Sei sulla pagina 1di 25

1

PEDAGOGIA E DIDATTICA SPECIALE


Giuseppe DESIDERI

BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI E SPECIALE NORMALITÀ

Con la sigla BES (Bisogni Educativi Speciali) ci riferiamo ai tutti gli alunni in
difficoltà di apprendimento che richiedono interventi individualizzati. L’espressione
“Bisogni Educativi Speciali” si è diffusa dopo l’emanazione della Direttiva Ministeriale
del 27 dicembre 2012 “Strumenti di intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali
e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica”.
La Direttiva stessa evidenzia che l’area dello svantaggio scolastico abbraccia un
campo più esteso di quello riferibile esplicitamente alla presenza di deficit.
In ogni classe vi possono essere alunni che necessitano di una particolare
attenzione per varie ragioni: svantaggio socio-economico-culturale, disturbi specifici di
apprendimento e/o disturbi evolutivi specifici, a cui si sono aggiunti in questi ultimi anni
anche gli alunni stranieri.
La caratteristica di questi alunni non è l’essere in possesso di una diagnosi clinica,
di una certificazione ma il trovarsi in una qualche situazione di difficoltà che ostacola il
loro percorso educativo e apprenditivo e che richiede interventi individualizzati. “È più
equo, nella valutazione e nel riconoscimento dei reali bisogni di un alunno rifarsi al
concetto di Bisogni Educativi Speciali (Special Educational Needs) piuttosto che a quello
di disabilità1“.
Il concetto di Bisogni Educativi Speciali, era già presente nella letteratura
scientifica anglosassone. L’espressione “Bisogni Educativi Speciali” infatti compare per

1
Ianes D., Cramerotti S., (a cura di), Il Piano Educativo Individualizzato, Erikson, Trento 2005

2
la prima volta nel Rapporto Warnock2, in Inghilterra nel 1978, per abolire il termine
handicap e per sottolineare la necessità di rinnovarsi in campo pedagogico.
Successivamente altri due atti legislativi inglesi definiscono l’estensione del
concetto di bisogno: nel Children Act del 1989 si introduce il concetto di “bambino in
stato di bisogno”, si tratta di un bambino che ha poche probabilità di conservare da solo
un livello di salute e di sviluppo accettabile se non con l’intervento dell’autorità locale di
natura compensativa sociale.
Lo Special Education Needs and Disability Act nel 2001 specifica che un bambino
presenta difficoltà di apprendimento quando, rispetto ai compagni incontra grossi
problemi ad apprendere, oppure quando una disabilità gli impedisce o lo danneggia
limitando i risultati conseguibili con le risorse educative che gli vengono fornite al pari
di altri bambini della sua età che invece riescono a conseguire risultati positivi.
Con lo Special Education Needs and Disability Act è stato presentato anche il
Code of Practise in cui vengono meglio precisati i bisogni del bambino, raggruppati in
quattro macroaree: comunicazione e interazione, cognizione e apprendimento, sviluppo
del comportamento, emozione e socialità, attività sensoriale e fisica. All’interno di questo
scenario permangono, però, ambiti di ambiguità e si continua a discutere sulla differenza
tra disabilità e bisogno educativo speciale.
O’Mahony e Rieser tentano di dare una risposta a tale quesito. Questi autori
coniano un modello di “intersezione” per individuare le differenze e la condizione di
sovrapposizione del concetto di disabilità e di bisogni educativi speciali.
Mittlre3 sostiene che anche le condizioni di povertà, marginalizzazione ed
esclusione sociale dovrebbero essere considerati come importante causa di difficile
funzionamento educativo e quindi scarsa salute. Sulla base dell’Organizzazione Mondiale
della Sanità e analizzando le criticità della definizione di Ianes è stata sviluppata una

2
The Warnock Report. Special Educational Needs, Report of the Committee of Enquire into the
Education of Handicapped Children and Young People, 1978
3
Mittler P., Equal oppoertunities – for whom, in “British Journal of Special Education”, vol.26,
n.1, pp. 3-7

3
definizione che si concentra su tre caratteristiche principali che devono essere presenti
perché si possa parlare di Bisogni Educativi Speciali:
 sensibilità, ovvero la capacità di cogliere precocemente il maggior numero
di condizioni di difficoltà del bambino;
 reversibilità, che sta ad indicare che molte situazioni configurate come
bisogni educativi speciali risultano temporanee, soggette a mutamento nel
tempo e a miglioramento e quindi sono reversibili;
 minor impatto stigmatizzante. Per “minor impatto stigmatizzante” si
intende che quando si parla di Bisogni educativi speciali non si deve far
riferimento a concetti specifici psicopatologici come dislessia, discalculia,
disturbo da deficit attentivo con iperattività; una concettualizzazione
significativa di bisogno educativo speciale dovrà partire dalla situazione
complessiva di funzionamento educativo e di apprendimento qualunque
siano le cause che danno origine ad una difficoltà di funzionamento.

