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Partendo dal composto e-ducere, ex (fuori) più ducere (condurre). Inglod, in veste di
antropologo-educatore, ci accompagna nel sentiero della lettura attraverso il concetto di
educazione che riguarda vivere la vita e il guidarla.
E-ducere è un far uscire, aprire strade di crescita intellettuale e di scoperta, senza obiettivi
predefiniti o punti di arrivo già stabiliti.
Il compito dell'educatore, quindi, consiste nel fornire ispirazione e sguardo critico sulla via
della vita che conduce alla saggezza.
Traendo ispirazione dalle opere di diversi autori, in particolare dal filosofo Dewey, ingold
riconosce l'equipollenza relazionale tra antropologia ed educazione: un binomio con una
forte valenza trasformativa nel rispondere ai dilemmi del nostro tempo, il che significa non
limitarsi ad esplorare i punti di incontro tra le due discipline, ma lo induce a riconoscere una
loro fondamentale congruenza.
Il divario tra carattere educativo dell'antropologia tra la vita di insegnanti e di studiosi, e le
attese di istituzioni sempre più orientate ad una prospettiva aziendalistica e neoliberista, sta
diventando sempre più insostenibile.
Inoltre, si assiste ad un crescendo di fenomeni sociali caratterizzati da reazioni violente e
fondamentaliste, in un mondo sempre meno capace di esperienza di incontro e dialogo.
In questo scenario, compito dell'antropologia, è quello di contribuire ai grandi dibattiti del
nostro tempo: su come potremo vivere insieme e su come dovremmo relazionarci con le
persone e l'ambiente, ed è in tale relazione che vive e si alimenta il carattere intrisicamente
educativo dell'antropologia.
L'antropologia può considerarsi congruente con l'esperienza educativa solo quando ci
destabilizza trasformando ogni certezza in domanda, quando il suo fine non è produrre
conoscenza e quando può intendersi come maniera di condurre la propria vita con gli altri.
In questo senso, l'antropologia appare distante dal vecchio significato che si attribuiva
all'entografia (intesa come lo studio e la scrittura degli Altri e del loro mondo, anziché con gli
altri).
Ciò che rende l'antropologia un'esperienza educativa è il fatto che non studiamo tanto gli
altri, quanto studiamo con gli altri nel mentre essi vengono a studiare con noi.
È importante prestare attenzione al fato che si arricchisce e si completa con una serie di altri
attributi tra loro collegati: saper ascoltare attivamente, prendersi cura delle persone e delle
cose, saper aspettare ed essere presenti, procedere insieme con altri e avere ispirazione.
Nel corso della vita, oltre al fare e al subire, vi è da considerare anche l'abitudine che,
secondo Dewey, non è né produttrice né prodotto ma bensì principio di produzione generato
dalle azioni stesse. Ciò rimanda al concetto di habitus di Bourdieu "quale agire senza
pensarci che risuona nell'abitudine" ovvero all'idea che i comportamenti abituali sono
strumenti attivi di continua rimodulazione delle pratiche sociali.
ABITUDINE PER DEWEY→ da un lato comporta un abbandonarsi e dall'altro implica la
capacità di assimilare, il fuoriuscire dell'energia per raccoglierne altra, per poterla intonare in
una chiave di risposta.
Si tratta della messa in atto di ciò che ingold indica con abitare l'esperienza: si impara a
conoscere il mondo non osservandolo, ma muovendosi dentro.
Le operazioni della mente attenzionale non sono determinate da azioni intenzionali, non
sono cognitive ma ecologiche. È l'essere ecologico che ci permette quella corrispondenza di
cui scrive ingold, cioè il processo e la maniera per cui individui e cose responsabilmente
co-rispondono. È nel prestarsi reciproca attenzione mentre si procede insieme che ogni
individuo trova la sua voce condividendo l'esperienza con gli altri.
Non ci può essere responsabilità senza abilità di risposta ma per essere in grado di
rispondere, bisogna saper essere presenti, ammettere gli altri per quello che sono.
