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Pedagogia speciale e didattica dell’inclusione

Prof. Lucio Cottini

Introduzione

L’idea che una scuola di qualità debba porre al centro della propria attenzione le esigenze
diversificate di tutti gli allievi, nel rispetto del principio di pari opportunità e di partecipazione attiva
di ognuno, si è andata sviluppando a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, alimentando la
ricerca di un orientamento educativo capace di includere tutti (Inclusive Education).

L’Inclusive Education è un modello teorico che nasce e si sviluppa come atto di indirizzo in materia
di istruzione ed educazione, supportato da organismi internazionali, prima fra tutti l’UNESCO.

Quando si parla di inclusione non ci si riferisce ad una scuola organizzata per soddisfare le richieste
degli allievi “tipici”, ma un sistema educativo che cerca di intercettare le differenze e le specificità
di ognuno.

È importante sottolineare, infatti, che con il termine inclusione non ci si riferisce più ai soli studenti
disabili ma a tutti quegli studenti con bisogni educativi speciali nell’ottica di una cultura inclusiva
che può trarre vantaggio e arricchirsi attraverso le differenze.

Si parla, in questo caso specifico, di BES (Bisogni Educativi Speciali) con cui si intende:

«L’area dello svantaggio scolastico è molto più ampia di quella riferibile esplicitamente alla
presenza di deficit. In ogni classe ci sono alunni che presentano una richiesta di speciale attenzione
per una varietà di ragioni: svantaggio sociale e culturale, disturbi specifici dell’apprendimento
(DSA) e/o disturbi evolutivi specifici, difficoltà derivanti dalla non conoscenza della cultura e della
lingua italiana perché appartenenti a culture diverse».

Dalla circolare che integra la Legge 53/2003

Nei Bes rientrano anche le difficoltà che seguono la Legge 104 sulle disabilità (c’è bisogno di una
diagnosi medica), e che comporta la presenza dell’insegnante di sostegno.

I DSA, che sono tutelati dalla Legge 170 (prevedono un PEI 1):

- Dislessia
- Digrafia
- Disortografia
- Discalculia

1
PEI: Piano Educativo Individualizzato, utilizzato soprattutto con diagnosi per malattie come la Sindrome di Down.
Diverso dal PDP: Piano Didattico Personalizzato (fatto in base alla legge 170 e per tutti i ragazzi che hanno bisogni
particolari ma che non rientrano nella Legge 170: ADHD, disprassia, disturbi di comprensione, sindrome di Asperger,
ecc.).
ADHD: difficoltà di attenzione e iperattività.
Una scuola inclusiva è dunque una scuola che tiene conto dei bisogni di ogni singolo studente e
delle diverse personalità e capacità di apprendimento per far sì che essi possano sviluppare al
meglio le proprie capacità.

Occorre considerare le diversità come una condizione di base, un a priori, di cui tener conto per la
costruzione di ambienti in grado di accogliere tutti, collegandoli ad una dimensione sociale, ad un
sistema, e non come semplici deficit degli individui. Booth e Ainscow, (2002) sostengono che è
opportuno parlare di ostacoli all’apprendimento e alla partecipazione, i quali non sono solo
ascrivibili agli individui e che, come tali bisogna cercare di rimuovere o di attenuare nella loro
valenza negativa. Non si tratta di includere gli allievi nella classe sostituendo solo il termine
integrazione con uno più accattivante, ma di rendere inclusivi i contesti, i metodi e gli
atteggiamenti per tutti. Non si tratta di indirizzarsi, dunque, a un allievo medio, per poi
aggiungere particolari percorsi personalizzati, ma di concepire, fin dall’inizio, una progettualità
rivolta a tutti, tenendo conto delle differenze, ma orientandosi a promuovere per ciascuno le
migliori opportunità per una crescita personale.

La riflessione sulla dimensione inclusiva può essere schematizzata attraverso l’individuazione di


quattro piani principali.

I quattro piani dell’inclusione:

- Piano dei principi -> che sono non contestabili: tutti hanno diritto a una educazione
inclusiva.
- Piano organizzativo -> come posso organizzare la mia classe, la mia scuola, come posso
rendere più inclusivo il curricolo.
- Piano metodologico-didattico-> come si svolge questa inclusione?
- Piano dell’evidenza empirica-> dove ci chiediamo se l’inclusione funziona.

L’inclusione non è un tutto o niente. È un percorso che serve ad abbattere delle barriere.

Fare inclusione non vuol dire fare educazioni per uguali ma significa fare educazione per diversi.

E in primis gli insegnanti che devono occuparsi di questo sono quelli curricolari (quindi della
disciplina) altrimenti si crea esclusione. Deve diventare una condizione di tutti. Questo non esclude
la possibilità per il bambino di essere anche portato ogni tanto fuori dall’aula per fare delle attività
in maniera individuale.

Il piano dei principi

Sul piano dei principi, l’orientamento inclusivo concerne il diritto di tutti gli individui, qualunque
sia la loro condizione, ad avare accesso all’istruzione all’interno di contesti comuni, non separati.
L’allievo con disabilità o altre difficoltà non è ospite nella scuola o nella classe, ma parte integrante
della stessa.
I principi espressi in questo ambito (che si rifanno alla Convenzione sui diritti delle persone
disabili) non sono connessi solo alla presenza di disabilità fisica, intellettiva, relazionale o
sensoriale, ma riguardano ogni persona, che in maniera, anche temporanea può correre il rischio di
esclusione, mirando alla eliminazione delle barriere di varia natura.

In base all’idea di diversità che poniamo alla base del nostro agire quotidiano nel contesto
scolastico avremo diversi tipi di modelli di riferimento per l’inclusione:

- Modello individuale (medico)


- Modello sociale
- Modello ICF
- Modello delle capacità

Il modello individuale vede la disabilità come un problema per il singolo su cui intervenire in
maniera specifica. È attento ai bisogni del singolo, da soddisfare con il ricorso quasi esclusivo a
figure dedicate (insegnanti specializzati) e spesso in contesti separati dalla classe, anche quando
questa separazione non appare giustificata da obiettivi di tipo didattico. Si ha una
deresponsabilizzazione del resto del corpo docente curricolare.

All’interno di questo modello si fa una distinzione tra menomazione (ha carattere permanente ed è a
livello organico o funzionale), disabilità (riguarda i limiti nello svolgimento delle attività secondo i
parametri considerati tipici) e handicap (situazione di svantaggio, che limita o impedisce, rispetto a
un normodotato.

Il modello sociale prende avvio dall’attivismo politico promosso da persone con disabilità,
soprattutto nei paesi anglosassoni, a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, con l’intento di
opporsi alla visione della disabilità come deficit individuale o svantaggio causato da menomazioni
personali, per centrare l’attenzione sul ruolo disabilitante esercitato dalle barriere sociali. In tale
prospettiva è la società che deve essere ridisegnata affinché prende in considerazione i bisogni delle
persone con disabilità: i deficit biologici diventano disabilità perché la società non è attrezzata per
accogliere la differenza nei funzionamenti umani. In ambito educativo questo si traduce in
interventi mirati a rispondere ai bisogni di apprendimento di ciascuno, siano essi ordinari o speciali,
all’interno di classi flessibili (non si tratta di rimuovere i problemi ma di includerli in modo
organizzato e ben studiato).

Il Modello ICF si pone come anello di congiunzione dei due modelli precedenti, considerando
come elemento centrale il concetto di salute, che rappresenta un ideale che nessun individuo
sperimenta in maniera completa. Tale approccio prende in considerazione sia fattori personali
(funzioni e strutture corporee); sia quelli ambientali (contesto fisico e sociale).

Il Modello delle capacità formulato a metà degli anni Ottanta del secolo scorso dall’economista e
filosofo Amartya Sen, si basa sull’idea dello “star bene” (well-being) nel senso delle capacità che
ognuno ha di trasformare se stesso e l’ambiente in base ai risultati che intende conseguire. La
persona con disabilità ha quindi, come ogni altro essere umano, il diritto di scegliere come gestire la
propria vita e sviluppare le proprie potenzialità. Il benessere dell’individuo e la sua partecipazione
alla vita sociale diventano i pilastri di questo approccio. Gli interventi sociali che nascono sulla base
di tale modello saranno diretti non solo a compensare uno svantaggio, ma anche a incrementare la
capacità della persona di poter scegliere. Non si tratta quindi di superare delle disabilità quanto
piuttosto promuovere l’ampliamento delle possibilità di scelta, cioè la capacità dell’individuo di
autodeterminarsi (Cottini, 2015).

Il Piano organizzativo

La predisposizione di contesti educativi in grado di accogliere tutti, com’è nella logica


dell’inclusione, richiede un’organizzazione e un coordinamento precisi e nello stesso tempo,
flessibili fra i diversi attori che entrano in gioco, si interni sia esterni alla scuola (famiglie e
istituzioni interessate).
Il coordinamento si gioca, prima di tutto , nella progettualità riferita al contesto della classe, che
viene sviluppata all’interno del team docenti o del Consiglio di classe e che riguarda la condivisione
dell’approccio didattico, delle procedure di valutazione, del setting organizzativo, della
progettazione di curricoli inclusivi.
Fa parte di questo contesto l’approccio UDL 2 (Universal Design for Learning) che ha sviluppato
una serie di applicazioni che hanno posto al centro il concetto di accessibilità riferita agli ambienti e
agli strumenti, con l’obiettivo di renderli fruibili per tutti (un esempio classico è lo scivolo del
marciapiede).

Nel piano organizzativo ritroviamo l’ICF come sistema internazionale per misurare e classificare la
salute e la disabilità che ha contribuito ad attuare un cambiamento del modo di pensare l’altro, in
termini di parità reale tra persone che presentano abilità e disabilità diverse.
L’ICF fornisce una visione positiva dei deficit e delle menomazioni inserendole in una scala di
salute che riguarda tutti gli individui. In questo ambito non si parla più di menomazione ma di
attività e partecipazione sociale cioè le potenzialità che l’individuo ha di superare limiti ed ostacoli.
Si valuta quindi non più l’attenuazione di un comportamento-problema ma il miglioramento di
un’attività, cercando di conoscere la persona e non il suo deficit. Non si ottengono più diagnosi
cliniche ma Profili di funzionamento, in quanto lo scopo è descrivere la natura e la gravità delle
limitazioni del funzionamento e i fattori ambientali che influiscono su di esso. È per questo che ci si
serve di “qualificatori” i quali denotano l’entità del livello di salute o di gravità del problema in
questione.

Affinché una didattica sia realmente inclusiva essa deve tener conto dei bisogni di apprendimento
specifici di ogni singolo alunno (non solo di quelli con problemi effettivi) e rompere il circolo
vizioso che propone ancora una visione separata della didattica: da un lato, quella per la maggior
parte degli allievi; dall’altro quella per gli alunni con BES, definita, a seconda dei casi,
individualizzata (PEI) o personalizzata (PDP). Questa visione della didattica prevede la creazione
di un programma per la classe da modificare poi in maniera più o meno consistente per coloro che
non riescono a seguirlo compiutamente (I approccio).

2
L’UDL si sviluppa dall’Universal Design, nato negli Stati Uniti, il quale prevede «la progettazione di prodotti e
ambienti utilizzabili da tutti, nella maggior estensione possibile, senza necessità di adattamenti o ausili speciali».
Cottini, p. 85.
È importante invece tener conto del fatto che ogni alunno ha un proprio modo di apprendere e un
modo diverso di essere coinvolto e la scuola, per fornire apprendimenti significativi e raggiungere il
pieno successo formativo 3, deve considerare che:
- gli allievi tendono a percepire e a comprendere in maniera diversa le informazioni che
vengono loro sottoposte in base, ad esempio, a preferenze personali, stili specifici di
apprendimento ecc;
- gli allievi differiscono per le modalità con le quali procedono nell’apprendimento e nel
modo in cui sono in grado di dimostrare l’acquisizione di competenze e conoscenze;
- gli allievi esprimono modalità diverse di coinvolgimento in relazione a quanto sono motivati:
ad esempio c’è chi preferisce lavorare da solo e chi ama lavorare in gruppo (cooperative
learning).

In base a quanto appena detto il modo migliore di rendere l’apprendimento inclusivo per tutti è
quello di lavorare sui curricoli didattici 4 in modo tale da renderli flessibili fin dall’inizio (II
approccio) e in grado di adattarsi alle singole esigenze di ogni alunno. Seguendo l’approccio UDL
avremo infatti fin da subito degli adattamenti ai curricoli didattici in modo che risultino, da un lato,
maggiormente rispondenti alle esigenze particolari e, dall’altro, finiscano per costituire delle
opportunità qualitative per tutti.
In questo modo le esigenze particolari continuano ad esistere, ma la classe diventa sempre più un
ambiente nel quale sono considerate le caratteristiche particolari di ognuno.
Le tecnologie digitali rappresentano uno dei modi migliori e più economici e adattabili per gestire i
curricoli flessibili.

Il Piano metodologico-didattico

Su questo piano ci chiediamo come si svolge nel concreto l’inclusione, cioè quali sono le
metodologie e le pratiche didattiche più adatte.
Le caratteristiche degli approcci metodologici sui quali si fonda l’educazione inclusiva sono:
- clima e gestione della classe
- strategie cooperative
- strategie cognitive e metacognitive
- educazione socioemozionale e prosociale
- strategie specifiche di intervento rivolte ai bisogni speciali (Bes)

Analizziamoli nel dettaglio:


quando si parla di clima della classe si intende l’atmosfera della classe cioè gli atteggiamenti, le
relazioni e i comportamenti che caratterizzano lo stare insieme di allievi e insegnanti. In particolare
saranno questi ultimi a definire lo spirito collaborativo o, all’opposto, individualistico e competitivo
della classe.

3
Cioè quando un allievo ha valorizzato in pieno le proprie potenzialità.
4
Adattare il curricolo didattico significa stimolare modalità diversificate di presentazione, analisi ed elaborazione delle
informazioni; sollecitare processi cognitivi e modelli di pensiero differenti; ricercare forme di coinvolgimento e di
motivazione capaci di orientare positivamente tutti verso gli apprendimenti significativi.
Strategie cooperative
Se l’insegnante favorisce un clima cooperativo, quindi favorisce le relazioni positive tra gli alunni,
implementando l’inclusione, avremo, da un punto di vista didattico:

- il Peer Tutoring
- il Cooperative Learning

Queste strategie didattiche consentono (così come sostengono i fautori del costruttivismo) una
costruzione collaborativa della conoscenza che facilita l’apprendimento in quanto gli uomini,
come sostiene Vygotskij, originano le loro funzioni mentali superiori attraverso in meccanismo
spiccatamente sociale 5 per poi interiorizzarsi.
In particolare, per quanto riguarda il Peer Tutoring si tratta di un’educazione fra pari, consiste nel
coinvolgimento di allievi in funzione di tutor, per favorire l’apprendimento dei compagni i quali in
questo modo, vengono ad assumere il ruolo di tutees.
I vantaggi sono:
- promuove processi inclusivi in quanto anche alunni disabili possono diventare tutor;
- permette di sviluppare un’educazione individualizzata perseguendo nello stesso tempo gli
obiettivi inclusivi
- consente un approccio individualizzato, dedicando maggior tempo al singolo allievo e alle
sue difficoltà nell’ambito delle attività didattiche;
- determina una forte motivazione in entrambi gli alunni coinvolti;
- fornisce più fonti di feedback e di correzione degli errori;
- aumenta le abilità comunicative degli allievi;
- potenzia l’autostima;
- potenzia le competenze sociali;
- vantaggi di tipo emotivo-motivazionale.

Rapportarsi con i coetanei all’interno di un gruppo di collaborazione, infatti, consente ad ognuno di


operare all’interno della propria area di sviluppo prossimale, ottenendo in questo modo risultati
più significativi di quelli conseguibili nelle normali attività individuali.
Vi sono tre modalità principali di Tutoring:
- fra pari età;
- tra alunni di età diversa;
- con allievi in difficoltà nel ruolo di tutor
- coinvolgimento dell’intera classe

Per quanto riguarda il Cooperative Learning si tratta di un’interazione tra piccoli gruppi di
compagni (di solito da due a sei) 6 che lavorano insieme in vista del raggiungimento di un obiettivo
prefissato. Questo tipo di didattica crea un effetto sinergico in grado di produrre risultati superiori
alla somma degli sforzi individuali e delle capacità messe in campo dai singoli. I gruppi devono
essere formati secondo un criterio di eterogeneità in modo tale che diminuisce la possibilità di
sottrarsi dall’impegno sul compito e incrementa la responsabilità individuale.

5
L’apprendimento umano presuppone una specifica natura sociale e un processo atto a consentire ai bambini di far
propria la vita intellettuale di coloro che li circondano. (Cottini, p.143).
6
I gruppi di dimensione ridotta favoriscono la partecipazione attiva di tutti i compoenenti.
Inoltre si genera interdipendenza positiva per cui ogni membro si preoccupa non solo del proprio
rendimento , ma anche di quello dei compagni così da acquisire la consapevolezza che non è
possibile agire da soli: occorre cooperazione tra i componenti e un impegno da parte di tutto il
gruppo. Il cooperative learning ha, inoltre, una funzione di tipo metacognitivo 7.

I principali modelli di cooperative learning sono:


- Learning Together (Johnson, 1987)
- Complex Instruction (Cohen, 1992)
- Student Team Learning (Slavin, 1978)
- Group Investigation (Sharan, 1976)
- Structural Approach (Kagan, 1992)

Learning Together-> è la modalità più diffusa, l’insegnante definisce obiettivi, ruoli, struttura le
attività e monitora il lavoro degli allievi;
Complex Instruction-> per evitare che nei gruppi eterogenei il più bravo diventi sempre più bravo,
Cohen ha sviluppato la strategia dei “compiti complessi” che richiedono una serie di abilità diverse;
Student Team Learning-> punta sulla competizione tra gruppi omogenei di abilità (giochi di
squadra);
Group Investigation-> centrato sulla ricerca come modalità di apprendimento, l’insegnante
organizza laboratori e i gruppi sono interdipendenti;
Structural Approach-> prevede gruppi eterogenei organizzati in coppie per favorire l’interazione
simultanea.

Strategie cognitive e metacognitive

Le strategie cognitive e metacognitive insegnano all’allievo i meccanismi con cui esso apprende e
come auto valutarsi e auto monitorarsi. Le strategie cognitive e metacognitive consistono in percorsi
didattici per favorire l’acquisizione di conoscenze, abilità e competenze, supportando gli allievi
nell’organizzazione delle informazioni così da ridurne la complessità, e nel collegamento delle
stesse con quanto già padroneggiato. In particolare la metacognizione riguarda la consapevolezza ,
da parte del soggetto, dei propri processi mentali in atto nell’apprendimento. In altre parole il
bambino, ma anche lo studente più grande, impara gradualmente a usare strategie appropriate per la
risoluzione di un compito e, attraverso il feedback che riceve, apprende ad attribuire i successi
all’impegno e all’uso corretto di strategie e gli insuccessi al mancato utilizzo di strategie adeguate
(questo è alla base del problem solving).

E per quanto riguarda i BES?

Tale strategia si è rivelata molto utile anche nell’apprendimento di alunni con deficit di vario
genere.

7
Vedi più avanti.
Per quanto riguarda, in particolare, allievi con disabilità intellettiva ci sono due diverse teorie che
spiegano le difficoltà di memoria degli allievi:
- la prima sostiene la presenza di deficit strutturali (al livello del sistema nervoso centrale).
Secondo questo approccio le procedure educative sono poco efficaci;
- la secondo, invece, parla di deficit ascrivibili a processi di controllo per cui l’utilizzo di
insegnamento strategico e metacognitivo può rappresentare una modalità di aiuto al
difficoltoso processo di apprendimento. Tale approccio chiaramente deve unirsi a modalità
didattiche più semplici, centrate su training esercitativi e sul potenziamento della memoria
procedurale implicita.

Tra le proposte educative utili alla conoscenza delle strategie è importante parlare del clustering. Si
tratta di una strategia di organizzazione semantica in categorie e fa riferimento alla possibilità di
rievocare più facilmente del materiale quando lo stesso viene organizzato in gruppi di elementi che
appartengono a una stessa categoria (es. animali, abiti, ecc).

Il programma di lavoro, per ogni strategia di memoria, prevede:


- il curricolo prerequisiti da adottare quando si vogliono insegnare strategie per le quali
l’allievo manifesta deficit molto gravi. A questo livello non sono previsti compiti mnestici,
ma solo modalità di organizzazione di materiali;
- il curricolo strategico, basato su una serie di esercitazioni di memorizzazione e recupero da
adottare quando l’allievo presenta deficit lievi o di “produzione”.
In questi compiti la progressione delle proposte operative passa dal riconoscimento alla
rievocazione. Nel primo caso l’allievo è aiutato dal fatto che le cose da ricordare vengono di nuovo
messe a sua disposizione, ma devono essere discriminate da altre con cui sono mescolate; nel
secondo caso, invece, l’allievo deve ricordare utilizzando esclusivamente i propri mezzi.
Il programma prevede inoltre una serie di compiti scolastici e di vita quotidiana utili per favorire il
transfer di apprendimento delle strategie su situazioni concrete.

Un altro metodo per favorire e facilitare l’apprendimento è costituito dalle Flipped classroom
(“classi capovolte”) le quali si basano sull’idea che alcune delle attività connesse alla prima
comprensione e allo studio dei contenuti didattici possano essere effettuate a casa invece che a
scuola. Il semplice fatto che gli allievi possano studiare un argomento autonomamente attraverso un
video o atre modalità prima di affrontarlo in classe comporta degli interessanti vantaggi in quanto:
- hanno già in mente quello che si farà in aula;
- qualcuno arriverà a una buona comprensione dell’argomento e potrà essere d’aiuto per
spiegare a chi è più in difficoltà 8 (Peer tutoring);
- aiuta gli allievi a colmare il distacco tra le conoscenze già possedute e le nuove da acquisire
(Ausbel, 1978).

Negli allievi con Bes è molto importante il momento della valutazione poiché assume una funzione
orientativa sulle potenzialità di sviluppo e sulle prospettive di apprendimento (cioè si ritiene che i
nostri allievi possano acquisire in tempi abbastanza contenuti).

8
Questo momento è quello che più si presta all’attivazione delle forme di didattica inclusiva. Infatti, il minor ricorso
alla didattica frontale e il tempo più ampio a disposizione facilitano il supporto specifico ai singoli allievi da parte degli
insegnanti.
Sulla scorta di questi principi è stato elaborato il metodo funzionale della “doppia stimolazione”
per studiare le funzioni cognitive. La metodologia alla base di tale approccio consiste nel presentare
agli allievi, nel loro normale ambiente di vita (famiglia, scuola, ecc), un compito considerato al di
sopra delle loro possibilità del momento. A questo punto vengono offerti agli allievi nuovi stimoli
(suggerimenti e domande), e si osserva in che modo questi vengono utilizzati (se sono ignorati, se
consentono di portare a termine il compito o affrontarlo solo parzialmente). In questo l’insegnante
può rendersi conto di quali sono le potenzialità di sviluppo degli allievi.
Nello specifico Vygotskij (che parla appunto della “zona di sviluppo prossimale”, dove si
collocano le potenzialità non ancora espresse) utilizza i termini di abilità “emergenti” e “in corso di
maturazione” per descrivere come la valutazione dinamica della prestazione assistita dell’alunno
durante la collaborazione, ci informi di cosa egli stia apprendendo in questo momento e anticipi
quello che egli sarà in grado di fare in futuro.
I compiti che l’insegnante propone dovrebbero collocarsi in tale zona per motivare l’allievo e
favorire l’apprendimento (infatti se il compito è troppo complesso l’allievo tende a non portarlo a
termine in quanto si demoralizza).
L’educatore deve quindi stimolare l’alunno in modo che le sue potenzialità, non ancora espresse,
diventino evidenti e si evolvano; deve mediare e aiutare l’apprendimento del bambino, in modo
flessibile, concentrandosi sulla qualità di sostegno necessaria 9.

Educazione socioemozionale e prosociale

Attraverso cui gli allievi imparano a conoscere e controllare le proprie emozioni, leggere i bisogni
dell’altro, aiutare, essere solidali.

Strategie specifiche di intervento rivolte ai bisogni speciali (Bes)

Nonostante l’inclusione prevede lo sviluppo delle potenzialità di ogni allievo in base alla propria
personalità, non bisogna dimenticare che è necessario mettere in campo strategie didattiche
specifiche che tengano conto delle diverse disabilità.
È inoltre importante che gli insegnanti possiedano conoscenze sulle diverse situazioni di disabilità e
le varie strategie didattiche e comportamentali da mettere in atto.
Per quanto riguarda l’analisi del comportamento ci rifacciamo all’Applied Behavior Analysis
(ABA) di Skinner, che propone una serie di piani e strategie di intervento per facilitare
apprendimenti funzionali e per ridurre comportamenti problematici.
In particolare avremo:

- la tecnica dell’aiuto (prompting) e attenuazione dell’aiuto (fading) in cui gli insegnanti


tendono a facilitare le risposte da parte degli allievi attraverso l’introduzione di stimoli
aggiuntivi (indispensabili nella prima fase dell’apprendimento) e la loro progressiva
attenuazione (per favorire l’inserimento definitivo dell’abilità nel repertorio
comportamentale dell’individuo). Il comportamento è quindi attivato prima in modo

9
Wood, Bruner e Ross hanno utilizzato, per delineare questo concetto , il termine scaffolding (creare un’impalcatura).
artificiale (attraverso l’intervento del docente, prompts) per assumere via via un
atteggiamento più naturale (l’aiuto dell’insegnante viene meno, fading).
- - il modellaggio (shaping) e concatenamento (chaining). La prima è utilizzata per cercare
di ampliare i repertori di capacità degli allievi con gravi compromissioni cognitive,
facilitando la costruzione di nuove abilità; si basa sul rinforzo di comportamenti che man
mano si avvicinano a quello ricercato (comportamento-meta); il chaining è utilizzato per
l’insegnamento di abilità complesse costituite da sequenze di comportamenti ben delineabili
che richiedono un regolare susseguirsi di fasi (abilità di autosufficienza come ad es. vestirsi
o svestirsi).

- Video modeling, consiste nella presentazione di filmati che illustrano la modalità adeguata
di comportamento in certi contesti o la corretta esecuzione di azioni in funzione
dell’apprendimento di specifiche abilità seguita dall’imitazione dei comportamenti osservati
nel filmato (molto utile per bambini con sindrome autistica), esiste anche il video self-
modeling (i video vengono registrati sui comportamenti dello stesso allievo).

- L’insegnamento strutturato fornisce un quadro spaziale (organizzazione della classe) e


temporale (organizzazione dei tempi per le attività) dell’ambiente didattico molto
strutturato, è utile per i bambini con sindrome di spettro autistico in quanto manifestano
difficoltà nel comprendere il senso di ciò che li circonda, in relazione all’ambiente fisico,
alle attività che si devono svolgere e alle modalità per affrontare i compiti.
- Si utilizzano schemi visivi in grado di preannunciare le attività che si andranno a svolgere
(si tratta di un tabellone su cui sono affisse le varie attività in modo tale che il bambino è in
grado di sapere in anticipo cosa farà nel corso della giornata).

- Il Verbal Behavior Teaching si tratta di una strategia elaborata all’interno dell’approccio


ABA che consiste in modalità che facilitano la comunicazione. Tra queste abbiamo:

a) Il comportamento ecoico (comportamento verbale di tipo imitativo, il bambino


ripete ciò che sente);
b) fare richieste (mand) -> è una richiesta verbale finalizzata a ottenere quanto
desiderato;
c) nominare (tact) -> è un “mettere in contatto” attraverso l’evocazione di un
particolare oggetto;
d) comportamento intraverbale (intraverbal) uno stimolo verbale seleziona una
risposta che però non è direttamente collegato allo stimolo che l’ha evocata (come
nel comportamento ecoico);
e) comportamento verbale basato su se stesso (autoclitic)

- La comunicazione aumentativa e alternativa (CAA) si riferisce all’utilizzo di una serie di


procedure e strumenti per tentare di compensare deficit comunicativi importanti e che
forniscono all’individuo possibilità di comunicazione alternative. Si possono usare
dispositivi tecnologici come i sistemi VOCA che sono ausili che prevedono l’emissione di
voce; oppure dispositivi non tecnologici come i PECS (supporti visivi che utilizzano
l’immagine dell’oggetto che il bambino vuole o l’attività che vuole fare. Si tratta di strisce
adesive su cui il bambino attacca/stacca ciò che vuole comunicare in quel momento) o gli
IN-books (libri illustrati con testo in simboli come immagini grafiche associate alla parola
alfabetica scritta in alto).