Il bisogno educativo speciale si fonda anche sul bisogno e la necessità di


individualizzazione, educazione speciale e inclusione.
Un tentativo di definizione è quella che Ianes (2005) propone sulle basi delle
indicazioni dell’OMS e dell’ICF (Classificazione Internazionale del funzionamento della
salute e della disabilità):
“Il bisogno educativo speciale è qualsiasi difficoltà evolutiva, in ambito educativo
e apprenditivo, espressa in un funzionamento (nei vari ambiti della salute secondo il
modello ICF dell’Organizzazione Mondiale della Sanità) problematico anche per il
soggetto, in termini di danno, ostacolo o stigma sociale, indipendentemente
dall’eziologia, e che necessita di educazione speciale individualizzata.” 4

4
Ianes D.,(a cura di), Bisogni educativi Speciali e Inclusione. Valutare le reali necessità e
attivare tutte le risorse, Erikson, Trento 2005

4
Tutte queste situazioni, vengono ricondotte a varie cause di tipo individuale o
contestuali pur senza alcun riferimento al modello ICF dell’OMS (2002).5 Le difficoltà
scolastiche sono diverse e spesso non sono da ricondursi a una sola causa ma sono la
conseguenza di in insieme di fattori che riguardano sia lo studente, sia il contesto in cui
vive.
Analizziamo le tre sottocategorie dei Bisogni Educativi Speciali.

1. DISABILITÀ
• Alunni diversamente abili, certificati dall’ASL
Hanno l’insegnante di sostegno e si tratta generalmente di situazioni stabili.

2. DISTURBI EVOLUTIVI SPECIFICI


Alunni con:
• DSA (Disturbi Specifici di Apprendimento). Certificati dall’ASL
• Deficit coordinazione motoria. Funzionamento intellettivo limite.
• ADHD (Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder).
Non hanno l’insegnante di sostegno e si tratta generalmente di situazioni stabili.)

3. SVANTAGGIO SOCIO ECONOMICO, LINGUISTICO, CULTURALE


Alunni che, saltuariamente o con continuità, manifestano BES per motivi:
• fisici, psicologici, sociali, culturali.
• Alunni con disagio comportamentale/relazionale.
Sono certificati dal Consiglio di classe/team docenti con precise e dettagliate
considerazioni psicopedagogiche.
Non hanno l’insegnante di sostegno. È una situazione a carattere transitorio.

5
OMS - Organizzazione Mondiale della Sanità, ICF.Classificazione Internazionale del
Funzionamento, della Disabilità e della salute, Erikson, Trento 2002

5
Gli alunni diversamente abili sono alunni affetti da patologie certificate. L’art. 3
della legge quadro per l’assistenza, l’integrazione e i diritti delle persone diversamente
abili (L.104/92) stabilisce che “portatore di handicap è colui che presenta una
minorazione fisica, psichica e sensoriale stabilizzata o progressiva che è causa di
difficoltà di apprendimento, di relazione, o di integrazione lavorativa tale da determinare
un processo di svantaggio sociale o di emarginazione”6.
La definizione dell’handicap è di competenza degli specialisti medici7. Per ogni
alunno viene redatta la diagnosi funzionale che non si limita ad accertare il tipo e la gravità
del deficit ma pone in evidenza le potenzialità dell’alunno. Tali alunni hanno diritto, come
prevede la L.104/92 al docente di sostegno.8
I Disturbi specifici di apprendimento sono entrati a far parte della storia scolastica
di recente. Si parla di Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA), nel caso in cui un
soggetto indenne da problemi di ordine cognitivo, neurologico, sensoriale, emotivo o
sociale, e in presenza sia di normali opportunità scolastiche sia di un ambiente
socioculturale funzionale all’apprendimento presenti una difficoltà in qualche settore
specifico dell’apprendimento. Di qui l’importanza di una diagnosi guidata da criteri
diagnostici scientifici ed espliciti, e condotta attraverso l’impiego di test standardizzati, e
dunque validi e attendibili.
La conoscenza dei fattori caratterizzanti i singoli disturbi può aiutare le figure
educative, e in particolare insegnanti e genitori, tanto a leggere nel modo corretto le
difficoltà che il bambino incontra nell’esecuzione dei compiti scolastici, quanto a prestare
attenzione ai quei segnali di allarme che possono indicare precocemente - cioè prima di

6
Legge n.104/92 Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone
handicappate 5 febbraio 1992
7
Art.2 D.P.R. 24/02/94
8
Art.13 comma 3 L.104/92 “Nelle scuole di ogni ordine e grado, fermo restando, ai sensi del
Decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n 616, e successive modificazioni,
l’obbligo per gli enti locali di fornire l’assistenza per l’autonomia e la comunicazione personale
degli alunni con handicap fisici o sensoriali, sono garantite attività di sotegno mediante
l’assegnazione di insegnanti specializzati

6
giungere alle tappe del percorso scolastico in cui si può effettuare la diagnosi - la presenza
di un Disturbo Specifico dell’Apprendimento.
La dislessia rappresenta la difficoltà a leggere a voce alta che si associa alla
difficoltà a leggere e comprendere contemporaneamente i contenuti di una lettura. La
lettura dei dislessici è caratterizzata da deficit che riguardano il riconoscimento delle
lettere dell’alfabeto e dei segni ortografici, la conoscenza delle regole di conversione dei
segni grafici in suoni e la ricostruzione dei singoli suoni in parole appartenenti al lessico.9
A questi si associano: elisioni e distorsioni, sostituzioni o omissioni, inversioni
fonologiche. lettura di parole come non parole.
I dislessici, spesso, leggono molto lentamente al fine di attuare un maggiore
controllo sul compito di lettura; questa strategia tuttavia non facilita la comprensione e
l’identificazione del significato di ciò viene letto. Il processo di decodifica permane lento
e difficoltoso, anche con il progredire dei livelli e dei gradi di scolarità, a causa della
mancata automatizzazione delle competenze di lettura. Esistono due tipologie di dislessici
quelli che leggono male e comprendono male e quelli che pur leggendo male riescono a
comprendere.
La disgrafia e la disortografia sono disturbi specifici della scrittura. La prima si
presenta come disturbo della psico-motricità fine che investe gli aspetti della
produzione/riproduzione sia dei segni alfabetici sia del disegno geometrico e libero. Da
un punto di vista prassico abbiamo una scrittura irregolare di difficile comprensione anche
a chi ha scritto, una ridotta capacità di utilizzo dello spazio grafico a disposizione e del
rigo da cui deriva spesso una produzione grafica ascendente e discendente delle parole,
una irregolarità delle lettere e un’irregolarità dei legami fra le lettere all’interno delle
parole, anche brevi.
La disortografia si presenta come un disordine di codifica del testo scritto. È È
una difficoltà che investe il legame fonologico e ortografico e le regole a questo
soggiacenti.