E-ducare→ ci conduce fuori, nel mondo, ad una corrispondenza con tale mondo.
Sintonizzare i novizi a prestare attenzione al mondo, aperti ed esposti alla sua presenza e a
venirne trasformati.
Educare→ accendere un fuoco, fuoco che ci espone al rischio poiché un'adeguata
educazione è una pratica di disarmo che ci rende vulnerabili e ci spinge ad uscire dalla
sicurezza delle nostre posizioni difensive e a stare nelle incertezze.
Ex-ducere→ è una forma di aspirazione che si nutre di saggezza più che di conoscenza,
ma solo nella misura in cui è praticata in maniera ricettiva e responsabile nei confronti degli
altri.
In tutto ciò, l'elemento creativo risiede nel saper produrre nuovi inizi: al di là delle
contingenze di ciò che le persone fanno e dei loro prodotti, l'atto creativo è la capacità di
generare persone in relazione, di mettere in comune (comunicazione).
Tale campo in relazioni è per ingold un vero e proprio territorio sismico che ci fa sentire
spaesati come quando, camminando, ci accorgiamo di aver perso la strada o prendiamo
qualche via traversa e ci scopriamo aperti all'esperienza di scoperta.
L'abilità sta proprio in questo: mentre i falsi problemi nascondono già dentro di loro la
soluzione e contemplano un'unica risposta corretta, i problemi reali offrono un'apertura e non
hanno una soluzione.
La libertà è quella di saper improvvisare, di trovare una strada mentre si procede in risposta
agli stimoli dell'ambiente, rivolgendoci verso uno scopo che si modifica nel corso dell'evento.
Si può quindi pensare allo studio come ad un processo di messa in comune e variazione, di
attenzione e risposta in cui maestri e studenti procedono insieme del corso dell'esperienza
educativa.
IL MODELLO GENEAOLOGICO
Nel gergo antropologico la parola filiazione (diretta e del tutto slegata dall'esperienza
dall'ambiente) indica una relazione la quale, negli schemi di parentela degli antropologi, è
raffigurata con una linea verticale che connette due icone di forma geometrica.
Le icone indicano le persone e la forma indica se sono maschi o femmine.
Questa rappresentazione è piena di presupposti nascosti:
1. Nella relazione di filiazione le vite di genitore e figlio sono separate
2. La linea non è una linea della vita, indica un insieme di capacità e caratteristiche per
viverla
3. La linea è lì all'inizio e non cresce né si allunga nel corso del tempo e questi attributi
devono essere assegnati prima e in maniera indipendente rispetto alla crescita del
bambino e al suo sviluppo nel mondo.
Attraverso questa linea gli individui entrano in possesso di attributi (qualità, capacità,
caratteristiche) che esistono già di per sé, prima che vengono messi in campo nel gioco
della vita, quindi li eriditano.
Lo schema di parentela una logica del modello che Morin chiama modello genealogico, il cui
presupposto centrale è che la struttura fondamentale degli individui determinata dal
passaggio di determinati attributi dei progenitori.
Morin non vuole sostenere che le numerose persone in giro per il mondo che amano
registrare e raccontare le loro genealogie ricorrano a questa logica (scrivere nota 18 pagina
43), anzi nelle storie sui propri celebri antenati, sul generare e sull'essere generati ogni
generazione si piega verso la successiva, fino a toccarla come filamenti che assicurano la
continuità dell'intera corda che si stende dal passato al presente.
REGIONE ED EREDITARIETÀ
DEWEY si chiedeva come fosse possibile che le idee di insegna ero rimanessero nella
pratica così radicate, la situazione comunque non cambia poiché a scuola è ancora previsto
che gli studenti seguano un curriculum stabilito in anticipo e che avanzino dal suo principio
alla conclusione attraverso tappe misurabil.
