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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI SALERNO

Dipartimento di Scienze Umane, Filosofiche e della


Formazione

Percorsi di formazione per il conseguimento della


specializzazione per le attività di sostegno didattico agli alunni
con disabilità
(Secondaria Primo Grado)

ELABORATO FINALE

" Il ruolo del docente di sostegno nell'inclusione degli alunni con


Disturbo dello Spettro Autistico."

Relatore: Candidata:
Chiar.ma Prof.ssa Paola Aiello Amalia Iannone
Matricola:
SOS_MED00579

ANNO ACCADEMICO 2021/2022


INDICE

INTRODUZIONE 3

I CAPITOLO: LA SCUOLA INCLUSIVA 5

Premessa

1. Dall’esclusione all’inclusione: excursus normativo 5


2. Il ruolo della scuola 12
3. Ruolo dell’insegnante di sostegno nella scuola inclusiva 13

II CAPITOLO: IL DISTURBO DELLO SPETTRO AUTISTICO 16

Premessa

1. L’Autismo nel DSM-IV e nel DSM-V 16


2. L’approccio neuropsicologico 20
3. Memoria ed emozioni nell’Autismo 22

III CAPITOLO: L’INTERVENTO DIDATTICO-EDUCATIVO 25

Premessa

1. L’apprendimento nei soggetti con autismo 25


2. Gli obiettivi dell’azione didattica 27
3. Le strategie didattiche 30

CONCLUSIONE 36

BIBLIOGRAFIA 38

SITOGRAFIA 42

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INTRODUZIONE

La scuola è una delle Istituzioni più importanti della nostra società, cui deve essere
riconosciuto il ruolo di costruzione di una comunità e della promozione di valori,
cercando di rimuovere gli ostacoli che limitano i diritti di cittadinanza. Essa, quindi,
deve essere aperta a tutti, realizzando la piena inclusione di tutti e di ciascuno, nella
prospettiva di uno sviluppo integrale della persona in quanto tale così come afferma la
Costituzione Italiana. Lo scopo è quello di creare una società democratica, nella quale
vige il valore dell’uguaglianza inteso come rispetto della diversità. La prospettiva,
infatti, è quella di considerare la diversità come parte della normalità e come valore,
non solo nella scuola ma anche nella vita sociale, culturale e professionale.
L’eterogeneità della classe è un valore, una ricchezza piuttosto che un limite e poiché
alla costruzione di una società inclusiva deve concorrere anche la scuola è necessario
che l’inclusione sia un processo della vita quotidiana degli alunni. L’idea di inclusione
deve basarsi sul riconoscimento della rilevanza della piena partecipazione alla vita
scolastica da parte di tutti i soggetti, ognuno con i suoi bisogni “speciali”. Di
conseguenza, essere inclusivi comporta l’impegno continuo da parte di tutti i
protagonisti del processo formativo, che assicuri una partecipazione attiva dell’alunno
e al suo processo di apprendimento facendo sì che egli si senta parte di un gruppo che
lo riconosce, lo rispetta e lo apprezza. Per fare ciò, bisogna trasmettere negli alunni il
piacere di sperimentare, di scoprire e conoscere le proprie capacità e di far acquisire
loro la consapevolezza delle proprie abilità permettendo loro di sviluppare
“quell’empowerment” che li aiuti a crescere e ad autodeterminarsi. L’azione didattico-
educativa di coloro che sono portatori di “bisogni speciali”, non deve basarsi solo su
tecniche e pratiche specialistiche, (tramite compensazioni e dispense) perché in questo
modo si rischia di restare ingabbiati nel modello medico della disabilità che genera
fenomeni di esclusione degli alunni in difficoltà. L’insegnante deve pensare non “per
casi” ma come afferma l’Index per l’inclusione “per differenze” perché solo così si è
in grado di osservare e comprendere le diversità e le complessità degli alunni e vederli
come portatori di risorse. In quest’ottica per realizzare la vera inclusione è necessario
attivare risorse, elaborare proposte educative portatrici di valori inclusivi e predisporre
l’ambiente per renderlo inclusivo (didattica, curricolo, organizzazione scolastica,
criteri di valutazione).
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Nel presente lavoro di tesi analizzerò il ruolo del docente negli alunni con Disturbo
dello Spettro Autistico, approfondito nel corso delle lezioni di specializzazione per il
sostegno in quanto sempre più numerosi sono gli alunni che presentano questa diagnosi
e per i quali è necessario calibrare con attenzione l’intervento didattico.
Nel primo capitolo verrà trattato il tema dell’inclusione scolastica dal punto di vista
normativo descrivendo la fase dell’esclusione, dell’inserimento per poi passare
all’integrazione ed infine all’inclusione della scuola contemporanea.
Nel secondo capitolo verrà descritto il Disturbo dello Spettro Autistico con attenzione
ai criteri diagnostici, sottolineando le differenze tra quanto previsto nel DSM IV e
quanto invece modificato dal DSM V. Verranno inoltre presentate le teorie
neuropsicologiche più accreditate, approfondendo successivamente i processi di
memoria ed emotivi in quanto strettamente connessi all’apprendimento.
Infine, nel terzo capitolo saranno approfonditi gli aspetti della didattica riferita ad
alunni con Disturbo dello Spettro Autistico, aspetti peculiari del processo di
apprendimento, tipico degli alunni con Autismo. Essa, infatti, richiede
un’organizzazione semplice e strutturata con una definizione degli obiettivi che deve
essere rilevante per i bisogni e, in generale, per il progetto di vita di tali alunni.
Verranno inoltre descritte quelle strategie e metodologie didattiche in grado di
supportare il processo di insegnamento-apprendimento.

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I CAPITOLO: LA SCUOLA INCLUSIVA

Premessa

In questo primo capitolo verrà trattato il tema dell’inclusione scolastica ripercorrendo


le fasi giuridiche che hanno determinato il passaggio dalla fase dell’esclusione a quello
dell’inserimento per poi passare all’integrazione per giungere all’inclusione della
scuola contemporanea.

1.1 Dall’esclusione all’inclusione: excursus normativo.

Nel nostro Paese, il passaggio che ha portato dall’esclusione dei disabili al loro
inserimento, e successivamente all’integrazione, è avvenuto assai in anticipo rispetto
agli altri Paesi europei, e che ciò ha permesso di sviluppare alcune esperienze di
assoluto rilievo per quanto riguarda l’accoglienza a scuola degli alunni con Bisogni
Educativi Speciali (Ianes, 2005). Tuttavia, a distanza di oltre trent’anni dalla legge
517, il contesto sociale ed educativo appare fortemente mutato, così come la stessa
sensibilità culturale diffusa fuori e dentro la comunità scolastica, e appaiono con
evidenza i limiti del modello «integrazionista», limiti riconducibili non solo alla
cronica carenza di strutture e risorse da dedicare all’attività con i disabili, ma anche
alla debolezza di alcuni assunti propri della prospettiva dell’integrazione. L’idea di
integrazione muove infatti dalla premessa che è necessario fare spazio all’alunno
disabile all’interno del contesto scolastico.
Per quanto positivo possa suonare tale intento, è evidente che questo assunto può
essere interpretato, in modo abbastanza letterale, soprattutto come esigenza di trovare
una collocazione fisica dell’alunno all’interno degli spazi scolastici, lasciando poi
all’intervento degli operatori di sostegno e al contatto più o meno frequente con i
compagni il compito di assicurare una condizione di relativa vivibilità dell’esperienza

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da parte dell’alunno disabile. Ma anche là dove questa visione ristretta è stata superata
a favore di una progettualità integrativa più forte e articolata, alla base di tale
prospettiva rimane un’interpretazione della disabilità come problema di una
minoranza, a cui occorre dare opportunità uguali (o quanto meno il più possibile
analoghe) a quelle degli altri alunni (Farrell, 2000; Vislie, 2002).
Il paradigma a cui fa implicitamente riferimento l’idea di integrazione è quello
«assimilazionista», fondato sull’adattamento dell’alunno disabile a un’organizzazione
scolastica che è strutturata fondamentalmente in funzione degli alunni «normali», e in
cui la progettazione per gli alunni «speciali» svolge ancora un ruolo marginale o
residuale. All’interno di tale paradigma, l’integrazione diviene un processo basato
principalmente su strategie per portare l’alunno disabile a essere quanto più possibile
simile agli altri. Come ha messo in luce Ainscow in altre pubblicazioni, il limite
maggiore dell’integrazione è il suo essere basata su una concezione che, nell’intento
di offrire più ampie opportunità ai soggetti «speciali», interviene attraverso una serie
di interventi di modifica che si susseguono all’interno del sistema scolastico senza però
mai mettere effettivamente in discussione il paradigma della normalizzazione, che
continua a rimanere il modello di riferimento indiscusso (Ainscow, 1999; Ainscow,
Barrs e Martin, 1998).
Viceversa l’idea di inclusione si basa non sulla misurazione della distanza da un
preteso standard di adeguatezza, ma sul riconoscimento della rilevanza della piena
partecipazione alla vita scolastica da parte di tutti i soggetti. Se l’integrazione tende a
identificare uno stato, una condizione, l’inclusione rappresenta piuttosto un processo,
una filosofia dell’accettazione, ossia la capacità di fornire una cornice dentro cui gli
alunni — a prescindere da abilità, genere, linguaggio, origine etnica o culturale —
possono essere ugualmente valorizzati, trattati con rispetto e forniti di uguali
opportunità a scuola.
L’iter legislativo che ha condotto la scuola italiana ad abbandonare l’istruzione
speciale o differenziale verso la prospettiva dell’integrazione ha avuto inizio negli anni
Settanta del secolo scorso, costituendo uno degli esempi europei giuridicamente più
significativi relativi alle problematiche legate alla disabilità. In realtà l’Italia, già dagli
anni Venti, aveva mostrato l’intenzione di superare il concetto di assistenza
caritatevole verso la disabilità, stabilendo le prime disposizioni scolastiche (Regi
Decreti n. 3126 del 1923, n. 653 del 1925, n. 577 del 1928) nei confronti dell’istruzione
di non vedenti ed audiolesi, dell’assistenza ai bambini con anomalie del carattere o

