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CO-RISPONDERE

Partendo dal composto ​e-ducere, ex (fuori) più ducere (condurre). ​Inglod, in veste di
antropologo-educatore, ci accompagna nel sentiero della lettura attraverso il concetto di
educazione ​che riguarda vivere la vita e il guidarla.
E-ducere​ è un far uscire, aprire strade di crescita intellettuale e di scoperta, senza obiettivi
predefiniti o punti di arrivo già stabiliti.
Il compito dell'educatore, quindi, consiste nel fornire ispirazione e sguardo critico sulla via
della vita che conduce alla saggezza.
Traendo ispirazione dalle opere di diversi autori, in particolare dal filosofo Dewey, ingold
riconosce l'equipollenza relazionale tra antropologia ed educazione: un binomio con una
forte valenza trasformativa nel rispondere ai dilemmi del nostro tempo, il che significa non
limitarsi ad esplorare i punti di incontro tra le due discipline, ma lo induce a riconoscere una
loro fondamentale congruenza.
Il divario tra carattere educativo dell'antropologia tra la vita di insegnanti e di studiosi, e le
attese di istituzioni sempre più orientate ad una prospettiva aziendalistica e neoliberista, sta
diventando sempre più insostenibile.
Inoltre, si assiste ad un crescendo di fenomeni sociali caratterizzati da reazioni violente e
fondamentaliste, in un mondo sempre meno capace di esperienza di incontro e dialogo.
In questo scenario, compito dell'antropologia, è quello di contribuire ai grandi dibattiti del
nostro tempo: su come potremo vivere insieme e su come dovremmo relazionarci con le
persone e l'ambiente, ed è in tale relazione che vive e si alimenta il carattere intrisicamente
educativo dell'antropologia.
L'antropologia può considerarsi congruente con l'esperienza educativa solo quando ci
destabilizza trasformando ogni certezza in domanda, quando il suo fine non è produrre
conoscenza e quando può intendersi come ​maniera di condurre la propria vita con gli altri.
In questo senso, l'antropologia appare distante dal vecchio significato che si attribuiva
all'entografia (intesa come lo studio e la scrittura degli Altri e del loro mondo, anziché con gli
altri).
Ciò che rende l'antropologia un'esperienza educativa è il fatto che non studiamo tanto gli
altri, quanto ​studiamo con gli altri nel mentre essi vengono a studiare con noi.
È importante prestare attenzione al fato che si arricchisce e si completa con una serie di altri
attributi tra loro collegati: ​saper ascoltare attivamente, prendersi cura delle persone e delle
cose, saper aspettare ed essere presenti, procedere insieme con altri e avere ispirazione.
Nel corso della vita, oltre al fare e al subire, vi è da considerare anche l'abitudine che,
secondo Dewey, non è né produttrice né prodotto ma bensì principio di produzione generato
dalle azioni stesse. Ciò rimanda al concetto di ​habitus​ di Bourdieu "quale agire senza
pensarci che risuona nell'abitudine" ovvero all'idea che i comportamenti abituali sono
strumenti attivi di continua rimodulazione delle pratiche sociali.
ABITUDINE PER DEWEY→ ​da un lato comporta un abbandonarsi e dall'altro implica la
capacità di assimilare, il fuoriuscire dell'energia per raccoglierne altra, per poterla intonare in
una chiave di risposta.
Si tratta della messa in atto di ciò che ingold indica con ​abitare l'esperienza:​ si impara a
conoscere il mondo non osservandolo, ma muovendosi dentro.
Le operazioni della mente attenzionale non sono determinate da azioni intenzionali, non
sono cognitive ma ecologiche. È l'essere ecologico che ci permette quella corrispondenza di
cui scrive ingold, cioè il processo e la maniera per cui individui e cose responsabilmente
co-rispondono. È nel prestarsi reciproca attenzione mentre si procede insieme che ogni
individuo trova la sua voce condividendo l'esperienza con gli altri.
Non ci può essere responsabilità senza abilità di risposta ma per essere in grado di
rispondere, bisogna saper essere presenti, ammettere gli altri per quello che sono.
E-ducare→ ​ci conduce fuori, nel mondo, ad una corrispondenza con tale mondo.
Sintonizzare i novizi a prestare attenzione al mondo, aperti ed esposti alla sua presenza e a
venirne trasformati.
Educare→ ​accendere un fuoco, fuoco che ci espone al rischio poiché un'adeguata
educazione è una pratica di disarmo che ci rende vulnerabili e ci spinge ad uscire dalla
sicurezza delle nostre posizioni difensive e a stare nelle incertezze.
Ex-ducere→​ è una forma di aspirazione che si nutre di saggezza più che di conoscenza,
ma solo nella misura in cui è praticata in maniera ricettiva e responsabile nei confronti degli
altri.
In tutto ciò, l'elemento creativo risiede nel saper produrre nuovi inizi: al di là delle
contingenze di ciò che le persone fanno e dei loro prodotti, l'atto creativo è la capacità di
generare persone in relazione, di mettere in comune (comunicazione).
Tale campo in relazioni è per ingold un vero e proprio territorio sismico che ci fa sentire
spaesati come quando, camminando, ci accorgiamo di aver perso la strada o prendiamo
qualche via traversa e ci scopriamo aperti all'esperienza di scoperta.
L'abilità sta proprio in questo: mentre i falsi problemi nascondono già dentro di loro la
soluzione e contemplano un'unica risposta corretta, i problemi reali offrono un'apertura e non
hanno una soluzione.
La libertà è quella di saper improvvisare, di trovare una strada mentre si procede in risposta
agli stimoli dell'ambiente, rivolgendoci verso uno scopo che si modifica nel corso dell'evento.
Si può quindi pensare allo studio come ad un processo di messa in comune e variazione, di
attenzione e risposta in cui maestri e studenti procedono insieme del corso dell'esperienza
educativa.

UNA BUSSOLA PER IL LETTORE

Educazione→ ​assume una connotazione ideale e positiva


Apprendimento→ ​tende a colorarsi di un'eccezione dispregiativa fino a diventare industria
dell'apprendificazione

Ingold nell'ambito dell'educazione, fa riferimento alla prospettiva ecologica e relazionale