Il modo migliore per contenere i comportamenti problematici è quello di insegnare ai bambini a


comunicare ciò di cui hanno bisogno. Spesso infatti questi atteggiamenti nascondono un bisogno
che non si riesce a comunicare.
Tra le strategie per gestire i comportamenti problematici abbiamo:
- L’estinzione -> consiste nell’ignorare il comportamento-problema;
- Il rinforzamento differenziale -> consiste nel rinforzo di comportamenti diversi da quello
inadeguato;
- Il Token economy-> il bambino guadagna tokens (gettoni) quando emette le prestazioni
richieste e li perde se invece mette in atto un comportamento inadeguato (costo della
risposta).

L’insegnate, quando non è possibile ignorare il comportamento problematico, deve proteggere


l’allievo o gli altri presenti nell’ambiente dalle conseguenze fisiche dello stesso (blocco fisico).

Il Piano dell’evidenza empirica

Su questo piano vengono inserite le analisi della ricerca che viene effettuata nel campo
dell’inclusione. Bisogna infatti capire se le procedure organizzative e le strategie didattiche adottate
per promuovere il successo formativo di ogni allievo nel contesto scolastico funzionano e risultino
realmente efficaci. Occorre avere dati attendibili per lo sviluppo a lungo termine dei sistemi
educativi finalizzati all’inclusione ad esempio attraverso la somministrazione di questionari per
valutare il livello di inclusività delle classi e delle scuole attraverso processi di autovalutazione
degli insegnanti e quesiti oggettivi.

Conclusione

È ancora troppo presto per dire con certezza e dati scientifici se in classi con soggetti disabili si
apprende meglio. Tuttavia si può affermare che l’esperienza diretta di soggetti “diversi” presenti in
aula favorisce una migliore predisposizione ad accettare positivamente la loro presenza in classe.
Questo porta a concludere che per favorire l’integrazione il metodo migliore è quello di farla vivere
direttamente alle persone.
Gli insegnanti sono ancora molto divisi sui risultati che un insegnamento inclusivo (e differenziato)
possa apportare reali benefici agli studenti “normali”.
Il coinvolgimento delle famiglie (parent training), attraverso specifici programmi, si è rivelato
molto importante per l’ottenimento di successi educativi.
Un ambiente accogliente dal punto di vista psicologico, nel quale ci sia rispetto per ognuno e
vengano privilegiate forme di collaborazione e condivisione degli obiettivi, è comunque alla base
della motivazione dell’apprendimento e determina risultati significativi.
Manuela Chimenti
Pedagogia Speciale
lezione del 06/04/2018

La pedagogia speciale si raccorda con la didattica speciale, vi e' una differenza notevole fra le due
anche in base ai ruoli che devono svolgere.
Il ruolo della pedagogia speciale e':
 identificare i bisogni speciali delle persone (saperli leggere ed interpretarli)
 delineare risposte adeguate per soddisfarli
Il ruolo della didattica speciale e' la disciplina con cui si elaborano in maniera sistematica, le teorie ed i
modelli trasferibili nella pratica didattica. Cio' assume un rilievo speciale nella integrazione dei BES.
La disabilita', in base alla costituzione, viene affrontata in maniera differente rispetto al modo di
affrontarlo negli altri paesi. Per cui si e' deciso, a livello internazionale, di condividere un lessico per
affrontare tali situazioni problematiche. Un aiuto e' venuto dalla scienza, in quanto ha permesso di:
a) definire le sindromi
b) stabilire dei protocolli diagnostici
Nel 1981, in UK, e' stato riconosciuta la nozione di BES. L'OCSE da allora ha individuato 3 categorie a
cui ricondurre i BES:
1. macrocategoria A(deficit o disabilita')
2. macrocategoria B (difficolta' emotive)
3. macrocategoria C (svantaggiati)
Lo stato italiano ha emanato una serie di leggi, decreti e direttive in materia di BES:
 Legge n.170 dell' 08/10/2010, in cui sono stati formalizzati quali siano i disturbi di apprendimento riconosciuti
dall'OMS (Organizzazione Mondiale della Sanita'): “ Art. 1 Riconoscimento e definizione di dislessia, disgrafia,
disortografia e discalculia 1. La presente legge riconosce la dislessia, la disgrafia, la disortografia e la discalculia
quali disturbi specifici di apprendimento, di seguito denominati «DSA», che si manifestano in presenza di capacità
cognitive adeguate, in assenza di patologie neurologiche e di deficit sensoriali, ma possono costituire una
limitazione importante per alcune attività della vita quotidiana. 2. Ai fini della presente legge, si intende per
dislessia un disturbo specifico che si manifesta con una difficoltà nell'imparare a leggere, in particolare nella
decifrazione dei segni linguistici, ovvero nella correttezza e nella rapidità della lettura. 3. Ai fini della presente
legge, si intende per disgrafia un disturbo specifico di scrittura che si manifesta in difficoltà nella realizzazione
grafica. 4. Ai fini della presente legge, si intende per disortografia un disturbo specifico di scrittura che si
manifesta in difficoltà nei processi linguistici di transcodifica. 5. Ai fini della presente legge, si intende per
discalculia un disturbo specifico che si manifesta con una difficoltà negli automatismi del calcolo e
dell'elaborazione dei numeri. 6. La dislessia, la disgrafia, la disortografia e la discalculia possono sussistere
separatamente o insieme. 7. Nell'interpretazione delle definizioni di cui ai commi da 2 a 5, si tiene conto
dell'evoluzione delle conoscenze scientifiche in materia.”
 D.M. Del 12 Luglio 2011: pone delle linee guida per il disturbo allo studio di alunni e studenti con DSA. Tale
decreto e' stato stilato da esponenti della pedagogia speciale italiana: “ Art. 1 Finalità del decreto 1. Il presente
decreto individua, ai sensi dell’art. 7, comma 2, della Legge 170/2010, le modalità di formazione dei docenti e dei
dirigenti scolastici, le misure educative e didattiche di supporto utili a sostenere il corretto processo di
insegnamento/apprendimento fin dalla scuola dell’infanzia, nonché le forme di verifica e di valutazione per
garantire il diritto allo studio degli alunni e degli studenti con diagnosi di Disturbo Specifico di Apprendimento (di
seguito “DSA”), delle scuole di ogni ordine e grado del sistema nazionale di istruzione e nelle università. Articolo
2 Individuazione di alunni e studenti con DSA 1. Ai fini di cui al precedente articolo, le istituzioni scolastiche
provvedono a segnalare alle famiglie le eventuali evidenze, riscontrate nelle prestazioni quotidiane in classe e
persistenti nonostante l’applicazione di adeguate attività di recupero didattico mirato, di un possibile disturbo
specifico di apprendimento, al fine di avviare il percorso per la diagnosi ai sensi dell’art. 3 della Legge 170/2010.
2. Al fine di garantire agli alunni e agli studenti con disturbi specifici di apprendimento di usufruire delle misure
educative e didattiche di supporto di cui all’articolo 5 della Legge 170/2010, gli Uffici Scolastici Regionali
attivano tutte le necessarie iniziative e procedure per favorire il rilascio di una certificazione diagnostica
dettagliata e tempestiva da parte delle strutture preposte. 3. La certificazione di DSA viene consegnata dalla
famiglia ovvero dallo studente di maggiore età alla scuola o all’università, che intraprendono le iniziative ad essa
conseguenti.”
 Direttiva del 27 Dicembre 2012: fa una panoramica degli alunni con BES. E' una normativa di intervento per
alunni con bisogni educativi speciali ed organizzazione territoriale per l'inclusione scolastica. La pedagogia
speciale fornisce gli strumenti teorici per intervenire in tali casi. “... ogni alunno, con continuità o per determinati
periodi, può manifestare Bisogni Educativi Speciali: o per motivi fisici, biologici, fisiologici o anche per motivi
psicologici, sociali, rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta. Va
quindi potenziata la cultura dell’inclusione, e ciò anche mediante un approfondimento delle relative competenze
degli insegnanti curricolari, finalizzata ad una più stretta interazione tra tutte le componenti della comunità
educante. In tale ottica, assumono un valore strategico i Centri Territoriali di Supporto, che rappresentano
l’interfaccia fra l’Amministrazione e le scuole e tra le scuole stesse in relazione ai Bisogni Educativi Speciali. Essi
pertanto integrano le proprie funzioni - come già chiarito dal D.M. 12 luglio 2011 per quanto concerne i disturbi
specifici di apprendimento - e collaborano con le altre risorse territoriali nella definizione di una rete di supporto
al processo di integrazione, con particolare riferimento, secondo la loro originaria vocazione, al potenziamento
del contesto scolastico mediante le nuove tecnologie, ma anche offrendo un ausilio ai docenti secondo un modello
cooperativo di intervento. Considerato, pertanto, il ruolo che nel nuovo modello organizzativo dell’integrazione è
dato ai Centri Territoriali di Supporto, la presente direttiva definisce nella seconda parte le modalità di
organizzazione degli stessi, le loro funzioni, nonché la composizione del personale che vi opera. Nella prima parte
sono fornite indicazioni alle scuole per la presa in carico di alunni e studenti con Bisogni Educativi Speciali. 1.
Bisogni Educativi Speciali (BES) L’area dello svantaggio scolastico è molto più ampia di quella riferibile
esplicitamente alla presenza di deficit. In ogni classe ci sono alunni che presentano una richiesta di speciale
attenzione per una varietà di ragioni: svantaggio sociale e culturale, disturbi specifici di apprendimento e/o
disturbi evolutivi specifici, difficoltà derivanti dalla non conoscenza della cultura e della lingua italiana perché
appartenenti a culture diverse. Nel variegato panorama delle nostre scuole la complessità delle classi diviene
sempre più evidente. Quest’area dello svantaggio scolastico, che ricomprende problematiche diverse, viene
indicata come area dei Bisogni Educativi Speciali (in altri paesi europei: Special Educational Needs). Vi sono
comprese tre grandi sotto-categorie: quella della disabilità; quella dei disturbi evolutivi specifici e quella dello
svantaggio socioeconomico, linguistico, culturale. Per “disturbi evolutivi specifici” intendiamo, oltre i disturbi
specifici dell’apprendimento, anche i deficit del linguaggio, delle abilità non verbali, della coordinazione motoria,
ricomprendendo – per la comune origine nell’età evolutiva – anche quelli dell’attenzione e dell’iperattività, mentre
il funzionamento intellettivo limite può essere considerato un caso di confine fra la disabilità e il disturbo
specifico. Per molti di questi profili i relativi codici nosografici sono ricompresi nelle stesse categorie dei
principali Manuali Diagnostici e, in particolare, del manuale diagnostico ICD-10, che include la classificazione
internazionale delle malattie e dei problemi correlati, stilata dall'Organizzazione mondiale della sanità (OMS) e
utilizzata dai Servizi Sociosanitari pubblici italiani...” “ 2.1 I CTS - Centri Territoriali di Supporto: distribuzione
sul territorio I Centri Territoriali di Supporto (CTS) sono stati istituiti dagli Uffici Scolastici Regionali in accordo
con il MIUR mediante il Progetto “Nuove Tecnologie e Disabilità”. I Centri sono collocati presso scuole polo e la
loro sede coincide con quella dell’istituzione scolastica che li accoglie. È pertanto facoltà degli Uffici Scolastici
Regionali integrare o riorganizzare la rete regionale dei CTS, secondo eventuali nuove necessità emerse in ordine
alla qualità e alla distribuzione del servizio. Si ritiene, a questo riguardo, opportuna la presenza di un CTS almeno
su un territorio corrispondente ad ogni provincia della Regione, fatte salve le aree metropolitane che, per densità
di popolazione, possono necessitare di uno o più CTS dedicati... “
 C.M. n.8 del 6 Marzo 2013 fornisce le indicazioni operative. “ AZIONI A LIVELLO DI SINGOLA
ISTITUZIONE SCOLASTICA Per perseguire tale “politica per l’inclusione”, la Direttiva fornisce indicazioni
alle istituzioni scolastiche, che dovrebbero esplicitarsi, a livello di singole scuole, in alcune azioni strategiche di
seguito sintetizzate. Fermo restando quanto previsto dall’art. 15 comma 2 della L. 104/92, i compiti del Gruppo di
lavoro e di studio d’Istituto (GLHI) si estendono alle problematiche relative a tutti i BES. A tale scopo i suoi
componenti sono integrati da tutte le risorse specifiche e di coordinamento presenti nella scuola (funzioni
strumentali, insegnanti per il sostegno, AEC, assistenti alla comunicazione, docenti “disciplinari” con esperienza
e/o formazione specifica o con compiti di coordinamento delle classi, genitori ed esperti istituzionali o esterni in
regime di convenzionamento con la scuola), in modo da assicurare all’interno del corpo docente il trasferimento
capillare delle azioni di miglioramento intraprese e un’efficace capacità di rilevazione e intervento sulle criticità
all’interno delle classi. Tale Gruppo di lavoro assume la denominazione di Gruppo di lavoro per l’inclusione (in
sigla GLI) e svolge le seguenti funzioni: 1) rilevazione dei BES presenti nella scuola; 2) raccolta e documentazione
degli interventi didattico-educativi posti in essere anche in funzione di azioni di apprendimento organizzativo in
rete tra scuole e/o in rapporto con azioni strategiche dell’Amministrazione; 3) focus/confronto sui casi, consulenza
e supporto ai colleghi sulle strategie/metodologie di gestione delle classi; 4) rilevazione, monitoraggio e
valutazione del livello di inclusività della scuola; 5) raccolta e coordinamento delle proposte formulate dai singoli
GLH Operativi sulla base delle effettive esigenze, ai sensi dell’art. 1, c. 605, lettera b, della legge 296/2006,
tradotte in sede di definizione del PEI come stabilito dall'art. 10 comma 5 della Legge 30 luglio 2010 n. 122 ; 6)
elaborazione di una proposta di Piano Annuale per l’Inclusività riferito a tutti gli alunni con BES, da redigere al
termine di ogni anno scolastico (entro il mese di Giugno)...”
 C.M. n. 4233 del 19 febbraio 2014, in cui sono presenti le linee guida per l'accoglienza e l'ntegrazione degli alunni
stranieri.
 C.M. n.2519 del 15 Aprile 2015 stabilisce le linee guida contro il bullismo ed il cyber-bullismo.
 D.L. n.66 del 13 Aprile 2017 e' scaturito dalla legge delega 107 del 2015 sulla buona scuola. “... Art. 1 Principi e
finalita' 1. L'inclusione scolastica: a) riguarda le bambine e i bambini, le alunne e gli alunni, le studentesse e gli
studenti, risponde ai differenti bisogni educativi e si realizza attraverso strategie educative e didattiche finalizzate
allo sviluppo delle potenzialita' di ciascuno nel rispetto del diritto all'autodeterminazione e all'accomodamento
ragionevole, nella 4 prospettiva della migliore qualita' di vita; b) si realizza nell'identita' culturale, educativa,
progettuale, nell'organizzazione e nel curricolo delle istituzioni scolastiche, nonche' attraverso la definizione e la
condivisione del progetto individuale fra scuole, famiglie e altri soggetti, pubblici e privati, operanti sul territorio;
c) e' impegno fondamentale di tutte le componenti della comunita' scolastica le quali, nell'ambito degli specifici
ruoli e responsabilita', concorrono ad assicurare il successo formativo delle bambine e dei bambini, delle alunne e
degli alunni, delle studentesse e degli studenti. 2. Il presente decreto promuove la partecipazione della famiglia,
nonche' delle associazioni di riferimento, quali interlocutori dei processi di inclusione scolastica e sociale. Art. 2
Ambito di applicazione 1. Le disposizioni di cui al presente decreto si applicano esclusivamente alle bambine e ai
bambini della scuola dell'infanzia, alle alunne e agli alunni della scuola primaria e della scuola secondaria di
primo grado, alle studentesse e agli studenti della scuola secondaria di secondo grado con disabilita' certificata ai
sensi dell'articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, al fine di promuovere e garantire il diritto all'educazione,
all'istruzione e alla formazione. 2. L'inclusione scolastica e' attuata attraverso la definizione e la condivisione del
Piano Educativo Individualizzato (PEI) quale parte integrante del progetto individuale di cui all'articolo 14 della
legge 8 novembre 2000, n. 328, come modificato dal presente decreto. ...”

Che cosa sono i BES? Una macrocategoria che comprende dentro di se' tutte le possibili difficolta'
educativo-apprenditivo. E' una difficolta' evolutiva causata da un funzionamento problematico per il
soggetto in termini di:
 danno, ostacolo al suo benessere
 limitazione della sua liberta' e stima sociale, indipendente dall'eziologia (bio-strutturale,
familiare, ambientale, culturale, etc..) e che necessita di educazione individuale
specializzata

Enucleazione di alcune categorie di BES:


 disabilita'
 alunni con DSA
 alunni immigrati
 alunni con difficolta' e disturbi dell'apprendimento
 alunni con disturbi dell'alimentazione
 alunni ospedalizzati o in condizione di istruzione domiciliare
 alunni con disagi legati al contesto socio-economico-culturale di appartenenza

La pedagogia speciale e la didattica speciale sono due rami scientifici che attraverso la ricerca e la
sperimentazione, pervengono da modelli operativi offerti ai docenti affinche' possano intervenire su
quei fenomeni. Gli insegnanti traggono spunto dai suggerimenti teorici e danno vita alla didattica che
possa aiutare gli alunni che presentano dei problemi. Ogni alunno e' unico ed irripetibile anche
all'interno di quel quadro/modello operativo. Il docente puo' assumere alcune nozioni, informazioni dai
modelli, ma e' egli stesso ricercatore e si chiede quali azioni poter compiere per poter favorire l'alunno
disabile, ad apprendere.
Esistono i seguenti tipi di didattica:
 esponenziale
 metacognitiva
 speciale (e qui entra in gioco il docente specializzato)
Per la macrocategoria A, in base alla legge, e' previsto l'affiancamento del docente curricolare con il
docente specializzato.Quando la normativa non prevede il supporto dell'insegnante di sostegno, deve
essere il docente curricolare ad affrontare la situazione di un BES, per tale motivo il docente deve
essere competente, perche', una volta che si trovera' davanti ad un alunno con difficolta', non potra'
pensare da “disciplinarista”, perche' ci si trova di fronte ad un soggetto con dei bisogni particolari e non
ci si puo' approcciare col metodo classico.

Le discipline, la cultura, la conoscenza, sono le chiavi di lettura della realta', quindi bisogna permettere
a tutti dipoter essere utilizzate per, appunto, affrontare la realta' quotidiana e la vita. Il piano educativo
individualizzato (o PEI) e' l'attivita' curriculare dei BES e deve essere proposta da:
1. consiglio di classe per la macrocategoria A
2. docente per le macrocategorie B e C, per cui spetta al docente disciplinarizzato e specializzato
capire quali azioni compiere.
Come andiamo ad interpretare l'alunno oggi rispetto al passato? Centrale e' il concetto di
funzionamento educativo ed apprenditivo, che e' il risultato globlae delle reciproche influenze
esercitate durante il percorso educativo ed evolutivo da:
 condizioni fisiche (distanza biologica, crescita del corpo)
 contesti in cui l'alunno cresce (ambiente ed esperienza)
 caratteristiche personali (autostima, identita', motivazione, etc..)
Fra i banchi di scuola, si vengono a creare processi importanti che aiutano a sviluppare l'autostima, etc..

Gli alunni che evidenziano un bisogno educativo speciale, non sempre sono quelli in possesso di una
certificazione, ma nel concetto di BES rientrano tutti i disturbi/difficolta' di apprendimento,
comportamento ed altre problematicita' riconducibili a ragioni psicologiche ed ambientali. A cause
endogene ed esogene che compromettono il funzionamento apprenditivo dello studente. Puo' capitare
un momento nel corso dell'anno scolastico, in cui un alunno che fino a quel momento non aveva mai
manifestato alcuna caratteristica BES, presenti delle difficolta' nell'apprendimento, dei tratti BES,
dovute, ad esempio, ad un lutto, ad un disagio fisico e/o psicologico.
I BES sono anche espressi in termini generazionali: la formazione e' utile per sviluppare la mente, per
formare le chiavi di lettura della realta'. La formazione non sefve solo a trovare lavoro, ma e' necessaria
per l'affermazione della persona umana che non avra' difficolta' nel rapporto con gli altri. Per cui la
formazione e' un diritto e va garantita a tutti.

Il concetto di Bisogno Educativo Speciale, si basa su una visione globale della persona con riferimento
al modello ICF della classificazione internazionale del funzionamento, disabilita' e salute (International
Functioning, disability and health) fondata sul profilo di funzionamento e sull'analisi del contesto,
come definito dall'OMS nel 2002.

Cosa e' l' ICF?


La Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF) fa parte
della Famiglia delle Classificazioni Internazionali dell’OMS insieme all’International Statistical
Classification of Diseases and Related Health Problems 10th revision (ICD-10), all’International
Classification of Health Interventions (ICHI), e alle Classificazioni derivate. L'ICF fornisce sia un
linguaggio unificato e standard, sia un modello concettuale di riferimento per la descrizione della
salute e degli stati ad essa correlati (ICF, WHO 2001, pag 3).
Scopi di ICF
La Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute:
fornisce una base scientifica per la comprensione e lo studio della salute come interazione tra
individuo e contesto;
costituisce un linguaggio comune per la descrizione della salute e delle condizioni ad essa
correlate, allo scopo di migliorare la comunicazione fra operatori sanitari, ricercatori,
pianificatori, amministratori pubblici e popolazione, incluse le persone con disabilità;
permette il confronto fra dati raccolti in Paesi, discipline sanitarie, servizi e momenti diversi;
fornisce una modalità sistematica per codificare le informazioni nei sistemi informativi
sanitari.
ICF può essere utilizzata in tutti quei sistemi che hanno attinenza con la salute, come ad esempio
quello della previdenza, del lavoro, dell'istruzione, delle assicurazioni, dell'economia, della
legislazione e quelli che si occupano delle modifiche ambientali. Per farlo è necessario definire
protocolli di utilizzo di ICF come linguaggio e come modello descrittivo dello stato di salute. Il
manuale fornisce delle linee guida su come applicare i concetti e il modello concettuale di ICF nella
pratica, per esempio nella codifica e negli usi statistici, nella documentazione clinica, nell'ambito
scolastico e nelle politiche sociali. Il manuale descrive i casi d'uso di ICF e mette insieme le esperienze
derivate dall'applicazione della classificazione in diversi paesi e ambiti.

Aspetti innovativi della classificazione ICF

Il primo aspetto innovativo della classificazione emerge chiaramente nel titolo della stessa. A
differenza delle precedenti classificazioni (ICD e ICIDH), dove veniva dato ampio spazio alla
descrizione delle malattie dell’individuo, ricorrendo a termini quali malattia, menomazione ed
handicap (usati prevalentemente in accezione negativa, con riferimento a situazioni di deficit)
nell’ultima classificazione l’OMS fa riferimento a termini che analizzano la salute dell’individuo in
chiave positiva (funzionamento e salute).
L’ICF vuole fornire un’ampia analisi dello stato di salute degli individui ponendo la correlazione fra
salute e ambiente, arrivando alla definizione di disabilità, intesa come una condizione di salute in un
ambiente sfavorevole.
L’analisi delle varie dimensioni esistenziali dell’individuo porta a evidenziare non solo come le
persone convivono con la loro patologia, ma anche cosa è possibile fare per migliorare la qualità della
loro vita.
Il concetto di disabilità introduce ulteriori elementi che evidenziano la valenza innovativa della
classificazione: universalismo, approccio integrato e modello multidimensionale de funzionamento e
della disabilita'. L'applicazione universale dell' ICF emerge nella misura in cui la disabilità non viene
considerata un problema di un gruppo minoritario all’interno di una comunità, ma un’esperienza che
tutti, nell’arco della vita, possono sperimentare. L’OMS, attraverso l’ICF, propone un modello di
disabilita' univresale applicabile a qualsiasi persona, normodotata o diversamente abile.
L'appreoccio integrato della classificazione si esprime tramite l’analisi dettagliata di tutte le
dimensioni esistenziali dell’individuo,poste sullo stesso piano, senza distinzioni sulle possibili cause.
Il concetto di disabilità preso in considerazione dall’Organizzazione Mondiale della Sanità vuole
evidenziare non i deficit e gli handicap che rendono precarie le condizioni di vita delle persone, ma
vuole essere un concetto inserito in un continuum multidimensionale. Ognuno di noi può trovarsi in un
contesto ambientale precario e ciò può causare disabilità. E’ in tale ambito che l’ICF si pone come
classificatore della salute, prendendo in considerazione gli aspetti sociali della disabilità: se, ad
esempio, una persona ha difficoltà in ambito lavorativo, ha poca importanza se la causa del suo
disagio è di natura fisica, psichica o sensoriale. Ciò che importa è intervenire sul contesto sociale
costruendo reti di servizi significativi che riducano la disabilità.

La direttiva del 27 Dicembre 2012 sposta l'attenzione dalle procedure di certificazione all'analisi dei
bisogni di ciascuno studente ed estende in modo definitivo a tutti gli studenti in difficolta' il diritto, ed
il dovere per tutti i docenti, alla personalizzazione dell'apprendimento, anche attraverso il diritto ad
usufruire di misure dispensative e strumenti compensativi, nella prospettiva di una presa in carico
complessiva ed inclusiva di tutti gli alunni. In questo senso ogni alunno, con continuita' o per diversi
periodi, puo' manifestare bisogni BES per motivi fisiologici, fisici, biologici, psicologici, sociali,
rispetto ai quali e' necessario che la scuola offra una risposta adeguata e personalizzata. Va quindi
potenziata la cultura dell'inclusione anche mediante un approfondimento delle relative competenze
degli insegnanti curricolari, finalizzata ad una piu' stretta interazione tra tutte le componenti della
comunita' educante. C'e', quindi, da interrogarsi sulla cultura dell'inclusione: se noi siamo convinti di
tale cultura, allora siamo portatori di tale cultura e ci permette una stretta integrazione fra tutti i
componenti della comunita' educante. Con la cultura dell'inclusione, diventiamo “empatici” con lo
studente disabile e la funzione del docente, che si identifica nei bisogni o nel modo di essere e sentire
dello studente disabile, diventa una funzione “servente”, cioe' fino a che punto il docente gli serve o
non gli serve.
Ricordiamo il concetto di alunno come soggetto unico ed irripetibile, anche avere caratteristiche BES e'
prova del nostro essere unici ed irripetibili. La disabilita' e' una condizione della natura umana che si
puo' verificare in qualsiasi momento della nostra vita (dal concepimento all'eta' senile).

Il ruolo del docente.


Il docente viene considerato sotto una nuova ottica, in cui l'insegnamento subisce delle trasformazioni
radicali. Il docente assume la funzione di “regista”, “ricercatore”, e' uno scopritore. All'alunno non puo'
essere impartita una lezione finalizzata all'apprendimento passivo, ma deve essere coinvolto in un
apprendimento circolare e reciproco, nel quale si ha uno scambio di contenuti nozionistici, in cui vige
la regola del confronto e dell' interazione. E' necessario spostare l'attenzione dall'insegnamento
all'alunno ed alla relazione, sforzandosi di sviluppare un clima di accettazione e di fiducia: in questo
modo l'ambiente educativo diventa un ambiente di apprendimento e di inclusione, attento alla persona e
nel pieno rispetto della liberta' dell'essere umano, garantendo il successo formativo di tutti, nessuno
escluso.

La scuola inclusiva
Costruisce un contesto che permette a tutti gli alunni, tenendo conto delle loro diverse caratteristiche
sociali, biologiche e culturali, non solo di sentirsi parte attiva del gruppo di apprtenenza, am anche di
raggiungere il massimo livello possibile in fatto di apprendimento. In una prospettiva di inclusione non
solo scolastica, ma anche sociale, la sfida da vincere e quindi, l'individuazione dei bisogni diventa piu'
complessa, in quanto gli stessi diventano ancora piu' speciali non solo in relazione al deficit, ma anche
in relazione alle richieste che l'ambiente pone ad ogni soggetto. I siatemi classici di classificazione non
valorizzavano i termini “partecipazione”, ma si fermavano su aspetti noziologici (malattia, etc..). L'ICF
si basa, come riportato precedentemente, sui concetti funzionali del corpo e del suo funzionamento.

