato dagli psicologi una tipica manifestazione
della personalità individuale, l’espressione globale dell’io, la più autentica e personale espressione
infantile. Attraverso il disegno il bambino umanizza le cose del mondo e gli avvenimenti che lo
colpiscono, individualizza le une e gli altri dando contenuto e tonalità legati alla sua effettiva
esperienza. Con il disegno il fanciullo comunica anche il piacere della conoscenza, il desiderio di
raggiungere il mondo esterno e di raccontare le proprie esperienze. La realtà nella sua obiettività
non è determinante, la riproduzione è un fatto interiore, il concretizzarsi di un sentimento o di una
emozione. Pur ricorrendo ad elementi del mondo esterno, il bambino manifesta, attraverso il
disegno, il desiderio di riprodurre la realtà così come è, infatti, come mette in luce Morino Abbele
(1970) egli caratterizza i propri disegni con numerosi dettagli osservati. Per questo si può dire che
non vi è mai niente di errato in un disegno infantile, esso è riprodotto così come è pensato, come la
realtà è vissuta e sentita interiormente.
«L’affettività ha nel disegno infantile un posto determinante ma non al punto da fare del bambino
un essere incapace di pensiero problematico, di movimento logico e di cosciente inserimento nella
realtà. L’affettività è importante sia per la struttura delle attività infantili sia per le loro particolare
motivazioni» (De Bartolomeis, 1968, p. 189). Tra la rappresentazione e la percezione vi è, quindi,
un medium rappresentato dalla personalità. Esiste un elemento soggettivo che sta fra stimolo e
risposta. Il bambino disegna con tutta la personalità, e tale personalità è espressa nel tratto,
nell’utilizzazione dello spazio, nell’omissione della composizione, nella scelta dei colori e nei temi
dei disegni liberi.
Come ricorda Lowenfeld (1984) l’attività del disegno dà una forma artistica ai propri pensieri e
sentimenti e per questo motivo è estremamente gratificante a qualsiasi età. Attraverso essa il
bambino utilizza diversi elementi delle sue esperienze allo scopo di dar vita ad un insieme nuovo e
significativo. Alla stregua di un artista, il bambino assorbe, attraverso i sensi, un’enorme quantità di
informazioni, le integra alla propria struttura psicologica e dispone in forma nuova quegli elementi
che, di volta in volta, ne appagano i bisogni; egli quindi, mediante l’espressione rappresentativa
grafica offre una parte di sé, rivela ciò che pensa, come vede e come sente.
È una capacità che l’adulto spesso, ha perduto perché ha imparato a nascondersi dietro la
convenzionalità e la ripetizione stereotipa dei comportamenti socialmente accettabili. Laddove
predominano gli stereotipi, vengono a mancare del tutto la creatività e la fantasia, o anche il
semplice ragionamento equilibrato. Soltanto l’artista mantiene l’immediatezza e la spontaneità del
bambino, perché non accetta l’uniformità dell’espressione.

Il disegno come atto creativo


Fin dalla prima infanzia, si possono riscontrare nei bambini dei processi creativi, che trovano nelle
attività infantili la loro primissima espressione. Certamente nelle attività che svolgono i bambini
riproducono cose che hanno già visto; queste attività sono considerate l’eco di quanto il bambino ha
visto e udito dagli adulti. Nonostante ciò, molti degli elementi dell’esperienza non vengono mai
riprodotti in forma assolutamente uguale a quella in cui si erano presentati nella realtà. Secondo
Vygotskij (1972), la ricchezza degli stimoli che vengono dalla vita vissuta, l’insieme delle
esperienze, la capacità di gestire i rapporti con i propri simili e con l’ambiente circostante, quella di
elaborare i dati acquisiti dissociandoli, decontestualizzandoli, decodificandoli, per poi combinarle in
modo nuovo ed autonomo, insieme alla padronanza dei mezzi espressivi e delle tecniche e la
motivazione a comunicare, sono i principali terreni su cui si può esplicare un opera di formazione
che tende al rafforzamento delle capacità creative.
Secondo Lowenfeld (1984) lo sviluppo creativo inizia il giorno stesso in cui il bambino inizia a
scarabocchiare. Nel fare ciò egli inventa le sue forme ed esprime qualcosa che è unicamente suo.
Per essere creativo il bambino non ha bisogno di possedere delle qualità specifiche, poiché in ogni
forma di creazione si esprimono i vari livelli di libertà emotiva: libertà di esplorare, di sperimentare,
di aderire emotivamente.
«Questa libertà è presente sia nella scelta del soggetto che nell’uso dei materiali. Non si tratta
ovviamente di un processo semplice, lo sviluppo della capacità creativa è essenziale, poiché le
creazioni del bambino riflettono il grado del suo sviluppo creativo, sia per quanto riguarda il
disegno in sé, sia per quanto riguarda il processo che rende possibile le forme artistiche»
(Lowenfeld e Brittan, 1984, p.83).
Nella scuola le esperienze artistiche sono state considerate sempre il fondamento di ogni attività di
tipo creativo. Secondo questa logica l’attività artistica non dovrebbe essere imposta ma aver luogo
come un’intima esigenza spirituale. Essa, infatti, in quanto espressione creativa, è intesa come una
vera e propria manifestazione di sé, divenendo mezzo per dare espressione a sentimenti, pensieri, ed
emozioni di un soggetto in un certo livello del sviluppo.
Poiché vi è un enorme soddisfazione nell’esprimere artisticamente i propri sentimenti e le proprie
emozioni, sviluppare nel bambino la capacità di creare un prodotto servendosi delle abilità che
possiede, senza utilizzare un modello prestabilito e soprattutto senza aspettare che la soddisfazione
gli provenga dall’esterno, provoca al bambino un forte piacere e un crescente interesse e impiego di
energie.
Ma la creatività non si sviluppa da sé, essa ha bisogno di essere incentivata in un ambiente
particolare e trova facile sviluppo attraverso l’esperienza del disegno.
L’educazione alla creatività presuppone un’organizzazione che riempie di significato qualsiasi
azione anche la più insensata. È necessario che il disegno sia utilizzato come strumento di
ripensamento e di manifestazione di fatti reali, di autentica elaborazione creativa.
Lo studioso Bruner (1968, p.48) sottolinea che «la creatività nasce da riordinamento di fatti evidenti
e da una riorganizzazione di quei fatti verso una nuova intuizione. La creatività ha un suo carattere
distintivo o caratteristica essenziale in un atto che produce una “sorpresa produttiva” che ci dirige al
di là dei modi comuni di sperimentare il mondo».
È importante che il bambino capisca come sia interessante e divertente riflettere insieme sulle
esperienze compiute con il disegno e le parole. Uno dei compiti più difficili per l’insegnante è
quello di fornire al bambino strumenti socialmente accettabili con i quali possa usare o essere
invogliato ad utilizzare le proprie capacità creative. Probabilmente il momento cruciale della
stimolazione del momento creativo si ha quando il bambino è all’inizio del suo processo di
scolarizzazione e qui che si stabilizzano le proprie attitudini. La scuola si presenta come un luogo
divertente dove il contenuto individuale è valutato e dove i cambiamenti sono avviati e desiderati.
Bisogna dare al bambino la possibilità di creare con le esperienze e le conoscenze di cui dispone.
«La creatività non è un fatto casuale, ma fa parte di un processo di apprendimento in cui sono
coinvolti parecchi fattori; ne sono un esempio: la struttura fisica della stanza, i materiali, l’atmosfera
psicologica la quale risulta spesso la più importante. Un altro fattore di rilievo è costituito dal valore
sociale; ma non meno importante è la personalità del bambino, infatti, l’atteggiamento che ognuno
assume verso se stesso ed il valore che attribuisce alle proprie attività si ripercuotono nel processo
creativo. Il modo migliore di concepire la creatività consiste probabilmente nel considerarlo come
un processo creativo» (Lowenfield e Britten, 1984, pp.88-89).
Secondo Anello (2001) «la creatività necessita di estrinsecarsi in qualcosa di osservabile, in un
prodotto della creazione. Inoltre, deve rappresentare un’espressione nuova: Espressione in quanto
qualsiasi atto o prodotto creativo è una manifestazione profonda della persona, un modo di
esprimere il suo essere, di raccontarsi, di relazionarsi, Nuova perché altrimenti non realizzerebbe
creatività ma imitazione, e la novità deriva dalle qualità originali ed irripetibili del1’individuo»
(Anello, 2001, p.100).
Quindi la creatività espressiva non deve essere considerata solamente la realizzazione di un bel
disegno, ma anche creazione in piena autonomia di rapporti sociali più gratificanti e soddisfazione
dei bisogni più autentici dell’uomo.
La psicologia da all’attività creativa il nome di immaginazione o fantasia, che emerge quando si
verifica il bisogno di creare elementi nuovi partendo da dati vecchi e rappresentare l’invisibile con
il visibile. L’immaginazione è qualcosa che non si accorda con la realtà delle cose, proprio per
questo è il fondamento di ogni attività creativa e si manifesta in tutti gli aspetti della vita culturale,
rendendo possibile la creatività artistica, scientifica e tecnica.
Per Vygotskij (1972) la creatività non appartiene soltanto al genio e al talentato, ma a ciascun uomo
che sia in una situazione problematica. Il bisogno che ogni individuo ha di adattarsi all’ambiente
circostante è il primo fattore della creatività. «Se la vita non ci ponesse alcun problema, se le nostre
reazioni ci tenessero in perfetto equilibrio con l’ambiente, allora e solo ora non vi sarebbero le
condizioni perché l’attività creativa insorga» (Vygotskij, 1972, p.11).
La creatività esiste laddove c’è un uomo che immagina, combina, modifica e realizza qualcosa di
nuovo; essa è la capacità artistica di trasferirsi facilmente da un tipo di pensiero ad un altro, di venir
a capo di idee inconsuete, praticamente una persona originale, flessibile e fluida; caratteristiche,
quest’ultime, proprie del pensiero divergente.
In riferimento ad esse Anello (2001) riflette su quanto Guilford osserva rispetto al concetto di
“pensiero convergente” e “pensiero divergente”. «Il pensiero convergente tende a produrre un
risultato unico e chiaramente predeterminato dal compito e dagli elementi informativi che vengono
dati, cioè procede verso una risposta e delle soluzioni limitate. Il pensiero divergente si presenta più
aperto a soluzioni e prodotti diversi, mette in moto alcuni fattori dell’intelligenza che ruolo più
creativo, come la flessibilità intellettuale (capacità di cambiare il punto di vista o il procedimento
adottato), la fluidità (capacità di produrre più di un risultato), l’originalità (la capacità di produrre
conclusioni o soluzioni nuove), l’associazione libera» (Anello, 2001, p.102).
La capacità divergente costituisce la capacità di trovare svariate soluzioni per uno stesso problema,
di esprimere o interpretare un’informazione in modi diversi; di concepire idee nel contempo nuove
e valide, di creare e immaginare, scoprire e inventare.
La creatività che è presente in ogni bambino esige un insegnamento sensibile e immaginativo per
manifestarsi energicamente.