dell'apprendimento. Se è vero che insegnare significa trasmettere un contenuto e
apprendere significa assimilarlo e che il momento chiave dell'esperienza educativa si
realizza solo dopo essersi liberati dai ceppi dei binomio insegnamento-apprendimento, è
altrettanto vero che il concetto di apprendimento è oggi messo sempre più in discussione
preferendogli quello di "esperienza di co-apprendimento".
CARL ROGERS→ ​noto per essere stato il fondatore​ ​della psicoterapia centrata sul
paziente, pensava che l'insegnamento inteso come semplice esercizio di trasmissione fosse
un'esperienza largamente superata. Nella sua riflessione intendeva proporre la
sperimentazione di nuove forme di apprendimento e dava così spazio ad una concezione
dell'insegnamento ora inteso come esperienza di reciprocità e di relazione, in modo da
facilitare il mutamento e l'apprendimento.
Il suo testo ​"Libertà nell'apprendimento"​ costituisce un e vero proprio esempio di etnografia
applicata all'educazione e un tentativo di migliorare il sistema educativo sulla base dei
bisogni degli apprendenti e dei limiti dei contesti educativi con i quali lo studioso si
rapportava.
"Personalmente non mi interessa istruire qualcuno riguardo a ciò che egli dovrebbe sapere o
pensare. Trasmettere conoscenze o capacità, illuminare, guidare, dirigere: secondo la mia
opinione troppa gente è stata illuminata, guidata, diretta."
GREGORY BATESON→ ​riferito anche lui all'ecologia della relazione in rapporto alla
pedagogia, la portata epistemologica del suo approccio ecologico si può ritenere risorsa
importante per tutti coloro che all'educazione rivolgono il loro interesse e lavoro.
A lui sembravano inquietanti gli interventi educativi deliberati e tecnistici, fondati sul primato
della progettazione e della sua finalità, dato che andavano a discapito dell'autonomia
creativa dell'allievo e che essi non potevano che produrre esiti distruttivi e manipolatori.
L'approccio sistemico batesoniano è ancora sottoutilizzato come soluzione al "come"
realizzare un adeguato processo educativo. (l'educazione non può fare i conti con una serie
di limiti oggettivi che le sono propri e con le forme in cui essa si realizza, il contesto in cui si
situa questa relazione ci permette di individuare e rendere espliciti anche gli aspetti meno
formalizzati e le potenzialità dell'azione educativa. Il contesto ci permette di "stare nel
processo" o comunque di tentare di dare risposte al "come" realizzare una proposta
educativa che comprenda anche gli elementi cognitivi ed emozionali che la caratterizzano).
È raro che un insegnante e uno studente pensino se stessi come definiti dalla relazione che
li comprende, anziché come monadi isolate. È proprio a partire da questa rappresentazione
di sé che si capisce che si può insegnare solo all'interno di una relazione con altre persone
e in una situazione di apprendimento reciproco.
Tutte le persone fanno parte di un sistema e nella relazione educativa sia l'insegnante che
l'allievo, devono fare i conti con le premesse dell'altro se vogliono promuovere processi di
apprendimento e di crescita culturale.
Ha rivelato che la capacità di osservare fenomeni complessi ha a che fare con le dinamiche
dell'umorismo e che tali dinamiche sono collegate all'input cognitivo delle emozioni. Un buon
osservatore deve saper riconoscere la differenza fra cambiare punto di vista entro un
contesto dato per contesto e cambiare quel contesto per "uscire dalle cornici di cui siamo
parte di noi, del nostro modo di vedere e agire. Apprendere ad apprendere
(deuteroapprendimento) è il savoir faire che mettiamo in atto quando riusciamo ad affrontare
con successo questi cambiamenti sistemici e autoriflessivi.
JAN MASSCHELEIN→ ​il suo punto forte è la nostra immediata e assoluta attenzione.
In questo senso, la questione del contesto è un elemento fondamentale per "apprendere a
starci" e si pone nella direzione del l'esser ecologico.
Interesse a partecipare che, maestri e studenti, condividono nel processo che li mette in
relazione mentre vengono formati. È la differenza tra "una partecipazione in cui si impara
una sola parte e una partecipazione che trasforma la prospettiva di tutti coloro che vi
prendono parte e che conduce ad una prospettiva condivisa.
Prospettiva ecologica→ ​modalità di pensiero basata sulla relazione anziché sulla
separazione: non si impara ad agire in modo isolato ma Grazie al coinvolgimento in un
mondo in cui la socialità è la qualità fondamentale delle relazioni. In termini di
apprendimento, ciò significa che la conoscenza avviene nella pratica, quando l'individuo ci
coinvolge concretamente nella sua vita quotidiana.
Si apprende in relazione, se vi è reciprocità e quando gli individui si possono muovere in
direzioni diverse ed impreviste.
JEAN L'AVE ​e ​ETIENNE WENGER ​si concentrano sui modi di partecipazione sociale che
forniscono il contesto appropriato per far avvenire l'apprendimento. Attraverso il particolare
tipo di partecipazione messo in atto, l'apprendente rende proprio il sapere sociale disponibile
in modi che investono la sfera esperienziale emotiva e cognitiva.
RENÈ BARBIER→ ​ritiene che la scientificità del metodo risieda nelle teorie dell'ascolto
sensibile nelle scienze umane, in ragione delle condizioni dialogiche e affettive che
caratterizzano l'esperienza intersoggettiva. Si tratta di un modo pertinente per Co-produrre
senso insieme a coloro che fanno parte dell'ambiente e che non intendono essere privati del
proprio sapere esperienzale e permettere così ai soggetti in apprendimento di essere attori
ed esperti del processo indagato.
Infine, seguendo Ingold sulla traccia di Dewey, possiamo pensare l'insegnamento come un
processo di messa in comune e variazione, di attenzione e risposta, in cui maestri e studenti
procedono insieme in un percorso di studio che è questione di produzione e non di
consumo, di condivisione pubblica e non di appropriazione privata.
"lo studio è trasformativo, non è addestramento"​. E solo in questo modo è in grado di
renderci liberi.

CAPITOLO 1: CONTRO LA TRASMISSIONE


la scuola, nel nostro immaginario, rimane il luogo primario della formazione educativa in
relazione ad essa le istituzioni prescolastiche sono interpretate come preparazione a quelle
postscolastiche come coronamento. In una società democratica è responsabilità dello stato
garantire servizi educativi adeguati per i propri cittadini e il ministero dell'istruzione deve
supervisionare le scuole e regolamentare ciò che ci accade.
Pratica educativa e istituzione scolastica sembrano essere inscindibili, non si può avere l'una
senza l'altra.
Il sapere cambia da cultura a cultura così come le istruzioni che ne consentono il passaggio
da una generazione alla successiva, la scuola è una di queste istituzioni ma ce ne sono
moltissime altre.
L'educazione è allora qualcosa che interessa ogni essere umano che vive in società.
Questo tipo di educazione potrebbe considerarsi unicamente umana.
La pedagogia è l'arte di insegnare, ci sono molte maniere diverse di distinguere tra
insegnamento e apprendimento o di mostrare come l'uno ecceda l'altro, per esempio
distinguendo tra la situazione in cui chi apprende si limita ad acquistare abitudini osservando
quello che fanno gli altri.
L'educazione nel suo senso più ampio riguarda la trasmissione di informazioni e coloro
secondo cui l'educazione avviene a scuola la considerano uno spazio separato in cui viene
trasmesso il sapere. Coloro secondo cui l'educazione è una pratica pedagogica universale
degli esseri umani, vadano essi a scuola o no, seguono la stessa logica.
L'obiettivo è quello di mettere in discussione l'idea di trasmissione, dimostrare che non è
attraverso di essa che le persone di solito arrivano a sapere quello che fanno e che anzi
distorce lo scopo e il significato dell'educazione.
L'autore vuole dimostrare che l'educazione è una pratica di attenzione e non di trasmissione
(che è attraverso l'attenzione che il sapere è prodotto e tramandato).

LA CONTINUITÀ DELLA VITA


Il punto di partenza di Dewey non è la scuola, né le persone e nemmeno l'unità. Egli procede
nella direzione opposta:
Per capire che cos'è l'educazione dobbiamo occuparci in primo luogo della natura della vita,
capire in che modo piante e animali differiscono dalle pietre.
Ogni vita ha il compito di generare altre vite e di mantenerle fino a quando queste ultime non
saranno in grado di produrre vita a loro volta. La continuità del processo vitale è sociale e
l'educazione è il mezzo di questa continuità sociale della vita.
Ovunque o ogniqualvolta la vita va avanti, va avanti anche l'educazione, va avanti
nell'ambito della vita umana e nella scuola.
Quest'ultima è soltanto uno dei numerosi strumenti che assicurano la continuità sociale.
L'educazione si avrà quindi al di fuori della scuola, ad essere davvero essenziale in essa è la
trasmissione e la comunicazione.
DEWEY→ ​la società continua ad esistere non solo per mezzo della trasmissione, per mezzo
della comunicazione, ma si può dire giustamente che esiste nella trasmissione e nella
comunicazione.
Comunicazione→ ​essa ha a che vedere con il trasferire informazioni o spedire messaggi.
Dewey, partendo dalla somiglianza tra le parole comunicazione, comunità, e comune, è
interessato a come le persone con esperienze di vita differenti riescano a raggiungere un
accordo.
In ambito educativo, mettere In comune è un risultato ottenuto da persone di generazioni
differenti. Il suo potere educativo sta nel fatto che l'informazione non passa da una testa
all'altra senza distorsioni.
DEWEY dice: per condividere e al contempo educare devo fare uno sforzo immaginativo per
dare forma alla mia esperienza in modi che la rendano vicina alle vostre, così che possiamo
percorrere la stessa strada e, così facendo, produrre insieme significato.
"l'esperienza, dice dewey, deve essere formulata per essere comunicata. Per formularle è
necessario considerare quali punti di contatto ha con la vita di un altro, per poterla esporre in
una forma che gli permetta di valutarne il significato. Si deve, con l'immaginazione,
assimilare qualcosa dell'esperienza di un altro per potergli parlare inteliggentemente della
propria esperienza. Ogni comunicazione è come l'arte".
Non si tratta di ritrovarsi con un pezzo di sapere che prima era appartenuto a me e ora è
impiantato nella vostra mente, arriviamo piuttosto ad una sorta di armonia che è nuova per
entrambi. L'educazione è trasformativa.