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dell’intelligenza e alle persone con menomazioni fisiche e psichiche,
dell’organizzazione delle classi differenziali nelle scuole elementari (le persone non
“recuperabili” erano ospitate in scuole speciali). La filosofia legislativa che permea
tali provvedimenti è essenzialmente quella dell’esclusione e dell’educazione separata:
gli “handicappati” sono soggetti da tenere ai margini, allontanati dal contesto sociale
o da accogliere in istituzioni religiose o filantropiche, non sono riconosciuti come
portatori di diritti, verso di loro lo Stato rivolge pratiche assistenziali.
L’emanazione della Costituzione del 1948 segna un notevole cambio di rotta nella
concezione dell’educazione scolastica del bambino con disabilità in quanto sottolinea
che “la scuola è aperta a tutti” e che “gli inabili e i minorati hanno diritto
all’educazione” (artt. 34 e 38).
Gli anni 60 sono un decennio importante, vede la nascita della scuola media unica
(Legge 1859/62) e della scuola materna (Legge 444/68), permane la prospettiva
dell’isolamento tramite l’istituzione delle classi di aggiornamento aperte agli alunni
bisognosi di cure frequentanti la scuola media e delle classi differenziali che ospitano
alunni disadattati a livello scolastico.
A proposito dell’attenzione e dell’impegno verso la de-istituzionalizzazione dei luoghi
dedicati agli “handicappati” A. Canevaro ricorda che la spinta progressista “non è
partita dalle leggi” ma, ad esempio in Emilia Romagna, da un pioneristico movimento
verso l’integrazione da parte di famiglie, insegnanti, professionisti appartenenti ai
quartieri comunali e alle realtà territoriali innestato in un tessuto socio-culturale-
politico fertile in grado di guardare “oltre” l’istituito contestando l’emarginazione
causata dalle scuole speciali per minori con disabilità e progettando il loro inserimento
nelle scuole pubbliche (Canevaro A., 2014).
A livello legislativo, le significative tappe (Di Pol. R.S., 2016), che hanno
contraddistinto il rivoluzionario passaggio all’integrazione coincidono con il
ventennio compreso dal 1971 al 1992, periodo storico nel quale è avvenuto l’effettivo
riconoscimento giuridico e normativo della disabilità e l’abolizione delle classi
differenziali. In una prima fase di inserimento si riconosce agli alunni con “handicap”
il diritto all’iscrizione nella scuola di tutti, cioè in quella elementare e media (Legge
118/71). Con tale legge viene superato il modello delle scuole speciali, prescrivendo
l’inserimento degli alunni con disabilità nelle classi comuni su iniziativa della
famiglia. Per favorire l’inserimento si assicurava il trasporto, l’accesso agli edifici

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scolastici mediante il superamento delle barriere architettoniche, l’assistenza durante
gli orari scolastici degli alunni più gravi.
Nel 1975 viene pubblicato il Documento conclusivo dei lavori della Commissione
Ministeriale di Studio presieduta da F. Falcucci, la Magna Charta dell’integrazione
degli alunni portatori di handicap, che ribadisce la priorità dell’aggiornamento dei
docenti al quale fa seguito il D.P.R. n. 970 dello stesso anno il quale introduce la figura
dell’insegnante di sostegno e ne indica il percorso di formazione e di aggiornamento
continui. Tale insegnante, preparato nelle tecniche didattiche differenziali idonee al
trattamento delle diverse forme di disabilità, è presente in classe per supportare
l’alunno nello svolgimento delle attività didattiche ordinarie e per svolgere ulteriori
attività richieste dalla specifica minorazione (Ianes D., 2014). L’avvio
dell’inserimento scolastico degli alunni con disabilità, preludio al processo
dell’integrazione, coincide con l’emanazione della Legge 517/77 che pone il nostro
Paese all’avanguardia in Europa, riconoscendo il ruolo degli insegnanti di sostegno
nella scuola elementare e media precedentemente chiamati a svolgere il loro compito
educativo in istituzioni separate e sancendo la nuova tendenza di inserire gli allievi
con disabilità nella scuola per offrire loro concreti interventi a garanzia del diritto allo
studio e della formazione educativa. La Legge 517/77, ponendo fine all’inserimento
selvaggio degli alunni con disabilità, stabilisce con chiarezza le condizioni, gli
strumenti e le finalità per la loro integrazione scolastica all’interno di una scuola non
più uguale per tutti, ma diversa per tutti nella quale hanno piena cittadinanza la
programmazione, la flessibilità, le attività integrative e la funzione formativa della
valutazione. Un contesto scolastico capace di integrare pienamente le persone
“diverse” è il presupposto imprescindibile da cui è necessario partire per poter ancora
oggi sostenere le idee, le culture e le buone prassi inclusive (Gaspari P., 2016).
Le decisioni legislative che riconoscono valore alle persone con disabilità e alla loro
integrazione trovano nella Legge quadro 104/92 e nella Legge 17/99 opportuna e
completa attuazione in quanto, oltre ad individuare gli obiettivi della formazione
scolastica, fanno riferimento anche all’inserimento sociale delle persone con
“handicap”. La Legge 104/92 costituisce indiscusso punto di riferimento normativo
nel processo dell’integrazione, basato su evoluti presupposti socio-culturali,
rappresentando una tappa fondamentalmente positiva nella conquista
dell’irrinunciabile diritto della persona e del cittadino all’educazione (Gandolfi S.,
2006), all’istruzione, all’integrazione scolastico - lavorativa. Ribadendo ed ampliando

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il principio dell’integrazione scolastica e sociale come prioritario nella tutela della
dignità umana della persona con disabilità, lo Stato si impegna a rimuovere le
condizioni invalidanti che ne impediscono lo sviluppo, sia a livello di partecipazione
sociale sia a livello di deficit sensoriali e psico-motori per i quali sono previsti
interventi riabilitativi. Al fine di concretizzare il diritto all’educazione e all’istruzione
dell’alunno “handicappato” la Legge 104/92 e le successive disposizioni applicative
(D.P.R. del 1994) definiscono una specifica metodologia di lavoro e formulano
documenti di grande importanza per l’integrazione scolastica e sociale: la Diagnosi
Funzionale (DF), il Profilo Dinamico Funzionale (PDF) e il Piano Educativo
Individualizzato (PEI). La DF è il frutto di una proficua collaborazione tra
neuropsichiatri, terapisti della riabilitazione, operatori sociali della ASL di
appartenenza dell’alunno, insegnanti e famiglia. Nell’elaborazione del PDF vengono
delineati i livelli di sviluppo che l’alunno può raggiungere nel breve e medio termine
accanto agli opportuni obiettivi educativo - didattici da raggiungere. Il PEI realizzato
con la collaborazione degli insegnanti, degli specialisti dell’ASL e della famiglia
contiene gli interventi scolastici ed extrascolastici, in ottica integrata, destinati alla
costruzione e allo sviluppo del Progetto di vita dell’alunno con disabilità.
Gli alunni con deficit cessano, quindi, di essere considerati “anormali” o “minorati”
ma sono considerati soggetti che, pur trovandosi in difficoltà di apprendimento, di
relazione, ecc…, non vengono affatto discriminati sul piano umano o sociale, secondo
il principio dell’uguaglianza garantita dalla Costituzione. La nuova locuzione “persona
handicappata” presente nella Legge quadro afferma chiaramente che non è la mera
presenza del deficit a produrre l’handicap. Il deficit origina svantaggi sul piano
dell’apprendimento, della relazione e della comunicazione, dove queste difficoltà non
ci fossero o fossero ridotte, l’alunno non sarebbe in situazione di handicap (Bocci F.,
2011).
I processi di integrazione e d’intervento educativo in ambito scolastico, definiti dalla
Legge 517/77 e dalla Legge 104/92, si sono evoluti verso una prospettiva più ampia,
coerente con il nuovo modello bio-psico-sociale di classificazione della disabilità
«ICF» (OMS, 2001), nel quale la persona in situazione di deficit va considerata nello
sviluppo di potenzialità, attività personali e competenze, rapportate alla qualità delle
condizioni e dei fattori contestuali che debbono rivelarsi non ostacolanti ma
“facilitanti” ovvero privi di barriere fisiche, psicologiche, sociali, culturali, valoriali,
ecc.. Nel realizzare un nuovo modello di disabilità, l’«ICF» tende ad offrire una visione