Lo sviluppo del disegno infantile


II disegno, si diceva, è la principale forma creativa dell’uomo nella prima infanzia. Esso è una
modalità espressiva molto gradita ai bambini che, sin da piccoli iniziano a prendere confidenza con
carta, matite e colori e, con il passare del tempo, il disegnare diventerà per molti di loro una delle
attività preferite, a scuola come nel tempo libero. L’attività della rappresentazione grafica, infatti,
produce un piacere intrinseco che prescinde dal prodotto finale; la motivazione principale risiede
nella soddisfazione che si prova nel produrre graficamente idee, interessi ed esperienze.
Il bambino, se è stimolato a produrre, preferisce comunicare attraverso il disegno perché risponde
con più immediatezza al suo bisogno di esternare la sua esperienza del mondo, privo di
condizionamenti socio-culturali. Solo successivamente egli migliorerà questo mezzo comunicativo
in modo tale da renderlo comprensibile ad altri.
Secondo la studiosa Morino Abbele (1970), il disegno infantile è capace di esprimere larga parte del
mondo del bambino; esso offre una testimonianza della dimensione evolutiva del bambino in
quanto ne rivela i bisogni, i desideri, i timori, il suo adattamento all’ambiente nella ricerca di
esperienza e di conoscenza, inoltre gli consente di sentirsi “creatore” della realtà che elabora in
maniera personale e originale.
Lo sviluppo del bambino è un continuo di crescita ed anche la sua capacità espressiva si sviluppa in
modo graduale. Soltanto per utilità nello studio e nell’analisi del disegno, gli studiosi ne
rintracciano alcune tappe, intese quali stati evolutivi. Ogni stadio è la risultante del processo
precedente e la base di partenza per il successivo; inoltre le caratteristiche più evidenti di una fase
devono essere considerate come dominanti ma attorniate da altre meno esplicitate, le quali sono
comunque indispensabili.
Nell’evoluzione del disegno si possono distinguere alcuni stadi:
- scarabocchio e ideazione (2-4 anni): stadio nel quale il bambino, ancora incapace di
coordinazione motoria, traccia linee senza forma su di un foglio (scarabocchio), alle quali
attribuisce ai 3 anni forme di rappresentazione, configuranti precise immagini (ideazione);
- stadio schematico (4-5 anni): in questo stadio, giacché il bambino confonde le proprie emozioni
con la rappresentazione mentali, il disegno è rappresentato come una deformazione della realtà
(animiamo, simbolismo, magismo, egocentrismo, artifìcialismo e sincretismo);
- schematismo mentale (6-8 anni): in tale stadio la rappresentazione della realtà, nel disegno diventa
realistica; il fanciullo raffigura quello che conosce, seguendo lo schema del pensiero operazionale
(realismo descrittivo e pensiero reversibile);
- realismo visivo (9-11 anni): in questo stadio il fanciullo, osservando la realtà circostante, cerca di
aggiungere, iniziando la ricerca della prospettiva, nuovi dettagli a quello che sta raffigurando;
- stadio del volume e della plasticità (12-13 anni): è lo stadio in cui il ragazzo ha la piena
consapevolezza per quello che intende esprimere attraverso il disegno.
Nei primi anni di vita del bambino, ciò che colpisce maggiormente è il suo inesauribile bisogno di
fare esperienze attraverso il movimento; egli è assolutamente coinvolto dal suo continuo desiderio
di compiere delle azioni e quindi svolge attività grafiche e manipolative.
«Il piccolo sarà stupito dalla linea lasciata dalla punta della matita, ma anche entusiasmato dal
piacere provato nell’eseguire il movimento lento che ha prodotto il segno. Più in là l’attività
istintiva del bambino si sfuma per lasciare emergere una timida intenzionalità. Il bambino sarà in
grado di coordinare meglio le sue capacità visive con quelle motorie, e quindi saprà orientare con
più scaltrezza il suo movimento per produrre segni» (Quaglia e Saglione, 1979, pp. 37–38).
Questa fase è definita dello scarabocchio controllato, ed è la fase in cui il bambino non fa altro che
produrre linee orizzontali e circolari; tali produzioni vengono considerati arte infantile auto-
espressa.
Un esempio può essere il disegno della figura umana, inizialmente si avrà solo la forma rotonda
della testa e due appendici che rappresentano le gambe, solo dopo si troveranno gli altri elementi
che troveranno la giusta collocazione. Nel periodo dello scarabocchio il colore verrà utilizzato in
maniera personale e soggettiva, ciò che ha importanza per il bambino è soddisfare il proprio
piacere. Per tutto il periodo in cui domina l’egocentrismo, il bambino disegna non curandosi
dell’ordine e della logica delle cose, obbedendo alla propria sequenza interna, quindi alle proprie
sensazioni. Facilmente in questo periodo si possono vedere oggetti con proporzioni sbagliate o con
relazioni bizzarre, ma ciò indica l’importanza e l’interesse che sente il bambino per una determinata
situazione o cosa o persona.
Secondo Lowenfeld e Brittain (1984, p. 83) «il disegno, in questo periodo, è come una fotografia
dell’investimento emotivo e affettivo del bambino, del suo modo di vedere la realtà, che non
coincide con la realtà oggettiva. Il disegno è come una finestra che permette sia di guardarsi dentro
sia di guardare fuori e comprenderne il significato». In questa prospettiva si possono interpretare
diversamente le omissioni, le dimenticanze, le ripetizioni e le esagerazioni che sempre
accompagnano le produzioni dei bambini. Il disegno è strettamente legato alla maturazione
affettiva, intellettiva, sociale del bambino.
Secondo Morino Abbele (1970) il bambino crescendo esce dal suo egocentrismo e inizia ad essere
interessato anche al mondo naturale. Da questo momento egli tenderà a elaborare dei nuovi segni
adeguati alla sua rappresentazione mentale delle cose. Con l’assimilazione di nuove abilità si
determina il rinforzarsi della relazione tra i1 colore e l’oggetto, la rappresentazione dello spazio
svela nuovi rapporti di consapevolezza circa l’ambiente che lo circonda.
Successivamente si ha la fase della complessità: il bambino diventa abile a raggruppare,
categorizzare e ordinare secondo categorie logiche riflettendo queste elaborazioni mentali nelle
rappresentazioni grafiche con semplicità e spontaneità.
Quando il bambino giunge ad una maturazione percettiva, scompaiono le esagerazioni e le
deformazioni con le quali egli esprimeva il suo vissuto, il disegno si fa ricco di particolari e di
immagini reali.
«II passaggio da uno stadio all’altro si osserva quando il fanciullo è capace di stabilire un
equilibrato rapporto tra il suo intimo modo di percepire la realtà e la riproduzione grafica capace di
rappresentare esattamente ed obiettivamente le cose e gli avvenimenti. Ogni volta che si
intrometterà un elemento affettivo ed emotivo, questo equilibrio si spezzerà perché il fanciullo sarà
tendenzialmente portato ad esprimersi più in funzione della sua emozione che dell’oggetto della
riproduzione» (Bombi e Pinto, 2000, p.10).
Seguire le varie fasi di sviluppo del disegno infantile permette di conoscere la crescita e la
maturazione del bambino, aiuta a comprendere la sua personalità e la sua vita emotiva e il suo modo
d’interagire con l’ambiente circostante.

La carica espressiva del disegno


Come abbiamo più volte evidenziato, il disegno è per il bambino il mezzo di espressione
privilegiato che riflette la sua mentalità e la sua immaginazione. Nel disegno egli proietta se stesso
manifestando il proprio bagaglio conoscitivo culturale che gli deriva dall’esperienza dell’ambiente e
dal proprio temperamento.
Il bambino che disegna trasporta sul foglio segni e simboli espressivi del suo mondo interiore che
vanno saputi interpretare. Il risvolto interpretativo del disegno è tuttavia un aspetto che interessa
soltanto l’adulto, il bambino è piuttosto interessato all’aspetto esteriore del prodotto.
In linee generali, una prima identificazione del disegno la si compie nel distinguere i disegni
razionali, nei quali si riscontra una prevalenza del disegno sul colore, un uso attento dello spazio, la
ricerca dell’equilibrio, un tratto preciso, meticolosità, mancanza di dinamismo, dai disegni
sensoriali, nei quali traspare tanta dinamicità e si ha un uso soggettivo del colore, della linea e
l’invadenza dello spazio.
In riferimento a tale distinzione Rolando, Bonanseca e Missaglia (1982) delineano una chiara
definizione del disegnatore: l’estrovertito è colui che trasporta nella sua opera le sue emozioni e si
immedesima in essa dando anima al proprio disegno; l’introvertito è colui che mantiene un distacco
tra il prodotto e se stesso per cui nei suoi disegni viene a mancare quella immediatezza espositiva
ma, allo stesso tempo, riesce a conferire ai suoi prodotti un aspetto più ricercato, distaccato,
equilibrato e oggettivo.
L’interpretazione del disegno pur mantenendo alcune regole generali e fondamentali, legate al
simbolismo universale, si differenzia da età a età. Il bambino, già allo stadio dello scarabocchio,
presenta un suo stile grafico derivante da un organizzazione particolare di schemi motori e visivi e
caratterizzato dalla prevalenza di modi diversi di tracciare e i disporre le linee, iniziando così a
delineare il proprio stile; egli riconosce il proprio disegno per la presenza in esso di un elemento
personale. Lo stile di un soggetto è indubbiamente dato da caratteristiche formali dei tracciati e
delle forme, tuttavia la strutturazione del tutto è determinata dagli stati emotivi che conferiscono
alla produzione grafica un valore espressivo indipendentemente dalle intenzionalità di
comunicazione o rappresentazione del soggetto.
La linea, come spiegano Quaglia e Saglione (1979), indipendentemente dal contenuto, ha una forte
carica espressiva. Essa possiede una vitalità propria che contribuisce alla dinamica e alla
strutturazione della forma. Una linea può essere tracciata in modi: spessa, fine, a spirale, continua,
aggraziata e cosi via. Per esempio, le linee del sole disegnate da un bambino, possono esprimere
stati d’animo, come tristezza, depressione, gioia, capriccio, sicurezza. Esiste quindi, un’espressione
immediata attraverso la linea che rappresenta stati emotivi e mentali, consci e inconsci, nonché tratti
della personalità di chi disegna.
Vi sono alcune semplici regole d’interpretazione valide sia per tracciati dei disegni che per la
scrittura: il benessere arrotonda i movimenti e i rispettivi tracciati; la vitalità si esprime in segni
ricchi e abbondanti verso l’alto; il malessere comprime; l’aggressività esaspera, spezza,
determinando punte e svolazzi; la sensibilità affina e diversifica i movimenti dando al tratto un
piacevole chiaroscuro.
In generale: l’intensità del tratto e la forza sono indicativi sia dell’energia del soggetto che dello
stato emotivo al momento nell’esecuzione del disegno; una linea incerta, a tratti caratterizza un
soggetto poco maturo e incerto che vive stati di tensione emotiva con maggiore frequenza rispetto
ad altri bambini; una linea leggera rappresenta un carattere sensibile, per cui ogni stimolo è motivo
di crescita e di sollecitazione; un tratto scorrevole rivela una personalità librata che vive i rapporti
sociali con capacità di adattamento e serenità; il ritornare sullo stesso punto e il continuo cancellare
indica la presenza di ansia e timore; un tratto iniziato con forza e subito portato a termine indica un
soggetto di brevi entusiasmi, di facile stancabilità che ha bisogno di rassicurazioni ed ha una
tendenza alla distrazione; tratto pesante è proprio di quella personalità che affronta le esperienze
con grinta e determinatezza. Una delle principali funzioni della linea nel disegno, inoltre, è quella
del contorno: quando i contorni si presentano molto rigidi esprimono ostilità e repressione, spesso
nevrosi o comunque eccesso di controllo (Luquet, 1993).
Insieme alla linea è bene considerare lo spazio. La disposizione del disegno segue una legge
interpretativa, definita simbolismo spaziale, che assegna ad ogni zona del foglio, inteso come
spazio-ambiente, un significato specifico e preciso. La zona inferiore indica la materialità, quella
media la realtà e l’attualità, quello superiore indica tutto ciò che investe il pensiero. La parte di
sinistra indica il passato, quella centrale il presente, quella di destra indica il futuro.
È importante che il bambino abbia la possibilità di gestire lo spazio rappresentato dal foglio. Se
vengono dati fogli piccoli, chi disegna viene costretto entro confini limitati e anche quando avrà
fogli più grandi tenderà a limitarsi in aree minori.
Così un foglio troppo grande può dare un senso di smarrimento, specialmente se i soggetti sono
molto piccoli; quindi, è necessario che avvenga una discreta familiarizzazione tra il bambino e il
suo spazio, prima di interpretare attraverso esso il suo temperamento.
«La scelta di collocare il disegno nelle varie zone del foglio, dipende oltre che dalle caratteristiche
psicologiche, anche dall’età e dal particolare stato emotivo che il bambino sta vivendo in quel
momento. In genere, i bambini che fanno disegni ben distribuiti sul foglio sono i più sereni. La
tendenza ad uscire dai bordi del foglio è una caratteristica sia dei più piccoli, i quali non posseggono
un controllo motorio, sia dei più grandi specialmente quelli carenti nella sfera affettiva, che hanno
scarsa fiducia in sé stessi e sono molto dipendenti dall'ambiente, mostrando così un'eccessiva
ricerca di attenzione» (Oliviero Ferraris, 1978, pp.81-82).
Rolando, Bonanseca e Missaglia (1982) riferiscono che il bambino disegna in una porzione del
foglio che ha in possesso, sia che esso sia grande sia che esso sia piccolo. La preferenza per la parte
superiore del foglio può indicare un carattere entusiasta e facilmente soggetto a dei mutamenti;
mentre chi privilegia la parte bassa denuncia generalmente maggior stabilità di carattere, precisione,
poca facilità a lasciarsi andare agli entusiasmi. Lo spostamento verso sinistra, inoltre, rivelerebbe
uno spirito malinconico, sfiduciato ed introverso, a meno che il bambino non sia mancino; il tendere
verso destra, invece, sarebbe indice di un carattere aperto, estroverso e fiducioso nel futuro. Quei
bambini che collocano il disegno esattamente al centro, in genere sono molto centrati su loro stessi
e su i propri sentimenti.
Per riuscire ad impostare correttamente l’interpretazione di una rappresentazione, sia complessa sia
semplice, è necessario che l’adulto osservi il bambino mentre disegna, e abbini all’osservazione dei
simboli grafici l’illustrazione verbale che il bambino fa dell’oggetto del suo disegno.
Assumere come elemento di studio del carattere i colori presuppone che il bambino possa usarli
liberamente e che non sia stato spinto verso delle scelte. Oggi vi è maggiore libertà espressiva
aderente di più agli stati emotivi e soggettivi. Solo grazie a questa libertà si possono cogliere
elementi utili a conoscere il soggetto che disegna, poiché non è tanto la realtà ma l’immaginazione e
l’affettività che ispirano la scelta del colore.
La scelta del colore ha un significato psicologico incontestabile se l’interpretazione psicologica dei
risultati viene svolta in funzione dell’età psicologica.
Esiste, infatti, un parallelismo tra enfasi ed emotività. Soprattutto i piccolissimi, dai tre ai sei anni,
hanno per il colore un forte interesse, in quanto ne fanno uso personale senza preoccuparsi
dell'aderenza alla realtà. L’interesse per il colore diminuisce man mano che aumenta quello per la
forma.
Nell’età in cui si frequenta la scuola dell’infanzia la maggioranza dei bambini preferisce colori
intensi e caldi come l’arancione, il rosso e il giallo e ciò è sinonimo di vivacità e d’impulsività,
gioia di vivere, al limite dell’eccitazione; mentre i bambini più critici e controllati scelgono a questa
età colori freddi come il verde, il blu e il violetto e in tal caso, si tratta di bambini che hanno
problemi emotivi, tendenti alla tristezza, alla riflessione, alla malinconia e alla chiusura emotiva.
Possiamo aggiungere che i soggetti bene adattati usano in media cinque colori diversi nei loro
disegni; al contrario gli introversi, coloro che non amano avere rapporti con l’esterno si limitano ad
usare pochissimi colori (Oliviero Ferraris, 1978).
Vi sono fasi della crescita del bambino in cui egli non si preoccupa di associare i colori ai propri
disegni secondo le caratteristiche reali dell’oggetto disegnato, poiché il suo piacere sta nell’attività
di coordinazione motoria. I colori, oltre a divertire il bambino svolgono una funzione di stimolo
all’esplorazione e all’attività.
Ma il vero interesse inizia con i primi tentativi di rappresentazione. Solo intorno agli otto anni di
età, il bambino inizia a coglier le varie relazioni fra i colori e i diversi oggetti.
L’insegnante deve lasciar libero il bambino di portare a termine i propri lavori senza alcuna
interferenza, scegliendo liberamente i colori da usare, poiché in questa discrepanza tra il tatto
dell’adulto ed il modo in cui il bambino esprime se stesso si generano la maggior parte delle
difficoltà che impediscono ai bambini di servirsi dell’arte come mezzo espressivo.

