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“L’integrazione dei disabili in Europa” (2003)  pubblicazione prodotta

dall’Agenzia Europea per lo sviluppo dell’istruzione per studenti disabili.

Individua 3 modalità per rispondere al diritto di istruzione degli studenti con


disabilità:

1. APPROCCIO UNIDIREZIONALE
 sistema scolastico unificato
 tutti gli studenti con disabilità hanno libero accesso alla scuola
ordinaria
 grande varietà di servizi incentrati sull’istruzione pubblica

ITALIA: primo paese al mondo ad aver realizzato un sistema scolastico


dove vige questo tipo di approccio  fin dai primi anni ’70 IDEALE DI
SCUOLA APERTA A TUTTI: modello di organizzazione adottato attraverso
il quale il sistema scolastico italiano ha introdotto l’approccio
unidirezionale, è stato denominato “modello dell’integrazione” 
l’educazione di coloro che hanno bisogni speciali non deve avvenire in
luoghi separati da quelli in cui avviene l’educazione di coloro che tali
bisogni non li hanno.

2. APPROCCIO MULTIDIREZIONALE
 molteplicità di approcci
 pluralità di servizi all’interno di un sistema scolastico ordinario e di
uno differenziato

3. APPROCCIO BIDIREZIONALE
 due distinti sistemi educativi:
o classi speciali differenziate per tipologia di deficit (l’iter
scolastico non segue il curriculum ordinario)  riservate
agli studenti in condizioni di disabilità;
o scuole ordinarie  per studenti “normodotati”.
I paradigmi dell’educazione speciale a cui fanno riferimento oggi le
differenti legislazioni scolastiche europee in materia di diritto all’istruzione delle
persone con disabilità, sono i seguenti:

 NORMALITÀ/SPECIALITÀ  concezione di disabilità che prevede


per le persone con bisogni speciali percorsi di vita differenti rispetto
a coloro che tali bisogni non li hanno. L’organizzazione del sistema
di istruzione prevede percorsi di normalità in scuole ordinarie e
percorsi speciali in apposite strutture denominate scuole speciali.
Limite: per quanto nascano per rispondere efficacemente alle
specifiche esigenze di chi vive con una disabilità, l’effetto che si
ottiene è quello di allontanare chi non gode dell’identità di
“normale” dal resto della società.
 SOCIALIZZARE = NORMALIZZARE  individua nella dimensione
sociale la causa fondamentale delle difficoltà di sviluppo e di
apprendimento delle persone con disabilità  percorsi di istruzione
unidirezionali, validi per tutti, con gli stessi insegnanti e negli stessi
contesti di apprendimento. Limite: i problemi delle persone con
disabilità non sempre trovano risposte adeguate nei contesti di
apprendimento ordinari; si attribuisce un peso eccessivo alle
dinamiche socio-relazionali: le persone che hanno bisogni speciali
necessitano di risposte specifiche e personalizzate che richiedono
competenze e soluzioni che non possono essere le medesime di
coloro che di bisogni speciali non ne hanno.
 TUTTI UGUALI/TUTTI DIVERSI  presa di coscienza che normalità
e specialità appartengono ad ogni persona perché sono condizioni
di bisogno che si creano a seguito di problemi di funzionamento
correlati ai contesti di vita. La condizione di bisogno speciale può
essere vissuta e incontrata da chiunque e a causa di fattori diversi
(problemi di salute, difficoltà personali, socio-ambientali). Sono i
bisogni che possono diventare speciali se le persone
incontrano ostacoli che incidono negativamente sul loro
percorso di sviluppo e di apprendimento.

IN ITALIA

Fino ai primi anni ’70  diritto all’istruzione per coloro che avevano una
disabilità avveniva in contesti separati, le “scuole speciali”: la scelta della
scuola speciale dipendeva dalla tipologia di deficit e, all’interno di esse, si
trovavano operatori esperti della particolare condizione nonché strumentazione
ad hoc; per i “borderline” (studenti con difficoltà di apprendimento, non
considerati afflitti da qualche disabilità, derivanti perlopiù da situazioni di
svantaggio socioculturale) erano allestite “classi differenziali” presso le scuole
ordinarie; erano spesso luoghi di ulteriore impoverimento culturale.

