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Metodo socratico
Il metodo socratico è un metodo dialettico d'indagine filosofica basato sul dialogo, descritto per la prima volta da
Platone nei Dialoghi. Per la sua intrinseca natura è anche chiamato metodo "maieutico".
Maieutica
Il termine maieutica viene dal greco maieutiké (sottinteso: téchne). Letteralmente, sta per "l'arte della levatrice" (o
"dell'ostetricia"), ma l'espressione designa il metodo socratico così come è esposto da Platone nel Teeteto. L'arte
dialettica, cioè, viene paragonata da Socrate a quella della levatrice: come quest'ultima, il filosofo di Atene intendeva
"tirar fuori" all'allievo pensieri assolutamente personali, al contrario di quanti volevano imporre le proprie vedute
agli altri con la retorica e l'arte della persuasione (Socrate, e attraverso di lui Platone, si riferiscono in questo senso ai
Sofisti). Parte integrante di questo metodo è il ricorso a battute brevi e taglienti - ovvero la brachilogia - in
opposizione ai lunghi discorsi degli altri e la rinomata ironia socratica.
Nel racconto dello stesso Socrate, l'ispirazione per questo tipo di dialettica derivava proprio dall'esempio che il
filosofo aveva tratto da sua madre, la levatrice Fenarete.
Si trovano spunti e rielaborazioni del termine nello stesso Platone, durante tutto il Rinascimento e altrove.
C'è da aggiungere che la maieutica comincia solo dopo le fasi del rapporto maestro-discepolo e dell'ironia. Il
rapporto tra adulto e ragazzo (Socrate-discepolo) in Grecia, era una cosa lecita anche dal punto di vista erotico
(quello che si ammirava in una persona erano l'intelligenza, la raffinatezza spirituale e non l'aspetto fisico). Socrate
però non arrivava all'atto sessuale. Il discepolo a quel punto era libero di scegliere se continuare il rapporto da un
punto di vista ideologico oppure andarsene. Continuando questo rapporto subentrava la fase dell'ironia (finzione).
Socrate fingeva infatti di abbassarsi al livello culturale del discepolo ponendogli domande e rendendolo partecipe
delle proprie. Solo in questo modo e attraverso il dialogo, Socrate riusciva a fare il lavoro della levatrice. Come la
levatrice porta alla luce il bambino, Socrate portava alla luce le piccole verità dal discepolo. La maieutica quindi
non è l'arte di insegnare ma di aiutare. La verità infatti non è insegnabile perché è un sapere dell'anima; per questo
Socrate non inculcava nei suoi interlocutori le proprie idee ma aiutava i "discepoli" a "partorire la loro verità".
Metodo
Il metodo socratico, basato su domande e risposte tra Socrate e l’interlocutore di turno, procede per confutazione,
ossia per eliminazione successiva delle ipotesi contraddittorie o infondate. Esso consiste nel portare gradualmente
alla luce l’infondatezza di tutte quelle convinzioni personali che siamo abituati a considerare come scontate, come
vere, e che invece rivelano, ad un attento esame, la loro natura di “opinioni”. Tale metodo è detto “maieutico”
(ostetrico) in quanto è fondato non sul tentativo di vincere l’interlocutore con la propria abilità retorica, così come
facevano i sofisti, ma su quello di condurre per mano l’interlocutore con una serie di brevi domande e risposte per
arrivare a portare l'interlocutore ad accorgersi della propria ignoranza, e a riconoscere così il criterio della verità
rispetto alla falsità delle sue presunzioni. Va evidenziato come Socrate non contestasse il fatto in sé che si potessero
avere delle verità definitive, ma che venissero spacciate per tali delle convinzioni che non lo erano.
Aristotele, in maniera poco chiara a dir la verità, avrebbe attribuito a Socrate la scoperta del concetto e del metodo
induttivo, sostenendo però al contempo la loro inadeguatezza al trattamento dei problemi dell’etica. In realtà il
dialogo socratico ha un profondo valore morale basato sul rispetto dell'interlocutore.