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globale e dinamica (funzioni, strutture, attività e partecipazione) della persona e non
della malattia, puntando sul pieno sviluppo delle sue abilità. L’introduzione di
elementi di natura socio-ambientale e culturale, che possono generare discriminazioni
ed esclusioni, ha contribuito ad ampliare la platea di alunni con “Bisogni Educativi
Speciali” che necessitano di risposte formative differenziate, mirate, e
contestualizzate, di approcci didattici flessibili, del superamento di modelli
organizzativo - metodologici uniformi e lineari, destinati all’ipotetico alunno
“astratto” e del consolidamento di processi di apprendimento ricorsivi, dialogici,
ologrammatici, per dirla con E. Morin, in grado di offrire risposte funzionali ed efficaci
per tutti e per ciascuno alunno (Carta di Lussemburgo, 1996), a garanzia di un diffuso
democratico successo formativo. Nello specifico con la Legge n. 53/2003 si parla di
personalizzazione degli apprendimenti che si distingue dall’individualizzazione degli
apprendimenti, in quanto il docente non si limiterà a far raggiungere all’alunno gli
obiettivi minimi di competenza, ma si impegnerà a far raggiungere all’alunno un
livello di eccellenza.
La legge 170/16 del 2010 ha riconosciuto invece la dislessia, la disortografia, la
disgrafia e la discalculia come “Disturbi Specifici di Apprendimento” e sancisce che
le istituzioni scolastiche “provvedono ad attuare i necessari interventi pedagogico-
didattici per il successo formativo degli alunni e degli studenti DSA, attivando percorsi
di didattica individualizzata e personalizzata e ricorrendo a strumenti compensativi e
misure dispensative”.
La Direttiva Ministeriale 17 del 2012 precisa, invece, la “strategia inclusiva della
scuola italiana al fine di realizzare appieno il diritto all’apprendimento di tutti gli
alunni e gli studenti in situazione di difficoltà, che ridefinisce e completa il tradizionale
approccio all’integrazione scolastica, basato sulla certificazione della disabilità e
estende il campo di intervento ai soggetti che mostrano disturbi specifici di
apprendimento, disturbi evolutivi specifici, svantaggio culturale e sociale, non
conoscenza della lingua italiana, perché appartenenti a sistemi linguistici e culturali
diversi”. Con le disposizioni della Direttiva è compito del Consiglio di classe, indicare
se opportuno, l’adozione di un PDP avente lo scopo di definire, monitorare e
documentare le strategie di intervento più idonee e i criteri di valutazione degli
apprendimenti. Anche in presenza di alunni con difficoltà legate allo svantaggio
culturale, linguistico e socio-economico dunque, sono previsti dei percorsi
individualizzati e personalizzati, oltre che l’adozione di strumenti compensativi e

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dispensativi. Successivamente, il 6 marzo 2013, viene pubblicata la C.M. n. 8 che
definisce l’operatività della Direttiva precedente (2012) e decreta l’adozione di una
personalizzazione della didattica e di eventuali misure compensative e dispensative,
nell’ottica di una visione globale e inclusiva.
Le ultime tre disposizioni normative sembrano allora voler indicare la strada che il
sistema formativo nazionale dovrebbe perseguire per far sì che si realizzi la scuola
inclusiva.
Uno scenario eterogeneo e pluralistico di alunni con disabilità certificata, con Disturbi
specifici dell’apprendimento («DSA») (Zappaterra T.,2012), con vissuti e situazioni
psico-sociali e/o familiari problematiche (Smorti A., Pascuzzi D., 2018), con difficoltà
a livello di gestione dei comportamenti complessi e a rischio di dispersione scolastica
(Pellerone M., a cura di, 2015), con talenti eccellenti e plusdotati di cui la scuola deve
prendersi cura garantendo a tutti quell’accomodamento ragionevole” secondo i bisogni
di ciascuno, come previsto dalla Convenzione ONU per i diritti delle persone con
disabilità. Tale Convenzione, nell’assumere la prospettiva «ICF» e nel condividere la
concezione del modello sociale della disabilità riconosce l’elevato valore di contesti
formativi comuni ed inclusivi, allo scopo di realizzare un’istruzione primaria e
secondaria integrata, di qualità e libera, sulla base del principio di eguaglianza di
opportunità educativo-formative all’interno delle comunità. In tale cornice di
riferimento, si collocano le nuove norme sull’inclusione scolastica introdotte dal
Decreto legislativo 66/17, in parte modificato del D.L. 96/19, che prevedono diverse
novità circa le nuove certificazioni di disabilità e il Profilo di Funzionamento alla luce
dell’ICF e della convenzione ONU sui diritti delle Persone con Disabilità. Anche il
PEI, elaborato su base ICF come previsto dal decreto, diverrà obbligatorio quando
saranno emanate le apposite linee guida e il modello del PEI stesso.
Concludendo, se il paradigma dell’esclusione afferma: “ti escludo in quanto diverso”
e quello dell’inserimento: “ti accetto (fisicamente) in classe”; la logica
dell’integrazione sostiene l’affermazione: “ti accetto ma devi cercare di essere simile
agli altri”, mentre la prospettiva inclusiva valorizza l’accoglienza e la partecipazione
mediante il messaggio: “ti accetto e ti rispetto per quello che sei e per quello che riesci
a fare”. Integrazione ed inclusione non sono, quindi, sinonimi perché veicolano
significati differenti ed indicano prospettive diverse, ma rappresentano processi
complementari verso la costruzione della cultura del cambiamento.

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2. Il ruolo della scuola

Il ruolo della scuola all’interno del progetto educativo dei bambini e ragazzi con
Autismo è fondamentale e deve, a mio avviso, rivendicare le sue specificità.
L’intervento scolastico, consentite le sommarie generalizzazioni, agisce
principalmente su due livelli: quello degli apprendimenti scolastici, proponendo un
lavoro sulle funzioni esecutive e sullo sviluppo cognitivo dell’alunno e quello della
relazione che riguarda l’acquisizione delle competenze sociali, la comunicazione e la
gestione dell’emotività. L’integrazione di questi due fattori, cognitivo e relazionale,
rappresenta una vera e propria sfida nel caso degli alunni con autismo. Negli anni, per
quel che concerne il trattamento dell’autismo, è stato dato molto rilievo agli aspetti
comunicativi e relazionali a scapito delle questioni relative all’instabilità del piano
dell’attenzione, alla memoria di lavoro, al recupero e alla generalizzazione delle
conoscenze. Alcuni degli ultimi approcci hanno mostrato come il deficit delle persone
con Autismo, essendo al contempo cognitivo e relazionale, possa essere affrontato
lavorando in ambiti specifici senza quindi trascurare l’apprendimento. La scuola
assume dunque un ruolo determinante, poiché essa rappresenta il luogo in cui questi
aspetti naturalmente si integrano. Le disfunzioni cognitive presentate dai soggetti con
autismo influenzano ed interferiscono in maniera significativa con l’acquisizione degli
apprendimenti scolastici. A scuola i bambini o ragazzi autistici hanno difficoltà
soprattutto nella comprensione del testo, in quanto risulta deficitaria la capacità di
cogliere gli elementi rilevanti per individuare l’idea centrale e la capacità di
comprendere strutture linguistiche complesse, e nella soluzione dei problemi
matematici, poiché essi impongono di selezionare i dati rilevanti e di categorizzare
secondo principi o procedure; i soggetti autistici risultano inoltre poco abili
nell’esposizione orale perché ciò richiede una certa organizzazione dei contenuti
secondo un principio di coerenza e una certa flessibilità nel riorientare l’esposizione
in base ai feedback ricevuti dal docente e infine nel calcolo a mente in cui viene
richiesta un’abilità di astrazione e rappresentazione (De Meo, Vio, Maschietto, 2000).
A scuola le fonti di interferenza e di destrutturazione sono molteplici (confusione,
vociare, domande che si sovrappongono, cambiamenti della routine), quindi
l’insegnante dovrà essere abile nel monitorare costantemente la situazione per evitare
che insorgano reazioni di intollerabilità o rifiuto, stereotipie e isolamento, ma le
potenzialità che essa offre sono senz’altro di gran lunga maggiori dei “pericoli”. La

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scuola fornisce un terreno di condivisione sul quale possono essere strutturati gli
apprendimenti, ma offre soprattutto momenti di preziosa socialità sia spontanea, sia
strutturata. Essa rappresenta infatti un punto di incontro in cui il misterioso e magico
mondo dell’autismo si apre agli altri, regalando infiniti spazi di riflessione e crescita
reciproca; il luogo in cui il metodo (ABA, TEACCH, Denver model, Feuerstein che
sia) si destruttura, lasciando spazio alle inesauribili potenzialità della didattica e dei
compagni di classe; il luogo in cui lo spettro dell’autismo può realmente divenire uno
spettro di potenzialità.

3. Il ruolo dell’insegnante di sostegno nella scuola inclusiva

Se tradizionalmente le categorie di diversità ampiamente riconosciute erano quelle


delle situazioni di deficit, disabilità, handicap, svantaggio socioculturale, attualmente
ci troviamo di fronte ad uno scenario ad elevato gradiente di complessità all’interno
della scuola democratica ed inclusiva nella quale il docente attuale deve sapersi
muovere con competenza, professionalità ed efficacia dal punto di vista pedagogico-
didattico, oltre che umano e relazionale. L’insegnante di sostegno è colui svolge questo
compito. È una figura professionale e specializzata, con il compito di essere,
all’interno del team docente, un riferimento specifico per la progettazione, la
realizzazione e la verifica degli interventi idonei ad affrontare positivamente le
situazioni di disabilità presenti nella classe. È un facilitatore dell’apprendimento, con
competenze pedagogico-didattiche e relazionali poiché accoglie l’altro attraverso la
mediazione e la collaborazione. È un riduttore di complessità e quindi deve essere un
costruttore di trame, di reti tra gli alunni della classe, tra i docenti, tra i genitori e gli
enti esterni, è assegnato alla scuola per interventi individualizzati di natura integrativa
in favore della generalità degli alunni ed in particolare per coloro che presentano
specifiche difficoltà di apprendimento. Ancora assume la contitolarità delle classi in
cui opera, partecipa alla programmazione educativa e didattica e all’elaborazione e
verifica delle attività di competenza dei consigli di interclasse, di classe e dei collegi
dei docenti, partecipa agli incontri con i genitori. Lo scopo del docente di sostegno è
promuovere e favorire la cultura dell’inclusione.