La fase dell’inserimento  la legge che diede inizio al percorso delle riforme


che portarono all’integrazione è la n.118 del 1971 (disciplina l’invalidità
civile). L’art. 28 recita che l’istruzione riguardante la scuola dell’obbligo deve
avvenire per tutti gli alunni nelle classi normali della scuola pubblica. La legge
che traghettò il sistema scolastico italiano verso l’integrazione e ne consolidò
l’assetto fu la legge n.517 del 1977 (“Norme sulla valutazione degli alunni e
sull’abolizione degli esami di riparazione nonché altre norme di modifica
dell’ordinamento scolastico”). Con essa fu sanzionato il diritto – dovere per
ogni alunno in età di obbligo scolastico di frequentare la scuola di tutti,
indipendentemente dalla tipologia di disabilità e dal grado di gravità della
stessa. Si introdusse la figura dell’insegnante di sostegno e si chiusero le
scuole speciali.

La via italiana all’integrazione suppone che la gestione e la promozione umana


della persona con disabilità possa avvenire solo in contesti in cui socializzare,
riabilitare e apprendere operino insieme secondo una logica di sistema e che il
luogo privilegiato per la realizzazione di tale sistema sia la scuola. A seguito del
progetto dell’integrazione scolastica, si è modificata la rappresentazione sociale
della disabilità: non più soggetto passivo da custodire e assistere, ma soggetto
attivo, dotato di diritti specifici grazie ai quali sentirsi parte della società.
Oltre l’inserimento: l’integrazione  La fase immediatamente successiva alle
leggi sull’integrazione scolastica viene definita da alcuni come fase
“dell’inserimento selvaggio” (si intende stigmatizzare il fatto che la decisione
avvenne in un periodo in cui la scuola non era preparata a questo
cambiamento, per la mancanza di una cultura, anche didattica,
dell’integrazione). Fu necessario per la scuola guadagnare il concetto che le
difficoltà di apprendimento derivanti da situazioni di handicap non possono
costituire un ostacolo all’esercizio del diritto – dovere all’istruzione. La scuola
dell’integrazione è quella che non solo garantisce un generico diritto
all’istruzione, ma che si organizza per riconoscere a ciascun alunno pari
opportunità di apprendimento e tutte le risorse di cui ha necessità per far
fronte con successo ai propri bisogni speciali. L’integrazione è un processo
complesso che non può derivare dalla sola presenza dell’insegnante di
sostegno. È necessario guardare all’integrazione scolastica secondo un’ottica
nuova, come obiettivo da condividere tra tutti coloro che della scuola fanno
parte; è necessario sviluppare una mentalità aperta al valore delle differenze,
una cultura organizzativa attenta e sensibile alle esigenze di chi ha bisogni
speciali, una capacità gestionale in grado di coinvolgere nel progetto non solo
gli attori del sistema scuola, ma anche quelli del territorio, dei servizi
sociosanitari, la politica, l’economia ecc. L’integrazione è una questione
che coinvolge tutti. La sfida dell’integrazione scolastica tende a oltrepassare i
limiti della scuola stessa per sfociare in percorsi che si estendono oltre il tempo
della permanenza a scuola: tutto ciò è ben presente nella legge n. 104 del
1992, normativa che rappresenta un’articolata e globale considerazione dei
problemi della persona con disabilità lungo l’arco della vita. Si fa integrazione
scolastica solo se nella scuola l’azione educativa che vede coinvolti gli alunni
con disabilità si colloca dentro uno sfondo più ampio di quello scolastico,
perché rivolto verso obiettivi che riguardano non solo gli apprendimenti, ma i
percorsi di vita delle persone con disabilità, motivo per cui oggi si parla sempre
più di progetto di vita nell’affrontare i problemi che riguardano le persone con
disabilità.