MESSA IN COMUNE E VARIAZIONE


nel discorso di Dewey, ciò che l'educazione è per la continuità della vita, la comunicazione lo
è per la trasmissione. La prima è il mezzo per raggiungere la seconda.
Nonostante Dewey sia meno interessato a definire il concetto di trasmissione rispetto a
quello di comunicazione, con il termine "non" intende il passaggio da una generazione
all'altra di un corpus di informazioni e rappresentazioni necessarie per condurre una certa
forma di vita. La trasmissione è possibile perché le vite si sovrappongono, perché mentre
qualcuno invecchia e alla fine muore c'è già qualcun altro che è nato e sta crescendo. È
partecipare alla vita degli altri che permette all'educazione di agire e saperi, valori, credenze
e pratiche vengono perpetuate.
DEWEY insiste sul fatto che ​solo se entrambi partecipano si può essere educazione.
Giovani e adulti devono condividere una posta in gioco nel risultato, se così non fosse allora
non si tratterebbe di educazione ma solo di addestramento (training).
Troppo spesso, lamenta Dewey, i giovani della nostra stessa specie vengono trattati in
modo simile, il bambino "viene addestrato come un animale, non educato come un essere
umano".
Ambiente è il terzo termine che gioca un ruolo chiave nella filosofia dell'educazione di
Dewey. Se la comunicazione è il mettere in comune la vita e la trasmissione la sua
perpetuazione, allora l'ambiente ne è la variazione. L'ambiente quindi non è costituito solo
da ciò che circonda l'individuo o la somma delle condizioni che ingloba, ma la maniera in cui
queste condizioni partecipano ad uno schema di attività collegate.
"il vero ambiente dell'uomo è costituito da quelle cose che effettivamente lo mutano"
Esse lo accompagnano e mutano come muta lui.
"​l'astronomo corrisponde alle stelle. La promessa dell'educazione sta nella capacità di
rispondere e di ricevere risposta e senza questa abilità l'educazione non sarebbe possibile".
Messa in comune e variazione sono interdipendenti, da un lato non possono esserci
movimento, crescita o vita nella condivisione di esperienze senza che ci sia variazione in
quello che ogni partecipante porta con sé. In sua assenza, l'unica differenza si avrebbe tra
coloro che hanno più talento e coloro che ne hanno meno e l'educazione sarebbe ridotta ad
addestramento.
L'immaturità è una specifica potenzialità di crescita e l'obiettivo dell'educazione è avvicinare
giovani ed adulti in modo che la vita sociale possa Andare avanti e, mentre il giovane
diventa adulto, l'adulto torna giovane condividendo la curiosità.
Dall'altro lato non può esserci variazione senza compartecipazione in un ambiente sociale
condiviso ed è nella corrispondenza con gli altri che ognuno di noi diventa se stesso.
In conclusione, messa in comune e variazione dipendono l'uno dall'altro ed entrambe sono
necessarie per la continuità della vita.
La comunità educativa è tenuta insieme attraverso la variazione ed è una comunità in cui
ognuno ha qualcosa da dare proprio perché non vi è niente in comune e in cui una
Co-esistenza supera la regressione essenzialità a un'identità primordiale (vedere nota 15
pagina 41).
Avere qualcosa in comune è un aspirazione.
DEWEY conclude dicendo che l'educazione non può non avere luogo con la comunicazione
diretta, ma solo indirettamente tramite l'ambiente.

IL MODELLO GENEAOLOGICO
Nel gergo antropologico la parola ​filiazione​ (diretta e del tutto slegata dall'esperienza
dall'ambiente) indica una relazione la quale, negli schemi di parentela degli antropologi, è
raffigurata con una linea verticale che connette due icone di forma geometrica.
Le icone indicano le persone e la forma indica se sono maschi o femmine.
Questa rappresentazione è piena di presupposti nascosti:
1. Nella relazione di filiazione le vite di genitore e figlio sono separate
2. La linea non è una linea della vita, indica un insieme di capacità e caratteristiche per
viverla
3. La linea è lì all'inizio e non cresce né si allunga nel corso del tempo e questi attributi
devono essere assegnati prima e in maniera indipendente rispetto alla crescita del
bambino e al suo sviluppo nel mondo.
Attraverso questa linea gli individui entrano in possesso di attributi (qualità, capacità,
caratteristiche) che esistono già di per sé, prima che vengono messi in campo nel gioco
della vita, quindi li ​eriditano.​
Lo schema di parentela una logica del modello che Morin chiama ​modello genealogico​, il cui
presupposto centrale è che la struttura fondamentale degli individui determinata dal
passaggio di determinati attributi dei progenitori.
Morin non vuole sostenere che le numerose persone in giro per il mondo che amano
registrare e raccontare le loro genealogie ricorrano a questa logica (scrivere nota 18 pagina
43), anzi nelle storie sui propri celebri antenati, sul generare e sull'essere generati ogni
generazione si piega verso la successiva, fino a toccarla come filamenti che assicurano la
continuità dell'intera corda che si stende dal passato al presente.

COME SEGUIRE UNA RICETTA


Sperber non parla di meme, ma di rappresentazioni ed esse sono direttamente contagiose:
possono diffondersi in una popolazione come un’epidemia, infettando le menti, predisposte a
riceverle per ragioni ereditarie per poi propagarle di nuovo. Ma non ci può essere
trasmissione diretta di informazioni da un contesto di azione a un altro senza regole di
codifica e decodifica che siano esse stesse indipendenti dal contesto. I significati di parole
scritte o orali devono essere attribuiti in anticipo e ciò che conta inoltre è la condivisione
dell’esperienza: né i suoni verbali né i segni grafici della scrittura hanno già i loro significati
incorporati, ma li assumono a partire dalla partecipazione a un’esperienza condivisa di
attività congiunta. L’accordo sul significato delle parole è un risultato del mettere in comune:
dobbiamo continuamente lavorarci e per questo motivo è sempre provvisorio, mai definitivo.

REGIONE ED EREDITARIETÀ
DEWEY si chiedeva come fosse possibile che le idee di insegna ero rimanessero nella
pratica così radicate, la situazione comunque non cambia poiché a scuola è ancora previsto
che gli studenti seguano un curriculum stabilito in anticipo e che avanzino dal suo principio
alla conclusione attraverso tappe misurabil.
Sembra che una logica inesorabile ci spinga a imporre un regime di addestramento
pedagogico rigido e chiuso mentre allo stesso tempo esaltiamo il valore dell'educazione
come strada maestra verso la ragione illuminista.
Tylor→ ​la cultura era il grande processo di civilizzazione in cui l'umanità si era
progressivamente innalzata dalla rozza superstizione alla ragione e ai lumi. Usa le parole
"insieme complesso" per indicare e riferirsi alla cultura umana nella sua interezza. L'uomo in
società conoscenza attivamente attraverso l'indagine intellettuale, vede soltanto il
"miscuglio" di individui catturati nei loro comportamenti diversi, intrappolati dal retaggio del
passato e privi dell'energia creativa necessaria per liberarsene.
Lowie→ ​vedeva nella cultura una varietà accidentale di modi abituali di vivere e pensare,
assorbiti senza sforzo dalla miriade dei suoi detentori. Egli parla del miscuglio famoso.
L'individuo assorbe senza sforzo tutto ciò a cui è esposto, acquisendo la cultura come
un'eredità di per sé già completa.
La differenza tra le loro definizioni dipende da cosa si intende quando si dice che la cultura è
acquisita.

RITORNO A SCUOLA
La cultura umana è un'immensa piramide. ​Sulla cima​ si trova la voce della ragione, unica e
splendente e indifferente alla varietà di esperienze di coloro che parlano in suo nome.
Alla base​ si trova una frotta di meme assortiti sgomita per trovare degli ospiti nelle cui
bocche infilare i propri enunciati proverbiali e nelle cui mani piazzare progetti predeterminati.
Gli individui in questo caso sono vettori destinati a diffondere i meme con cui sono stati
infettati.
Quindi, il mondo secondo la pedagogia è un teatro di marionette:
In alto​ la ragione (il burattino che muove i fili)
In basso ​una variegata schiera di personaggi costretti a lasciarsi guidare.
Michel Serres→ ​la ragione, sotto i propri passi, non scopre nient'altro che la sua stessa
regola.
Teorema di Pitagora→ ​per Dewey sembra esistere in un mondo a sé, non assimilato dalle
abitudini normali di pensiero e di espressione.
Dewey pensava che la nostra comprensione di cosa sia l'educazione dovrebbe partire dalla
vita. Il problema dell'educazione scolastica è che si tende ad isolare ciò che viene insegnato
dalla messa in prova dell'esperienza vissuta, dove si produce il vero sapere.
Il risultato è l'inclinazione a ridurre la conoscenza a informazione, trasmessa verbalmente o
per mezzo di altre forme simboliche i cui significati si perdono per coloro che non hanno la
possibilità di partecipare alle pratiche.
Siccome la scuola si volge sempre di più verso la trasmissione di informazioni in forma
isolata, vi è il pericolo che ciò che viene insegnato e appreso si saperi dalla vita quotidiana e
si arrivi ad una biforcazione tra l'eccellenza tecnica e il sapere comune in seguito alla quale
si avranno picchi di competenza piuttosto bassi.
La questione è come bilanciare in maniera equilibrata le modalità di educazione formali e
non formali, con la conseguenza di pensare all'educazione solo nel linguaggio della
pedagogia e cercare le sue precondizioni nella capacità di simbolizzazione, considerata
spesso propria dell'essere umano.
Morin ha messo in discussione la contrapposizione tra ragione ed ereditarietà che
sottintende il modello dominante della pedagogia, modello che traccia un solco tra maniere
di conoscere e conoscenze trasmesse. Colui che conosce è una cosa, il contenuto di ciò
che conosce è un'altra.
La pedagogia applica il proprio metodo che è equivalente ad un metodo di trasmissione la
cui efficienza viene giudicata in base alla trascrizione da una testa all'altra di un contenuto
preesistente.
La tesi di Morin è che l'educazione si trova innanzitutto nella pratica partecipativa, nelle
situazioni in cui vengono resi presenti e sono responsabili gli uni nei confronti degli altri.
La conoscenza cresce lungo le linee della corrispondenza: nella messa in comune in cui
esse si uniscono e nella variazione in cui ciascuna è se stessa.
Ogni modo di conoscere allora è una linea di vita distinta e ne consegue che diventare
sapienti è parte integrante del diventare le persone che siamo. È questo che fa sì che
quando facciamo qualcosa lo facciamo con la nostra testa, voce, mano ecc.
L'educazione democratica produce differenza, è quello che ci permette di costituire noi
stessi collettivamente e singolarmente, è ​essere umani in divenire.
Dobbiamo quindi smettere di considerare l'educazione un metodo di trasmissione e pensarla
come una pratica di attenzione.