Sembra che una logica inesorabile ci spinga a imporre un regime di addestramento
pedagogico rigido e chiuso mentre allo stesso tempo esaltiamo il valore dell'educazione
come strada maestra verso la ragione illuminista.
Tylor→ la cultura era il grande processo di civilizzazione in cui l'umanità si era
progressivamente innalzata dalla rozza superstizione alla ragione e ai lumi. Usa le parole
"insieme complesso" per indicare e riferirsi alla cultura umana nella sua interezza. L'uomo in
società conoscenza attivamente attraverso l'indagine intellettuale, vede soltanto il
"miscuglio" di individui catturati nei loro comportamenti diversi, intrappolati dal retaggio del
passato e privi dell'energia creativa necessaria per liberarsene.
Lowie→ vedeva nella cultura una varietà accidentale di modi abituali di vivere e pensare,
assorbiti senza sforzo dalla miriade dei suoi detentori. Egli parla del miscuglio famoso.
L'individuo assorbe senza sforzo tutto ciò a cui è esposto, acquisendo la cultura come
un'eredità di per sé già completa.
La differenza tra le loro definizioni dipende da cosa si intende quando si dice che la cultura è
acquisita.
RITORNO A SCUOLA
La cultura umana è un'immensa piramide. Sulla cima si trova la voce della ragione, unica e
splendente e indifferente alla varietà di esperienze di coloro che parlano in suo nome.
Alla base si trova una frotta di meme assortiti sgomita per trovare degli ospiti nelle cui
bocche infilare i propri enunciati proverbiali e nelle cui mani piazzare progetti predeterminati.
Gli individui in questo caso sono vettori destinati a diffondere i meme con cui sono stati
infettati.
Quindi, il mondo secondo la pedagogia è un teatro di marionette:
In alto la ragione (il burattino che muove i fili)
In basso una variegata schiera di personaggi costretti a lasciarsi guidare.
Michel Serres→ la ragione, sotto i propri passi, non scopre nient'altro che la sua stessa
regola.
Teorema di Pitagora→ per Dewey sembra esistere in un mondo a sé, non assimilato dalle
abitudini normali di pensiero e di espressione.
Dewey pensava che la nostra comprensione di cosa sia l'educazione dovrebbe partire dalla
vita. Il problema dell'educazione scolastica è che si tende ad isolare ciò che viene insegnato
dalla messa in prova dell'esperienza vissuta, dove si produce il vero sapere.
Il risultato è l'inclinazione a ridurre la conoscenza a informazione, trasmessa verbalmente o
per mezzo di altre forme simboliche i cui significati si perdono per coloro che non hanno la
possibilità di partecipare alle pratiche.
Siccome la scuola si volge sempre di più verso la trasmissione di informazioni in forma
isolata, vi è il pericolo che ciò che viene insegnato e appreso si saperi dalla vita quotidiana e
si arrivi ad una biforcazione tra l'eccellenza tecnica e il sapere comune in seguito alla quale
si avranno picchi di competenza piuttosto bassi.
La questione è come bilanciare in maniera equilibrata le modalità di educazione formali e
non formali, con la conseguenza di pensare all'educazione solo nel linguaggio della
pedagogia e cercare le sue precondizioni nella capacità di simbolizzazione, considerata
spesso propria dell'essere umano.
Morin ha messo in discussione la contrapposizione tra ragione ed ereditarietà che
sottintende il modello dominante della pedagogia, modello che traccia un solco tra maniere
di conoscere e conoscenze trasmesse. Colui che conosce è una cosa, il contenuto di ciò
che conosce è un'altra.
La pedagogia applica il proprio metodo che è equivalente ad un metodo di trasmissione la
cui efficienza viene giudicata in base alla trascrizione da una testa all'altra di un contenuto
preesistente.
La tesi di Morin è che l'educazione si trova innanzitutto nella pratica partecipativa, nelle
situazioni in cui vengono resi presenti e sono responsabili gli uni nei confronti degli altri.
La conoscenza cresce lungo le linee della corrispondenza: nella messa in comune in cui
esse si uniscono e nella variazione in cui ciascuna è se stessa.