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Gli insegnanti di sostegno hanno, pertanto, il fondamentale compito di porre
particolare attenzione alla centralità degli alunni, nelle loro forme di diversità, di
garantire il loro successo formativo1, di attivare processi di promozione della persona,
di prendersi adeguata cura degli aspetti cognitivo-relazionali-esperienziali e delle
diversità emotivo-affettivo cognitive che possono causare momenti di dèfaillance,
fragilità, problematicità nei processi di apprendimento, nell’elaborazione delle
informazioni e nella strutturazione ed equilibrazione della vita emozionale (Goleman
D., 2011).
I nuovi bisogni formativi “differenti” e “diversi”, l’eterogeneità delle classi,
necessitano di “ripensare la scuola nella società di oggi” (Documento SIPED, 2014),
di adottare approcci pedagogici innovativi centrati sull’alunno, oltre che di efficaci
risposte educativo-didattiche di natura individualizzata e personalizzata (Baldacci M.,
2006), tese alla valorizzazione delle potenzialità di tutti gli alunni, nessuno escluso
all’interno di una progettazione inclusiva capace di valorizzare tempi e modi personali
degli allievi in un clima cooperativo e di co-costruzione di competenze e delle
conoscenze, superando ogni forma di esclusione e di emarginazione allo scopo di
legittimare i principi di cittadinanza attiva, di partecipazione, di equità formativa e di
piena appartenenza di tutti gli alunni come sostenuto nei documenti internazionali e
dalla Riforma della Buona Scuola (Legge 107/15).
La scuola di tutti e di ciascuno è orientata, quindi, a fornire ad ogni alunno risposte
formative adeguate e funzionali rispetto agli specifici bisogni educativi, speciali e non,
accogliendo la sfida delle diversificate emergenze educative e realizzando, da parte dei
docenti, specializzati e non, notevoli cambiamenti e profonde innovazioni, soprattutto
nell’adozione di modelli alternativi di insegnamento fondamentali per la creazione di
un luogo di apprendimento altamente significativo per tutti, costituito da spazi e tempi
consoni a livello di benessere raggiunto all’interno del gruppo-classe2, utilizzando
strategie educativo-didattiche connotate da uno stile autenticamente cooperativo, da
una didattica “speciale” integrata a quella comune, non separata dal lavoro collegiale
svolto in aula. In ottica inclusiva implica il fatto che sia i docenti curricolari che quelli
specializzati siano pronti ad allestire un contesto educativo inclusivo attento a cogliere

1
M. T. Cairo, Pedagogia e didattica speciale per educatori e insegnanti nelle scuole, Vita e pensieri –
2007, p. 117.
2
Luigi d'Alonzo, Silvia Maggiolini, Elena Zanfroni, “Tra presente e passato: gestione della classe e
nuove sfide educative. La parola agli insegnanti”, Vol 13, No 3 (2013): Evidence Based Education,
special needs e inclusione.
14
la pluralità dei bisogni, ad accogliere e ad interpretare la varietà delle modalità di
funzionamento, più o meno problematico dei singoli alunni che richiedono efficaci
interventi individualizzati e personalizzati a favore dello sviluppo e del benessere sia
individuale che collettivo nel comune spirito di appartenenza alla comunità.

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CAPITOLO II: IL DISTURBO DELLO SPETTRO AUTISTICO

Premessa

Nel secondo capitolo verrà descritto il Disturbo dello Spettro Autistico, definizione e
sintomi, con attenzione ai criteri diagnostici sottolineando le differenze tra quanto
previsto nel DSM IV e quanto invece modificato dal DSM V, nonché la prima legge
in materia di Autismo. Verranno presentate le teorie neuropsicologiche più accreditate
in quanto conoscenze necessarie per comprendere al meglio le caratteristiche cognitive
ed emotive degli alunni con ASD. Infine, saranno trattati gli aspetti peculiari del
processo di apprendimento tipico degli autistici con attenzione ai punti di forza e
debolezza, approfondendo successivamente i processi di memoria ed emotivi, al
riconoscimento, comprensione, interpretazione e gestione di esse, in quanto
strettamente connessi all’apprendimento.

1. L’Autismo nel DSM-IV e nel DSM-V

Il termine “autismo” deriva dal greco autòs = se stesso, ovvero “(stato di chiusura) in
se stessi” e viene utilizzato per la prima volta nel 1911 da E. Bleuler3 per descrivere
uno dei sintomi della schizofrenia, consistente nel ripiegamento su se stessi,
caratteristico di alcune fasi della condizione.
L’autismo può essere definito, in lingua inglese, con l’acronimo A.S.D. (Autistic
Spectrum Disorder) e in lingua italiana con l’acronimo D.S.A. (Disturbi dello Spettro

3
EUGEN BLEULER (Zollikon, 30 aprile 1857 - Zollikon, 15 luglio 1939) è stato uno psichiatra svizzero,
tra i più importanti di tutta l’Europa di ogni tempo. Apportò importanti contributi alla moderna
psicopatologia, ridefinendo clinicamente la schizofrenia e l’autismo.
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Autistico) dicitura quest’ultima presente nel DSM V, vale a dire l’ultima edizione del
manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (2013, it.2014).
Le Linee guida per l’Autismo pubblicate dalla Società italiana di neuropsichiatria
dell’infanzia e dell’adolescenza affermano che «l’Autismo è una sindrome
comportamentale causata da un disordine dello sviluppo biologicamente determinato,
con esordio nei primi tre anni di vita. Le aree prevalentemente interessate sono quelle
relative all’interazione sociale reciproca, all’abilità di comunicare idee e sentimenti e
alla capacità di stabilire relazioni con gli altri» (SNPIA, 2005).
Si tratta di un disturbo del neurosviluppo, che comporta deficit persistenti nella
comunicazione e nell’interazione sociale in diversi contesti, nello sviluppo e nel
mantenimento di relazioni; linguaggio ripetitivo (ecolalie e frasi idiosincratiche);
movimenti stereotipati (stereotipie motorie semplici); eccessiva aderenza alla routine
o eccessiva resistenza al cambiamento; modelli ritualizzati di comportamento verbale
o non verbale; iper o ipo reattività nei confronti di input sensoriali o interesse inusuale
per aspetti sensoriali dell’ambiente (come un’apparente indifferenza al
dolore/calore/freddo).
I sintomi dell’autismo compaiono già nei primi mesi di vita (spesso i genitori di
soggetti autistici rivelano la presenza di segni predittivi già prima dei 12 mesi), anche
se non possono essere diagnosticati in modo attendibile prima del terzo anno di età,
con una forte incidenza negli individui di sesso maschile (popolazione maschile
rispetto a quella femminile, rapporto di 4:1).
Tale disturbo non può essere compreso appieno se ci si limita ad un mero elenco di
sintomi: ci troviamo di fronte non solo a semplici carenze o ritardi nello sviluppo, ma
anche a modalità diverse di interpretazione e di comprensione del mondo. Le persone
con disturbo dello spettro autistico si caratterizzano per uno sviluppo fondato su
modalità percettive, immaginative, ideative, socio-affettive, e più in generale, per uno
stile di funzionamento cognitivo qualitativamente diverso.
Sarebbe, pertanto, alquanto riduttivo pensare a condizioni standard, anche se è
fondamentale, come punto di partenza per l’osservazione e la diagnosi, la conoscenza
dei tratti comuni e tipici connessi alla sindrome.
L’autismo è un disturbo ad eziologia multifattoriale: le cause possono essere di natura
neurobiologica o neurofisiologica, neurofunzionale e ambientale, e sono correlate fra
loro in modo diversificato e non del tutto noto. Studi genetici ancora in via
sperimentale sono arrivati alla conclusione che non esiste il “gene dell’autismo”, ma

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piuttosto una serie di alterazioni geniche che contribuiscono a conferire una
vulnerabilità biologica tale da condurre alla comparsa del disturbo4.
Nel 2015 è stata emanata la prima norma nazionale in materia di Autismo, la Legge
n.134 del 18 agosto 2015 contenente “Disposizioni in materia di diagnosi, cura e
abilitazione delle persone con disturbi dello spettro autistico e di assistenza alle
famiglie” e rappresenta un passo importante, compiuto dall’ordinamento, nell’ambito
della diagnosi e cura della patologia, sia nei confronti dei soggetti colpiti che delle
famiglie.
È il frutto di ben cinque proposte di legge, inizialmente presentate al Senato, poi
riunificate nella discussione alle Camere prima della definitiva approvazione. Tale
legge è priva di finanziamenti espliciti, ma offre importanti garanzie per le persone
con autismo. Si compone di sei articoli:
l’art. 1 prevede interventi finalizzati a tutelare e a migliorare le condizioni di vita dei
soggetti con disturbo dello spettro autistico;
l’art. 2 riguarda l’aggiornamento, da parte dell’Istituto Superiore di Sanità, delle Linee
Guida già redatte nel 2011 e pone, quale parametro, le conoscenze derivanti dalla
letteratura scientifica e dalle buone pratiche nazionali ed internazionali;
nell’art. 3 vengono indicate le “politiche regionali in materia di disturbi dello spettro
autistico”; si fa riferimento ai LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) e al fatto che le
Regioni dovranno farsi carico delle “prestazioni relative alla diagnosi precoce, alla
cura e al trattamento individualizzato, impiegando metodi e strumenti basati sulle
evidenze scientifiche più avanzate”;
l’art. 4 riguarda “l’aggiornamento delle linee di indirizzo del Ministero della Salute”,
con cadenza triennale e fissa il primo adempimento in 120 giorni a decorrere
dall’aggiornamento dei LEA;
l’art. 5, in materia di ricerca, impegna il Ministero della Salute “a promuovere lo
sviluppo di progetti afferenti alla conoscenza del disturbo dello spettro autistico,
nonché le buone pratiche terapeutiche ed educative”;
l’art. 6 reca, infine, la clausola di invarianza finanziaria, in conformità della quale,
“dall’attuazione della presente legge non devono derivare ulteriori oneri per la finanza
pubblica”.