CAPITOLO 2: A FAVORE DELL'ATTENZIONE


Il principio d'abitudine
Noi esseri umani non ci limitiamo a vivere le nostre vite ma diamo loro un senso e le
conduciamo in una direzione. È questa la differenza tra bios e Zoe, tra la vita vissuta come
una storia e la vita legata ai cicli della natura.
In questo capitolo viene data importanza all'attenzione, parola che viene da ​at-tendere
(tendere verso).
Tale parola ha una serie di significati collegati tra loro, tra cui:
● Prendersi cura​ delle persone o delle cose
● Aspettare, ​attesa di qualcosa
● Esse ​ re​ presente
● Procedere insieme
Un ulteriore significato è che si estende grazie ad una memoria del futuro che permette ad
ogni momento presente di essere un nuovo inizio, per designare questo ricordare
immaginativo si usa il termine "aspirazione"
Nel suo lavoro "Arte come esperienza" DEWEY approfondisce I termini fare e subire.
Dice DEWEY, in ogni esperienza si ritrovano entrambi il problema è capire la relazione che
intercorre tra loro e il lavoro della coscienza sta nel coglierla. Non è possibile che si alterni o
semplicemente poiché se così fosse l'esperienza non assumerebbe alcuna forma, ma
consisterebbe solo in una serie di episodi sconnessi. Il punto essenziale è che la vita è
continua e non episodica proprio perché la dimensione del subire eccede continuamente al
subire. Pertanto, le azioni che intraprendiamo nel mondo portano in esse e traggono parte
del loro significato da ciò che abbiamo subito nel corso del nostro agire precedente.
Il processo del vivere ha continuità perché è un processo sempre rinnovato in cui si agisce
sull'ambiente e si subisce l'azione dall'ambiente e insieme vengono a istituirsi relazioni tra
ciò che si fa e ciò che si subisce. Il mondo di cui abbiamo fatto esperienza diventa una parte
integrante del sé che agisce e patisce in un'esperienza ulteriore. Grazie alle abitudini
formate nell'interazione con il mondo noi anche in-abitiamo il mondo, esso diventa una
dimora che è parte di ogni esperienza.
In questo passaggio viene introdotto anche il concetto di “abitudine” che, secondo Dewey,
non è né produttrice né prodotto, ma principio di produzione per mezzo del quale un
individuo stabilito nelle proprie pratiche è generato da esse. In quanto tale, l’abitudine è ciò
che la divisione del subire apporta al lavoro da fare.
Avendo cura di distinguere l’abitudine come principio da ciò che consideriamo un’abitudine
(una maniera fissa e prestabilita di fare le cose) Dewey spiega che in base a questo
principio ogni esperienza fatta e subita modifica chi agisce e subisce e al tempo stesso
questa modificazione influisce sulla qualità delle esperienze precedenti.
ESPERIENZA COME COMBINAZIONE DI FARE E SUBIRE→ ​ciò che lui definisce
abitudine è una specifica relazione tra due dimensioni per mezzo della quale ogni azione
fatta trova il suo compimento nel subire.
Principio di volizione→​ qualsiasi azione sarebbe la conseguenza di un’intenzione
deliberata che la precede. Il fine comincerebbe con un’intenzione nella mente di un agente e
finirebbe con la realizzazione di quell’azione nel mondo. Tra l’inizio e la fine dell’azione ci
sono cose che colui che agisce deve subire.
Quindi, con questo principio, fare e subire vengono separati sulle sponde opposte di una
divisione tra attivo e passivo, agentività e passività.
Principio di abitudine→​ si subisce quello che si fa e si fa quello che si subisce che assimila
continuamente i fini del fare e li estrude come puro inizio.
Per Dewey, l’assimilazione è un “immettere” e l’estrusione un “emettere” e la dimensione
passiva dell’esperienza comporta un abbandonarsi e allo stesso tempo implica il fuoriuscire
dell’energia al fine di ricevere.
Per assimilare dobbiamo raccogliere energia “corrispondenza” attraverso la quale si viene
trasformati dall’interno. L’agire è interno al subire, questo è ciò che lo caratterizza come
messa in atto dell’esperienza: mettere in atto un’esperienza in qualsiasi senso che non sia
quello drammaturgico, significa esserci sempre già dentro, significa ​abitarla.

L’ATTENZIONE COME EDUCAZIONE E L’EDUCAZIONE ALL’ATTENZIONE


Masschelein→​ filosofo contemporaneo
Gibson→​ psicologo della percezione visiva
Vi è un’etimologia convenzionale che ci riporta alla parola latina collegata “educare”, che
significa insegnare, allevare, crescere ecc. Il primo autore (MASS) propone di capovolgere
questa convenzione: riscrivere e-educazione di cui e deriva da ex cioè fuori. Educazione
allora sarebbe condurre i novizi fuori, nel mondo.
Nel primo senso, l’educazione fornisce gli strumenti per la spiegazione e il ragionamento
critico, è il passaggio dall’ignoto all’intelligenza.
Come possiamo trasformare il mondo in qualcosa di reale, rendere il mondo presente,
recuperare il reale ed eliminare gli scudi che ci hanno rinchiusi per sempre nei “punti di vista”
ed “opinioni”?
Questo è l’obiettivo dell’e-ducazione, spingerci ad una corrispondenza con tale mondo… si
tratta quindi di prestargli attenzione.
Masschelein→ ​il punto forte del camminare è offrire una relazione diversa con il presente,
che non esige spiegazione, comprensione o interpretazione ma la nostra completa
attenzione.
Gli interessi dei due autori sono differenti, anche se entrambi vogliono rendere il mondo di
nuovo reale e presente ai nostri occhi.
Gibson→​ il mondo che percepiamo è un mondo che ci circonda e impariamo a conoscerlo
muovendoci dentro di esso, attraverso il movimento seguiamo un percorso di osservazione
e mentre ci muoviamo lo schema degli stimoli sensoriali subisce una modulazione continua.

FARE UNA CAMMINATA


L’idea di andare a fare una camminata che avevo in programma per raggiungere dei risultati
si accorda con il principio di volizione; ma una volta che ho cominciato a camminare sembra
che io sia diventato la mia camminata e che il camminare mi trascini: ci sono dentro,
animato dal suo movimento e con ogni passo mi modifico nel senso di perpetuo
rinnovamento (ad es. alla fine ho dei dolori). In questo senso camminare è essa stessa
un’abitudine di pensiero: non penso mentre cammino ma penso nel camminare e questo
significa lasciar entrare il mondo nella riflessione, ma per essere aperti al mondo bisogna
diventare ricettivi, adeguando il passo al terreno, dunque in ogni passo c’è una componente
di incertezza. È questo che significa abitare la pratica del camminare. Si tratta di mettere l’io
che agisce nel mezzo, e non prima dell’esperienza subita. L’io volitivo cerca di imporre la
propria direzione, stabilisce le finalità prima ancora di cominciare, l’io dell’abitudine si mette
sulla scia dell’azione, per cui le finalità non sono date in anticipo e l’io è messo
continuamente in questione: non si è mai padroni dei propri atti e dare una direzione alla
propria vita non equivale a esserne al comando. Se l’agentività non è data prima dell’azione,
ma è in continua formazione, si dovrà dire piuttosto “agendo”, “agencement” =agire nel
subire. Se l’agentività ci appartiene, l’agencement ci compete = la vita stessa è un compito e
viverla è il compito dell’educazione.

ATTENZIONALITA’ E CORRISPONDENZA
Ora si vuole indagare la distinzione tra intenzione (volizione) e attenzione (abitudine): la
prima descrizione riguardo la camminata era espressa in termini di intenzione (c’è
l’attenzione, ma in termini di far corrispondere i contenuti della mente con gli oggetti del
mondo, è quindi come una pausa), nella seconda la relazione tra intenzione e attenzione è
rovesciata, in quanto qui l’attenzione è longitudinale, si unisce al movimento, non è
separata. Se il principio di volizione si caratterizza per una forma di attenzione fondata
sull’intenzionalità, il principio di abitudine ci dà una forma di attenzione fondata
sull’intenzionalità. Alla luce di queste osservazioni va spiegato il concetto di corrispondenza,
compreso comparando il senso trasversale di attenzione con il suo senso longitudinale di
“procedere insieme con”. È il processo per cui individuo o cose co-rispondono o si
rispondono nel corso del tempo, per esempio negli scambi di lettere o di parole durante una
conversazione; è il modo di relazione di un essere vivente stabilito nelle proprie abitudini e il
cui atteggiamento è attenzionale. È prestandosi reciprocamente attenzione che gli individuo
corrispondono. Interazione è giocare a scacchi, in cui ognuno cerca di fare i suoi interessi,
corrispondenza è abitare il gioco degli scacchi: entrambi ne sono attratti, affascinati, e si
aprono l’uno all’altro nell’amore condiviso per il gioco che permette loro di parteciparvi in
spirito d’amicizia. A essere in gioco non è l’opposizione della loro agentività, ma
l’allineamento dei loro agencement.