9
Andreoli V., Cassano G. B., Rossi, R., ( a cura di), Mini DSM-IV-TR Criteri diagnostici, Masson,
Milano 2002.

7
La discalculia riguarda l’elaborazione dei numeri e le abilità di calcolo. Le
difficoltà sono molteplici e riguardano la lettura e scrittura dei numeri, il conteggio in
ordine decrescente, la transcodifica dei diversi simboli numerici, la capacità di
formulazione del giudizio di numerosità e le procedure di calcolo la cui esecuzione
richiede l’incolonnamento. I bambini affetti da discalculia non riescono a fare calcoli
mentali veloci, imparare le tabelline.
Si manifestano in ragazzi intelligenti, nonostante abbiano avuto normali
opportunità educative e scolastiche. Non hanno nulla a che vedere con un eventuale
svantaggio culturale.
Alla categoria dei disturbi evolutivi specifici appartengono, fra gli altri, la
disprassia e la disnomia.
La disprassia riguarda la difficoltà a mettere in sequenza dati, periodi,
denominazioni per esempio i mesi, gli anni, i giorni della settimana, ricordare la
successione dei movimenti da fare per “allacciare le scarpe”.
La disnomia è la difficoltà a ricordare e a usare i nomi in modo pertinente, la
capacità di trovare la parola che corrisponde al significato che il soggetto ha intenzione
di esprimere per esempio distruttivo/catastrofico.

La terza area della macroarea BES comprende gli alunni che risentono
nell’apprendimento scolastico di fattori legati alla condizione personale o familiare di
svantaggio socio-economico-culturale. Sono alunni che non hanno particolari disturbi o
patologie per cui le forti difficoltà nel rendimento scolastico sono ascrivibili a cause
spesso multifattoriali relative al contesto di provenienza o alla condizione soggettiva.
Spesso la provenienza da ambienti fortemente deprivati dal punto di vista socio-
economico-culturale, ne condiziona, soprattutto, il linguaggio che risulta essenziale,
scarno a livello lessicale e morfosintattico, prevalentemente dialettale. La condizione
esperienziale vissuta incide frequentemente sul livello di autostima e sul senso di
autoefficacia dell’alunno che trova, spesso, insormontabile la normale complessità del
lavoro scolastico. Tali difficoltà si tramutano in insuccesso e disagio comportamentale e
relazionale sia con i pari che con le figure adulte.

8
Rientrano in questa terza area gli studenti stranieri di recente immigrazione;
tuttavia è bene precisare che lo status di neo-immigrato non deve essere automaticamente
collegato all’esistenza di bisogni educativi speciali, ovvero se un ragazzo straniero può
evidenziare un BES non tutti i ragazzi stranieri devono essere ascritti alla categoria dei
soggetti con BES. Vi rientrano solo quegli studenti che a causa delle difficoltà legate al
cambio di vita e di contesto e soprattutto per la non conoscenza della lingua italiana,
necessitano di una particolare attenzione didattica da parte degli insegnanti. Per tali alunni
la temporaneità della condizione è sicuramente legata ai tempi dell’apprendimento della
lingua italiana in funzione veicolare, dapprima, e successivamente come lingua di studio.

Concludendo possiamo dire che gli alunni con Bisogni Educativi Speciali vivono
dunque una situazione particolare, che li ostacola nell’apprendimento e nello sviluppo:
come abbiamo visto questa situazione negativa può essere a livello organico, biologico,
oppure familiare, sociale, ambientale, contestuale o in combinazioni di queste. Un alunno
con Bisogni Educativi Speciali può avere una lesione cerebrale grave, o la sindrome di
Down, o una lieve disfunzionalità cerebrale e percettiva, o gravi conflitti familiari, o
background sociale e culturale diverso o deprivato, reazioni emotive e/o comportamentali
disturbate. In questo senso il Bisogno Educativo diventa «Speciale».

Come si individuano i BES su base ICF: indicazioni e strumenti


Nella scuola italiana l’integrazione degli alunni con disabilità è un dato di fatto,
realizzato più o meno bene, l’inclusione è invece ancora un traguardo lontano.10
Il processo di inclusione si applica a tutti gli alunni, non solo a quelli con qualche
difficoltà, estendendo il campo delle misure e della cultura di riconoscimento dei bisogni