Ogni modo di conoscere allora è una linea di vita distinta e ne consegue che diventare
sapienti è parte integrante del diventare le persone che siamo. È questo che fa sì che
quando facciamo qualcosa lo facciamo con la nostra testa, voce, mano ecc.
L'educazione democratica produce differenza, è quello che ci permette di costituire noi
stessi collettivamente e singolarmente, è essere umani in divenire.
Dobbiamo quindi smettere di considerare l'educazione un metodo di trasmissione e pensarla
come una pratica di attenzione.
ATTENZIONALITA’ E CORRISPONDENZA
Ora si vuole indagare la distinzione tra intenzione (volizione) e attenzione (abitudine): la
prima descrizione riguardo la camminata era espressa in termini di intenzione (c’è
l’attenzione, ma in termini di far corrispondere i contenuti della mente con gli oggetti del
mondo, è quindi come una pausa), nella seconda la relazione tra intenzione e attenzione è
rovesciata, in quanto qui l’attenzione è longitudinale, si unisce al movimento, non è
separata. Se il principio di volizione si caratterizza per una forma di attenzione fondata
sull’intenzionalità, il principio di abitudine ci dà una forma di attenzione fondata
sull’intenzionalità. Alla luce di queste osservazioni va spiegato il concetto di corrispondenza,
compreso comparando il senso trasversale di attenzione con il suo senso longitudinale di
“procedere insieme con”. È il processo per cui individuo o cose co-rispondono o si
rispondono nel corso del tempo, per esempio negli scambi di lettere o di parole durante una
conversazione; è il modo di relazione di un essere vivente stabilito nelle proprie abitudini e il
cui atteggiamento è attenzionale. È prestandosi reciprocamente attenzione che gli individuo
corrispondono. Interazione è giocare a scacchi, in cui ognuno cerca di fare i suoi interessi,
corrispondenza è abitare il gioco degli scacchi: entrambi ne sono attratti, affascinati, e si
aprono l’uno all’altro nell’amore condiviso per il gioco che permette loro di parteciparvi in
spirito d’amicizia. A essere in gioco non è l’opposizione della loro agentività, ma
l’allineamento dei loro agencement.
CURA E ASPIRAZIONE
La cura conferisce una dimensione etica dell’attenzione: ci prendiamo cura delle persone
dedicandogli attenzione e rispondendo ai loro bisogni. La responsabilità della cura è
qualcosa che ci compete naturalmente e tale responsabilità si configura come insieme di
compiti = azione che dobbiamo e non che possediamo, dunque appartiene agli altri più che
a noi stessi, non lo svolgiamo di nostra spontanea volontà, ma non siano nemmeno obbligati
questo perché la presenza esige una risposta ed è attraverso le nostre parole e le nostre
voci che ci rendiamo presenti agli altri. Per avere cura degli altri dobbiamo ammetterli alla
nostra presenza in modo che noi, in cambio, possiamo essere presenti per loro. È
importante lasciarli essere, ma ciò non è conciliabile né con il comprendere né con lo
spiegare, in quanto questi due elementi appartengono all’altra modalità di attenzione, quella
di controllo e verifica. Secondo tale modalità, prestiamo attenzione alle cose e alle persone
per potercele spiegare e una volta spiegate possono essere accantonate: funziona così
anche nelle pratiche dell’educazione. Prendersi cura significa guardare, ascoltare e
rispondere, non accantonare. Questo ragionamento implica che se l’educazione riguarda il
prendersi cura del mondo e dei suoi abitanti non si tratta di capirli, ma di ristabilirne la
presenza, per poter prestare loro attenzione e rispondere a ciò che hanno da dire. Ma
prendersi cura non comporta unicamente ascoltare cosa gli altri hanno da dirci, ma anche
rispondere loro in maniera adeguata e questo è un dovere. Ne consegue che l’educazione è
un adempimento di un dovere. Ci si chiede cos’hanno a che fare la cura e l’attenzione con
l’aspirazione. La risposta sta nella maniera in cui l’aspirazione coniuga le attività del
ricordare e dell’immaginare, in quanto entrambe sono maniera di “essere presenti”: il