CURA E ASPIRAZIONE
La cura conferisce una dimensione etica dell’attenzione: ci prendiamo cura delle persone
dedicandogli attenzione e rispondendo ai loro bisogni. La responsabilità della cura è
qualcosa che ci compete naturalmente e tale responsabilità si configura come insieme di
compiti = azione che dobbiamo e non che possediamo, dunque appartiene agli altri più che
a noi stessi, non lo svolgiamo di nostra spontanea volontà, ma non siano nemmeno obbligati
questo perché la presenza esige una risposta ed è attraverso le nostre parole e le nostre
voci che ci rendiamo presenti agli altri. Per avere cura degli altri dobbiamo ammetterli alla
nostra presenza in modo che noi, in cambio, possiamo essere presenti per loro. È
importante lasciarli essere, ma ciò non è conciliabile né con il comprendere né con lo
spiegare, in quanto questi due elementi appartengono all’altra modalità di attenzione, quella
di controllo e verifica. Secondo tale modalità, prestiamo attenzione alle cose e alle persone
per potercele spiegare e una volta spiegate possono essere accantonate: funziona così
anche nelle pratiche dell’educazione. Prendersi cura significa guardare, ascoltare e
rispondere, non accantonare. Questo ragionamento implica che se l’educazione riguarda il
prendersi cura del mondo e dei suoi abitanti non si tratta di capirli, ma di ristabilirne la
presenza, per poter prestare loro attenzione e rispondere a ciò che hanno da dire. Ma
prendersi cura non comporta unicamente ascoltare cosa gli altri hanno da dirci, ma anche
rispondere loro in maniera adeguata e questo è un dovere. Ne consegue che l’educazione è
un adempimento di un dovere. Ci si chiede cos’hanno a che fare la cura e l’attenzione con
l’aspirazione. La risposta sta nella maniera in cui l’aspirazione coniuga le attività del
ricordare e dell’immaginare, in quanto entrambe sono maniera di “essere presenti”: il
ricordare rende presente il passato, l’immaginare il futuro. In questo tipo di ricordare, il
passato non è concluso, ma è attivo nel presente. Ricordare è ri-entrare come
corrispondente nei processi di sviluppo di sé stessi e degli altri, è raccogliere le fila delle vite
passate e unirsi a loro nel trovare una via da seguire si tratta di una forma di aspirazione. La
stessa cosa vale per l’immaginare, intesa come cogliere una vita che ha la capacità di
superare l’ancoraggio al mondo materiale. In questo senso immaginare è sempre ricordare e
ricordare è sempre immaginare: futuro e passato, non più distinguibili, si fondono ai confini
dell’aspirazione, in un luogo che sogniamo sempre, ma non raggiungiamo mai. In breve,
l’aspirazione permette di coniugare la cura e l’attenzione, per le quali è necessario portare le
cose in presenza, con la tensione della vita nel tempo. La vita scorre all’infinito tra i diversi
punti che le intenzioni uniscono, per cui anche l’educazione, come la vita, non può avere
esiti predeterminati (l’unico esito è l’educazione).

L’ATTENZIONE COME EDUCAZIONE E L’EDUCAZIONE ALL’ATTENZIONE


Educazione deriva dal latino “ducere” (condurre), ma vi è un’etimologia convenzionale che ci
riporta alla parola latina collegata, educare, la quale significa semplicemente insegnare,
instillare in ogni nuova generazione gli usi e costumi riconosciuti di una società.
Masschelein, filosofo, propone di capovolgere questa convenzione e di riscrivere la parola
come e-ducazione. La “e” deriva da “ex” che significa “fuori”. Educazione allora non sarebbe
instillare conoscenza nelle menti dei novizi, ma condurre i novizi fuori nel mondo. Nel primo
senso educazione è il passaggio dall’ignoranza all’intelligenza, nel secondo, educazione
significa esporsi: non instillare una consapevolezza del mondo che ci circonda, ma piuttosto
spingerci a una corrispondenza con tale mondo. In breve, prestargli attenzione. Camminare
non è solo affidarsi al sentiero, ma tagliare la strada: la strada è quella dell’attenzione, lungo
la quale il mondo si apre e ci si rende presente, in modo che anche noi possiamo essere
esposti alla sua presenza. Dunque l’attenzione rende possibile l’esperienza. Secondo
Masschelein il punto forte del camminare non è l’offrirci una prospettiva differente, ma una
relazione diversa con il presente, che non esige spiegazione, ma la nostra attenzione, in
quanto ci allontana da ogni punto di osservazione. Anche Gibson rifiuta l’idea secondo cui
possiamo conoscere il mondo solo dalla prospettiva di un punto fisso di osservazione,
perché per lui il mondo che percepiamo è un mondo che ci circonda, un ambiente e lo
impariamo a conoscere non osservandolo, ma muovendoci dentro di esso (Gibson parla di
percorso di osservazione). Tramite un’accurata sintonizzazione o sensibilizzazione si è
ancora più attenti alle sfumature dell’ambiente, per cui non si tratta di riempire i novizi, ma di
sintonizzarli (la sintonizzazione differenzia l’esperto dal novizio). A tal proposito di parla di
educazione all’attenzione. Sia per Masschelein che per Gibson l’educazione riguarda
l’attenzione, non la trasmissione, la chiave della loro differenza sta nella relazione tra abilità
e sottomissione. Entrambe sono co-presenti in ogni pratica fondata sull’abitudine: da un lato
il camminatore ha una padronanza dell’arte del camminare, ma dall’altro si sottomette al
sentiero senza nessuna certezza su dove condurrà. Vi è attenzione in entrambi i casi, ma in
uno il camminatore è al comando del mondo, nell’altro il mondo è al comando del
camminatore. In un caso l’attenzione educa esponendoci a un mondo in formazione,
lasciandolo entrare, nell’altro l’attenzione è ciò che viene educato, a forza di esperienza. Ma
non può esserci una cosa senza l’altra.

UN’EDUCAZIONE DEBOLE, POVERA E RISCHIOSA


William Butler→ ​educare non è riempire un secchio, ma accendere un fuoco.
Il secchio offre certezza e prevedibilità, un punto di arrivo e uno avvio e con tappe misurabili
lungo il percorso. Il fuoco, al contrario, ci espone tutti al rischio. Non si sa che cosa
incendierà e cosa no, per quanto tempo brucerà, come si diffonderà e quali saranno le
conseguenze.
L’educazione è il processo di diventare umani instillando nel materiale grezzo degli individui
immaturi la conoscenza, le norme, i valori della società civile.
Scegliere l’esistenza significa invece riportare gli esseri umani al processo della vita vissuta
in compagnia degli altri, cioè alla vita sociale. L’esistenza è la condizione di esseri umani in
divenire. Pensando all’educazione dobbiamo chiederci se siamo preparati a prenderci il
rischio della vita, con tutte le sue incertezze e frustrazioni, o se preferiamo cercare la
certezza che sta al di là della vita o che la sottende a un livello metafisico, possiamo
scegliere tra una modalità di educazione forte o debole.
La prima garantisce sicurezza e libertà dal rischio, quella debole invece è lenta, difficile e in
nessun modo certa nei suoi risultati.
Al di là delle contingenze esiste un bene creativo intrinseco alla vita umana che sta nella
capacità di generare persone in relazione. Tipo di creatività che è ciò che la personalità
subisce ma non può fare. Non comincia con un’interazione nella mente per concludersi, ma
procede in avanti con ogni fine che offre la possibilità di un nuovo inizio per coloro che
seguono.
Non-essere all’essere/ chiamare alla vita gli esseri viventi.
Se l’educazione, nel senso forte, ricrea l’essenza dell’umanità, nel senso debole crea
l’esistenza umana.
Viviamo in un’epoca in cui la debolezza è percepita come un problema, per Biesta se
eliminiamo la debolezza dell’educazione rischiamo di eliminare l’educazione in quanto tale.
Queste due modalità sono in linea con il principio di volizione e di abitudine: il principio di
volizione stabilisce le sue finalità prima dell’inizio e coincide con l’instillazione e la sua
missione è quella di innalzare ogni bambino all’intelligenza adulta. Il principio di abitudine
non comincia dalle finalità, ma produce sempre nuovi inizi e coincide con l’agencement. In
quest’ultimo caso si parla di “pedagogia povera” (Masschelein), ovvero l’arte di aspettare e
rendere presente, un invito a condurre fuori, che offre i mezzi per fare esperienza e
diventare attento. La pedagogia povera è debole e ci indebolisce; un’educazione forte ci
arma con la conoscenza, ci permette di tenere forte le difese, ci dà l’immunità, ma chiusi
nell’armatura non riusciamo a introiettare la realtà che il mondo ci presente; una pedagogia
povera ci spinge a uscire dalla sicurezza delle nostre posizioni difensive per andare incontro
al mondo. È l’educazione nel senso di ex-ducere. Si tratta di esposizione, non di immunità, ci
rende vulnerabili ed è una ricerca di ciò che è desiderabile (non cerca di instillare ciò che
desidera, come in quella forte) e in questo senso è una forma di aspirazione, di cura e
corrispondenza ed è fatta e subita con attenzione.