10
Ianes D., Canevaro A., (a cura di) Facciamo il punto su…L’integrazione scolastica, Erikson,
Trento 2008

9
e di individualizzazione anche ad altri alunni in difficoltà, ma che non hanno alcuna
disabilità.
Questa linea di pensiero è diventato attuale grazie alla Direttiva Ministeriale del
27 dicembre 2012 e alla successiva Circolare recante indicazioni operative del 6 marzo.
Una scuola che sa rispondere realmente ai bisogni e a tutte le difficoltà dei suoi
alunni può dirsi una scuola inclusiva.
Ma qual è realmente l’utilità del concetto di bisogni educativi speciali? Il concetto
di bisogni educativi speciali è una macrocategoria che comprende dentro di sé tutte le
possibili difficoltà educativo-apprenditive degli alunni: dalle disabilità mentali, fisiche e
sensoriali, ai deficit in specifici apprendimenti quali disgrafia, dislessia ad altre situazioni
problematiche di tipo comportamentale, relazionale, di contesto socioculturale. Situazioni
fortemente diverse tra loro ma accomunate nel loro diritto a ricevere un’attenzione
educativo-didattica sufficientemente individualizzata e efficace.
Per poter intervenire è importante riconoscere le tipologie di bisogno educativo.
Oggi tale riconoscimento è dato solo alle situazioni rientranti nella legge 104/92 che tutela
i bambini diversamente abili e di recente la L 170/10 che tutela gli alunni con DSA. Le
altre difficoltà non sono altrettanto riconosciute, legittimate e tutelate.
Una diagnosi nosografica e eziologica è fondamentale per realizzare interventi
riabilitativi, abilitativi, terapeutici e preventivi ma non ci aiuta a fondare politiche di
equità reale nell’ambito delle nostre scuole. C’è bisogno di un riconoscimento più ampio
dei reali bisogni degli alunni, al di là delle etichette diagnostiche. Per una lettura e il
riconoscimento dei bisogni reali di un alunno interessa di più comprendere la situazione
di funzionamento “a valle”11, l’intreccio di elementi che adesso, qui ed ora costituisce il
funzionamento di quell’alunno, in quella serie di contesti.
Nella scuola si ha a che fare ogni giorno con i funzionamenti “a valle”, con gli
intrecci più vari di fattori personali e sociali che nel tempo rendono molto differenti i
funzionamenti anche di persone uguali per alcuni aspetti biostrutturali. In tal senso il

11
Ianes D., Alunni con BES, Erickson, Trento 2013.

10
modello ICF dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ci aiuta. Esso si concentra su
aspetti relativi alla salute e al funzionamento globale e non su disabilità e patologia. A
caratterizzare l’ICF è l’approccio multi prospettico alla classificazione del funzionamento
e della disabilità secondo un processo interattivo evolutivo e educativo.
In Italia l’ICF si è diffuso con forza nel mondo dell’educazione e della scuola,
proprio perché ha trovato una forte affinità con la cultura pedagogica italiana e con la sua
visione antropologica, sociale, legata ai contesti di vita.
Nell’idea di bisogno educativo speciale il concetto di funzionamento educativo-
apprenditivo è al centro. Si attribuisce una grande importanza all’apprendimento, frutto
dell’intreccio tra le varie spinte evolutive endogene, per maturazione biologica
programmata geneticamente e le mediazioni educative degli ambienti.
Il funzionamento educativo è quindi intrecciato tra biologia, esperienze di
ambienti, relazioni e iniziative del soggetto. L’ICF è il modello concettuale che serve a
comprendere questo intreccio e a leggerlo nella mescolanza delle sue componenti, perché
esso parla di salute e di funzionamento globale, non di disabilità e di varie patologie.
Secondo l’OMS una situazione va letta e compresa in modo globale, sistemico e
complesso e in modo interconnesso e reciprocamente causale.

Tratto da: Ianes D., Alunni con BES, Erickson

11
Nella tabella in questione si legge che la situazione di salute di una persona, nel
nostro caso il funzionamento educativo-apprenditivo, è la risultante delle reciproche
influenze tra i sette fattori rappresentati. Quando i diversi fattori interagiscono
positivamente il bambino sarà sano e funzionerà bene dal punto di vista educativo-
apprenditivo, in caso contrario il suo funzionamento sarà difficoltoso, ostacolato,
disabilitato, ammalato con bisogni educativi speciali. La comprensione più completa del
funzionamento educativo-apprenditivo di un bambino sarà possibile solo se riusciremo a
cogliere le singole dimensioni e a integrarle in una visione complessa e completa. Una
buona comprensione di una situazione non può che derivare da una messa in relazione di
diversi aspetti dell’alunno in questione. Il bambino potrà avere una difficoltà di
funzionamento ovvero un bisogno educativo speciale originata dalle infinite
combinazioni tra i vari ambiti di funzionamento.

La normativa inclusiva italiana


Il ciclo della normativa inclusiva, iniziata alla fine degli anni ‘60, con
l’inserimento e l’integrazione in classi e/o sezioni comuni degli alunni con disabilità nel
2000 poteva dirsi concluso.
L’Italia era l’unico stato che aveva realizzato una normativa generalizzata per gli
alunni con disabilità. Nel frattempo in Europa e nei paesi anglosassoni si erano affermate
la prassi e la normativa inclusiva per i soggetti in difficoltà ma non per cause sanitarie.
Quando l’Italia, in sede internazionale, presentava con orgoglio la sua normativa
inclusiva, gli altri Stati sottolineavano che poco aveva fatto per quei casi di difficoltà di
apprendimento dipendenti dallo svantaggio socio culturale. Di qui comincio l’iter per
l’inclusione di questi soggetti difficili ma normali.
Vari furono gli studi condotti in tal senso. Furono formulate ipotesi di modelli di
funzionamento dell’organismo umano secondo i principi di approccio bio-psico-sociale