3.3 Il gioco
Nel corso del tempo, diverse scuole di pensiero (cognitivista, psicoanalitica, comportamentale, ecc.)
si sono impegnate ad analizzare il gioco infantile definendone alcuni aspetti peculiari: esso è stato
considerato “mezzo” mediante il quale il bambino compie una costruzione del proprio sé, identifica
regole sociali, scopre le proprietà di diversi oggetti e materiali, attraversa propri vissuti consci ed
inconsci.
L’attività ludica, intesa come «attività in cui il bambini è protagonista pressoché esclusivo della
propria attività, in quanto sceglie da sé quando, come e per quanto tempo giocare, ed in tal modo
esprime e gestisce autonomamente se stesso» (Romano,2000, p.97), è da sempre ritenuta l’attività
privilegiata per fini educativi e didattici della scuola dell’infanzia, perché in essa convergono
molteplici aspetti dello sviluppo individuale: psicomotorio, psico-sociale, cognitivo, affettivo ed
emotivo.
Nel gioco il bambino ha la possibilità di ampliare le sue conoscenze, di sviluppare notevoli abilità e
di convergere tutte le sue energie e spinte vitali in un “contesto” protetto che lo rende libero di
agire. Inoltre, l’attività ludica è ritenuta una notevole risorsa educativa per l’apprendimento
scolastico e per lo sviluppo delle capacità di relazione.
Il gioco, infatti, le cui peculiarità consentono alla persona di fare esperienze sociali aperte e felici,
favorisce, l’interesse tra coetanei e integra il soggetto nelle condotte sociali desiderabili attraverso
sostanziali processi di autoeducazione; pertanto esso è strumento privilegiato per la socializzazione.
In modo particolare il gioco collettivo funge da ponte di passaggio tra l’asocialità e la socievolezza.
Il gioco assolve anche altre importanti funzioni sul versante relazionale intra e interpersonale:
svezzamento psicologico dalla famiglia con graduale autonomia dalle figure parentali, catarsi
rispetto a proprie ansie, paure e frustrazioni infantili, apprendimento della realtà in un’ottica di
correzione della visione del mondo esterno egoistica e narcisistica. Attraverso il gioco e, in modo
particolare, il gioco cooperativo, è possibile aiutare i bambini a sviluppare empatia e fiducia
nell’altro, esprimendo se stessi autenticamente.
Tutti i tipi di gioco, da quello simbolico a quello di squadre, di gruppo, ecc. hanno un aspetto che li
accomuna: consentono al giocatore di esprimere se stesso in libertà e in pienezza, poiché il contesto
di riferimento delimita lo spazio ludico estraniandolo dal resto del contesto e ciò dà sicurezza e
protezione.
Gli insegnanti dovrebbero conoscere e padroneggiare la metodologia ludica anche perché,
attraverso il gioco è possibile osservare i comportamenti spontanei dei bambini, spesso diversificati
in base al genere di appartenenza. Una corretta pratica educativo-didattica deve orientare il
personale stile cognitivo, rappresentativo e relazionale di ogni bambino e bambina mediante attività
ludiformi, con specifici percorsi di ricerca e di sperimentazione per maschietti e per femminucce,
differenza, da valorizzare sempre nell’ottica della promozione delle eccellenze personali.

Gioco ed espressione personale


Senza dubbio il gioco infantile è strettamente collegato con la fantasia, infatti il suo elemento
principale non appartiene al mondo reale, piuttosto a quello immaginario.
Nel gioco il bambino scarica le proprie tensioni e pulsioni emotive, tendendo inconsciamente a
riprodurre sentimenti e desideri intimi, orientando gli stimoli e quelle energie che altrimenti
rischiano di trasformarsi in situazioni difficili, generando conflitti. Da qui deriva l’importanza del
gioco quale strumento indispensabile di maturazione per affrontare la realtà, comprenderla e viverla
attivamente.
Da questo punto di vista il gioco è da considerarsi quale esperienza vitale fondamentale per la
crescita del bambino, senza la quale non potrebbe crescere e sviluppare l’affettività, l’emotività, la
socialità, la moralità e l’espressione.
Un esplicito riferimento al riguardo è rintracciabile già nel testo degli Orientamenti per la scuola
materna del 1991 dove si affermava che, ferma restando l’importanza del gioco in tutte le sue forme
ed espressioni, il gioco di finzione, di immaginazione e di identificazione rappresenta l’ambito
privilegiato in cui si sviluppa la capacità di trasformazione simbolica, essenziale per lo sviluppo
della competenza espressiva verbale e non verbale.
Il gioco simbolico, svolto in questa età, appare particolarmente significativo in quanto, attingendo
dagli studi della psicologia cognitivista sul gioco infantile, esso non è mai solo l’insieme di azioni il
cui fine è ciò che appare (il comportamento manifesto), bensì un “sintomo” della peculiarità della
mente infantile. Il gioco dunque, quale rappresentazione di desideri, o comunque di forze inconsce
che dominano sull’esperienza, è una espressione della realtà interna del bambino la cui
simbolizzazione avviene tramite l’uso di oggetti o l’azione diretta che dà visibilità al gioco, tanto da
divenire indagabile e analizzabile.
In prospettiva psicoanalitica autorevoli studiosi, tra i quali Freud (1923) e Winnicott (1971)
evidenziano il nesso tra i bisogni interni di tipo affettivo e il rapporto con gli oggetti da parte del
bambino. Essi sostengono che quando il bambino vive una condizione di deprivazione affettiva può
riversare su un determinato oggetto, ad esempio l’orsacchiotto di peluche (oggetto transizionale) le
cure e le attenzioni di cui avverte la mancanza, diversamente può manifestare atteggiamenti di
aggressività subita. Nella finzione ludica il bambino riuscirebbe anche a riscattarsi di un qualche
senso di inferiorità attraverso i giochi di ruoli, come quando assume il ruolo genitoriale
prevalentemente autorevole e dominatore. In questo caso, ad esempio, il gioco simbolico
consentirebbe al bambino di attenuare o compensare vissuti angosciosi e frustranti, legati alla sua
fragilità psicologica. Inoltre, tale gioco, obbedendo al principio di piacere e ignorando il principio di
realtà, procura nel soggetto gratificazioni reali, che favoriscono l’adattamento alla realtà e
assicurano un equilibrio emotivo al bambino.
Il bambino, quando gioca, è coinvolto nella sua interezza. Come si diceva precedentemente il
rapporto tra gioco e sviluppo affettivo-emotivo è molto stretto, infatti, attraverso il gioco il bambino
riesce a liberarsi dalle proprie tensioni conflittuali, a cercare una compensazione a carenze e
frustrazioni. Spesso, per esempio, il gioco rappresenta la trasformazione di una proibizione subita,
tanto che, frustrato da un divieto, magari da parte dei genitori, il bambino ripete lo stesso divieto su
un oggetto, su una bambola, con cui si identifica “per gioco” e, nel ripeterlo attivamente, finisce per
accettarlo.
Secondo la teoria piagettiana, invece, i bambini iniziano l’avventura del gioco simbolico quando
concretizzano il passaggio tra l’utilizzo di oggetti concreti e direttamente percepiti (tipico
dell’intelligenza senso-motoria) all’utilizzo di oggetti astratti, riconosciuti reali con la sola
percezione del pensiero, ossia con la capacità rappresentativa o “simbolica”. I simboli del
patrimonio cultururale (numeri, parole, figure, ecc.) vengono assimilate dal bambino mediante il
processo di osservazione e di imitazione del mondo adulto. Piaget (1955), vede nel gioco simbolico
o di finzione, un tipo di gioco che si caratterizza per l’evidente “non letteralità” delle azioni che il
bambino compie: esse risultano definalizzate e decontestualizzate, poiché, rispettivamente, se
collocate all’interno di una cornice ludica assumono scopi diversi da quelli che assumerebbero nella
vita ordinaria e perché inserite in un contesto diverso. Il gioco simbolico caratteristico per la sua
spontaneità, gratuità, e presenza di azioni fittizie trova la sua essenza nella consapevolezza del
“come se”, e nel rapporto significante-significato, pertanto, seppure esso non prevede, nella sua
struttura iniziale, l’uso del linguaggio come mediatore, ne anticipa e favorisce l’acquisizione e
l’utilizzo come mezzo espressivo e di comunicazione. Esso, inoltre, oltre a configurarsi come uno
dei mezzi espressivi della vita interiore dei bambini è anche un mezzo di apprendimento di forme
espressive-comunicative convenzionali e sociali.
L’attività ludiforme, caratterizzante, come si diceva precedentemente, il gioco come mezzo di
apprendimento, genera da sé le condizioni favorevoli ad un approccio comunicativo, in quanto
favorisce la partecipazione empatica dei partecipanti.
Il gioco agevola il rapporto comunicativo alunni - insegnante poiché: propone un coinvolgimento
attivo istaurando un clima emotivo controllato; permette ad entrambi di lasciarsi coinvolgere e,
quindi, di sviluppare empatia; propone un cambiamento di setting che conferisce novità e
dinamicità alle lezioni; propone all’allievo un tipo di attività che non lo isolano, piuttosto lo
inducono a sviluppare rapporti di confronto costruttivo con gli altri (M. Ferroni, 2004).
Insieme alla dimensione linguistico verbale, il gioco potenzia e favorisce la dimensione espressiva
non verbale, di tipo artistico, motorio ed etico. Esso, infatti, diventa mezzo espressivo del corpo,
attraverso la pratica di giochi motori di esercizio e di motricità ma anche attraverso il gioco libero
che si esplica nel movimento e nella gestualità, attraverso il disegno e le attività manipolative e
musicali, come la danza, e non ultimo attraverso i giochi di regole.
Tutte queste forme di gioco consentono al bambino di dare sfogo alla propria personalità, quindi di
esprimere in forme diverse il proprio vissuto emotivo, di rappresentare la realtà conosciuta e di
orientare la propria capacità immaginativa e creativa. I giochi di regole, ugualmente importanti,
permettono ai bambini di imparare ad attenersi a delle regole date e condivise, preposte ad una
finalità comune. La pratica di questo tipo di gioco, consente nel tempo, di sviluppare sani rapporti
sociali nel rispetto di sé e degli altri.