Disabilita', disturbi evolutivi specifici e svantaggio socio-culturale linguistico


In questa sezione si parlera' di:
 disabilita'
 disturbi evolutivi specifici
 svantaggio socio-culturale linguistico
Nel 1980, l'OMS, nel documento International Classification of impairment, disabilities and handicaps
(ICIDH) ha fornito una definizione di “disabilita'”, effettuando la distinzione fra:
 menomazione (perdita o anormalita' a carico di una struttura o di una funzione psicologica,
fisiologica o anatomica)
 disabilita' (qualsiasi limitazione o perdita conseguente a menomazione, della capacita' di
compere una attivita' nel modo o nell'ampiezza considerati normali)
 handicap (condizione di svantaggio conseguente a menomazione o disabilita' che impedisce
l'adempimento del ruolo normale in relazione a sesso, eta' e fattori socio-culturali)
Ne consegue che la distinzione fra menomazione, disabilita' ed handicap e' intepretata in termini di
relazione causa/effetto: la menomazione determina la disabilita', la disabilita' causa l'handicap, ma non
c'e' una consequenzialita' fra le tre.
La menomazione e' permanente; la disabilita' dipende dall'attivita' che si deve svolgere; l'handicap
esprime lo svantaggio che si ha nei riguardi dei normodotati.
Alcune tipologie di disabilita' vengono trattate nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali
(noto come DSM), e si tratta di uno dei sistemi monografici per i disturbi mentali piu' utilizzati dal
medici, psichiatri e psicologi di tutto il mondo, sia nella pratica clinica, sia nell'ambito della ricerca.
L'ultima edizione e' il DSM-5 (2013).
Particolari tipi di disabilita' sono:
 sindrome di Down
 ritardo mentale disabilita' intellettive
 autismo
 epilessia
L'intervento educativo e' condizionato, e' un condizionamento perche' l'intervento educativo e'
condizionante. In base a tale affermazione, il docente deve formare un cittadino che sia libero,
responsabile e capace di pensare, sia esso portatore di disabilita' o meno. Per quanto riguarda la
disabilita', i punti guida li fornisce la costituzione italiana: aborrire la violenza, la prevaricazione
sull'altro, etc.., e favorisce la cooperazione, il rispetto, l'educazione, l'uguaglianza, etc... Anche i saperi
disciplinari vengono interpretati “a maglie larghe”, intervenendo anche sul modo di pensare delle
persone. Trovandosi di fronte ad una nuova disabilita', il docente ha l'obbligo di studiare ed informarsi
al fine di affrontare, al meglio delle sue capacita', le situazioni di cui prima non aveva conoscenza.
Esistono sindromi che riguardano il settore percettivo dei 5 sensi, alcune sono macro ed altre sono
affievolite, ma la responsabilita' di affrontare tali sindromi (e le situazioni che ne conseguono) ricadono
sugli insegnanti curricolari e/o specializzati. Per cui i docenti devono essere tutti competenti, perche'
possono rovinare o meno, una persona.

La sindrome di Down
La sindrome di Down non e' una malattia e non puo' essere curata. E' una caratteristica della persona,
che la accompagna per tutta la vita. E' una condizione caratterizzata dalla presenza, nel patrimonio
genetico individuale, di tre copie , anzicche' due, del cromosoma 21, per cui e; una condizione genetica.
Questo particolare assetto cromosomico comporta un ritardo di grado variabile dello sviluppo mentale
e fisico della persona. Esistono tre tipi di anomalie cromosomiche responsabili della sindrome di
Down:
1. trisonomia libera: e' la sindrome piu' frequente e consiste nell'avere in tutte le cellule
dell'organismo 3 cromosomi 21, invece di 2. Cio' vuol dire che il soggetto, invece di avere 46
cromosomi (23 da parte della madre e 23 da parte del padre), ne ha 47.
2. trisonomia della traslocazione: avviene quando una parte del cromosoma 21 si stacca e si
attacca ad un altro cromosoma, modificando in tal modo, il cromosoma genetico.
3. Mosaicismo: e' la condizione piu' rara e prevede la presenza, nell'organismo della persona
affetta, sia di cellule normali con 46 cromosomi, sia cellule con 47 cromosomi. Di conseguenza,
l'andamento alternato prende il nome di mosaicismo. Tale situazione (si presume) deriva da una
mutazione avvenuta in alcune cellule dell'embrione durante le prime fasi dello sviluppo.
L'effetto finale delle tre anomalie e', in ogni caso, identico” nelle cellule dei vari organi, il cromosoma
21 e' presente in triplica copia, configurando la sindrome di Down.
Non e' ancora possibile riconoscere con precisione a cosa siano dovute le alterazioni cromosomiche che
portano alla sindrome di Down. L'esposizione dei genitori, in particolar modo della madre, a diversi
fattori di rischio chimico-fisico (quali residenza in zone prossime a discariche, esposizione a radiazioni
ionizzanti, tabagismo o uso di contraccettivi orali). Si ritiene, in generale, che l'insorgenza delle
anomalie cromosomiche sia un fenomeno “naturale”, in qualche modo legato alla fisiologia della
riproduzione umana. Comunque, il principale fattore di rischio sembra essere l'eta' materna al momento
del concepimento. Esistono due tipi di test che possono essere eseguiti prima della nascita del bambino:
 test di screening (esame del sangue ed ecografia)
 test diagnostici per la sindrome di Down prelievo dei villi coriali, esame del sangue
cordonale ed amniocentesi)
Possono essere dati suggerimenti sulla inclusione degli alunni con sindrome di Down.

Ritardo mentale e disabilita' intellettive


Nel DSM-5, il termine “ritardo mentale” e' stato sostituito da “disabilita' intellettive”, disturbo dello
sviluppo intellettivo. Il riferimento e' ad un disturbo con insorgenza nell'eta' evolutiva che include
deficit intellettivi ed adattivi negli ambiti della concettualizzazione, socializzazione e delle capacita'
pratiche. I criteri diagnostici sono:
 deficit delle funzioni intellettive (quali ragionamento, problem solving, pensiero astratto,
apprendimento scolastico ed apprendimento dall'esperienza) confermato sia da valutazione
clinica che dalla somministrazione di un test di intelligenza individuale
 deficit nel funzionamento adattivo consistente in un mancato raggiungimento degli standard di
sviluppo e socio-culturali per l'indipendenza personale e la responsabilita' sociale. Senza
supporto continuativo, i deficit adattivi, limitano il funzionamento in una o piu' attivita' della
vita quotidiana, quali la comunicazione, la partecipazione sociale e la vita indipendente nei
diversi ambiti, quali la casa, il lavoro e la comunita'
 insorgenza di deficit intellettivi ed adattivi nell'eta' evolutiva
Nel DSM-4, i livelli di disabilita' erano suddivisi nel seguente modo:
1. lieve (QI 50/55-70) 85%
2. medio (QI 34/40 – 50/55) 10%
3. grave (QI 20/25 – 35/40) 3-4%
4. profonda (QI <20/25) 1-2%
Nel DSM-5, la classificazione e' stata modificata nel seguente modo:

Mild – dominio concettuale a) Non vi sono differenze significative in eta' prescolare


b) Bambini in eta' scolare ed adulti: in relazione all'eta', si
avranno difficolta' nell'apprendimento misto, orientamento
spazio-tempo con supporto in una o piu' di queste aree
c) Nell'adulto: pensiero astratto, funzioni esecutive e
memoria a breve termine, compromesse
d) Difficolta' nel problem solving
Mild – dominio sociale - Immaturita' nelle interazioni sociali
- Linguaggio, comunicazionee capacita' di conversazione
immature per l'eta'
- Difficolta' nella regolazione emozionale e
comportamentale
- Limitata comprensione dei rischi in situazioni sociali
(rischio di essere manipolati e sfruttati)
Mild – dominio pratico  Funzionamento nella cura di se', generalmente
discreto
 In eta' adulta, necessitano di supporto per attivita' di
vita quotidiane piu' complesse (quali acquisto di
generi alimentari, cura della casa e dei figli,
preparazione dei pasti, gestione del denaro)
 Lavoro meglio se non comprende attivita'
intellettuali
 Supporto per prendere decisioni in ambito legale e
di salute

1. Durante lo sviluppo, anche in eta' prescolare, Moderate – dominio concettuale


deficit nel linguaggio e pre-requisiti per
l'apprendimento
2. Bambini in eta' scolare ed adulti: progressi negli
apprendimenti molto lenti, orientamento temporale
ed uso del denaro marcatamente limitato
3. Adulto: livelli di apprendimento equivalente a
quello della scuola elementare, supporto necessario
per le competenzeaccademiche sia in ambito
lavorativo sia in quello personale
 Nel corso dello sviluppo, notevoli differenze dai Moderate – dominio sociale
pari, nel comportamento sociale e comunicativo
 Linguaggio semplificato per l'eta'
 Buone capacita' nei rapporti familiari e con gli
amici, nell'intraprendere relazioni sentimentali
 Limitata capacita' di giudizio sociale e nel prendere
decisioni (necessita' di assistenza)
 Supporto necessario nelle attivita' lavorative
1. Funzionamento nella cura di se': possibile per
alimentazione, igiene, abbigliamento (prima e'
necessario un esteso periodo di addestramento) Moderate – dominio pratico
2. Eta' adulta: possono essere occupati, in ambito
lavorativo, in attivita' che richiedono capacita'
comunicative ed intellettuali limitate (supporto dei
colleghi e supervisione)
3. Puo' essere raggiunta la partecipazione ad attivita'
ricreazionali
4. I comportamenti disadattivi possono creare
problemi in ambito sociale

Severe/Profound – dominio concettuale SEVERE: scarse capacita' di comprendere il linguaggio


scritto ed I concetti riguardanti I numeri, la
quantita' di tempo ed il denaro. SI ha bisogno di
un supporto esteso per tutta la vita da parte dei
caregivers

PROFOUND: Uso di oggetti per la cura di se' e per attivita'


di gioco. Alcune competenze visuo/spaziali:
puo' essere raggiunta la capacita' di accoppiare
ed ordinare sulla base di caratteristiche fisiche.
Presenza di deficit motori e sensoriali pregiudica
anche il raggiungimento di tali competenze
Severe/Profound – dominio sociale SEVERE: linguaggio in produzione molto
limitato.Comprendono linguaggio semplice e
comunicazione gestuale. I rapporti con I familiare sono
fonte di piacere

PROFOUND: Limitatissima comprensione della


comunicazione lingiustica e gestuale (possono comprendere
solo alcune semplici istruzioni e gesti). Espressione dei
propri desideri attraverso modalita' non verbali. Risposte ad
interazioni sociali attraverso posture e manifestazioni
emotive. La presenza di deficit sensortiali e fisici, puo'
compromettere le abilita' sociali, gia di per se' limitate
Severe/Profound – dominio pratico SEVERE: Linguaggio in produzione molto limitato.
Linguaggio e comunicazioni focalizzati sul “qui” ed “ora”.
Comprendono un linguaggio semplice ed una
comunicazione gestuale. I rapporti con I familiari sono fonte
di piacere

PROFOUND: Limitatissima comprensione della


comunicazione linguistica e gestuale. L'espressione dei
propri desideri avviene attraverso modalita' non verbali.
Risposte ad interazioni sociali attraverso posture e
manifestazioni emotive. La presenza di deficit sensortiali e
fisici, puo' compromettere le abilita' sociali, gia di per se'
limitate

L'eziologia
E' quella parte della scienza che si occupa di ricercare le cause che provocano ogni singola malattia o
patologia. Per tali sindromi, l'eziologia studia:
- le cause biologiche:
 genetiche
 prenatali
 perinatali
 postnatali
- associazione con l'autismo
Le cause acquisite sono:
1. Rischi prenatali: rosolia, toxoplasmosi, sifilide, citomegalovirus, HIV; incompatibilita' del
sangue materno e fetale; malnutrizione materna; tossicita' in gravidanza da uso di tabacco,
droghe, medicinali, alcool; malformazioni del sistema nervoso centrale (malformazioni SNC)
2. Rischi perinatali: prematurita' ed asfissia
3. Rischi postnatali: encefalite, meningite; traumi e tumori celebrali; cause cerebrovascolari
4. Lesioni cerebrali
Esistono degli indicatori precoci di rischio, che possono essere elencati, come di seguito:
 familiarita' per DI
 Sofferenza perinconatale/prematurita'
 ritardo acquisizione motorie e linguistiche (ad esempio produzione linguistica inferiore a 10
parole a 24 mesi)
 immaturita' gioco simbolico
 significative difficolta' nel percorso di apprendimento scolastico
 dipendenza dalle figure genitoriali
Gli esami diagnostici per rilevare tali deficit sono: prima di tutto una anamnesi accurata e l'analisi
dell'albero genealogico, poi l'esame dismorfologico pediatrico, l'osservazione delle curve di crescita,
l'esame neurologico, lo screening su vista ed udito, L'RMN encefalo, la TAC o RX al cranio, una
valutazione genetica con cariotipo, X-fragile, studio per anomalie subtelomeriche, ed infine lo
screening metabolico (acidi grassi urinari, aminoacidi sierici/urinari, acido lattico sierico, ammoniemia,
emogasanalisi, funzione tioridea).
Una diagnosi precoce consente di identificare precocemente i percorsi di follow-up medico-
riabilitativo, di mettere in atto degli interventi mirati sfruttando la plasticita' massima nei primi 5 anni
di vita, e spesso evita problemi comportamentali secondari a difficolta' nel comprendere le cause delle
difficolta' di soggetti.

L'AUTISMO
E' il disturbo pervasivo dello sviluppo piu' largamente conosciuto (PDD). Nel DMS-5 del 2013, sono
stati introdotti diversi cambiamenti, per cui i criteri diagnostici autistici si differenziano notevolmente
rispetto a quelli del DSM-4:

DSM-4 DSM-5
Si parlava di d”Disturbi Pervasivi dello Sviluppo” che si Prima categoria “ Disturbi dello Spettro Autistico (ASD)”:
distinguevano in: distubo autistico, di Asperger, disintegrativo della
fanciuillezza, dello sviluppo non specificato.
 disturbo autistico
 disturbo di Asperger La sindrome di Rett, che viene posta fra I disturbi
 disturbo disintegrativo della fanciullezza (o neurologici.
disturbo di Heller)
 disturbo disintegrativo dello sviluppo non Disturbo della comunicazione sociale: le cui caratteristiche
altrimenti specificato si sovrappongono parzialmente con quelle dello spettro
 sindrome di Rett autistico,poiche' la diagnosi di disturbo della comunicazione
richiede la presenza di una “menomazione del linguaggio
pragmatico” e di una “menomazione nell'uso sociale della
comunicazione verbale e non-verbale”, tuttavia la presenza
di interessi rigidi e ripetitivi e' un criterio di esclusione per
questa diagnosi ed un criterio essenziale per la diagnosi
dello spettro autistico.

La necessita' di indicare la gravita' della sintomatologia del


disturbo dello spettro autistico su una scala di tre punti

I sintomi vengono raggruppati in due categorie:

1. deficit persistente nella comunicazione sociale e


Raggruppamento dei sintomi sin 3 categorie: nell'interazione sociale (comprende sia le difficolta'
sociali che quelle di comunicazione)
1. menomazione della reciprocita' sociale; 2. comportamenti e/o interessi e/o attivita' ristrette e
2. menomazione del linguaggio/comunicazione; ripetitive
3. repertori ristretti e ripetitivi di interessi/attivita'
La diagnosi di disturbo dello spettro autistico richiede
Ognuna delle categorie comprendeva almeno 4 sintomi. Per almeno 3 sintomi nella capacita' di “deficit delle
effettuare una diagnosi del disturbo pervasivo dello comunicazioni sociali” e di almeno due in quello dei
sviluppo, era necessario fossero presenti almeno 6 sintomi, “comportamenti ripetitivi”
di cui due nella prima categoria ed almeno uno per ciascuna
delle altre due categorie
Quindi, il DSM-5 elimina la dicitura “ritardo/menomazione del linguaggio” fra i sintomi necessari per
la diagnosi ed introduce la “sensibilita' insolita agli stimoli sensoriali” come sintomatologia compresa
fra gli stimoli ripetitivi.
Il disturbo dello spettro autistico deve soddisfare i criteri A,B,C e D:
A. Deficit persistente nella comunicazione sociale e nell'interazione sociale in diversi contesti
B. Pattern di comportamenti, interessi o attivita' ristretti e ripetitivi
C. I sintomi devono essere presenti nella prima infanzia
D. L'insieme dei sintomi deve limitare e compromettere le attivita' quotidiane.

Il Deficit persistente nella comunicazione sociale e nell'interazione sociale in diversi contesti e'
manifestato da tutti e tre i seguenti punti:
 deficit nella reciprocita' socio-emotiva che va da un approccio sociale anormale e insuccesso
nella normale conversazione (botta e risposta) attraverso una ridotta condivisione di interessi,
emozioni, percezioni mentali e reazioni, fino alla totale mancanza di iniziativa nell'interazione
sociale
 deficit nei comportamenti comunicativi non verbali usati per l'interazione sociale, da una scarsa
integrazione delle comunicazioni verbali e non verbali, attraverso anormalita' del contatto
oculare e nel linguaggio del corpo, o deficit nella comprensione e nell'uso della comunicazione
non verbale, fino alla totale mancanza di gestualita' ed espressivita' facciale
 deficit nella creazione e mantenimento di relazioni appropriate a livello di sviluppo (non
comprese quelle con i genitori ed i caregivers), che vanno da difficolta' nell'adattare il
comportamento ai diversi contesti sociali attraverso difficolta' nella condivisione del gioco
immaginativo e nel fare amicizie fino all'apparente assenza di interesse per le persone.
Il Pattern di comportamenti, interssi o attivita' ristretti e ripetitivi sono manifestati attraverso almeno
due dei seguenti punti:
1. linguaggio, movimenti o uso stereotipato o ripetitivi, come semplici stereotipie motorie,
ecolalia, uso ripetitivo di oggetti o frasi idiosincratiche
2. eccessiva fedelta' alla routine, comportamenti verbali e non verbali riutilizzati o eccessiva
riluttanza ai cambiamenti: rituali motori, insistenza a fare la stessa strada o mangiare lo stesso
cibo, domande incessanti o estremo stress a seguito di piccoli cambiamenti
3. interessi altamenti ristrtti e fissati, anomali in intensita' ed argomenti: forte attaccamento o
interesse per oggetti insoliti
4. iper o ipo-reattivita' agli stimoli sensoriali o interessi insoliti versoaspetti sensoriali
dell'ambiente: apparente indifferenza verso caldo/freddo/dolore, risposta avversa a suoni o
consistenze specifiche, eccessivo annusare o toccare gli oggetti, attrazione per luci o oggetti
roteanti

I sintomi devono essere presenti nella prima infanzia: possono non diventare completamente
manifesti, finche' le esigenze sociali non oltrepassano il limite delle capacita'.
L' insieme dei sintomi deve limitare e compromettere il funzionamento quotidiano.

I 3 limiti di gravita':
Livello 3: richiede supporto molto sostanziale perche' sono presenti gravi deficit nella comunicazione
sociale, verbale e non verbale. Sono presenti comportamenti ristretti e ripetitivi che interferiscono
marcatamente con il funzionamento in tutte le sfere.
Livello 2: richiede supporto sostanziale in quanto vi e' un deficit marcato nella comunicazione sociale,
verbale e non verbale. L'impedimento sociale appare evidente anche quando e' presente supporto,
iniziativa limitata, preoccupazioni, rituali fissi e ripetitivi, stress e frustrazioni appaiono quando
vengono interrotti ed e' difficile ridirigere l'attenzione.
Livello 1: richiedono supporto. Hanno una comunicazione sociale senza supporto, i deficit nella
comunicazione causano impedimenti che possono essere notati, il soggetto ha difficolta' ad iniziare
interazioni sociali, rituali ed interessi ripetitivi causano interferenze significative in uno o piu' contesti.

Le indagini statistiche indicano che l'autismo tende a riguardare una percentuale sempre piu' alta della
popolazione mondiale. Per fronteggiare i problemi che tale sindrome comporta, sono stati elaborati
alcuni programmi di intervento che suggeriscono determinate tecniche da utilizzare. Tali tecniche si
differenziano sulla base delle teorie alle quali si ispirano e che interpretano il disturbo autistico
assumendo un'ottica particolare, e possono essere raggruppate in base all'approccio al problema:
 approccio psicodinamico (riconducibile alla teoria psicoanalitica)
 approccio che enfatizza gli aspetti biochimici coinvolti nell'autismo, sfociando nella proposta
della somministrazione di farmaci per contenere i sintomi maggiormente disturbanti, quali
iperattivita', aggressivita', autolesionismo, ansia
 approccio di tipo cognitivo-comportamentale che si ispira agli studi di Skinner (1953) e di
Wolpe (1859), i cui principi sono considerati validi ai fini della modificazione dei
comportamenti inappropriati e socialmente problematici.

Programma TEACCH
Il programma TEACCH o trattamento ed Educazione di bambini con Autismo ed handicap nella
Comunicazione, e' un programma di stato sorto intorno agli anni '60, nell'ambito del Dipartimento di
Psichiatria dell' Universita' della Carolina del Nord, e si e' esteso progressivamente in tutta l'America,
in Asia, in Giappone, in Belgio ed in UK.
Questo programma muove dal presupposto che per ogni caso necessita adottare un trattamento
individualizzato, basato su una valutazione diagnostica e funzionale che permette di acquisire dati
relativi al livello di sviluppo ed alle capacita' dei bambini. Nel processo valutativo devono essere
coinvolti gli insegnanti, i genitori e tutte le figure che ruotano attorno al bambino. In altre parole, e' la
valutazione che permette la realizzazione di un PEI; a livello diagnostico, avviene con la
somministrazione di test sull' intelligenza e sullo sviluppo. Gli strumenti di analisi, costruiti
appositamente da Chapel Hill e distribuiti in tutto il mondo, sono il PEP/R-Psyco-educational Profile
Revised e l' AAPEP-Adolescent and Adult Psyco-educational Profile che, utili alla valutazione
funzionale dello sviluppo, forniscono dati relativi al funzionamento di importanti aree, quali
imitazione, percezione, attivita' fino-motorie, integrazione occhio-mano, prestazione cognitivo/verbale.
Il PEP/R serve, in maniera specifica, ad identificare i livelli di cooperazione ed interesse nei riguardi
del materiale usato, i livelli di linguaggio e i modi sensoriali. L' AAPEP fornisce, invece, una
valutazione delle abilita' effettive e potenziali possedute dagli adolescenti e dagli adulti autistici.
PEDAGOGIA SPECIALE (Prof. Cottini)
Prima lezione (23/04 mattina)
Testo consigliato: DISATTICA SPECIALE E INCLUSIONE LUCA SCOLASTICA (L. Cottini)

Il tema che tratteremo è quello della pedagogia e didattica speciale dell'inclusione, quindi innanzitutto ci
chiediamo: che cos'è l'inclusione? Come interviene nell'attività che sviluppiamo nelle nostri classi?
Con l'inclusione dovremo tutti fare i conti, qualsiasi disciplina si insegna, perché le classi sono popolate da
diversità abbastanza consistenti e con le quali è necessario fare i conti sia che si svolga la professione di
insegnante curricolare che quella di insegnante specializzato per il sostegno. Quindi, cercheremo di
affrontare questi temi in maniera abbastanza precisa mettendo in campo diversi elementi.
Innanzitutto cerchiamo di entrare in questo tema: INCLUSIONE.
Il percorso dell’integrazione scolastica ha più di 40 anni: inizia con la legge 517 del 1977 che in pratica ha
abolito le scuole speciali e le classi differenziali. Si è parlato per molti anni di integrazione scolastica,
pensando soprattutto agli allievi con disabilità, adesso invece si parla di inclusione.
Per prima cosa, per affrontare il tema dell'inclusione, dobbiamo un po' chiarire se con integrazione e
inclusione stiamo parlando dello stesso concetto e abbiamo solo fatto un innovazione terminologica, ma
abbiamo mantenuto assolutamente inalterata la sostanza, oppure se il passaggio dall'integrazione
all'inclusione anche dal punto di vista concettuale ci proietta su una dimensione differente. Questo è il punto
che dobbiamo chiarire: abbiamo fatto solo un cambiamento terminologico, oppure anche dal punto di vista
concettuale c’è qualcosa di diverso? Poi, una volta appurato questo, cercheremo di vedere perché
l’inclusione è così importante per tutti gli insegnanti e non si può fare a meno di queste tematiche.
L’inclusione ci porta a rendere più inclusivo il curricolo. Es: insegno matematica, insegno storia, insegno
educazione fisica, musica qualsiasi altra disciplina, come posso rendere più inclusivo il mio curriculo? In
modo che sia maggiormente in grado di impattare le diversità che ho nella mia classe. Nella classe non ho
solo gli allievi con disabilità, ma ho una popolazione variegata, dove spesso quello che è difficile trovare
sono i normali; nel senso che possiamo chiederci: qual è la norma? E’ la diversità la norma perché abbiamo
la disabilità, poi abbiamo i disturbi specifici dell'apprendimento, i disturbi emozionali, le difficoltà legate a
condizioni anche di svantaggio socio-culturale, poi abbiamo coloro che hanno una plus-dotazione, cioè
sono molto dotati, quelli che dopo un quarto d'ora sono già stanchi magari perché hanno già fatto il percorso
degli altri perché sono molto più dotati, altri che hanno disturbi della condotta ADHD e disturbi
dell'attenzione con iperattività, cioè abbiamo veramente a che fare con una popolazione molto differente e
quindi dobbiamo farci i conti.
Quindi qual è sostanzialmente la differenza fra integrazione e inclusione?
Abbiamo parlato di integrazione considerando l’integrazione scolastica soltanto per la popolazione di
persone con disabilità, quelli con una certificazione secondo la legge 104 del ‘92.
Ma qual è la logica dell'integrazione? La logica dell’integrazione è stata sempre quella di considerare la
persona con diversità, in quel caso con disabilità, e si cercava vedere come poterla accogliere all'interno
delle nostre classi. Però sostanzialmente la logica che è stata seguita è quella dell'ospite. Cioè ho un ospite
in casa mia, cerco di essere accogliente il più possibile (in alcuni casi sono stati ospitati molto bene In altri
casi molto meno, perché certamente non si è soddisfatti in generale del percorso che si è venuto a
sviluppare), però sostanzialmente è la logica dell'ospite: cioè lui deve adattarsi a quella che è la logica della
classe. Es: Io ho una seconda classe della secondaria di primo grado (seconda media) oppure ho una terza
liceo: io faccio la mia lezione per questa tipologia di alunni, poi se qualcuno non ce la fa, perché ha delle
problematiche particolari, bisogna chiaramente che si trovino le forme per aiutarlo magari con la presenza
di altre persone, quindi gli insegnanti specializzati per il sostegno. E’ quindi questa la logica
dell'integrazione, che in alcuni casi è andata molto bene, perché sono stati creati anche degli avvicinamenti
e degli obiettivi, ma in altri casi un po’ meno.
La logica dell’inclusione invece è una logica diversa. Quando parliamo di inclusione non parliamo più di
inclusione di un allievo, cioè non si parla di Marco che ha la sindrome di Down, o ha l'autismo, che devo
integrare e far sì che partecipi alle attività della classe, che sia all'interno della classe e non di un contesto
speciale. Quando parlo di inclusione io parlo appunto di ambienti, di contesti. Cioè si fa l'inclusione di
Marco che ha la sindrome di Down e per farla si crea un contesto nel quale anche Marco possa avere la sua
dimensione, chiaramente con le sue caratteristiche. Quindi i due concetti sono differenti, cioè non mi chiedo
solo come posso aiutare lui, come posso lavorare in maniera adeguata con questo allievo che ha una
determinata sindrome, ma mi chiedo come posso costruire l'ambiente.
C'è un signore che si chiama Oliver che ha avuto la poliomielite 20 anni fa e ora non riesce a prendere gli
autobus. Lui si chiede: la colpa è la mia perché ho avuto la poliomielite 20 anni fa? O sono gli autobus che
non sono adatti a chi come me ha avuto questa vicissitudine nella sua vita? Sembra abbastanza banale come
concetto; se noi lo portiamo nel nostro ambito possiamo dire: il problema per il quale questo allievo non
riesce a partecipare alle attività della classe, è “colpa” sua, perché ha una determinata patologia? O è anche
il contesto classe-scuola a non essere adatto a chi ha queste condizioni?
Con l'inclusione cambiamo un po' la prospettiva, cioè non guardiamo solo i problemi di quel particolare
allievo e allora se ha la sindrome di Down ci vuole il superesperto di sindrome di Down, se ha l’autismo ci
vuole il superesperto di autismo, io faccio il professore di italiano, faccio il professore di musica.
Dobbiamo invece cambiare la nostra prospettiva, per esempio posso chiedermi: cosa posso modificare?
Questa immagine è abbastanza significativa, c'è una manifestazione sportiva, una partita e posso avere
diverse situazioni:
- Prima immagine: rappresenta il momento dell'esclusione. Il primo ragazzo vede molto bene perché è alto,
il secondo ci arriva appena, il terzo non vede proprio, quindi per lui ci vuole altro, non può seguire
- Seconda immagine: questa è una logica più dell'integrazione, cioè creiamo le condizioni per le quali ci
arrivano tutti a vedere la partita, gli diamo un maggiore aiuto.
- Terza immagine: questa è invece la logica inclusiva, cioè possiamo dire oltre a fare quello, cerchiamo di
togliere il muro, mettiamoci una rete in maniera tale che tutti quanti vedano dalla loro prospettiva. Così
diventa non solo un problema del più basso che non ci arriva, ma è anche un problema di tutti perché quel
muro è una barriera che potrebbe essere abbattuta, non è che mi serva così tanto per sviluppare il mio
contesto scolastico. Ovviamente dal punto di vista concettuale è semplice, poi vedremo però che un conto
è enunciarlo, un conto è farlo. Nel momento in cui lo si enuncia è difficile essere in disaccordo, a livello di
principi, perché fa parte proprio dei diritti della persona; ma è difficile farlo veramente, cioè in classe cosa
possiamo fare effettivamente per promuovere certe condizioni. Chiaramente diventa più complessa la
questione, però con questo dobbiamo fare i conti perché, a prescindere dalla disabilità, abbiamo una serie
di diversità che sono molto frequenti nel contesto delle classi.
Quindi dobbiamo chiederci: che cosa effettivamente possiamo fare per questi allievi? E il cosa fare diventa
ancora più significativo per tutta quella serie di allievi che non hanno una disabilità magari così consistente,
ma che mi pongono problemi? Esempio: disturbo dell'apprendimento, il dislessico, il disgrafico, o chi ha
problemi anche legati ad aspetti comportamentali, comportamento inadeguato? Come posso rapportarmi?
Abbiamo un’attrezzatura pedagogica per affrontare le cose, che non vuol dire poterle risolvere tutte quante
perché la scuola non può fare tutto, può fare molto ma non può fare tutto.
Però abbiamo una serie di possibilità che la ricerca e la sperimentazione mettono a nostra disposizione che
in molti contesti vengono utilizzate che è necessario conoscere, altrimenti divento soltanto un depositario
di una conoscenza di tipo disciplinare che certamente serve, ma che non basta con le classi che abbiamo
adesso. Succedeva un tempo che l’insegnate diceva: “Io ho spiegato bene, tanto è vero che su 25 allievi 15
ce l'hanno fatta perfettamente; se 10 non ce la fanno è colpa loro. Se non ci arrivano allora facciano altro.”
Non è questa la dimensione dell’inclusione. La logica dell’inclusione è: Cosa posso fare per far sì che
invece di 10 magari diventino un numero minore. Quindi questi sono gli aspetti che noi cercheremo di
trattare: come aiutare gli allievi, ma anche come rimuovere delle barriere anche mentali, di rigidità mentale.
“Devo fare il programma per forza, come faccio a finirlo?” o altre rigidità del tipo “ma se mi dedico a questi
allievi, gli altri li sacrifico. Oppure non gli do il tempo necessario per fare di più. Quindi è una giustizia
questa che considera solo coloro che hanno difficoltà e non quelli che potrebbero fare più?”
Abbiamo a che fare con questi processi inclusivi: Che cosa possiamo fare? come possiamo muoverci?