4
A.A.V.V. Integrazione scolastica degli alunni con disturbo dello spettro autistico, Società Italiana di
Pedagogia Speciale, Centro Studi Erickson 2008, p. 22
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La diagnosi di autismo viene solitamente formulata facendo riferimento alle due
principali classificazioni internazionali dei disturbi mentali: il DSM - Diagnostic and
Statistical Manual of Mental Disorders (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi
mentali) e l’ICD - International Classification of Diseases (Classificazione
Internazionale dei Disturbi e delle Malattie) dell’OMS - Organizzazione Mondiale
della Sanità. Nel DSM-IV, l’Autismo rientrava nei Disturbi Pervasivi dello Sviluppo
insieme ad altri disturbi affini (disturbo di Asperger, disturbo disintegrativo della
fanciullezza, disturbo pervasivo dello sviluppo non altrimenti specificato e sindrome
di Rett), nel passaggio al DSM-V, questi disturbi sono stati riuniti in un’unica categoria
denominata Disturbi dello Spettro Autistico (ASD – Autism Spectrum Disorders), ad
eccezione della sindrome di Rett che è stata posta tra i disturbi neurologici. Sempre
nel DSM-IV il criterio diagnostico per identificare il disturbo autistico prevedeva il
raggruppamento dei sintomi in tre categorie:
- menomazione della reciprocità sociale;
- menomazione del linguaggio/comunicazione;
- repertori ristretti e ripetitivi di interessi/attività.
Ognuna di queste tre categorie comprendeva quattro sintomi; per effettuare una
diagnosi di “disturbo pervasivo dello sviluppo” era necessario fossero presenti almeno
sei sintomi, di cui almeno due nella prima categoria (menomazione della reciprocità
sociale) e almeno uno per ciascuna delle altre due categorie. Con il DSM-V, l’Autismo
viene inquadrato nei disordini del neuro-sviluppo e le categorie di sintomi vengono
ridotte a due:
- deficit persistente nella comunicazione sociale e nell’interazione sociale (che
comprende sia le difficoltà sociali che quelle di comunicazione);
- comportamenti e/o interessi e/o attività ristrette e ripetitive.
La diagnosi di “Disturbo dello Spettro Autistico” richiede la presenza di almeno tre
sintomi nella categoria dei “deficit della comunicazione sociale” e di almeno due in
quella dei “comportamenti ripetitivi”. Importanti novità introdotte sono:
l’eliminazione del “ritardo/menomazione del linguaggio” fra i sintomi necessari alla
diagnosi e l’introduzione della “sensibilità insolita agli stimoli sensoriali” come
sintomatologia compresa tra i “comportamenti ripetitivi” (Caretto, 2015). La cosa
interessante è che le due categorie principali sono declinate e descritte in base a tre
livelli di gravità:
- Livello 3: Richiede supporto molto significativo.

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- Livello 2: Richiede supporto significativo.
- Livello 1: Richiede supporto.
Nel passaggio dall’uno all’altro manuale diagnostico, ciò che permane è
l’organizzazione atipica del comportamento sociale e ciò che colpisce è il continuum
dei bisogni e dei sintomi che inducono a parlare di “Spettro Autistico” (termine
utilizzato da Allen nel 1988) e il costante riferimento alla variabilità, in effetti è
significativo quanto i ragazzi autistici siano tutti profondamente diversi tra loro, ma
anche incredibilmente simili.

2. L’approccio neuropsicologico

Cercando di indagare le caratteristiche e le cause del disturbo, l’approccio


neuropsicologico ha delineato tre diverse ipotesi esplicative che è utile conoscere ai
fini dell’efficacia dell'intervento didattico rivolto a bambini o ragazzi con disturbo
dello spettro autistico:

1. Teoria della mente;


2. Teoria della coerenza centrale;
3. Funzioni di programmazione e controllo.

Teoria della mente: all'inizio degli anni `80, Baron-Cohen, Leslie e Frith hanno
condotto un esperimento (test Sally-Anne) per determinare il meccanismo cognitivo
responsabile dei tratti che caratterizzano il comportamento degli individui con
autismo. La tesi di Baron-Cohen, Leslie e Frith è che i soggetti autistici, in quanto
incapaci di rappresentare stati mentali, non abbiano una teoria della mente. L'assenza
di una teoria della mente, secondo questi autori, è il deficit cognitivo sottostante ai
tratti comportamentali che caratterizzano l'autismo. Essendo incapaci di attribuire stati
mentali ad altri, i soggetti autistici sono incapaci di stabilire un contatto reale con gli
altri, hanno difficoltà di comunicazione verbale e sviluppano dei comportamenti
ossessivi.
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Teoria della coerenza centrale: una forte coerenza centrale corrisponde ad una forte
visione sintetica, una debole coerenza centrale corrisponde ad una forte visione
analitica. Una persona con coerenza centrale forte, in sostanza, tenderà a percepire il
senso generale di un'esperienza piuttosto che a cogliere i suoi dettagli.
Nel caso di persone con autismo, Baron Cohen ha notato una grande difficoltà
nell’unificazione degli stimoli sensoriali e nell’organizzazione della percezione,
nonché la difficoltà ad avere una visione sintetica. Metaforicamente, è come se
prestassero molta attenzione al significato delle singole parole, ma non a quello della
frase di cui esse fanno parte.
Funzioni di programmazione e controllo: altra area deficitaria per i soggetti con
autismo è rappresentata dalle funzioni di programmazione e controllo che si
riferiscono alle funzioni esecutive coinvolte nella capacità di progettare mentalmente
e organizzare un piano di intervento con adeguate modalità di verifica e controllo.
Questa capacità è strettamente connessa all’astrazione e alla flessibilità e si serve di
numerose abilità cognitive, quali la categorizzazione, la memoria di lavoro,
l’attenzione selettiva, l’abilità di decodifica dei feedback verbali. I soggetti con
autismo sono risultati molto carenti in queste prestazioni e nei test sono quelli che
hanno fatto il maggior numero di errori di tipo “perseverativo”. La spiegazione
potrebbe risiedere nell’ipotesi di un deficit nell’inibizione, cioè essi non riescono a
inibire la risposta prepotente, anche se questa risulta non corretta, o di un deficit nella
flessibilità poiché essi non riescono a modificare la propria strategia in base alle
indicazioni verbali dello sperimentatore (De Meo, Vio, Maschietto, 2000).
Vanno inoltre menzionate le recentissime prospettive suggerite dalle teorie sui neuroni
a specchio di Rizzolatti e Gallese, alla luce delle quali l’autismo è stato interpretato
come deficit della programmazione motoria. Ciò ha offerto interessanti chiavi di
comprensione del disturbo, ma ancor più ha proposto interessanti spunti riabilitativi
(estremamente efficaci nel caso di diagnosi precoce) che si servono di una corposa
esposizione visiva a stimoli emozionali capace, attraverso la stimolazione del sistema
mirror appunto, di ricostruire quei circuiti neuronali deficitari responsabili della
difficoltà nel comprendere le azioni, alla base del disturbo dello spettro autistico.

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3. Memoria ed emozioni nell’Autismo

In alcuni soggetti con autismo, laddove il disturbo non è associato ad un severo ritardo
mentale, si evidenzia una buona capacità di memoria, ma si tratta il più delle volte di
una memoria meccanica relativa a fatti esterni alla quale si affianca il più delle volte
l’incapacità di ricordare avvenimenti personali, mostrando lacune considerevoli nella
memoria autobiografica (Jordan e Powell, 1995). Questo non vuole tuttavia dire che
essi non ricordino, ma che abbiano bisogno di stimoli appropriati, di “indizi”, che
facciano scattare in loro l’attivazione della memoria. Gli autistici hanno difficoltà a
ricordare sè stessi nell’atto di fare qualcosa o provare sensazioni. Temple Grandin
spiega che aveva una singolare mancanza di consapevolezza di sé e delle sue bizzarrie
fino a che non ha cominciato a vedere delle riprese video che la ritraevano (Grandin,
2014). Questo è un concetto che deve essere chiaro a coloro che lavorano con gli
autistici: i ricordi ci sono, ma non essendo connessi con il senso di sé, essi non sono in
grado di richiamarli in modo spontaneo o per propria volontà, ma devono rievocarli
dal di fuori e suggeriti tramite elementi indiziari.
Per quanto riguarda le emozioni per i bambini e i ragazzi con autismo il processo
emozionale non è molto lineare, anzi, essi presentano difficoltà marcate nel cogliere
le emozioni e gli stati d’animo degli altri. Questa difficoltà con gli altri è la diretta
conseguenza nella difficoltà che questi bambini e ragazzi hanno nel distinguere e
comprendere le proprie emozioni. In altre parole, pur essendo molto sensibili alle
emozioni, non riescono a contenerle, e per cercare di gestirle, si riversano direttamente
sul loro comportamento.
Per esempio, il bambino è felice di vedere un suo amico e inizia a sfarfallare, o ancora,
entra in una stanza dove ci sono bambini che non conosce e cammina avanti e indietro
per riuscire a gestire al meglio il proprio disagio. I bambini o ragazzi con autismo
mostrano delle difficoltà principalmente a gestire le emozioni primarie. Queste
difficoltà sono presenti sia nel riconoscimento delle espressioni facciali sia delle
emozioni ad esse correlate.
I soggetti con autismo sviluppano delle fortissime reazioni emotive, pur essendo
incapaci di identificare, descrivere o riconoscere i propri stati d’animo e quelli degli
altri. Ciò è dovuto alla connessione tra memoria ed emozione: la nostra percezione
emotiva è profondamente connessa con l’efficacia della nostra memorizzazione e alla

