Parte I
1. L’educazione personalizzata
Negli ultimi anni, nell’ambito della ricerca educativa, si è assistito ad un crescente mutamento di
prospettiva nella riflessione sul processo di insegnamento-apprendimento, con ricadute anche sul
versante metodologico.
Dall’uso obsoleto del termine “individualizzazione” ritenuto particolarmente efficace per esprimere
l’iter didattico riguardante per lo più la persona disabile, ci si è posti il problema che
l’individualizzazione così considerata creasse piuttosto una separazione dei confini contestuali
riguardanti il disabile e il gruppo classe di appartenenza. Veniva a costituirsi così un duplice
intervento didattico: uno rivolto al gruppo, l’altro rivolto al singolo. Questo concetto è stato
superato nell’ottica dell’integrazione del disabile cercando di programmare sempre più interventi
rivolti a tutti i membri del contesto educativo cui andava rivolta l’azione didattica.
Recentemente ci si è spinti oltre. Il problema di creare percorsi educativi formativi per ogni
componente del gruppo classe ha messo in luce due aspetti fondamentali: l’unicità di ogni persona
appartenente al gruppo, indipendentemente dalla presenza di uno stato specifico di disabilità, e la
globalità della persona stessa interessata in un processo di interazione e di scambio continuo con gli
altri e con il contesto sociale e ambientale.
Tenendo conto di ciò si è cominciato a parlare di “educazione personalizzata”, ossia rivolta alla
“persona” nel suo significato più autentico, unico ed irripetibile.
Rivedendo alcuni concetti consueti in Pedagogia, si condivide pienamente quanto afferma García
Hoz (2005) secondo cui l’educazione personalizzata risponde sostanzialmente all'esigenza
educativa di stimolare il soggetto affinché vada perfezionando la capacità di governare se stesso e la
propria vita e, di conseguenza, di attuare la propria libertà personale, partecipando con le sue
caratteristiche peculiari alla vita comunitaria.
Gli studi più recenti sulle differenze nella personalità hanno condotto a due tipi di interventi in
campo educativo. Se le caratteristiche di una persona sono tali da renderla incapace di compiere
determinate azioni, che per altri soggetti della stessa età cronologica sono perfettamente adeguate,
sembra evidente che questa persona non possa seguire il processo di apprendimento ordinario,
pertanto necessita di un trattamento pedagogico adeguato, ossia di un’educazione “speciale”. Ma,
anche quando le differenze di personalità non sono così evidenti, comunque ne esistono sempre tra
diversi soggetti posti a confronto, in quanto ogni soggetto è diverso per natura da un altro. In questo
caso, seppure l'educando sia considerato un soggetto idoneo a ricevere un’azione educativa
ordinaria, comunque necessita di un’attenzione “personalizzata”. Ciò si distingue dal creare un
percorso educativo per il singolo. «Quando l'educazione si realizza in modo tale che un maestro
stimola e dirige il processo educativo di un solo alunno, ci troviamo dì fronte all’educazione
individuale» (García Hoz, 2005, p.25).
Storicamente, come lo stesso autore ricorda, l’educazione individuale si è realizzata in certe
situazioni aristocratiche, cioè quando essa era rivolta a un solo alunno, generalmente un principe o
un nobile che si avvaleva dell'opera di un maestro. Nel momento in cui l’azione educativa è stata
rivolta ad un utenza sempre più vasta, in quanto per necessità e per diritto rivolta alla popolazione di
un determinato territorio, ha cessato di avere la caratteristica dell’esclusività ed è divenuta
un'attività di tipo sociale.
Dall’educazione individuale si è passati di fatto a un’educazione collettiva, propria delle istituzioni
scolastiche. Ad ogni modo sia l’educazione collettiva che l’educazione individuale sono comunque
forme parziali, incomplete del processo educativo. Sempre García Hoz (2005, p.25) fa notare che:
«L’educazione individuale, isolando il soggetto da coloro che possono stabilire con lui delle
relazioni sociali di parità, annulla la principale fonte di fecondità della vita umana. D’altra parte,
l’attenzione esclusiva di un maestro verso un solo alunno suole comportare, di conseguenza, che
questi confidi troppo nell'intervento dell'educatore.» In tal modo, infatti, non si consente
all’educando di mettere in azione le proprie risorse autoeducative e ciò comporta l’insorgere di
notevoli difficoltà per lo sviluppo delle sue capacità personali. L’educazione comune, propone
García Hoz, rende materialmente possibile la relazione tra simili; però, egli afferma «nemmeno
nelle forme classiche di insegnamento collettivo era favorito il contatto realmente personale tra i
mèmbri di una stessa scuola. Le sollecitazioni educative erano uguali per tutti, uguale era la
spiegazione del maestro, uguali i libri da utilizzare; però la risposta alle sollecitazioni e il lavoro di
ogni alunno si realizzavano in modo individuale, separati gli uni dagli altri. Pertanto, in una
apparente comunità, vi era solo una aggregazione di vite individuali, senza altro contatto che quello
puramente esteriore» García Hoz, (2005, p.25).
Ne risulta che se l’insegnamento collettivo implica per l’insegnante l’utilizzo di uguali stimoli per
tutti gli alunni, lasciando che questi reagiscano individualmente, mentre l’insegnamento individuale
offre la possibilità di una costante attenzione alle particolari difficoltà e/o attitudini e interessi che
l'alunno può incontrare nel processo educativo.
In termini più recenti, l’insegnamento individualizzato risulta un tentativo di armonizzare gli aspetti
dell’insegnamento individuale e di quello collettivo: da una parte vi è un’offerta di attenzione e di
aiuto alle esigenze specifiche della persona, dall’altro si offre l’opportunità di confronto e di
socializzazione.
L’aspetto distintivo dell’'insegnamento individualizzato sta nel fatto che non si va a valutare nello
specifico il risultato o il rendimento dell'alunno, piuttosto il processo del suo apprendimento, in
modo tale che ogni alunno possa usufruire dell’aiuto per lui maggiormente necessario, possa trovare
ciò di cui ha veramente bisogno, affinché il processo di apprendimento e di sviluppo della sua
persona si realizzi nella maniera efficace.
Oggi l’idea di “educazione individualizzata” si è ulteriormente trasformata; l’attenzione è posta sul
soggetto, non più come un’unità le cui caratteristiche tendono ad isolarlo dal contesto collettivo;
piuttosto si vuol trovare la via per rafforzare la peculiarità della sua personalità, affinché sia resa
integrata e maggiormente efficiente per la società.
Con tali premesse, risulta inevitabile e obbligatorio parlare di educazione personalizzata. Il più
profondo significato dell’educazione personalizzata, afferma García Hoz, (2005, p. 27), «consiste
non nell’essere un modo o un metodo nuovo e più efficace di insegnamento, ma nel convertire il
lavoro di apprendimento in un elemento di formazione personale attraverso la scelta di compiti e
l'accettazione di responsabilità da parte dell'alunno stesso».
La singolarità
A fondamento dell’essenza della persona c’è la singolarità, che implica, come ricorda García Hoz
(2005) una differenziazione qualitativa in virtù della quale ogni uomo è quello che è, quindi diverso
dagli altri.
L’educazione personalizzata che si presenta come educazione integrale e quindi di arricchimento e
di unificazione dell'essere e della vita umana, non può prescindere dal considerare l’aspetto della
“singolarità” della persona. «Dal punto di vista della singolarità personale, la finalità
dell'educazione consiste nel rendere il soggetto cosciente delle sue capacità e dei suoi limiti
personali, considerati sia qualitativamente che quantitativamente. E poiché la vita dell'uomo si
realizza non solo nella sua intimità, ma anche in relazione con il mondo che lo circonda, è
necessario un ulteriore ricorso al mondo affinché la conoscenza di sé sia suscettibile di una
utilizzazione pratica esercitando la virtù della prudenza. L’orientamento educativo ha qui il suo
fondamento più evidente» (García Hoz, 2005, p.29).
La manifestazione esterna della singolarità della persona è l'originalità. Essere originale è come
essere creatore, infatti, il significato di originalità è pressoché identico al concetto espresso dal
termine creatività.
L’uomo è per natura un essere originale e creativo, infatti, sa trovare soluzioni diverse a situazioni
problematiche ed è per questo capace di progredire.
In ambito educativo coltivare la creatività è l’attività più propria e più completa dell'educazione
personalizzata, poiché lo sviluppo dell’originalità o della capacità creativa è proprio un principio
unificatore dell’intero processo educativo: intelligenza e fantasia, realtà e capacità, infatti, si
unificano nell’atto della creazione.
Questa dimensione educativa, si costruisce sulla base delle differenze personali e per ciò riduce il
rischio che l’educazione collettiva comportava: un insegnamento omologato rivolto ai tanti
indistintamente.
Tenendo presente quanto detto e la tesi di Guilford (1950), secondo la quale esistono dei caratteri
primari di creatività che sono in relazione principalmente con la fluidità e l'originalità della
risposta, la flessibilità del pensiero, la capacità di inventare nuove idee e di elaborarle, possiamo
asserire che intelligenza e creatività sono realtà differenti, benché molto legate tra loro. Nonostante
ciò non esiste un concetto chiaro di creatività. Si tratta, infatti, di un’attività così complessa che è
stato difficile darne una definizione. Tutti gli studiosi però concordano nel dire che la creatività è
una proprietà che appartiene, in quantità maggiore o minore, ad ogni uomo e, come ricorda García
Hoz (2005), si manifesta in tre maniere differenti: come ritrovamento o scoperta (archeologo),
come una improvvisa illuminazione (artista o ricercatore), come parte integrante del processo
produttivo; in quest’ultimo caso non si è di fronte né a un caso né ad una scoperta ma
semplicemente al lavoro dell’uomo.
In riferimento a quest’ultimo concetto, oggi si manifesta con forza la necessità di educare e di
coltivare la creatività di ogni persona in quanto elemento distintivo della stessa che le consente di
apportare un significativo contributo alla comunità di appartenenza.
Libertà, creatività, autenticità, se esasperate, possono diventano egocentrismo, individualismo e
narcisismo ma se aperte alla reciprocità sociale, creano rispetto, produttività e solidarietà e
promuovono una convivenza operosa, collaborativa e pacifica. «Il fatto che, al naturale divenire
della persona, l’educazione debba lasciare spazi di autenticità creativa non significa che non la
debba condurre a misurare il proprio crescere con la presenza di altri, a coniugare, cioè, la propria
identità e la propria cultura con quella degli altri» (Perucca, 2002, in Cuccurullo, 2002).
Purtroppo, coltivare la creatività nelle scuole oggi, significa per molti creare soltanto attività
laboratoriali o progetti extracurricolari, specialmente con riferimento all’esercizio di abilità
espressive di tipo artistico. Ma in realtà non è così: la creatività, proprio perché è il tratto distintivo
di ogni uomo, caratterizza l’azione umana di per sé e quindi essa trova posto in tutte le forme
espressive e in tutte le aree della conoscenza.
Nei primi livelli dell'educazione istituzionale (scuola dell’infanzia e scuola primaria) esiste un gran
numero di possibilità, che vanno dalla scrittura creativa fino all'ideazione di problemi matematici,
passando per tutta la gamma dell’espressione plastica e dinamica (García Hoz. 2005).
Successivamente presenteremo le metodologie ritenute da noi maggiormente efficaci per lo
sviluppo e il potenziamento delle abilità espressive nel bambino.
L’ autonomia
L’autonomia conferisce all’uomo una dignità superiore agli altri esseri che lo circondano, in quanto
lo pone come soggetto. Nella relazione soggetto-oggetto, infatti, il soggetto si trova sempre in una
posizione dominante rispetto all’oggetto.
L’uomo dimostra la sua superiorità rispetto al mondo attraverso la conoscenza e l’azione: la prima
in quanto l’uomo è in grado di possedere qualcosa della realtà che conosce, la seconda perché
soltanto l'uomo può accostarsi alle cose ed essere capace di modificarle in base a certe idee
concepite in precedenza.
Il mondo della cultura (il sapere) e il mondo della tecnica (il fare) hanno origine da queste due
possibilità di dominio che l’uomo, per sua natura, possiede.
Ogni uomo, essendo soggetto, ha potere sugli oggetti conosciuti e può agire su essi “in autonomia”
ma proprio questa caratteristica, che pone l’uomo al di sopra di ogni altro essere, può diventare una
seria minaccia per il suo benessere e per quello della comunità, se la sua azione non viene
finalizzata al bene del singolo e del collettivo.
La massima espressione dell'autonomia, ricorda García Hoz (2005) è la capacità di autogoverno, la
capacità di essere legge a sé stessi, il possesso e l'uso effettivo della libertà. Nel suo significato più
ampio la libertà indica l’assenza di costrizioni: infatti, libertà equivale a indipendenza; in questo
senso essa potrebbe essere intesa come “libertà da”. Essa ha però anche il senso positivo di scelta,
come capacità di autodeterminare le proprie azioni, quindi di poter scegliere in ogni momento della
vita l’azione che si vuol compiere, che si considera migliore tra le diverse possibilità che la
situazione offre; in questo senso la liberta può essere intesa come principio di attività e si esprime
come “libertà per”.
È proprio questa la superiorità dell’uomo rispetto gli altri esseri: poter scegliere come agire, e se ciò
è fatto con maturità e autogoverno allora la libertà diventa feconda.
Quando la libertà si realizza scegliendo tra possibilità ancora da scoprire si può parlare di iniziativa
personale che rappresenta un obiettivo dell'educazione della libertà.
L’educazione della libertà trova la sua autentica espressione nello sviluppo della capacità di scelta
ed educare a scegliere bene è un preciso obiettivo dell'educazione personalizzata.
L’uomo è comunque un essere creato, per tanto ha nella sua natura un limite invalicabile. Egli non
può creare dal nulla, può soltanto conoscere e agire su quanto è gia stato creato da Dio, inoltre a
volte l’intervento dell’uomo viene ostacolato da contesti ostili, o situazioni difficili; quando avviene
ciò occorre saper “misurare” le proprie forze e accettare di non poter superare quel dato problema o
di non saper affrontare quella certa situazione o ancora di avere sbagliato nel fare o nel dire
qualcosa. Anche l’accettazione è comunque una scelta e l’uomo va educato ad essa.
Ogni persona compie le proprie scelte e prende le proprie decisioni liberamente, sulla base dei
propri valori etici e delle proprie convinzioni personali. In questa prospettiva si pone a fondamento
l’importanza di “saper scegliere”, ossia di saper orientare le proprie scelte al bene personale e
comunitario. La cultura e i suoi valori devono essere fruiti non come strumenti di omologazione,
bensì come mediatori di un impegno comune e responsabile finalizzato a costruire nell’oggi il
futuro dell’uomo (Perucca, 2002, in Cucccurullo, 2002). Educare oggi alla “libertà”, nelle sue
accezioni più autentiche, significa quindi educare la persona ad “essere” persona, integrandosi
nell’ambiente mantenendo la propria specificità, grazie alla quale poter intervenire in esso
apportando un continuo e fruttuoso contributo.
Tenendo presente quanto detto, possiamo asserire che la libertà di iniziativa, la libertà di scelta e la
libertà di accettazione sono gli obiettivi dell’educazione personalizzata in funzione all'autonomia
dell'uomo.
L’apertura
L’uomo tende, per sua natura, a creare relazioni con l’altro; tali relazioni potremmo definirle
spontanee. Ma egli vive all’interno di istituzioni sociali, pertanto è chiamato a vivere relazioni, che
potremmo definire, di “dovere”, e se consideriamo che egli nasce in un contesto già costituito, che
non sceglie, possiamo ricavare che anche i legami, le relazioni parentali sono di fatto imposte. Da
qui la necessità di educare l'uomo a questo tipo di relazioni sociali.
Le relazioni familiari sono una prima tipologia di relazioni sociali; esse sono, inizialmente, imposte
ma in esse prendono vita tutta una serie di relazioni affettive speciali che non si trovano in nessun
altro tipo di comunità; d’altra parte, poiché la famiglia è una comunità data all’uomo quando nasce,
man mano che questi cresce è capace di tendere a una famiglia costituita sulla base di proprie
decisioni. Le relazioni familiari manifestano più di ogni altro tipo di relazione, la necessità di una
libertà di accettazione e, successivamente, di una libertà di scelta.
Esistono altre relazioni sociali, invece, che rispondono pienamente alla spontaneità dell'uomo,
rispetto alle quali egli si mantiene costantemente libero: sono tutte le relazioni la cui finalità è lo
stare insieme: si tratta delle relazioni di amicizia.
Infine, occorre ricordare la necessità, insita nell’uomo, di cercare la risposta ai tanti interrogativi da
sempre irrisolti. In questo caso siamo di fronte alla vocazione umana verso la trascendenza che può
essere soddisfatta solo quando l’uomo stabilisce relazioni con Dio.
Si evince pertanto l’esigenza di preparare l'uomo alle relazioni di collaborazione nella vita sociale,
in ambito lavorativo, familiare, di amicizia e di vita religiosa; obiettivi, questi, che l’educazione
personalizzata mira a promuovere, perseguire, raggiungere.