Il gioco dell’apprendimento
E’ opinione diffusa tra gli studiosi denominare il periodo della seconda infanzia “età del gioco”. A
questa età il gioco si presenta come un’attività piacevole e divertente, anche quando non sia
effettivamente accompagnato da segni di allegria, ma mantiene, per il giocatore tratti e peculiarità di
“serietà” e attenta precisione per il suo svolgimento. Per il filosofo Huizinga (1938) il gioco è una
“categoria di vita” dell’uomo che è per natura ludens. Secondo l’antropologo olandese il gioco
caratterizza l’uomo in quanto animale culturale, egli scrive: «tuttavia mi pare che l’homo ludens,
l’uomo che gioca, indichi una funzione almeno così essenziale come quella del fare, e che meriti un
posto accanto all’homo faber» (J. Huizinga, 1938, p. XXXI).
Per il bambino il gioco è un contesto protetto in cui svolgere attività “serie” in quanto impegnativo
sotto l’aspetto cognitivo, oltre che affettivo. Il gioco non è puro svago. Esso, che per definizione
non ha scopi estrinseci ma è un atto spontaneo e volontario, non obbligatorio ma liberamente scelto,
necessita di un impegno attivo del giocatore. Secondo Huizinga (1938), perché si possa parlare di
gioco, questo deve essere caratterizzato da libertà, presenza di regole, isolamento dalla vita
ordinaria per entrare nel cerchio magico del gioco stesso. Ciò che caratterizza il gioco del bambino,
infatti, è l’improduttività, nel senso che in esso le azioni condotte hanno una natura gratuita e ciò
che si fa non mira ad ottenere determinati risultati, ma è fine a se stesso, compiuto, cioè, per il
semplice piacere che procura. In tutto questo la serietà che appartiene al gioco nasce dal «desiderio
di applicarsi energicamente in qualcosa che dà gusto e passione e che si ritiene utile per la propria
conoscenza della realtà» (Ferroni, 2004, p. 85).
Nel contesto educativo non possono essere tralasciati gli aspetti emotivi, altamente positivi nello
sviluppo del bambino, che il gioco comporta. Esso, infatti, procura un senso di soddisfazione, di
immediata gratificazione che comunemente si chiama divertimento. Se non serve a raggiungere
obiettivi esterni, il gioco ha in se stesso un beneficio emotivo in quanto è autoremunerativo o
intrinsecamente appagante.
Gli Orientamenti per la scuola materna (1991) presentavano il gioco quale strumento di sviluppo
per l’acquisizione e il rispetto delle regole, nonché come espressione di sentimenti e di emozioni
che permette al bambino di liberarsi da conflitti e carenze interne in quanto «costituisce, in questa
età, una risorsa privilegiata di apprendimento e di relazioni» (Rubagotti, 1991) rendendo possibile
l’acquisizione delle prime regole morali e sociali, l’espressione di sentimenti, la regolazione delle
emozioni attraverso il rapporto con gli altri.
La realizzazione del gioco dipende, ad ogni modo, da una serie di condizioni interne ed esterne. I
bambini che sono incapaci di venire a capo dei propri problemi interni si dimostrano spesso anche
incapaci di giocare o il loro gioco risulta impacciato e solitario, ma le condizioni interne che
provocano ciò, (di cui si è parlato nel paragrafo precedente) sono dipendenti da condizioni esterne
ossia dalla presenza di un ambiente favorevole che non solo non ostacola l’atteggiamento ludico ma
anzi lo incoraggia. Un ambiente adeguato al gioco deve possedere delle caratteristiche tali da:
favorire lo sviluppo delle capacità simboliche e creative; contenere le ansie relative al nuovo e a ciò
che è sconosciuto, in modo tale che il bambino realizzi il gioco in un’atmosfera rilassata di fiducia;
orientare e sostenere la crescita dell’identità personale; soddisfare i bisogni emotivi e cognitivi del
bambino.
Tutto ciò è determinante per una sana esperienza ludica, soprattutto quando il gioco, da solitario e
individuale, diventa di gruppo. Questo passaggio è di estrema importanza, infatti, come evidenzia
Bondioli (1996), attraverso il gioco si manifestano le prime forme di socializzazione del bambino,
in quanto favorisce l’instaurarsi di rapporti interpersonali, nonché, la collaborazione e la presa di
coscienza della norma. Ciò è fondamentale per acquisire la capacità di stabilire e di osservare regole
comuni e di suddividere i compiti in vista di un fine comune da raggiungere, presupposti
indispensabili per l’acquisizione delle regole comportamentali e sociali che consentono al bambino
di superare la dimensione egocentrica della vita e di vivere bene in gruppo.
Da questo punto di vista il valore educativo del gioco si esprime nella costruzione di un approccio
cooperativo nelle sue espressioni ludiche e ludiformi che, se orientate verso obiettivi educativi scelti
accuratamente, stimolano l’apprendimento del bambino e lo sviluppo delle competenze espressive.
Secondo Visalberghi (1958) il termine ludiforme richiama lessicalmente il termine ludus. Con ludus
(ludico) si fa riferimento ad un’attività impegnativa, continuativa le cui finalità sono consapevoli e
tali che al loro raggiungimento l’attività cessa di avere significato; ne è un esempio il gioco tra
bambini, la cui finalità coincide con l’obiettivo del gioco, per cui, una volta conseguito, l’attività è
terminata. Quando, invece, il fine del gioco è destinato a trasformarsi in ulteriori attività, il gioco
diventa un “lavoro” e dal campo del ludus si passa a quello del ludiforme. La studiosa Ferroni
(2004) traduce il concetto ludiforme con l’espressione “didattica ludica” quando, parlando di
attività ludiformi esprime la relazione esistente tra gioco e rapporto insegnamento-apprendimento.
Le attività ludiformi costituirebbero quella che la studiosa definisce “cooperattività ludica”, ossia
quella tipologia di didattica che impegna l’azione individuale di più persone in un contesto giocato.
Il concetto è anche definito come «quell’attività in cui è l’insegnante che assume il ruolo primario,
perché è lui che propone al bambino il gioco allo scopo di ottenere certi risultati previsti o quanto
meno sperati» (Romano, 2000, p.97). Inoltre, l’attività risulta ludiforme quando si configura come
attività in cui il bambino si muove in uno spazio senza costrizione, nella giocosità operativa che
libera le energie e le forze, perseguendo precisi risultati formativi e determinati traguardi
migliorativi (Petracchi, 1993).
Nel panorama didattico il gioco si inserisce come occasione di apprendimento particolarmente
coinvolgente, presentando l’attività didattica stessa piacevole e pregnante di “gusto”, totalizzante e
integrale in quanto promotrice della messa in moto del vissuto fisico e mentale dei suoi protagonisti.
Utilizzando le parole di Marietti (1821) si può affermare che il gioco, nella sua dimensione
ludiforme, si pone come metodologia «per stare insieme ai bambini o ai giovani, per insegnare le
cose, non usando spiegazioni e prescrizioni, ma tenendo conto del linguaggio e del livello di
percezione a cui il bambino può pienamente accedere» (Ferroni, 2004, p.35).
Da quanto esposto si rintraccia l’indispensabilità di promuovere giochi liberi o strutturati, di diverse
tipologie affinché si sviluppi nel bambino la necessità di avere delle regole e di rispettarle. Ci si
riferisce ai giochi di regole, ai giochi simbolici, attraverso i quali il bambino dà un senso ed un
significato alla realtà; ai giochi popolari e tradizionali che consentono di rapportare meglio le
attività ludiche all’ambiente socio-culturale con il quale il bambino si confronta.
Vista l’importanza che il gioco assume nel panorama educativo-didattico è indispensabile che gli
insegnanti posseggano un’ottima conoscenza dei giochi e delle modalità di progettazione e di
conduzione di essi.
L’insegnante, nell’organizzare ed orientare il gioco dei bambini, assume un compito
importantissimo di “regia educativa”; egli deve, infatti, creare un “clima ludico”, un ambiente
definito e protetto, nel quale il bambino possa sentirsi bene accolto e accettato, nel vivere
esperienze significative e produttive che sollecitino lo sviluppo delle sue funzioni cognitive,
percettivo-sensoriali, emotive, affettive e relazionali, e deve altresì impegnarsi perché le azioni
ludiche convertano verso l’obiettivo educativo prefissato.