22
rievocazione. L’incapacità di esercitare un qualsiasi controllo conscio significa che
qualsiasi nuova conoscenza sarà molto difficile e i risultati deriveranno soprattutto da
abitudini acquisite: questa è proprio la situazione che si riscontra nell’autismo (Jordan
e Powell, 1995 pag. 26). Anche gli interessi ristretti, tipici del disturbo, assumono
aspetti paradossali seppure talvolta affascinanti, e sono connessi con l’uso meccanico
della memoria. Il ruolo dell’emozione è stato spesso sottovalutato dal sistema
educativo formale, ma oggi è ormai certo che persino l’apprendimento più astratto,
anche quello matematico, è fortemente implementato dal coinvolgimento emotivo. Nel
caso dei soggetti con autismo, l’approccio non può seguire lo stesso iter: l’emozione
ha un ruolo molto complesso, essi hanno una curiosità ristretta, talvolta maniacale,
quasi mai aperta al mondo nei confronti del quale non nutrono il bisogno di ricercare
senso o attribuire significati. Altrove, paradossalmente, l’emozione si identifica con
stress o estremo sovraccarico e rappresenta un elemento disturbante
nell’apprendimento. Per questo motivo il problem solving nei soggetti con autismo
deve essere stimolato con cautela, in modo molto strutturato, introducendo elementi di
novità e di “insuccesso controllato” in maniera graduale. Facilitare lo sviluppo emotivo
e acquisire routine idonee in caso di insuccesso devono essere dunque obiettivi primari
di insegnamento all’interno di un progetto educativo rivolto a bambini o ragazzi con
disturbo dello spettro autistico, il loro perseguimento richiede un lavoro lento e
costante in cui strumenti efficaci possono essere le Storie Sociali o video modeling.
Per storie sociali si intende brevi racconti di personaggi inventati, scritti con il bambino
insieme al terapista oppure ai propri genitori, utili per spiegare in modo chiaro e
semplice una determinata situazione, un concetto oppure le regole di comportamento.
Possono essere storie, fumetti, presentate sotto forma di video oppure accompagnate
da immagini e il loro punto di forza è proprio la semplicità che le caratterizza. Le storie
sociali sono utilizzate per comprendere meglio gli aspetti legati alle relazioni
interpersonali e sviluppare le abilità sociali tra cui saper distinguere le proprie
emozioni da quelle degli altri e allo stesso riuscire a gestirle attraverso strategie efficaci
come la comunicazione. Ad esempio, la storia di un bambino arrabbiato che riesce a
comunicare le proprie emozioni all’altro invece di avere una crisi aggressiva. Il video
modeling è una procedura comportamentale utile per insegnare un’ampia varietà di
comportamenti, attraverso le videoregistrazioni al posto degli scenari reali. Consiste
nell’osservazione e nella successiva imitazione, da parte del bambino, di un video in
cui viene mostrato un modello impegnato nello svolgimento del comportamento target

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(Moderato e Copelli, 2010). I modelli utilizzati possono essere non solo gli operatori
ma anche i familiari o i pari. Attraverso il video modeling è possibile insegnare
comportamenti relativi a diversi ambiti: abilità di vita quotidiana, abilità sociali, abilità
di auto-accudimento, abilità di gioco, linguaggio e abilità comunicative.
L’emozione è dunque parte del problema, ma può anche divenire elemento della
soluzione se considerata come via per un’educazione efficace (Jordan e Powell, 1995).

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CAPITOLO III: L’INTERVENTO DIDATTICO-EDUCATIVO

Premessa

La scuola fornisce un terreno di condivisione sul quale possono essere strutturati gli
apprendimenti, ma offre soprattutto momenti di preziosa socialità sia spontanea, sia
strutturata fondamentali per gli alunni con ASD. In considerazione di ciò, nel terzo
capitolo sarà trattato il ruolo del docente di sostegno e approfondito gli aspetti della
didattica riferita ad alunni con Disturbo dello Spettro Autistico. Essa, infatti, richiede
un’organizzazione semplice e strutturata con una definizione degli obiettivi deve
essere rilevante per i bisogni e, in generale, per il progetto di vita di tali alunni.
Verranno inoltre descritte quelle strategie e metodologie didattiche in grado di
supportare il processo di insegnamento-apprendimento con studenti che presentano
tale disturbo.

1. L’apprendimento nei soggetti con autismo

Riflettendo sulle caratteristiche del disturbo, appare chiaro quanto esse influenzino
l’apprendimento fin dalle prime fasi di sviluppo, modificandone sensibilmente gli
esiti. La motivazione sociale è uno tra gli elementi trainanti dell’apprendimento
umano, ma i bambini con autismo fanno meno attenzione alle persone, a ciò che fanno,
a cosa esprimono, alle loro emozioni, gli stimoli sociali per loro passano in secondo
piano, essi trascorrono meno tempo dei coetanei a fare cose insieme agli altri in modo
spontaneo, questo non permette loro di sviluppare un’adeguata cognizione sociale e,
conseguentemente, i bambini con autismo non riescono a decifrare il comportamento

25
degli altri. La mancanza di un’attenzione condivisa con l’adulto, la ricorrente assenza
della reciprocità nel contatto visivo e la scarsa propensione all’iniziativa comunicativa
sottraggono il bambino con autismo a numerose possibilità di apprendimento. In modo
particolare il gap relativo alla comunicazione rende molto difficoltoso il processo di
apprendimento poiché i soggetti con disturbo dello spettro autistico hanno difficoltà a
leggere e decodificare le indicazioni degli educatori, dei terapisti o degli insegnanti, in
quanto essi faticano a “indovinare” cosa pensano gli insegnanti e rimangono chiusi
nell’interpretazione letterale e schematica del compito. I meccanismi di imitazione,
essendo carenti o – nella migliore delle ipotesi – puramente meccanici, non permettono
di condividere esperienze, né di fornire le basi su cui costruire la personalità. Un
individuo con autismo anche nel caso in cui riesca a imitare, lo fa in modo passivo,
tanto da generare un’imitazione detta “parassitaria”. Il senso di sé, che scaturisce da
esperienze intersoggettive, risulta chiaramente molto danneggiato nell’autismo, come
pure l’autostima completamente assente. Tutto questo va tenuto costantemente
presente nel lavoro con i soggetti autistici, i quali devono essere pian piano aiutati a
costruire la consapevolezza del proprio valore, per questo è importante che chi opera
con questi ragazzi riesca semplicemente ad accettarli e a stimarli, senza
necessariamente volerli cambiare, solo così potrà effettivamente sperare di produrre
quel cambiamento che viene loro richiesto (Jordan e Powell, 1995). Se si aggiunge,
come detto nel paragrafo precedente, che le recenti teorie neuropsicologiche alla base
dei sintomi evidenziati dall’autismo individuano anche il deficit delle funzioni
esecutive (funzioni di programmazione e controllo essenziali nell’ottica di un
apprendimento consapevole e significativo), si comprende quanto complesso e
difficoltoso possa essere il processo di acquisizione delle conoscenze nei soggetti con
autismo. Senza dimenticare che spesso l’autismo si trova in comorbilità con altre
disfunzioni o disturbi: ritardo mentale, ADHD, epilessia, disturbi dell’ansia, cosa che
di certo non favorisce i meccanismi di apprendimento. Questo non vuol dire che un
bambino o un ragazzo con autismo non possa apprendere, ma a questo punto appare
chiaro quanto sia importante capire il disturbo, capire i comportamenti, per modulare
gli interventi. Come pure non vuol dire che i ragazzi con autismo non abbiano dei punti
di forza, sebbene essi talvolta possano apparire persino paradossali.

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2. Gli obiettivi dell’azione didattica

Ai fini dell’inclusione dello studente autistico a scuola e, più precisamente in classe, il


docente specializzato, partendo dai punti di forza, deve essere in grado di controllare
e realizzare sia il processo, sia il prodotto dell’insegnamento mediante percorsi,
strategie e strumenti che riescano a produrre nuove utilità di apprendimento. Il fine
ultimo è che, al termine del percorso scolastico e in vista della transizione all’età
adulta, i ragazzi possano condurre una vita quanto più autonoma e indipendente
possibile. In una società sempre più diversificata, in cui coesistono studenti di
differenti culture, di diversi strati sociali, la cooperazione rappresenta un “valore
aggiunto” e può essere sperimentata tramite attività che si avvalgono dell’utilizzo dei
nuovi media. Occorre progettare e attuare cambiamenti che mirino alla realizzazione
di una scuola aperta, radicata nel presente e proiettata nel futuro. Ogni intervento
didattico ha bisogno dei suoi obiettivi che ne delimitino l’area di intervento e indichino
le finalità da raggiungere entro tempi più o meno brevi.
Nella didattica speciale è molto importante che gli obiettivi vengano scelti in base alle
capacità dell’alunno che rappresentano il punto di partenza dell’azione didattica
(abilità emergenti) e che essi vengano definiti in base alle sue potenzialità (zona di
sviluppo prossimale) che indicano un punto di arrivo dal quale ripartire per una nuova
dinamica insegnamento-apprendimento.
Le parole di Enrico Micheli sono molto illuminanti, si riferiscono alle attività dedicate
allo sviluppo del linguaggio, ma ben si adattano a diverse scelte didattiche: “Io vi
invito ad avere una maggiore fiducia nei processi di sviluppo anche dei bambini con
autismo, e anche una maggiore fiducia negli aspetti sistemici ed ecologici
dell’apprendimento: invece di affrontare un esercizio anche quando il bambino non è
pronto […], suggerisco di faticare un poco per scoprire per quale livello di uso del
linguaggio in una determinata area il bambino si mostra pronto, con quali abilità
emergenti, e concentrare lì i vostri sforzi. Allo stesso tempo, studiate come questo
livello di competenze, anche se sotto la norma rispetto ai coetanei, può essersi
trasformato in comportamenti sociali adeguati e funzionali. Questo atteggiamento avrà
un effetto positivo sul programma di insegnamento, facilitando l’apprendimento grazie
ai successi e ai miglioramenti ottenuti, sganciando in tutte le fasi del percorso il
bambino dal binomio abilità imparata/situazione specifica di addestramento, senza