Metodo socratico 2
(EL) (IT)
« τό διαλέγησθαι εστί τό μήγιστον αγαθόν » « Il dialogo è il sommo bene »
(Socrate)
Secondo l'interpretazione del prof. Gabriele Giannantoni [1] , la dottrina socratica sarebbe spesso travisata per quanto
riguarda il valore e la funzione del dialogo socratico. Tutto deriva da una interpretazione di Aristotele, primo storico
della filosofia, che vede il filosofo ateniese come un anticipatore della sua stessa filosofia, quella della definizione
del concetto. Socrate, cioè, nei dialoghi platonici, secondo Aristotele, si sarebbe sforzato inutilmente di arrivare ad
una verità razionale definita una volta per tutte: tentativo invece realizzato dalla logica aristotelica.
In realtà la dottrina socratica del dialogos vuole mostrare la relatività del sapere umano, mai definitivo: ecco perché
Socrate è il più sapiente degli uomini, come ha detto l'oracolo al suo amico Cherofonte; egli sa che l'uomo è sempre
"ignorante", mentre i più, come i sofisti, credono di sapere ma non sanno.
Ed è questa secondo Platone una delle colpe di Socrate, lui che era vero sapiente si dichiarava ignorante e i sofisti,
veri ignoranti, facevano professione di sapienza. In questo modo il maestro contribuiva a confondere il vero ruolo
della filosofia ed egli stesso al processo, pur avendo rifiutato l'aiuto di un celebre "avvocato" sofista, per l'abitudine
di Socrate di dialogare in strada e nei più diversi luoghi, era stato ritenuto dagli Ateniesi un sofista lui stesso.
In pratica
Il metodo può essere utilizzato da un professore capace per insegnare agli studenti non un certo insieme di nozioni,
ma a pensare con la loro testa. Ecco alcuni fondamenti di questo metodo di insegnamento:
• L’insegnante e gli allievi devono essere d’accordo sull’argomento da trattare.
• Gli studenti devono accettare di rispondere puntualmente alle domande dell’insegnante.
• L’insegnante e gli allievi devono convenire sul fatto che il procedimento razionale in questione debba avere
almeno la stessa importanza dei fatti veri e propri (da cui il ragionamento prende le mosse, ma nei quali non deve
esaurirsi, se il fine è veramente quello di oltrepassare gli angusti limiti dell’opinione per aspirare a delle
conclusioni più generali).
• L’insegnante dovrà mostrare agli allievi la maniera di evitare errori nel ragionamento; soprattutto, dovrà mostrare
quanto radicata sia la tendenza a proporre le proprie convinzioni personali come verità ovvie ed immediatamente
condivisibili su un piano universale. Questo richiede ovviamente un grande talento da parte del docente ed una
grande rapidità nel valutare le risposte e nel formulare le domande che siano maggiormente in grado di portare
avanti fruttuosamente il dialogo; il che non esclude che egli possa esser ripreso dagli allievi, ove questi
individuino errori da parte sua.
Si tratta di un metodo di formazione più che di informazione (come ha sottolineato Pierre Hadot), che rivela i suoi
limiti all’interno di un’istituzione scolastica volta a valutare gli studenti e a consegnare titoli di riconoscimento.
Certamente è innegabile la sua ricchezza dal punto di vista squisitamente pedagogico, soprattutto in quanto
incoraggia un atteggiamento attivo nei confronti della conoscenza piuttosto che un atteggiamento passivo di ricorso
all’autorità.
Applicazione
Socrate ha spesso utilizzato il suo metodo ai fini della definizione di concetti morali quali la virtù, la pietà, la
saggezza, la temperanza, il coraggio e la giustizia. Socrate non prende mai posizione a favore o contro una certa
opinione (egli stesso dichiara a monte la sua ignoranza – caratteristica per la quale si narra che l’oracolo di Delfi
l’avesse dichiarato l’uomo più saggio della Grecia, proprio per la consapevolezza della sua ignoranza della verità,
mentre saggio non è chi, pieno delle sue personali convinzioni, non si rende conto della sua stessa incapacità di
attingere alla verità), ma si sforza di condurre l’interlocutore a riconoscere che le sue non sono altro che congetture.