Il ruolo dell’adulto nel gioco


Abbiamo precedentemente evidenziato l’importanza del gioco in ambito educativo rispetto
all’incidenza che esso ha nell’apprendimento del bambino e abbiamo accennato al compito
dell’insegnante, progettista e conduttore delle attività ludiformi. Cercheremo adesso di analizzare
più nel dettaglio il ruolo che ha l’adulto all’interno della cornice ludica quando gioca con il
bambino.
Riferisce Bondioli (1996) che, a tal proposito Bettelheim (1975) sostiene che non tutte le azioni di
gioco tra adulto e bambino determinano un rapporto di reciprocità ludica tra i due; il vero
protagonista del gioco è sempre comunque il bambino. Egli afferma, infatti, che soltanto nel
momento in cui il bambino percepisce la complicità e l’approvazione di una persona che funge da
punto di riferimento si sentirà autorizzato a continuare nella sua attività senza paura di essere
giudicato o deriso. In tal senso, l’approvazione dell’adulto, è una “conditio sine qua non” affinché il
bambino riesca a cogliere il gusto di giocare.
L’adulto deve limitarsi a giocare con il bambino evitando di “ammaestrarlo”, non si tratta, infatti, di
imporre un gioco ma di parteciparne emotivamente.
Secondo l’ottica di Bettelheim (1975), l’adulto deve accostarsi al gioco del bambino promovendo
un atteggiamento empatico: soltanto “mettendosi dentro” le situazioni e vivendole in prima persona
sarà possibile comprendere le emozioni, le sensazioni, le paure che ne derivano. Riuscire ad entrare
in empatia con il bambino mentre gioca, significa mettere in atto un atteggiamento che deve trarre
origine dall’intimo e che riguarda la sfera emotiva ed affettiva, l’azione agita, la relazione
comunicativa, l’ascolto, da cui scaturisce un profondo senso di fiducia. In tal senso si può parlare di
empatia, quale «qualità professionale che consente nelle relazioni interpersonali di entrare in
sintonia con l’altro e di modulare il proprio intervento all’insegna della disponibilità e dell’ascolto»
(Gherardi, 2000, p.23) è evidente l’importanza di tale rapporto in un contesto comunicativo-
relazionale intriso di fiducia e affettività. L’ascolto di tipo empatico è una modalità di particolare
attenzione che permette all’altro di poter essere se stesso e di poter esprimere, di conseguenza, le
sue verità. Proprio questo atteggiamento è quello che si determina nel momento in cui alunni e
insegnanti entrano nello stesso “cerchio magico” che è il gioco ma, nello spazio del gioco,
l’insegnante deve contemporaneamente entrarvi e rimanerne fuori; deve cioè “sporcarsi le mani”
con l’impasto gioioso pur mantenendo il ruolo di regista e di supervisore.
Più volte è stato ribadito come gioco, motivazione e apprendimento, stiano in rapporto circolare, va
precisato, però, che il gioco promuove l’apprendimento del bambino nella misura in cui viene
conferito allo stesso una adeguata struttura. Ciò non deve tradursi nella messa in atto di regole e
condizioni che i bambini sono obbligati a rispettare quando giocano, al contrario, deve significare
lasciare liberi i bambini di giocare.
La strutturazione del gioco deve basarsi sull’osservazione preventiva del contesto. Essa dovrà
centrarsi essenzialmente sui bisogni dei bambini nel rispetto della loro differenza di età, di genere,
di caratteristiche socioculturali e di personalità.
Strutturare il gioco risulta essere un lavoro abbastanza arduo in quanto occorre predisporre lo spazio
adatto e necessario, lasciare il tempo opportuno, fornire materiali adatti, opportuni e funzionali al
gioco stesso, gestire l’organizzazione e il rispetto delle regole. Se il gioco è strutturato
dall’insegnante, senza che il bambino abbia la possibilità di scelta circa i materiali da utilizzare o il
tempo, ecc. egli smetterà di giocare. L’organizzazione del gioco, per quanto strutturato, deve
configurarsi come un lavoro da fare in “complicità”, cioè in accordo e con la condivisione dei
partecipanti.
Il compito dell’insegnante è quello, pertanto, di orientare le scelte rispetto allo spazio, al tempo, ai
mezzi e alle modalità con cui giocare.
E’ indubbio che un ambiente spazioso dia sfogo alla fantasia e alla libertà del bambino nel gioco, di
contro, uno spazio ristretto ne limita la scelta. La spazialità è una condizione vitale per l’attività
ludica, non solo nel senso di “luogo per giocare”, ma anche in senso psicologico che determina la
costante e più reale esigenza nell’ambito della sfera familiare. Relativamente al tempo, è difficile
riconoscere quanto tempo sia necessario a ciascun bambino per giocare, diversi sono i fattori da cui
ciò può dipendere, quali, i materiali a disposizione, i compagni di gioco. Tuttavia, risulta chiaro che
i bambini lasciati giocare per un periodo illimitato di tempo risultano essere più creativi e più capaci
di elaborare i problemi rispetto a quei bambini che hanno sperimentato l’interruzione del gioco
proprio nella fase più interessante.
Va precisato che nello sviluppo del gioco, uno spazio idoneo, un tempo abbastanza lungo, le
presenza di diversi materiali, non bastano se a questi non si aggiunge la partecipazione
dell’insegnante al gioco.
Precisando ulteriormente il concetto di “partecipazione” dell’insegnante al gioco dei bambini, si
ricorda che “partecipare” significa prendere parte a qualcosa con il consenso di tutte le parti
interagenti. A volte, però, può capitare che siano i bambini stessi a mostrarsi infastiditi dalla
presenza dell’insegnante. L’intervento dell’insegnante deve, pertanto, proporsi solo in determinate
situazioni, ossia quando: i bambini si trovano di fronte un problema che non sono in grado di
risolvere, il gioco ha esaurito il suo fascino per i bambini, uno o più bambini impediscono il gioco, i
bambini fanno un uso improprio dei materiali o cercano di modificare le regole senza il consenso di
tutti. L’insegnate inoltre non deve intervenire prima di aver dato ai bambini il tempo necessario di
elaborare la soluzione del problema e, comunque fino a quando il gioco, seppure ripetitivo,
mantiene il suo scopo.
L’atteggiamento dell’insegnante nei confronti del gioco è in stretto rapporto all’importanza ad esso
attribuita come processo di apprendimento, allo stesso modo, l’atteggiamento dei bambini verso il
gioco a scuola è legato a quello dell’insegnante.
Condividere il gioco dei bambini vuol dire stabilire con loro una relazione basata sull’accettazione
reciproca che, una volta stabilita nel gioco, potrà estendersi in tutte le situazioni di insegnamento-
apprendimento.

3.4. La drammatizzazione
Tra le attività valide per sviluppare la competenza espressiva rivestono particolare importanza
quelle di drammatizzazione. Con il termine “drammatizzazione” si intende, generalmente «l’uso di
mezzi e forme teatrali a fini educativi» (Giacobazzi e Scaperotta, 1998, p.12). Sebbene, in certe
occasioni, possa avere come obiettivo finale un prodotto teatrale, essa ha un alto potere educativo,
in quanto sollecita la formazione di immagini mentali e la rappresentazione operativa, facilitando la
comprensione del linguaggio.
La drammatizzazione è una metodologia viva e dinamica che permette l’interazione di linguaggi tra
loro diversi: «i linguaggi verbali e quelli non verbali, la mimica, il gesto, la prossemica, la cinesica,
gli aspetti prosodici e il linguaggio musicale. Proprio questa specificità derivante dall’interattività di
vita di vari codici linguistici permette alla drammatizzazione di caratterizzarsi come prezioso
strumento formativo in vista di una migliore comunicazione» (Cangià, 2002, p.418).
Oliva (1999) riporta alcune ricerche sulla drammatizzazione condotte alla Johns Hopkins University
che mettono in luce un miglioramento significativo nell’apprendimento di nozioni concrete e di
concetti e confermano l’efficacia della drammatizzazione nel favorire l’istaurarsi di sentimenti di
appartenenza e condivisione che costituiscono un terreno favorevole per lo sviluppo e il rinforzo
della motivazione ad apprendere.
La sua significatività sta nel tipo di approccio che può essere giocoso, divertente e apparentemente
poco impegnativo ma, nello stesso tempo, coinvolgente, motivante e incisivo. Le attività di
drammatizzazione consentono, infatti, ai bambini di sperimentare diversi ruoli, situazioni, contesti
di riferimento, alternative, conseguenze, verifica di risultati, ecc.
Attraverso queste attività è possibile spiegare determinati concetti che intervengono nella realtà che
spesso sfuggono all’attenzione di un bambino, consentendogli di cogliere e vivere esperienze dirette
personali, adeguate a se stesso.
Giocare, ed in particolare giocare “a far fìnta di...”, generalmente consente ai bambini di dare vita a
situazioni comunicative e relazionali di notevole importanza per il loro sviluppo ed apprendimento,
basti pensare alla simbolizzazione messa in atto sia a livello verbale che comportamentale.
Abbiamo evidenziato precedentemente la prospettiva piagettiana secondo la quale già sin dalle
prime fasi dell’età evolutiva, i giochi simbolici o di finzione assumono particolare rilevanza anche
ai fini dello sviluppo delle facoltà cognitive, dell’arricchimento del lessico e della sollecitazione di
fantasia e creatività. L’attività di drammatizzazione riproduce in modo naturale le caratteristiche
della comunicazione e consente di articolare correttamente parole, frasi e messaggi secondo il
sistema fonologico e prosodico della lingua. Essa determina, inoltre, una motivazione forte per
l’ampliamento del patrimonio lessicale, ma anche una spinta verso soluzioni sintattiche elaborate
che evidenzino un pensiero articolato; consente di fissare senza sforzo i contenuti linguistici e di
favorire la creatività. Anche Bruner (1967) nella sua “teoria dell’istruzione”, aveva sottolineato
l’importanza della rappresentazione, nell’ambito globale della didattica, individuando tre
fondamentali modalità:
 L’azione (modo attivo);
 La visualizzazione (modo iconico);
 Il linguaggio (codificazione di tipo simbolico/verbale).
Queste tre modalità si ritrovano costantemente nel gioco di simulazione conferendogli una
caratteristica molto interessante, dal punto di vista educativo, in quanto nel suo attuarsi consente al
bambino di: compiere operazioni mentali; formulare congetture e ipotesi sulla base delle
informazioni ricevute; presentare modelli di rappresentazione della realtà in base a una teoria
esplicativa dei fenomeni considerati; favorire la discussione, veicolo dell’istruzione, valorizzando
così il valore del linguaggio.
Da quanto detto emerge il forte legame esistente tra l’attività di drammatizzazione e l’utilizzo dei
diversi linguaggi espressivi; essa, infatti, è una sintesi di essi, in quanto li ingloba, e allo stesso
tempo ne è la generatrice. La drammatizzazione, pertanto, offre la possibilità di sperimentare tutto il
potenziale che il bambino possiede “facendo”, “parlando”, “giocando”, “esprimendo” se stesso e
“apprendendo” il mondo.