Limiti del modello dell’integrazione


Figura dell’insegnante di sostegno  ancora oggi tale figura professionale viene
considerata e vissuta come “l’insegnante del bambino/alunno certificato”. Il
problema è inerente la norma stessa la quale prevede che tale risorsa sia resa
disponibile alla scuola solo nei casi in cui è presente in classe almeno un
alunno con “certificazione di handicap”. Un sistema di integrazione così
strutturato risulta dipendente da una risorsa straordinaria che è disponibile
solo se un sistema di valutazione esterno alla scuola ne stabilisce la necessità
sulla base di indicatori che non dipendono da criteri pedagogici e didattici,
escludendo di fatto gli insegnanti dalla lettura dei bisogni educativi speciali.
Tale approccio non risulta idoneo ad affrontare le problematiche con cui la
scuola oggi si confronta, e in particolare il dato del costante aumento
all’interno delle classi di alunni che, seppur privi di “certificazione di handicap”,
presentano difficoltà dipendenti da una variegata gamma di bisogni educativi
speciali.

Il sistema scolastico italiano si trova in una situazione di passaggio: da un lato


ha realizzato un sistema di integrazione degli alunni disabili, dall’altro, la sfida
che si profila all’orizzonte consiste nella realizzazione del cosiddetto sistema
di inclusione così come auspicato dalle “Linee guida per l’integrazione
scolastica degli alunni con disabilità” e dalle direttive e circolari del MIUR, alla
base delle quali non si trova più il concetto di “certificazione di handicap”, ma
quello di “bisogno educativo speciale”.

Potenzialità del modello dell’integrazione

Porre in situazione di normalità una persona con disabilità risulta decisivo per
scoprire le potenzialità di sviluppo presenti sia nella persona stessa sia nei
contesti di apprendimento e di vita dentro i quali vive la persona. È questo il
più grande successo del modello dell’integrazione scolastica: l’aver compreso
che le persone e l’ambiente risultano decisivi nel caratterizzare una condizione
di disabilità consente di rivedere l’eziogenesi della disabilità che non può più
essere ricondotta alla gravità del deficit, ma alle forme e modalità con cui
determinate condizioni di salute interagiscono con determinati fattori
ambientali e personali. La comprensione del processo in base al quale una
menomazione, un deficit, una patologia grave, si possono trasformare in
disabilità, rinvia all’analisi approfondita del contesto di vita della persona, dei
sui problemi di funzionamento ossia le difficoltà che la persona incontra

nell’adempiere ai compiti che la riguardano in relazione all’età e alle necessità


a cui deve far fronte. Nel contesto educativo si concretizzano le situazioni che
aiutano le persone a crescere, a modificarsi, a divenire più competenti.
Affinché nella situazione data si crei la condizione ottimale al cambiamento
deve funzionare il dispositivo dell’educazione ossia deve reggere la
progettualità che fa da sfondo all’intervento.

Oggi  è cambiato il significato di disabilità, non più concepita come mera


conseguenza di una condizione di salute, ma espressione dell’interazione tra
fattori diversi di tipo bio – psico – sociale. La nuova definizione di disabilità
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (ICF,2001) considera la disabilità non
più problema di salute conseguente a una malattia, ma problema sociale
risultato di una complessa relazione tra la condizione di salute di un individuo e
i fattori personali, e i fattori ambientali che rappresentano le circostanze in cui
vive l’individuo.

La Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e


della Salute per Bambini e Adolescenti (ICF – CY, OMS, 2007) è uno
strumento che è stato realizzato per documentare le caratteristiche dello
sviluppo del bambino e l’influenza dell’ambiente circostante e si profila
attualmente come riferimento culturale e scientifico fondamentale anche per
ripensare il sistema d’integrazione scolastica, nella prospettiva della
realizzazione della scuola inclusiva.

Il modello del funzionamento, centrato sull’analisi delle performance, consente


di riconoscere precocemente condizioni di bisogno speciale prima che si
configuri una condizione di disabilità. Salute e funzionamento, nell’ottica ICF,
sono la risultante di una interconnessione complessa, globale e
multidimensionale tra condizioni di salute (componenti biologiche), fattori
ambientali (componenti sociali) e fattori personali (componenti psichiche).