4 PIANI DELL’INCLUSIONE:
1) Piano dei principi: sono dei principi che potremmo definire inimpugnabili perché fanno parte proprio dei
diritti delle persone, sono inalienabili, è difficile contrastarli, però sono importanti perché se non ho la
visione giusta tutto mi sembra impossibile. Se mi approccio in un certo modo, troverò 100 giustificazioni
perché certe cose non si possono fare; se non riesco a penetrare in un substrato culturale che mi giustifica.
2) Piano organizzativo: Come posso organizzare la mia classe, la mia scuola, il curricolo della mia
disciplina qualsiasi essa sia: matematica, italiano, storia, educazione fisica, scienze artistiche; Come posso
renderlo più inclusivo?
3) Piano metodologico-didattico: questa inclusione come si fa? Chiaramente non vuol dire che dobbiamo
fare l'ora di inclusione, dopo matematica, italiano facciamo l'ora di inclusione. Questa logica deve innervare
tutte quante le discipline, cioè avere un approccio che non preclude i contenuti perché non sono contenuti
particolari, non sono “altre cose” che fai ma è come le fai.
4) Piano dell'evidenza empirica: dobbiamo chiederci: ma l'inclusione funziona? Nelle classi nelle quali si
sviluppano processi inclusivi più adeguati, più sofisticati si apprende meglio o si apprende peggio? Alcuni
sostengono che con l’inclusione si creano delle condizioni con un abbassamento dei livelli di competitività
e situazioni di maggiore aiuto e condivisione fra i compagni, quindi c'è un clima migliore per
l'apprendimento di tutti; altri sostengono che dovendomi dedicare anche a chi ha delle difficoltà poi gli altri
ne subiscono uno svantaggio, quindi il loro apprendimento è ridotto. Quindi l’inclusione la si può affermare
sul piano dei Principi, ma bisogna dimostrarla sul piano delle evidenze, cioè dobbiamo almeno
commisurarla dal punto di vista della concretezza e dei dati.
Chiariamo una cosa: l'inclusione non è una questione di tutto o niente, non è come un insieme di principi
che bisogna rispettare tutti. È un percorso, è una strada per cui qualche convinzione che prima avevo magari
la metto un po' in discussione e potrei diventare maggiormente in grado di realizzarla.
Molti di voi potrebbero dire: ma come si fa a mettere in pratica queste cose in quella scuola in cui c'è
quell'insegnante che da sempre detiene il potere e non ne vuol sapere, oppure c'è quel dirigente che basta
che fai le cose formali e non vuole assolutamente sporcarsi le mani. Quindi certamente non possiamo
modificare tutto, però dobbiamo mettere in campo dei processi cioè andando a scuola dobbiamo cercare
degli elementi di modifica di alcune situazioni perché fanno la differenza. E’ impossibile dire: questo è il
metodo, per cui dovete fare questo e siamo a posto. Non c'è il metodo, c'è la metodologia, cioè la possibilità
di ragionare, riflettere, modificare sempre con quell'immagine di abbattere delle barriere. Certamente chi è
in difficoltà andrà aiutato, ma non ci sono delle condizioni chiaramente ineliminabili. Il tutto è abbastanza
agevole nel momento in cui la penso come progettualità architettonica cioè elimino le barriere
architettoniche; è più difficile eliminare le barriere che sono invece e culturali e didattiche perché fare
educazione in questo senso è più complesso, perché devo fare i conti con tutta una serie di condizioni.
Quindi ci muoviamo su questi quattro piani:
PIANO DEI PRINCIPI:
Vuol dire effettivamente affermare il diritto all'inclusione, lo dicono tutte le norme però ovviamente la
scuola e la società non si cambiano con le norme. Ad esempio nella convenzione delle Nazioni Unite del
2006 sulla disabilità, l'articolo 24 sull'educazione dice: “tutte le persone hanno diritto a un’educazione
inclusiva”. Quindi tutte le persone hanno diritto educazione inclusiva lo dice anche la norma, tutte le norme
internazionali e l’Italia ha aderito a questo, quindi ha fatto propria la pronuncia delle Nazioni Unite. Però
ci sono anche altri Stati con altre realtà, tipo gli stati anglosassoni del nord Europa dove esistono le classi
speciali e differenziali e fanno educazione inclusiva così. Quindi dipende da cosa si fa concretamente. In
alcuni casi, quando la didattica inclusiva e l’integrazione si fanno male è meglio quello, perché almeno ci
sono delle competenze spiccate che sostengono situazioni di disabilità. Quando è possibile inserirli con
situazioni adeguate nelle classi comuni è meglio. Quindi non bisogna solo vedere se ci sono o meno scuole
speciali o classi differenziali, ma il punto è vedere cosa veramente facciamo nelle nostre classi comuni.
Le scuola secondaria di primo grado ha più difficoltà in questo perché c'è minore abitudine c'è minore
formazione; fino a questo momento gli insegnanti sono stati informati sulla base della didattica curricolare,
anzi neanche della didattica curricolare, ma delle conoscenze disciplinari cioè sei un bravo matematico,
non è detto che sei un bravo insegnante di matematica. Allo stesso modo, hai molta esperienza, non vuol
dire che sei un insegnante esperto, sono concetti un po' differenti.

I MODELLI DELLA DIVERSITA’


Definiamo i modelli della diversità che ci fanno capire cosa pensiamo della diversità. Cioè, come ce l'ho in
testa io la diversità? Dobbiamo chiederci questo: che modello della diversità abbiamo in testa?
1) MODELLO INDIVIDUALE (Medico)
Potremmo avere un modello che chiamiamo individuale, cioè il problema è il suo perché ha l'autismo,
perché ha la sindrome di Down, perché ha una misurazione sensoriale (non vedente, non udente), perché
ha un disturbo specifico dell'apprendimento ecc.… per cui, dato che il problema è suo, bisogna lavorare su
di lui quindi cercare di attenuare i suoi problemi di apprendimento specifici, cioè ci vuole qualcuno che
sappia molto bene queste cose. Indubbiamente questo è vero, non si può non ammetterlo. Non si può non
dire se ho in classe un allievo con disturbo dello spettro autistico non mi crei problemi o situazioni
particolari. Però se lo vedo solo in quest'ottica, non va bene. Perché è questo il modello che ha dominato
fino a questo momento: l’alunno ha queste caratteristiche, ha una qualsiasi patologia, allora bisogna che
qualcuno si occupi di lui, io non posso farlo, perché non ne ho idea, non l'ho mai studiato. Ma così non
funziona ed è questo il più grande problema che si è riscontrato in questi anni nella delineazione della
formazione di insegnanti di sostegno con le associazioni delle famiglie. Ci sono stati casi dove le famiglie
di bambini autistici sostenevano che i propri figli andavano a scuola e incontravano insegnanti che non
avevano mai sentito parlare di un allievo con autismo, non l'avevano mai visto e per cui non sapevano cosa
fare. Non è possibile che avvenga questo. L'insegnante di sostegno deve essere formato molto di più. Quindi
devi diventare un tecnico dell'autismo, poi un tecnico della sindrome di Down, un tecnico della minorazione
visiva, e così via. Ma così si percorre la strada opposta a quella dell’integrazione. Già il meccanismo della
delega: “Ci deve pensare qualcun’altro” è sbagliato. E se formiamo persone che hanno queste caratteristiche
andiamo nella direzione opposta all'inclusione. Cioè creiamo qualcuno che si occupi in maniera particolare
di quella persona con disabilità. Quindi certamente la formazione deve essere superiore a quella che non
avviene attualmente, ma guai a pensare che non è necessario che sia un insegnante.
Il concetto è che non c’è più la necessità di avere l'insegnante che sia espertissimo di… Magari von
particolari competenze, ma non l’espertissimo di… Così crei il contesto speciale. Però è anche facile
giustificarsi, sono a scuola, io non ce la faccio con questo allievo, ci vuole qualcuno che si occupi di lui,
almeno io sono più libero di fare altro. Se ho in mente questo, allora mi giustifico dicendo “io ho fatto altro
nella mia vita, sono un esperto di quella cosa lì, quei contenuti li so benissimo, come posso spiegarli se ho
questo allievo, qualcuno si deve occupare di lui: è la logica dell'istituzione speciale.
2) MODELLO SOCIALE (Disabilty Studies)
Se invece non ho solo in testa questo, cioè non considero solo il modello individuale (il problema è suo)
ma considero anche un modello sociale della diversità, cioè dovrei pensare: quante delle sue difficoltà sono
legate al contesto? Quante sono legate alle condizioni che si verificano? Posso modificare qualcosa? Posso
modificare qualcosa su come presento le cose, su come le rendo disponibile ai miei allievi. Devo per forza
fare la spiegazione verbale? Magari alcuni non ce la fanno su questo piano qui. Allora esiste anche un
modello sociale che cerca di andare esattamente all'opposto e dice: non è un problema della persona perché
la persona, anche con difficoltà, anche con disabilità fa sostanzialmente parte di quella curva gaussiana,
della curva normale, e magari è più in difficoltà, così come posso avere l’allievo che è molto più avanti.
Quindi è l’istituzione che deve creare le condizioni migliori perché anche queste persone ce la possano fare.
3) MODELLO ICF:
E’ un modello che cerca di tenere insieme le due cose: cioè non posso non considerare la presenza del
deficit della situazione, però nello stesso tempo non può assumere una valenza totale, ci vuole anche una
visione di tipo sociale.
Quando pensiamo alla diversità, la vediamo come un semplice problema dell'individuo, quindi un modello
individuale, oppure riteniamo che non sia solamente una condizione sua, ma che sia una condizione anche
contestuale? Cioè che ci possono essere delle barriere che in qualche modo rendono ancora più complessa
la situazione di questa persona. È chiaro che la risposta deve essere duplice. Nell'ambito scolastico è la cosa
più difficile, perché dobbiamo modificare l'organizzazione, dobbiamo modificare la formazione, dobbiamo
modificare le prassi consolidate che è molto più complesso che non sistemare una rampa o adattare
un'apertura o fare cose più legate allo strutturale. Ma se non faccio questo riesco a soddisfare in maniera
molto marginale le esigenze dei miei allievi.
Ecco allora il quesito che ci poniamo è: quale idea di diversità io ho? Quindi consideriamo questo modelli,
che ci permettono di capire da che parte stare.
1) MODELLO INDIVIDUALE: è quello che sostanzialmente caratterizza la nostra scuola attuale. Noi
abbiamo un modello individuale in mente. Abbiamo l'integrazione e l'inclusione di allievi con situazioni
di disabilità certificate intesa che qualcuno si deve occupare di loro.
Il modello individuale sostiene: “La disabilità è una condizione biologica intrinseca l'individuo che riduce
la sua qualità di vita e la sua partecipazione alla società, rispetto a un funzionamento umano nella norma.”
Questo è vero, difficilmente contestabile. Esempio: l'allievo con sindrome di Down ha una condizione
biologica intrinseca (ha un cromosoma in più, il 21 è triplicato invece che duplicato) e questo gli comporta
sicuramente una riduzione della qualità della vita, nel senso che la partecipazione alla società è sicuramente
più difficile rispetto a un funzionamento che noi consideriamo essere nella norma. Questo è il modello
individuale. Tanto è vero che per avere l'attribuzione di un insegnante specializzato per il sostegno ci vuole
la certificazione, quindi devi avere un'attestazione clinica secondo la 104 che dice che quella persona ha
determinate caratteristiche patologiche. Se ci pensate è esattamente un modello individuale. Anzi, per
alcune situazioni viene anche portato più all'estremo, cioè l'attribuzione dell'insegnante di sostegno deve
essere in relazione alla gravità: più è grave la disabilita, più ore ci vogliono. E poi bisogna vedere cosa si
fai con queste ore in più. Magari quell’allievo che ha delle potenzialità in più potrebbe aver bisogno di
qualcosa in più in confronto all'altro, che in relazione alla progettualità potrebbe essere magari investito
maggiormente su altri ambiti. C'è una regione italiana nella quale sono alcuni anni che le associazioni delle
famiglie si rivolgono sistematicamente al TAR, soprattutto per alcuni allievi con maggiori problematiche,
quelli con disturbi dello spettro autistico ottengono il massimo delle ore di sostegno. Abbiamo fatto una
ricerca sulla qualità dell'inclusione e l'abbiamo trovata peggiorata. Perché? Perché chiaramente così facendo
accentui la delega: lui è formato, ci deve pensare lui. Ma le cose funzionano solo se noi coinvolgiamo i
curricolari, è lì che si gioca maggiormente la qualità dell'inclusione, non solo nel miglioramento della
formazione degli insegnanti di sostegno, che rimane straordinariamente importante. Però l'idea è che
l'insegnante curricolare, anche se non vuole fare l'insegnante specializzato, certe dimensioni le deve
praticare. Sennò hai in mente l’allievo medio che poi nella classe non hai. Quindi questo modello non può
non essere presente. Come si fa a dire che non ci sono i bisogni speciali o particolari? Ma non può diventare
l'elemento che ci contraddistingue, perché sennò pensiamo che io sono l'insegnante di e quindi non mi posso
occupare di quest’altra cosa perché il mio mestiere è un altro, anzi dobbiamo avere persone che se ne
occupano. Allora in cosa consiste questo modello individuale? Consiste sostanzialmente nel tentativo di
definire le diversità e di attribuire un peso. Ci sono due manuali, ICD e DSM, che descrivono le sindromi,
es: la sindrome psichiatrica, la schizofrenia è una certa cosa, l'autismo è una certa cosa, e la descrivo. Tutto
questo è chiaramente necessario, ma non basta, altrimenti tendo a rendere cliniche le cose. Tutto questo è
il primo elemento, è quello dei Principi, ma se non ho in testa un'idea almeno che metta in discussione
modelli precostituiti, corro il rischio di costruire tutto quanto il mio percorso didattico sulla base di questo.
MENOMAZIONE → DISABILITA’ → HANDICAP
La situazione è questa: abbiamo una menomazione, l'allievo ha una certa cosa, ne deriva una disabilità cioè
una limitazione nello svolgimento di alcune attività secondo i parametri che ritengo normali: dovrebbe
comportarsi così come individuo normale, ma dato che ha una menomazione non riesce a fare certe cose
quindi ha un handicap, socialmente ha uno svantaggio. Diventa quasi una catena inevitabile. Non si può
eliminare la condizione di disabilità chiaramente, c’è e ci devo fare i conti. Ma nello stesso tempo non può
diventare quell'elemento che mi caratterizza completamente e mi porta a dire: dato che non ho scelto questa
professione, non faccio l'insegnante di sostegno perché faccio l'insegnante curricolare allora io mi occupo
di altro e qualcuno si occuperà di questo. Se abbiamo in testa questa idea non ci sarà mai un miglioramento
della qualità della didattica inclusiva, perché è un problema di tutti.
Dobbiamo capire che l'insegnante inclusivo non è quello di sostegno, perché sennò perdiamo di vista la
dimensione. E’ anche quello di sostegno, ma non è certamente soltanto lui. Perciò dalla visione classica,
dalla visione dell'esclusione, bisogna passare al concetto di integrazione. La mia classe è fatta di Verdi,
all'interno della classe ho “altre palline”, ma sono comunque “altre”. Come dicevamo prima, la dimensione
dell'ospite: cioè ospito qualcun’altro nella mia classe di palline verdi, ma però sono un’altra cosa. Magari
le ospito anche in maniera adeguata, ma nella mia testa rimane quello che devo fare come programma, ecc.
Vi sono altri modelli che invece mettono in discussione questo modello individuale. Uno dei modelli
principali è quello dominato il modello sociale si trova nei testi indicato anche come Disability Studies.
2) MODELLO SOCIALE: Questo modello ha un rifiuto del modello individuale molto spiccato, forse
eccessivo, perlomeno per come siamo attualmente organizzati. Questo modello va molto bene al punto di
vista dei Principi, ma sicuramente non siamo ancora pronti. In cosa consiste questo modello sociale?
“Viene rifiutata decisamente l'idea di un limite alla salute come menomazione e ci si concentra sulle
barriere che esistono all’interno del contesto sociale, le quali impediscono ad una persona di raggiungere
lo stesso livello di funzionamento di una persona che non abbia una menomazione. E’ la società che
dev’essere ridisegnata affinché prenda in considerazione i bisogni delle persone con disabilità.”
Ci si concentra sulle barriere che esistono all’interno del contesto sociale vuol dire che il problema non è il
suo che ha la sindrome di Down o qualsiasi altra patologia, ma il problema è del contesto che non è
strutturato in maniera tale che anche chi ha la sindrome di Down possa frequentarlo, ma frequentarlo
attivamente non come ospite, non come potere che deriva da una norma, ma come condizione culturale.
Ovviamente un conto è enunciarlo a livello di principi, altro è cercare di farlo sul concreto. Cosa posso fare
concretamente perché questo avvenga? E’ quello che dicevamo prima: c'è la situazione di disabilità, così
come c’è la plusdotazione, c'è quello che si pone dall'altra parte della curva di Gaus, sono oscillazioni della
curva normale. E si deve fare i conti con tutti, non c'è una norma che investe solo il centro dove ce ne sono
un po' di più, ma devi fare i conti con tutti. Quindi, sostanzialmente viene rifiutato quel concetto che porta
dalla menomazione ad avere per forza una disabilità, dicendo che se agisci sulle barriere, quello che
vedevamo prima, se invece di quel muretto che vedevamo ci metti una rete anche la persona che era molto
bassa arriverà a vedere lo spettacolo, ma lo vedrà dal suo punto di vista, mica tutti quanti devono essere
uguali. Cioè fare inclusione non significa fare un’educazione per uguali, ma bisogna fare un’educazione
per diversi, bisogna fare qualcosa che è molto differente.
- C’è bisogno dell'insegnante specializzato per il sostegno per creare queste condizioni? Secondo me sì.
Secondo il Disabily Studies no, anzi è un elemento che crea disagio perché se nomini l'insegnante
specializzato per il sostegno sostanzialmente hai una visione individuale, perché nomini qualcuno che si
deve occupare di lui. Per cui non dovrebbe esserci l'insegnante specializzato per il sostegno, ma dovrebbe
esserci chiaramente un numero maggiore di insegnanti in grado di occuparsi di tutti. E’ un modello al quale
dobbiamo volgere, ma per il quale ancora non siamo pronti. Cioè non siamo pronti ancora per affrontare
questa dimensione. Prima parlavamo dei BES cioè dei bisogni educativi speciali perché in Italia abbiamo
creato questa norma? Se prendete il Index per l'inclusione, il testo riguardo l'inclusione più importante a
livello europeo, lì dicono che se vogliamo migliorare l'inclusione dobbiamo fare a meno dei bisogni
educativi speciali, noi in Italia abbiamo fatto il percorso opposto. Abbiamo creato fra il 2012 e il 2013 una
serie di norme che sancivano quello, ma l'obiettivo era esattamente l'opposto, cioè dobbiamo evitare che le
forme di protezione e sostegno e supporto siano esclusivamente riservate a coloro che hanno una
certificazione 104, cioè coloro che hanno l'attestazione di disabilità perché poi in classe abbiamo anche il
disturbo specifico dell'apprendimento, abbiamo il bambino adhd, abbiamo il funzionamento intellettivo
limite, abbiamo i problemi di linguaggio, abbiamo quelli molto dotati ecc.. Creiamo una categoria che non
fornisce insegnanti di sostegno, ma mette a disposizione misure compensative e dispensative.
Questo che cosa ha creato o che cosa sta creando in molte parti? Una interpretazione secondo i modelli
dell’approccio individuale che vedevamo prima, cioè in classe ho 2 disabili, 4 BES e5 stranieri, che cosa
faccio? Faccio un PDP per ognuno (PDP = piano didattico personalizzato). Ma la sto vedendo in maniera
assolutamente individuale; quella che deve essere una norma per migliorare l'inclusione di tutti, se io la
guardo così vado esattamente all'opposto, perché il piano annuale dell'inclusione non è fare la sommatoria
dei PDP, cioè dei programmi individuali, ma è esattamente l'opposto. Quindi non è solo la norma in
assoluto, ma è anche che tipo di approccio io ho, perché poi la posso rispettare in maniera diversa se la vedo
differentemente.
Ma se io ho un bambino magari adhd, che rientrerebbe nel panorama dei bisogni educativi speciali non
della disabilità, o posso avere anche un grosso svantaggio culturale, il funzionamento intellettivo limite, a
volte questo bambino mi dà problemi più del bambino con disabilità. Quindi non è che non abbia bisogno
di aiuto, il problema è che tipo di aiuto gli do: gli do solo un aiuto individuale, cioè hai questo e allora
bisogna che ti educo in maniera particolare su certe cose, oppure considero anche il fattore contestuale:
condividiamo le regole, magari non le riesce a rispettare tutte, per cui alcune cose possono essere fatte in
maniera particolare ecc.…
Questo signore è Oliver, il quale parla della società disabilitante: cioè lui dice non sono i disabili che sono
disabili, ma è la società che è disabilitante. In questo caso lui parla di disabilità motoria, lui è un disabile
con problemi di tipo motorio, non di tipo intellettuale; lui dice che è la società che è disabilitante perché
crea delle condizioni che rendono il suo problema maggiore. Lui dice: “io non riesco a prendere gli autobus,
la colpa è la mia o degli autobus? E’ la mia perché è una disabilità fisica?” Proviamo a trasferirlo nella
scuola questo concetto: la colpa è del bambino, dell'adolescente che ha quel determinato tipo di problema,
o è anche la mia classe che non è in grado di rispondere alle sue esigenze?
Queste sono alcune norme della convenzione internazionale sui diritti delle persone con disabilità:
- L'articolo 24 sull'educazione dice: “Tutte le persone hanno diritto ad un educazione inclusiva”, l'Italia l'ha
recepita, così come altri 192 paesi, per cui c'è addirittura un comitato Nazionale che esamina se le norme
che vengono emanate sono contrarie al principio dell'inclusione, però poi si può fare in maniera diversa.
Infatti non siamo soddisfatti di come funzioni in Italia, abbiamo delle realtà molto positive, ma altre che lo
sono molto meno e non sono assolutamente sporadiche a fronte di un investimento di risorse che è
importante sia in un caso che nell'altro, allora dobbiamo cercare di funzionare meglio e come vi dicevo non
si funzionerà meglio soltanto (anche se necessario farlo) se miglioriamo la formazione degli insegnanti
specializzati, ma dobbiamo lavorare soprattutto sui curricolari, cioè è un problema di tutti perché se riesco
a fare i conti con chi ha dei problemi così gravi poi farò meglio anche con tutti i tipi di diversità e quindi
l'inclusione vista in maniera molto utopica, cioè tutta la classe, come contesto, si prepara all’inclusione.
Uno dei modelli più significativi per andare in questa direzione dell'inclusione è l’UDL, parleremo anche
di altri approcci, pensando alla didattica curricolare e non alla didattica specializzata per il sostegno.
MODELLO SOCIALE (Disabily Studies) alcune linee metodologiche-organizzative:
- Analisi del ruolo disabilitante o inclusivo delle variabili sociali della classe. Come funziona?
Domani vi proporrò una scala di valutazione dell'inclusività delle classi e delle scuole, cioè se ognuno di
voi dovesse dire la mia scuola e la mia classe quanto è inclusiva? Ma per dire questo prima devo sapere
quali sono gli indicatori. Quanto apprendono gli Allievi? Quanto stanno in classe gli allievi con disabilità?
Che tipo di rapporto c'è? Quanto utilizzo strategie di collaborazione? Fare una valutazione dell'inclusività
delle classi delle scuole è estremamente complesso. E’ una forma di autovalutazione che mi può dire dove
sono un po' carente e quindi dove posso mettere in campo qualche azione di miglioramento, quelli che
vengono chiamati i piani di miglioramento, posso mettere in campo qualcosa che potenzi le situazioni.
Allora si può collaborare tra colleghi, anche se è complesso, soprattutto nella scuola secondaria di primo e
di secondo grado perché è meno abituata al lavoro collettivo, infatti il lavoro è molto più individuale rispetto
alla scuola primaria, alla scuola dell'infanzia, però dobbiamo andare su questa direzione.
- Superamento della divisione fra formazione dell’insegnante curricolare di quello specializzato.
Non ha senso che ci siano due formazioni differenti, ritengo che questo sia esagerato per la nostra
organizzazione attuale. Adesso l’insegnante di sostegno ha un ruolo pivotale, come il pivot del basket, è il
perno intorno al quale girano le cose, ma non è corretto, non deve fare tutto lui; l’insegnate di sostegno è
quell'elemento che deve far muovere le varie condizioni.
- Superamento dei BES.
- Potenziamento e la didattica inclusiva
3) MODELLO ICF: Nella mia visione è a cavallo fra i due modelli precedenti. Sostanzialmente l’ICF è
un sistema di classificazione, ma non dello stesso tipo di quelli che abbiamo visto prima DSM e ICD, cioè
non è una classificazione solo della patologia, ma è una classificazione del funzionamento cioè quello che
tu effettivamente fai della disabilità e della salute. La funzione che l’ICF mette in primo piano è la
partecipazione, cioè l'individuo ha diritto a partecipare a quello che gli interessa. Proviamo a pensare se noi
avessimo una persona con paraplegia, gli arti inferiori non funzionano, è in carrozzina; se prendiamo i
manuali diagnostici dicono che la paraplegia è una patologia che deriva da una lesione del fascio piramidale
che condiziona il funzionamento degli arti inferiori, ecc.… L’ICF invece dice a questa persona, con questa
diagnosi particolari, cioè con problemi a livello di funzioni di strutture corporee: “Che cosa vuoi fare? Vuoi
partecipare a questo incontro?” Allora è chiaro che ci sono delle barriere, es: l'ascensore non funziona, lui
non può partecipare, quindi dobbiamo ridurre la sua disabilità mettendo a posto l'ascensore, costruendo
delle rampe, ecc.… L’ICF fa un discorso diverso: se questa persona vuol partecipare e l’ascensore non
funziona, non può partecipare. Ma se questa persona volesse per esempio lavorare al computer, non è un
disabile, magari lo sa fare meglio di me. Quindi l’ICF parla di situazione di disabilità cioè quando il tuo
problema ti impedisce o ti rende difficile partecipare, allora in quel caso sei in una situazione di disabilità.
Quindi la menomazione non necessariamente determina la disabilità, perché tu puoi avere la paraplegia
però se c'è l'ascensore fai tutto quanto senza problemi. Magari io vado in Germania e il tedesco non lo parlo
e sono in una situazione di disabilità perché la partecipazione in quell’ambito è molto difficile per me.
Quindi cambia molto se la intendiamo in questi termini, cioè se entriamo in questa logica. Alla luce di
questo, la disabilità può essere ridotta: io non posso ridurre dal punto di vista biologico la disabilità di una
persona con Sindrome di Down, quello ha un cromosoma in più in tutte le cellule e gli rimane per tutta la
vita, il bambino con autismo diventa un adulto con autismo, perché non si guarisce. Ma io posso ridurre la
disabilità perché se quell’allievo con Sindrome di Down insegno magari a entrare meglio in relazione con
gli altri, a usufruire meglio dei servizi della comunità, a leggere, a scrivere la sua possibilità di partecipare
sarà facilitata quindi la sua disabilità sarà ridotta. Quindi il nostro lavoro scolastico è finalizzato alla
riduzione delle situazioni di disabilità.
L’ICF è organizzato in questo modo:
- funzioni e strutture corporee
- attività e partecipazione
- fattori ambientali
Es: Il fatto di avere la paraplegia è una funzione corporea, il fatto che ci siano i gradini è un fattore
ambientale. Questo quanto condiziona la partecipazione? Il modello Disability Studies pensa solo ai fattori
ambientali, mentre il modello individuale pensa solo alle funzioni e strutture corporee. L’ICF le mette
insieme in funzione della partecipazione. Per cui rispondo alla domanda: Ci vuole l’insegnante sostegno?
Deve lavorare all'esterno della classe? Non è escluso. Inclusione non significa che deve stare sempre
all'interno della classe, gli allievi con autismo in alcuni casi è necessario che facciano delle cose anche
all'esterno; ma un conto è dire “adesso noi incominciamo, mi devi liberare dalla presenza di questo perché
non mi permette di fare lezione” un altro è dire “magari facendo alcune cose anche all'esterno acquisisci
dei concetti che poi puoi mettere a punto”. Se a quell’allievo la lezione che farai la settimana dopo gliela
fai la settimana prima, è chiaro che la sua possibilità di partecipazione aumenta molto, perché gli fai una
lezione anche in contesto separato che tratta degli argomenti precedentemente, perché lo pone in una
situazione di migliore partecipazione, di maggiore interesse, di maggiore motivazione per quel determinato
tipo di compito.
Allora l’ICF fa una classificazione di questo tipo, divide in:
- Funzioni corporee con la lettera B (Body = Corpo) e qui rientrano le funzioni mentali, sensoriali, eccetera.
- Strutture corporee (S), cioè il sistema nervoso.
- Domini (D), che sono l’attività e la partecipazione, quindi la mobilità, la comunicazione.
- Fattori ambientali (E) tra cui c'è anche la tecnologia che interviene.
Che cosa viene fuori da questa classificazione ICF?
Esempio: B144 → B sta per funzioni corporee; il primo 1 sta per situazioni mentali; 44 sta per le funzioni
della memoria. Questo è quello che si chiama il profilo di funzionamento: da questi aspetti vengono
descritte le funzioni della persona, ma vengono descritte nell'ambito della partecipazione. Poi su ognuna di
queste situazioni ci metti che tipo di problema c'è in ognuna di queste condizioni: ad esempio 0.
Quindi potrebbe essere un B144.0 → vuol dire che su quella cosa, su quella funzione B144 non ha nessun
problema; potrebbe essere invece un B144.4, cioè ha un problema completo, elevatissimo, ma non in
generale, ma sulla funzione pensata anche nell'ottica della partecipazione. Questo è passo avanti notevole.
Il decreto 66 della legge 107 sull’inclusione dice che dal 2019 invece della diagnosi funzionale del profilo
dinamico funzionale che sono due strumenti pensati per persone con disabilità come avvicinamento al piano
educativo individualizzato, si dovrà fare un profilo di funzionamento, cioè una certificazione di tipo ICF:
come funzioni in funzione della partecipazione, cioè non ci si concentra semplicemente quello che non c'è,
ma anche su che tipo di impedimento puoi avere in funzione della partecipazione.
Nell’ICF, le funzioni, le strutture e fattori ambientali quindi il corpo e l'ambiente sono coniugate in relazione
alla partecipazione che è intesa in senso ampio, partecipazione è anche l'apprendimento scolastico. Che
cosa ti impedisce di apprendere la matematica? Certamente alcune caratteristiche a livello mentale (ad
esempio ho un deficit cognitivo), ma anche qualcosa di ambientale, perché magari te la spiego in un certo
modo e non la rendo maggiormente concreta, pratica, perché anche tu possa in qualche modo destreggiarti.
Ancora siamo a livello di principi, ma se non ci ragioniamo un po', corre il rischio di essere identificata
come un ricettario di attività. Servono anche le schede, ma devi avere la mentalità che l'inclusione non si
fa con le schede, quelli sono suggerimenti, l’inclusione si fa con l’approccio, con la condivisione di cose.
4) MODELLO DELLE CAPACITÀ che sarebbe forse meglio tradurre delle “capacitazioni” anche se non
esiste questo termine in italiano. Un aspetto di grande interesse di questo modello è che pone al centro il
concetto della possibilità di scelta; questo è il nucleo, è quello che aggiunge all’ICF, perché poi condivide
molto dell'approccio sociale, molto dell'approccio ICF, però ci metti anche questo aspetto legato alla scelta
e lo si deve in particolare a questo signore Amartya Sen che è stato Premio Nobel per l'economia. Lui ha
teorizzato lo star bene distinguendo dal benessere, quindi un modello relativo alla teoria economica molto
importante. Quando pensiamo al benessere pensiamo all’opulenza, a una società che dispone di mezzi, ma
questo non è sempre sinonimo di felicità, di star bene, quello che descrive il concetto di benessere è il fatto
che io possa poi scegliere delle cose: hai tanto, ma potresti non essere felice se non puoi scegliere. Allora
chiediamoci una cosa importante: Quanto scelgono i nostri allievi con disabilità nella loro vita? Pochissimo!
Quasi niente. A casa c'è la mamma che gli dice che cosa deve fare, cosa deve indossare; poi va a scuola
deve fare quelle cose lì, poi diventa più grande ci saranno gli operatori dei servizi socio-educativi.
Dobbiamo invece mettere in primo piano questo concetto di autodeterminazione, dove una persona può
anche scegliere qualcosa, dobbiamo garantirglielo. La vita di nessuno di noi è completamente
autodeterminata o autodeterminabile. Arriviamo a lavorare ad una certa ora, facciamo certe cose, è vero
che molto è legato all'organizzazione, però quello che da qualità alla nostra vita sono le cose che scegliamo:
come passo la serata, con chi sto, con chi condivido la mia vita, faccio una professione piuttosto che un'altra.
Perché tutto questo non deve essere garantito anche alle persone che hanno dei problemi? La situazione di
disabilità la ridurremo nel momento in cui aumenteremo le possibilità di scelta. Questo concetto sulla
qualità della vita è importante. Precisiamo che autodeterminazione non significa autonomia, cioè non è vero
che non sei capace di fare delle cose da solo, non puoi essere autodeterminato, sono due concetti separati.
E’ chiaro che nel nostro caso di realtà educativa, io devo essere in grado di ascoltare e di aiutarti, però ti
aiuto anche nella direzione che tu scegli. Quindi è una questione che si deve cominciare a praticare sin dalla
scuola dell'infanzia: insegnare a fare delle scelte, insegnare a manifestarle e nello stesso tempo avere un
ambiente con delle opportunità, perché se tutto è rigido, definito, non si può fare nulla. Questo è un aspetto
di grande rilievo.
Allora come educare le persone anche all'autodeterminazione (che non significa autonomia)?
La letteratura internazionale metti in evidenza in maniera chiara che le persone che hanno problemi
comportamentali, cioè magari aggrediscono, si autoledono, hanno comportamenti disturbanti, distruttivi
dell'ambiente sono più autodeterminate, cioè hanno un livello di autodeterminazione superiore. Perché
quelle le ascolti, cioè l’allievo che comincia a prendere per i capelli qualcuno, che si autolede, tu provi a
chiederti: “Ma che cosa vorrà comunicarmi?” Quello invece che sta sempre buono, che non interviene mai,
è molto autodeterminato, gli dedico meno importanza.
Questi sono principi, è solo il piano dei Principi, ma se io non li metto in testa, non ci faccio un
ragionamento, non provo a mettere in discussione i modelli che ci vengono sempre presentati nei quali ci
sono degli stereotipi, non riusciamo ad entrare e ad apprezzare anche alcune modalità che vedremo anche
nelle nostre situazione. Quindi questo modello sostanzialmente afferma che il superamento della disabilità
non coincide con l'adeguamento ad una “normalità”, quanto piuttosto con l'ampliamento delle possibilità
di scelta dell'individuo. Cioè più aumentano le scelte, più migliora la qualità di vita della persona, minore
è la situazione di disabilità.
Questo è un sistema di comunicazione per immagini che si chiama PECS (Picture Exchange
Communication System), cioè Sistema di Comunicazione mediante Scambio di Immagini: ai bambini è
stato insegnato il simbolo dell’Io voglio, che è una mano. Un bambino può comporre: “io voglio la palla
rossa” in un quadernone, poi strappa tutta quanta la striscia e consegna la scelta completa. Quindi anche
quando la disabilità è consistente e non sai comunicare è possibile abituare a un possibilità di scelta su
alcune cose, non su tutte ovviamente, altre poi sono legate all'organizzazione scolastica, sociale/familiare.
Chiaramente non vuol dire che dobbiamo scegliere su tutte quante le cose, perché sarebbe l'anarchia, però
neanche privare completamente queste persone della possibilità di farlo.
Riassumendo, abbiamo considerato il primo elemento: il piano dei Principi quando parliamo di inclusione,
quindi un substrato anche culturale, cioè bisogna anche porsi questi quesiti, queste domande e ragionarci
un po’. Come dicevamo all'inizio, l’inclusione non è una condizione di tutto o niente, cioè o è perfetto
oppure meglio lasciar perdere, perché piccolo elemento serve.
Poi c’è invece il piano organizzativo: una volta che ho in mente il piano dei principi, dal punto di vista
organizzativo che cosa posso fare? come posso organizzare la mia classe, la mia sezione, il contesto? Come
posso rendere il curricolo maggiormente inclusivo?
Poi il piano metodologico didattico: quali strategie facilitano l'inclusione? Devono essere condizioni
trasversali che attraversano le discipline, anzi che le rendono più significative e magari anche più efficaci
→ quindi piano dell'evidenza empirica.
PIANO ORGANIZZATIVO:
Adesso che i principi li abbiamo fissati, proviamo a chiederci alcune cose in più: come posso organizzare?
Organizzare contesti inclusivi è una questione di alleanze, competenze diffuse, formazione e risorse.
Alleanze perché bisogna imparare a lavorare insieme, a lavorare con istituzione anche diverse dalla scuola,
a interagire adeguatamente con le famiglie, a non considerarle perennemente ingabbiate nella crisi perché
qualche volta diventano delle risorse importanti. E anche quando sono meno collaboratrici dobbiamo
chiederci quanto aiuto gli è stato dato, non solo della scuola, ma soprattutto da altre istituzioni che
dovrebbero farlo nei primi momenti.
Competenze diffuse quindi il ruolo dei dirigenti scolastici che è fondamentale da questo punto di vista.
Soffermiamoci su questo concetto:
“Non esiste il programma per l'allievo medio, ma non esiste neanche un programma per allievo.”
Non esiste il programma per l'allievo medio → Cioè non posso pensare di fare il programma per la terza,
perché poi gli allievi della terza sono diversi gli uni dagli altri, non sono diversi solo quelli con disabilità.
Però sarebbe un'assurdità estrema affermare quello che dicono alcuni, cioè che fare l'individualizzazione e
la personalizzazione significa fare un programma per allievo: chi dice questo non ha mai visto una classe,
non ci è mai entrato. Ovviamente non funziona così, non è possibile pensare di differenziare a questo livello.
Allora cosa possiamo fare? Come possiamo rendere il curricolo più inclusivo, senza farne uno per allievo?
Parleremo di un modello di lavoro che si chiama UDL (Universal Design for Learning) cioè la
programmazione universale per l'apprendimento, che possiamo identificare con una specie di motto:
“Quello che è necessario per qualcuno, può diventare utile per tutti", questo è il principio che nasce dalla
progettazione architettonica. Infatti, nel momento in cui sono stati progettati gli scivoli/le rampe per le
persone che hanno disabilità motoria, che sono in carrozzina, sono stati fatti per loro, perché per loro è
necessario, però poi una la mamma con bambino nella carrozzina usa la rampa piuttosto che fare i gradini.
Quindi quello che è necessario per qualcuno può diventare utile anche per gli altri, questa è la logica, che
funziona bene nell'ambito della programmazione/progettazione degli edifici; infatti il fatto che han fatto le
porte più grandi va benissimo a tutti, il fatto che il bagno è più ampio va bene anche per chi non è disabile.
Questa logica possiamo trasportarla sul piano dell'apprendimento? Questa è la scommessa: cioè se io nella
mia presentazione metto qualche immagine in più, modifico un pochino i contenuti, che non vuol dire che
li rendo più semplici, ma li modifico adattandoli per quell’allievo che magari è autistico con un
funzionamento elevato; per lui è necessario, perché se no non ce la farebbe, ma anche gli altri li utilizzano.
Questa cosa è possibile? Quindi non ci fermiamo solo a livello dei principi, ma cerchiamo di andare oltre.
Lezione di Pedagogia speciale del 23.03.18