ricordare rende presente il passato, l’immaginare il futuro. In questo tipo di ricordare, il
passato non è concluso, ma è attivo nel presente. Ricordare è ri-entrare come
corrispondente nei processi di sviluppo di sé stessi e degli altri, è raccogliere le fila delle vite
passate e unirsi a loro nel trovare una via da seguire si tratta di una forma di aspirazione. La
stessa cosa vale per l’immaginare, intesa come cogliere una vita che ha la capacità di
superare l’ancoraggio al mondo materiale. In questo senso immaginare è sempre ricordare e
ricordare è sempre immaginare: futuro e passato, non più distinguibili, si fondono ai confini
dell’aspirazione, in un luogo che sogniamo sempre, ma non raggiungiamo mai. In breve,
l’aspirazione permette di coniugare la cura e l’attenzione, per le quali è necessario portare le
cose in presenza, con la tensione della vita nel tempo. La vita scorre all’infinito tra i diversi
punti che le intenzioni uniscono, per cui anche l’educazione, come la vita, non può avere
esiti predeterminati (l’unico esito è l’educazione).
IL MAGGIORE E IL MINORE
Nella scienza maggior la solidità è primaria e la fluidità derivata, l’identità e la costanza
precedono la differenza e la variazione, … la scienza minore è l’opposto della maggiore:
comincia dalla fluidità e nelle cose che ai nostri occhi hanno forma fissa vede solo contorni
di un movimento perpetuo, dà importanza alla variazione rispetto alla costanza, il suo spazio
non può essere delimitato o diviso. Questo tipo di scienza pone problemi reali, a cui deve
essere dedicato tempo, che Manning chiama sperimentazione paziente, il cui obiettivo è
aprire una strada e seguirla ovunque essa porti. La pazienza della sperimentazione sta nella
dinamica dell’attenzione e nella tolleranza dell’attesa. Dobbiamo permettere alle cose di
rendersi presenti, con i loro tempi, non le possiamo sforzare.
LA LIBERTA’ DELL’ABITUDINE
Nel principio di volizione l’attenzione interrompe il movimento in modo da stabilire una
relazione trasversale tra soggetto e oggetto, tra mente e mondo. Nel principio d’abitudine
l’attenzione segue i movimenti animati cui è collegata in risonanza: è un procedere non
trasversale ma longitudinale. Questa distinzione tra trasversale e longitudinale equivale a
quella tra modo maggiore e minore. Nel modo maggiore abbiamo preso una decisione di
nostra volontà e ci disponiamo ad agire in base a essa. A tal proposito, Manning parla di
“mettere una griglia a posteriori” su eventi che hanno già avuto luogo; ma in realtà non è
possibile posizionarci al di fuori delle nostre azioni e assumerne fin da subito il completo
controllo, così come nell’esperienza non è possibile separare ciò che facciamo da ciò che
subiamo. Nella pratica, le decisioni scaturiscono dall’agire, con l’agente che rimane dentro
l’azione. Questo però non significa che siamo meno liberi: se ritorniamo alla metafora
dell’escursionista, il percorso compiuto dall’escursionista può variare in intensità, ma porta
sempre avanti e oltrepassa sempre i suoi obiettivi, ed è qui che sta la libertà. È la libertà di
improvvisare, di trovare una strada mentre si procede in risposta alle variazioni
dell’ambiente; l sentiero rende possibili continui inizi, consente la libertà di movimento,
piuttosto che la libertà di prender posizione, la libertà di crescere e di corrispondere. Tale
libertà deve sempre definirsi sempre in opposizione alla necessità; è nell’eccedenza
dell’esperienza rispetto all’azione, nell’inclusione del fare in seno al subire, nello stabilirsi
nell’abitudine, che si trova la vera libertà. Tale libertà, secondo Esposito, bisogna intenderla
non come qualcosa che si ha, ma qualcosa che si è. Mentre la libertà della volizione è
diretta ai fini, la libertà dell’abitudine, è puro inizio. Da questo si capisce allora che libertà e
necessità non sono opposte, ma interdipendenti. La necessità unisce le vite nell’amore e
nell’amicizia, quindi nella libertà; la vera necessità, a differenza della falsa, consiste nel