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aspettare a questo scopo una fase finale di generalizzazione esterna delle attività”
(Micheli, 1996).
Inquadrare dunque l’attività didattica in una dimensione funzionale all’interno di una
programmazione di sviluppo è fondamentale. Nel caso di alunni con disabilità la scelta
degli obiettivi deve essere rilevante per i loro bisogni e, in generale, per il loro progetto
di vita; nello specifico, bambini o ragazzi con il disturbo dello spettro autistico devono
apprendere comportamenti di intersoggettività, interazione reciproca, attenzione
condivisa, senza tuttavia perdere il contatto con il curriculum scolastico infatti, come
afferma Ianes, il lavoro sugli obiettivi curricolari è un valido mezzo per raggiungere
gli obiettivi “abilitativi” (Ianes, 2006). L’attività didattica deve essere declinata
partendo da un input, ovvero una condizione di stimolo nei confronti del quale il
soggetto reagirà; la sua azione è chiaramente subordinata alla comprensione dell’input
(attraverso la decodifica e la generazione di significato connesso e rinforzato dagli
aspetti emozionali), alla sua elaborazione (individuazione delle strategie di
risoluzione, attivazione del ragionamento logico, pianificazione dell’azione,
generalizzazione dei meccanismi), si chiude con la generazione di una risposta nella
fase di output (prodotto verbale, motorio) (Ianes, 2006).
Un alunno con ASD, facendo riferimento a tre macro aree principali, dovrebbe riuscire
a:

- Sviluppare la capacità di comprensione della realtà attraverso le competenze


rappresentative e interpretative, al fine di incrementare le sue abilità comunicative,
migliorando le relazioni sociali negli ambiti in cui è quotidianamente inserito;

- Sviluppare la capacità di integrare informazioni, aumentando l’indice di prevedibilità


e di comprensione (percettiva, linguistica ed emotiva) degli eventi, al fine di produrre
un adattamento più funzionale ai contesti in cui si trova;

- Sviluppare la capacità di problem solving, attraverso la scelta di strategie appropriate,


incrementando la capacità di generalizzazione degli apprendimenti e delle abilità
acquisite.

Declinando nel dettaglio le tre aree relative alla comunicazione, comprensione e


risoluzione, possono essere definiti degli obiettivi specifici che chiaramente vanno
modulati in base al livello di complessità del disturbo e all’eventuale grado di ritardo
cognitivo associato:

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- Sviluppare la comunicazione ed espressione verbale;

- Sviluppare la capacità di comprendere i propri stati d’animo per incrementare la


percezione di sé;

- Sviluppare la capacità di comprendere gli stati d’animo degli altri;

- Sviluppare la capacità di comunicazione spontanea;

- Sviluppare le capacità di categorizzazione e di attribuzione dei significati funzionali;

- Sviluppare la capacità di gestire situazioni emotive di diversa entità;

- Sviluppare le capacità associative e di abbinamento;

- Sviluppare la capacità di ordinare sequenze temporali;

- Sviluppare la capacità di disporre secondo un ordine crescente e decrescente, o


posizionale;

- Sviluppare la capacità di generalizzare;

- Sviluppare le capacità di ascolto;

- Sviluppare la capacità di risolvere problemi o diverse tipologie di esercizi;

- Sviluppare le abilità scolastiche (lettura, scrittura calcolo);

- Sviluppare la capacità di raccontare delle storie;

- Sviluppare la capacità di condividere spazi con altre persone e rispettare le regole.

Nel contesto scolastico, non sempre è semplice associare questi obiettivi ai contenuti
curricolari, soprattutto per quel che riguarda discipline complesse e astratte come
quelle di una scuola secondaria di primo grado, laddove le abilità scolastiche
dell’alunno siano fortemente compromesse, cercando inoltre di non proporre contenuti
troppo infantili.

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3. Le Strategie didattiche

Il cambiamento in un bambino con un deficit, qualsiasi esso sia, è molto più lento di
quello negli altri a sviluppo tipico, egli rimane molto più a lungo sulle tappe di sviluppo
e, come spesso accade, la sua età mentale non corrisponde a quella cronologica.
L’insegnante, con l’aiuto degli esperti, deve cercare di definire quanto più possibile
l’età mentale del suo alunno e l’importante è che egli proponga attività che siano
compatibili con l’età di sviluppo dell’allievo, ma pur sempre “accettabili” rispetto alla
sua effettiva età cronologica. Ciò che un insegnante deve fare è un’operazione di
“ricollocamento” che dia nuovi significati anche a competenze che possono apparire
molto basse (Rizzo, 2019).
Inoltre, l’insegnante che pone un problema adatto ad un soggetto autistico dovrà
cercare di collegare quanto si sta cercando di trasmettere a significati personali e la sua
soluzione dovrà cercare di favorire la formazione di un’immagine di sé, anziché
cercare di voler cambiare il punto di vista del soggetto con autismo sul quel dato
problema. Questa forse è una tra le sfide più grandi che si pongono agli insegnanti di
alunni con il disturbo dello spettro autistico. Se coloro che lavorano con alunni autistici
riuscissero ad accettarli e a stimarli senza la necessità di volerli cambiare, sarebbero
risparmiate molte tensioni.
Significative e commoventi sono le parole di Jim Sinclair, un autistico ad alto
funzionamento: “Essere autistici non significa non essere umani, ma essere diversi.
Quello che è normale per altre persone non è normale per me e quello che ritengo
normale non lo è per gli altri. In un certo senso sono mal equipaggiato per sopravvivere
in questo mondo, come un extraterrestre che si sia perso senza un manuale per sapere
come orientarsi. Ma la mia personalità è rimasta intatta. La mia individualità non è
danneggiata. Ritrovo un grande valore e significato nella vita e non ho desiderio di
essere guarito da me stesso. Concedetemi la dignità di ritrovare me stesso nei modi
che desidero; riconoscete che siamo diversi l’uno dall’altro, che il mio modo di essere
non è soltanto una versione guasta del vostro. Interrogatevi sulle vostre convinzioni,
definite le vostre posizioni. Lavorate con me per costruire ponti tra noi” (Jim Sinclair,
1998).
Temple Grandin suggerisce diverse strategie per insegnare a bambini o adulti con
autismo, sulla base delle peculiarità del disturbo.

30
Operando una selezione di esse, si è scelto di menzionare in questa sede solo quelle
più utili nel contesto scolastico e la strategia più significativa è il ricorso alle immagini.
La ricercatrice infatti afferma: “Molte persone con autismo pensano visivamente. Io
penso per immagini, non penso con il linguaggio. Tutti i miei pensieri sono come
filmati che scorrono nella mia immaginazione. Le immagini sono state il mio primo
linguaggio e le parole il mio secondo. I nomi erano le parole più facili da imparare
perché potevo farmi nella mente un’immagine della parola. Visualizzo persino i
concetti astratti: con l’immagine di porte scorrevoli mi raffiguro ad esempio l’andare
d’accordo con altre persone” (Grandin).
A scuola si può lavorare con un soggetto autistico usando anche le tecnologie, infatti
la maggior parte dei ragazzi autistici o con Spettro dell’Autismo utilizza il canale
visivo per acquisire informazioni; mediante delle immagini proiettate sul pc si possono
presentare attività che stimolino la curiosità visiva e la successiva capacità di associare
all’immagine un significato.
Una efficace strategia comunicativa, che si avvale principalmente del canale visivo ed
è spesso utilizzata nell’interazione con soggetti autistici, è la Comunicazione
Aumentativa e Alternativa.
La C.A.A. è un approccio clinico che si propone di offrire una modalità “alternativa”
a chi, oltre ad essere escluso dalla comunicazione verbale e orale a causa di patologie
congenite e acquisite, presenta anche deficit cognitivi, più o meno severi; utilizza
codici che sostituiscono il sistema alfabetico con immagini, simboli, disegni, figure e
fotografie. In quanto comunicazione “aumentativa”, prevede la simultanea presenza di
strumento alternativo e linguaggio verbale; di conseguenza, non inibisce l’eventuale
emergere del linguaggio verbale, ma si propone al contrario di potenziarlo.
Un’altra strategia che nella sua semplicità può apparire banale, ma irrinunciabile e
necessaria è quella di evitare di dare istruzioni verbali troppo lunghe: le persone con
autismo hanno difficoltà a ricordare le sequenze. Le indicazioni devono essere chiare,
affermative (se possibile) e concise: sembra facile, invece è incredibilmente difficile.
Un suggerimento sicuramente vincente che permette di agganciare gli alunni con il
disturbo dello spettro autistico è quello di utilizzare il repertorio dei loro interessi
ristretti per insegnare loro nozioni afferenti alle discipline scolastiche, purché questo
non risulti troppo distraente o fuorviante ai fini dell’apprendimento.
Temple Grandin ricorda inoltre che molti ragazzi autistici hanno difficoltà a
rapportarsi agli stimoli sensoriali, talvolta è necessario attenuarli (rumori e luci), ma il