2. Creatività e personalizzazione
Usualmente con il termine “creatività” si intende la capacità di creare, cioè produrre qualcosa di
nuovo e originale, o di inventare.
L’atto del creare è stato percepito per lunghissimo tempo come attributo esclusivo della divinità,
mentre all’uomo è stato dato l’attributo di inventore e/o innovatore. Soltanto negli anni ’50 la parola
creatività entra a far parte del lessico italiano e viene attribuita all’atto umano.
L’idea di creatività, infatti, nel corso del tempo, ha subito dei cambiamenti, ma soprattutto è stata
affiancata a determinate e specifiche discipline, come la matematica, l’arte, la musica, la letteratura,
la psicologia e, per ognuna, sembra assumere significato diverso e allo stesso tempo complementare
l’uno all’altro.
Il termine “creatività” dà, inoltre, l’idea di “libere espressioni”, cioè di produzioni personali libere
da vincoli o condizionamenti. In realtà non è esatto pensare all’atto creativo come atto libero;
almeno per quanto attiene il concetto di creatività umana.
La creatività nell’espressione dell’uomo mette in gioco aspetti profondi della sua personalità e si
lega fortemente alle pregresse esperienze, per questo motivo, non può essere definita libera
espressione essendo, inevitabilmente, condizionata dalla storia individuale della persona; essa non
nasce dal nulla. Inoltre, poiché l’uomo vive in un contesto sociale che lo determina in un dato modo
ed entra con esso in continuo rapporto, non è neppure possibile attribuire l’aggettivo “libero” ad
un’espressione, quella creativa appunto, che una volta esternata fa anch’essa parte del sistema
sociale di riferimento.
“Creare” significa propriamente produrre qualcosa di nuovo che soddisfi un determinato bisogno.
Solo ciò che risponde efficacemente ad un bisogno ottiene il riconoscimento sociale di prodotto
creativo, innovativo. La creatività, dunque, come ambito dell’agire umano fa riferimento a fattori
individuali e a fattori sociali: al primo si riferiscono le caratteristiche dell’individuo creativo, alle
seconde il riconoscimento da parte di terzi. Non bisogna trascurare però che esiste una componente
culturale che tramanda, all’interno di una determinata cultura, ciò che è “creativo” da ciò che non lo
è. Detto ciò, come possiamo definire la creatività? Dal punto di vista socio – biologico la creatività
è una delle funzioni cognitive che contribuiscono all’adattamento evolutivo: l’uomo, infatti, è un
animale capace di “creare” il proprio mondo, di adattarlo e trasformarlo secondo le proprie
esigenze. L’aspetto individuale della creatività non è l’unico da considerare: la creatività si
manifesta, infatti, non soltanto nella capacità personale di risolvere problemi dati ma attraverso una
serie di capacità proprie dell’uomo, prima fra tutte quella relazionale. La persona creativa deve
sapersi relazionare e affermare se vuole proporre il suo prodotto innovativo, infatti, alcuni studiosi,
a seguito di studi di ricerca su diversi soggetti, hanno rilevato che le persone più creative si
connotavano tutte per socievolezza, perseveranza, indipendenza dal giudizio, autorevolezza,
assertività, leadership e doti comunicative. Ma le qualità in sé non servono a determinare l’essere
creativo, infatti, ciò che attribuisce l’appellativo in realtà è il giudizio della società.
È la comunità che riconosce o meno e valorizza le eccellenze. Diverse società e diverse culture
danno una definizione differente alla creatività e al “fare” creativo. In alcune culture il creativo, la
persona originale, si ritiene eccentrica rispetto alle norme sociali condivise dalla comunità, in altre è
considerato un genio, una persona da valorizzare per la sua eccellenza personale. Lo studio della
creatività va al di là della semplice e superficiale individuazioni dei fattori che ne favoriscono
l’espressione, essa coinvolge molteplici aspetti della vita dell’uomo: aspetti sociali, culturali,
psichici e biogenetici.
La maggioranza degli studiosi (Guilford, 1950; Bruner, 1968; Gardner, 1991;) definisce la
creatività” come la facoltà di “creare” qualche cosa di nuovo, che prima non c’era, attingendo
contemporaneamente a dati reali e al frutto dell’immaginazione, alle attività dell’emisfero sinistro e
a quelle dell’emisfero destro del cervello”. Infatti, come è noto, il cervello dell’uomo è costituito
essenzialmente da due emisferi: il sinistro, sede del pensiero, della logica, del ragionamento
matematico e dell’uso della parola che controlla la parte destra del corpo e l’emisfero destro che,
oltre a controllare la parte sinistra del corpo, elabora l’immaginazione, il linguaggio analogico e il
simbolo.
Oliverio e Oliverio Ferraris (1978) nella loro definizione di cervello creativo, partono da ben note
evidenze empiriche che hanno evidenziato come gli emisferi cerebrali abbiano caratteristiche e
competenze diverse. In particolare, l’emisfero sinistro è più analitico, razionale e logico, usa
simboli e concetti astratti, e soprattutto, è la sede delle aree del linguaggio. L’emisfero destro, ha
una natura non verbale e non razionale; è più sintetico e concreto e si caratterizza per la sua capacità
analogica, cioè per la possibilità di portare ciò che è ignoto nel dominio del noto tramite
associazioni e metafore. Mentre la parte sinistra del cervello sembra percepire gli stimoli in modo
analitico, l’emisfero destro li percepisce nella loro globalità. Nell’emisfero destro quindi è facile
rintracciarvi le caratteristiche della creatività.
Da recenti studi si è notato come nella nostra società tutte le attività dell’emisfero sinistro siano
maggiormente sviluppate e valorizzate nel corso del tempo. La scarsa valorizzazione delle facoltà
non razionali, quindi, potrebbe essere la principale causa della mancanza di creatività, notata da
diverso tempo, ormai, nella nostra cultura. C’è da dire però che la creatività si esercita sviluppando
e potenziando l’interazione tra i due emisferi del cervello, ciò significa che ragione e fantasia
devono lavorare insieme per sfociare in creatività.
Nella scuola non è possibile prediligere un genere di attività, di tipo logico-razionale, da un altro
genere di tipo pratico e fantasioso; si farebbe un enorme torto alla crescente personalità degli alunni
che, già nell’apprendere in modo “personale” danno vita alla propria capacità creativa.
La componente creativa dell’alunno non deve essere pertanto inibita, perché spesso ritenuta
inconsueta, né deve essere indirizzata dall’espressione del docente. Si pensi all’Emilio di J. J.
Rousseau1 (1712-1778): questi è l’esempio di educando che segue pedissequamente il progetto
educativo del suo educatore; ma cosa accadrebbe se l’alunno proponesse un proprio stile elaborando
proprie idee, regole? Nel caso in cui ciò avvenisse, è compito del docente accogliere l’atto
propositivo, oserei dire “creativo”, dell’alunno e, nelle norme di rispetto interpersonale, entrare in
dialogo con lui per cogliere quanto di “personale” vi è nella sua proposta.
Questo atteggiamento, non inibendo la personalità dell’educando, né mortificandola in alcun modo,
offre opportunità di confronto, di apertura, di crescita e di stimolo non indifferenti.
La componente creativa, a scuola, quindi, deve essere utilizzata per fare emergere gli stili cognitivi
degli alunni e favorire le procedure di didattica differenziata, consentendo all’insegnante di
conoscere davvero il proprio alunno e allo studente di avere valorizzate le proprie capacità.
La possibilità di “essere”, per mezzo dell’espressione creativa, favorisce negli alunni la motivazione
allo studio e la partecipazione di tutti.
1
Jean Jacques Rousseau, uno dei padri della pedagogia moderna, nel romanzo “Emilio”, ha narrato il percorso
educativo di un giovane educando, descrivendo i processi propri dell’educazione alla libertà.
2.1 Creatività e intelligenza
La creatività è considerata, in ambito psicologico, come la capacità o l’insieme di capacità che
favorisce l’adattamento; più generalmente ad essa viene riferito quell’insieme di capacità mentali
indicate semplicemente con il termine “intelligenza”; fa riferimento a questo concetto la capacità di
risolvere i problemi e trovare soluzioni (problem solving).
Le capacità creative, infatti, contribuiscono alla risoluzione dei problemi e, solitamente, le persone
più dotate di questa capacità, sono ritenute “creative” e, comunque, notevolmente dotate sul piano
dell’intelligenza. Il “creativo”, più che colui che risolve i problemi dovrebbe essere colui che ne
scopre dei nuovi e si attiva per trovarne la soluzione. Chiunque, infatti, memore di un’esperienza
personale o generalizzando le informazioni acquisite, può trovare la risoluzione a determinati
problemi. In questo caso, la persona è sicuramente dotata di intelligenza, ma la si può definire
“creativa”?
Il soggetto intelligente, per la risoluzione dei problemi, fa riferimento a quelle regole conosciute e,
per quanto complesso possa essere applicarle alla realtà, trova il modo di farlo.
Il creativo, invece, piuttosto che applicare quanto già scoperto da altri, dovrebbe essere capace di
riformulare il problema da risolvere, secondo il proprio punto di vista, quindi fornire nuove
soluzioni, cioè delle risposte innovative e utili.
Secondo Guilford (1950) la creatività non è una funzione unitaria o uniforme ma si compone di
molteplici fattori o capacità mentali primarie. In particolare, essa risiede nel “pensiero divergente”
le cui caratteristiche principali sono la flessibilità, l’originalità, la fluidità o la capacità di produrre
rapidamente una successione di idee che soddisfa determinate richieste. La flessibilità è intesa come
la capacità di abbandonare i vecchi modi di pensiero e avviarsi lungo nuove direzioni. L’originalità
è la capacità di produrre risposte non comuni o associazioni non convenzionali. La fluidità del
pensiero, a sua volta, si divide in quattro sotto componenti quali: la fluidità verbale o capacità di
produrre delle parole; la fluidità associativa o capacità di produrre il maggior numero di sinonimi,
fluidità espressiva o capacità di combinare parole per soddisfare le esigenze della struttura della
frase e la fluidità ideativi, ovvero al capacità di problem solving.
Nella prospettiva psicoanalitica proposta da Freud (1985), successivamente sviluppata da altri
studiosi, la creatività è interpretata come la capacità di far ricorso a contenuti inconsci o preconsci
particolarmente vivaci e produttivi. Wallas (1926) ha scomposto il pensiero creativo in quattro stadi
che passano per le fasi di preparazione, incubazione, illuminazione e verifica. La fase di
preparazione vede il soggetto creativo impegnato nelle operazioni preliminari volte alla raccolta,
alla ricerca delle idee creative. La seguente fase di incubazione fa riferimento a quell’arco
temporale nel quale l’idea creativa si sedimenta all’interno della mente del soggetto e il materiale
raccolto subisce un processo inconscio di elaborazione. L’illuminazione fa riferimento alla
soluzione del problema da parte del soggetto creativo e, in fine la verifica che è il riscontro dell’idea
sul piano della realtà.
Wertheimer (1880-1943), nell’ambito della psicologia della Gestalt, fa coincidere la creatività con il
pensiero produttivo o insight (o illuminazione). Per tale studioso il processo creativo consiste,
infatti, nel passaggio da una situazione strutturalmente instabile o insoddisfacente ad una situazione
che offre una soluzione o, in altri termini, ad una Gestalt migliore.
Bruner (1968) partendo dalla definizione di atto creativo, contraddistinto dalla presenza di una
sorpresa produttiva, afferma che il segno distintivo di un’azione creativa è che essa genera una
sorpresa produttiva. Il concetto di sorpresa produttiva si riferisce ad un atto inatteso che colpisce
l’osservatore, provocando in lui stupore o meraviglia.
Lo sviluppo delle neuroscienze e delle discipline cognitive ha messo in relazione il concetto di
creatività con il “tipo” di intelligenza posseduta dai soggetti; questi studi, infatti, abbracciano il
modello di intelligenza dal carattere multi-dimensionale2, che valorizza le singole abilità possedute
dall’uomo e che, insieme, determinano l’intelligenza della persona. L’uomo, infatti, non possiede
un solo tipo di intelligenza ed è privo degli atri tipi e non è la diversa tipologia di intelligenza a
distinguerlo da altri uomini.
Nel corso del tempo, numerosi studi, effettuati al riguardo, hanno riconosciuto che l’intelligenza
non è altro che un insieme di abilità che dipendono dal funzionamento del cervello; essa, cioè
dipende da come il cervello umano mette in relazione le capacità percettive, mestiche e di
comparazione degli stimoli. Tutto ciò, inoltre, è governato dal patrimonio genetico che, chiaramente
si diversifica da persona a persona. Nonostante il carattere di ereditarietà appare condiviso da più
gruppi di ricerca che uno dei fattori che maggiormente determina lo sviluppo dell’intelligenza è
l’esercizio delle abilità che la costituiscono: la memoria si può esercitare e così pure la capacità di
percepire e di mettere a confronto più stimoli. Per molti studiosi, quindi, la creatività non è
semplicemente espressione di intelligenze, piuttosto è parte integrale delle capacità e delle abilità
che la determinano.
Altri autori, invece, sono propensi a considerare una rilevante autonomia delle capacità creative
rispetto a quelle dell’intelligenza. Barron (1958), uno dei maggiori esponenti nel campo della
ricerca sulla creatività, sostiene che l’intelligenza sia sostanzialmente un costrutto i cui confini sono
dati dagli strumenti di misurazione, utilizzati durante ricerche empiriche. Secondo l’autore, se
l’intelligenza è misurata come l’insieme delle capacità che consentono al soggetto di dare risposte
corrette a quesiti di natura verbale o logico-matematica, la creatività non può, in alcun modo, essere
accomunata ad essa. Fornire risposte corrette facendo riferimento a informazioni già possedute non
è sufficiente per definire quel determinato soggetto, un creativo.
Sulla base del suo approccio empirico, Barron ha esaminato gli studi effettuati che hanno indagato
sulla relazione tra creatività e intelligenza e ha notato che dagli studi condotti emergeva
costantemente un dato: le persone giudicate particolarmente creative in campo artistico, scientifico,
letterario, ecc., avevano punteggi elevati ai test di intelligenza generale; però comparando tali
misurazioni di intelligenza con gli indici di creatività, basati sul giudizio di terzi, la proporzione non
reggeva più: creatività e intelligenza si dimostravano scarsamente correlate tra loro.
Da questa ricerca Barron generalizzò una sua ipotesi, secondo la quale essere creativi implica un
fare innovativo, un produrre qualcosa di nuovo e utile, o comunque che sia corrispondente a bisogni
reali e condivisi dalla comunità, tale da poter essere giudicato originale, innovativo e funzionale.
Un problema che ancor oggi la ricerca sulla creatività deve affrontare riguarda la mancanza di test
adeguati per la misurazione delle abilità creative; molti test, costruiti in forma di risposta aperta o a
scelta multipla, utilizzati su diversi soggetti e in diverse occasioni, hanno dimostrato una scarsa
specificità. Il criterio era, infatti, quello di rilevare le risposte inusuali, rispetto alla media delle
risposte offerte, ma questo non ha consentito di rintracciare la personalità creativa; anche soggetti
chiaramente disturbati, infatti, fornivano risposte inusuali, da essere giudicate creative, pur non
essendolo.
2
Il modello di intelligenza a cui ci si riferisce è quello descrittivo sviluppato dal ricercatore Howard Gardner. Lo
psicologo (1985) ha proposto una teoria, definita “teoria delle intelligenze multiple”, secondo la quale esistono 7 tipi di
abilità (linguistica, logico-matematica, spaziale, musicale, corporeo – cinestesica, interpersonale, intrapersonale),
ciascuna delle quali è identificata, dallo studioso, come un tipo distinto di intelligenza che implica l’attività di
meccanismi cerebrali complessi. Successivamente Gardner ha individuato un’ottava intelligenza, quella naturalistica e
ha ipotizzato la presenza di una nona intelligenza, ossia quella esistenziale.
A differenza della misurazione dell’intelligenza, caratterizzata dall’elemento di predittività delle
risposte, quella della creatività è una misurazione ben più difficile da svolgere: non si sa ancora,
infatti, se i test finora utilizzati siano in grado di prevedere la riuscita reale del soggetto in campo
creativo. La scarsa predittività dell’intelligenza ai fini del successo creativo sembra confermare la
tesi di Barron e altri ricercatori sulla scarsa correlazione tra intelligenza e creatività. Essere
intelligenti è probabilmente un prerequisito per l’espressione della creatività ma essere creativi
comporta il possesso di qualità distinte da quelle che determinano l’intelligenza.
Alcuni studiosi, tra i quali Arieti (1976), hanno sostenuto che, in certi casi, l’intelligenza possa
costituire un freno all’espressione della creatività. Il ricercatore, analizzando la relazione tra
creatività e malattie mentali, ha notato che soggetti in cui erano presenti forme di inibizione, di
rigidezza ed eccessiva autocritica possedevano un quoziente intellettivo molto elevato.
Intelligenza e creatività appaiono quindi dei costrutti distinti sebbene interrelati. Molti ricercatori
concordano nel ritenere possibile che le capacità cognitive atte all’espressione dell’intelligenza
contribuiscono sicuramente anche alla riuscita in ambito creativo ma una elevata intelligenza non è
sufficiente a garantire il successo in campo creativo.