L’Inclusive Education è un modello teorico che nasce e si sviluppa come atto


di indirizzo in materia di istruzione e educazione ed è stato voluto dai

Momenti decisivi del processo di costruzione del modello dell’Inclusive


Education:
Conferenza mondiale sull’istruzione per tutti (Thailandia, 1990)
Quadro di azione di Dakar (1990)
Conferenza di Salamanca (1994)
Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, approvata
dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (2006)
Rapporto Mondiale sull’Educazione Inclusiva (2009)
rappresentanti di importanti organismi internazionali (come l’UNESCO ad
esempio).

L’origine sovranazionale ed extraparlamentare di tale modello è anche la


ragione principale per cui la sua applicazione non è identica in ogni Paese. Nei
Paesi che si confrontano con il modello dell’Inclusive Education e che si aprono
ai principi che caratterizzano la filosofia inclusiva, nascono sistemi d’istruzione
ibridi, espressione del tentativo di mediazione tra tradizione e innovazione, tra
desiderio di novità e resistenze al cambiamento.

La Dichiarazione di Salamanca è considerato il manifesto della scuola inclusiva


ed afferma che i sistemi educativi, per soddisfare la domanda educativa che
proviene dalla società, sono chiamati a sviluppare una pedagogia centrata sul
singolo alunno (CHILD-CENTRED PEDAGOGY) rispondendo in modo flessibile
alle esigenze di ciascuno. Non più un sistema educativo organizzato per
intercettare il bisogno educativo degli studenti “normali” (nella norma –
conformità a una regola), ma organizzato per intercettare le differenze, le
caratteristiche di ciascuno, per rispondere a tutti i bisogni di apprendimento
(normali o speciali). Massima espressione di tale rivoluzione è la nascita del
concetto di “normale specialità” ossia la presa d’atto che la domanda di
educazione che proviene dalla società alla scuola non è più interpretabile
secondo il dualismo normale/speciale. Tutti gli studenti sono diversi; anche gli
studenti cosiddetti “speciali” hanno bisogni normali; anche gli studenti
“normali” risultano costantemente esposti ad avere bisogni speciali. Il
significato del termine “speciale” subisce una profonda trasformazione
semantica che consiste nel rimandare a un problema di funzionamento
personale (che può appartenere alla vita di ogni persona) e non più a una
condizione esistenziale.

I bisogni speciali non sono i bisogni dei diversi; nello specifico della scuola, il
termine “speciale” denota oggi tutti quei bisogni degli alunni che rinviano a
difficoltà di sviluppo e di apprendimento, temporanee o permanenti, che
possono manifestarsi a prescindere da una condizione di disabilità.

Fino alle riforme che abolirono in Italia le scuole speciali, “i bisogni speciali”
coincidevano con le necessità di cura e di sviluppo dei cosiddetti “esseri
speciali”: coloro che, a causa di condizioni mediche particolari, erano
considerati “anormali” o handicappati. I cosiddetti “esseri speciali” non hanno
solo bisogni speciali ovvero condizionati dalle loro specifiche e particolari
tipologie di disabilità, ma hanno soprattutto bisogni normali. Anche i cosiddetti
“esseri normali” possono avere bisogni speciali, possono vivere condizioni di
particolare difficoltà in grado di arrecare danni, ostacoli e svantaggi seppur in
assenza di disabilità. L’essere “normalmente speciale” è dato comune a tutti e
trasversale alle differenti storie di vita delle persone: siamo “tutti diversi e tutti
uguali”. Non avere o avere un bisogno speciale non dipende da un modo di
essere, ma dal modo con cui una certa persona “funziona” o “non funziona” nel
proprio ambiente di vita.