 Libro capitoli consigliati: non è obbligatorio acquistare il libro.

Indice: cap 2, cap 3,cap 4,cap 5 (forse potremmo anche non farlo) ,cap 6, cap 7, cap 8, cap 10 e11,cap
14,cap 15 e 16 (indice dei capitoli da fare li inserirà nelle slide!).Ci darà slide per approfondire. Le domande
saranno in riferimento a questi aspetti . A lui interessa che abbiamo capito il senso di fare didattica
inclusiva.

Sito dove prende molto del materiale che ci fa vedere:

su google : includere.uniud.it  portale gratuito, fare il login per vedere tutto. Clicca su:
Documentazione  documenti e in base agli argomenti ci sono vari file  uscita primo numero della
rivista GIDIN  il paradigma dell’inclusione scolastica (pag34) (ci sono le cose dette in questa lezione).Ci
dirà cosa scaricare da questo sito per le varie lezioni.
Per la lezione di domani troviamo il materiale su questo sito sempre nella sezione ” ricerca evid. Base”
strumenti: scala di valutazione della qualità dell’inclusione scolastica.
Sul sito ci sono anche dei corsi on line: formazione  percorsi formativi video mobiling (video specifici
per spiegare come comportarsi in classe per i bambini autistici- funziona molto meglio dell’insegnamento
diretto)  moduli (video lezioni –corsi online)

Nella mattinata abbiamo parlato di questo insegnamento preliminare per il raggiungimento dei 24 crediti
necessari per il concorso e abbiamo introdotto l’inclusione, abbiamo definito che cos’è, come si ponga
trasversalmente negli insegnamenti, non è una materia, non è una disciplina particolare ma un modo di
approcciarsi alle situazioni. Abbiamo cercato di distinguerla dal concetto di integrazione.Abbiamo parlato
della diversità.
Stamattina abbiamo parlato del piano dei principi dell’inclusione:
1. piano dei principi
2. piano organizzativo
3. piano metodologico-didattico
4. piano dell’evidenza empirica

1. Piano dei principi (trattato la mattina)


2. Piano organizzativo: (trattato la mattina) riguarda le alleanze, deve essere coinvolto anche il
dirigente scolastico, si costruisce tutti insieme, l’importanza di interagire con le famiglie, con gli
specialisti.
Organizzazione contesti inclusivi: questione di alleanze, competenze diffuse, formazione , risorse.
Non esiste un programma per allievo medio, ma neanche un programma per allievo. Non possiamo
pensare : “faccio la seconda classe e questo è il mio programma per questa disciplina”. Il fatto che
non esista un programma per allievo è nella logica. Molto spesso dobbiamo individualizzare le
programmazioni. È impossibile però fare 25 programmi diversi per 25 alunni.
L’adattamento dei curricoli: noi possiamo agire in 2 modi seguendo l’UDL (formazione universale
dell’apprendimento):
-faccio il programma per la mia classe, per coloro che non ce la fanno attiveremo dei programmi di
recupero e approfondimento con forme varie (è rassicurante);
- cosa possiamo fare prima, non dopo che abbiamo appurato che alcuni allievi con le forme più
varie non sono riusciti nell’intento.
Bisogna dire che quello che è necessario per qualcuno , può diventare utile per tutti.
Ex ci sono le rampe per chi ha la carrozzina, ma poi ci passa anche la mamma con il passeggino.

Domanda: Questo tipo di logica è in contrapposizione o in continuità con l’UDL (formazione


universale dell’apprendimento)?
Risposta: in questo caso noi creiamo una sorta di compensazione, perchè se quel determinato tipo
di elemento serve per aiutare certe persone… la logica qui è che non semplifico. Questo è un
elemento del nostro percorso. Se non modifico per niente il tipo di caratterizzazione dei contenuti,
cioè non diventano più facili ma diventano solo maggiormente in grado di impattare modalità
anche di apprendimento diversi. Con l’inclusione non risolvo tutti i problemi, sia chiaro. Come
dicevamo stamattina sono una serie di mattoncini.
La logica dell’IGFdi cui parlavamo stamattina, che classifica le difficoltà e gli aspetti ambientali in
funzione della partecipazione, rappresenta un modello che serve per cercare di creare le condizioni
perché come insegnante lavoriamo su 3 cose:
1.potremmo lavorare sulle modalità di presentazione. Come presentare le cose. Posso farlo in
maniera diversa? Inteso come presentazione non solo verbale ma con presentazione di immagini.
Oggi abbiamo i supporti tecnologici di estremo interesse che ci aiutano in questo. Si anima un po’ il
racconto in questo modo. (ex il coccodrillo che all’improvviso si mette a camminare). La modalità di
presentazione quanto può essere utile per questi allievi? Probabilmente anche gli altri allievi
possono trarne beneficio, cosi come anche negli altri ambiti.
La modalità di presentazione: (slide)
1.1 Opzioni per la percezione : si costruisce un modello in testa in cui non si deve per forza spiegare
per 2 ore di seguito, non si rifiuta certamente questo modello, si prende come modello di
riferimento ma non si deve fare solo quello. Si può personalizzare la presentazione, fornire
alternative per le informazioni visive e uditive. Ex Posso avere allievi che possono avere
difficoltà nelle informazioni visive o uditive. Si può lavorare sul carattere, sulla dimensione del
carattere, sulla velocità, sulla sincronizzazione, fornire alternative per le informazioni visive,
etc.. Ognuna di queste cose esplode in una serie di possibilità e da quelle tutta una serie di
esempi. Diventa un modo che per l’inclusione è straordinario, poter sviluppare modelli diversi
per allievi diversi.
Non faccio un programma per allievo ma presento in maniera diversa il mio programma.
1.2 Modalità di espressione: lavorare sulle competenze e sulle conoscenze dei miei allievi. Invece
di interrogarlo oralmente, potrebbe fare un power point, fare una cosa sul pratico,etc..
Queste cose sono importanti e necessarie per qualcuno ma non sono neanche male per altri.
Non stiamo quindi pensando di semplificare ma di modificare l’organizzazione .
1.3 Modalità di elaborazione: che tipo di operazioni ti chiedo di fare: funzioni per le azioni
esecutive, guidare la scelta, finalità ed obiettivi, guidare l’elaborazione di informazioni,
aumentare la capacità di controllo, etc.. Non richiedo solo il pensiero analitico (cioè quello
legato ad un algoritmo mentale) , cioè il problema lo risolvo cosi, una serie di step mentali. Ma
questa non è l’unica forma di pensiero. Ad ex alcuni allievi possono non avere dimestichezza
con il pensiero analitico ma magari sono più creativi, inventano cose nuove.
In questo modo stiamo pensando di semplificare l’organizzazione.
Siamo cosi legati a fare scuola nel nostro quotidiano che pensiamo che si basi tutto sul piano
analitico ma in realtà non è cosi. Molto spesso l’ambiente di lavoro ci richiede creatività.
Se abbiamo allievi con modalità/orientamento di pensiero più pratico non riusciamo sempre ad
avvantaggiarli. Ma io posso lavorare in alternativa (ex in italiano dico di fare il riassunto di un
brano. Pensiero analitico: devi prendere le parti principali, metterle in evidenza, etc. ma potrei
anche sullo stesso brano chiedere di inventare un finale diverso). Tutto questo non sempre lo
facciamo a scuola.
Non pensiamo solo agli allievi con disabilità, ma anche agli allievi con diversi stili di
apprendimento, nelle diverse modalità con cui si approcciano gli allievi. Perciò non si può
pensare di non operare in questi termini.

Il modello individuale risulta essere il migliore.


Le eterogeneità , rispetto al passato, sono tante nelle classi di oggi. Le diversità sono tantissime nei
nostri contesti. Alcune forme sono interessanti: anche questo modello di pensiero analitico ,
creativo e pratico è significativo.
Ne”Le intelligenze multiple di Garn “ Garn dice: noi possiamo essere intelligenti in vari ambiti come
l’intelligenza matematica, intelligenza linguistica, intelligenza del corpo. Una intelligenza
estetica(?),spaziale, musicale. Ha dato dignità forte a tutti gli elementi che costituiscono il
curriculo. Se è un ‘intelligenza anche quella musicale, la musica non può essere una materia
ancellare in confronto ad altre, come anche l’educazione fisica. Ha dato anche la definizione di
intelligenza.

Standberg (ne” le 3 intelligenze”) invece dice che puoi adottare processi di pensiero creativo
analitico e pratico su ognuno delle intelligenze, in ambito matematico, linguistico, artistico,
musicale, etc.
Le due cose non sono in contrapposizione ma sono connesse e integrate all’altra, sono una
conseguenza.
Questa seconda dimensione del curriculo inclusivo, la dimensione organizzativa, è uno degli
elementi di maggior interesse e ricchezza per lo sviluppo di questa prospettiva.

Esemplificazione:
programma di geografia in quinta elementare e prima media (schema su slide). Il tema è la regione.
Come si insegna e cosa si fa, come si possono fare adattamenti Udl: si aggiunge qualche immagine,
si usano le mappe, etc.. trovare modi differenti per organizzare le cose. Tentativo di portare sul
piano inclusivo le discipline, quindi i curriculi.
E’ importante capire che dal punto di vista della didattica il gioco non si fa e non si migliora solo con
le schede ma il miglioramento si fa sul piano dell’organizzazione, della metodologia ,della gestione
dell’errore, dell’approccio, etc..
Questi aspetti sono di fondamentale rilevanza.
3. Piano metodologico didattico: cosa significa fare educazione inclusiva.
Oggi faremo un quadro d’insieme, domani ne parleremo in maniera più approfondita.
Strategia di didattica inclusiva: è un metodo significativo, ci chiediamo cosa possiamo fare.
 clima e gestione della classe  è importante per l’inclusione la modalità con la quale gestisco
e organizzo il clima della classe. Se è un clima molto competitivo , processi inclusivi fanno più
fatica a decollare. Ci deve essere qualche volta un clima competitivo ma anche collaborativo e
individualistico. Devono coesistere tutti quanti. Non bisogna eliminare la competizione, gli
allievi competono per tutto. Possiamo eliminare la competizione ma non possiamo enfatizzarla
oltre misura perchè non giova nei processi di condivisione.
Qual è il clima della mia classe? Questionario in due versioni per la scuola media. (slide)
È costituito da 30 domande. Serve per capire come costruire un clima in classe in cui si sta meglio
insieme (è saltata la registrazione!).
-Ex come lavorare per la creazione di un miglior clima. L’insegnante mi manda un sms perché sto male.
Questo fa la differenza. L’alunno si sente importante, non è uno qualsiasi. Sente di avere un ruolo.
-Quello che incide di più è la modalità con cui ti approcci con l’alunno. Non bisogna aggredire.
-Anche dove ci si pone è importante. L’insegnante sta sempre dietro la cattedra?
Alcuni colleghi hanno prodotto delle proposte molto interessanti dalla scuola primaria alla secondaria
di secondo grado , un lavoro relativo al clima e alla gestione. Non è vero che siamo cosi capaci di farlo,
ma ci sono delle strategie. Anche il controllo del comportamento è un acquisizione specifica. Anche in
ambito psicologico ha un suo peso.
 Strategie cooperative  devo sollecitare anche la cooperazione tra i miei allievi(peer tutoring).
Lavorare sulle strategie cooperative influenza anche il clima. Non sono elementi staccati.
L’aiuto non può che stimolare il clima di collaborazione. Anche qui dipende da come lo si fa.
C’è chi fa il tutor e chi viene aiutato ma si possono invertite i ruoli. Anche qui si può organizzare
in maniera sistematica. Nel peer tutoring (aiuto tra pari, un allievo aiuta l’altro) chi trae
maggiori benefici è chi aiuta. Sostanzialmente faccio un’educazione meto-cognitiva. Ex Ai
bambini più grandi (con sindrome di Asperger) si fanno fare i tutor dei bambini più piccoli. Ne
traggono grandi vantaggi perché li costringi ad entrare in relazione, ad avere una lunghezza
d’onda più o meno ravvicinata, a capire un po’ come la pensa l’altro.
Dai un ruolo agli alunni: tu prendi il biglietto, tu prendi gli appunti, tu quell’altra cosa… devono portare a
termine il loro ruolo. Gli altri lo possono aiutare ma non sostituirsi.
Tutto questo non vuol dire che dobbiamo fare sempre cosi (e lo vedremo meglio nella quarta dimensione
dell’inclusione empirica) , anche la lezione tradizionale va bene ma non possiamo fare sempre quella.
Abbiamo forme che devono essere diverse e devono tenere conto della variabilità che c’è nell’ambiente
della classe, altrimenti li perdiamo.
È più facile essere oppositivo per l’alunno, perché è più facile che ammettere di non farcela, di non essere
capace se l’errore viene enfatizzato come qualcosa che denota un giudizio sulla persona, perchè mi fa
certificare come incapace; quindi invece di risultare incapace, si oppone.
Quello che noi ci aspettiamo spesso avviene(esempio quello che chiamiamo “effetto pigmalione” cioè
l’aspettativa, ti aspetti che debba avere grandi successi).
 Strategie cognitive e metacognitive  quelle che sviluppano / promuovono processi cognitivi
di pensiero e metacognitivi cioè di consapevolezza: cosa sta succedendo, come l’ho fatto, ma
potevi fare in maniera diversa.
Tutto questo si collega al metodo di studio, come meglio affrontare i compiti. Anche qui non
posso avere un solo metodo di studio.
Ex Facciamo le mappe concettuali e le mappe mentali. Ma se io sono un tipo che non riesce a
visualizzare/organizzare le cose nella propria mente, questo metodo non mi aiuterà. Per altri
potrebbe esserlo. Non esiste “il metodo” ma ti faccio vedere dei processi sui quali riflettiamo
che possono dare determinati risultati su alcuni: cosa ne pensi? potrebbe esserti utile?