Vygotskij (1973) assimila la creatività all’attività creativa o combinatrice del pensiero umano.
Quest’ultima, riferendosi alla creazione di immagini, o azioni nuove, si differenzia dall’attività
riproduttrice del pensiero che si limita solo a riprodurre o ripetere comportamenti acquisiti in
precedenza dall’individuo. L’attività creativa o combinatrice del pensiero origina dalla capacità
combinatoria del cervello che non si limita solo a conservare e riprodurre l’esperienza antecedente
del soggetto, ma anche a rielaborare creativamente e combinare tra loro i diversi elementi
dell’esperienza, generando situazioni e comportamenti nuovi.
Di certo la creatività riveste un ruolo centrale tanto nella ricerca di soluzioni originali ed innovative
(problem solving) quanto nell’analisi, e relativa ottimizzazione di situazioni e processi complessi
(problem making). Più che una dote del carattere essa rappresenta una forma mentis dell’individuo,
un modo di rapportarsi alla realtà, di concepire e vivere la vita. Tale habitus mentale, attraverso
un’opportuna formazione, può essere appreso ed incrementato da ogni persona.
3. La competenza espressiva
Nello scenario educativo odierno appare sempre con maggiore convinzione, la necessità di far
convergere tutte le energie e le risorse umane e materiali verso un obiettivo di fondo corrispondente
alla promozione e allo sviluppo delle potenzialità del soggetto che apprende, affinché questi acquisti
un’autonoma capacità di affrontare le diverse esperienze, imparando a riconoscere e ad utilizzare gli
strumenti necessari per meglio vivere tali esperienze.
Guardare alle potenzialità della persona non significa soltanto educare alla conoscenza di sé e allo
sviluppo di competenze di ruolo, che permettono di assolvere a compiti sociali, ma soprattutto
educare alla capacità di investire su di sé, di progettare la propria vita e per questo occorre
consentire lo sviluppo di competenze umane che consentono di poter vivere la propria vita in modo
dignitoso e umanamente realizzato (Nanni, 2003).
La logica per competenze richiede un cambiamento di prospettiva: la scuola non più intesa nella sua
tradizionale forma di contenitore del sapere “ricettivo – riproduttivo”, bensì come ambiente in cui il
sapere si organizza di continuo in termini di produttività attraverso i contenuti disciplinari che, in
forma aggregata, offrono nuove chiavi di lettura del reale. Per Frabboni (1999), l’affermazione di
una didattica delle competenze richiede la ricerca di un rapporto fecondo tra le diverse discipline, in
modo tale che al centro della didattica ci sia l’acquisizione di competenze di diverso livello che
man, mano si integrano tra loro organizzando un sapere che va oltre il disciplinare.
Nelle Indicazioni Nazionali (2004), si parla di Unità di Apprendimento come occasioni di sviluppo,
di maturazione e di trasformazione delle capacità della persona in competenze, attraverso
l’acquisizione di conoscenze e di abilità. Esse, infatti, non hanno una funzione informativa di
contenuti e nozioni, ma una funzione formativa perché sono progettate come occasioni per lo
sviluppo globale della persona dell’alunno: si strutturano quali percorsi atti a sviluppare, in maniera
armonica e integrale, le capacità intellettuali, motorie, linguistiche, espressive, estetiche, affettive,
sociali, morali e religiose di ciascuno, affinché possa conoscersi e possa utilizzare strategie
personali per comprendere la realtà, capirla e trasformarla. Ogni alunno quindi deve essere messo
nelle condizioni di vivere esperienze significative per la costruzione di tutte le dimensioni della
propria personalità e di sentirsi protagonista di un fare che sollecita sempre il sapere. Anche se nelle
Ultime Indicazioni per il curricolo (2007) non si parla nello specifico di Unità di Apprendimento,
permane l’orientamento di progettazione di un “percorso di apprendimento” il cui traguardo resta
l’acquisizione di competenze da parte degli alunni. Per quanto concerne il concetto di competenza,
inoltre, prima di entrare nello specifico della didattica, sembra importante evidenziare la nascita del
concetto stesso al fine di coglierne l’importanza in ambito educativo-didattico.
L’affermazione del concetto di competenza in ambito educativo sembra, infatti, derivare da
significati diversi che tale termine ha definito in diversi ambiti linguistici, psicologici e sociali. «La
nozione di competenza in ambito linguistico e psicologico rinvia alla distinzione fra le strutture e le
operazioni mentali che spiegano l’azione individuale e i comportamenti osservabili che ne
derivano» (Maccario, 2006, p.35).
In ambito linguistico, il concetto di competenza acquista una certa rilevanza grazie a Chomsky
(1970), che conferisce significato distinto alla nozione di performance e di competenza. Secondo il
linguista la competenza è costituita da tutto ciò che un determinato soggetto è in grado, seppure
idealmente, di realizzare grazie al proprio materiale biologico; al contrario la performance è data
dal comportamento osservabile, quindi è riflesso della prima.3 Secondo l’interpretazione data da
Chomsky (1970) il concetto di competenza si lega fortemente al concetto di intelligenza che, a sua
volte, richiama in causa le componenti biologiche. Alcuni studiosi hanno sviluppato una nozione di
competenza che richiama funzioni psicologiche come la memoria, la percezione, l’attenzione, che
sono disposizioni di per sé innate ma che si sviluppano e potenziano mediante stimoli esterni
relativi al contesto ambientale e culturale di riferimento. Da tali contributi, nell’ambito della
psicologia dello sviluppo cognitivo, si è giunti a ritenere che tra competenza e performence esista
una distinzione netta secondo la quale la prima avrebbe un carattere innato preesistente, mentre la
seconda sarebbe piuttosto l’attualizzazione della competenza in una determinata situazione.
In ambito scolastico, la distinzione tra competenza e performance, posta da linguisti e psicologi,
tende ad essere superata. La risposta dell’allievo è di fatto legata non soltanto al proprio potenziale
ma anche alle caratteristiche del gruppo classe, degli insegnanti e del contesto scolastico. Riferisce
Maccario (2006, p.37): «per sua stessa natura, la situazione educativa rende difficile l’utilizzo, in
campo educativo, del tandem competenza /performance così come è definito dai linguisti e dagli
psicologi. Per esempio, nel momento in cui un futuro insegnante svolge un’attività di stage in una
classe, il suo modo effettivo di gestire la classe (la sua performance) dipende tanto dalle relazioni
che vi si sviluppano con gli allievi (una delle caratteristiche della situazione educativa) che dalla
preparazione della sua attività, registrata a priori su una scheda. […] Come potrà essere analizzata
tale attività se non prendendo in considerazione incessantemente l’insieme delle variabili che
l’hanno determinata? Esse dipendono tanto dalla situazione educativa che dalle competenze dello
studente e dalla sua performance».
3
Noam Chomsky formula il concetto di competenza linguistica per contrastare l’approccio comportamentista che
spiegava lo sviluppo del linguaggio sulla base di meccanismi “stimolo-risposta”, quindi a condizionamenti esterni alla
persona parlante. L’autore fece notare come, partendo da tale assunto, fosse impossibile dare una spiegazione alla
rapidità con cui un bambino acquisisce le principali strutture linguistiche. Al fine di dare una spiegazione a ciò, egli
ipotizza l’esistenza di una sorta di predisposizione innata, comune a tutti gli uomini che definisce “organo mentale” che
conferisce a ciascun soggetto una disposizione ideale e intrinseca alla produzione e alla comprensione del linguaggio. In
tal senso la competenza risulta essere interna alla persona. Le performance linguistiche, invece, essendo manifestazioni
concrete della competenza possono anche allontanarsi dalla competenza ideale inscritta nelle potenzialità del soggetto,
in quanto sono soggette e condizionate da fattori di ordine organico, comportamentale o socio-contestuale.
La progettazione didattica che mira all’acquisizione da parte del soggetto delle competenze umane,
oltre che di ruolo, deve necessariamente considerare tutti questi aspetti della relazione educativa ed
utilizzare l’esperienza e il sapere stesso non come punto di arrivo, bensì come “strumento per…”.
Infatti, come riportano le ultime Indicazioni per il curricolo (2007), le conoscenze e le abilità, che
pian, piano l’alunno acquisisce, devono essere generalizzate, quindi applicate in campi sempre più
vasti, affinché la rete dei collegamenti tra le conoscenze, le abilità e il mondo possa estendersi e
quindi l’azione educativa possa dare il suo frutto nella scuola e anche nella vita.
Le capacità di ogni essere umano, il potenziale innato di cui si diceva, sono le risorse di cui egli
dispone (capacità di comunicare, di esprimersi, di simbolizzare, di ragionare, di volere, ecc.) e
rappresentano una potenzialità, una propensione della persona a fare, a pensare, ad agire in un
determinato modo, in modo “creativo”, cioè diverso da quello di altre persone.
La funzione specifica dell’educazione è quella di consentire a ogni persona di sviluppare, esercitare,
consolidare le proprie potenzialità maturandole in competenze.
I contenuti, quindi altro non sono che il supporto per il raggiungimento di una competenza, mentre
le conoscenze e le abilità risultano essere veri e propri strumenti della persona che, se li assimila e li
personalizza, può utilizzarli per tutta la sua vita.
«Le competenze si manifestano nelle prestazioni di chi, in un dato contesto, utilizza le conoscenze e
le abilità acquisite, sfrutta opportunamente le risorse e i mezzi presenti, si assume liberamente la
responsabilità di modificare una situazione anche infrangendo schemi e regole note, risolve un
problema o esegue un compito imprimendovi il suo sigillo personale» (Sacristani Mottinelli, 2004,
p.33).
Si è competenti, pertanto, quando «si decidono le azioni buone mentre si compiono, le si valuta e le
si corregge nella situazione concreta e particolare, si esplorano gli elementi impliciti nelle azioni
stesse per tenerne conto in quelle successive, si ristrutturano significati e fini sulla base dei mezzi
impiegati» (Bertagna, 2004, pp.37-38). Il soggetto competente è colui che sa attivare le stesse
conoscenze e applicare abilità anche in situazioni differenti da quella originaria e attuale, perché è
capace di cogliere le caratteristiche comuni esistenti in contesti tra loro differenti. Le competenze,
pertanto, sono esiti che chiamano in causa la totalità della persona e ne mettono in atto conoscenze,
abilità, attitudini fisico-percettive, affettive, intellettive, operative, espressive. Esse sono il risultato
globale di processi contestuali e soggettivi e l’espressione personale di esse è la manifestazione
esterna di ciò che la persona ha assimilato, interiorizzato e rielaborato a livello personale.
2. La competenza espressivo-simbolica
Precedentemente si è fatto riferimento all’espressioni dell’educazione personalizzata individuate da
García Hoz (2005), quali: la singolarità, l’autonomia e l’apertura. Si è detto che esse si riconducono
al concetto di singolarità e originalità dell’essere persona, alle sue peculiarità in quanto essere
“libero” e “sociale”. In ambito relazionale, la forza della comunicazione e, fra tutti i livelli
comunicativi, quello linguistico appare, nella nostra cultura, di maggior forza.
L’analisi sulla dimensione linguistica della persona e della relazione dell’uomo con la parola pone
l’attenzione sulle possibilità di sviluppo della libertà umana che consente la valorizzazione delle
numerose virtù possedute da ciascuno.
La persona libera, infatti, nel rapporto comunicativo con gli altri, esprime la propria creatività
linguistica che può risultare di notevole interesse per definire l’educabilità dell’uomo. Essa non è
da intendere come una semplice arte o attitudine di alcuni soggetti eccezionali. Chi è in grado di
parlare creativamente esprime soprattutto se stesso, la propria volontà di significato. La parola
creativa è l’espressione del potere linguistico della persona; il dire creativo esige attenzione affinché
quello che viene espresso corrisponda esattamente a quello che si intende dire.
Se da un lato la creatività linguistica comporta la possibilità di prendere le distanze da frasi
stereotipate e luoghi comuni, dall’altro è l’espressione del modo di significare in termini di
originalità ed intelligenza e coinvolge la responsabilità e la libertà dell’io, pertanto mette in gioco il
suo potere di decisione autonoma.
La letteratura sulla linguistica offre, a tal proposito, notevoli contributi che si identificano con la
rivendicazione del diritto dell’uomo alla valorizzazione delle proprie potenzialità. De Saussure
(1968) sostiene che il mondo della langue è un mondo dentro il quale il soggetto giunge con tutta la
sua forza innovativa. Il parlare deve essere inteso come concetto che integra e rende compresenti
parole e langue, espressività e convenzionalità, creatività e norma.
Chomsky (1970) adopera il termine “creatività” in senso stretto e indica il carattere inedito che
possono avere i segni linguistici in quanto combinazione di monemi. Partendo da un numero finito
di unità di base (i monemi) e con un numero finito di regole sintattiche, la lingua serve a produrre e
riconoscere un numero potenzialmente infinito di frasi, molte delle quali mai formulate prima e
tuttavia dicibili e comprensibili.
Le esperienze di educazione alla creatività espressive-linguistica esigono l’impegno a considerare
l’uomo nella sua struttura pluridimensionale e nell’armonia delle sue funzioni, quindi, la scuola, in
particolar modo, è chiamata in causa nella promozione e nel sostenimento della parola libera e
creativa attraverso l’esercizio di molteplici forme esperienziali di espressione creativa.
La promozione dell’espressione personale è, quindi, una condizione indispensabile per la vita
sociale e per l’esercizio della libertà della persona, perché attraverso essa è possibile stabilire
relazioni umane. In tali rapporti l’uso della parola si pone in una collocazione determinante in
quanto consente l’esternazione del proprio pensiero, degli affetti, delle emozioni.
L’educazione all’espressione risulta di importanza fondamentale nella prospettiva dell’educazione
personalizzata in quanto presuppone un’azione educativa continua atta a far convergere una serie di
fattori cognitivi e linguistici in direzione del loro sviluppo armonico ed equilibrato. L’espressione
linguistica, orale e scritta, infatti, consente all’uomo di manifestare il proprio universo cognitivo e
affettivo a sé e agli altri e di entrare in relazione con il mondo circostante. La complessità del
fenomeno linguistico-espressivo richiede, per l’appunto, la padronanza di competenze comunicative
che devono integrarsi a vari livelli.
Se la comunicazione ha un aspetto intrinsecamente sociale, l’espressione propone una dimensione
più personale, infatti, l’espressione e la comunicazione si realizzano attraverso il linguaggio, che
manifesta l’interiorità dell’uomo, ma richiamano tutta una serie di specificità della persona che
riguardano l’aspetto più intimo e “originale” e allo stesso tempo globale e integro della persona.
Qualsiasi azione didattica che si proponga di stimolare e promuovere lo sviluppo espressivo verbale
negli alunni esige di muoversi all’interno di una riflessione che, partendo dalle potenzialità della
persona, si orienti alla ricerca del significato autentico della sua espressione.
La persona umana, che per natura, dicevamo, è portata a vivere socialmente si ritrova
inconsapevolmente dentro relazioni sociali già dal momento in cui nasce in quanto è inserita di fatto
in un contesto sociale comunitario.
Da questa situazione ne deriva la naturale tensione all’interazione con l’altro (primo fra tutti la
madre) attraverso meccanismi comunicativi, in primo tempo spontanei e istintivi, via, via sempre
più strutturati e articolati. Nel primo caso la comunicazione è esclusivamente di tipo non verbale e
si affida in toto alla capacità interattiva del corpo; nel secondo, invece, ci si trova di fronte a una
realtà più complessa della comunicazione che riguarda l’espressione orale ossia l’interazione di
pensiero, parola, emozioni, desideri, sentimenti, ecc.
L’uomo, infatti, pur iniziando a comunicare attraverso il corpo, man mano cresce comunica e
interagisce con i propri simili soprattutto mediante l’espressione verbale, un’espressione del tutto
personale seppure fonda le sue radici su codici comuni e condivisi.
Per quanto concerne l’espressione verbale, l’analisi interpretativa dei contributi di ricerca a tal
proposito evidenziano il primato della dimensione linguistica della persona e dell’impiego del
linguaggio orale nei suoi aspetti creativi, pragmatici e socio-comunicativi, confermando il ruolo che
l’espressione linguistica ha nell’educazione della persona e nel processo di sviluppo di essa a livello
affettivo-relazionale e cognitivo.
Per comunicare l’essere umano si è sempre servito in modo privilegiato del linguaggio in quanto
mezzo che rende la persona capace di esprimere il proprio mondo interiore, esperienziale e
cognitivo. Mencarelli (1972) sostiene che il linguaggio è uno strumento di rivelazione della
personalità, di determinazione e di possesso di precise forme di “cultura umana” e quindi di
comunicazione.
Per la costruzione della personalità il linguaggio verbale ha un ruolo fondamentale in quanto non
soltanto potenzia la comunicazione ma favorisce l’interazione e l’integrazione sociale, lo sviluppo
del pensiero e l’espressione della vita emotivo-affettiva e relazionale. L’espressione verbale è di
fondamentale importanza nella vita sociale e individuale perché grazie alla padronanza sia ricettiva
(comprensione) che produttiva di parole e frasi, è possibile intendere gli altri e farsi intendere,
catalogare, ordinare, sottoporre ad analisi l’esperienza e trasformarla (De Mauro, 1989).