Socrate ritiene infatti che non si possa accedere alla verità se non ci si libera prima delle “false opinioni” (ed in
questo ricorda l’aneddoto di quel maestro zen che, dietro richiesta del visitatore di spiegargli lo zen, invitò costui a
prendere il tè, riempiendogli la tazza fino a farne tracimare la bevanda. Allo stupore del visitatore il maestro rispose:
“Sei come questa tazza, pieno dei tuoi preconcetti. Se non ti svuoti prima, come puoi apprendere lo zen?”).
dall’ipotesi esaminata derivano delle conseguenze che la contraddicono o che si contraddicono fra loro e l’ipotesi
deve, perciò, essere scartata. L’applicazione nei dialoghi socratici di questa modalità non è, però, continua né
esclusiva e neppure molto frequente.
• Il secondo modo è la riduzione al falso: rispetto all’ipotesi o alle sue conseguenze vengono presentati degli esempi
tratti dall’esperienza che non possono essere inquadrati entro l’ipotesi e perciò la contraddicono (chiamiamoli
“controesempi”). Pur senza essere impossibile, l’ipotesi risulta - così - non vera; le cose non vanno come l’ipotesi
prevede.
• Una terza modalità, più debole, è il derivare, da una delle ipotesi sostenute dall’interlocutore, delle conseguenze
che contraddicono altre convinzioni dell’interlocutore. A rigore, così, non si dimostra che l’ipotesi in questione sia
falsa, ma solo che l’interlocutore sostiene diverse tesi che non possono essere tutte vere; almeno una di esse dovrà
essere falsa, anche se non sappiamo quale. La discussione mette in risalto le contraddizioni che l’interlocutore
portava con sé senza esserne consapevole.
Spieghiamo meglio queste tre modalità attraverso esempi e chiarimenti, vedendole, però, in ordine inverso: dalla più
debole alla più forte.
dell’odio di un’altra, come in effetti accade a molti degli eroi epici e tragici raffigurati nella poesia greca: di fronte
alle immani forze in conflitto del divino, sono inutili tutti gli espedienti della previdenza e del sapere dell’uomo;
• si lasciano cadere entrambe le credenze. Per esempio con una posizione ateistica, oppure con una tesi simile a
quella che sosterrà Epicuro (III secolo a.C.): gli dei, perfetti e beati, non hanno passioni negative (non è possibile
pensarli in conflitto), ma, poiché sono perfetti, beati ed autosufficienti, sono anche indifferenti a ciò che fanno gli
uomini e nulla di umano potrà essere loro odioso né gradito.
Come si vede, dalla confutazione che Socrate rivolge ad Eutifrone, non possiamo concludere nulla su quale delle due
tesi sia da considerare falsa. Sappiamo solo che non si può pretendere di affermarle entrambe. In questo consiste la
“debolezza” di questa modalità di confutazione.
Controesempi e falsificazione
Questa modalità è di carattere oggettivo, poiché – a differenza della precedente - non si riferisce all’insieme delle
credenze che sono nella mente di una persona ed alla loro compatibilità, ma alla verità di ciascuna di esse, a
prescindere da chi le sostenga. In questo senso la possiamo dire “più forte”: se applicata correttamente, infatti, è tale
da mostrare falsa la tesi a cui si rivolge. Per il chiarimento e per un esempio riportiamo un breve passo dalla Storia
della logica dei coniugi Kneale,[3] nel quale tale modalità viene paragonata alla “reductio ad absurdum”: "Socrate
aveva adattato ai propri fini il metodo di Zenone.[4] È difficile arrivare a qualcosa di certo sulla dottrina del Socrate
storico, ma quei passi platonici che, per la loro drammaticità, sembrano la testimonianza più attendibile al riguardo,
fanno pensare che Socrate non fosse meramente un amatore della conversazione filosofica, ma un uomo che
praticava una ben definita tecnica di confutazione delle ipotesi: mostrare che esse comportassero delle conseguenze
incompatibili o inaccettabili. [...] Ma si noti che la confutazione socratica differisce da quella zenoniana in questo:
non v'è bisogno che le conseguenze tratte dalle ipotesi siano autocontraddittorie; in certi casi esse possono essere
semplicemente false". Il caso delle conseguenze “semplicemente false” è esemplificato dai Kneale con un passo del
Menone: nell'esame dell'ipotesi dell'insegnabilità della virtù, se ne deriva la conseguenza che, se la virtù fosse
insegnabile, allora gli uomini più virtuosi l'avrebbero trasmessa ai loro figli; ma alcuni casi clamorosi di insuccesso
di genitori illustri e virtuosi (Temistocle, Pericle...), i cui figli risultarono inetti, falsificano l'ipotesi. Qui l'ipotesi è
smentita da un dato di fatto incompatibile con essa.