Grazie alla pubblicazione dell’ICF è cambiato il modo di concepire la disabilità e


il significato di salute e qualità di vita. La disabilità è un problema di
funzionamento e non la semplice conseguenza di un deficit.
Funzionamento  interazione positiva o neutra tra un individuo e i diversi
fattori ambientali presenti nel suo contesto di vita. Tra i problemi di
funzionamento ve ne sono alcuni che hanno direttamente a che fare con i
contesti di apprendimento, in quanto si manifestano prevalentemente in tali
contesti: sono i cosiddetti BES (Bisogni Educativi Speciali). I BES sono
problemi di funzionamento correlati al contesto scolastico/apprenditivo e
ineriscono alle difficoltà che incontrano gli alunni nel rispondere nella maniera
attesa alle richieste che caratterizzano tale contesto. Un BES può essere
vissuto inconsapevolmente dal soggetto, che ne può subire il condizionamento
per molto tempo e con gravi conseguenze per il proprio successo scolastico. Se
si rileva la presenza di un effettivo BES anche l’azione educativa si deve
caratterizzare come speciale ossia idonea a ottenere un cambiamento. Talvolta
si tratta di arricchire l’azione educativa ordinaria di ulteriori elementi di
conoscenza così da modificarla quanto basta per ridurre o estinguere la
condizione di BES in una condizione di normalità. Le modifiche possono
riguardare solo il contesto dell’apprendimento, solo la relazione educativa o
solo l’insegnamento. Talvolta riguardano azioni più complessi che coinvolgono i
colleghi (consiglio di classe), richiedono un’alleanza educativa con la famiglia e
quando si modificano alcuni aspetti dell’azione didattica. In altri casi è
necessario ricorrere a saper esperti oppure attingere a risorse aggiuntive, ma
sempre presenti nel circuito della scuola (CTI  centri territoriali per
l’inclusione e CTS  centri territoriali di supporto) per ottenere consulenze o
ulteriori strumenti per la didattica. Altre volte si deve fare ricorso a figure
professionali esterne alla scuola e quindi si interpellano gli specialisti per
ricevere consulenze su determinati problemi.

Come si possono intercettare i BES? Nella Direttiva MIUR del 27/12/2013 si


legge che nell’ottica dell’analisi preventiva della presenza di possibili BES è
rilevante l’apporto, anche sul piano culturale, del modello diagnostico ICF
(International Classification of Functioning) dell’OMS, che considera la persona
nella sua totalità, in una prospettiva bio-psico-sociale. Fondandosi sul profilo di
funzionamento e sull’analisi del contesto, il modello ICF consente di individuare
i Bisogni Educativi Speciali (BES) dell’alunno prescindendo da preclusive
tipizzazioni. In base all’ICF i segnali attraverso i quali è riconoscibile la
presenza di un BES possono derivare dalla presenza, negli alunni, di problemi
alle strutture e/o alle funzioni corporee, da limitazioni nelle attività e da
restrizioni nella partecipazione sociale. La rilevazione dei BES dovrebbe
derivare da un sistema di monitoraggio e il modello da utilizzare dovrebbe
essere ispirato all’ICF e fornire alla scuola il profilo di funzionamento degli
alunni e l’analisi del contesto. Le modalità per ottenere questo risultato
derivano dall’utilizzo delle Checklist ICF-CY grazie alle quali è possibile ottenere
il “Profilo di funzionamento” degli alunni. Per quanto attiene all’analisi del
contesto un valido riferimento è “L’index per l’inclusione” di Booth e Ainscow il
cui scopo è quello di fornire una serie di materiali per consentire ad alunni,
insegnanti, genitori, dirigenti e amministratori di progettare per la propria
realtà scolastica un ambiente inclusivo.

IN ITALIA

Il nucleo rivoluzionario della “via italiana all’integrazione” sosteneva che solo