Sperimentare l’espressione creativa


La drammatizzazione è un unico grande contenitore dell’espressione personale, per questo motivo è
possibile considerarla efficace, ai fini di valutare, l’acquisizione della competenze espressiva dei
bambini sia sotto il profilo simbolico che pratico. Essa, infatti, agisce come generatrice di modalità
personali di espressione e allo stesso ne stimola l’acquisizione sul versante linguistico orale,
gestuale, mimico, prossemico. Ciò avviene all’interno della “cornice ludica” che conferisce
all’azione vissuta, come è stato espresso in precedenza, divertimento e quindi rassicurazione.
Dal punto di vista dell’espressione verbale, poiché è partecipativa, interessante, divertente e
coinvolgente, la drammatizzazione, come ricorda Bruner (1967) aiuta i bambini a comprendere il
linguaggio e ad avviarli in modo naturale verso la formazione linguistica. Mediante questa attività,
che si fonda sulla naturale abilità di ogni persona ad imitare, mimare ed esprimere se stessa
attraverso i gesti, i movimenti del corpo e le parole, gli alunni hanno l’opportunità di sprigionare la
propria creatività nell’impiego del materiale linguistico utilizzato.
Poiché, inoltre, la drammatizzazione permette di associare contemporaneamente lingua e azione e
realizza «l’interazione fra aspetto visivo-attivo-linguistico, sembra costituire una condizione più
favorevole all’apprendimento» (Cecchini et alii, 1987, p.47).
La drammatizzazione è il modo più spontaneo del bambino di esprimersi, attraverso la sinergia di
movimento, gesti, azioni e parole. E ormai comunemente riconosciuto che la parola, se
accompagnata al movimento, alla gestualità e alle emozioni espresse nella relativa intonazione, si
fissa più stabilmente nella memoria dell’alunno. La caratteristica metalinguistica della
drammatizzazione è considerata indispensabile ai fini dell’acquisizione, da parte del bambino, di
una propria visione della lingua. «Giocare con i suoni delle parole implica la presa di coscienza che
il linguaggio ha una struttura indipendente dal significato, e favorisce in futuro
l’apprendimento di nozioni grammaticali e sintattiche» (Brasca e Zimbelli, 1992, p. 319). L’utilizzo
di tecniche di drammatizzazione incoraggia gli studenti a parlare e dà loro l’opportunità di
comunicare più liberamente, in quanto «imparano ad allentare le difese e a non farsi bloccare dal
giudizio altrui» (Giacobazzi e Scaperotta, 1998, p.10). I gesti, l’intonazione, i movimenti del corpo
nello spazio uniti agli stimoli visivi (scenografia, oggetti, costumi, ecc.) ed acustici (musiche,
rumori di fondo, ecc.) fanno appello ai diversi canali cognitivi che l’allievo utilizza in proporzioni
diverse a seconda del proprio stile di apprendimento.
Dal punto di vista comunicativo la drammatizzazione rappresenta una strategia ideale di esercizio e
di sviluppo delle abilità linguistiche, in quanto «la parola esplica la sua naturale funzione
espressiva» (D’Alessandro, 1976, p.41) permettendo d’inferire il significato dei termini e delle
strutture nuove dal co-testo linguistico e dal contesto situazionale.
Il “facciamo finta che io ero...” permette di entrare in ruoli osservati nella realtà di tutti i giorni (la
nonna, il medico, la mamma, il negoziante, ecc.), per farli rivivere attraverso un immaginario, in cui
si sperimentano le situazioni, le azioni e la lingua. A volte vengono rappresentate situazioni
fantastiche con personaggi quali il lupo, la strega, il principe, ed allora il linguaggio può arricchirsi
di espressioni meno comuni e, al contempo, il bambino si prepara ad affrontare la realtà in una
situazione rassicurante come quella ludica (Ceccatoni, 1996, 18, pp.55-60).
Assumendo un determinato ruolo, l’alunno è incoraggiato ad abbattere quel filtro affettivo che
spesso lo inibisce, perché con la drammatizzazione scatta un meccanismo di de-
responsabilizzazione, attraverso il quale è il “personaggio” che parla e si muove e non lui. Il
bambino impara a frapporre il distacco tra sé e quanto rappresenta, a riconoscere la situazione come
“estema” alla propria persona e alla propria realtà e, per un certo periodo, ha bisogno di verbalizzare
questo distacco, perché la parola stessa lo rassicura. È anche importante far costruire al bambino il
personaggio, con diverse tecniche, e consentirgli una elaborazione personale dello stesso, anche
solo mentalmente. L’utilizzo di costumi, marionette, maschere, favorisce tale processo ed aiuta
l’alunno ad osare, a rischiare, ad esporsi a parlare davanti ad un pubblico. (Lequeux, 1980, pp. 65-
70).
Colorare le frasi pronunciate di un’emozione e interpretare il personaggio, “vestendone i panni”,
aiuta il bambino a rendere significative e memorabili le
battute, a fissare la lingua recitata nella propria memoria e a trasferire le competenze linguistiche
acquisite in altri contesti comunicativi; tale immedesimazione lo porta, inoltre, a trovare la mimica e
l’espressione verbale più appropriata al personaggio che interpreta. Da tutte queste caratteristiche
risulta evidente come la drammatizzazione sia un’azione didattica altamente motivante, che
coinvolge la figura dell’alunno in maniera distica, puntando allo sviluppo della totalità della sua
personalità.
Nella drammatizzazione il bambino realizza un’esperienza concreta che va al di là della semplice
comunicazione linguistica scolastica. La sua non sarà una lingua arida e artefatta, volta
esclusivamente all’esercitazione, ma una lingua viva, che veicola significati concreti fortemente
legati alla realtà circostante. Il suo apprendimento costituirà un’esperienza cognitiva (per le
complesse operazioni connesse al linguaggio), emotiva (per le forti componenti emozionali), e, al
tempo stesso, pragmatica (perché si agisce tramite il linguaggio nella realtà circostante, ossia si
compiono concreti atti linguistici), divenendo così un’esperienza totale.
Il ricorso sempre più frequente alla drammatizzazione nella pratica didattica odierna si fonda nella
naturale tendenza dei bambini alle attività ludiche e sulla loro sperimentata attitudine verso il gioco
drammatico e l’espressività teatrale.
Superata la concezione del gioco, inteso come semplice divertimento, l’attività ludica negli
orientamenti pedagogico-didattici contemporanei, viene rivalutata e riconosciuta come un
straordinario fattore di sviluppo e di apprendimento, che consente al bambino di rapportarsi con gli
altri, con se stesso e lo coinvolge interamente, in quanto risponde alle sue esigenze linguistiche e
comunicative.
L’attività ludica espressiva è sempre portatrice di un atteggiamento orientato verso la creatività e
induce il bambino ad intervenire attivamente sugli elementi che gli stanno attorno.
Non vi è recitazione che non impegni, sia pure in misura diversificata, l’osservazione, l’attenzione,
la riflessione, la memoria, il giudizio e il ragionamento, dispiegando capacità anticipatorie e
previsionali, inventive e creative, e consentendo anche di impadronirsi di concetti, simboli, abilità,
competenze, privilegiando la dimensione del fare.
La funzione ludica ha, dunque, una funzione di avvicinamento alla realtà e di presa di possesso
della stessa e un’altra di stimolo per una progressiva presa di coscienza del proprio “Io” che si
scopre capace di muoversi, di trasformare, di manipolare e dominare la realtà.
Secondo lo studioso Zoltan Dienes (1968, p.9) il gioco è il «modo naturale con cui i fanciulli si
aprono alla conoscenza» e svolge la funzione essenziale di trazione verso il sapere, il capire, quindi
verso la ricerca e la scoperta del nuovo.
Il tempo dedicato alle espressioni ludiche è sempre un momento di scoperta e di apprendimento
reale, in cui tutte le capacità del bambino sono chiamate ad una collaborazione sinergica.
Contrariamente ad attività di apprendimento guidate da preoccupazioni didattiche esplicite, i giochi
di simulazioni utilizzati per l’apprendimento, anche se assumono un carattere giocoso e gratuito e
non uno scopo utilitaristico immediato, sono una fonte di sviluppo potenziale significativa.
Cimentandosi in attività motivanti e coinvolgenti si diventa sempre più abili; tale constatazione
accresce il piacere e la fiducia in se stessi. Il bambino è stimolato a fare sempre meglio e, nello
stesso tempo, impara a cooperare con i compagni. Anche la più semplice attività ludico-teatrale, se
proposta con le opportune modalità, incide positivamente sui fattori della personalità, cioè
sull'intelligenza e sul carattere, attiva e affina alcune capacità dei bambini e ne consolida la
destrezza, la prontezza, la concentrazione e la precisione.
Le attività di drammatizzazione, comunque, possono essere utilizzate non soltanto come strategie
didattiche per migliorare le condizioni di apprendimento, ma anche per coinvolgere il bambino in
attività di interazione e di gruppo, in quanto agiscono sul clima generale della classe e coinvolgono
gli alunni nella loro totalità emotiva e razionale, sviluppando appartenenza.
«Il gioco [...] rende [...] possibile l’inizio dell’apprendimento intrinseco» (Bruner, 1967, p.207)
pertanto educare giocando può essere una strategia vincente per una scuola che voglia rispettare sia
gli stili cognitivi degli allievi ed anche voglia utilizzare un metodo adatto a stimolare tutta la gamma
dei codici di comunicazione.
Essendo particolarmente caratterizzata dal “segno espressivo” la drammatizzazione diviene
promotrice di creatività, in quanto quest’ultima è l’aspetto della personalità che il bambino possiede
fin dalla nascita, ma la cui maturazione dipende in gran parte dall’opportunità che l'ambiente offre
all’individuo.
Si può identificare la creatività umana come una dimensione dell’essere avente la continua
possibilità di dar vita ad un cambiamento, come una spinta naturale che ognuno sente verso
l’autorealizzazione. L’attività drammatico-teatrale diventa un utile strumento e un possibile luogo
per lo sviluppo della creatività in quanto in essa convergono molteplici aspetti legati alla fantasia e
all’immaginazione. La capacità immaginativa e la fantasia caratterizza il gioco drammatico che si
svolge quando si è in grado di “vestire i panni” di altri. «L’attività mentale dell’immaginazione,
associata alla fantasia, si definisce nel produrre, riprodurre e combinare immagini anche in assenza
di oggetti percepiti» (Moreno, 1973, p.98).
La forma attiva di raffigurazione attuata per mezzo del corpo risponde bene alla natura motoria del
bambino. La pedagogia della creatività richiama la necessità da parte dell’insegnante di procedere
con metodologie unificate per stimolare e personalizzare l'interesse, la socializzare e le motivazioni,
personali.
A tal fine è necessaria una disposizione a valorizzare tutti i linguaggi espressivi affinché l’allievo
possa esprimersi compiutamente.
Educare alla creatività significa educare i bambini in modo integrale ed armonico e attraverso la
drammatizazione ciò diventa concretamente possibile. Sperimentare la propria espressione creativa,
infatti, consente ai bambini di scoprire il proprio sé, di sperimentarlo in forme “artefatte” che ne
garantiscono la spontaneità e facilitano la conquista della propria identità.