Attraverso l’uso del linguaggio, inoltre, è possibile organizzare e tramandare la propria cultura e,
proprio la lingua rappresenta, come evidenzia Bruner (1967), la forza dinamica della cultura di una
determinata società. L’autore evidenzia come il linguaggio costituisca, per l’uomo, uno dei
principali strumenti atti alla trasmissione di informazioni, di valori, di tradizioni, di norme. Ogni
comunità, infatti, possiede un proprio repertorio linguistico costituito da diverse forme linguistiche
che vengono utilizzare nelle più svariate circostanze dai parlanti, modificandosi in base al contesto
di riferimento e alle dinamiche di interrelazione che i parlanti mettono in atto nelle diverse azioni
sociali: da quelle familiari a quelle pubbliche come dibattiti, conferenze, ecc.
Esiste, inoltre, un altro aspetto proprio del linguaggio, in relazione al suo rapporto con i processi
mentali messi in atto per la sua comprensione e per la sua fruizione. Ausubel (1995) osserva che è
soprattutto in virtù del linguaggio che gli uomini sono capaci di imparare concetti astratti, di
apprendere per ricezione in modo significativo, di risolvere significativamente complessi problemi
di relazione senza venire direttamente in contatto con gli oggetti e i fenomeni in questione; questa
abilità è la “rappresentazione simbolica” che comincia a svilupparsi allor quando il bambino
sviluppa il pensiero simbolico. Il bambino che impara a parlare, evidentemente, è impegnato a
memorizzare il codice linguistico del proprio gruppo sociale di appartenenza ma, allo stesso tempo,
attraverso il linguaggio costruisce un quadro della realtà che lo circonda e della realtà che è interna
a se stesso.
Pertanto mentre il bambino compie una costruzione della realtà sta compiendo la sua personale
costruzione del suo sistema semantico, con il quale codifica la sua realtà; nasce da questo primo
importantissimo passo la percezione di sé e la visione della vita strettamente personale ed unica. Al
riguardo, fa notare Titone (1964), se il linguaggio è una manifestazione della totalità della persona,
esso è essenzialmente espressione-comunicazione dell’essere umano nella sua singolarità:
espressione di sé a sé, e comunicazione di sé agli altri.
La natura dell’espressione è pertanto un fatto estremamente personale ma anche sociale e, quindi,
collettivo: si comunica, infatti, per esprimere se stessi e ci si esprime per comunicare agli altri.
L’anello di congiunzione tra espressione e comunicazione è la parola, mezzo che nasce dalla
comunità ma che assume significato dalla storia personale dell’uomo, dall’esperienza e dalla
conoscenza che ha di sé e del mondo.
L’analisi interpretativa dei diversi contributi, soprattutto di quelli che rivendicano il riscatto dei
significato della dimensione linguistica della persona e del linguaggio verbale orale nei suoi aspetti
creativi, pragmatici e socio-comunicativi, hanno riaffermato il ruolo che la lingua parlata ha nella
comunicazione linguistica e nella maturazione affettiva e cognitiva della persona.
La parola, in particolar modo, ripropone la precedenza della dimensione sonora su quella visiva e
l’immediatezza di una condizione comunicativa capace di avvalorare unicità e singolarità,
originalità ed espressività personali. La parola orale, rispetto a quella scritta, infatti, consente
all’uomo l’espressione dei propri pensieri e del personale universo culturale e conoscitivo in modo
più autentico e creativo, a ragione della minore tendenza al controllo che in essa viene esercitata.
Il linguaggio è così centrale all’interno del processo educativo che il suo ruolo è sempre stato
primario rispetto al resto, infatti, nessuno può concepire un’educazione senza di esso. La maggior
parte di quello che si apprende, lo si fa attraverso il linguaggio verbale; il sistema verbale ha una
duplice modalità di articolazione: l’espressione orale e l’espressione scritta.
Gli usi del linguaggio possono suddividersi in due coppie parallele: il parlare e l’ascoltare, da una
parte; lo scrivere e il leggere, dall’altra. Gli elementi di ciascuna coppia sono, ovviamente,
complementari. Le quattro forme distinte di comunicazione sono tutte coinvolte nel processo che
porta un essere umano a raggiungerne un altro e ad entrare in contatto con lui, e sono essenziali nel
rapporto educativo.
4. La competenza espressivo-pratica
Il linguaggio verbale è, senza dubbio, il mezzo più efficace per esprimere idee complesse e astratte
ma, l’uomo, come abbiamo precedentemente detto, non si avvale solo della parola per comunicare.
II sistema della comunicazione non verbale, denominata anche extralinguistica e paralinguistica,
accompagna, completa, modula, ritma ciò che è detto con le parole. Esso è rappresentato dagli
sguardi e dalle espressioni del viso, dai gesti e dai movimenti, dalle posture del corpo, dalle distanze
tra i comunicanti, dal tono e dalle inflessioni della voce ed anche dal modo di vestirsi, pettinarsi,
ecc. e, trasmettendo messaggi e informazioni indipendenti dal codice linguistico, in un certo senso,
esprime più in profondità e con immediatezza la soggettività dell’essere umano.
Il soggetto competente dal punto di vista comunicativo è, solitamente, in grado di utilizzare una
serie di abilità di carattere differenziato: linguistiche, relative alla componente verbale del discorso
e alle regole formali che consentono di operare con un determinato linguaggio; paralinguistiche,
relative alle caratteristiche prosodiche che accompagnano i messaggi linguistici (tono di voce,
enfasi, cadenza, pause); cinesico-gestuali, relative al ruolo svolto dai movimenti del corpo, dagli
atteggiamenti del volto- dalla mimica e dai gesti; prossemiche, che si riferiscono agli atteggiamenti
spaziali assunti nel corso dell'interazione comunicativa; pragmatiche, relative ai comportamenti
messi in atto nel corso dell’interazione; socioculturali, relative ai contesto e alle situazioni sociali;
semiotiche, inerenti la capacità di impiegare una pluralità di codici espressivi oltre quello verbale.
I messaggi interpersonali della comunicazione quotidiana percorrono simultaneamente vie uditive e
visive, rinforzandosi reciprocamente o talvolta contrapponendosi in eventuali contrasti di
significato. Una scrollata di spalle, una smorfia, un’alzata di sopracciglia, un gesto con le mani:
questo tipo di tratti che accompagnano la produzione di quello che può essere chiamato il “testo
verbale”, forma una vera comunicazione simultanea non secondaria, considerato che può
modificare, integrare, annullare il significato letterale di ciò che viene detto.
Gli studiosi di pragmatica hanno evidenziato che «la pragmatica della comunicazione riguarda ogni
posizioni del corpo, i gesti, le espressioni del viso, le inflessioni della voce, la sequenza e il ritmo
delle stesse parole, e ogni altra espressione non verbale del soggetto, come anche i segni di
comunicazione presenti in ogni contesto in cui ha luogo una interazione» (Watziawick et alii, 1971,
p.55).
In genere si opera una distinzione fondamentale fra comportamenti paralinguistici e
sovrasegmentali (tono di voce, grida, inflessione, intonazione, timbro, velocità di elocuzione) e le
modalità gestuali, non linguistiche, che trasmettono il messaggio attraverso i movimenti del corpo, i
gesti, le posture, le espressioni facciali, ecc. Il settore visivo-gestuale abbina i movimenti dei
muscoli facciali e anche di altre membra alla stimolazione dei recettori visivi. Per Titone (1964) lo
schema di questo canale comunicativo è sostanzialmente identico a quello della comunicazione
linguistico-verbale: una serie di reazioni comportamentali di un individuo (trasmittente) produce
una serie di stimoli che possono venire interpretati da un altro individuo (il ricevente), e viceversa.
Il linguaggio parlato è, dunque, solo uno dei mezzi di comunicazione.
Nella nostra complessa cultura, e quindi nel sistema di insegnamento che essa produce, è
praticamente impossibile trasmettere tutto il contenuto della comunicazione educativa con i soli
comportamenti non verbali. I comportamenti non verbali da soli non possono assicurare tutta la
comunicazione.
Nell’uomo la comunicazione non verbale si lega a quella verbale, nel manifestare gli stati emotivi e
modi di essere del parlante. Alcuni comportamenti non verbali servono direttamente ai messaggi
verbali concretizzandoli, illustrandoli, ritmandoli, punteggiandoli; in parecchi casi essi assicurano
una migliore comprensione, ma tale effetto varia a seconda delle caratteristiche cognitive e affettive
degli individui.
Il linguaggio non verbale si adatta manifestamente meglio ad esprimere i sentimenti e gli
atteggiamenti immediatamente percepibili dall’interlocutore, e la rapidità, la moltiplicazione, la
combinazione dei comportamenti permettono una comunicazione affettiva di grande ricchezza.
Come linguaggio a sé, il comportamento non verbale esprime emozioni atteggiamenti inconsci o
semicoscienti, fornendo un gran numero di informazioni. Esso può anche sostituirsi deliberatamente
al linguaggio verbale e trasmettere le stesse informazioni di questo, ad esempio quando si parla a
gesti.
II comportamento non verbale, inoltre, può confermare e rinforzare il messaggio verbale (annuire
con un cenno del capo mentre si dice di sì), può sostituirlo (rispondere con un sorriso anziché con
parole), può completarlo o chiarirlo, ma anche contraddirlo (assumere un’espressione sarcastica
mentre si fa un complimento). Può essere fonte di ambiguità ed anche di mistificazione. In ogni
caso la comunicazione non verbale ha una funzione essenziale nella strutturazione e nel controllo
dell’interazione sociale.
Garcìa Hoz et alii, (2000) evidenziano come molti dei problemi di comunicazione interpersonale, le
“incomprensioni”, i conseguenti conflitti, dipendono proprio dalla non corrispondenza o dalla
aperta contraddizione tra canali verbali e non verbali.
Un genitore o un insegnante, ad esempio, che comunica a parole al bambino una grande
disponibilità e contraddice questo messaggio con una postura e una mimica che esprimono invece
disinteresse e scarso coinvolgimento, crea un conflitto di interpretazione della propria
comunicazione.
Analizziamo nel dettaglio le varie componenti dell’espressione paraverbale, cominciando da quelli
che più direttamente riguardano gli aspetti extralinguistici non verbali.
Lo sguardo ha un ruolo importantissimo nell’instaurare una relazione, nella comunicazione,
nell’espressione dei sentimenti. In generale tutto il corpo partecipa alla comunicazione ma, al
contrario delle altre parti del corpo, la testa fornisce informazioni relative alla natura delle emozioni
provate quali interesse, disgusto, gioia, anche se informa poco sulla loro intensità. I movimenti della
testa insieme a quelli delle mani adempiono a una doppia funzione, come ad esempio lo sguardo
che organizza la presa di parola fra due interlocutori e accentua alcuni contenuti verbali, quali le
idee principali e la fine delle frasi. I movimenti della testa giocano un ruolo importante soprattutto
perché lo scuotimento si pone come segno di attenzione, di partecipazione e come regolatore di
scambi.
I movimenti delle mani, accompagnando i comportamenti verbali, sono anch’essi grandi rivelatori
di significati interni; essi, infatti, tendono ad ampliarsi man mano cresce l’emozione nel discorso.
Questo si spiega intuitivamente perché noi osserviamo i movimenti corporei di un interlocutore per
scoprire il suo stato d’animo.
Anche le posture sono portatrici di messaggi. Le posture dei soggetti variano sensibilmente secondo
i sentimenti provati: un’affettività positiva è espressa dalla distensione, mentre un’affettività
negativa si manifesta con una tensione e con l’inibizione dei movimenti. Un aumento netto e
progressivo dei movimenti delle gambe indica un atteggiamento negativo davanti all’interlocutore
perché genera nervosismo.
Le interazioni, verbali o no, si collocano in uno spazio la cui particolare occupazione fornisce un
primo quadro significativo. La distanza che separa due individui che comunicano è tutt’altro che
indifferente: una forma di interazione si verifica a una distanza “di rispetto”, un’altra implica quasi
necessariamente un avvicinamento, a volte un contatto fisico. La prossemica è la scienza che studia
propriamente i fenomeni dello spazio umano. Hall (1968) ha dimostrato, nella sua teoria
“prossemica”, che le distanze spaziali tra i soggetti umani, che egli definisce la dimensione
nascosta, costituiscono una sorta di “linguaggio” attraverso cui gli uomini si passano vere e proprie
comunicazioni. Egli classifica le distanze interpersonali in quattro categorie: distanza minima dove
la distanza dell’altro si impone e invade il sistema percettivo; distanza personale che si può
intendere come una piccola sfera di protezione che un organismo crea attorno a sé per isolarsi dagli
altri; distanza sociale o rispettosa caratteristica tra persone che lavorano insieme; distanza pubblica
posta fuori dalla cerchia che riguarda direttamente il soggetto.
Un messaggio verbale cambia significato anche secondo il modo nel quale viene espresso. Esiste un
paralinguaggio, dunque un complesso di comportamenti paraverbali, la cui importanza è consistente
ed evidente.
Gli elementi paralinguistici si distinguono in “tratti prosodici”, in quanto riguardano non
l’articolazione di una singola unità isolabile, ma l’andamento dinamico della catena parlata, cioè la
combinazione sintagmatica di fonemi, e/o “tratti soprasegmentali”, in quanto riguardano non il
segmento minimo, ma il continuum di segmenti minimi.
Quando nel parlato spariscono le articolazioni sintattiche che hanno funzione logica, il valore
semantico dell’enunciato è trasmesso dall’intonazione. L’interesse sull'intonazione, afferma Di
Raimondo (1997), tende in genere ad identificare eventuali corrispondenze fra l’intonazione stessa
da una parte e il significato e la sintassi dall’altra. Ciò presuppone l’ipotesi che l’intonazione utilizzi
un codice convenzionale, dal momento che il parlante seleziona l’andamento melodico più
confacente alla propria intenzione, e l’interlocutore lo interpreta adeguatamente. Nell’aspetto
prosodico della competenza comunicativa interagiscono i linguaggi verbale e musicale: la prosodia
viene considerata l’interfaccia tra i due linguaggi e rivela le intenzioni comunicative del parlante.
In quanto al significato dell’enunciato, bisogna precisare che esso non deriva solo dal contenuto
espresso ma anche dagli aspetti sonori del discorso, questi ultimi, talvolta, hanno addirittura il
sopravvento sul primo, come quando un’affermazione assume tono ironico o una frase gentile è
espressa con tono minaccioso. Sono i contorni melodici che rivelano l’entusiasmo, l’incertezza, la
sicurezza, l’aggressività dei locutori. La varietà degli aspetti paraverbali ritma e modula gli aspetti
linguistici.
Il quadro che è emerso da queste brevi considerazioni è composito ed intricato. Certamente è uno
stimolo inequivocabile alla riflessione e alla conseguente affermazione della necessità di un
potenziamento della personale espressività non verbale, come pure della capacità di controllo e
orientamento della stessa.
1 Costruire l’apprendimento
L’apprendimento, in ambito cognitivista-costruttivista è spiegato mediante una metafora, attraverso
la quale l’'immagine del soggetto in apprendimento è rappresentato come un attivo costruttore della
propria conoscenza.
Il cognitivismo, infatti, pone l’accento sul patrimonio personale di risorse cognitive che ogni
persona possiede, in termini di conoscenze e di capacità di elaborazione delle stesse; sulla base di
questa prospettiva è possibile affermare che l’acquisizione di conoscenza ha un carattere
costruttivo. Apprendere non è mai un semplice immagazzinamento di svariate informazione,
piuttosto si tratta di un processo di costruzione tra esperienze e conoscenze che via, via si
acquisiscono nel corso della vita; pertanto il ruolo del soggetto che apprende è necessariamente
attivo e questo spiega la centralità dell’attività personale di chi apprende nel rapporto
insegnamento-apprendimento, particolarmente evidenziata nel panorama educativo negli ultimi
decenni. Attenzionare la persona prende dunque il significato di prendersi cura di come ogni
soggetto organizzi e strutturi gli stimoli esterni trasformandoli in rapporto a se stesso, la propria
struttura personale, al contesto di riferimento, alle esperienze pregresse. «In prospettiva cognitivista,
il discente è attivo costruttore delle proprie conoscenze nel senso che queste ultime vengono
costruite attraverso un processo di elaborazione attiva degli stimoli esterni. Il concetto di attività
conoscitiva può essere inteso soprattutto come ricezione, selezione e trattamento delle informazioni
esterne al soggetto, che può essere più propriamente definito, secondo lo studioso canadese,
ricettore attivo d’informazioni» (Maccario, 2006, p.131).
Secondo la prospettiva costruttivista, invece, il processo di costruzione di conoscenza, più che
basarsi sull’attività di elaborazione attiva degli stimoli provenienti dall’esterno, risulterebbe essere
un vero e proprio processo di recupero, revisione e riaggiustamento delle conoscenze.
In una prospettiva di integrazione, tra interpretazione cognitiva e costruttivista dell’apprendimento,
Maccario (2006, p.132), propone di «considerare l’apprendimento come un processo consistente
nell’attività riflessiva che il soggetto sviluppa sul proprio patrimonio conoscitivo sollecitato dagli
stimoli provenienti dall’esterno».