12
da ICF12 che puntavano anche sull’interferenza di situazioni ambientali, culturali,
religiose e sociali, elementi fortemente condizionanti l’inclusione.13 Ancor più si rese
necessario trovare soluzioni adeguate allorché nelle nostre classi vi fu un massiccio
ingresso di alunni stranieri. Situazione che venne affrontata all’inizio facendo ricorso alla
normativa dell’inclusione degli alunni con disabilità. Importanti nel cammino della
normativa per l’inclusione le linee guida sull’inclusione scolastica degli alunni con
disabilità del 4 agosto 2009 che costituisce, ancor oggi, un importante documento
soprattutto perché suggerisce le modalità operative da realizzare nelle singole classi e
nelle singole scuole ad opera di tutti gli operatori scolastici, in continuo dialogo con le
famiglie.
Su questa scia prende vita il movimento culturale che porterà all’approvazione
della L. 170/2010 sui DSA e delle norme aggiuntive con le linee guida applicative del 12
luglio 2011 e l’Intesa Stato-Regioni del 25 luglio 2012 che inseriscono a pieno diritto i
DSA nella cultura e nella normativa inclusiva italiana, grazie anche alla spinta decisiva
da parte della Magistratura, nello specifico dalla Corte Costituzionale .
In questo clima culturale e politico il Ministero emana la Direttiva Ministeriale
del 27 Dicembre 2013, seguita dalla Circolare Applicativa n.8 del 6 marzo 2013.
Entrambe affermano che si è chiuso il ciclo della normativa inclusiva italiana
poiché sotto la denominazione BES vengono ricompresi, anche se con problemi diversi,
gli alunni con disturbi di apprendimento dovuti a disabilità , quelli con DSA e i quelli con
altri BES dovuti a svantaggio socio-culturale e disagio ed estende a questi ultimi il
principio di personalizzazione didattica della L.104/92, generalizzato con la legge 53/03
della Riforma Moratti, sia degli strumenti compensativi e dispensativi previsti dalla
L.170/10 per gli alunni con DSA. Tale unificazione non è stata accettata all’unanimità e
certuni hanno ritenuto di considerare i BES con una terza categoria di alunni in difficoltà
di apprendimento, ragion per cui è stata criticata la scelta di normare con una circolare

12
Ianes D. - Cramerotti S., (a cura di), Usare l’ICF nella scuola, Erikson, Trento 2011.
13
Ianes D., ( a cura di), Bisogni Educativi speciali e inclusione. Valutare le necessità e attivare le risorse,
Erikson, Trento 2005.

13
una materia quale i BES che avrebbe dovuto essere regolata da leggi come la L.104/92 e
la L. 170/10. A questi viene obiettato da più parti che il tutto è estrinsecazione di principi
costituzionali come l’art. 2 sui diritti inalienabili della persona, l’art. 3 comma 2 , obbligo
per la Repubblica di rimuovere gli ostacoli che , limitando l’eguaglianza, impediscono la
partecipazione sociale delle persone, art. 34 secondo cui la scuola è aperta a tutti, pertanto
viene ritenuto pienamente legittimo il ricorso da parte del MIUR alla direttiva e alla
circolare per estendere ai casi di BES le norme scritte per la disabilità e per i DSA.
La Direttiva Ministeriale del 27 Dicembre 2012 è un importante documento che
aggiunge un altro importante tassello al quadro italiano per l’inclusione scolastica. Essa
accoglie una serie di orientamenti già presenti in alcuni paesi europei. Chiarisce quali
devono essere le caratteristiche del modello dell’inclusività, sottolinea la necessità di
superare la tradizionale “dicotomia” tra alunni con disabilità e alunni senza disabilità.
Essa richiama alla responsabilità dei sistemi educativi di trovare le giuste strategie per
rispondere alle necessità educativo-apprenditive di tutti gli studenti, portatori di “Bisogni
educativi speciali”.
La Direttiva prende in esame la definizione di Bisogni Educativi Speciali, ne
individua le sottocategorie, estende a tutti i BES le modalità d’intervento contenute nel
D.M. del 30 settembre 2011, riguardante i DSA. Essa sottolinea la necessità di elaborare
un percorso educativo individualizzato e personalizzato, attuabile anche attraverso la
redazione di un Piano Didattico Personalizzato dove possono essere previsti anche
strumenti compensativi e misure dispensative previste dalle disposizioni attuative della
L.170/10.
Il 6 marzo 2013, viene emanata la circolare n.8, la quale, sin dall’inizio, insiste
sulla necessità di un progetto educativo didattico che deve essere predisposto per tutti gli
alunni con Bisogni Educativi Speciali, anche per quelli che abbiano uno svantaggio
culturale, personale o sociale. Vi si legge infatti che “ in questa nuova e più ampia ottica,
il Piano Didattico Personalizzato non può più essere inteso come mera esplicitazione di
strumenti compensativi e dispensativi per gli alunni con DSA; esso è bensì lo strumento
in cui si potranno, ad esempio, includere progettazioni didattico-educative calibrate sui
livelli minimi attesi per le competenze in uscita (di cui moltissimi alunni con BES, privi