CAPITOLO 3: EDUCAZIONE IN MODO MINORE


Il territorio dell’undercommons
Deleuze e Guattari distinguono tra scienze in maggiore e scienze in minore. Potremmo
parlare dell’educazione che conduce fuori, nel mondo, attraverso l’esposizione più che
l’indottrinamento, come di un’educazione in modo minore. Quest’educazione è l’unica che ci
permette di andare avanti, di procedere con la nostra vita, e offre nuovi inizi. Dewey parla di
comunicazione, Ingold di mettere in comune, che implica una tensione attenta, in cui ognuno
proietta la propria esistenza secondo modalità che possono rispondere all’esperienza degli
altri, i quali fanno lo stesso e si raggiunge così una corrispondenza che va al di là di ciò che
si poteva immaginare all’inizio. In questa proiezione, che Ingold chiama aspirazione,
l’eccedenza del subire sul fare permette a coloro che non hanno niente in comune di
accogliere la presenza dell’altro, di prestargli attenzione e quindi di creare una comunità di
relazioni. Questa messa in comune avviene in un territorio che Harney e Moten definiscono
“undercommons”. La messa in comune che avviene in questo territorio è l’antitesi della
comprensione, che spesso è considerata la precondizione per la civiltà e obiettivo
dell’educazione. Nella comprensione la conoscenza precede l’attenzione. La comprensione
è in modo maggiore, l’undercommoning è invece in modo minore: trascina tutto e tutti fuori
da ogni punto di osservazione in cui ci si trovi ed è in questa insicurezza che ci apriamo
realmente gli uni agli altri, e al mondo. Questo tipo di amplificazione, come ha mostrato
Manning, è tipica degli autistici, non caratterizzati da una situazione di ritiro psichico, ma
piuttosto di radicale incertezza appaiono distaccati o distratti, ma in realtà indugiano
nell’attenzione più completa, attratti dall’infinità complessità. Gli autistici, secondo Manning,
indugiano proprio in quella regione che il resto di noi attraversa tanto velocemente da notare
a malapena, a meno che, non ci perdiamo; nel dar forma alla realtà si muovono adagio,
vivono in mezzo alle cose, dando priorità allo scorrere di un’esperienza sempre mutevole. La
percezione autistica è la stessa dei bambini: il loro è un mondo in movimento e in divenire,
un mondo di continue rinascite. In realtà questo tipo di percezione è comune a tutti noi
perché abitiamo l’undercommons molto prima di mettere piede sul terreno stabile della
comprensione; l’undercommons è pieno di quelli che Manning chiama atti minori, ovvero
piccole interferenze o distrazioni per cui le cose cambiano rotta, aprendo l’esperienza alla
potenzialità del mutamento.

IL MAGGIORE E IL MINORE
Nella scienza maggior la solidità è primaria e la fluidità derivata, l’identità e la costanza
precedono la differenza e la variazione, … la scienza minore è l’opposto della maggiore:
comincia dalla fluidità e nelle cose che ai nostri occhi hanno forma fissa vede solo contorni
di un movimento perpetuo, dà importanza alla variazione rispetto alla costanza, il suo spazio
non può essere delimitato o diviso. Questo tipo di scienza pone problemi reali, a cui deve
essere dedicato tempo, che Manning chiama sperimentazione paziente, il cui obiettivo è
aprire una strada e seguirla ovunque essa porti. La pazienza della sperimentazione sta nella
dinamica dell’attenzione e nella tolleranza dell’attesa. Dobbiamo permettere alle cose di
rendersi presenti, con i loro tempi, non le possiamo sforzare.

LA LIBERTA’ DELL’ABITUDINE
Nel principio di volizione l’attenzione interrompe il movimento in modo da stabilire una
relazione trasversale tra soggetto e oggetto, tra mente e mondo. Nel principio d’abitudine
l’attenzione segue i movimenti animati cui è collegata in risonanza: è un procedere non
trasversale ma longitudinale. Questa distinzione tra trasversale e longitudinale equivale a
quella tra modo maggiore e minore. Nel modo maggiore abbiamo preso una decisione di
nostra volontà e ci disponiamo ad agire in base a essa. A tal proposito, Manning parla di
“mettere una griglia a posteriori” su eventi che hanno già avuto luogo; ma in realtà non è
possibile posizionarci al di fuori delle nostre azioni e assumerne fin da subito il completo
controllo, così come nell’esperienza non è possibile separare ciò che facciamo da ciò che
subiamo. Nella pratica, le decisioni scaturiscono dall’agire, con l’agente che rimane dentro
l’azione. Questo però non significa che siamo meno liberi: se ritorniamo alla metafora
dell’escursionista, il percorso compiuto dall’escursionista può variare in intensità, ma porta
sempre avanti e oltrepassa sempre i suoi obiettivi, ed è qui che sta la libertà. È la libertà di
improvvisare, di trovare una strada mentre si procede in risposta alle variazioni
dell’ambiente; l sentiero rende possibili continui inizi, consente la libertà di movimento,
piuttosto che la libertà di prender posizione, la libertà di crescere e di corrispondere. Tale
libertà deve sempre definirsi sempre in opposizione alla necessità; è nell’eccedenza
dell’esperienza rispetto all’azione, nell’inclusione del fare in seno al subire, nello stabilirsi
nell’abitudine, che si trova la vera libertà. Tale libertà, secondo Esposito, bisogna intenderla
non come qualcosa che si ha, ma qualcosa che si è. Mentre la libertà della volizione è
diretta ai fini, la libertà dell’abitudine, è puro inizio. Da questo si capisce allora che libertà e
necessità non sono opposte, ma interdipendenti. La necessità unisce le vite nell’amore e
nell’amicizia, quindi nella libertà; la vera necessità, a differenza della falsa, consiste nel
raggiungersi, come nella corrispondenza delle vite e quindi delle generazioni che procedono
insieme. A questo punto bisogna tornare alla nozione di agencement. Ingold usa
agencement in contrapposizione all’agentività del soggetto volitivo, per fare riferimento al
modo in cui l’Io dell’abitudine è continuamente generato nel corso dell’azione stessa. Per
Manning l’agencement è analogo a quel processo che si è chiamato differenziazione
interstiziale e che fende l’evento dall’interno. Nella sua definizione è l’intensità orientata di
movimento compositivo che altera il campo dell’esperienza. Ma questa parola suggerisce
anche un assemblaggio, una fenditura, un’unione semanticamente molto ricco. Per Delouze
e Guattari il concetto serve a separare le cose dalle determinazioni dell’articolazione
esteriore, in modo che i loro elementi costitutivi possano abbandonarsi al movimento
compositivo della corrispondenza affettiva: vogliono che, a proposito del libro che hanno
scritto, intrecciamo il nostro pensiero con il loro, che sia un viaggio senza fine che
intraprendiamo insieme. La libertà ci riguarda, ma non ci appartiene; appartiene invece a
una collettività viva ed eterogenea è la comunità di coloro che hanno qualcosa da donare
perché non hanno nulla in comune. È la comunità dell’undercommons. La vera libertà è
esemplificata negli atti minori attraverso cui le vite vengono vissute insieme
nell’undercommons. Qui la libertà ci compete, come un compito da svolgere, ed è svolgendo
questo compito che estinguiamo il nostro debito verso gli altri. Non può esserci libertà senza
responsabilità e cura. Ecco che cosa significa stabilirsi nella libertà dell’abitudine.

SUL SIGNIFICATO DELLO STUDIO


Nell’Antica Grecia la scuola veniva considerata tempo libero, in quanto lo scopo della scuola
non era assegnare un destino nella vita e i mezzi per realizzarlo, si trattava piuttosto di
sospendere le trappole dell’ordine sociale, di separare i mezzi dai fini, in modo da liberarlo,
portarli in presenza nel qui e ora e metterli a disposizioni di tutti. A scuola dunque
l’insegnante secondo Masschelein è colui che non porta a compimento, che disfa
l’assegnazione e la destinazione del tempo; non è un custode dei fini, ma un catalizzatore
degli inizi, il cui compito è reintrodurre la memoria e l’immaginazione nella distensione
temporale della vita. Quello che qui è descritto è un undercommons, un campo di relazioni.
In questo contesto, ciò che fa andar avanti lo studio è la sperimentazione paziente, non il
metodo. Da questa concezione derivano alcune conseguenze: 1) lo studio non si può
portare avanti da soli, lo studio è ciò che fai con altre persone, è parlare e andare in giro con
altre persone, lavorare, ballare, soffrire; in particolare lo studio è uno spossessamento di ciò
che in caso contrario avremmo tenuto per noi. Questo spossessamento equivale al processo
di messa in comune. In quest’ultimo qualunque conoscenza ed esperienza deve essere
sganciata dai contesti d’uso e di significato propri dell’ordine sociale dominante e offerta agli
altri così com’è. Deve essere resa pubblica affinché tutti possano vederla o sentirla e farne
quello che vogliono. 2) lo studio non è intermedio (fase di transizione da uno stato all’altro),
ma in mezzo (=essere trascinato dalla corrente) 3) immergendosi nel mezzo, lo studente
deve lasciare dietro di sé i suoi effetti personali: significa essere presenti collettivamente nel
qui e ora agli altri, ma significa anche che gli altri sono presenti e a noi ci prendiamo cura di
loro e loro di noi (+ esperienza di Pennac).