In base a questa interpretazione, l’apprendimento coinciderebbe con la creazione di una “realtà
soggettiva”, in quanto realizzata attraverso le strutture conoscitive dei soggetti. Pertanto gli stimoli
provenienti dall’esterno risulterebbero efficaci ai fine dell’apprendimento solo quando il soggetto si
trova nella possibilità di manipolarli ed elaborarli mediante la propria azione, le proprie operazioni
mentali e le proprie strutture di conoscenza, che, così utilizzate, troverebbero occasione di sviluppo
ed evoluzione.
All’interno della cornice costruttivista, offre un notevole contributo, al riguardo, l’epistemologia
piagetiana, che vede nel rapporto tra assimilazione e accomodamento il fondamentale dinamismo
dell’apprendimento. Secondo Piaget (1974) l’azione compiuta dal soggetto in situazione di
apprendimento costituirebbe il principale fattore di sviluppo dell’apprendimento stesso: «La
conoscenza deriva dall’adattamento delle conoscenze del discente alle situazioni con le quali egli si
confronta nel proprio ambiente. Questo adattamento si realizza grazie alle combinazioni dei
processi di assimilazione e di accomodamento attraverso i quali il discente rivede le vecchie
conoscenze, le adatta o le ricostruisce integrando gli ostacoli della nuova situazione con la quale si
confronta» (Jonnahert, 2002, in Maccario, 2006, p. 259).
In quanto creatore di nuove conoscenze, il soggetto diviene, dunque, il “regista” del proprio
apprendimento. In tale direzione, alla base dell’apprendimento stanno, in un rapporto di
interdipendenza, esperienza e ragione, oggetto di apprendimento e soggetto che apprende, per cui il
soggetto non può costruirsi una rappresentazione del mondo esterno se non attraverso le proprie
azioni e le proprie operazioni.
Il coinvolgimento attivo e partecipato del bambino al processo di apprendimento nasce nel
momento in cui il sapere a lui proposto è visto in modo interessante e ciò avviene quando lo
coinvolge sia intellettualmente che fisicamente. Il bambino, infatti, ha bisogno di esperire in prima
persona e con tutti i sensi l’oggetto di conoscenza perché diventi realmente appreso. L’esperienza,
d’altra parte implica già, per sua natura, il provare, il toccare, l’odorare, il gustare, il sentire, ecc.,
dunque un vero e proprio coinvolgimento sensoriale, razionale ed emotivo della persona nella
realtà.
La scuola più d’ogni altra istituzione educativa deve offrirsi quale luogo privilegiato del “fare
esperienze”, offrendo occasioni diverse di scoperta di sé, degli altri e del mondo.
L’attivazione del conoscere e dell’agire, diventa in tal senso, nel contesto scolastico, ciò che fa
scaturire il “gusto” dell’apprendimento personale in quanto conferisce all’azione compiuta dal
soggetto che apprende un continuo, e sempre più consapevole, esercizio della propria libertà di
pensiero e di azione, una maggiore conoscenza e controllo di sé, la maturazione di competenze
necessarie per la risoluzione di problemi di diversa natura che, prima o poi il soggetto è chiamato ad
affrontare.
2. La didattica laboratoriale
In didattica il concetto teorico di “esperienza” si traduce in quello pratico di “laboratorio”, luogo
preposto allo svolgimento di attività impegnative a carattere sperimentale.
Il soggetto che è in situazione di apprendimento, nel laboratorio, ha la possibilità di costruire la
propria conoscenza attraverso l’impiego totale di sé, sia a livello cognitivo che fisico, e questo
comporta un apprendimento costruttivo per la vita; infatti, una conoscenza, quando è vissuta
interamente dalla persona, viene appresa per sempre.
Negli Orientamenti per la scuola materna del 1991, il laboratorio veniva presentato tra le modalità
organizzative dell’ambiente educativo come «condizione necessaria per basare l’apprendimento
sulla ricerca e per dare un largo posto alle attività di produzione» (Rubagotti, 1991, p.281). Esso
però assumeva la struttura di un ambiente preposto ad attività specifiche per il cui svolgimento
necessitavano mezzi, spazi, materiali e strumenti diversi da quelli utilizzati comunemente durante le
abituali attività didattiche svolte in sezione / classe. Il laboratorio, pertanto, si presentava quale
luogo specializzato che, affiancando gli ambienti delle aule, veniva utilizzato per allietare le ora
scolastiche dei bambini e renderle meno monotone. Ogni insegnante avrebbe potuto usufruire
dell’ambiente laboratoriale in base alle attività che avrebbe voluto far svolgere ai propri alunni:
artistiche, pittoriche, musicali, psicomotorie, ecc.
Oggi si hanno nuove linee di metodo per la progettazione dei laboratori didattici ma, soprattutto, si
è assunto un nuovo criterio di pensare al laboratorio.
La Riforma del 2004 ha, infatti, proposto un modello formale relativi alla struttura e alle funzioni
del laboratorio presentato quale «luogo-spazio mentale di apprendimento nella direzione della
mediazione didattica (tra istanze di ricerca mono-pluri-transdisciplinari) e della trasformazione (dei
saperi disciplinari, dei ruoli agiti da docenti e da studenti ecc.)» (Perla, 2005, in La Marca, 2005,
p.93).
Se in passato il laboratorio era considerato il luogo attrezzato in cui produrre cultura attraverso la
metodologia della ricerca ed era utilizzato sulla base della competenza dell’insegnante, oggi, oltre a
mantenere le sue caratteristiche specifiche è ufficialmente introdotto nei documenti della Riforma
del 2004 come modalità per lo sviluppo e l’arricchimento delle competenze.
Tenendo presente che centro dell’interesse educativo è la persona e la sua crescita, nella
realizzazione dei laboratori non possono non confluire tutte le peculiarità che fanno di ogni
intervento didattico un grande “contenitore conoscitivo ed emozionale”. In tale direzione, infatti, il
saper fare nel laboratorio si configura come sapere complesso che coinvolge emozioni, volizioni,
relazioni, significati da mediare in competenze.
Il laboratorio supera l’ottica dell’esercizio del fare come semplice agire, ma converte l’esperienza
concreta in un intreccio armonico e dinamico di svariate realtà, nelle quali il bambino,
sperimentandosi con il proprio agire, acquisisce conoscenza di sé e del mondo, matura la propria
identità e acquisisce competenze (Ferroni 2004).
La competenza, come più volte sottolineato, non si riduce ad un passaggio addizionale di
conoscenze, né all’esercizio attività a carattere motorio o espressivo, essa coniuga «sapere e azione,
ideazione e realizzazione, valorizzando il nesso mente-mano ed esprimendo quelle capacità
procedurali della mente che rientrano nella categoria del fare “complesso”: il saper porre domande,
il saper fare collegamenti logici, il saper elaborare discorsi argomentati, il saper scrivere e così via»
(Perla, 2005, in La Marca, 2005, p.97 ).
Un altro aspetto estremamente importante è costituito dal processo di interazione tra pari e di
rapporto di reciprocità e di scambio nonché di comunicazione, verbale e non-verbale, che il
laboratorio determina. In esso, infatti, prendono parte intere scolaresche o, comunque, gruppi di
alunni, che insieme svolgono determinate attività, poiché condividono uno o più scopi.
Questo è un aspetto molto importante poiché lavorare insieme, condividere interessi, scopi,
materiali, spazi, svolgere insieme delle attività in cui necessità aprirsi all’altro, crea un “gruppo di
lavoro” che è qualcosa di ben diverso dallo “stare insieme” in gruppo. Nel gruppo di lavoro, infatti,
si sviluppa il “sentimento di appartenenza” che «si correla alle più profonde dinamiche individuali
(anche inconsce) e contribuisce a determinare l'identità personale degli allievi (identità che si
esprime, come è noto, anche attraverso la formazione del sentimento di ruolo ovvero di
“appartenenza” a un determinato gruppo)» (Perla, 2005, in La Marca, 2005, p.98).
Per la gestione del gruppo in attività laboratoriali possono essere individuate quattro direzioni di
investimento: la prima consistente nell’individuazione delle regole quale “base normativa” del
gruppo; la seconda riguardante l’aumento degli spazi e dei tempi per il confronto e il dialogo tra i
membri del gruppo, in modo che tutti possano esprimere liberamente le proprie opinioni, emozioni,
vissuti, senza paura del giudizio altrui; la terza riguardante la messa in atto di attività stimolanti il
carattere riflessivo-emozionale; e l’ultima direzione riguardante l’ascolto attivo tra i membri del
gruppo-classe. Quest’ultima direzione assume in sé le altre, infatti attraverso un ascolto attivo si
stabiliscono rapporti di appartenenza, di reciprocità, di unione empatica, ma perché questo avvenga,
l’insegnante non deve solo possedere una buona competenza professionale ma anche umana,
affinché essere modello di vero interesse verso l’altro (Ferroni, 2004). Nell’ascoltare gli altri
occorre, infatti, «una reale volontà di capire quello che dicono e di assumere il loro punto di
osservazione sul mondo» (Perla, 2005, in La Marca, 2005, p. 99) di comprendere chi sono. In tal
senso il lavoro di gruppo è assai utile non solo per creare reciprocità, ma anche per giungere a
produrre un “punto di vista originale sulle cose” che sia espressione del singolo e del gruppo in
quanto comprende e, allo stesso tempo supera, le individualità.
Da quanto detto emerge la visione di una “didattica laboratoriale” con alunni che pensano e
agiscono, che si approcciano alla scoperta dei primi saperi costruendoli insieme all’insegnante e agli
altri compagni. Una didattica, questa, che suscita il bisogno del fare, il desiderio di agire, di dare
visibilità oggettiva alle produzioni dei bambini, ponendoli protagonisti dal “fare”, costruttori del
“sapere” attraverso il proprio “essere”.
3.1 La narrazione
Narrare storie, eventi, episodi del passato è una delle attività più antiche e radicate nella cultura
dell’uomo. Organizzare l’esperienza in forma narrativa sembra sia un atto spontaneo che accomuna
uomini di diverse epoche e culture, tuttavia, tale abilità non è innata ma si sviluppa e prende forma
mediante l’approccio che sin da bambino, l’uomo fa del testo narrato. Infatti, l’esperienza della
narrazione risulta formativa e preziosa anche a livello affettivo-emotivo sia per chi ascolta che per
chi legge. Ascoltando la narrazione eseguita da altri il bambino impara a formulare un proprio
pensiero narrativo che, pian, piano diventa sempre più organizzato e definito. Il bambino sin dai
primi anni di vita manifesta un vero e proprio bisogno di storie che l’adulto ha il compito di
soddisfare nel modo più consono. Da queste esperienze, infatti, si sviluppano molte abilità di tipo
espressivo linguistico, rappresentativo iconico, immaginative ed anche affettive e relazionali.
L’attività narrativa è un’esperienza fondamentale per lo sviluppo armonico del bambino; sin dalla
prima infanzia, infatti, i bambini vivono le loro esperienze sociali in forma di racconto, ascoltando
quotidianamente la ricostruzione di eventi e le discussioni da parte degli adulti. Man, mano che il
bambino cresce, queste forme “spontanee” di racconto si arricchiscono con l’esperienza di
narrazioni più complesse.
Insieme al gioco, la narrazione può essere considerata fra le prime espressioni del pensiero
simbolico del bambino, in quanto, rappresenta la modalità del pensiero con cui si utilizza
“qualcosa” per significare “qualcos’altro”.
L’attività simbolica si manifesta in epoca precoce. Sin da neonato, infatti, il bambino attribuisce un
significato simbolico ad un oggetto reale (si pensi alla suzione del pollice richiamando l’idea del
seno materno). Tale attività sembra avere diverse funzioni: se da un lato, infatti, gli psicologi
cognitivi la considerano un’attività conoscitiva finalizzata alla comprensione della realtà, dall’altro
gli psicologi psicoanalitici la considerano una modalità per dare forma ai vissuti emotivi interni e
comunicarli all’esterno.
La capacità immaginativa del bambino, che sta alla base della fantasia e della creatività, si
manifesterebbe proprio nelle attività simboliche (gioco di finzione e invenzione di storie) che,
pertanto, dovrebbero essere incoraggiate sin dall’età infantile.
Una delle attività che consentono di alimentare l’immaginario infantile è proprio l’ascolto di storie.
Così come il gioco simbolico, infatti, anche la narrazione di eventi e/o storie, rappresenta per il
bambino il tentativo di dare un senso all’esperienza, sebbene attraverso modalità diverse. Se nel
gioco di finzione il bambino rappresenta, drammatizzandole, situazioni di vita reale o fantastica, in
cui i giocatori assumono un ruolo differente da quello reale e si inseriscono all’interno di una
cornice ludica formata da spazi e oggetti che assumono un significato diverso da quello reale, nel
momento in cui il bambino ascolta il racconto di un evento, o di una storia non fa altro che creare
una cornice all’interno della quale inserisce i personaggi e i loro comportamenti, utilizzando il
linguaggio verbale come simbolo, a differenza di quanto avviene nel gioco dove ciò è reso
dall’azione.
Tra i tre e i cinque anni di età, in modo particolare, si verifica un notevole sviluppo delle abilità
narrative, dovuta anche alla tendenza, da parte del bambino, di “trasgredire” le regole linguistiche
precedentemente apprese. In questi anni cresce anche l’interesse verso gli eventi inattesi e
“spettacolare”, ricercati dai bambini nelle storie da essi preferite.
Stern (1987) evidenzia come la comparsa del linguaggio sia per il bambino una tappa importante
nel processo di costruzione del proprio Sé. L’emergere del “senso di un Sé verbale”, secondo
Bondioli (1996), consente al bambino di costruire una rappresentazione diversa dal vissuto reale,
che gli permette di guardare a se stesso da prospettive diverse. Vygotskij (1934), in anni precedenti
alle ricerche di Stern, aveva attribuito molta importanza al linguaggio che il bambino rivolge a se
stesso, ritenendolo la prima manifestazione di ciò che diventerà linguaggio interiore.
Il bambino che frequenta la scuola dell’infanzia, si ritrova dentro un processo a duplice via: da una
parte si orienta verso l’organizzazione del mondo esterno svolta dal pensiero narrativo, dall’altra
verso l’organizzazione del mondo interno, relative al vissuto personale.
La funzione di organizzare il mondo esterno, svolta dal pensiero narrativo, è evidente nelle
narrazioni di azioni di routine (script). Essi sono rappresentazioni schematiche di eventi sociali che
vengono apprese precocemente e, sul piano narrativo, corrispondono al resoconto verbale della
sequenza delle azioni che caratterizzano una determinata situazione. La funzione di organizzazione
del mondo interiore, invece, è rintracciabile nelle pure precoci narrazioni di esperienze personali
che riguardano conoscenze più specifiche relative al vissuto personale. (Baumgartner e Devescovi,
2001). Le storie fantastiche, a tal proposito, assumerebbero un’importanza fondamentale
nell’acquisizione di conoscenze della realtà e nella ricostruzione dell’esperienza vissuta dal
bambino. Già intorno ai 4 anni appare nel bambino il tentativo di produrre racconti fantastici anche
se una vera e propria competenza di questo tipo richiede un processo di apprendimento molto lungo.
4
I libri per i piccoli sono classificati sulla base di criteri che consentono di orientarne la scelta sulla base di parametri
che ne distinguono caratteristiche e qualità di testo. I libri adatti alla fruizione dei bambini molto piccoli sono
caratterizzati da uno stretto rapporto “testo-immagine”; essi si distinguono in: cartonati, prendono il nome dal materiale
con cui sono realizzati, solitamente hanno forma regolare di quadrato o di rettangolo con angoli arrotondati per essere
sfogliati con facilità. Essi sono costituiti da immagini di oggetti animali, ambienti familiari e riguardano semplici storie.
I libri – gioco, sono libri utilizzati come giocattoli, nel senso che richiedono l’intervento attivo dei bambini; sono
realizzati con materiale diverso (carta, legno, stoffa, plastica, ecc,) e vanno esplorati attraverso i cinque sensi. Fanno
parte di questa tipologia i libri-animati che si caratterizzano dal fatto di subire delle trasformazioni azionando specifici
meccanismi (libri con buchi, leve, finestrelle, cordicelle, luci, ecc.)
Gli albi illustrati, considerati i più adatti per i bambini di età prescolare, hanno generalmente forma rettangolare e sono
realizzati per lo più con materiale plastico; ne esistono di diversi e la distinzione consiste principalmente rispetto al
testo: esistono quelli il cui testo è narrativo, con sole figure e con solo testo, più o meno esteso.
I libri di fiabe che si prestano particolarmente per il racconto ad alta voce da parte dell’adulto. Essi narrano di eventi
fantastici e meravigliosi, quasi soprannaturali, con un finale sempre lieto e riparatore del problema che intesse tutta la
trama.
Cardarello (1995) ha evidenziato tre modalità di interazione adulto-bambino durante la lettura:
quella che si istaura quando sia il lettore che l’ascoltatore guardano insieme le figure del testo,
quella quando l’adulto opera una ricostruzione verbale delle immagini e il bambino ascolta
osservando le figure, la situazione in cui la narrazione avviene senza il supporto delle figure.