14
di qualsivoglia certificazione diagnostica), strumenti programmatici utili in maggior
misura rispetto a compensazioni o dispense, a carattere squisitamente didattico
strumentale”.14 La Circolare passa poi a fornire chiarimenti per gli alunni con svantaggio
culturale e socioeconomico o personale, che costituisce anche la parte innovativa della
Direttiva sui BES: “Si vuole inoltre richiamare ulteriormente l’attenzione su quell’area
dei BES che interessa lo svantaggio socioeconomico, linguistico, culturale”. La Direttiva,
a tale proposito, ricorda che “ogni alunno, con continuità o per determinati periodi, può
manifestare Bisogni Educativi Speciali, o per motivi fisici, biologici, fisiologici o anche
per motivi psicologici, sociali, rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano
adeguata e personalizzata risposta”.15
La Circolare pone l’accento sul fatto che gli alunni con disabilità si trovano inseriti
in contesti complessi e che è superficiale ricondurre tale complessità alla semplice
distinzione alunni con disabilità/alunni senza disabilità. Non è sufficiente identificare gli
alunni con disabilità in base alla certificazione che, anche se può essere garante di una
serie di benefici, rischia di chiuderli in una cornice ristretta. In tal senso è utile il modello
ICF dell’OMS che, fondandosi sul profilo di funzionamento e sull’analisi del contesto,
consente di individuare i Bisogni Educativi Speciali dell’alunno in una chiave più
completa al di là di preclusive tipizzazioni.
Questo significa che ogni alunno può avere bisogni educativi speciali o per motivi
fisici, biologici, fisiologici ma anche per motivi psicologici e sociali, rispetto ai quali le
scuole devono offrire risposte adeguate e personalizzate.
Da un lato viene sottolineata l’importanza della classificazione ICF, dall’altro si
avverte di non cadere nell’errore di circoscrivere l’alunno con disagio/difficoltà/disturbo
in una cornice ristretta che ne limiterebbe di fatto l’inclusione nel contesto classe. Così
facendo non si partirebbe dalla condizione deficitaria ma si applicherebbero forme di
insegnamento e di organizzazione che includono già i sostegni e gli aiuti per soddisfare i
bisogni di tali alunni. Questo non vuol dire generalizzare, uniformare, tralasciare la

14
C.M. n.8 del 6/03/2013
15
Direttiva Ministeriale del 27/12/2012

15
specificità del singolo ma anzi il modo diverso di porsi, di affrontare le situazioni di
apprendimento e di relazione impone la necessità di risposte congrue ed efficaci da parte
della scuola e dei suoi docenti. Questa attenzione alla diversità degli alunni ha messo in
evidenza che ogni alunno è un alunno “diverso” e che i diversi alunni sono portatori di
diversi bisogni educativi speciali a cui ogni giorno il docente è chiamato a rispondere.
Una scuola inclusiva e di valore quindi deve fare in modo che tutte queste diversità
si sentano incluse, non “inclaudo” (chiuse dentro), in un contesto. Perché questo accada
sono necessarie occasioni di incontro con l’altro. È ovvio che la scuola, in un sistema
formativo integrato, svolge un compito importante, fondamentale. Questa nuova realtà
richiede ai docenti di approfondire le loro conoscenze per poter valorizzare i vari modi di
apprendere, modulando la propria opera d’insegnamento in modo da rispondere con
efficacia a tale complessità. Questo significa conoscere i meccanismi che sottintendono
all’apprendimento, saper leggere i bisogni, conoscere e ricercare metodi e strategie per
soddisfare tali bisogni. A supporto di un compito così delicato e complesso numerose
sono state le iniziative di formazione. Si tratta di fare della formazione una pratica
continua in quanto la complessità e la problematicità dell’agire educativo sollecitano una
costante apertura a nuove interpretazioni dell’esperienza, a nuove e diverse modalità
operative, a nuove conoscenze e competenze in una prospettiva di lifelong learning

Le metodologie per l’inclusione.


L’apprendimento cooperativo è una strategia idonea adatta ai contesti classe con
i BES. È il principio per cui ogni membro del gruppo può contribuire all’apprendimento
di tutti e che ognuno rappresenta una risorsa per gli altri. È un nuovo modo di fare scuola
passando da un apprendimento di tipo competitivo e individualistico a un modello in cui
gli alunni imparano a cooperare anzichè a competere, migliorando il rendimento
scolastico e le relazioni di gruppo.
Proviamo a immaginare una classe dove sono presenti allievi distratti, allievi lenti,
allievi iperattivi, allievi demotivati, allievi con ansia da prestazione, allievi stranieri che
non parlano ancora bene. Come può un docente prestare attenzione a tutti, rispondendo

16
ai bisogni educativi di ognuno? La risposta non può essere quella di creare percorsi
individualizzati o percorsi personalizzati degli apprendimenti a partire dai bisogni
formativi specifici. A tal proposito Petracca nel 2003 diceva che il concetto di
personalizzazione non deve essere confuso con quello di formazione individuale. È
assurdo dal punto di vista pratico pensare che ogni alunno possa avere il proprio piano di
studi, non sarebbe più personalizzato ma personale e si configurerebbe come un cammino
esclusivo ma solo del singolo. La personalizzazione non vuol dire rinunciare a traguardi
sociali comuni. Allora che senso ha parlare di bisogni educativi speciali? Ha senso nella
misura in cui cominciamo a risolvere il problema a monte, creando un ambiente che sia
realmente inclusivo, che tenga conto delle diversità. L’apprendimento cooperativo è una
strategia per rispondere a questa esigenza. Esso implica che ogni membro del gruppo, con
le sue peculiari specificità, possa contribuire all’apprendimento di tutti e che ognuno può
divenire risorsa (e strumento compensativo) per l’altro. Pensiamo ad esempio a un gruppo
di 3 alunni che devono comprendere un brano di storia. All’interno del gruppo è presente
un alunno dislessico. Se distribuiamo i ruoli, uno legge il brano, uno lo sintetizza, l’altro
scrive quello che il compagno ha sintetizzato, si comprende come l’alunno dislessico, a
cui magari possiamo affidare il ruolo di sintetizzare, ha superato la difficoltà della lettura
(misura e nel contempo ha messo a disposizione del gruppo la sua capacità di
comprensione di quanto ascoltato.
Creare in classe gruppi cooperativi non è semplice. Esistono regole a cui attenersi.
Prendiamo in esame il learning together16. Esso si fonda su cinque principi chiave:
l’interdipendenza positiva, responsabilità individuale e di gruppo, interazione
promozionale faccia a faccia, abilità sociali e valutazione individuale e di gruppo. Si ha
l’interdipendenza positiva fra i membri del gruppo quando ogni membro percepisce la
relazione con gli altri sul tipo “uno per tutti, tutti per uno” ovvero quando percepisce che
l’operato di uno può influenzare quello di tutti e viceversa. Si può dire he
l’interdipendenza positiva è raggiunta quando è chiaro a tutti i componenti del gruppo