raggiungersi, come nella corrispondenza delle vite e quindi delle generazioni che procedono
insieme. A questo punto bisogna tornare alla nozione di agencement. Ingold usa
agencement in contrapposizione all’agentività del soggetto volitivo, per fare riferimento al
modo in cui l’Io dell’abitudine è continuamente generato nel corso dell’azione stessa. Per
Manning l’agencement è analogo a quel processo che si è chiamato differenziazione
interstiziale e che fende l’evento dall’interno. Nella sua definizione è l’intensità orientata di
movimento compositivo che altera il campo dell’esperienza. Ma questa parola suggerisce
anche un assemblaggio, una fenditura, un’unione semanticamente molto ricco. Per Delouze
e Guattari il concetto serve a separare le cose dalle determinazioni dell’articolazione
esteriore, in modo che i loro elementi costitutivi possano abbandonarsi al movimento
compositivo della corrispondenza affettiva: vogliono che, a proposito del libro che hanno
scritto, intrecciamo il nostro pensiero con il loro, che sia un viaggio senza fine che
intraprendiamo insieme. La libertà ci riguarda, ma non ci appartiene; appartiene invece a
una collettività viva ed eterogenea è la comunità di coloro che hanno qualcosa da donare
perché non hanno nulla in comune. È la comunità dell’undercommons. La vera libertà è
esemplificata negli atti minori attraverso cui le vite vengono vissute insieme
nell’undercommons. Qui la libertà ci compete, come un compito da svolgere, ed è svolgendo
questo compito che estinguiamo il nostro debito verso gli altri. Non può esserci libertà senza
responsabilità e cura. Ecco che cosa significa stabilirsi nella libertà dell’abitudine.
L’OSSERVAZIONE PARTECIPANTE
osservare significa guardare quello che accade intorno a noi e ascoltare e percepire;
partecipare significa farlo immersi nel flusso di attività quotidiane condotte accanto e insieme
alle persone e alle cose che attirano la nostra attenzione. Di solito l’antropologo si unisce per
un lungo periodo alle vite delle persone che vivono in un certo luogo senza mai avere la
situazione sotto controllo, l’antropologo è vulnerabile, le sue domande non si esauriscono
mai. Com’è possibile guardare e allo stesso tempo prendere parte? Secondo Jackson non lo
si può fare simultaneamente, ma che si raccolgono tipi di dati differenti, oggettivi e
soggettivi. In quanto esseri umani sembra che possiamo aspirare alla conoscenza del
mondo solo emancipandoci e rimanendo stranieri/mettere da parte l’esperienza soggettiva.
Questo è quanto succede quando affermiamo di fare etnografia. Nell’etnografia i nostri
insegnanti vengono convertiti in oggetto di studio, è come se li guardassimo dall’alto. Ma
osservare con o osservare significa prestare attenzione alle persone e alle cose, imparare
da loro e seguirle nei precetti e nelle pratiche = significa scegliere l’esistenza piuttosto che
l’essenza, ricomporre il conoscere e l’essere, reintegrare l’osservazione nella partecipazione
a una vita vissuta in compagnia degli altri. Nel registro dell’esistenza e della vita comune non
può esserci osservazione senza partecipazione, per cui l’osservazione partecipante è il
compimento di quello che dobbiamo al mondo per il nostro sviluppo e per la nostra
formazione = impegno ontologico. Praticare l’osservazione partecipante significa però anche
subire un’educazione e credo ci siano buoni motivi per considerare l’educazione l’obiettivo
principale dell’antropologia antropologia come pratica di educazione. È una pratica dedita a
quella che l’antropologo Burridge ha chiamato metanoia, ovvero una serie continua di
trasformazioni, ognuna delle quali altera i predicati dell’essere. Secondo Ingold la metanoia
costituisce lo scopo dell’educazione. In questo senso l’antropologia esplora le condizioni e le
possibilità di esseri umani. Rorty dice che antropologia è aprire uno spazio per quel senso di
meraviglia che i poeti sanno talvolta destar, infatti l’antropologia come la poesia, girovaga e
si meraviglia. Il meravigliarsi deriva dall’attenzione, il girovagare dal seguire.