Un autore importante David Ausubel nel ‘78 propose il programma degli organizzatori anticipati per
l’apprendimento significativo. Ex Domani faremo questo argomento: vai a leggerti questo argomento dal
libro. Hai creato degli organizzatori anticipati. Tutte queste cose sono importanti per favorire
l’apprendimento dei nostri allievi. Non significa solo esercitare la memoria ma esercitarla in maniera
strategica. Anche lo studio mnemonico aiuta ma bisogna sempre esercitare la memoria in maniera
strategica.
Dal punto di vista didattico ci sono tante possibilità di strategie cognitive e metacognitive(ex flipped
classroom : classe rovesciata  sono organizzatori anticipati , quello che facevi a casa fai a scuola, quello
che fai a scuola fai a casa, vedi un filmato, leggi qualcosa, ti crei un’idea di quello che a scuola
approfondiamo! ).
L’apprendimento significativo si crea nel momento in cui vai a modificare la struttura cognitiva di cui già
disponi, non semplicemente sommando. L’apprendimento significativo non è solo per scoperta ma può
essere anche per trasmissione.
Le cose devono essere collegate in una visione di un certo tipo che è sostanzialmente l’educazione di tipo
inclusivo. Non è niente di innovativo ma si cerca di organizzare in funzione di un miglioramento
nell’apprendimento dei nostri allievi.
Oltre alla didattica disciplinare bisogna avere una didattica che studia le strategie cognitive.
Si lavora sul metodo di studio, che andrebbe fatto dalla scuola primaria non arrivati all’università.
Il metodo di studio non è quello che si apprende con le strategie della memoria che si fanno nel weekend
con l’associazione di numeri , per alcuni va bene ma non per tutti. E’ un aspetto meta cognitivo
importante.
Ex. Abbiamo un brano di storia. Qual è la differenza tra una didattica cognitiva e meta cognitiva? Nella
didattica cognitiva ti chiedo di fare delle operazioni, come il riassunto (pensiero analitico).

Nella didattica meta cognitiva: domani te la chiedo, come potresti fare per studiarla? Non ti chiedo di farla
ma ti chiedo di indicare la modalità con la quale potresti ottenere un risultato.

Altro esempio: ora facciamo un brain-storming(traducibile in lingua italiana come assalto mentale, o
"tempesta di cervelli", è una tecnica creativa di gruppo per far emergere idee volte alla risoluzione di un
problema). Se io faccio il brain-storming , voi mi dite come lo studiereste. Nel brain storming bisogna
leggere almeno 10 volte, secondo le regole nel brain storming non si esprimono giudizi di valori. Dobbiamo
leggerlo una decina di volte, che conseguenze può avere, che conseguenze positive e negative potremmo
avere? Ex mi stanco, molta fatica,provo noia,etc.. Dobbiamo inserire quali sono gli elementi che secondo
noi hanno maggiori fattori positivi (più benefici che costi) .Questo è un lavoro meta cognitivo. Non sto
insegnandone uno ma cercando di portarvi a ragionare. E’ un altro metodo interessante nella didattica.

 Educazione emozionale e prosociale  vale soprattutto per i più piccoli. Anche qui ci sono
strategie importanti. Fare i conti con le emozioni per i bambini, training emozionali. Ci sono vari
tipi di autoregolazioni emozionali (come regolare le emozioni) le emozioni sono lecite, non
bisogna relazionarsi con l’aver paura, non è illogico aver paura o essere arrabbiato , può essere
illogica la conseguenza, può essere giusta o non accettabile la conseguenza, ma non il fatto che
io mi arrabbi. Per i bambini è importante non penalizzare delle forme emozionali oppure
modelli di lavori, come il SEL (social emotional learning) cioè l’apprendimento socio
emozionale che è uno sviluppo in chiave didattica della intelligenza emotiva di Coehn.

L’educazione pro sociale, cos’è la pro socialità: io sono pro sociale nel momento in cui finalizzo la mia
attività, il mio lavoro, il mio impegno al benessere dell’altro. Sono assertivo quando mi comporto in
maniera adeguata, cerco di raggiungere degli obiettivi personale, voglio essere bravo a scuola, essere il
primo della classe però rispettando le regole. L’aggressivo è quello che lo fa senza rispettare le regole.
Sono pro sociale nel momento in cui il mio obiettivo è aiutare l’altro. Non possiamo certamente essere
sempre pro sociali. Spesso facciamo cose pro sociali anche se sono assertive: ex faccio beneficenza ma ci
tengo che si sappia.

Come educare la pro socialità: un collega spagnolo Robert Roger ha fatto un programma bellissimo per la
pro socialità tradotto anche in italiano. È un progetto europeo e fa parte della università di Barcellona. Ha
individuato 10 obiettivi pro sociali.

1.Tutte le persone hanno una caratteristica positiva


2.Il secondo obiettivo è migliorare l’empatia
3. Migliorare i programmi di aiuti, etc

Poi lui ha strutturato una serie di attività didattiche per la scuola dell’infanzia e la scuola di secondo grado
per migliorare queste competenze. Non facciamo le regole delle buone maniere ma facciamo dei compiti
didattici che sviluppano obiettivi pro sociali.
Ex facciamo un tema di italiano. Ognuno di voi sorteggia il nome di un compagno, senza farlo vedere, e
sviluppa il tema di italiano su questo compagno , sviluppando almeno 3 caratteristiche positive sul
compagno, senza mai mettere il nome. Poi si leggono questi componimenti e si cerca di individuare questo
compagno di cui si parla. Esce fuori che tutti hanno delle caratteristiche positive.
Tutto questo può essere d’aiuto nei confronti con i compagni in difficoltà, è importante la conoscenza del
deficit. Alcuni insegnanti dicono spesso ,soprattutto con ragazzi con alto funzionamento, con anche
disturbo dello spettro autistico, fanno in modo che questi ragazzi si mimetizzano, che non si vedano, per
non mettere in evidenza i loro problemi , per non esporli al rischio che vengano messe in evidenza delle
difficoltà . Se la pensiamo in un ottica inclusiva dovrei fare esattamente l’opposto. Non si può attuare un
programma che escluda l’alunno disabile. Deve però iniziare dall’infanzia non dalle superiori. La costruzione
la facciamo sulla conoscenza dell’altro, senza associare alla diversità la negatività. Perchè le diversità sono
tante: non c’è solo lui che ha la disabilità, c’è anche chi mangia solo certe cose, chi si comporta in un
determinato modo. Tutto questo è positivo perché altrimenti resta il compagno strano che è con
l’insegnante di sostegno, che non fa neanche parte della nostra classe ed è difficile che diventi qualcuno
con cui interagire. I ragazzi con la sindrome di Aspergan della scuola secondaria di secondo grado sono in
Italia quelli che percentualmente subiscono il maggior numero di atti di bullismo. Perchè la vittima ideale
del bulletto di turno è il saputello, facilmente ingannabile, lo inganni facilmente, ti fa le cose che gli chiedi.
Se tu avessi costruito il percorso sulla conoscenza: dicendo lui ha la sindrome di Aspergan, che vuol dire
certe cose. Chiaro se ci sono situazioni che creano problematiche anche di natura emozionale, valutiamole
ma spesso sono fisse nostre. Io non lo devo fare, non devo dire,etc.. ma loro si valutano, si giudicano,
questo non deve diventare une elemento di negatività. Perché è più facile poi che lo invitano al
compleanno se lo conoscono. Quando comincio a fare una certa cosa so cosa devo fare e quindi ho
un’interazione migliore. Tutto questo significa fare inclusione. Dire: qualche volta lo faccio stare nella mia
classe, o quando si fa educazione fisica scarica un pò di energia. Ma questa non significa fare inclusione:
non vuol dire che sta sempre in quella classe ma non vuol dire neanche che è un ospite della mia classe.
Non funziona così. Queste cose non si cambiano domani, domani la scuola non migliorerà: ma possiamo
coinvolgere qualche collega, a mettere in campo qualche azione, che ci aiuta.

 Strategia di intervento sui bisogni speciali degli allievi parlare di educazione inclusiva non
vuol dire che non ci sono più i bisogni speciali. Se ho un allievo con sindrome di Down è chiaro
che lui ha bisogno di qualcosa di particolare. Tutto questo serve ma anche qualche strategia
che richiami un po’ il modello individuale di cui abbiamo parlato stamattina. Ma non posso fare
solo questo. Se faccio solo questo, ho bisogno che arrivi l’esperto di quella patologia e ci pensa
lui. No . Però non posso neanche pensare che lui non abbia esigenze particolari e non abbia
bisogno di qualcosa di specifico. Chiaramente questo sarà un ambito di conoscenza che
l’insegnante specializzato per il sostegno farà in maniera più accentuata, farà formazione
aggiuntiva. Ma qualcosa devo saper anche io come insegnante curriculare. È chiaro che
diventerà qualcosa di centrale se fate i FIT per il sostegno. Approfondiremo domani.
Per concludere abbiamo visto cosa fare: qualche possibilità ,ne abbiamo viste parecchie,
significative, queste prescindono dai contenuti. Non dobbiamo fare lo spazio del curriculo dedicato
all’inclusione. E’ un approccio di cui magari mettiamo in atto anche solo un elemento. Cosi si fanno
passi avanti importanti. Non pensiamo che o è tutto ok o è tutto uno schifo. Non funziona così.
È un cammino nel quale è importante non solo il risultato ma anche il processo, come lo metti in
campo, anche per l’insegnante stesso perché modifica anche me stesso come insegnante. Divento
più riflessivo. La professione dell’insegnante non si fa una volta per tutte. Non si costruisce solo
con la formazione iniziale, ma ti devi rapportare con la pratica e devi riflettere sulla pratica. Se
accumuli solo pratica non basta . L’insegnante esperto non è quello che ha l’esperienza, può anche
esserlo, ma non è detto. Se invece è riflessivo, cioè ragiona su quello che sta facendo, insieme ai
colleghi , ai supporti specialisti , allora è un’altra cosa.
La qualità della scuola si misura sulla qualità dell’inclusione. E anche la qualità dell’insegnante è
commisurata a quanto sei inclusivo: sei un insegnante migliore, sei più riflessivo, sei più capace di
fare i conti con la diversità.
Naturalmente questi punti sono tutti collegati. Questa è una schematizzazione, una
semplificazione, ma le cose sono un tutt’uno.
Non basta fare appello ai buoni sentimenti, non basta dire : dovete essere buoni,bravi, etc. Ma
bisogna mettere in pratica delle azioni inclusive. Bisogna prendere un impegno, bisogna creare
un‘abitudine, festeggiamo quell’allievo non solo per il compleanno ma perchè ha raggiunto un
risultato.
(slide)Sintesi di tutto quello detto fino ad ora: gestione della classe, clima della classe,
metacognizione, apprendimento cooperativo, assertività e prosocialità, autodeterminazione,
educazione delle emozioni, talenti e stili, conoscenza della diversità, individualizzazione/
personalizzazione, organizzazione, adattamento curricoli.
4. Piano dell’evidenza empirica: l’educazione inclusiva funziona? (domande varie)
Una volta i programmi scolastici erano prescrittivi, si pensavano per l’allievo medio. Ogni
programma è diverso, da paese a paese.
-Domanda trattante gli aspetti legati all’interculturalità: presenza di allievi diversi nelle classi con
livelli diversi e bassi di scolarizzazione. Anche per questo c’è un percorso?
Si sta facendo un grosso sforzo con master ,su tutto il territorio nazionale, in educazione inclusiva
di tipo interculturale, per sapere come orientarsi in queste situazioni particolari. I principi sono
sempre quelli ma li devi coniugare sempre su contesti complessi sul piano dello svantaggio socio
culturale. Ha senso se lo si vede come svantaggio temporaneo, non è una disabilità.
Nel sito c’è anche materiale su questo se vi interessa, nella sezione interculturalità.
Se vi può interessare stiamo sviluppando un master per 100 insegnanti di varie discipline sia della
scuola primaria e secondaria di primo e secondo grado che prevede oltre agli insegnamenti, anche
esperienze di ricercazione. Poi questi docenti formati (non so se ci sia anche in Calabria)che fanno il
master diventano i tutor di colleghi in contesti socio culturali ad alta presenza di allievi migranti.
-Domanda: Il rapporto didattica inclusiva-prova invalsi?
Non c’è rapporto , hanno funzioni diverse. Le prove invalsi non hanno niente a che fare con
l’educazione inclusiva. Sono dei modelli di lavoro molto specifica. I livelli di acquisizione di certe
conoscenze a determinati livelli di età; voglio valutare in maniera comparativa su territorio
nazionale qual è l’acquisizione di certi contenuti, per confronti anche internazionali – ecco a cosa
servono le prove invalse.
L’insegnante solitamente si sente giudicato dalle prove invalse, pensano che viene valutata non
valida la propria classe. Non è quello. Viene dato un eccessivo valore alle prove invalsi come se
fossero un fattore educativo ma non lo sono. Sono semplicemente una misurazione di
apprendimento in un determinato periodo del percorso per confrontarlo con altri. Non devono
essere intesi come una valutazione personale dell’insegnante.
-Domanda: perché continuiamo a calcolare il quoziente intellettivo? Mica misura l’intelligenza, ma
misura alcune competenze di tipo linguistico- cognitivo. Non ci aspettiamo che siano dei modelli
per valutare la competenza in maniera specifica ma valutano quella cosa li: ci serve, non ci serve. È
una cosa limitata.
Sempre parlando delle prove invalsi per alcune cose possono essere utili ma per altre no. Possiamo
notare la ritrosia della scuola italiana ad essere valutata. Non dobbiamo continuare a pensare che
sia un ambito di autovalutazione. Mette in evidenza come il nostro lavoro sia un lavoro ricorsivo.
Bisogna riflettere su ciò che si fa.

Tornando a noi cosa sappiamo realmente sugli studi valutativi, sul come funziona? Quali sono i
problemi, le difficoltà dal punto di vista dello sviluppo di una didattica inclusiva?

Domanda: Cosa fare quando si ha a che fare con bambini autistici e down, per fari si che non si
sentano discriminizzati . Come faccio a sensibilizzare, informare i bambini perché una delle
condizioni è quella della conoscenza della diversità del deficit sulla condizione dei loro allievi.
Ci sono tutta una serie di prodotti per i piccoli come storie figurate, video, libretti, fumetti,etc che
sono molto belli nei quali il personaggio è diverso, fa certe cose. Ex “il re del mercato” basato su un
bambino autistico. Sono dei programmi simpatici che con il linguaggio del bambino presentano le
diversità. Se lo conosciamo è più facile aiutarlo.
Solitamente gli adulti hanno una ritrosia nei confronti del metodo inclusivo: come faccio a dire
questa cosa davanti a quell’allievo? Come si sentirà? Domani vedremo un video proprio su questo.
Una donna racconta la sua storia, racconta quando ha capito quanto è importante il momento in
cui ha capito cosa effettivamente arriva.
Le resistenze mentali sono più degli adulti che dei ragazzi.
Il concetto di felicità, di soddisfazioni, si obiettivi, lo fissiamo sempre sulla base di una media che è
quella che ci sembra importante per lui, non per la persona. Questo ci deve far riflettere. È un
sistema che si esperimenta anche vivendo con le persone. Lo aiuto se riesco a fargli capire certe
cose. Ci sono strumenti per i piccoli, per i più grandi, ci sono sistemi attraverso i quali lo si aiuta a
studiare la sua stessa situazione al ragazzo (il fatto di avere un cromosoma in più, non ti manca
qualcosa ma ne hai troppo). Tutti sistemi che si mettono in campo cosi tutti sanno cosa c’è che non
va ma nessuno sa cos’è, poi finisce la scuola e il percorso diventa familiare o di associazioni più
chiuse, che poco si addicono alla vita sociale. È un percorso non semplice ma è l’unico che si sposa
con la filosofia inclusiva. Non siamo tutti uguali e non possiamo fare finta che lo siamo.
Stiamo ragionando tra noi, non sto dicendo le cose giuste, sto dicendo cose anche provocatorie per
stimolare l’interazione tra di noi. E’ un aspetto che si collega ai principi del “come la penso”.
Se ci avviciniamo a una persona con sindrome di down ci sentiamo in diritto di dargli del tu, anche
se ha 42 anni, come se fosse un bambino. Lo facciamo perché abbiamo uno stereotipo. Ma
sappiamo che il mondo è popolato da persone con caratteristiche diverse.
Dobbiamo essere convinti di questo, a scuola. Alcune situazioni sono immodificabili finchè
persisteranno, altre sono ….. Con elementi un po’ più deboli, se poi ci arrivi con scarse convinzioni,
senza averle approfondite, non fai altro che adeguarti ad uno status quo che non cambierà mai.
Non vai avanti.
Le nuove generazioni , i nuovi modelli formativi dovrebbero consentire qualcosa in più . Non so
come verrà fuori, ma se pensate ai contenuti del modello FIT è un passo avanti. È un modello
formativo superiore al passato.
La formazione continua è un dovere, non facoltativa.
Domani vedremo di creare gli organizzatori anticipati. La scuola inclusiva è anche una scuola in cui
l’apprendimento è efficace? Quali sono le strategie più efficaci?
Affrontiamo un attimo l’ultimo aspetto dello schema:
Strategia di intervento sui bisogni speciali degli allievi prendendo in considerazioni gli allievi
autistici, che sono quelli più complessi perché anche quando sei con un livello di funzionalità alto
ma hai grandi problemi a livello relazionale, o hanno altri tipi di problemi come disabilità
intellettiva, problemi sensoriali, autolesionismo, aggressività ,diventa tutto più complesso; questi
principi qui come li possiamo coniugare nella situazione più grave, più problematica che c’è?
Vedremo tutto domani.
2)PEDAGOGIA SPECIALE 23/4/2018 fino alla pausa (PRIMA PARTE) Prof
Lucio Cottini
Stamattina abbiamo definito che cos’è l’inclusione e come trasversalmente si ponga
negli insegnamenti, non è una materia, non è una disciplina particolare ma è un
modo di approcciarsi alle situazioni ed abbiamo cercato di distinguerla dal concetto
di integrazione.
Abbiamo accennato i quattro piani dell’inclusione che non sono tra loro divisi:
1. IL PIANO DEI PRICIPI in Italia ne abbiamo parlato tanto forse anche troppo
a livello di principi in confronto alle applicazioni che poi siamo riusciti a
mettere in campo, però è assolutamente necessario entrarci dentro capire di
cosa stiamo parlando avere un substrato adeguato perché poi anche le prassi
possano in qualche modo germogliare. Quindi la riflessione che abbiamo fatto
sui modelli della diversità come va intesa ci hanno portato a poter affrontare gli
aspetti più metodologici e didattici in maniera concreta.
2. IL PIANO ORGANIZZATIVO investe sulle alleanze, quindi sul lavorare un
pò insieme, prima che sia coinvolto anche il dirigente scolastico; chiaramente
l’inclusione non è una questione di insegnante di sostegno, ma è una questione
che si costruisce tutti insieme. Abbiamo visto l’importanza di interagire con le
famiglie con gli specialisti ecc.. Questa alleanza è molto ribadita più che
praticata soprattutto nella scuola secondaria dove c’è l’abitudine di lavorare
insieme.
Non esiste un programma per allievo medio ma non esiste neanche un
programma per l’allievo questa affermazione è pesante perché non possiamo
pensare faccio il mio programma di questa disciplina perché è una doppia
implicazione. E’ logico che non esiste un programma per allievo perché molto
spesso dobbiamo individualizzare le programmazioni, ma non vuol dire che se
ho 25 allievi faccio 25 programmi, non è mai riuscito a nessuno è un’assurdità
metodologica. Allora possiamo fare sostanzialmente due cose la prima è
abbastanza rassicurante perché la si mette sempre in campo cioè faccio il
programma per la mia classe poi per coloro che non ce la fanno per vari motivi
attiveremo momenti di recupero di approfondimento con forme varie ecc. cioè
chi non ce la fa lo aiutiamo.
La seconda strada è UNIVERSAL PROGRAMMING FOR LEARNING
PROGRAMMAZIONE UNIVERSALE PER L'APPRENDIMENTO UDL è
quella che ci fa chiede prima cosa possiamo fare per far si che il numero di
coloro che poi dovranno essere oggetto di momenti di approfondimento di
recupero di potenziamento ecc. sia un po’ inferiore.
Quello che è necessario per qualcuno può essere utile per qualcun altro come
l’esempio delle rampe che servono per le persone in carrozzina, ma la mamma
col passeggino ci passa o al supermercato quando abbiamo il carrello pieno
utilizziamo la rampa.
E’ una logica di compensazione perché se quel determinato tipo di elemento
serve per aiutare alcune persone ma la logica è che io non semplifico quindi
non modifico i contenuti, ma i contenuti diventano solo più maggiormente in
grado di impattare sulla modalità anche di apprendimento diverse.
L’insegnante potrebbe lavorare attraverso l’adattamento dei curriculi:
 sul modello di presentazione, posso farlo in maniera diversa con
immagini usando la tecnologia
 sulla modalità di espressione delle conoscenze e delle competenze dei
miei allievi
 modalità di elaborazioni le opzioni possono essere:
a) opzioni per le funzioni esecutive ad esempio guidare la
scelta, guidare l’elaborazione dell’informazione,
aumentare la capacità di controllo
b) opzioni per la comprensione
c) opzioni per le diverse forme di pensiero si può
presentare in maniera diversa aggiungendo stimoli,
facendo presentazioni con supporti multimediali,
le modalità di espressione.
Ad esempio alcuni studenti non hanno dimestichezza col
pensiero analitico, ma sono più creativi, cioè inventano
cose nuove.
Alcuni allievi sono bravi sul modello del pensiero più
pratico ma non sul modello analitico.
L’intelligenza non è solo quella dei test esistono dei modelli diversi.
Si è visto nella scuola primaria che quando hanno inserito molte più immagini o
utilizzare delle schematizzazioni delle giornate, delle attività ecc. gli allievi con
disturbi dello spettro autistico magari a buon livello di funzionalità si sono trovati
molto meglio, ma molti degli altri allievi ne hanno tratto giovamento, non si è
rallentato.
Il gioco non si migliora solo con le schede il miglioramento si fa sul piano della
metodologia, dell’approccio, della programmazione, dell’errore, della condivisione di
alcuni elementi ecc..
3. IL PIANO METODOLOGICO-DIDATTICO

Le strategie di didattica inclusiva una prima cosa importante è il clima e


gestione della classe quindi la modalità con cui gestisco il clima della classe se
il clima è molto competitivo i processi inclusivi fanno più fatica a decollare, il
clima della classe deve coesistere tra il clima individualistico, competitivo e
collaborativo. Non si può pensare di togliere la competizione perché i nostri
allievi competono su tutto, ma non si può nemmeno enfatizzarla oltre misura
perché non giova ai processi di condivisione, così pure alcune cose dal punto di
vista individualistico vanno fatte senza arrivare a come si faceva un tempo “chi
fa da se fa per tre”. Esistono dei questionari di 30 domande sul clima della
classe dove 10 denotano, un clima individualistico e 10 denotano un clima
collaborativo. Si può far fare questo questionario agli allievi ad inizio anno e a
fine anno per vedere se il loro pensiero è cambiato durante l’anno. E poi si stila
un istogramma per vedere che clima si è creato nella classe.
Inclusivo non significa il lassismo i nostri allievi possono fare quello che gli
pare al contrario le regole ci devono le sanzioni se vengono previste devono
essere applicate, ma possiamo anche condividerle con gli allievi. Quello che
incide di più non è la predica perché non conta quello che gli dici ma il modo
come tu ti atteggi quello che chiamiamo il modeling o l’apprendimento
educativo.
Il secondo ci sono le strategie cooperative cioè va sollecitato la cooperazione
tra i miei allievi, cioè l’aiuto tra pari. Lavorare sulle strategie cooperative fa
cambiare anche il clima della classe perché sono in connessioni tra di loro i due
aspetti.
Non esiste il metodo ti faccio vedere alcuni esempi che potrebbero essere utili
a qualcuno. L’associazione si usa quando devo ricordare poche cose.
Ausubel autore importante nel 1978 propose il programma degli organizzatori
anticipati per l’apprendimento significativo; domani tu hai la lezione di
chimica, valla a leggere cosi il tuo apprendimento è decuplicato perché hai
creato un organizzatore anticipato e quindi ti sei pre- attivato.
Ausubel diceva “indaga quello lo studente già sa e indaga di conseguenza”
cioè l’apprendimento significativo si crea nel momento in cui tu vai a
modificare la struttura cognitiva di cui già disponi non semplicemente
sommando e l’apprendimento significativo non è solo per scoperta ma anche
per trasmissione.
Pio abbiamo le strategie cognitiva e metacognitiva la prima ti chiedo di fare
delle operazioni quindi si applica il pensiero analitico, mentre la didattica
metacognitiva domani ti chiedo come potresti fare per studiarla? Cioè non ti
chiedo di studiarla ma di indicare la modalità attraverso la quale potresti
ottenere il risultato.
Infine troviamo l’educazione socio-emozionale e prosociale , la prima riguarda
l’educazione dei più piccoli , cioè si fa il conto con le emozioni e come
regolarle, le emozioni sono logiche può essere giusta o no la conseguenza
dovuta all’emozione. Mentre l’educazione prosociale finalizza la mia attività,
il mio lavoro, il mio impegno a favore dell’altro, il mio obiettivo è quello di
aiutare l’altro è chiaro che nessuno può essere sempre posociale; mentre
l’assertivo quando mi comporto in modo adeguato cercando di raggiungere
obiettivi professionali e rispetto le regole, l’aggressivo è quello che non rispetta
le regole.
Per Robert Roche ha individuato 10 obiettivi prosociali per educare la
prosocialità:
1) Tutte le persone hanno una caratteristica positiva
2) Migliorare l’empatia
3) Migliorare i programmi di aiuto
Ecc..
Poi Roche ha strutturato una serie di attività didattiche dalla scuola dell’infanzia alla
scuola secondaria di secondo grado per migliorare queste competenze, si svolgono
dei compiti didattici che sviluppano le competenze prosociali ad esempio svolgiamo
un tema di italiano ma ognuno di noi sorteggia il nome di un compagno senza farlo
vedere a nessuno e scrive il tema con almeno tre elementi positivi sul nostro
compagno senza mai specificare il nome del compagno. Poi si andranno a leggere
tutti i temi per associare a quel tema il nome del compagno, così sviluppi il primo
obiettivo prosociale sempre facendo italiano.
Se parliamo di didattica inclusiva non vuol dire che non ci sono più i bisogni
speciale, cioè se ho un allievo con sindrome di down è chiaro che lui ha bisogno di
qualcosa di particolare; quindi va trovata una strategia che riguarda il modello
individuale. Non posso dare solo attenzione agli allievi con bisogni speciali, perché
se faccio solo questo bisogna che venga il tecnico super esperto di quella patologia e
risolva tutto lui, ma non bisogna pensare che il bambino con bisogni speciali non
abbia esigenze particolari e che non abbia bisogno di qualcosa di specifico.
E’ importante anche il processo perché la professione dell’insegnante non si fa una
volta per tutte, non si costruisce solo con la formazione iniziale, se accumuli solo
pratica non basta.
L’insegnante esperto non è quello che ha l’esperienza, può esserlo ma non è detto,
deve ragionare su quello che sta facendo insieme ai colleghi, a supporti specialistici.
La qualità della scuola si misura sulla qualità dell’inclusione e anche sulla qualità
dell’insegnante che è commisurata a quanto sei inclusivo perché sei meglio come
insegnante sei più riflessivo, sei in grado di fare i conti con la diversità con le
famiglie.
Se l’approccio dell’insegnante è rivolto solo agli studenti con bisogni speciali il mio
appoggio è riabilitativo, invece l’approccio dell’insegnante deve essere sia verso gli
studenti con bisogni speciali sia al clima e gestione della classe sia verso le strategie
cooperative, sia verso le strategie cognitive e metacognitive ed infine verso
l’educazione sociale e prosociale.
Attivare la risorsa compagni e pensare che basti “l’appello ai buoni sentimenti” è
un’illusione che non trova concretizzazione nella realtà, cioè non basta dire agli
alunni dovete essere buoni, dovete essere bravi, bisogna mettere in campo delle
azioni significative; ad esempio mi impegno che se qualcuno ha bisogno io sono
disponibile, cioè si crea un’abitudine; festeggiamo quell’allievo non perché il
compleanno, ma magari ha raggiunto un risultato queste sono una serie di azioni
didattiche che influenzano il clima, che vanno sull’interazione e quindi sulle strategie
cooperative . Sono importanti le competenze disciplinari, ma se poi non ti rendi conto
di chi hai di fronte l’insieme di stereotipi del bambino ideale che tu hai; quindi la tua
competenza finisce per assumere un ruolo non così ampio e stimolante.
Un conto è quello che sai un conto è quello che sai fare con quello che sai che è il
concetto di competenza, se ti limiti a quello che sai fai un po’ più fatica
Lezione di Pedagogia Speciale della mattina del 24 aprile ( Seconda
Parte, da dopo la pausa a fine lezione mattina)

Eccoci qua, adesso ci concentriamo sulle strategie di intervento sui bisogni speciali degli allievi,
sempre con le raccomandazioni in riferimento alla schematicità, vediamo cosa accade quando
abbiamo a che fare con allievi che hanno difficoltà specifiche e queste difficoltà specifiche che
chiamiamo i bisogni educativi speciali, non vengono meno perché abbiamo deciso di fare
l’inclusione, quindi inclusione è una scuola per tutti, certamente quelle cose sono fondamentali, poi
qualche elemento di attenzione particolare per queste situazioni, ce le dobbiamo mettere però, se
abbiamo l’allievo con autismo o con disabilità intellettiva qualcosa dobbiamo fare.