Le tecniche di drammatizzazione
La pratica della drammatizzazione nella scuola assume una notevole valenza didattico-educativa. Il
teatro, infatti, abolendo la rigida separazione tra le diverse articola modalità di apprendimento
coinvolgenti e innovativi sia nella sfera comunicativa che in quella direttamente connessa con la
maturazione psicofisica e sociale. Si tratta di una forma metodologica più aperta e dinamica che
richiede un’impostazione flessibile nonché l’avvalersi di tecniche specifiche, quali: la
drammatizzazione (in senso stretto), role-taking, role-making, role-play, dialogo aperto, intesi
come veri e propri vettori di processi linguistico-cognitivi. La pratica didattica e metodologica delle
attività di drammatizzazione conosce una lunga tradizione e un largo impiego nella scuola
anglosassone, a qualsiasi livello di scolarità. In Italia, questa metodologia rappresenta per molti
aspetti una novità e solo negli ultimi anni si è diffuso un certo interesse nell’ambito scolastico.
Le attività di drammatizzazione sono considerate validi strumenti didattici in quanto coinvolgono lo
studente sia sul piano delle emozioni che su quelle delle conoscenze. Essa viene considerata da
diversi studiosi (D’Alessandro, Caminzuli, Riccobono, 1963), un “didattica attiva” poiché
l’acquisizione delle conoscenze è favorita dal coinvolgimento attivo dell’alunno che si sente
motivato nell’ambito dell’esercizio che sta eseguendo e diventa costruttore del proprio sapere.
Questo metodo naturale di apprendimento, nella scuola di oggi, assume un valore speciale, perché
permette anche un’impostazione interdisciplinare nella quale convergono i diversi linguaggi e
simboli culturali che il bambino è chiamato a conoscere e ad utilizzare.
Tutto il lavoro che accompagna un’attività di drammatizzazione, inoltre, è spesso svolto a gruppi e
non può in nessun caso prescindere da una stretta collaborazione. I bambini che prendono parte a
tale attività imparano ad interagire fra loro all’interno di un contesto sociale e a risolvere problemi
in gruppo (attività di problem-solving).
Da questo punto di vista possiamo definire la drammatizzazione come quella «azione per cui una
classe diventa cosciente di essere un gruppo e concordemente si esprime di fronte a un problema o a
un argomento di comune interesse» (Giacobazzi e Scaperotta, 1998, p.12). Questo consolida i
rapporti sociali all’interno della classe e favorisce la creazione di un clima disteso e rassicurante,
ottimo terreno per l’apprendimento.
II termine drammatizzazione assume sempre più il significato di un iperonimo che comprende tutte
le diverse tecniche simulazione dialogica:
 drammatizzazione (in senso stretto);
 role-taking;
 role-making;
 role-play;
 dialogo aperto.
La drammatizzazione di un dialogo, intesa nel senso stretto del termine, è quella tecnica che
prevede la recitazione delle frasi ascoltate, ripetute e praticate in precedenza, ad opera degli alunni
che ricreano lo scambio comunicativo in modo spontaneo e il più possibile verosimile. L’insegnante
chiede agli alunni di imparare le battute dei vari personaggi del dialogo e di recitarle (senza l'aiuto
del copione) davanti alla classe.
La drammatizzazione è un’attività completa di educazione linguistica, che rientra «da un lato [...]
nei giochi psicomotori [...] dall’altro favorisce la rappresentazione mentale e la simbolizzazione dei
contenuti del pensiero» (Bickel,1982, p.71).
Dal punto di vista dell’apprendimento linguistico la drammatizzazione consente di lavorare in
profondità sugli aspetti fonologici e paralinguistici; se si ha una videoregistrazione la riflessione
può considerare anche gli aspetti extralinguistici della competenza comunicativa. Tra i vantaggi di
questa tecnica emerge la quantità del lessico che viene memorizzato nonché l’uso di molti atti
comunicativi comuni.
Il role-taking è la tecnica secondo la quale si assumono ruoli già conosciuti in un dialogo
precedentemente affrontato, introducendo alcune modifìche nella situazione, come l’introduzione di
diverse informazioni, situazioni ed elementi personali.
E un esercizio che spinge l’alunno a fare un primo passo verso l’autonomia e arricchisce la
ripetizione di una motivazione aggiuntiva. Se, ad esempio, il dialogo di partenza dell’unità di
apprendimento propone l’acquisto di un biglietto ferroviario, il role-taking si può effettuare
presentando agli alunni un tabellone orario delle ferrovie (oppure scrivendo alla lavagna alcune
destinazioni e i relativi orari, prezzi e binari) e facendo ripetere il dialogo già noto con una
destinazione diversa a scelta dell'alunno “viaggiatore”. Ciò significa che alunno “bigliettaio” dovrà
dare informazioni sul prezzo, sull’orario e sul binario di partenza diverse da quelle del dialogo-
modello, pur restando costanti gli altri elementi.
Scopo del role-taking è decondizionare l’alunno dopo le fasi di ascolto, ascolto-ripetizione, ascolto-
lettura e drammatizzazione. Se agli alunni viene concesso di personalizzare il dialogo-modello
introducendo elementi personali (il proprio vissuto, i propri gusti, desideri, ecc.), il role-taking
assolve un’importante funzione di sostegno della motivazione.
Si tratta dunque di una di tecnica mirante ad esercitare l’abilità di dialogare e le componenti socio-
situazionale e pragmatica della competenza comunicativa (di cui comunque vengono attivate tutte le
componenti).
Il role-making, invece, è un’altra tecnica di drammatizzazione costituita dall’attuarsi di un
continuum di attività di simulazione totalmente guidata in cui la creatività è presente in maniera
decisiva.
Nel role-making gli alunni godono della massima libertà sia nella conduzione della conversazione
(tipo di saluto, numero di battute, richieste di informazioni, commenti sul tempo, ecc), sia nella
scelta di elementi come la destinazione del viaggio, la classe, l’orario e così via. In questo tipo di
esercizio viene mantenuta solo una delle caratteristiche del dialogo iniziale; stessi personaggi ma
intenzioni comunicative diverse, stesso scopo ma con una situazione nuova, ecc.
Lo scopo del role-making non è solo il reimpiego creativo dei
materiali precedentemente acquisiti, ma anche offrire occasioni di scoperta di alcune regole
costitutive del dialogo come genere ad esempio, l’alternanza dei turni conversazionali, la capacità di
variare il messaggio in base al feedback, il modo di chiedere la ripetizione o la parafasi di segmenti
nel dialogo che non sono stati compresi, il principio di non contraddizione rispetto a quanto detto
nelle battute precedenti, regole che molto spesso, nella vita scolastica, vengono trascurate.
L’atteggiamento degli alunni può essere ambivalente: da un canto, il fatto di potersi esprimere
liberamente, di poter parlare dei propri gusti, delle proprie idee, di agire in prima persona stimola e
rende ben accetta la tecnica; d’altro canto, il fatto di essere esposti al giudizio dei compagni, oltre
che dell'insegnante, crea ansia e potrebbe inibire.
Altra tecnica, particolarmente conosciuta ed utilizzata è il role-play.
Esso viene utilizzato per riflettere sulle strategie relazionali, sull’uso dei codici non verbali integrati
con quelli verbali e sulla strutturazione del testo dialogato.
Il role-play offre la possibilità di far parlare spontaneamente gli allievi passando attraverso diverse
fasi permettendo, tra l’altro, di affinare la propria pronuncia attraverso esercizi di fonologia
segmentali. «Questa tecnica dà l’occasione di liberare le emozioni e i sentimenti che non si possono
esprimere per via delle regole sociali» (Padoan, 2000, p.225).
Questa tecnica consiste nel costruisce un dialogo sulla base di una situazione, senza l’indicazione di
quello che si deve dire nelle varie battute, lasciando piena libertà agli attori. «Gli studenti devono
assumere i ruoli assegnati dall’insegnante e comportarsi come pensano che si comporterebbero
realmente nella situazione data» (Tessaro, 2002, p.168).
Bisogna distinguere tra un uso generico, riferito a tutte quelle attività in cui si “recita un ruolo”, ed
un significato più ristretto, che indica un’attività didattica piuttosto comune nei manuali: una lista di
funzioni linguistiche concatenate a cui lo studente deve dare una forma grammaticale.
Scopo di questa tecnica è far riflettere sulla corrispondenza aperta tra funzioni comunicative ed
esponenti linguistici che le realizzano; ogni studente potrà, infatti, produrre una sua versione dello
stesso dialogo, prediligendo alcune forme espressive piuttosto che altre. I partecipanti accettano una
nuova identità, entrano nei panni altrui e agiscono e reagiscono in maniera conseguente. Ciò che
può accadere durante questa attività è del tutto imprevedibile, ma l’aspetto più interessante è
costituito dall’immedesimarsi in un’altra persona.
L’ultima tecnica di drammatizzazione, secondo l’ordine espositivo, è costituita dal dialogo aperto.
II dialogo aperto è un’abilità linguistica complessa propone un’interazione solitamente tra due
interlocutori e consiste in una discussione in cui figurano le battute di un solo personaggio e lo
studente deve inserire oralmente quelle dell'altro personaggio, tenendo conto dell'aspetto testuale sia
in termini di coerenza (si deve tener conto di quanto precede e, nella versione scritta, anche di
quanto segue nel dialogo cioè del “filo del discorso”), sia in termini di coesione, per poter
adeguatamente connettere le proprie battute a quelle già fomite dal testo.
Va tenuto presente che questo tipo di tecnica può generare ansia se svolta interagendo con un
nastro, il cui ritmo è fisso, mentre risulta più motivante se proposto come attività di problem-
solving, interagendo con un compagno che segue il copione prefissato.
Riascoltare il dialogo aperto mediante l’utilizzo di un registratore, può risultare molto proficuo, in
quanto permette di analizzare l’esecuzione, di discuterla in classe e di confrontarla con altre
risposte; conservare la registrazione e confrontarla con una ripetizione dello stesso dialogo aperto
alcuni mesi dopo può costituire una buona tecnica per l’analisi longitudinale delle prestazioni.
Questa tecnica accresce negli studenti la capacità di perseguire i propri scopi e di agire sulla e nella
società attraverso la comunicazione. II dialogo aperto arricchisce l'alunno, ne sviluppa i processi
cognitivi e espressivi-comunicativi e può, pertanto, essere usato anche in attività di verifica.