31
più delle volte è necessario educarli alla loro percezione per aiutarli a gestire gli stimoli
contraddittori che essi generano. Addirittura la ricercatrice ritiene che la mancanza di
empatia che si riscontra nei soggetti con autismo sia in parte dovuta all’assenza di
percezioni tattili confortanti, non a caso attribuisce la sua salvezza alla costruzione
della “macchina degli abbracci” (Rizzo, 2019). Alcuni bambini e adulti non verbali
hanno difficoltà nell'elaborare input visivi ed uditivi contemporaneamente, sono
mono-canali. In questi casi, l'insegnante non dovrebbe chiedere loro di guardare e
ascoltare nello stesso momento, ma dovrebbe somministrargli o un compito visivo o
un compito uditivo in quanto il loro sistema nervoso immaturo non è capace di
elaborare simultaneamente più stimoli. Spesso queste persone hanno il tatto molto
sviluppato e perciò conviene provare ad utilizzare maggiormente gli stimoli tattili
come veicolo di conoscenza (esercizi mediante l’utilizzo di libri tattile). Alcuni
soggetti non verbali trovano più facile associare le parole alle immagini se viene
presentata la parola stampata insieme all’immagine all'interno di un unico spazio.
Alcuni soggetti non capiscono i disegni, per cui è consigliabile lavorare prima con
oggetti reali e poi con foto di oggetti reali.
Imparare a generalizzare gli apprendimenti è veramente difficile per i bambini con
autismo. Il modo di pensare del soggetto autistico, generalmente molto attento ai
dettagli delle singole situazioni, gli rende difficile quel processo di generalizzazione
proprio delle persone normotipiche, che consente di estendere gli apprendimenti a più
contesti, riconoscendoli come simili5. La persona autistica è portata a pensare che un
determinato comportamento comunicativo sia valido ed utilizzabile solo in un
determinato contesto, con i materiali e con la persona con cui l’ha utilizzato
precedentemente; è essenziale, quindi, affiancare ad ogni insegnamento un lavoro sulla
generalizzazione, che non si verificherebbe in modo automatico.
E’ importante considerare la distinzione fra comunicazione recettiva ed espressiva. La
prima si riferisce alla comunicazione intesa come anticipazione e previsione di ciò che
succederà; la seconda, alla comunicazione come modo per mediare l’ottenimento di
qualcosa (non obbligatoriamente qualcosa di materiale, come un oggetto, ma anche
qualcosa di “immateriale” come attenzione, aiuto, condivisione).
Nello sviluppo tipico, il rapporto fra queste due abilità segue un andamento prevedibile
e codificato; nel disturbo dello spettro autistico, si assiste ad una forte disomogeneità

5
Cfr. COHEN.J. & VOLKMAR F. (1997, it. 2004), Autismo e disturbi generalizzati dello sviluppo, vol. 2-
Strategie e tecniche di intervento, Vannini: Gussago.
32
di sviluppo fra queste due grandi aree di abilità.6 Le informazioni fornite a persone
autistiche dovranno, quindi, essere trasformate da astratte a concrete, da invisibili a
visibili, da temporanee a permanenti.
Per insegnare a generalizzare il principio è far vivere tale principio in diverse
localizzazioni, cioè, se lo si fa in un unico posto il bambino potrebbe pensare che la
regola si applichi solo in quel posto specifico. Spesso i ragazzi mostrano di saper
riconoscere e leggere le singole sillabe, ma non sviluppano il meccanismo di
generalizzazione che permette loro di leggere la parola intera; oppure sanno
perfettamente andare al bagno, ma lo fanno solo utilizzando il bagno di casa.
Infine, come è noto, molti soggetti autistici non sanno che il linguaggio viene usato
per comunicare. L’apprendimento del linguaggio può essere facilitato se vengono fatti
esercizi linguistici per la comunicazione, a tal fine è anche utile tendere dei piccoli
tranelli o fare dei piccoli sabotaggi.
Qualunque intervento educativo realizzato con e per la persona autistica deve
rispettare, in primis, la sua unicità e peculiarità, aiutandola a divenire il più possibile
protagonista del proprio progetto di vita.7
A scuola, lo studente con disturbo dello spettro autistico ha la possibilità di realizzare
esperienze di conoscenza, di confronto, di socializzazione con i coetanei, basilari per
lo sviluppo della sua personalità; per tale motivo, è indispensabile la strutturazione
precisa di spazi e tempi da parte di insegnanti con una preparazione specifica, che
sappiano coinvolgere attivamente gli studenti, agevolando l’intercomunicazione,
l’interrelazione, la collaborazione e l’apprendimento.8
La didattica riferita ad alunni con Disturbo dello Spettro Autistico, dunque, richiede
un’organizzazione semplice e strutturata: è importante, considerando le caratteristiche
cognitive e comportamentali di questi ragazzi che l’intervento sia altamente strutturato
e organizzato e che si proceda in modo graduale (l’apprendimento deve avvenire per
sovrapposizione e consolidamento di competenze) e mirato (partendo dalle effettive
abilità di quel bambino, che infatti possono quantitativamente differire rispetto alla
maggior parte dei soggetti con il disturbo in questione) (De Meo, Vio, Maschietto,
2000).

6
Va ricordato che per definizione una persona autistica è diversa da un’altra (per questo si parla di
“spettro”) e che, di conseguenza, ciò che ha senso per una persona può non averlo per un’altra.
7
PONTIS M., (a cura di), Autismo e bisogni educativi speciali. Approcci proattivi basati sull’evidenza
per un’inclusione efficace, Milano, Franco Angeli, 2014, pp. 24-25.
8
SALVATTI C.,, L’alunno autistico va a scuola: proposte di intervento didattico, Cosenza, Luigi
Pellegrini, 2007, p. 117.
33
Soprattutto l’insegnante deve garantire al suo intervento educativo un alto indice di
prevedibilità per l’allievo; più si lavora sulla prevedibilità, più l’alunno riesce a
decodificare gli stimoli, ad una riduzione dei comportamenti problema corrisponde
una maggiore comprensione e soluzione della consegna, molto utili in questo senso
sono gli strumenti visivi personalizzati (le agende visive, le strisce delle attività, i
calendari).
Il ricorso agli strumenti iconici è sicuramente un facilitatore della didattica valido a
tutti i livelli di insegnamento, ancor più nel caso di alunni con Autismo; è importante
però che le immagini siano adeguate e chiare, e nel caso in cui si utilizzino immagini
la cui decifrazione risulti complessa (immagini d’epoca; riferimenti originali; quadri;
reperti; ritratti), queste devono essere decodificate precedentemente per aumentarne la
comprensibilità e l’efficacia.
La gestione dei tempi e delle pause deve essere bilanciata per evitare che l’alunno sia
sottoposto a stress o che debba sostenere carichi cognitivi troppo elevati. L’insegnante
dovrebbe lavorare sull’autostima dell’allievo incrementandola attraverso
gratificazioni, premiare i comportamenti adeguati ed evitare punizioni, rimuovendo gli
stimoli all’origine delle condotte non appropriate. A tal fine è quanto mai importante
che egli analizzi i fattori ambientali che costituiscono delle barriere, materiali e
immateriali, all’inclusione e li rimuova in ordine di priorità. E’ necessario, quindi, che
il personale educativo presente a scuola (docenti, assistenti specialisti) si organizzi in
funzione dei bisogni e del modo di pensare e di apprendere della persona autistica.
Inoltre, mediante l’abbattimento delle barriere architettoniche, fisiche e
comportamentali, la classe deve includere lo studente con autismo e deve mettere in
atto il maggior numero di facilitatori possibili, allo scopo di favorire l’apprendimento
e la partecipazione sociale.
L’inclusione ha a che fare in primis con l’accessibilità e l’abitabilità degli spazi: il
modo in cui essi sono organizzati, i materiali con cui sono costruiti e le possibilità di
movimento.9
La vita scolastica rappresenta un’opportunità importante per la persona autistica; a
scuola, si creano spesso relazioni autentiche e profonde, si incoraggiano momenti di
condivisione sociale, anche attraverso strategie che favoriscono la cooperazione. In
conclusione si richiede al docente di essere un “praticante riflessivo”, un “teorico

9
PALMIERI C., Dentro il lavoro educativo. Pensare il metodo, tra scenario professionale e cura
dell'esperienza educativa della formazione, Milano, Franco Angeli, 2018, p. 113
34
operativo” che, analizzando e modificando il contesto, riesca a creare le condizioni per
favorire l’apprendimento di tutti gli alunni (Rizzo, 2019).

35
CONCLUSIONI

I disturbi dello spettro autistico hanno ripercussioni rilevanti sulla qualità di vita delle
persone interessate e delle loro famiglie. Il bisogno di conoscere meglio tali disturbi
riguarda in maniera profonda sia i familiari, sia le differenti figure professionali,
sanitarie, sociali e scolastiche, direttamente coinvolte nell’interazione con persone
autistiche.
Il presente elaborato si è occupato di individuare delle linee d’azione volte a rendere
l’esperienza scolastica un’opportunità straordinaria per i soggetti autistici. Il lavoro
con i ragazzi affetti da autismo richiede un impegno profondo da parte di insegnanti
ed operatori.
L’insegnante di sostegno deve possedere competenze specifiche nelle tecniche di
mediazione e facilitazione del percorso scolastico di studenti con disturbo dello spettro
autistico. La scuola italiana è chiamata ad affrontare la complessa sfida dell’inclusione
e a fornire risposte soddisfacenti ai bisogni educativi speciali di tutti gli studenti,
attraverso il ricorso a strategie educative e didattiche pensate ad hoc per il singolo.
Gli insegnanti devono essere in grado di elaborare progetti formativi che sappiano
guardare all’inclusione come ad uno “sfondo integratore”, all’interno del quale tutti
possano trovare spazi e tempi adeguati all’apprendimento, sentirsi unici e originali nel
loro funzionamento e vivere l’esperienza scolastica come evento di benessere e di
successo.
Mediante la strutturazione dello spazio, del tempo e delle attività, è possibile rendere
il mondo della scuola “accessibile” alle persone autistiche, facilitandone in questo
modo l’inserimento e la successiva integrazione e agevolando lo sviluppo delle abilità
sociali, ricorrendo a diverse strategie didattiche specifiche.
Le esperienze positive e i successi che i soggetti autistici potranno sperimentare con
questi metodi, favoriranno il miglioramento della loro condizione personale,
sviluppando autonomia e autostima, nell’ottica di un progetto che non deve essere
solamente scolastico, ma deve essere anche e soprattutto un progetto di vita.

36
RINGRAZIAMENTI

Un ringraziamento dal profondo del cuore a mio marito per avermi incoraggiata,
supportata e sopportata in questo nuovo percorso;

Un super grazie ai miei figli che con il loro amore mi hanno sempre sostenuta;

E infine un grazie speciale alla mia famiglia per il sostegno morale e fisico, sempre
pronta ad aiutarmi per far sì che potessi realizzare tutti i miei traguardi.

37
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