Approfondendo questa problematica Cardarello (1995) evidenzia come le diverse modalità di
lettura possano essere ricondotte a due stili peculiari, definiti in dialogato e narrativo.
L’impiego dell’uno o dell’altro stile sembra essere condizionato dall’età del bambino, infatti, ai
bambini dai tre ai cinque anni di età, sembra che gli insegnanti tendano ad adottare un approccio
dialogato nella lettura dei testi, caratterizzato con frequenti interruzioni, da domande per verificare
la comprensione da parte dei bambini ed eventuali spiegazioni. Questi interventi costituiscono una
sorta di scaffolding (letteralmente “impalcatura”) che consente al bambino non soltanto di
comprendere il testo ma anche di affinare la propria competenza linguistica, espressiva e
comunicativa.
Lo stile narrativo, invece, sarebbe utilizzato con i bambini molto piccoli (sotto i due anni) in quanto
non ancora in grado di interagire con l’adulto in forma dialogica rispetto al testo ascoltato e con i
bambini di età superiore ai cinque anni, ritenuti capaci di seguire e comprendere la storia con una
certa autonomia. Questa modalità si caratterizza dalla totale assenza di interruzioni durante la
narrazione.
La scelta dei due approcci varia in base, dicevamo, all’età degli ascoltatori ma anche rispetto al
contesto di riferimento e all’obiettivo della narrazione. Martinez e Teale (1991) hanno condotto
uno studio sulle strategie di lettura che li ha portati a sostenere l’esistenza di almeno tre aspetti
condizionanti e determinanti lo “stile” di conduzione dell’attività di lettura; essi sono: il focus del
discorso dell’insegnante, il tipo di informazione che egli intende dare ai bambini e le strategie
utilizzate per organizzare e condurre l’interazione.
Il focus del discorso è costituito da ciò che l’insegnante vuol mettere in rilievo, ossia gli aspetti
determinanti della storia. Il tipo di informazione può essere, secondo gli autori, distinto in sei
tipologie: esplicite nel testo, esplicite nelle immagini, legate al background, inferenziali, finalizzate
a far compiere elaborazioni personali, relative all’attività di leggere la storia. Per quanto riguarda le
strategie per gestire l’interazione gli autori distinguono sette diverse categorie: invitare, dare
informazioni, riesaminare, ricapitolare, sollecitare una lettura e reagire al testo. Durante la lettura a
voce alta ogni insegnante può scegliere di privilegiare un particolare aspetto della storia, di
focalizzare la propria attenzione su un tipo di informazione e di utilizzare delle strategie
tralasciandone altre.
Tra le modalità privilegiate per far accrescere l’interesse e la comprensione del testo da parte dei
bambini erge sicuramente la lettura ad alta voce, cui si è fatto più volte riferimento. Essa
indubbiamente favorisce l’accostamento del bambino al testo scritto e va promossa a due livelli: un
primo, più superficiale, di comprensione letterale del significato oggettivo del testo (contenuto,
trama, personaggi); un secondo livello orientato, piuttosto verso una comprensione più
approfondita, finalizzata a comprendere la logica degli eventi e comprendere quindi il senso
profondo della storia.
Per raggiungere questo obiettivo necessita un’attenta e precisa preparazione della lettura a voce alta;
tale preparazione consta di diverse fasi cha prendono il via da una lettura attenta e ripetuta del testo
da parte dell’insegnante, per meglio conoscerlo e comprenderlo. Una prima lettura sarà finalizzata a
cogliere gli elementi principali della storia, il contenuto, i personaggi, gli ambienti, la struttura della
storia e il tono di essa. Le letture successive, invece, serviranno per individuare gli elementi che
possono trasmettere l’atmosfera della narrazione: dizione, tono, timbro, volume, intensità e
accentazione con cui pronunciare le parole. Una particolare attenzione deve essere data alle pause,
sia indicate dalla punteggiatura del testo, sia per creare patos: pause di respiro, silenzi più o meno
lunghi.
Infine è opportuno compiere una selezione a priori delle immagini da far vedere, delle parti da
rileggere sulla base delle scelte relative al focus del discorso, al tipo di informazione e alle strategie
da utilizzare (Blezza Picherle, 1996).
Un’ultima riflessione riguarda il “dopo-lettura”. L’esplorazione del testo, infatti, non può esaurirsi
con la lettura ad alta voce dell’adulto, per familiarizzare con il testo il bambino ha bisogno di
manipolare l’oggetto libro ma anche di “entrare in contatto” con il testo ascoltato. A tal fine e, con
lo scopo di utilizzare la narrazione lo sviluppo delle competenze espressive del bambino, è
opportuno prolungare l’esperienze della narrazione con attività di altro genere ma ad esse legate. Le
attività di “dopo-lettura”, come indica Blezza Picherle (1996), possono essere suddivise in due
gruppi: attività didattiche “sul o nel testo” e le attività didattiche “oltre il testo”.
Le prime «conducono il piccolo lettore ad entrare all’interno della storia […] al fine di
comprenderla e di interpretarla meglio» le seconde «portano fuori dal racconto e allontanano il
lettore dalla dimensione narrativa dello scritto» (Blezza Picherle, 1996, pp. 222-223), sviluppando
competenze anche in altri ambiti. La scelte delle attività da svolgere dipende dagli obiettivi che ci si
prefigge di raggiungere e, chiaramente, dal racconto letto: vi sono, infatti, storie che offrono spunti
per lo svolgimento di attività di esplorazione linguistica, altre che si prestano maggiormente per lo
svolgimento di attività sulla trama/struttura narrativa, altre ancora che favoriscono la conduzione di
attività sugli elementi narrativi ed altre, infine, che offrono spunti per realizzare esperienze
“espressivo-comunicative” come drammatizzazioni, attività musicali, grafico-pittoriche, ed anche
giochi di gruppo con utilizzo di materiale strutturato o semi-strutturato, giochi imitativi,
conversazioni guidate e attività espressive a carattere ludiforme.
3.2 Il disegno
Il disegno rappresenta il primo segno dello sviluppo intellettuale dell’uomo e dell’interesse estetico
fin dai popoli antichi. Il desiderio di disegnare è profondamente radicato bambino e si manifesta sin
da quando si sviluppano le prime abilità di coordinazione fino-motoria. Il disegno, inoltre, è uno dei
modi più tangibili di espressione e come tale può essere equiparato al discorso verbale. Il
linguaggio, infatti, nella sua modalità verbale, scritta e rappresentativa, rivela forme espressive
abbastanza diverse fra loro, ma con una stessa finalità: informare, comunicare e narrare.
Il bambino utilizza il disegno come mezzo complementare al linguaggio verbale, mediante il quale
mostra la sua personalità, le sue conoscenze, le sue emozioni e la sua creatività nel rielaborare le
esperienze vissute mostrando la capacità di combinarle fra loro al fine di costruire una nuova realtà,
rispondente alle sue esigenze e alla sua curiosità.
Disegnare inoltre costituisce un atto di fiducia verso l’altro, in quanto è un modo per farsi conoscere
e di rivelare anche gli aspetti più intimi e nascosti di noi stessi. I bambini lo fanno in modo naturale
e inconsapevole e per questo motivo le loro produzioni risultano ricche di messaggi. Per questo
motivo l’attività grafica si presenta come un ottimo strumento per seguire l’evoluzione dello
sviluppo del bambino sotto il profilo emotivo, intellettivo, percettivo e creativo.
L’attività grafica assume per il bambino una duplice funzione: è uno dei mezzi che egli utilizza per
analizzare, descrivere e narrare gli esseri e le cose e, allo stesso tempo, è espressione della sua vita
emotiva. Disegnando, infatti, il bambino esprime liberamente i propri stati d’animo e le proprie
sensazioni insieme a sentimenti e impulsi profondi; pertanto i disegni dei bambini rivelano tratti
peculiari della loro personalità.
Da questo punto di vista il disegno infantile è considerato dagli psicologi una tipica manifestazione
della personalità individuale, l’espressione globale dell’io, la più autentica e personale espressione
infantile. Attraverso il disegno il bambino umanizza le cose del mondo e gli avvenimenti che lo
colpiscono, individualizza le une e gli altri dando contenuto e tonalità legati alla sua effettiva
esperienza. Con il disegno il fanciullo comunica anche il piacere della conoscenza, il desiderio di
raggiungere il mondo esterno e di raccontare le proprie esperienze. La realtà nella sua obiettività
non è determinante, la riproduzione è un fatto interiore, il concretizzarsi di un sentimento o di una
emozione. Pur ricorrendo ad elementi del mondo esterno, il bambino manifesta, attraverso il
disegno, il desiderio di riprodurre la realtà così come è, infatti, come mette in luce Morino Abbele
(1970) egli caratterizza i propri disegni con numerosi dettagli osservati. Per questo si può dire che
non vi è mai niente di errato in un disegno infantile, esso è riprodotto così come è pensato, come la
realtà è vissuta e sentita interiormente.
«L’affettività ha nel disegno infantile un posto determinante ma non al punto da fare del bambino
un essere incapace di pensiero problematico, di movimento logico e di cosciente inserimento nella
realtà. L’affettività è importante sia per la struttura delle attività infantili sia per le loro particolare
motivazioni» (De Bartolomeis, 1968, p. 189). Tra la rappresentazione e la percezione vi è, quindi,
un medium rappresentato dalla personalità. Esiste un elemento soggettivo che sta fra stimolo e
risposta. Il bambino disegna con tutta la personalità, e tale personalità è espressa nel tratto,
nell’utilizzazione dello spazio, nell’omissione della composizione, nella scelta dei colori e nei temi
dei disegni liberi.
Come ricorda Lowenfeld (1984) l’attività del disegno dà una forma artistica ai propri pensieri e
sentimenti e per questo motivo è estremamente gratificante a qualsiasi età. Attraverso essa il
bambino utilizza diversi elementi delle sue esperienze allo scopo di dar vita ad un insieme nuovo e
significativo. Alla stregua di un artista, il bambino assorbe, attraverso i sensi, un’enorme quantità di
informazioni, le integra alla propria struttura psicologica e dispone in forma nuova quegli elementi
che, di volta in volta, ne appagano i bisogni; egli quindi, mediante l’espressione rappresentativa
grafica offre una parte di sé, rivela ciò che pensa, come vede e come sente.
È una capacità che l’adulto spesso, ha perduto perché ha imparato a nascondersi dietro la
convenzionalità e la ripetizione stereotipa dei comportamenti socialmente accettabili. Laddove
predominano gli stereotipi, vengono a mancare del tutto la creatività e la fantasia, o anche il
semplice ragionamento equilibrato. Soltanto l’artista mantiene l’immediatezza e la spontaneità del
bambino, perché non accetta l’uniformità dell’espressione.
3.3 Il gioco
Nel corso del tempo, diverse scuole di pensiero (cognitivista, psicoanalitica, comportamentale, ecc.)
si sono impegnate ad analizzare il gioco infantile definendone alcuni aspetti peculiari: esso è stato
considerato “mezzo” mediante il quale il bambino compie una costruzione del proprio sé, identifica
regole sociali, scopre le proprietà di diversi oggetti e materiali, attraversa propri vissuti consci ed
inconsci.
L’attività ludica, intesa come «attività in cui il bambini è protagonista pressoché esclusivo della
propria attività, in quanto sceglie da sé quando, come e per quanto tempo giocare, ed in tal modo
esprime e gestisce autonomamente se stesso» (Romano,2000, p.97), è da sempre ritenuta l’attività
privilegiata per fini educativi e didattici della scuola dell’infanzia, perché in essa convergono
molteplici aspetti dello sviluppo individuale: psicomotorio, psico-sociale, cognitivo, affettivo ed
emotivo.
Nel gioco il bambino ha la possibilità di ampliare le sue conoscenze, di sviluppare notevoli abilità e
di convergere tutte le sue energie e spinte vitali in un “contesto” protetto che lo rende libero di
agire. Inoltre, l’attività ludica è ritenuta una notevole risorsa educativa per l’apprendimento
scolastico e per lo sviluppo delle capacità di relazione.
Il gioco, infatti, le cui peculiarità consentono alla persona di fare esperienze sociali aperte e felici,
favorisce, l’interesse tra coetanei e integra il soggetto nelle condotte sociali desiderabili attraverso
sostanziali processi di autoeducazione; pertanto esso è strumento privilegiato per la socializzazione.
In modo particolare il gioco collettivo funge da ponte di passaggio tra l’asocialità e la socievolezza.
Il gioco assolve anche altre importanti funzioni sul versante relazionale intra e interpersonale:
svezzamento psicologico dalla famiglia con graduale autonomia dalle figure parentali, catarsi
rispetto a proprie ansie, paure e frustrazioni infantili, apprendimento della realtà in un’ottica di
correzione della visione del mondo esterno egoistica e narcisistica. Attraverso il gioco e, in modo
particolare, il gioco cooperativo, è possibile aiutare i bambini a sviluppare empatia e fiducia
nell’altro, esprimendo se stessi autenticamente.
Tutti i tipi di gioco, da quello simbolico a quello di squadre, di gruppo, ecc. hanno un aspetto che li
accomuna: consentono al giocatore di esprimere se stesso in libertà e in pienezza, poiché il contesto
di riferimento delimita lo spazio ludico estraniandolo dal resto del contesto e ciò dà sicurezza e
protezione.
Gli insegnanti dovrebbero conoscere e padroneggiare la metodologia ludica anche perché,
attraverso il gioco è possibile osservare i comportamenti spontanei dei bambini, spesso diversificati
in base al genere di appartenenza. Una corretta pratica educativo-didattica deve orientare il
personale stile cognitivo, rappresentativo e relazionale di ogni bambino e bambina mediante attività
ludiformi, con specifici percorsi di ricerca e di sperimentazione per maschietti e per femminucce,
differenza, da valorizzare sempre nell’ottica della promozione delle eccellenze personali.
Il gioco dell’apprendimento
E’ opinione diffusa tra gli studiosi denominare il periodo della seconda infanzia “età del gioco”. A
questa età il gioco si presenta come un’attività piacevole e divertente, anche quando non sia
effettivamente accompagnato da segni di allegria, ma mantiene, per il giocatore tratti e peculiarità di
“serietà” e attenta precisione per il suo svolgimento. Per il filosofo Huizinga (1938) il gioco è una
“categoria di vita” dell’uomo che è per natura ludens. Secondo l’antropologo olandese il gioco
caratterizza l’uomo in quanto animale culturale, egli scrive: «tuttavia mi pare che l’homo ludens,
l’uomo che gioca, indichi una funzione almeno così essenziale come quella del fare, e che meriti un
posto accanto all’homo faber» (J. Huizinga, 1938, p. XXXI).
Per il bambino il gioco è un contesto protetto in cui svolgere attività “serie” in quanto impegnativo
sotto l’aspetto cognitivo, oltre che affettivo. Il gioco non è puro svago. Esso, che per definizione
non ha scopi estrinseci ma è un atto spontaneo e volontario, non obbligatorio ma liberamente scelto,
necessita di un impegno attivo del giocatore. Secondo Huizinga (1938), perché si possa parlare di
gioco, questo deve essere caratterizzato da libertà, presenza di regole, isolamento dalla vita
ordinaria per entrare nel cerchio magico del gioco stesso. Ciò che caratterizza il gioco del bambino,
infatti, è l’improduttività, nel senso che in esso le azioni condotte hanno una natura gratuita e ciò
che si fa non mira ad ottenere determinati risultati, ma è fine a se stesso, compiuto, cioè, per il
semplice piacere che procura. In tutto questo la serietà che appartiene al gioco nasce dal «desiderio
di applicarsi energicamente in qualcosa che dà gusto e passione e che si ritiene utile per la propria
conoscenza della realtà» (Ferroni, 2004, p. 85).
Nel contesto educativo non possono essere tralasciati gli aspetti emotivi, altamente positivi nello
sviluppo del bambino, che il gioco comporta. Esso, infatti, procura un senso di soddisfazione, di
immediata gratificazione che comunemente si chiama divertimento. Se non serve a raggiungere
obiettivi esterni, il gioco ha in se stesso un beneficio emotivo in quanto è autoremunerativo o
intrinsecamente appagante.
Gli Orientamenti per la scuola materna (1991) presentavano il gioco quale strumento di sviluppo
per l’acquisizione e il rispetto delle regole, nonché come espressione di sentimenti e di emozioni
che permette al bambino di liberarsi da conflitti e carenze interne in quanto «costituisce, in questa
età, una risorsa privilegiata di apprendimento e di relazioni» (Rubagotti, 1991) rendendo possibile
l’acquisizione delle prime regole morali e sociali, l’espressione di sentimenti, la regolazione delle
emozioni attraverso il rapporto con gli altri.