LA SCUOLA E IL CAMPO
Praticare l’osservazione partecipante è ritrovarsi in corrispondenza con le persone tra le
quali studiamo, questo è lo scopo dell’antropologia. Lo scopo dell’etnografia è l’opposto,
ovvero spiegare un mondo vitale e non esplorare la condizione umana. Invece, lo scopo
dell’antropologia è studiare con le persone, non fare uno studio su di esse. Ci sono davvero
molte somiglianze tra la scuola e il campo, considerati come luogo di studio. Lo studio sul
campo è in comune e non solitario; si occupa di problemi reali, ma non per trovarvi soluzioni;
è speculativo, ma non predittivo, è critico ma non limitato alla critica. Il campo è un
undercommons, pieno di atti minori. Il lavoro di campo non consiste nell’applicazione di un
metodo allo scopo di ottenere dei risultati, ma è una pratica di sperimentazione paziente che
trasforma ogni risposta in una domanda. Il campo dell’antropologo non equivale
esattamente, per i suoi ospiti, alla vita quotidiana, come se fosse unicamente il ricercatore a
esporsi e loro continuassero con le faccende abituali. Il parallelo con la scuola suggerisce
piuttosto che anche per gli ospiti il campo si configura come un luogo al di fuori del tempo
della quotidianità; è un luogo di mezzo, da dove il mondo si apre non solo per l’antropologo,
ma anche per i suoi ospiti. Si tratta di quell’apertura che rende possibile la messa in comune
nell’undercommons. La partecipazione non è sempre di natura antropologica –
l’osservazione partecipante è di natura antropologica solo quando trasforma la prospettiva di
tutti i partecipanti. Un semplice adattamento è forse sufficiente per raccogliere dati, ma non
ha potenziale trasformativo; l’eccedenza della messa in comune e della variazione rispetto
alla semplice trasmissione di informazioni era proprio ciò che per Dewey distingueva
l’educazione dall’addestramento. E per noi è ciò che separa l’antropologia dall’etnografia. In
questa separazione vi è anche la dimensione temporale. L’antropologia è nell’evento, si
parla di trascorrere insieme, quindi di corrispondenza. L’etnografia offre un resoconto
retrospettivo, uno slittamento da eventi che hanno già avuto luogo alle intenzioni che li
hanno motivati. L’osservatore partecipante che sul campo preferisce considerarsi un
etnografo è probabile che si ritrovi a guardare contemporaneamente in due direzioni; in
quello che viene chiamato incontro etnografico, si unisce agli altri solo per voltargli le spalle.
Definire l’incontro etnografico equivale infatti a consegnare ciò che è in uno stato iniziale alla
temporalità passata del già accaduto. Fabien chiama questo atteggiamento ambivalente
schizocrania prestare attenzione agli altri apertamente, con la celata intenzione di riferire in
seguito su di loro. Il punto fondamentale dell’antropologia non è arrivare a dei risultati
definitivi quanto piuttosto, come già aveva detto Dewey, aprire delle esperienze che
apriranno a loro volta esperienze ulteriori, rendendo possibile un processo di crescita e di
scoperta senza fine e continuamente rinnovato. I risultati definitivi sanciscono la morte
dell’antropologia, e anche quella dell’educazione.