16
Johnson D.W. e Johnson R.T. (a cura di), Cooperation and competition: Theory and research,
Edina, MN, Interaction Book Company, 1989

17
che il rapporto di collaborazione che li unisce è tale che non può esistere successo
individuale senza successo collettivo. Se si riesce a creare un buon grado di
interdipendenza positiva ci si assicura anche la responsabilità del singolo e di gruppo in
quanto ogni membro percepisce di essere responsabile per sé e per gli altri. L’interazione
promozionale faccia a faccia consiste nel lavorare in modo positivo incoraggiandosi a
vicenda e implica che ogni feedback positivo o negativo ha come finalità il miglioramento
del lavoro individuale e comune. Non è sufficiente mettere insieme degli alunni e affidare
loro un compito perché il lavoro di gruppo riesca. È necessario che ogni membro del
gruppo sappia relazionarsi con l’altro. Il lavoro di gruppo comporta un’interazione
continua e possono insorgere anche dei conflitti che devono essere affrontati in modo
costruttivo. È importante che il docente valuti le abilità sociali presenti nel gruppo e
promuova gli aspetti carenti.
Quando un lavoro è finito il gruppo deve valutare se il gruppo ha funzionato, quali
compiti sono risultati utili e quali no, individuando le criticità e i punti di forza e le
possibilità di superare le prime e valorizzare le seconde.
Quanto detto per il learning together vale anche per altre tipologie di cooperative
learning. Questa strategia operativa espone e protegge allo stesso tempo perché mentre
da un lato prevede ruoli e compiti per ognuno, dall’altro garantisce che ci sia aiuto,
accettazione e completamento per affrontare le difficoltà.

Un altro “strumento” che può aumentare l’efficacia dell’apprendimento, delle


competenze scolastiche ma anche di quelle relazionali, è il tutoring, o tutoraggio tra pari,
in cui alunni con diverse competenze e conoscenze si affiancano perché l’uno sostenga il
lavoro dell’altro.
Con il diffondersi dell’apprendimento cooperativo la figura del tutor ha assunto
una centralità nuova nel panorama educativo-formativo e didattico. Tuttavia la didattica
tutoriale non è nuova nella nostra tradizione pedagogica; ne sono esempi illustri il
mentore, già presente nell’antica Grecia, e il precettore, diffuso nel periodo moderno nel
ceto medio-alto, per citare solo alcuni esempi. In ambito extrascolastico, poi, la pratica
del tutoring è uno dei pilastri su cui si fonda l’organizzazione degli scout di Baden-Pawell,

18
diffusa in tutto il mondo. Diversamente da quanto potrebbe sembrare, tuttavia, il tutoring
non è semplicemente un modo di organizzate l’aiuto informale e spontaneo. Lo stesso
termine tutoring, infatti, è finalizzato al superamento del carattere familiare del metodo e
all’assunzione di una procedura scientifica. Si tratta invece di un approccio articolato, che
implica:
 un’organizzazione precisa del lavoro;
 la definizione di un obiettivo esplicito;
 una struttura di lavoro flessibile e aperta.
Perché un’azione di tutoring abbia successo è di solito necessario:
 abbinare con cura tutor e tutee (con «tutor» si intende la persona che
insegna attivamente, con «tutee» quella che riceve l’insegnamento);
 fissare orari frequenti e regolari per le attività da svolgere in
collaborazione;
 fornire una formazione nelle tecniche del lavoro e eventualmente i
materiali;
 applicare un sistema di monitoraggio e di supervisione e se necessario di
valutazione.
Il coinvolgimento in un sistema tutoriale è un’esperienza sociale gratificante sia
per il tutor sia per il tutee; per questo l’impiego di tale strumento in una logica di
inclusione delle diversità o delle difficoltà appare molto opportuno e apprezzabile. Le
ricerche dimostrano, infatti, che il tutoring produce miglioramenti nei risultati ottenuti sia
dal tutor sia dal tutee della materia prescelta. In particolare si è visto che:
 il tutor, nonostante si occupi di attività/materie rispetto alle quali abbia
raggiunto una certa familiarità, egli trae comunque vantaggi cognitivi dall’esperienza di
tutoraggio, come ad esempio il consolidamento delle conoscenze già acquisite;
 i vantaggi sono considerevoli anche per il tutee. In un rapporto personale,
l’apprendimento può essere maggiormente individualizzato: si possono selezionare i
compiti più adeguati per il destinatario del tutoring, così il ritmo della presentazione può
essere calibrato in modo da ottimizzare l’apprendimento. L’insegnante, dovendo seguire

19
molti allievi, può limitarsi a spiegazioni verbali, il tutoring invece offre l’occasione di
dimostrare il comportamento richiesto. Il tutee riceve un feedback regolare sulla
correttezza dei propri sforzi ed è soggetto a un attento monitoraggio che porta a
massimizzare il tempo dedicato all’attività. Facilmente si ottiene un progresso nella
padronanza verbale e altre forme di rinforzamento sociale.
La riuscita di un progetto di tutoraggio non è affidata solo ai ragazzi, ma richiede
la mediazione dell’insegnante della classe e dell’ambiente scuola. Occorre, infatti, che vi
sia condivisione dell’iniziativa tra i docenti e che anche gli allievi siano motivati a
intraprendere l’esperienza.