La realizzazione del gioco dipende, ad ogni modo, da una serie di condizioni interne ed esterne. I
bambini che sono incapaci di venire a capo dei propri problemi interni si dimostrano spesso anche
incapaci di giocare o il loro gioco risulta impacciato e solitario, ma le condizioni interne che
provocano ciò, (di cui si è parlato nel paragrafo precedente) sono dipendenti da condizioni esterne
ossia dalla presenza di un ambiente favorevole che non solo non ostacola l’atteggiamento ludico ma
anzi lo incoraggia. Un ambiente adeguato al gioco deve possedere delle caratteristiche tali da:
favorire lo sviluppo delle capacità simboliche e creative; contenere le ansie relative al nuovo e a ciò
che è sconosciuto, in modo tale che il bambino realizzi il gioco in un’atmosfera rilassata di fiducia;
orientare e sostenere la crescita dell’identità personale; soddisfare i bisogni emotivi e cognitivi del
bambino.
Tutto ciò è determinante per una sana esperienza ludica, soprattutto quando il gioco, da solitario e
individuale, diventa di gruppo. Questo passaggio è di estrema importanza, infatti, come evidenzia
Bondioli (1996), attraverso il gioco si manifestano le prime forme di socializzazione del bambino,
in quanto favorisce l’instaurarsi di rapporti interpersonali, nonché, la collaborazione e la presa di
coscienza della norma. Ciò è fondamentale per acquisire la capacità di stabilire e di osservare regole
comuni e di suddividere i compiti in vista di un fine comune da raggiungere, presupposti
indispensabili per l’acquisizione delle regole comportamentali e sociali che consentono al bambino
di superare la dimensione egocentrica della vita e di vivere bene in gruppo.
Da questo punto di vista il valore educativo del gioco si esprime nella costruzione di un approccio
cooperativo nelle sue espressioni ludiche e ludiformi che, se orientate verso obiettivi educativi scelti
accuratamente, stimolano l’apprendimento del bambino e lo sviluppo delle competenze espressive.
Secondo Visalberghi (1958) il termine ludiforme richiama lessicalmente il termine ludus. Con ludus
(ludico) si fa riferimento ad un’attività impegnativa, continuativa le cui finalità sono consapevoli e
tali che al loro raggiungimento l’attività cessa di avere significato; ne è un esempio il gioco tra
bambini, la cui finalità coincide con l’obiettivo del gioco, per cui, una volta conseguito, l’attività è
terminata. Quando, invece, il fine del gioco è destinato a trasformarsi in ulteriori attività, il gioco
diventa un “lavoro” e dal campo del ludus si passa a quello del ludiforme. La studiosa Ferroni
(2004) traduce il concetto ludiforme con l’espressione “didattica ludica” quando, parlando di
attività ludiformi esprime la relazione esistente tra gioco e rapporto insegnamento-apprendimento.
Le attività ludiformi costituirebbero quella che la studiosa definisce “cooperattività ludica”, ossia
quella tipologia di didattica che impegna l’azione individuale di più persone in un contesto giocato.
Il concetto è anche definito come «quell’attività in cui è l’insegnante che assume il ruolo primario,
perché è lui che propone al bambino il gioco allo scopo di ottenere certi risultati previsti o quanto
meno sperati» (Romano, 2000, p.97). Inoltre, l’attività risulta ludiforme quando si configura come
attività in cui il bambino si muove in uno spazio senza costrizione, nella giocosità operativa che
libera le energie e le forze, perseguendo precisi risultati formativi e determinati traguardi
migliorativi (Petracchi, 1993).
Nel panorama didattico il gioco si inserisce come occasione di apprendimento particolarmente
coinvolgente, presentando l’attività didattica stessa piacevole e pregnante di “gusto”, totalizzante e
integrale in quanto promotrice della messa in moto del vissuto fisico e mentale dei suoi protagonisti.
Utilizzando le parole di Marietti (1821) si può affermare che il gioco, nella sua dimensione
ludiforme, si pone come metodologia «per stare insieme ai bambini o ai giovani, per insegnare le
cose, non usando spiegazioni e prescrizioni, ma tenendo conto del linguaggio e del livello di
percezione a cui il bambino può pienamente accedere» (Ferroni, 2004, p.35).
Da quanto esposto si rintraccia l’indispensabilità di promuovere giochi liberi o strutturati, di diverse
tipologie affinché si sviluppi nel bambino la necessità di avere delle regole e di rispettarle. Ci si
riferisce ai giochi di regole, ai giochi simbolici, attraverso i quali il bambino dà un senso ed un
significato alla realtà; ai giochi popolari e tradizionali che consentono di rapportare meglio le
attività ludiche all’ambiente socio-culturale con il quale il bambino si confronta.
Vista l’importanza che il gioco assume nel panorama educativo-didattico è indispensabile che gli
insegnanti posseggano un’ottima conoscenza dei giochi e delle modalità di progettazione e di
conduzione di essi.
L’insegnante, nell’organizzare ed orientare il gioco dei bambini, assume un compito
importantissimo di “regia educativa”; egli deve, infatti, creare un “clima ludico”, un ambiente
definito e protetto, nel quale il bambino possa sentirsi bene accolto e accettato, nel vivere
esperienze significative e produttive che sollecitino lo sviluppo delle sue funzioni cognitive,
percettivo-sensoriali, emotive, affettive e relazionali, e deve altresì impegnarsi perché le azioni
ludiche convertano verso l’obiettivo educativo prefissato.
3.4. La drammatizzazione
Tra le attività valide per sviluppare la competenza espressiva rivestono particolare importanza
quelle di drammatizzazione. Con il termine “drammatizzazione” si intende, generalmente «l’uso di
mezzi e forme teatrali a fini educativi» (Giacobazzi e Scaperotta, 1998, p.12). Sebbene, in certe
occasioni, possa avere come obiettivo finale un prodotto teatrale, essa ha un alto potere educativo,
in quanto sollecita la formazione di immagini mentali e la rappresentazione operativa, facilitando la
comprensione del linguaggio.
La drammatizzazione è una metodologia viva e dinamica che permette l’interazione di linguaggi tra
loro diversi: «i linguaggi verbali e quelli non verbali, la mimica, il gesto, la prossemica, la cinesica,
gli aspetti prosodici e il linguaggio musicale. Proprio questa specificità derivante dall’interattività di
vita di vari codici linguistici permette alla drammatizzazione di caratterizzarsi come prezioso
strumento formativo in vista di una migliore comunicazione» (Cangià, 2002, p.418).
Oliva (1999) riporta alcune ricerche sulla drammatizzazione condotte alla Johns Hopkins University
che mettono in luce un miglioramento significativo nell’apprendimento di nozioni concrete e di
concetti e confermano l’efficacia della drammatizzazione nel favorire l’istaurarsi di sentimenti di
appartenenza e condivisione che costituiscono un terreno favorevole per lo sviluppo e il rinforzo
della motivazione ad apprendere.
La sua significatività sta nel tipo di approccio che può essere giocoso, divertente e apparentemente
poco impegnativo ma, nello stesso tempo, coinvolgente, motivante e incisivo. Le attività di
drammatizzazione consentono, infatti, ai bambini di sperimentare diversi ruoli, situazioni, contesti
di riferimento, alternative, conseguenze, verifica di risultati, ecc.
Attraverso queste attività è possibile spiegare determinati concetti che intervengono nella realtà che
spesso sfuggono all’attenzione di un bambino, consentendogli di cogliere e vivere esperienze dirette
personali, adeguate a se stesso.
Giocare, ed in particolare giocare “a far fìnta di...”, generalmente consente ai bambini di dare vita a
situazioni comunicative e relazionali di notevole importanza per il loro sviluppo ed apprendimento,
basti pensare alla simbolizzazione messa in atto sia a livello verbale che comportamentale.
Abbiamo evidenziato precedentemente la prospettiva piagettiana secondo la quale già sin dalle
prime fasi dell’età evolutiva, i giochi simbolici o di finzione assumono particolare rilevanza anche
ai fini dello sviluppo delle facoltà cognitive, dell’arricchimento del lessico e della sollecitazione di
fantasia e creatività. L’attività di drammatizzazione riproduce in modo naturale le caratteristiche
della comunicazione e consente di articolare correttamente parole, frasi e messaggi secondo il
sistema fonologico e prosodico della lingua. Essa determina, inoltre, una motivazione forte per
l’ampliamento del patrimonio lessicale, ma anche una spinta verso soluzioni sintattiche elaborate
che evidenzino un pensiero articolato; consente di fissare senza sforzo i contenuti linguistici e di
favorire la creatività. Anche Bruner (1967) nella sua “teoria dell’istruzione”, aveva sottolineato
l’importanza della rappresentazione, nell’ambito globale della didattica, individuando tre
fondamentali modalità:
L’azione (modo attivo);
La visualizzazione (modo iconico);
Il linguaggio (codificazione di tipo simbolico/verbale).
Queste tre modalità si ritrovano costantemente nel gioco di simulazione conferendogli una
caratteristica molto interessante, dal punto di vista educativo, in quanto nel suo attuarsi consente al
bambino di: compiere operazioni mentali; formulare congetture e ipotesi sulla base delle
informazioni ricevute; presentare modelli di rappresentazione della realtà in base a una teoria
esplicativa dei fenomeni considerati; favorire la discussione, veicolo dell’istruzione, valorizzando
così il valore del linguaggio.
Da quanto detto emerge il forte legame esistente tra l’attività di drammatizzazione e l’utilizzo dei
diversi linguaggi espressivi; essa, infatti, è una sintesi di essi, in quanto li ingloba, e allo stesso
tempo ne è la generatrice. La drammatizzazione, pertanto, offre la possibilità di sperimentare tutto il
potenziale che il bambino possiede “facendo”, “parlando”, “giocando”, “esprimendo” se stesso e
“apprendendo” il mondo.
Le tecniche di drammatizzazione
La pratica della drammatizzazione nella scuola assume una notevole valenza didattico-educativa. Il
teatro, infatti, abolendo la rigida separazione tra le diverse articola modalità di apprendimento
coinvolgenti e innovativi sia nella sfera comunicativa che in quella direttamente connessa con la
maturazione psicofisica e sociale. Si tratta di una forma metodologica più aperta e dinamica che
richiede un’impostazione flessibile nonché l’avvalersi di tecniche specifiche, quali: la
drammatizzazione (in senso stretto), role-taking, role-making, role-play, dialogo aperto, intesi
come veri e propri vettori di processi linguistico-cognitivi. La pratica didattica e metodologica delle
attività di drammatizzazione conosce una lunga tradizione e un largo impiego nella scuola
anglosassone, a qualsiasi livello di scolarità. In Italia, questa metodologia rappresenta per molti
aspetti una novità e solo negli ultimi anni si è diffuso un certo interesse nell’ambito scolastico.
Le attività di drammatizzazione sono considerate validi strumenti didattici in quanto coinvolgono lo
studente sia sul piano delle emozioni che su quelle delle conoscenze. Essa viene considerata da
diversi studiosi (D’Alessandro, Caminzuli, Riccobono, 1963), un “didattica attiva” poiché
l’acquisizione delle conoscenze è favorita dal coinvolgimento attivo dell’alunno che si sente
motivato nell’ambito dell’esercizio che sta eseguendo e diventa costruttore del proprio sapere.
Questo metodo naturale di apprendimento, nella scuola di oggi, assume un valore speciale, perché
permette anche un’impostazione interdisciplinare nella quale convergono i diversi linguaggi e
simboli culturali che il bambino è chiamato a conoscere e ad utilizzare.
Tutto il lavoro che accompagna un’attività di drammatizzazione, inoltre, è spesso svolto a gruppi e
non può in nessun caso prescindere da una stretta collaborazione. I bambini che prendono parte a
tale attività imparano ad interagire fra loro all’interno di un contesto sociale e a risolvere problemi
in gruppo (attività di problem-solving).
Da questo punto di vista possiamo definire la drammatizzazione come quella «azione per cui una
classe diventa cosciente di essere un gruppo e concordemente si esprime di fronte a un problema o a
un argomento di comune interesse» (Giacobazzi e Scaperotta, 1998, p.12). Questo consolida i
rapporti sociali all’interno della classe e favorisce la creazione di un clima disteso e rassicurante,
ottimo terreno per l’apprendimento.
II termine drammatizzazione assume sempre più il significato di un iperonimo che comprende tutte
le diverse tecniche simulazione dialogica:
drammatizzazione (in senso stretto);
role-taking;
role-making;
role-play;
dialogo aperto.
La drammatizzazione di un dialogo, intesa nel senso stretto del termine, è quella tecnica che
prevede la recitazione delle frasi ascoltate, ripetute e praticate in precedenza, ad opera degli alunni
che ricreano lo scambio comunicativo in modo spontaneo e il più possibile verosimile. L’insegnante
chiede agli alunni di imparare le battute dei vari personaggi del dialogo e di recitarle (senza l'aiuto
del copione) davanti alla classe.
La drammatizzazione è un’attività completa di educazione linguistica, che rientra «da un lato [...]
nei giochi psicomotori [...] dall’altro favorisce la rappresentazione mentale e la simbolizzazione dei
contenuti del pensiero» (Bickel,1982, p.71).
Dal punto di vista dell’apprendimento linguistico la drammatizzazione consente di lavorare in
profondità sugli aspetti fonologici e paralinguistici; se si ha una videoregistrazione la riflessione
può considerare anche gli aspetti extralinguistici della competenza comunicativa. Tra i vantaggi di
questa tecnica emerge la quantità del lessico che viene memorizzato nonché l’uso di molti atti
comunicativi comuni.
Il role-taking è la tecnica secondo la quale si assumono ruoli già conosciuti in un dialogo
precedentemente affrontato, introducendo alcune modifìche nella situazione, come l’introduzione di
diverse informazioni, situazioni ed elementi personali.
E un esercizio che spinge l’alunno a fare un primo passo verso l’autonomia e arricchisce la
ripetizione di una motivazione aggiuntiva. Se, ad esempio, il dialogo di partenza dell’unità di
apprendimento propone l’acquisto di un biglietto ferroviario, il role-taking si può effettuare
presentando agli alunni un tabellone orario delle ferrovie (oppure scrivendo alla lavagna alcune
destinazioni e i relativi orari, prezzi e binari) e facendo ripetere il dialogo già noto con una
destinazione diversa a scelta dell'alunno “viaggiatore”. Ciò significa che alunno “bigliettaio” dovrà
dare informazioni sul prezzo, sull’orario e sul binario di partenza diverse da quelle del dialogo-
modello, pur restando costanti gli altri elementi.
Scopo del role-taking è decondizionare l’alunno dopo le fasi di ascolto, ascolto-ripetizione, ascolto-
lettura e drammatizzazione. Se agli alunni viene concesso di personalizzare il dialogo-modello
introducendo elementi personali (il proprio vissuto, i propri gusti, desideri, ecc.), il role-taking
assolve un’importante funzione di sostegno della motivazione.
Si tratta dunque di una di tecnica mirante ad esercitare l’abilità di dialogare e le componenti socio-
situazionale e pragmatica della competenza comunicativa (di cui comunque vengono attivate tutte le
componenti).
Il role-making, invece, è un’altra tecnica di drammatizzazione costituita dall’attuarsi di un
continuum di attività di simulazione totalmente guidata in cui la creatività è presente in maniera
decisiva.
Nel role-making gli alunni godono della massima libertà sia nella conduzione della conversazione
(tipo di saluto, numero di battute, richieste di informazioni, commenti sul tempo, ecc), sia nella
scelta di elementi come la destinazione del viaggio, la classe, l’orario e così via. In questo tipo di
esercizio viene mantenuta solo una delle caratteristiche del dialogo iniziale; stessi personaggi ma
intenzioni comunicative diverse, stesso scopo ma con una situazione nuova, ecc.
Lo scopo del role-making non è solo il reimpiego creativo dei
materiali precedentemente acquisiti, ma anche offrire occasioni di scoperta di alcune regole
costitutive del dialogo come genere ad esempio, l’alternanza dei turni conversazionali, la capacità di
variare il messaggio in base al feedback, il modo di chiedere la ripetizione o la parafasi di segmenti
nel dialogo che non sono stati compresi, il principio di non contraddizione rispetto a quanto detto
nelle battute precedenti, regole che molto spesso, nella vita scolastica, vengono trascurate.
L’atteggiamento degli alunni può essere ambivalente: da un canto, il fatto di potersi esprimere
liberamente, di poter parlare dei propri gusti, delle proprie idee, di agire in prima persona stimola e
rende ben accetta la tecnica; d’altro canto, il fatto di essere esposti al giudizio dei compagni, oltre
che dell'insegnante, crea ansia e potrebbe inibire.
Altra tecnica, particolarmente conosciuta ed utilizzata è il role-play.
Esso viene utilizzato per riflettere sulle strategie relazionali, sull’uso dei codici non verbali integrati
con quelli verbali e sulla strutturazione del testo dialogato.
Il role-play offre la possibilità di far parlare spontaneamente gli allievi passando attraverso diverse
fasi permettendo, tra l’altro, di affinare la propria pronuncia attraverso esercizi di fonologia
segmentali. «Questa tecnica dà l’occasione di liberare le emozioni e i sentimenti che non si possono
esprimere per via delle regole sociali» (Padoan, 2000, p.225).
Questa tecnica consiste nel costruisce un dialogo sulla base di una situazione, senza l’indicazione di
quello che si deve dire nelle varie battute, lasciando piena libertà agli attori. «Gli studenti devono
assumere i ruoli assegnati dall’insegnante e comportarsi come pensano che si comporterebbero
realmente nella situazione data» (Tessaro, 2002, p.168).