Questo è l’universo dei BES, ovvero dei Bisogni Educativi Speciali. Abbiamo la
Disabilità( intellettiva, motorie, sensoriali), il Disturbo( DSA disturbi specifici dell’apprendimento,
ADHD disturbo da deficit di attenzione e iperattività, Funzionamento Intellettivo Limite) e poi
l’area dello Svantaggio. Quando parliamo di BES parliamo di tutto questo. Le condizioni di
Disabilità sono quelle certificate con la legge 104 che poi permettono di acquisire la dotazione di
insegnanti aggiuntivi, quindi gli insegnanti specializzati per il sostegno.
!

Ecco quello che volevo un attimo premettere, dato ch noi parliamo di apprendimento dei nostri
allievi, vogliamo insegnare delle cose che loro possono apprendere, non solo come scienze ma
anche come competenze, quindi non solo quello che sai, ma anche quello che sai fare che è l’aspetto
legato alle competenze. Ecco quali sono i problemi principali dei nostri allievi con situazioni di
disabilità. La parte interna della diapositiva sono i processi che avvengono nell’apprendimento, cioè
quando noi chiediamo ad esempio ad un nostro allievo e gli diciamo guarda fai questa operazione di
matematica, piuttosto che leggi questo brano di storia e poi me lo ripeterai, oppure fai questo
esercizio motorio e poi lo dovrai ripetere, quindi presentiamo una certa situazione stimolo ai nostri
allievi, tra questa situazione stimolo ed il fatto che loro facciano la prestazione che cosa accade e
quali problemi hanno gli allievi che presentano quei bisogni educativi speciali che vedevamo prima.
Oltre questi aspetti ce ne sono altri come la motivazione, l’atteggiamento metacognitivo,
l’intelligenza e stile, l’autoefficacia e l’autostima, che non agiscono direttamente sui dati, ma che
permettono di funzionare meglio questi sistemi, cioè ad esempio se il mio allievo è motivato
certamente concentrerà più l’attenzione, quindi se lui ha un deficit di attenzione io posso lavorare
sulla motivazione e poi all’esterno della diapositiva ci dovrebbe essere un’altra ellissi relazione e
contesto ovvero l’apprendimento avviene non in un vuoto, ma avviene in un contesto, allora non li
affrontiamo tutti questi aspetti, ma ci servono per capire quali caratteristiche hanno, cioè facciamo
un esempio qualsiasi anche molto semplice, devi leggere un brano e riferirmi gli aspetti principali,
oppure devi fare qualche operazione aritmetica, oppure devi fare qualcosa legata all’educazione
artistica, quindi qualsiasi situazione la chiamiamo stimolo, quello che propongo, fra questo ed il
fatto che loro lo facciano quali processi avvengono; il primo è l’attenzione che rappresenta la porta
d’ingresso dei nostri processi cognitivi, cioè io apprendo quello su cui concentro l’attenzione.
L’attenzione dei nostri allievi con disabilità come funziona? Ad esempio se noi abbiamo un allievo
con disabilità intellettiva con sindrome di down, come funziona la sua attenzione, perché se mi
aspetto che lui abbia una organizzazione simile a quella dei suoi compagni magari mi sbaglio, ad
esempio la sua attenzione ha difficoltà a focalizzare gli aspetti essenziali del compito, cioè su cosa
deve stare attento, legge il brano e quali sono le parti dove deve stare attento diventa complesso,
quanta quantità di attenzione quindi volume dell’attenzione riesce a metterci poca, magari non sa gli
aspetti essenziali su cui concentrarsi e tiene poca capacità di attenzione; la settimana scorsa ero in
una classe primaria e lavoravano con i blocchi logici per le forme geometriche, ma la sua attenzione
era sulla forma oppure sul colore, sembra banale ma così non è, probabilmente il colore attira
maggiormente l’attenzione, quindi è chiaro ch dal punto di vista didattico che cosa devi fare, prima
lavoro su situazioni che hanno colori identici e quindi tutti quanti sono dello stesso colore e poi ti
dicono trova il quadrato anche se di colore diverso, tutte queste cose le devo tenere in memoria,
perché se prendo un allievo con autismo ad esempio dal punto di vista dell’attenzione il suo
problema è diverso cioè lui non ha difficoltà a capire questi aspetti, oppure concentrare l’attenzione
per un tempo più lungo, poi dipende dal livello di funzionalità perché alcuni hanno anche un
problema legato ad aspetti cognitivi chiaramente, quindi a basso funzionamento, il suo problema è
sulla focalizzazione dell’attenzione, cioè l’allievo con autismo concentra l’attenzione su aspetti
minimali, noi diciamo iperfocalizza la sua attenzione, ti guarda interessato solo al bottone della
camicia, quindi tu gli illustri chissà che cosa ma la sua attenzione è iperfocalizzata non funziona,
noi diciamo vede l’albero ma non vede il bosco, cioè tiene una percezione molto minimale, questo
condiziona molto l’apprendimento, ci fa capire come possiamo agire, io ho seguito per anni una
bambina con livello di funzionamento molto basso, non parlava pero era brava a fare i puzzle, che
sono cose che succedono spesso, però lei era brava a fare i puzzle al rovescio, cioè non con
l’immagine, se tu le mettevi l’immagine della casa lei non ce la faceva, perché l’immagine la
costringeva a ragionare sulla globalità della situazione, mentre lei lavora molto meglio sulla forma
delle tessere, ognuno di noi deve fare la casa, quindi faccio il tetto, prima guardo se ci sia una cosa
rossa, poi vado a vedere se si incastra, il modello di ragionamento di un allievo con autismo è prima
la particolarità, ed è il motivo per il quale alcuni di loro che non hanno problemi intellettivi poi
diventano molto abili su alcune cose, quelle che noi chiamiamo le isole di abilità, perché l’interesse
è focalizzato in maniera particolare su quello, ci dedichi grande attenzione, quindi ti interessano
soltanto i mezzi di trasporto e magari li conosci tutti, non hai problemi intellettivi particolari. Se ho
un allievo con deficit di attenzione con iperattività la ADHD, a livello di attenzione lui funziona in
maniera ancora diversa, il suo problema non è ne quello della quantità di attenzione, ne quello del
focalizzarsi su alcune cose, il suo problema riguarda la stabilità dell’attenzione, cioè non riesce a
stare concentrato sulle cose, parte con altre situazioni, sia a livello motorio ma anche mentale, cioè
per lui diventa quasi impossibile cominciare a pensare sta ascoltando l’insegnante e poi comincia a
pensare che dopo giocherà, che dopo comincia a pensare che farà un’altra cosa, poi passa un aereo
fuori e parte ancora, cioè è continuamente a costruire situazioni diverse; un insegnante si lamentava
perché non sapeva come fare, gli do un’ora come i suoi compagni e lui in 55 minuti accartoccia la
carta, rompe le penne, spinge ad uno, fa tutte una serie di cose, gli ultimi 5 minuti saprebbe anche
farlo però a quel punto il tempo è poco per cui pasticcia e fa gran confusione, ho deciso che invece
di dargli un’ora gli darò due ore secondo lei faccio bene? Questo è stato il quesito che mi ha rivolto,
la risposta è stata l posso dire cosa succederà, un’ora e 55 farà tutte le sue cose e gli ultimi 5 minuti
farà quello, cioè devi fare esattamente l’opposto, però devi conoscere certi principi, cioè nel senso
gli devi dare dei limiti, quindi tempi brevi, controllo della situazione e poi lo impegni ancora,
perché altrimenti lui girerà pensieri continui, quindi sono situazioni diverse. A livello di memoria di
lavoro stessa cosa, cioè cos’è la memoria di lavoro, ovvero la capacità di mantenere per breve
tempo le informazioni, allora se devo fare un’operazione in colonna diciamo della matematica,
oppure devo leggere un brano perchè me lo devo ricordare e chiaro che devo mantenere in memoria
quello che ho letto prima, per dargli un significato, se no chiaramente non ce la faccio, oppure devo
mantenere in memoria certe operazioni mentre vado a cercare alcune regole del calcolo mentale
della memoria, anche queste hanno aspetti particolari, l’allievo con disabilità intellettiva ha un
deficit generalizzato a questo livello si ricorda minime cose, sappiamo che anche l’ampiezza risulta
essere particolare, faccio un esempio, se io adesso dicessi ad uno di voi, adesso le dico 20 sillabe
senza senso, dopo 20 secondi lei me le dovrà ripetere, tipo pan-gli-stra-pun ecc..domando a tutti
secondo voi quante se ne ricorderà più o meno? Circa 7 c’è un articolo di Miller che parla del
magico numero 7-8-9, soprattutto le prime e soprattutto le ultime; se questa cosa qua, la facciamo
con un vostro allievo con sindrome di down di scuola media, secondo voi quante se ne ricorda? 2 o
3 elementi si chiama span di memoria, cioè è chiaro che se tu devi leggere di memoria ed hai 2 o 3
me-mi-mo-mu il me se lo ha scordato, cioè non gli rimane in memoria, capite quindi che la sua
prestazione viene a decadere pesantemente, allora altra cosa le chiedo: le darò queste 20 sillabe,
saprò che se ne ricorderà quelle 3, però le faccio fare un compito diverso, nei 20 secondi che
intercorrono tra la conclusione cioè quello che le ho detto ed il fatto che lei me le ripete, le chiedo di
contare ad alta voce da 985 e togliere 3 alla volta, quindi 985, 982, 979 e così via ad alta voce dopo
20 secondi lei mi deve dire quelle che si ricorda, se le ricorderà più o meno di prima? Meno, lui
come ognuno di noi nei 20 secondi di tempo che intercorrono fra la fine della presentazione ed il
momento in cui me lo deve ripetere che cosa fa? Fa due operazioni ovvero cerca di mettere insieme
le cose che si chiama codifica, l’altra se la ripete, tipo il numero di telefono, se qualcuno ci dice il
nostro numero di telefono con una codifica diversa 83547490 questo non è il mio, noi cerchiamo di
usare dei sistemi che ci permettono di collegare delle cose, dato che gli spazi sono pochi 789 ecc..e
le richieste sono eccedenti cosa faccio li codifico, cioè se dico 32 dal punto di vista dell’impegno
della memoria la stessa cosa che dicessi 3, impegno sempre lo spazio, questo però richiede
attenzione, cioè mi devo concentrare su quello, se io lo faccio contare all’indietro non si tratta di un
compito automatico, se gli chiedessi tu nei 20 secondi conta in avanti, oppure dimmi l’alfabeto
ABCD… nessun problema si ricorderebbe uguale, perché questo è un compito automatico, invece il
contare all’indietro togliendo 3 alla volta ci devi pensare. Abbiamo fatto lo stesso esperimento con
sindrome di down, di età dai 15 ai 25 anni, gli presentavamo un certo numero di parole e poi gli
chiedevamo di fare dei compiti non automatici come dire le lettere delle parole ecc.. alla fine ci
aspettavamo che la loro prestazione calasse quando nello spazio di tempo era collocato un compito
interferente, cosa è successo, che non peggiorano, perché meno sviluppata, cioè cosa facciamo noi,
usiamo delle strategie, cioè le mettiamo insieme, perché non peggiorano, perché anche quando
hanno il tempo di usare delle strategie non sono in grado di farlo, quindi no si tratta di una cosa che
migliora, cioè tu hai un limite strutturale e hai anche un limite funzionale, cioè nel momento in cui
puoi fare certe cose, poi non lo fai perché sei capace di farlo, quindi hai un deficit ipocognitivo da
questo punto di vista, quindi capite che l’apprendimento diventa complesso anche per questi motivi,
cioè non posso usare certi sistemi, l’allievo con disturbo dello spettro autistico ha un funzionamento
diverso a questo livello, cioè per lui è come una foto cioè una memoria meccanica poco strategica,
cioè magari se ne ricorda anche 20 senza problemi, però se deve studiare un brano lui non sa
distinguere la parte essenziale dal dettaglio spesso, non si tratta solo di una mancanza da un punto
di vista quantitativo ma anche qualitativo. In generale nell’autismo il problema che si trova a vivere
la persona riguarda la difficoltà ad uscire fuori da quello che tu conosci, come se noi arrivassimo in
un mondo diverso, non hai nessuna idea di che cosa stiamo facendo qui, mentre quando capisci la
realtà ti muovi in maniera più adeguata, cioè che cosa non riesce a fare la persona con autismo in
questo caso, cioè non riesce a prevedere delle situazioni che vanno oltre quello che lui ha capito,
quindi ha una memoria meccanica molto buona, ma non sa usarla in funzione di certe situazioni. Ad
esempio vi sono ragazzi che sanno fare dei calcoli più veloci di una calcolatrice in alcuni casi, però
non sanno comprarsi un panino, questi aspetti sono molto importanti per capire la didattica. La
stessa cosa avviene sulla memoria a lungo termine, devi recuperare dalla memoria a lungo termine
cose che conosci, anche qui agisci in maniera differente, cioè quello che dicevamo ieri ovvero
l’avere la possibilità di collegare tipo gli organizzatori anticipati, nelle persone con disabilità non
funziona, qui non solo hai limiti, ma hai anche problemi strategici, cioè non sai funzionarla al
meglio, un allievo con autismo magari si ricorda tantissime cose, ma poi usarli in funzione di quel
particolare momento diventa problematico, allora di fronte a tutto questo ci serve a dire che cosa
possiamo fare con gli allievi con disturbo autistico.

I principi che abbiamo visto fino ad adesso proviamo a portarli all’interno di questa situazione.

Proviamo a farla partendo da questa diapositiva. Ho messo a sinistra della slide i dubbi
dell’insegnante quando abbiamo allievi così complessi con autismo, mentre a destra della slide le
domande dell’allievo, cioè che cosa mi chiederebbe se fosse in grado di farlo, che denotano il suo
funzionamento. E’ chiaro che una metodologia, la posso ottenere se metto insieme le cose, perché
se considero solo il mio punto di vista e non cerco di ascoltare pure lui, faccio poca strada, quindi
un tentativo di entrare nelle logiche dell’inclusione, cioè cosa posso fare in classe, cosa posso fare
con l’aiuto dei compagni e così via. Guardate la prima domanda, deve restare sempre in classe
oppure deve anche andare nella classe di sostegno, cioè sfido chiunque abbia avuto questo tipo di
esperienza ad essersi posto una domanda del genere, cercheremo di dare qualche risposta, lo
abbiamo detto anche ieri cioè che non rispondiamo in maniera ideologica, l’inclusione vuol dire che
ci deve stare sempre, però poi lui ha dei problemi sensoriali a volte molto consistenti, nel caso di
rumori di ventole di raffreddamento; mentre per altri le problematiche sull’ipersensorialità visiva,
ci sono molte luci con cartelloni appese al muro che lo mandano in tilt, anche il neon troppo forte;
per altri problematiche di natura olfattiva, gli da fastidio l’odore della persona e non perché non si
lavi, ma impatta sul sistema sensoriale molto carente. Quindi se faccio un lavoro di gruppo, parte la
discussione in classe, parlano in tanti, in questa situazione difficile da un punto di vista sensoriale,
si alza l’ansia e può avere problemi comportamentali molto importanti, quindi devo stare molto
attento a queste cose. Seconda domanda sono un insegnante non uno psicologo come posso valutare
allievi così strani, un’altra delle questioni che ci poniamo, valutare e anche intervenire, come si
pone l’insegnante, qualcuno deve dirmi cosa devo fare, certamente abbiamo bisogno di persone che
ci aiutano con professionalità anche diverse, come lo psicologo, il neuropsichiatra, però poi la
didattica è una roba nostra, non possiamo pensare che arriva il logopedista e mi dice cosa possiamo
fare con l’allievo che ha dei deficit di lettura come in questo caso, cosa ne sa mica lo ha spiegato,
quindi dobbiamo crescere da questo punto di vista, non possiamo essere meri esecutori di quello
che ci dicono altri, quando abbiamo delle persone che pongono dei problemi, ma dobbiamo avere
delle conoscenze da questo punto di vista, perché altrimenti l’insegnante diventa sempre l’esecutore
di qualcosa di altri che non hanno le conoscenze didattiche gli dicono di fare che non va bene,
anche nell’equipe funziona spesso così. Altra domanda a scuola devo fare le stesse cose che fanno
nel centro riabilitativo, il pomeriggio va a fare un programma riabilitativo, devo rifare la stessa
cosa, la scuola è una cosa diversa dalla riabilitazione, bisogna tenerlo bene in testa; quale metodo
devo usare, magari c’è il metodo. Altra domanda quando manifesta problemi comportamentali cosa
posso fare, si fa del male cosa faccio, come posso agire, e chiaro che non posso fare tutto da solo,
però alcune strategie le abbiamo, perché quello che funziona con uno non e detto che funzioni con
gli altri, nell’ambito dell’autismo abbiamo situazioni meno generalizzabili che in altri contesti. Altra
domanda perchè nessuno capisce che questo ambiente mi infastidisce, lui ce lo direbbe mi da
fastidio, viene sollecitata così una condizione di tipo sensoriale che magari mi caratterizza, tutte le
persone con autismo hanno problemi sensoriali, che sono iper o ipo, in alcuni casi batti la testa
contro il muro e non dai segni di dolore, ti colpisci sembra che non ti fai male ma ti distacchi la
retina, in alcuni casi più gravi. Se non pensiamo ad un allievo con autismo che si adatti alla realtà
diventa difficile, bisogna un pochino che anche l’ambiente va nei suoi confronti, cioè nell’aspetto
inclusivo, devi un pò modificare le cose. Perché i miei messaggi non vengono compresi, noi
abbiamo uno stereotipo ovvero l’allievo con autismo non interagisce con gli altri, non è vero, alcuni
genitori dicono professore non può essere autistico perché quando incontra qualcuno gli sale sulle
ginocchia, oppure gli va vicino gli tocca qualcosa ecc…, come può essere autistico mica si mette
sempre per conto suo, quindi non è vero che le persone con autismo evitano il contatto, alcuni lo
fanno mentre altri no, altri li chiamiamo attivi ma strani, cioè provano ad interagire ma non hanno
idea di come si fa, allora è chiaro che bisogna cercare di insegnarglielo, poi se abbiamo tempo
vediamo il filmato di una signora che parla di se stessa, che è assolutamente eloquente straniera con
130 di quoziente intellettivo, sopra la media nella gaussiana solo circa il 2-3 % di persone hanno
quel livello in base ai test; quindi una persona molto intelligente come è possibile che riscontra
difficoltà in situazioni apparentemente banali, parla cinque lingue però la relazione la deve fare in
svedese, poi per il linguaggio colloquiale usa un’altra lingua ecc…,ovvero parla un’ora e mezzo
senza cambiare espressione, situazione molto particolare, quindi la difficoltà nell’utilizzare la
mimica, l’usare i gesti, che noi tanto utilizziamo, capire i gesti, capire le metafore. Mentre altre
persone hanno ritardo mentale, hanno problemi di linguaggio verbale, problemi di comportamento,
quindi diventa difficilissimo se non la vedo dal suo punto di vista. Cosa facciamo questa mattina e
dove si svolgono le attività, ad esempio facciamo questa attività, diventa difficile per lei capirla,
cioè se noi non sapessimo come si svolge la nostra giornata, saremo un pochino più in difficoltà,
quando finisce un compito e gli dici adesso facciamo questo e dopo un’altra cosa, ma quando
finisce adesso e comincia dopo per un allievo che ha queste caratteristiche, questa signora ha un
livello intellettivo molto elevato ma poi il problema di organizzazione di questi elementi è
importantissimo. Nell’autismo c’è sempre una migliore capacità di organizzare gli stimoli visivi,
perché ti restano lì, poi usi anche il linguaggio, però le immagini ce le devi mettere, altrimenti non
riesci a mantenerli in memoria. L’allievo con sindrome di down, ha un ritardo mentale, una
disabilità intellettiva, quell’abilità non riesce a raggiungerla però è uno sviluppo simile al ragazzo
tipico; mentre l’allievo con autismo no, cioè può avere anche un ritardo ma anche una modalità
diversa di organizzarsi. Una delle caratteristiche degli allievi con autismo è la difficoltà viene
chiamata a costruire una teoria della mente, cioè cosa vuol dire, se io faccio un complimento ad una
persona, oppure ne offendo un’altra, ho un’idea di cosa quella persona sentirà, questa si chiama
teoria della mente, cioè se offendo questa probabilmente me ne dice quattro, se gli faccio un
complimento sarà contenta, se rubo il giocattolo al bambino e glielo rompo ciò idea che sarà
dispiaciuto di questo; questa cosa nell’autismo è molto problematica, cioè non sai metterti
nell’altro, non sai leggere la mente dell’altro; dei colleghi inglesi hanno fatto un esperimento con
allievi ad alto livello di funzionalità, con una buona intelligenza con autismo, cioè presentavano un
modello:

Hanno fatto un esperimento di questo genere, due bambole e due bambine giocano con dei
giocattoli, una di queste due bambine ad un certo punto(si chiama il protocollo di Sally e Anne)
prende il suo gioco lo mette in una cesta e se ne va fuori, mentre lei è fuori l’altra bambina prende il
giocattolo e lo va a mettere da un’altra parte, rientra Sally si blocca la situazione, agli allievi che
hanno assistito gli si chiede secondo voi adesso dove va a cercare il suo gioco Sally, chiaro che dici
lo va a cercare dove lo ha lasciato, lei non ha visto che è stato spostato, quindi lo va a cercare dove
lo ha lasciato, però per far questo tu cosa devi fare, ti devi mettere in Sally e dire lei pensa così,
perché non ha assistito al fatto che la compagna lo ha trasferito, cosa accade nei bambini a sviluppo
atipico, fino a 3 anni sbagliano, cioè lo vanno a cercare dov’è, dai 4 anni in poi vanno tranquilli e lo
vanno a cercare dove lo ha lasciato; cosa accade negli allievi con autismo, che ben oltre i 4 anni lo
vanno a cercare lì, lo vanno a cercare dove effettivamente si trova, perché hai magari un livello
cognitivo elevato, un’età mentale anche di 12 anni eppure commetti errori, un’abilità che da un
punto di vista mentale dovrebbe essere risolta verso i 4 anni, questo è un problema che c’è sempre,
cioè la capacità di attribuire stati mentali, se io non attribuisco stati mentali provate a pensare come
posso avere una relazione, poiché la relazione è fatta da una condivisone, non posso dirti solo
quello che interessa a me e ti spiego duecento volte che questa cosa avviene in un certo modo e che
ti ho scocciato abbondantemente, non so modulare il mio tipo d’interazione con una percezione
adeguata. Il ragazzo autistico a difficoltà a mettersi nell’altro seppur avendo una intelligenza alta e
quindi diventa tutto più difficile. Abbiamo diversi tipi di autismi con condizioni che possono essere
a bassa funzionalità o a basso funzionamento, cioè oltre queste cose tu hai problemi mentali,
problemi sensoriali molto importanti, dei comportamenti inadeguati, oppure possono essere anche
ad lata funzionalità, cioè queste cose ce le hai però poi hai anche un’intelligenza nella norma per
esempio. Poi abbiamo la Sindrome di Asperger, che è ancora più su, il Rain Man(film del 1989 con
Tom Cruise) della situazione che solitamente vediamo anche nei film, che pur avendo molte
difficoltà su diversi aspetti hai un linguaggio molto buono, competenze logiche estremamente
affinate ecc… ma malgrado quello non vedi bene, questa signora rientra in questa categoria, cioè ha
grandi capacità, intelligenza notevolissima ecc.., però ha delle difficoltà elevate, ad esempio una
comprensione letterale del linguaggio, ad esempio lei racconta mi sono voluti quasi vent’anni per
capire come mai mia mamma si arrabbiasse tanto quando lei gli diceva puoi rimettere a posto dopo
la tua stanza, lei rispondeva si e poi non faceva niente; tutta questa modalità comunicativa che noi
solitamente abbiamo con l’allievo tipico, con l’autismo vai in difficoltà anche quando sei con la
Sindrome di Asperger, che cosa facciamo solitamente come insegnanti, non capisci te lo spiego, uso
dei sinonimi, parole diverse ecc.., peggio che andar di notte perché lo confondi. Ad esempio se ad
un bambino con Sindrome di Asperger gli parlo di filosofia lui vai in difficoltà perchè non riesce a
costruire schemi mentali visivi organizzabili con concetti puramente teorici filosofici, mentre se gli
parlo di altre cose no; quindi se non capiamo come si orienta e come pensa una persona con autismo
non ce la facciamo anche se dotati di molta intelligenza, come nel caso della signora che ha un
quoziente intellettivo di 130, ad esempio riesce ad imparare e ripetere molti numeri, ma se gli
domandi cosa è per te un amico va in difficoltà, che non vuol dire essere neutri da un punto di vista
affettivo, cioè è diverso ed ha una modalità di affrontare problemi sensoriali molto diversi, c’è una
bellissima domanda che le fanno a questa signora che poi vi faccio ascoltare, uno del pubblico gli
dice adesso che sei così brava, hai parato per un’ora e mezzo come gestisci i rapporti intimi,le
persone significative per te, gli da una risposta adesso non ve l’anticipo, che tipicamente da una
persona con Sindrome di Asperger, molto cognitiva; io ho un collega che ha scritto uno dei dieci
articoli più citati in matematica molto intelligente, però questo ogni tanto parte battendo da solo le
mani e corre, quindi nella Sindrome di Asperger è difficile individuare il limite, ovvero dove c’è la
patologia e dove il genio; ad esempio nel caso della sindrome di down gli faccio la mappa
cromosomica ed invece di avere 23 coppie il 21 risulta triplicato ed ha la sindrome di down punto,
non ho problemi, ma nell’autismo questo non c’è, cioè sappiamo che ci sono problemi biologici, ma
non sono identificabili attraverso prove strumentali, cioè gli fai la tac non vedi nulla, quindi la
diagnosi avviene sulla base dei sintomi della persona e allora se devi stabilire dove finisce la
Sindrome d Asperger e dove comincia il genio, che si dedica esclusivamente a quella cosa lì, non sa
cambiare una lampadina ma su certe cose è un genio, come fai a tracciare il confine, molto delicata
la cosa, non a caso l’ultima versione del DSM-5 ha tolto la Sindrome di Asperger dallo spettro
autistico.

Noi dobbiamo chiederci in questa situazione ma lo faremo nel pomeriggio, come possiamo in
qualche modo intervenire a livello scolastico nella prospettiva dell’inclusione. Anche quando hanno
la Sindrome di Asperger sono facilmente ingannabili, sono spesso oggetti dei bulletti di turno,
perché indifeso perché credi alle cose che ti dicono. La nostra interpretazione sbagliata sta nel dire
che non hanno sentimenti, non sono in gradi d’interagire, sono particolari un mondo diverso ovvero
un modo differente; ad esempio mi deve dare retta perché sono l’insegnante, non lo fanno peggio
che andar di notte, tu devi fare in modo che la regola la capisca, la visualizzi bene ed a quel punto
diventa ipercritico, cioè la pretende la sanzione. Nella slide ho inserito 4 parole chiave:

1) Programmazione: dobbiamo programmare le cose, non puoi improvvisare con le persone


così o meglio puoi adattare delle modifiche ma deve essere ben programmato;

2) Organizzazione: ho organizzato l’ambiente cioè l’ambiente deve parlare per queste persone,
dove facciamo le cose bisogna che sia chiaro, sfruttando i punti di forza attraverso le
immagini, cioè ad esempio per andare in palestra ti metto la striscia che ti conduce alla
palestra, anche se avessi un bambino non vedente lo farei lo stesso per sentire il tragitto da
fare, che cosa facciamo adesso, che cosa faremo dopo che finisce il compito ecc.., bisogna
che lui abbia tutte le informazioni così sta più tranquillo, poi magari ci riuscirò lo stesso
senza tutti quei sussidi;

3) Didattica speciale: che cosa faccio, quali strategie sono migliori per queste persone e come
posso applicarle a scuola;

4) Compagni: come possono essere gli altri di aiuto per lui; prima di tutto conoscendolo.