DALLA SPIEGAZIONE ALLA SENSAZIONE


Lo studio in modo maggiore è uno sforzo rigoroso e metodico di acquisizione della
conoscenza e il suo scopo è porre le basi per la comprensione futura si tratta di
un’educazione in senso forte, che promette emancipazione, ma riproduce la percezione di
una diseguaglianza di intelligenza tra il pedagogo e chi è impegnato come studente.
Dunque, secondo Rancière, si tratta di un abbrutimento, perché si crede che il bambino
debba sempre rivolgersi al pedagogo per apprendere è come se ci fosse una sorta di
opacità che emerge con l’idea stessa di comprensione: il piccolo cui si è spiegato investirà la
propria intelligenza in questo lavoro del lutto, comprendere che non comprendere se non gli
si spiega. Tutti i progressi che hanno l’obiettivo di far capire le cose, finiscono per
esacerbare la condizione di abbrutimento. Tutti noi in realtà abbiamo dentro di noi
conoscenze che nessuno ci ha mai spiegato, si tratta di conoscenza che è maturata dentro
di noi con la pratica dell’abitudine, attraverso l’esperienza vissuta dell’agire nel subire.
Polanyi la chiama “conoscenza inespressa”. Spiegare per Polanyi significa mettere le cose
in parole, il che comporta le operazioni abbinate di specificazione e articolazione.
Specificare significa ancorare le cose a coordinate fisse di riferimento, articolarle significa
unirle in una struttura completa.

COSA PUO’ INSEGNARE L’INSEGNANTE?


Per Rancière il problema non sono gli insegnanti in quanto tali, ma quelli che tentano di
combinare l’autorità legittima con il presupposto di livelli di intelligenza diversi tra chi ha
raggiunto i Lumi e chi come gli studenti è ancora ignorante. Per Biesta questo non significa
che l’insegnante non sia importante: imparare da qualcuno è un’esperienza radicalmente
diversa rispetto a farsi insegnare da qualcuno. Per Biesta l’insegnamento non è un obbligo
ma un dono non è a priori, si ha insegnamento solo quando lo studente “riceve”,
riconoscendo di essersi fatto insegnare qualcosa. L’insegnante non ha voce in capitolo sulle
modalità della ricezione, può sperare sia positiva, ma non può determinarne l’esito. In
questo senso insegnare è offrire un dono che l’insegnante non possiede. Affinché si possa
parlare di educazione è necessario che sia presente qualcuno pronto a mettere ciò che ha,
anzi ciò che è sul tavolo. Infatti possiamo imparare da un insegnante nella misura in cui dà
l’esempio, ci tiene sui binari e verifica i risultati delle nostre fatiche. Non è solo questione di
scaffolding, di fornire cioè agli studenti il supporto sociale necessario per fare loro
raggiungere ciò che altrimenti senza aiuto non raggiungerebbero, come sostenuto da
Vigotsky; Lave e Rogoff hanno considerato l’insegnamento come un processo di
apprendistato in cui i principianti migliorano le loro abilità e la comprensione attraverso la
partecipazione guidata, con compagni più esperti, alla risoluzione di problemi condivisi.
Nell’ottica di Lave, l’apprendistato consiste in una comprensione attraverso la pratica,
opposta all’idea di acquisizione di cultura. Il modello dell’apprendistato smonta chiaramente
la nozione per cui gli individui imparerebbero isolati gli uni dagli altri e sotto questo aspetto si
accorda perfettamente con l’approccio di Dewey all’educazione. È vero che l’educazione
dipende dalla partecipazione, ma è un tipo specifico di partecipazione: tanto i maestri quanto
gli alunni, condividono un interesse nel processo e vi partecipano per venirne trasformati. È
la differenza, come dice Biesta, tra partecipazione educativa e non educativa: una
partecipazione cui impara una sola parte e una partecipazione che trasforma la prospettiva
di tutti coloro che vi prendono parte e che conduce a una prospettiva condivisa. Per Biesta è
questo che distingue l’educazione di Dewey dalla comprensione pratica di Lave; è ciò che
segna la differenza tra la comprensione e la messa in comun. La partecipazione educativa
avviene nel mezzo, per cui possiamo seguire Dewey e pensare l’insegnamento come un
processo di messa in comune e variazione, di attenzione e risposta, in cui maestri e studenti
procedono insieme nello spirito della sperimentazione presente, entrano in relazione come
persone con storie da raccontare attraverso interminabili cicli di dimostrazione,
sperimentazione e verifica, portati avanti all’infinito e secondo Rancière l’infinito è il cammino
dell’allievo.

LA CASSETTA DEGLI ATTREZZI DELLO STUDENTE


Nell’ultimo anno sullo schermo dei pc di un’università è comparsa la funzione “the learners’
toolkit”, la cassetta dello studente, indicata con tre icone: cuffie nella testa, schermo di un
cellullare, occhiali da sole vs matita, taccuino e occhiali da vista; il paragone tra le due
cassette dice molto sulla differenza tra un’idea di apprendimento sempre più diffusa e l’idea
di studio che è stata presentata nel libro. Il primo trittico va venire in mente l’immagine dello
studente ideale per come viene attualmente concepita in un ambiente educativo
all’avanguardia e ossessionato dalle tecnologie informatiche – lo studente sembra isolato,
chiuso in sé stesso e protetto da ogni contatto sensoriale con il mondo che lo circonda, cieco
e sordo e alimentato da un flusso continuo di informazioni, nessun sforzo da parte dello
studente. Biesta a tal proposito parla di “apprendificazione” = ciò che si ottiene quando
l’educazione è soggetta alle forze del mercato e in questI termini le aule che prima
accoglievano la pratica dello studio, vengono riqualificate come centri risorsa, le lavagne
sono sostituite da schermi bianchi su cui è proibito disegnare e si possono unicamente
proiettare immagini. Nell’era delle tecnologie digitali la trasmissione simultanea può
facilmente avvenire senza dover concentrare gli studenti in un unico luogo, ma abbiamo
ancora bisogno della scuola e dell’università perché sono prima di tutto luoghi di studio (non
di apprendimento) richiede a studenti e insegnanti di farsi presenti in egual misura, di
essere ricettivi e non nascondersi dietro alla tecnologia. Lo studio è trasformativo, non
addestramento.

CAPITOLO 4: ANTROPOLOGIA, ARTE E UNIVERSITA’


Antropologia come educazione
L’antropologia è aperta perché il suo obiettivo non è arrivare a soluzioni definitive che
porterebbero a una chiusura della vita sociale, ma è invece rivelare i percorsi lungo i quali
quest’ultima può continuare. L’antropologia è comparativa perché riconosce che nessun
modo di essere è l’unico possibile e per ogni modo che prendiamo in considerazioni, o che
decidiamo di adottare, ce ne sono altri che condurrebbero in direzioni differenti. Non c’è un
percorso che sia preordinato come unico naturale. L’antropologia è critica perché non
possiamo essere soddisfatti delle cose così come sono bisogna creare il futuro e per farlo si
usa il dialogo. L’antropologia esiste per allargare la portata di questo dialogo: per generare
una conversazione sulla vita umana stessa. Non si può dire lo stesso per l’educazione? No
se si considera alla maniera standard. Ma in questo libro l’idea di educazione è stata
approfondita e ha seguito le idee di Dewey. Qui si cercherà di dimostrare che i principi
dell’educazione di Dewey sono gli stessi principi dell’antropologia e che quindi antropologia
ed educazione sono imprese parallele e hanno il potenziale di trasformare il mondo.

L’OSSERVAZIONE PARTECIPANTE
osservare significa guardare quello che accade intorno a noi e ascoltare e percepire;
partecipare significa farlo immersi nel flusso di attività quotidiane condotte accanto e insieme
alle persone e alle cose che attirano la nostra attenzione. Di solito l’antropologo si unisce per
un lungo periodo alle vite delle persone che vivono in un certo luogo senza mai avere la
situazione sotto controllo, l’antropologo è vulnerabile, le sue domande non si esauriscono
mai. Com’è possibile guardare e allo stesso tempo prendere parte? Secondo Jackson non lo
si può fare simultaneamente, ma che si raccolgono tipi di dati differenti, oggettivi e
soggettivi. In quanto esseri umani sembra che possiamo aspirare alla conoscenza del
mondo solo emancipandoci e rimanendo stranieri/mettere da parte l’esperienza soggettiva.
Questo è quanto succede quando affermiamo di fare etnografia. Nell’etnografia i nostri
insegnanti vengono convertiti in oggetto di studio, è come se li guardassimo dall’alto. Ma
osservare con o osservare significa prestare attenzione alle persone e alle cose, imparare
da loro e seguirle nei precetti e nelle pratiche = significa scegliere l’esistenza piuttosto che
l’essenza, ricomporre il conoscere e l’essere, reintegrare l’osservazione nella partecipazione
a una vita vissuta in compagnia degli altri. Nel registro dell’esistenza e della vita comune non
può esserci osservazione senza partecipazione, per cui l’osservazione partecipante è il
compimento di quello che dobbiamo al mondo per il nostro sviluppo e per la nostra
formazione = impegno ontologico. Praticare l’osservazione partecipante significa però anche
subire un’educazione e credo ci siano buoni motivi per considerare l’educazione l’obiettivo
principale dell’antropologia antropologia come pratica di educazione. È una pratica dedita a
quella che l’antropologo Burridge ha chiamato metanoia, ovvero una serie continua di
trasformazioni, ognuna delle quali altera i predicati dell’essere. Secondo Ingold la metanoia
costituisce lo scopo dell’educazione. In questo senso l’antropologia esplora le condizioni e le
possibilità di esseri umani. Rorty dice che antropologia è aprire uno spazio per quel senso di
meraviglia che i poeti sanno talvolta destar, infatti l’antropologia come la poesia, girovaga e
si meraviglia. Il meravigliarsi deriva dall’attenzione, il girovagare dal seguire.