dalla convivenza e dalla condivisione di esperienze e percorsi di vita potesse
nascere una reale integrazione. Secondo i Principi Guida per promuovere la
qualità nella Scuola Inclusiva, promulgati dall’Agenzia Europea per lo Sviluppo
dell’Istruzione degli Alunni Disabili nel 2009, l’Inclusive Education riguarda non
solo gli studenti in situazione di handicap, ma ogni e qualsiasi alunno
suscettibile di esclusione perché “l’inclusione interessa un raggio sempre più
ampio di studenti piuttosto che quegli studenti in possesso della certificazione
per l’handicap”. È stata la Legge 170/2010 sui DSA (Disturbi Specifici
dell’Apprendimento) che ha generato il primo scollamento tra il sistema
dell’integrazione e quello dell’inclusione. Infatti, con questa legge, si viene ad
affermare un principio che introduce nella scuola il diritto a una presa in carico
educativa personalizzata di un alunno con BES che non si fonda su una
“certificazione di handicap”, ma su una diagnosi clinica. Si riconosce l’esistenza
di BES in alunni/studenti senza disabilità, ma con particolari e specifiche
difficoltà di apprendimento che hanno diritto a un percorso di personalizzazione
degli apprendimenti denominato Piano Didattico Personalizzato (PDP)  in
Trentino: PDP è redatto solo per stranieri; per studenti in fascia B (con DSA)
o in fascia C (svantaggio) viene redatto il PEP, Progetto Educativo
Personalizzato.

La presenza di un DSA non dà seguito a una certificazione di handicap perché


non è una patologia, ma una condizione personale definita neurodiversità.
L’ampliamento del raggio dei bisogni educativi speciali non ha generato
un’analoga espansione della spesa pubblica destinata a garantire il rispetto di
quei diritti che, per legge, si stavano affermando. In presenza di una diagnosi
di DSA il sistema scuola non può ricorrere a risorse straordinarie: in primis
l’insegnante di sostegno.

Ciò a cui mira il modello dell’Inclusive Education non è la tutela dei differenti
BES quanto, invece, la costruzione di un sistema scolastico Full Inclusion,
senza esclusioni e oltre ogni meccanismo di labelling.

Labelling Theory (Becker): attraverso l’assegnazione di un’etichetta a una


persona, si innesca un processo in grado di trasformare la persona stessa,
influenzando la percezione del sé.

La sfida contenuta in questo modello consiste nel riuscire a costruire una


scuola che valga per il 100% degli alunni, perché l’inclusione non deriva dal
dare un posto nella scuola anche a chi è portatore di un bisogno speciale, ma
dal trasformare il sistema scolastico in organizzazione idonea a perseguire la
valorizzazione delle differenze che ordinariamente caratterizzano la domanda
di educazione proveniente dalla società. Con la Direttiva del 27 dicembre
2012 si introduce nel sistema un’altra categoria di BES, anch’essi non
riconducibili a una “certificazione di handicap” perché derivanti o da condizioni
cliniche non previste nella 170/2010 o da condizioni di svantaggio
sociolinguistico e culturale. La novità contenuta nella Direttiva e nella
successiva Circolare Ministeriale n.8 del 6 marzo 2013 è costituita dalle
variabili ambientali quali possibile causa di BES.
Spetta ai Consigli di classe il dovere di individuare i casi in cui si evidenziano
condizioni di bisogno speciale anche in assenza di certificazione e/o diagnosi e
quindi sulla base di valutazioni di tipo educativo idonee a esplorare Profili di
funzionamento e/o variabili di contesto. Solo da qui possono emergere le
condizioni di BES non previste dalla legge 104/1992 e dalla legge 170/2010,
ossia difficoltà di sviluppo e apprendimento che non hanno un’eziogenesi
clinica, ma sociale.

L’assetto attuale sembra derivare dall’applicazione di un “modello ibrido”


espressione di una contaminazione del modello dell’integrazione con il modello
dell’Inclusive Education. L’effetto più evidente del modello ibrido è la
proliferazione dei BES.