Bisogna distinguere tra un uso generico, riferito a tutte quelle attività in cui si “recita un ruolo”, ed
un significato più ristretto, che indica un’attività didattica piuttosto comune nei manuali: una lista di
funzioni linguistiche concatenate a cui lo studente deve dare una forma grammaticale.
Scopo di questa tecnica è far riflettere sulla corrispondenza aperta tra funzioni comunicative ed
esponenti linguistici che le realizzano; ogni studente potrà, infatti, produrre una sua versione dello
stesso dialogo, prediligendo alcune forme espressive piuttosto che altre. I partecipanti accettano una
nuova identità, entrano nei panni altrui e agiscono e reagiscono in maniera conseguente. Ciò che
può accadere durante questa attività è del tutto imprevedibile, ma l’aspetto più interessante è
costituito dall’immedesimarsi in un’altra persona.
L’ultima tecnica di drammatizzazione, secondo l’ordine espositivo, è costituita dal dialogo aperto.
II dialogo aperto è un’abilità linguistica complessa propone un’interazione solitamente tra due
interlocutori e consiste in una discussione in cui figurano le battute di un solo personaggio e lo
studente deve inserire oralmente quelle dell'altro personaggio, tenendo conto dell'aspetto testuale sia
in termini di coerenza (si deve tener conto di quanto precede e, nella versione scritta, anche di
quanto segue nel dialogo cioè del “filo del discorso”), sia in termini di coesione, per poter
adeguatamente connettere le proprie battute a quelle già fomite dal testo.
Va tenuto presente che questo tipo di tecnica può generare ansia se svolta interagendo con un
nastro, il cui ritmo è fisso, mentre risulta più motivante se proposto come attività di problem-
solving, interagendo con un compagno che segue il copione prefissato.
Riascoltare il dialogo aperto mediante l’utilizzo di un registratore, può risultare molto proficuo, in
quanto permette di analizzare l’esecuzione, di discuterla in classe e di confrontarla con altre
risposte; conservare la registrazione e confrontarla con una ripetizione dello stesso dialogo aperto
alcuni mesi dopo può costituire una buona tecnica per l’analisi longitudinale delle prestazioni.
Questa tecnica accresce negli studenti la capacità di perseguire i propri scopi e di agire sulla e nella
società attraverso la comunicazione. II dialogo aperto arricchisce l'alunno, ne sviluppa i processi
cognitivi e espressivi-comunicativi e può, pertanto, essere usato anche in attività di verifica.
Il ruolo dell’insegnante
I bambini della scuola dell’infanzia vivono la drammatizzazione come rappresentazione teatrale di
semplice storie narrate, il cui copione vene adattato, alle competenze linguistiche degli alunni. Nel
gioco drammatico il bambino tende ad appoggiarsi alla presenza dei suoi compagni e a quella
dell’insegnante, il quale assume un ruolo di guida e di stimolo all’azione che si sviluppa, al fine di
consentire ai suoi alunni di esternare, mediante il movimento e la voce, i sentimenti più profondi e
le sensazioni che la storia ha suscitato loro, di apprendere il significato profondo della storia
identificandosi con il personaggio e, non ultimo, di sviluppare la propria fantasia e immaginazione,
quindi di divenire creativi.
Nella conduzione delle attività di drammatizzazione l'insegnante assume un ruolo meno dominante
nel processo di apprendimento dei suoi alunni. La sua funzione è quella di guidare la classe con
cognizione, fornendo lo stimolo giusto al momento opportuno, alternando i tempi di gioco e quelli
di riflessione. In questo modo si vengono ad instaurare situazioni in cui alunni e insegnanti
collaborano in attività collettive, creando «[...] un ambiente di fiducia e di reciproca familiarità nel
quale gli allievi possano interagire senza timore o minaccia di fallimento» (Sauvignon, 1988,
p.135).
Per risultare un animatore efficace, senza soffocare l'iniziativa dei bambini, l'insegnante si deve
limitare ad osservarli con discrezione, ad intervenire senza sostituirli, a lasciarsi coinvolgere
emotivamente nelle loro esperienze ludiche rimanendone sempre al di fuori. La sua partecipazione
alla vita di gruppo avviene in quanto garante del rispetto delle regole adottate dal gruppo stesso, di
incoraggiamento per i più incerti e timidi e di controllo di eventuali vivacità prevaricatorie.
Lo stimolo alla ricerca, un atteggiamento maieutico, l'apprezzamento dei risultati positivi sono le
strategie didattiche più idonee a favorire una partecipazione attiva di tutti all’attività di
drammatizzazione.
Tutte le attività di gruppo possono presentare anche dei problemi di ordine organizzativo, che
l'insegnante deve saper gestire quando sono calate direttamente nel contesto scolastico. Il percorso
didattico, deve essere accuratamente studiato e finalizzato all'organizzazione di attività motivanti,
adatte a stimolare la comunicazione e che, in un certo senso, costringano gli alunni ad esprimersi
pienamente.
In questo contesto è opportuno che l’insegnante adotti un comportamento entusiastico e
collaborativo e non valutativo o repressivo.
Durante le attività è opportuno che insegnante esalti gli aspetti positivi emersi e valorizzi il più
possibile alunni; sarà utile prevedere anche delle sessioni plenarie di discussione, riflessione ed
analisi, sia del processo di drammatizzazione che della rappresentazione finale. È compito del
docente scegliere le funzioni comunicative più adatte alla propria realtà scolastica e soprattutto
abituare gli studenti organizzare spazi e tempi in modo da rendere il lavoro più proficuo, senza
fornire molte direttive, al fine di valorizzare il bambino e di favorirne la spontaneità.
È competenza dell’insegnante la progettazione e l’organizzazione dell’attività di drammatizzazione.
Per fare in modo che l’attività di drammatizzazione sia proficua, egli deve applicare alcuni
particolari accorgimenti nella prassi didattica.
Per sostenere la motivazione bisogna proporre attività ludiche che siano «fondate sulle capacità e
sull’esperienza, reale o possibile, degli alunni» (Garcìa Hoz, 2005, p.113). Occorre che si dia a tutti
i bambini la possibilità di partecipare attivamente e di creare una certa competizione, in modo che
ognuno si sforzi per dare il meglio di sé. Quando si propone un’attività di questo tipo in una classe è
necessario ridefinire sempre gli obiettivi formativi in rapporto alle capacità e alle motivazioni degli
alunni, affinché il gioco di drammatizzazione, oltre che piacevole, diventi utile per il
raggiungimento degli esiti finali che ne costituiscono l’elemento implicito.
Bisogna tener conto di vari fattori: lo sviluppo psicologico degli alunni, il loro numero in funzione
degli ambienti a disposizione e la familiarità con questo tipo di attività. Se gli studenti non hanno
mai svolto drammatizzazione o anche solo simulazioni dialogiche, è bene iniziare gradatamente,
con esercizi preparatori di mimica o ripetizioni di frasi con intonazioni emozionali diverse. Questi
esercizi iniziali permettono all’alunno di «acquisire fiducia nella propria capacità di esprimersi
attraverso la parola, la voce e la mimica» (Giacobazzi e Scaperotta, 1998, p.16).
In questo modo si abituano gli alunni ad una corretta pronuncia delle parole, a controllare il proprio
corpo e ad immedesimarsi nella situazione e nei personaggi.
Il lavoro svolto, infatti, non deve essere finalizzato per forza ad una rappresentazione teatrale, ma
allo sviluppo di nuove capacità del bambino, nel gusto della ricerca e nella sperimentazione di un
agire e di un comunicare diversi da quelli abituali. Se si riesce anche a concludere l'attività con un
momento rivolto al pubblico, i bambini vivono una gratificazione maggiore e lo spettacolo diviene
verifica di quanto hanno appreso.
La scelta del tipo di simulazione dipenderà dall’obiettivo didattico, dallo spazio a disposizione,
dalla competenza linguistica degli alunni, dalla loro età, nonché dal bisogno di ogni individuo a
partecipare. Le attività improntate sulla mimica oppure sulla ripetizione semplice o ritmata sono
utilizzabili preferibilmente con dei principianti, mentre la messa in scena di vere e proprie storie
risulta più efficace con alunni che ne hanno avuto già un primo approccio. Anche l’obiettivo può
variare: dalla pratica guidata di frasi note, dall'esercizio mnemonico, al riutilizzo libero di funzioni
comunicative calate in situazioni verosimili. Gli esempi di possibile applicazione sono molteplici.
Un altro elemento da definire sarà l'organizzazione dello spazio e la soglia di rumore che
inevitabilmente verrà prodotto. Il tono della voce deve, infatti, rimanere basso durante le
simulazioni dialogiche e gli spostamenti devono essere ridotti al minimo. È chiaro che gli studenti
all’inizio avranno delle difficoltà dovute alla mancanza di abitudine e di autonomia, ma, a lungo
termine, stabilite e regole precise, la pratica didattica diventerà per la classe una routine, creando
sempre minor disagio a tutti.
Come si è detto precedentemente, la drammatizzazione può essere un valido momento di verifica
delle competenze acquisite.
Nel momento della verifica l'insegnante non interviene con correzioni, ma solo con suggerimenti,
riservandosi successivamente uno spazio per trattare gli errori più comuni raccolti durante il suo
monitoraggio. Per evitare inconvenienti è necessario che egli dedichi maggiore tempo
all'insegnamento delle battute e al monitoraggio del lavoro, fornendo consigli, stimolando i più lenti
e frenando gli eccessi di entusiasmo o di rumore, ma, nello stesso tempo, potrà raccogliere gli errori
più diffusi in modo discreto e senza interrompere le rappresentazioni.
In questa fase non si valuta, ma si prende coscienza delle difficoltà che la classe incontra e si
predispongono gli esercizi più adeguati in relazione alle necessità emerse, da far eseguire in un
momento successivo.
Le rappresentazioni possono anche essere registrate in modo da permettere agli alunni di
«analizzare e migliorare il proprio modo di parlare, studiando gli elementi di tono, di ritmo e di
accento» (Zuccherini, 1988, p.39).
L’insegnante deve accertare la maturità del gruppo in azione; potrà chiedere agli alunni di esibirsi
per procedere, poi, alla valutazione della loro produzione orale, avvalendosi di scale valutative che
tengano conto della correttezza formale, dell’appropriatezza pragmatica, della fluidità del parlato,
ecc. Inoltre è possibile osservare l’espressione non verbale, la prossemica, l’adeguata espressione
mimico-facciale, i gesti, l’intonazione, nonché il rispetto dei tempi e delle regole di svolgimento
delle attività.
Si tratta di poter valutare l'ambito espressivo sotto tutti i suoi aspetti, da quello simbolico (verbale
orale e scritto) a quello pratico (artistico-pittorico, musicale, motorio, tecnico ed etico).
Drammatizzare un racconto…
Un buon pretesto per realizzare la drammatizzazione con i bambini piccoli è rappresentato dal
mettere in scena un racconto precedentemente narrato loro.
Le storie da poter drammatizzare devono essere semplici e divise in episodi in modo tale che sia
facilitata la rappresentazione scenica delle diverse situazioni ed eventi che si susseguono. Per far
conoscere il contenuto della storia scelta è preferibile che l’insegnante racconti piuttosto che leggere
semplicemente al fine di far emergere l’ascoltatore dentro al contesto narrato con tutto se stesso, a
livello cognitivo, emotivo, sentimentale. Inoltre è importante mettere in luce le caratteristiche dei
personaggi affinché i bambini, cogliendole, possano rappresentarli mentalmente e, quindi, averne
un’idea per poi rappresentarli. Le immagini mentali sono, infatti, le prime forme di estensione della
storia di cui il bambino viene a conoscenza e sono in grado di offrirgli indicazioni importanti per
l’identificazione e la costruzione della comunicazione teatrale. L’aspetto della recita va curato sin
dalla scelta degli attori; a nessuno può essere imposto di rappresentare la storia, piuttosto è bene
chiedere e sollecitare un’azione volontaria da parte dei bambini.
In primo luogo quindi occorre creare un’atmosfera serena per sviluppare atteggiamenti positivi
rispetto alle proposte cercando di interessare tutti e di coinvolgere ognuno in modo rassicurante,
quindi bisogna affascinare ed entusiasmare all’interpretazione di qualsiasi ruolo, dando a tutti
l’opportunità di imparare e recitare collettivamente il copione. Una volta che tutti i bambini sono
coinvolti l’insegnante distribuirà le varie parti da recitare tenendo conto del livello espressivo-
linguistico e rappresentativo dei bambini. «Per i bambini più piccoli di età prescolastica, non è
possibile far sceneggiare una storia, che sia stata raccontata loro solo con l’ausilio della voce.
Bisogna, infatti, che l’insegnante distribuisca le parti, a questo e a quello secondo la loro scelta,
mettendo in mano a ciascuno un foglio i carta su cui è riportato il personaggio che devono
interpretare» (Oliva, 2000, pp.69-70).
I bambini reciteranno la propria parte muovendo il foglio che gli è stato dato, questo esercizio
consentirà loro di comprendere il dinamismo della storia e di imparare a recitare la propria parte
seguendo i tempi di turnazione stabiliti dal copione.
Può accadere che, presi dall’entusiasmo, i bambini rompano l’ordine stabilito e comincino a
muoversi nello spazio in modo disordinato e caotico oppure inizino a parlare tutti insieme; in questo
caso è preferibile non rimproverarli ma di convergere il loro entusiasmo verso un unico obiettivo
che è quello di rappresentare la storia. Per motivarli ulteriormente è importante proporre loro di
preparare la rappresentazione come spettacolo da offrire ad altri, che possano essere compagni di
scuola, genitori, ecc…
È molto importante non destinare troppo tempo alle prove della rappresentazione poiché i bambini
così piccoli si stancherebbero e, non soltanto verrebbe meno la motivazione a far bene il lavoro
stabilito, ma calerebbe anche la giusta concentrazione penalizzando il risultato del loro impegno.
Va tenuto conto che, mentre il bambino è impegnato a rappresentare il personaggio del racconto, in
realtà sta realizzando la “recita di se stesso” in un “gioco” comunicativo ed emotivo che lo
coinvolge insieme ai suoi compagni; nel gioco drammatico, infatti, non ci sono attori e spettatori,
ma c’è, più semplicemente chi recita e chi non recita, tutti uniti in una relazione di comunicazione
reciproca. Al termine della recita assume fondamentale importanza destinare un tempo adeguato al
dialogo aperto, per mezzo del quale sia chi ha recitato che chi non lo ha fatto può esprimere
liberamente a parole le emozioni vissute.
In presenza di bambini particolarmente timidi, restii a parlare spontaneamente e a rispondere alle
provocazioni dell’insegnante, fa notare Moreno (1973) come l’attività drammatica riesca a
coinvolgerli grazie all’appoggio che trovano nei coetanei. Accade spesso che i bambini più timidi o
maggiormente emotivi si rifiutino di recitare o inizino a piangere al momento di parlare; per quanto
il confronto con gli altri compagni possa essere stimolante è bene mettere in atto delle strategie,
come ad esempio il trucco e il travestimento scenico. Attraverso il trucco e la maschera, infatti, il
bambino si sente meno esposto e quindi sviluppa più sicurezza e acquista maggiore disinvoltura.
Altra strategia per coinvolgere il bambino senza che si esponga al pubblico potrebbe essere quella
di renderlo protagonista della realizzazione scenica, in modo da abituarlo gradatamente ad assumere
un compito all’interno di tale contesto. Va considerato, infatti, che tutto ciò che ruota intorno al
“teatro” è importante per il bambino; la più alta ricompensa che lo spettacolo dovrà offrirgli risiede
nel piacere derivante dal suo allestimento, dal processo gioioso messo in atto per la sua
realizzazione, nell’impegno personale per un prodotto comune, piuttosto che dal successo o dalle
approvazioni di terzi. È possibile ad ogni modo, come propone Cristiani (1991), preparare i piccoli
alla pratica teatrale mediante alcuni esercizi di natura espressiva, relazionale e comunicativa.
L’espressione del viso è uno strumento di comunicazione molto efficace. Con esso è possibile
esprimere stati d’animo ed emozioni e farli conoscere agli altri immediatamente. L’espressione del
viso può essere spontanea ma anche volontaria.
A tal fine risulta utile il gioco dello specchio, attraverso il quale il bambino può osservarsi mentre
esprime diversi stati d’animo con la mimica facciale o con gesti.
Altri giochi altrettanto efficaci al raggiungimento dell’obiettivo suddetto sono: il gioco delle
trasformazioni, nel quale i bambini vengono invitati a trasformarsi in oggetti e/o personaggi e il
gioco delle statuine, nel quale i bambini, al comando dell’insegnante, devono fermarsi assumendo
una posizione che rappresenti l’oggetto o il personaggio suggerito.
Esercizi di tale tipologia risultano particolarmente utili poiché liberano il bambino dal sentimento di
paura e forme di inibizione, offrendogli la possibilità “di incontrare l’altro” in un contesto
impegnativo ma al contempo gioioso e piacevole.