LA SCUOLA E IL CAMPO
Praticare l’osservazione partecipante è ritrovarsi in corrispondenza con le persone tra le
quali studiamo, questo è lo scopo dell’antropologia. Lo scopo dell’etnografia è l’opposto,
ovvero spiegare un mondo vitale e non esplorare la condizione umana. Invece, lo scopo
dell’antropologia è studiare con le persone, non fare uno studio su di esse. Ci sono davvero
molte somiglianze tra la scuola e il campo, considerati come luogo di studio. Lo studio sul
campo è in comune e non solitario; si occupa di problemi reali, ma non per trovarvi soluzioni;
è speculativo, ma non predittivo, è critico ma non limitato alla critica. Il campo è un
undercommons, pieno di atti minori. Il lavoro di campo non consiste nell’applicazione di un
metodo allo scopo di ottenere dei risultati, ma è una pratica di sperimentazione paziente che
trasforma ogni risposta in una domanda. Il campo dell’antropologo non equivale
esattamente, per i suoi ospiti, alla vita quotidiana, come se fosse unicamente il ricercatore a
esporsi e loro continuassero con le faccende abituali. Il parallelo con la scuola suggerisce
piuttosto che anche per gli ospiti il campo si configura come un luogo al di fuori del tempo
della quotidianità; è un luogo di mezzo, da dove il mondo si apre non solo per l’antropologo,
ma anche per i suoi ospiti. Si tratta di quell’apertura che rende possibile la messa in comune
nell’undercommons. La partecipazione non è sempre di natura antropologica –
l’osservazione partecipante è di natura antropologica solo quando trasforma la prospettiva di
tutti i partecipanti. Un semplice adattamento è forse sufficiente per raccogliere dati, ma non
ha potenziale trasformativo; l’eccedenza della messa in comune e della variazione rispetto
alla semplice trasmissione di informazioni era proprio ciò che per Dewey distingueva
l’educazione dall’addestramento. E per noi è ciò che separa l’antropologia dall’etnografia. In
questa separazione vi è anche la dimensione temporale. L’antropologia è nell’evento, si
parla di trascorrere insieme, quindi di corrispondenza. L’etnografia offre un resoconto
retrospettivo, uno slittamento da eventi che hanno già avuto luogo alle intenzioni che li
hanno motivati. L’osservatore partecipante che sul campo preferisce considerarsi un
etnografo è probabile che si ritrovi a guardare contemporaneamente in due direzioni; in
quello che viene chiamato incontro etnografico, si unisce agli altri solo per voltargli le spalle.
Definire l’incontro etnografico equivale infatti a consegnare ciò che è in uno stato iniziale alla
temporalità passata del già accaduto. Fabien chiama questo atteggiamento ambivalente
schizocrania prestare attenzione agli altri apertamente, con la celata intenzione di riferire in
seguito su di loro. Il punto fondamentale dell’antropologia non è arrivare a dei risultati
definitivi quanto piuttosto, come già aveva detto Dewey, aprire delle esperienze che
apriranno a loro volta esperienze ulteriori, rendendo possibile un processo di crescita e di
scoperta senza fine e continuamente rinnovato. I risultati definitivi sanciscono la morte
dell’antropologia, e anche quella dell’educazione.

GLI ARTISTI SONO VERI ANTROPOLOGI?


Sensazione che a fare antropologia siano gli artisti; un’arte antropologica è caratterizzata
come l’antropologia dal comparativismo e dallo spirito critico. L’arte antropologica non vuole
esprimere ciò che già esiste, è immaginativa. Un’arte del genere ravviva la cura e
l’aspirazione e permette alla conoscenza di crescere dall’interno dell’essere mantenendosi in
corrispondenza con la vita. Molti antropologi sono in realtà etnografi. Nel caso in cui
distinguiamo tra antropologia ed etnografia, la loro antropologia arriva in un secondo
momento, dopo una fase iniziale in cui riordinano le conclusioni del lavoro etnografico sul
campo e passano dall’analisi empirica dei dati alla generalizzazione teorica. A questo punto
la vita vissuta con gli altri diventa un caso comparativo. È questo modello a tre stadi
(raccolta dati, organizzazione e poi comparazione) che procede dall’incontro iniziale al
risultato finale, a rendere l’etnografia un metodo, una tecnica di raccolta e un mezzo per di
fini che sono in ultima istanza antropologici. Ed è in quanto metodo che l’etnografia è stata
adottata da certe tendenze dell’arte contemporanea che si presentano come antropologiche.
In effetti la maggior parte dei tentativi espliciti di unire antropologia e arte hanno scelto
l’etnografia come collante per tenerle insieme; questi tentativi non possono dirsi pienamente
riusciti. L’interesse dell’arte per l’etnografia porta con sé due preoccupazioni che
contribuiscono a minare le sue aspirazioni antropologiche: la prima consiste in
un’ossessione per l’alterità, la seconda nel voler insistentemente porre ogni problema nel
suo contesto sociale, culturale e storico. Per quanto riguarda la prima, le differenze uniscono
le persone nella messa in comun piuttosto che dividerle attraverso la contrapposizione delle
loro rispettive identità. È un campo che non produce alterità, ma prossimità. L’osservazione
partecipante può cominciare solo nel momento in cui riconosciamo che gli altri sono gli altri;
la differenza in questo multimondo è interstiziale, viene generata dall’interno. La
schizocronia insita nella postura etnografica volta le spalle agli altri e li trasforma in surrogati
per una proiezione idealizzata del sé antropologico o artistico. Porta a considerare la
differenza come un’identità manifesta e l’alterità come un’esteriorità. Questo può essere il
preludio di una politica della marginalità che di fatto esclude gli altri. Tale marginalizzazione
degli altri non fa che sommarsi all’insistenza nel volerli mettere nel loro contesto. La
proposta di Gell è che gli antropologi si uniscano con gli artisti, critici e storici in modo che un
assortimento più vasto di oggetti, raccolti tra le popolazioni di tutto il mondo, venga
ammesso nelle nostre riserve speciali per opere d’arte e che essi possano offrire la propria
competenza etnografica per spiegare i necessari contesti interpretativi. Un’opera d’arte è
antropologica nella misura in cui realizza tale aspirazione e riesce a illuminare le cos nella
pienezza della loro presenza, le mette sul tavolo. Un’arte che sia antropologica permette alle
cose di essere sé stesse, cogliere il punto dall’interno.

L’AMMORBIDIMENTO DELLA SCIENZA


L’ambizione del modello a tre stadi era quella di costituire la disciplina in quanto scienza.
Secondo Radcliffe-Brown l’etnografia è “idiografica”, perché si occupa della raccolta di
dettagli empirici, mentre l’antropologia è nomotetica, poiché si occupa di generalizzazioni e
della ricerca di regolarità e leggi nella dinamica delle relazioni umane; ma l’antropologia
viene spesso considerata come qualcosa di comodo, da fare a tavolino ma secondo Ingold è
l’arte della ricerca, una pratica di educazione. Nell’antropologia dare e ricevere (=generosità)
vs protocolli e dati della scienza. Nell’osservazione partecipante gli antropologi diventano
corrispondenti, dunque se l’antropologia è una scienza è una scienza della corrispondenza;
ma oggi si pretende la metodologia, non la corrispondenza negli ultimi anni la scienza si è
indurita e il che può essere dovuto al suo ingresso nel mercato in quanto motore
dell’economia mondiale della conoscenza. La mercificazione della conoscenza richiede che i
frutti dell’impresa scientifica vengano separati dallo scorrere della vita, dai suoi flussi e
reflussi. Questa separazione è resa possibile dalla metodologia: per cui più la scienza è
dura, più la sua metodologia è solida. La scienza è ricerca del sentiero e colui che cerca il
sentiero non solo raccoglie ma accetta ciò che il mondo ha da offrire e a partire da questo la
ricerca scientifica può convergere con la sensibilità scientifica in quanto modi di conoscere
dell’essere. Gli scienziati si differenziano per la specificità della loro esperienza e per le
abilità che grazie a essa maturano. La scienza quando diventa arte è insieme personale e
ricca di sentimenti e quando la ricerca scientifica di un sentiero si unisce all’arte della
ricerca, conoscere meglio il mondo significa conoscere meglio sé stessi.

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