Luci e ombre del “modello ibrido”

Luci  sforzo del legislatore di interpretare il bisogno educativo speciale


attraverso un paradigma rinnovato rispetto al passato: si è fatta strada l’idea
che i bisogni speciali non derivino da quadri di disabilità, ma da problemi di
funzionamento. Decisivo l’apporto culturale derivante dall’OMS grazie al quale
si è ampliato il significato di salute, intesa come stato di completo benessere
fisico, mentale e sociale. Con l’ICF si è imposto nell’approccio scientifico alla
disabilità il paradigma biopsicosociale in base al quale viene superata l’idea
che le disabilità siano l’effetto di malattie. La nuova concezione di disabilità
guarda a tale condizione come risultato di una complessa relazione tra la
condizione di salute di un individuo e i fattori personali, e i fattori ambientali
che rappresentano le circostanze in cui vive l’individuo. È proprio il paradigma
biopsicosociale a offrire le basi teorico/scietifiche alla logica dei BES: il modello
diagnostico ICF dell’OMS considera la persona nella sua totalità, in una
prospettiva biopsicosociale (Direttiva 27/12/2012). Da qui la suddivisione della
macrocategoria BES nelle tre sotto – categorie menzionate dalla Direttiva:

1. Disabilità  BES con marcatore biologico, imputabili a condizioni di


salute quali danni alle strutture e/o alle funzioni corporee (da cui
derivano le certificazioni di handicap).
2. Disturbi evolutivi specifici  BES con marcatore psicologico ovvero
imputabili a variabili personali (da cui derivano le diagnosi di DSA).
3. Svantaggio socioeconomico, linguistico e culturale  BES con marcatore
sociale, ossia imputabili a variabili di contesto di tipo ambientale (da cui
derivano gli altri casi previsti dalla Direttiva).

Altro elemento positivo del “modello ibrido” è l’implicito messaggio (contenuto


nella legge 170/2010, nella Direttiva 2012 e nella Circolare 2013) consistente
nel ritenere che a doversi occupare di BES non debbano essere solo gli
insegnanti specializzati per il sostegno. I BES richiedono una presa in carico
educativa da parte di tutti gli insegnanti , in forma collegiale.

Ombre  come si può essere sicuri che tutti gli insegnanti abbiano le
necessarie competenze? Se un bisogno educativo è davvero speciale, significa
che anche le risposte a questo bisogno devono contenere almeno qualche
livello di specializzazione. La formazione specialistica degli insegnanti non può
seguire solo la logica della libera adesione o dell’interesse personale. A essa va
affiancata un’altra logica, espressione di una mentalità programmatica e
organizzativa consistente nella gestione oculata delle risorse umane presenti,
con l’ottica dell’implementazione delle competenze in capo all’organico stabile.
La ricerca scientifica ha dimostrato che per affrontare i problemi educativi
complessi bisogna imparare a interrogarsi sulle azioni in atto e saper esplorare
l’esperienza con una riflessione adeguata e attenta a individuare le “buone
prassi” ossia le pratiche educative e organizzative replicabili e generabili con le
risorse a disposizione, in quanto dotate di costanti significative, caratteristiche
operative positive e principi attivi che funzionano al di là delle ovvie differenze
di situazione. Altra ombra deriva dall’aver pensato di poter ampliare il raggio
dei BES senza alcuno stanziamento di risorse straordinarie: l’aumento di
certificazioni di handicap è interpretabile come fenomeno indotto dal sistema
scolastico a seguito del costante aumento di casi problematici nelle classi e per
la percezione, sempre più diffusa tra gli insegnanti, di non potervi far fronte se
non attraverso il ricorso a risorse straordinarie.
CRONOLOGIA LEGGI PRINCIPALI
Legge n.118 del 1971 Ufficializza il termine “inserimento”
all’art. 28.
Legge n. 517 del 1977 Ufficializza il termine “integrazione”.
Introduce la figura dell’insegnante di
sostegno.
Legge n.104 del 1992 Approfondisce il termine
“integrazione”.
Legge n. 170 del 2010 Riconosce che nelle classi non
esistono solo BES che fanno
riferimento a certificazioni di
handicap, ma esistono BES che non
derivano da condizioni di salute:
DSA, disturbi specifici
dell’apprendimento.
Direttiva dicembre 2012 Introduce nel sistema un’altra
categoria di BES non riconducibili a
una “certificazione di handicap”
perché derivanti o da condizioni
cliniche non previste nella 170/2010
o da condizioni di svantaggio
sociolinguistico e culturale
Circolare marzo 2013 Introduce le variabili ambientali quali
possibile causa BES

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