Nel pomeriggio affronteremo con precisione tutto questo e se site stanchi vedremo il filmato di
questa signora. I compagni devono capire che non è cattivo, ma non capisce quella cosa lì. Quindi
per loro è meglio la scuola speciale oppure la scuola comune, dipende da come la facciamo; se
pensiamo che non abbiamo nessuna idea dell’autismo e pensiamo che possa essere trattato come un
altro allievo che funzioni allo stesso modo ecc.., non lo aiutiamo un granchè, non starà in classe per
molto tempo; il contrario se sfruttiamo anche le potenzialità dei compagni, senza pretendere che
arrivi per forza allo stesso livello ecc.., lì comprendiamo che è una comprensione cioè che è
diverso, allora diventa una ricchezza straordinaria.
Pedagogia speciale del 24.04 mattina da inizio lezione fino alla pausa (I parte), prof Cottini.

L’educazione inclusiva funziona?

LE DOMANDE DELLA RICERCA

Come si sta Quali risultati sono stati

operando? ottenuti?

Le scuole più inclusive sono

anche le più efficaci?

La società rispetto al passato si è modificata ed evoluta, di conseguenza, necessita l’adozione di


nuove forme di educazione. Al fine di valutare se effettivamente l’inclusione e l’integrazione siano
più efficaci rispetto ai metodi del passato è necessario analizzare l’andamento della classe, degli
alunni e quindi, non solo da un punto di vista cognitivo ma, anche da un punto di vista
metacognitivo, attraverso cui si sviluppano le competenze necessarie nel mondo del lavoro.

Le persone che hanno delle difficoltà all’interno della classe non devono essere considerate il punto
di arrivo, ma, bensì devono stimolarci ad individuare le strategie da adottare per consentire
un’adeguata istruzione all’interno della classe in questione, poiché la scuola deve essere per tutti ed
uguali per tutti senza nessun tipo di differenza.

La metodologia ovviamente deve essere inserita nel tempo a noi necessario, quindi deve essere una
didattica che si arricchisca delle diversità e non che si impoverisca, al fine di raggiungere tale
obiettivo è necessario che venga adoperata nel tempo a nostra disposizione, attraverso un metodo di
confronto, di collaborazione e non di tipo individuale.

Sul primo punto ovvero, come si sta operando in base a ricerche descrittive sono emerse i principali
riscontri, e sono i seguenti:

- miglioramento delle procedure didattiche negli anni;

- convinzione positiva degli insegnamenti sul processo di integrazione;

-miglioramento dell’interazione fra gli allievi;

- atteggiamento favorevole delle famiglie.


Ciò non toglie il fatto, che nonostante i notevoli sforzi e i miglioramenti sviluppatisi fino ai giorni
nostri, risulta esser presente, ancora, una rilevante disomogeneità territoriale sull’intero territorio,
pertanto, non si è ancora sviluppato un protocollo di tipo globale dell’inclusione. Ne consegue che,
in diversi territori che possono essere del nord, sud e centro troviamo risultati che si alternano, sia
positivi che negativi, questi risultati sono stati appresi con questionari rivolti sia ad alunni, sia ai
genitori che agli insegnanti.

Di seguito, vengono elencate le circostanze che fanno riferimento ai limiti dell’inclusione, e sono:

- limitato coinvolgimento di altre agenzie;

- carenza organizzativa;

- delega all’insegnamento di sostegno e ampio utilizzo delle aule di sostegno;

- poca attenzione al dopo (progetto di vita);

- scarso controllo dei processi e dei risultati.

GLI ESITI: LE DIVERSE CONNOTAZIONI DEL CONCETTO DI RISULTATO, sono i


seguenti:

- I livelli di autonomia personale;

- i processi di apprendimento curriculari;

- le competenze comunicative, sociali e la qualità e frequenza delle interazioni;

- i bisogni di sostegno;

- gli enti a livello di inserimento lavorativo;

- la qualità di vita degli allievi;

- il livello di apprendimento della classe quale si sviluppa l’integrazione;

- le competenze sociali dei compagni;

- l’atteggiamento degli insegnanti e delle comunità nei confronti delle diversità e della politica
dell’integrazione;

- le procedure didattiche che vengono adottate nelle classi in cui si sviluppa un progetto inclusivo.
Le sopra menzionate circostanze, sono una semplice elencazione, rappresentano tutte indicatori del
concetto di risultato, al fine di poter realizzare un progetto inclusivo. Lo si può realizzare attraverso
la formazione, che riesce a realizzare una condivisione sociale attraverso il coinvolgimento dei
genitori, di agenzie e via dicendo, che a mano a mano si rinforza.

Gli esiti, possono essere di vario tipo, e sono i seguenti, verranno solo ed esclusivamente
menzionati:

- Effetto surplus;

- effetti sul singolo;

- confronto fra apprendimento in classe comune e speciale;

- Esiti sui compagni.

Le strategie adottate dalle scuole più inclusive rispetto a quelle del passato, fanno riferimento ad
una serie di strategie, che di seguito vengono elencate:

- approccio comportamentale e cognitivo- comportamentale, autoregolazione, metacognizione;

- collaborazione fra docenti, leadership;

- coinvolgimento delle famiglie;

- educazione socio- emozionale;

- peer tutoring e cooperative learnig.

Il primo punto fa riferimento ai comportamenti di tutti gli allievi, includendo anche


l’autoregolazione che deve esser inteso come elemento di progresso, attraverso il quale l’allievo si
valuta in maniera autonoma ed indipendente.

Il secondo punto, la collaborazione, incide fortemente sui successi scolastici e sulla qualità
formativa, come è stato evidenziato da alcune ricerche meta- analisi. A tal proposito, è bene
introdurre un ulteriore concetto che è quello della meta- analisi e lo facciamo attraverso un esempio.
Prendiamo in considerazione i tutors, che sono terze persone che aiutano gli allievi nello studio, essi
effettuano delle ricerche in campo scolastico. Ipotizziamo che l’oggetto di ricerca è capire quale sia
il miglior modo di insegnare una medesima disciplina, con modalità differenti, quale può essere una
di tipo inclusiva e l’altra un po' meno, in due differenti classi. A questo punto ci chiediamo quale
modo sarà più efficiente?

E’ possibile ricavarlo con il calcolo dell’indice Cohen’s d, attraverso la meta- analisi (si tratta di una
ricerca di secondo livello ricavato dalle precedenti ricerche del tutoring)

Cohen’s d = Mean1 – Mean2 / SD

Mean1-Mean2 rappresenta la media delle prestazioni.

SD è la deviazione standard.

Il terzo e il quarto punto sono strategie adottate al fine di poter realizzare un’adeguata formazione
ed infine il quinto ed ultimo punto fa riferimento ai tutors, ovvero a terze persone che aiutano gli
allievi in ambito scolastico, mentre le cooperative learning fa riferimento ad una forma di
apprendimento di tipo collaborativo fra gli alunni.

COME VALUTARE LA QUALITA’ DELL’INCLUSIONE SCOLASTICA?

Il tema dell’inclusione riguarda tutti gli allievi, non solo coloro che sono diversamente abili, ma,
bisogna “fare i conti con le differenze”.

SCALA DI VALUTAZIONE DELL’INCLUSIVITA’

- Riferimento all’index dell’inclusione;

- analisi degli item;

- studio pilota (80 classi);

- analisi fattoriale

Il prof durante la lezione fa un esempio di scale di autovalutazione in base a tre dimensioni, la


dimensione A fa riferimento all’organizzazione inclusiva, la dimensione B alla didattica inclusiva
ed infine la dimensione C agli indicatori. Inoltre il prof dice che è possibile reperire tale scale di
valutazioni sul sito di Includere ma verranno anche pubblicate sulla piattaforma.

APPRENDIMENTO A CONFRONTO SCUOLE AD ALTA INCLUSIVITA’

VS

SCUOLE A BASSA INCLUSIVITA’


I PRIMI DATI

Campione Prove

13 classi Comprensione orale (CO-TT.2013)

271 studenti Calcolo (AC-MT 2012)

Soluzione problemi (SPM 2003)

1 classe a bassa inclusività Abilità emotive e pro sociali

10 classe ad alta inclusività (Prove PATHS 2004)

2 classi livello soglia (n. 1.4)

Da questo confronto emerge che nelle classi inclusive si apprende meglio, si velocizza
l’apprendimento da cui ne trae beneficio anche l’apprendimento curriculare.

La strategia didattica inclusiva, in presenza di allievi con bisogni educativi particolari/specifici, con
disabilità, con DSA, con ADHD, con funzionamento limite, con autismo vengono identificati con il
termine di BES. Anche per quest’ultimi bisogna escogitare strategie di apprendimento non solo per
poter apprendere conoscenze ma anche le competenze, necessarie per il mondo del lavoro. A tal
fine, sarà opportuno conoscere le diverse situazioni di disabilità al fine di adottare un’adeguata
strategia formativa.
4)LEZIONE PEDAGOGIA SPECIALE DEL 24-4-2018 POMERIGGIO PRIMA

PARTE PROFESSORE COTTINI LUCIO

Nel video un’ora e mezzo ha parlato di sè senza minimamente cambiare espressione diceva anche delle cose

divertenti per certi versi, ma non è come solitamente avviene se uno dice una barzelletta o una battuta sorride

prima dell’interlocutore questo è lo stesso stato da attribuire agli stati mentali che permettere agli altri di

condividere. Hanno parlato delle sue caratteristiche riferite al cibo, anche questo è una situazione molto

particolare nelle persone con autismo, le quali sono molto selettive sul cibo. Ha detto che per sei mesi ha

mangiato ininterrottamente paté di fegato e prugne, una roba del genere sei mesi mangiava solo quelle due

cose oltre tutto, una delle difficolta che spesso si presenta, soprattutto nelle persone con sindrome di asperger

più che in quelle che hanno basse livello di funzionamento, è la difficolta di rendere automatico le cose, dicevo

di rendere automatico le funzioni cioè che significa una persona ha uno sviluppo tipico come l’apprendiamo,

noi apprendiamo un’abilita e poi questa diventa automatica. Io non sto a continuare a fare l’elaborazione,

mentre leggo delle varie parti che compongono la parola come facevo quando ho cominciato, non penso a

come si va in bicicletta stando attenti, o a guidare la macchina ecc.. Una difficolta di queste persone è rendere

un’abilità automatica, lei diceva io mangiavo quelle cose perché non mi ricordavo di dover masticare e doveva

pensare a cosa preferiva a masticare e ad ingoiare completamente, cioè per dirvi delle difficoltà di una persona

che non riusciva proprio a capirlo come mai gli altri la rifiutassero; perché lei non sapeva fare certe cose che

gli altri facevano; e al contrario ne sapeva fare di diverse. Finita la scuola ha cominciato la psicoterapia, tra

l’altro psicodinamica quindi ha raccontato dell’esperienza pessima e che non si era sentita per niente capita,

però gli era venuta sta grande curiosità di capire come funzionano le persone è quindi è andata nella biblioteca

di Göteborg e si è letta tutti i libri di psicologia che c’erano li ha letti tutti e ne ha trovato uno di Gilbert in cui

si parlava dell’autismo e si è riconosciuta molto nelle sue attività però pensavo che non fossi lei perché nel

libro venivano descritte persone che avevano disabilità più gravi ad esempio che non riuscivano a parlare, ma

pian piano ha scritto all’autore del libro e si sono messi in contatto e Gilbert le ha fatto la diagnosi ed adesso

la presa anche nel suo staff, infatti lavora all’università con Gilbert, il quale è uno dei più importati nell’ambito

degli studi sull’autismo adulto; è veramente un riferimento mondiale Gilbert. Per dirvi una storia un po'

particolare è interessante sentirsela raccontare da lei, perché poi anche alcuni particolari incredibili ad esempio

lei non riesce a riconoscere il viso delle persone si chiama la prosopoagnosia vedi delle persone senza
lineamenti; lei non riconosceva nessuno dei suoi compagni e siccome non si orientava quando doveva andare

da qualche parte seguiva i compagni ma per seguire i compagni doveva seguire non il viso ma la maglia ad

esempio; poi qualche volta il compagno non doveva andare in qualche zona alla mensa ma doveva andare da

qualche altra parte e lei si ritrovava in un'altra parte della scuola senza sapere come tornare indietro, queste

sono una serie di difficolta incredibili considerato che parla cinque lingue che ha una capacità cognitiva

notevolissima. Poi una ragazza del pubblico le ha chiesto come gestisci i tuoi rapporti intimi le tue persone

importati per te con cui condividi la tua vita e cetera. Lei ha dato una risposta straordinaria senza sorridere ,

per voi deve essere difficile capire perché io non so relazionarmi a livello sociale e quindi io non ho un amico

e non so cosa significa avere una vita diversa però sono contenta della vita che conduco e poi ha concluso

quando guardo tutte queste persone che hanno rapporti intimi personali non mi sembrano che siano cosi felici

e l’ha chiusa lì in un gelo. Un gelo completo senza fare la battuta come del tipo prendi e porta a casa veramente

per dire una particolarità della persona con i quali bisogna fare i conti, ma perché vuoi pensare di trasformarla

in un qualcosa che si adegui ai tuoi canoni ad alcune cose particolari. Se facciamo l’inclusione nei momenti

in cui cerchiamo di avvicinarci a una persona che può vivere bene, vivere felicemente anche se è molto diversa

dalla situazione che siamo soliti definire tipica, questo è un tentativo di andare dentro l’autismo. L’autismo è

sostanzialmente questo anche se andiamo dalla bassa funzionalità, gli americani dicono basso funzionamento,

gli anglosassoni alto funzionamento, a me stride un po' funzionamento mi sa più da frigorifero

elettrodomestico, insomma che non appartiene ad una persona a basso funzionamento, anche i CFU parla di

profilo di funzionamento, quindi dobbiamo abituarci anche a queste terminologie e quindi l’autismo può

essere dal basso funzionamento fino all’alto funzionamento perché è caratterizzato dall’avere problemi di

comunicazione che non vuol dire problemi di linguaggio. Le persone con autismo hanno problemi di

comunicazione e interazione con le persone cioò non vuol dire che per forza si isolano; c’è un bel lavoro di

Gould e Wing che poi ha ripreso Theo Peeters che qui in Calabria è molto conosciuto perché è venuto molte

volte che è un altro personaggio importate degli studi sull’autismo purtroppo è mancato poco tempo fa lui

dice:” Per identificare il comportamento sociale, una persona con disturbo dell’autismo ha problemi sociali

comunicativo e sociale delle prime due aree, ma sociale intente non che ti isoli lui intente la metafora per

illustrare questo è come sostanzialmente abbiamo tre tipologie di comportamento sociale problematico, voi

immaginatevi una partita di calcio giocata da un giocatore che non ha nessuna teoria di come si gioca, cioè di
come si svolgono le cose che cosa potrebbe fare la prima cosa metto per conto mio e faccio le cose che mi

interessano tipo isolato, quindi l’isolato quello che si isola c’è l’abbiamo e poi potrebbe non stare li e dici sei

li ti passano vicino non ci capisci nulla non sai bene come funziona il tipo passivo, non sei nel contesto non è

che te ne vai ma non partecipi e poi ci potrebbe essere quello che tutti corrono tutti vanno dietro alla palla tutti

gli danno i calci si divertono vuol dire che cosi è divertente e anche questo corre dietro la palla da i calci alla

palla ma non sa se la butta da una parte o dall’altra ecc.. Li chiamiamo attivi, ma strani cioè che vogliono

entrare in un rapporto ma non hanno idea di come si fa, nell’autismo abbiamo tutte queste tipologie, l’allievo

che ti viene vicino, ma lo vedi che socialmente è particolare”. Quindi deve uscire dall’idea che l’autistico si

isola, ma entra in gioco l’interazione di terzo livello che è l’aspetto del comportamento sensoriale. Sono tutte

una serie di stranezze che rientrano in tre cose:

 problemi legati alla comunicazione,

 problemi legati all’iterazione,

 problemi legati al comportamento

cioè ti interessa solamente quella cosa lì. Capite che in queste tre cose l’intelligenza non c’è quinti tu potresti

avere questi tre problemi e avere 130 come la signora che abbiamo intravisto nel filmato però lei ha problemi

di comunicazione, c’è li ha con un tutta una serie di sintomi che nel dsm elencati e nel lcd ha problemi di

comunicazione e problemi di comportamento ristretto ad interessi particolari. Però ha un intelligenza molto

elevata oppure potresti avere queste tre condizioni, ma anche problemi molto forti dal punta di visto intellettivo

no deficit sensoriali pesanti; si parla di autismo perché dal punto di vista biologico sono state trovate

problematiche di tipo diverso molto diverso alcune ad esempio hanno problemi ai lobi frontali che è la parte

del cervello anche la caratteristica che ci distingue dagli animali è quella che ci dà la coscienza, questa capacità

di pianificare le cose; ad altri sono stati trovate problemi al cervelletto che è la struttura arcaica del nostro

sistema nervoso che condividiamo anche con gli animali, come possono poi situazioni così diverse dar luogo

ad un quadro che non è lo stesso, ma che magari è impossibile raggiungere. Incide anche l’ aspetto genetico

altrimenti non si spiegherebbe perché ci sono più autistici maschi rispetto alle femmine. Io mi ricordo alcuni

anni fa abbiamo fatto una serie di corsi per le famiglie ad Urbino, nelle Marche, mi ricordo una famiglia di

Napoli che aveva tre figli due maschietti il più piccolo e il più grande e la femminuccia in mezzo ma un anno

di differenza, i due maschietti avevano un autismo molto grave la femmina assolutamente niente anche
brillante nel modo di fare, che cosa in effetti ha protetto quella bambina a confronto ai due fratellini, ecco tutto

questo al momento non lo sappiamo e si sta studiando quali elementi possono essere coinvolti e come incidono.

Le fibre di trasmissione sono anche strutture cosi lontane e difficili da capire e quindi come possono

determinare il problema, mentre quello che sappiamo molto bene è che cosa funziona e che cosa non funziona

dal punto di vista educativo quindi non ci sono i farmaci per l’autismo l’unica strategia che funziona è quella

educativa abilitativa/riabilitativa.

Ancora non si capisce perché malattia si presenta, no si è ancora capito se dipenda dai vaccini, se dipenda dalle

diete seguite durante la gravidanza , ma in alcuni quest’ultima diagnosi è state esclusa. Esistono due tipologie

di condizioni di autismo la prima è quella che il bambino ha dei problemi da subito dalla nascita, però un

occhio non allenato preparato che non se lo spetta non lo vede anche perché dal punto di vista degli aspetti

somatici non ci sono segni particolari piccoli li ho trovati sempre di bellissimi è un dato scientifico, non è

come la sindrome di down vedi anche l’aspetto somatico che ti insospettisce fai in questo caso , quindi alcuni

segnali iniziali che sono complessi da leggere non si gira quando si chiama va be c’è sempre la nonna che dice

anche tu eri cosi eri sempre per i fatti tuoi. I primi sintomi sono una carenza sull’attenzione condivisa cioè

verso i sette nove mesi la mamma parla del giocattolo ma il bambino continua a guardare la mamma ignorando

il giocattolo, quindi l’allievo con autismo o il bambino con l’autismo continua a guardare la mamma ma sono

segnali difficili da percepire. Un altro aspetto è quello che chiamava la comunicazione proto referenziali cioè

un conto è mio figlio comunica certamente quando vuole qualcosa ti prende per mano e ti porta li questa è

una cosa che usi il corpo dell’altro, altro è cercare di influenzarlo senza un contatto fisico cioè gli indichi una

cosa gliela dici questa è proto referenziale cerchi di modificare quello che lui pensa il bambino tipico lo fa

molto presto piange ma non piange più molto spesso, cioè comunque ti comunica un’intenzione; tutti questi

segnali sono difficili da cogliere per cui spesso tolti i casi dove c’è una compromissione mentale più pesante

tendono a regredire cioè a manifestarsi più avanti no quando incomincia a parlare e spesso questo è molto

vicino anche al momento in cui tu fai le vaccinazioni in tutto ci abbiamo anche dei bambini che perdono cioè

si sviluppano abbastanza bene e questo lo vedi soprattutto dai filmati un tempo si faceva il filmato solo per il

compleanno e le fotografie adesso sono il quotidiano quindi ti rendi conto possibilmente che hanno

incominciato a dire qualche parolina e poi regrediscono.


Gli aspetti più didattici sono l’incidenza dell’autismo gli ultimi studi americani addirittura parlano di un caso

ogni 78 più meno siamo soliti 1 su 100 o che sono tanti la sindrome di down son 1su 1000, quindi 10 volte più

frequente della sindrome do down 1 su 68 secondo un autorevole istituto di studio di etiologici americani

collegano anche l’incidenza con i finanziamenti che ottengono per la ricerca perché se è una sindrome rara

c’ha un poco se è più frequente c’ ha di più mettiamoci tutto quello che vogliamo anche se l’istituto è serissimo

se parliamo 1 su 100. Io quando ho fatto il primo lavoro sull’autismo era il 1996 mi sembra si parlava in quel

caso del libro scritto cosi di 2 o 4 casi ogni 10000. 2 o 4 casi ogni 10000 adesso 1 su 100 l’amico ci può dire

che è cresciuto di quante volte 70 volte una roba spaventosa 2 o 4 casi ogni 10000 a 1 su 100 cosa è successo

l’epidemia di autismo, no perché è diventata anche una moda e quindi adesso si tende ad avere un interesse

maggiore, per cui cosa è successo prima vengono diagnosticate quelle forme che un tempo non lo erano cioè

quelle più lievi, era l’allievo strano cosi un po’ particolare che poi finiva la scuola e finiva in psichiatria il

discorso psichiatrico di cui si diceva prima un po’ schizzo frenico ma in effetti poteva benissimo non essere

schizo frenico ma essere autistico come situazione questo sicuramente c’è stato, Domanda di collega in aula:

Lo facevano crescere credendo fosse schizzo frenico ma aveva un'altra patologia? C’era un impianto di una

patologia di tipo diverso, ma era più difficile diagnosticarli perché poi venivano tenuti un attimino più, era

meno evidente perché c’era meno cultura per la sindrome di asperger per l’autismo di alta funzionalità di

quando non avvenga adesso, la seconda cosa forse ancora di più importante è quella che noi lo diagnostichiamo

sulla base dei sintomi quindi non si ha uno dato strumentale non è che si fa l’analisi del sangue e sai che hai

il colesterolo alto perché lo ho 220 se ho 190 no, ma in questo caso ti devi mettere d’accordo a livello

internazionale ed è quello che fanno i manuali che abbiamo visto e quindi perché venga diagnosticato come

autismo, quindi ci vogliono tutta una serie di sintomi per diagnosticare la prima categoria di disturbo della

comunicazione , oppure per diagnosticare i sintomi della seconda categoria di disturbi dell’interazione, invece

per diagnosticare i sintomi della terza parte; quindi è chiaro che andando avanti con i sistemi di classificazione

si è un po' alleggerita la cosa, se mi chiedi 10 sintomi perché ti possa diagnosticare cosi o me ne metti 5 magari

la persona che prima non ci rientrava nella seconda situazione ora invece ci rientra semplifico. Per capire

sostanzialmente molto dell’aumento dei casi di autismo si deve anche a questo cambiato del sistema di

classificazione e di diagnosi prima il dsm 1-2-3 era molto diverso dal 4 e dal 5 e questi aspetti sono importati,

poi ci sono anche le cause ambientali che hanno determinato, ancora si sta studiando, ma per ora non sono
state individuate l’abuso di sostanze più tosto che fattori inquinanti piuttosto che altri elementi, quindi non si

è ancora trovato una correlazione al momento però non è escluso che qualcosa possa ulteriormente anche dal

punto di vista cosi dallo stile di vita dalle situazioni che si vengono a creare su quest’aumento che è davvero

incredibile 2 o4 casi su 100000 e 1 su 100 quindi diciamo 1000 volte oppure di più se fosse 1 ogni 10000

sarebbe 100 volte di più quini in questo caso 30 40 volte superiori in quando non era prima che è moltissimo.

Gli studi dei geni diceva il collega sono geneticamente delle modificazioni, gli studi dal punto di vista genetico

non evidenziano grandi differenze fra gli uni e gli altri, alcuni geni sembrano implicati ma sembra che

interessino di più le modalità di interpretazione in assoluto, quindi è molto più complesso di quanto può

apparire, non è tanto il gene o il cromosoma che è differente ma le modalità con le quali poi i geni interagiscono

fra loro per determinare le funzioni quindi è una situazione molto più complessa. Sembra incidere

maggiormente ed è chiaro che c’è una famigliarità cioè se si va a vedere un po' nella famiglia qualche situazione

magari non di autismo ma di deficit del linguaggio con qualche situazione di difficoltà si trova sicuramente

qualche debolezza al punto di vista anche genetico ereditario, ma anche su questo si sta ancora studiando.

Nella scuola dell’inclusione, non quindi nella scuola speciale dove molte ricerche sono state condotte in

ambiente anglosassoni che sono chiaramente ambienti dove ci sono le classi speciali. Le prime domande di cui

abbiamo parlato del punto di vista del bambino sono cosa ci direbbe e come abbiamo analizzato stamattina se

potesse parlare dove facciamo le cose quando dura. Un allievo tipico acquisisce in maniera implicita, anche i

bambini della scuola dell’infanzia e della materna dopo dieci giorni che vanno a scuola dell’infanzia hanno

capito l’organizzazione, ad esempio il bambino capisce dove mettere il cappotto e che dopo farà quel gioco e

poi dopo farà quell’attività e che poi si mangia perché c’è l’ha chiara la cosa. Per gli allievi come i nostri può

non essere cosi agevole cosa facciamo prima questo poi quest’altro poi quest’altro ancora, cioè non è chiara

per loro la successione, cioè l’organizzazione della giornata; per loro è fondamentale per essere tranquilli che

a fine giornata si torna a casa; ma se il bambino non riuscisse ad acquisire la percezione di questo sarebbe

sempre in ansia.

Ora vi faro vedere certe cose che hanno fatto gli insegnanti,qui sulla mappa della scuola c’è indicato cosa puoi

trovare , una signora come Gonilla con le sue capacità si perde , siamo andati a prendere il caffènella pausa del

suoi intervento è tornata dentro e si è messa a disegnare la strada vista dal lato come se l’avesse fotografata
piena di particolari, poi però non trova la strada per uscire ci vuole qualcuno che gli dice come si fa se fosse

in questo contesto sarebbe drammatico con i cubi tutti uguali.

La cartina ci fa notare che in un aula dove c’è un bambino autistico, il banco del bambino autistico ha una

bacheca di fronte ed ha un angolo dove poter fare l’attività dedicata c’è un separé perché gli da fastidio vedere

troppe cose contemporaneamente. Per fare l’inclusione dei bambini con autismo le classi devono essere grandi.

Quindi non dobbiamo pensare solo alle schede ma anche all’organizzazione della classe. Inoltre vediamo in

un aula di sostegno di Pordenone che hanno una trentina di allievi con disabilità nelle varie classi , si vede che

ci sono pochi stimoli e l’organizzazione è molto importante per far diminuire i livelli di ansia, cosi si può

lavorare meglio con un allievo autistico.

Domanda : Gli insegnanti di sostegno possono rimanere in classe? Devono rimaner in classe, ci mancherebbe

e dove vanno, tra l’altro l’insegnante di sostegno ed un insegnante della classe e può esprimere giudizio non

solo del suo allievo, ma di tutta la classe. Deve uscire l’idea, che come dicono i genitori, che l’insegnante di

sostegno deve stare solo con il bambino che ha bisogno , anzi se lo chiedessero a me risponderei al genitore di

benedire questa situazione perché così suo figlio non avrà il babysitter sempre vicino. A volte mi capita di

andare a scuola sembra che l’insegnante di sostegno ha il banco vicino all’allievo ed è sempre seduto li di

fianco, ma ci deve stare solo se ne ha bisogno non se fai delle cose che sono effettivamente necessarie.

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