Reductio ad absurdum
Veniamo ora alla più forte delle modalità di confutazione praticate da Socrate. Un esempio piuttosto elaborato di
reductio ad absurdum applicato da Socrate lo troviamo nel dialogo intitolato Ippia minore. Alla conclusione del
dialogo, Socrate porta l’interlocutore ad ammettere la tesi paradossale e urtante,[5] secondo la quale chi faccia il male
volontariamente sia migliore di chi lo faccia involontariamente e – detto ancora più chiaramente – solo un uomo
buono può fare il male volontariamente: "Dunque chi volontariamente erri e di propria volontà si comporti
vergognosamente e ingiustamente, un simile uomo, sempre che esista, non può essere altro che l’uomo buono". La
conclusione è contraddittoria e ciò è evidente se sostituiamo l’espressione finale l’uomo buono con la sua equivalente
colui che non fa il male. È questo il punto d’arrivo al quale il lettore del dialogo deve perciò giungere,[6] cioè che tale
uomo non esista, ossia che nessuno faccia il male volontariamente.[7] Il Taylor riassume così il senso
dell’argomentazione: "L’uomo che conosce veramente il bene ma sceglie qualcos’altro non può esistere, come non
può esistere un quadrato rotondo ed è appunto perché tale persona non esiste che si possano asserire a proposito di
lui i paradossi più audaci".[8]
Metodo socratico 7
Note
[1] Gabriele Giannantoni nell'opera monumentale Socratis et Socraticorum Reliquiae (1991) (G. Giannantoni, Socratis et Socraticorum
reliquiae. Collegit, disposuit, apparatibus notisque instruxit G.G. (Collana Elenchos, XVIII). Napoli, Bibliopolis, 1990-1991. 4 vol., 521, 652,
301, 609 p.) ha cercato di compilare ogni minima notizia e fonte sulla figura storica di Socrate, incluso materiale attribuito a Eschines
Socratico, Antistene e vari altri suoi contemporanei che lo avrebbero conosciuto.
[2] In effetti, nel dialogo, di fronte alla difficoltà, egli si limita a dare una versione “mitigata” della propria duplice credenza: rivede la definizione
del “santo” trasformandola in “santo è ciò che tutti gli dei amano, empio ciò che tutti gli dei odiano”, mentre non sarà né santo né empio ciò che
alcuni dei amano e altri no.
[3] W. C. e M. Kneale Storia della logica, a cura di A. Conte, Einaudi, Torino 1972, pag. 15
[4] Il metodo di Zenone di Elea è la confutazione per “reductio ad absurdum”.
[5] "Urtante" perché sembra, a prima vista, affermare che un malfattore volontario sia moralmente migliore di chi sbagli in un momento di
debolezza; ma, come vedremo subito, non è questa la vera conclusione dell’argomentazione di Socrate.
[6] Come si vede, ciò è suggerito, nella frase citata, dalla limitazione “un simile uomo, sempre che esista”.
[7] Il risultato è una delle più caratteristiche tesi dell’etica socratica, alla quale ci si riferisce col termine intellettualismo socratico.
[8] Alfred Edward Taylor Platone. L'uomo e l'opera, trad. it. di M. Corsi, La nuova Italia, Firenze, 1976, pag. 64.
Bibliografia
• G. Giannantoni "Che cosa ha veramente detto Socrate", Roma, 1961
• G. Giannantoni "La Ricerca Filosofica", 3 vol., Torino, 1985
Collegamenti esterni
• Breve biografia di Giannantoni (http://www.emsf.rai.it/biografie/anagrafico.asp?d=248) su rai.emsf.it
• Intervista di Giannantoni sul valore teoretico e morale del dialogo socratico (http://www.emsf.rai.it/scripts/
interviste.asp?d=485) su rai.emsf.it
Voci correlate
• Socrate
• Platone
• Aristotele
• Ironia socratica
Fonti e autori delle voci 8
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