Il ruolo dell’insegnante
I bambini della scuola dell’infanzia vivono la drammatizzazione come rappresentazione teatrale di
semplice storie narrate, il cui copione vene adattato, alle competenze linguistiche degli alunni. Nel
gioco drammatico il bambino tende ad appoggiarsi alla presenza dei suoi compagni e a quella
dell’insegnante, il quale assume un ruolo di guida e di stimolo all’azione che si sviluppa, al fine di
consentire ai suoi alunni di esternare, mediante il movimento e la voce, i sentimenti più profondi e
le sensazioni che la storia ha suscitato loro, di apprendere il significato profondo della storia
identificandosi con il personaggio e, non ultimo, di sviluppare la propria fantasia e immaginazione,
quindi di divenire creativi.
Nella conduzione delle attività di drammatizzazione l'insegnante assume un ruolo meno dominante
nel processo di apprendimento dei suoi alunni. La sua funzione è quella di guidare la classe con
cognizione, fornendo lo stimolo giusto al momento opportuno, alternando i tempi di gioco e quelli
di riflessione. In questo modo si vengono ad instaurare situazioni in cui alunni e insegnanti
collaborano in attività collettive, creando «[...] un ambiente di fiducia e di reciproca familiarità nel
quale gli allievi possano interagire senza timore o minaccia di fallimento» (Sauvignon, 1988,
p.135).
Per risultare un animatore efficace, senza soffocare l'iniziativa dei bambini, l'insegnante si deve
limitare ad osservarli con discrezione, ad intervenire senza sostituirli, a lasciarsi coinvolgere
emotivamente nelle loro esperienze ludiche rimanendone sempre al di fuori. La sua partecipazione
alla vita di gruppo avviene in quanto garante del rispetto delle regole adottate dal gruppo stesso, di
incoraggiamento per i più incerti e timidi e di controllo di eventuali vivacità prevaricatorie.
Lo stimolo alla ricerca, un atteggiamento maieutico, l'apprezzamento dei risultati positivi sono le
strategie didattiche più idonee a favorire una partecipazione attiva di tutti all’attività di
drammatizzazione.
Tutte le attività di gruppo possono presentare anche dei problemi di ordine organizzativo, che
l'insegnante deve saper gestire quando sono calate direttamente nel contesto scolastico. Il percorso
didattico, deve essere accuratamente studiato e finalizzato all'organizzazione di attività motivanti,
adatte a stimolare la comunicazione e che, in un certo senso, costringano gli alunni ad esprimersi
pienamente.
In questo contesto è opportuno che l’insegnante adotti un comportamento entusiastico e
collaborativo e non valutativo o repressivo.
Durante le attività è opportuno che insegnante esalti gli aspetti positivi emersi e valorizzi il più
possibile alunni; sarà utile prevedere anche delle sessioni plenarie di discussione, riflessione ed
analisi, sia del processo di drammatizzazione che della rappresentazione finale. È compito del
docente scegliere le funzioni comunicative più adatte alla propria realtà scolastica e soprattutto
abituare gli studenti organizzare spazi e tempi in modo da rendere il lavoro più proficuo, senza
fornire molte direttive, al fine di valorizzare il bambino e di favorirne la spontaneità.
È competenza dell’insegnante la progettazione e l’organizzazione dell’attività di drammatizzazione.
Per fare in modo che l’attività di drammatizzazione sia proficua, egli deve applicare alcuni
particolari accorgimenti nella prassi didattica.
Per sostenere la motivazione bisogna proporre attività ludiche che siano «fondate sulle capacità e
sull’esperienza, reale o possibile, degli alunni» (Garcìa Hoz, 2005, p.113). Occorre che si dia a tutti
i bambini la possibilità di partecipare attivamente e di creare una certa competizione, in modo che
ognuno si sforzi per dare il meglio di sé. Quando si propone un’attività di questo tipo in una classe è
necessario ridefinire sempre gli obiettivi formativi in rapporto alle capacità e alle motivazioni degli
alunni, affinché il gioco di drammatizzazione, oltre che piacevole, diventi utile per il
raggiungimento degli esiti finali che ne costituiscono l’elemento implicito.
Bisogna tener conto di vari fattori: lo sviluppo psicologico degli alunni, il loro numero in funzione
degli ambienti a disposizione e la familiarità con questo tipo di attività. Se gli studenti non hanno
mai svolto drammatizzazione o anche solo simulazioni dialogiche, è bene iniziare gradatamente,
con esercizi preparatori di mimica o ripetizioni di frasi con intonazioni emozionali diverse. Questi
esercizi iniziali permettono all’alunno di «acquisire fiducia nella propria capacità di esprimersi
attraverso la parola, la voce e la mimica» (Giacobazzi e Scaperotta, 1998, p.16).
In questo modo si abituano gli alunni ad una corretta pronuncia delle parole, a controllare il proprio
corpo e ad immedesimarsi nella situazione e nei personaggi.
Il lavoro svolto, infatti, non deve essere finalizzato per forza ad una rappresentazione teatrale, ma
allo sviluppo di nuove capacità del bambino, nel gusto della ricerca e nella sperimentazione di un
agire e di un comunicare diversi da quelli abituali. Se si riesce anche a concludere l'attività con un
momento rivolto al pubblico, i bambini vivono una gratificazione maggiore e lo spettacolo diviene
verifica di quanto hanno appreso.
La scelta del tipo di simulazione dipenderà dall’obiettivo didattico, dallo spazio a disposizione,
dalla competenza linguistica degli alunni, dalla loro età, nonché dal bisogno di ogni individuo a
partecipare. Le attività improntate sulla mimica oppure sulla ripetizione semplice o ritmata sono
utilizzabili preferibilmente con dei principianti, mentre la messa in scena di vere e proprie storie
risulta più efficace con alunni che ne hanno avuto già un primo approccio. Anche l’obiettivo può
variare: dalla pratica guidata di frasi note, dall'esercizio mnemonico, al riutilizzo libero di funzioni
comunicative calate in situazioni verosimili. Gli esempi di possibile applicazione sono molteplici.
Un altro elemento da definire sarà l'organizzazione dello spazio e la soglia di rumore che
inevitabilmente verrà prodotto. Il tono della voce deve, infatti, rimanere basso durante le
simulazioni dialogiche e gli spostamenti devono essere ridotti al minimo. È chiaro che gli studenti
all’inizio avranno delle difficoltà dovute alla mancanza di abitudine e di autonomia, ma, a lungo
termine, stabilite e regole precise, la pratica didattica diventerà per la classe una routine, creando
sempre minor disagio a tutti.
Come si è detto precedentemente, la drammatizzazione può essere un valido momento di verifica
delle competenze acquisite.
Nel momento della verifica l'insegnante non interviene con correzioni, ma solo con suggerimenti,
riservandosi successivamente uno spazio per trattare gli errori più comuni raccolti durante il suo
monitoraggio. Per evitare inconvenienti è necessario che egli dedichi maggiore tempo
all'insegnamento delle battute e al monitoraggio del lavoro, fornendo consigli, stimolando i più lenti
e frenando gli eccessi di entusiasmo o di rumore, ma, nello stesso tempo, potrà raccogliere gli errori
più diffusi in modo discreto e senza interrompere le rappresentazioni.
In questa fase non si valuta, ma si prende coscienza delle difficoltà che la classe incontra e si
predispongono gli esercizi più adeguati in relazione alle necessità emerse, da far eseguire in un
momento successivo.
Le rappresentazioni possono anche essere registrate in modo da permettere agli alunni di
«analizzare e migliorare il proprio modo di parlare, studiando gli elementi di tono, di ritmo e di
accento» (Zuccherini, 1988, p.39).
L’insegnante deve accertare la maturità del gruppo in azione; potrà chiedere agli alunni di esibirsi
per procedere, poi, alla valutazione della loro produzione orale, avvalendosi di scale valutative che
tengano conto della correttezza formale, dell’appropriatezza pragmatica, della fluidità del parlato,
ecc. Inoltre è possibile osservare l’espressione non verbale, la prossemica, l’adeguata espressione
mimico-facciale, i gesti, l’intonazione, nonché il rispetto dei tempi e delle regole di svolgimento
delle attività.
Si tratta di poter valutare l'ambito espressivo sotto tutti i suoi aspetti, da quello simbolico (verbale
orale e scritto) a quello pratico (artistico-pittorico, musicale, motorio, tecnico ed etico).

Drammatizzare un racconto…
Un buon pretesto per realizzare la drammatizzazione con i bambini piccoli è rappresentato dal
mettere in scena un racconto precedentemente narrato loro.
Le storie da poter drammatizzare devono essere semplici e divise in episodi in modo tale che sia
facilitata la rappresentazione scenica delle diverse situazioni ed eventi che si susseguono. Per far
conoscere il contenuto della storia scelta è preferibile che l’insegnante racconti piuttosto che leggere
semplicemente al fine di far emergere l’ascoltatore dentro al contesto narrato con tutto se stesso, a
livello cognitivo, emotivo, sentimentale. Inoltre è importante mettere in luce le caratteristiche dei
personaggi affinché i bambini, cogliendole, possano rappresentarli mentalmente e, quindi, averne
un’idea per poi rappresentarli. Le immagini mentali sono, infatti, le prime forme di estensione della
storia di cui il bambino viene a conoscenza e sono in grado di offrirgli indicazioni importanti per
l’identificazione e la costruzione della comunicazione teatrale. L’aspetto della recita va curato sin
dalla scelta degli attori; a nessuno può essere imposto di rappresentare la storia, piuttosto è bene
chiedere e sollecitare un’azione volontaria da parte dei bambini.
In primo luogo quindi occorre creare un’atmosfera serena per sviluppare atteggiamenti positivi
rispetto alle proposte cercando di interessare tutti e di coinvolgere ognuno in modo rassicurante,
quindi bisogna affascinare ed entusiasmare all’interpretazione di qualsiasi ruolo, dando a tutti
l’opportunità di imparare e recitare collettivamente il copione. Una volta che tutti i bambini sono
coinvolti l’insegnante distribuirà le varie parti da recitare tenendo conto del livello espressivo-
linguistico e rappresentativo dei bambini. «Per i bambini più piccoli di età prescolastica, non è
possibile far sceneggiare una storia, che sia stata raccontata loro solo con l’ausilio della voce.
Bisogna, infatti, che l’insegnante distribuisca le parti, a questo e a quello secondo la loro scelta,
mettendo in mano a ciascuno un foglio i carta su cui è riportato il personaggio che devono
interpretare» (Oliva, 2000, pp.69-70).
I bambini reciteranno la propria parte muovendo il foglio che gli è stato dato, questo esercizio
consentirà loro di comprendere il dinamismo della storia e di imparare a recitare la propria parte
seguendo i tempi di turnazione stabiliti dal copione.
Può accadere che, presi dall’entusiasmo, i bambini rompano l’ordine stabilito e comincino a
muoversi nello spazio in modo disordinato e caotico oppure inizino a parlare tutti insieme; in questo
caso è preferibile non rimproverarli ma di convergere il loro entusiasmo verso un unico obiettivo
che è quello di rappresentare la storia. Per motivarli ulteriormente è importante proporre loro di
preparare la rappresentazione come spettacolo da offrire ad altri, che possano essere compagni di
scuola, genitori, ecc…
È molto importante non destinare troppo tempo alle prove della rappresentazione poiché i bambini
così piccoli si stancherebbero e, non soltanto verrebbe meno la motivazione a far bene il lavoro
stabilito, ma calerebbe anche la giusta concentrazione penalizzando il risultato del loro impegno.
Va tenuto conto che, mentre il bambino è impegnato a rappresentare il personaggio del racconto, in
realtà sta realizzando la “recita di se stesso” in un “gioco” comunicativo ed emotivo che lo
coinvolge insieme ai suoi compagni; nel gioco drammatico, infatti, non ci sono attori e spettatori,
ma c’è, più semplicemente chi recita e chi non recita, tutti uniti in una relazione di comunicazione
reciproca. Al termine della recita assume fondamentale importanza destinare un tempo adeguato al
dialogo aperto, per mezzo del quale sia chi ha recitato che chi non lo ha fatto può esprimere
liberamente a parole le emozioni vissute.
In presenza di bambini particolarmente timidi, restii a parlare spontaneamente e a rispondere alle
provocazioni dell’insegnante, fa notare Moreno (1973) come l’attività drammatica riesca a
coinvolgerli grazie all’appoggio che trovano nei coetanei. Accade spesso che i bambini più timidi o
maggiormente emotivi si rifiutino di recitare o inizino a piangere al momento di parlare; per quanto
il confronto con gli altri compagni possa essere stimolante è bene mettere in atto delle strategie,
come ad esempio il trucco e il travestimento scenico. Attraverso il trucco e la maschera, infatti, il
bambino si sente meno esposto e quindi sviluppa più sicurezza e acquista maggiore disinvoltura.
Altra strategia per coinvolgere il bambino senza che si esponga al pubblico potrebbe essere quella
di renderlo protagonista della realizzazione scenica, in modo da abituarlo gradatamente ad assumere
un compito all’interno di tale contesto. Va considerato, infatti, che tutto ciò che ruota intorno al
“teatro” è importante per il bambino; la più alta ricompensa che lo spettacolo dovrà offrirgli risiede
nel piacere derivante dal suo allestimento, dal processo gioioso messo in atto per la sua
realizzazione, nell’impegno personale per un prodotto comune, piuttosto che dal successo o dalle
approvazioni di terzi. È possibile ad ogni modo, come propone Cristiani (1991), preparare i piccoli
alla pratica teatrale mediante alcuni esercizi di natura espressiva, relazionale e comunicativa.
L’espressione del viso è uno strumento di comunicazione molto efficace. Con esso è possibile
esprimere stati d’animo ed emozioni e farli conoscere agli altri immediatamente. L’espressione del
viso può essere spontanea ma anche volontaria.
A tal fine risulta utile il gioco dello specchio, attraverso il quale il bambino può osservarsi mentre
esprime diversi stati d’animo con la mimica facciale o con gesti.
Altri giochi altrettanto efficaci al raggiungimento dell’obiettivo suddetto sono: il gioco delle
trasformazioni, nel quale i bambini vengono invitati a trasformarsi in oggetti e/o personaggi e il
gioco delle statuine, nel quale i bambini, al comando dell’insegnante, devono fermarsi assumendo
una posizione che rappresenti l’oggetto o il personaggio suggerito.
Esercizi di tale tipologia risultano particolarmente utili poiché liberano il bambino dal sentimento di
paura e forme di inibizione, offrendogli la possibilità “di incontrare l’altro” in un contesto
impegnativo ma al contempo gioioso e piacevole.

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