20
IL PAI (PIANO ANNUALE PER L’INCLUSIVITÀ)

La nostra Costituzione prevede una scuola che consideri la parità di opportunità


per tutti gli allievi come uno dei pilastri fondamentali del suo ruolo educativo. Parità di
opportunità, ovvero uguaglianza di diritti di ottenere risorse didattiche in ugual misura,
indipendentemente dalle caratteristiche individuali, dalle capacità, dalle specifiche
culturali, superando gli ostacoli costituiti da ogni tipo di diversità. La Direttiva
Ministeriale “Strumenti d’intervento per alunni con bisogni educativi speciali e
organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica” del 27 Dicembre 2012 identifica
come campo di intervento e di responsabilità dell’Istituzione scolastica l’intera area dei
Bisogni Educativi Speciali (BES). Successivamente, la Circolare Ministeriale n°8 del 6
marzo 2013 precisa che per gli alunni con BES preventivamente individuati, l’attuazione
dei corrispondenti percorsi personalizzati è convenientemente descritta e circostanziata
nel PDP (Piano Didattico personalizzato) da condividere, coinvolgendole, con le
famiglie.
Il PAI (Piano Annuale per l’Inclusività) si inserisce in tale contesto educativo
come uno strumento utile al raggiungimento non solo del successo formativo degli allievi
ma anche al loro benessere psicologico e al proficuo consolidamento dei loro rapporti
interpersonali.
L’area dei Bisogni Educativi Speciali (in altri paesi europei: Special Educational
Needs) è molto estesa in quanto deve comprendere tutta la casistica delle difficoltà, a
prescindere dalle cause che le producono. I Bisogni Educativi possono, infatti, essere
causati da motivi fisici, biologici, fisiologici o anche per motivi psicologici, sociali e
culturali e sono quindi stati suddivisi nelle tre seguenti sottocategorie:

1. DISABILITÀ
• Alunni diversamente abili, certificati dall’ASL
Hanno l’insegnante di sostegno e si tratta generalmente di situazioni stabili.

21
2. DISTURBI EVOLUTIVI SPECIFICI
Alunni con:
• DSA (Disturbi Specifici di Apprendimento). Certificati dall’ASL
• Deficit coordinazione motoria. Funzionamento intellettivo limite.
• ADHD (Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder).
Non hanno l’insegnante di sostegno e si tratta generalmente di situazioni stabili.)

3. SVANTAGGIO SOCIO ECONOMICO, LINGUISTICO, CULTURALE


Alunni che, saltuariamente o con continuità, manifestano BES per motivi:
• fisici, psicologici, sociali, culturali.
• Alunni con disagio comportamentale/relazionale.
Sono certificati dal Consiglio di classe/team docenti con precise e dettagliate
considerazioni psicopedagogiche.
Non hanno l’insegnante di sostegno. È una situazione a carattere transitorio.

In fase di redazione del PAI, precisamente nella I parte, si tiene conto della
precedente classificazione e viene compilato un elenco descrittivo e particolareggiato in
cui sono riportati i dati relativi alla popolazione scolastica con BES ed i relativi PEI
(Programmazione Evolutiva Individualizzata) ed i PDP (Piano Didattico Personalizzato).
Mentre i PEI sono realizzati dai GLHO (Gruppo di lavoro per l’handicap operativo), i
PDP vengono fatti dai Consigli di Classe. Sempre nella prima parte del documento
trovano posto, come in seguito esamineremo dettagliatamente, le Risorse Professionali
specificatamente dedicate, come insegnanti di sostegno, psicopedagogisti, assistenti,
tutor, coordinatori, ecc. La prima sezione comprende infine anche l’esposizione di tutte
le altre figure di supporto tenendo conto del necessario coinvolgimento delle famiglie e
delle istituzioni presenti sul territorio, a carattere istituzionale, sociale, di volontariato,
con compiti di assistenza e collaborativi.
La seconda parte del PAI è dedicata alla descrizione degli obiettivi, delle
prospettive di incremento dell’inclusività e agli aspetti organizzativi e di gestione.

22
Nelle nota ministeriale prot. 1551/2013, si afferma che il PAI “non deve essere
interpretato come un piano formativo per gli alunni con BES, ma come uno “ strumento
di progettazione” (da utilizzare in fase di elaborazione del POF - piano dell’Offerta
Formativa) “in senso inclusivo” ed è quindi uno “sfondo ed il fondamento sul quale
sviluppare una didattica attenta ai bisogni di ciascuno nel realizzare gli obiettivi comuni”.
Non si tratta, quindi, di schedare le persone secondo categorie di problematicità comuni,
ma di individuare le situazioni di difficoltà e le strategie per fronteggiarle, definendo e
circostanziando l’intervento didattico più opportuno. Nella stessa nota ministeriale
troviamo ancora che tale strumento è un valido contributo utile ad “accrescere la
consapevolezza dell’intera comunità educante sulla centralità e la trasversalità dei
processi inclusivi in relazione alla qualità dei risultati educativi”.
Oggi siamo di fronte ad una problematica della “diversità” completamente nuova
rispetto a quella di 30 anni fa, quando le ridotte capacità di apprendimento erano attribuite
prevalentemente a cause fisico-biologiche. Siamo di fronte ad una diffusione crescente di
diversità di altro genere, che si somma a quella psico-fisica e non più subordinata
esclusivamente alla diagnosi clinica: si tratta di difficoltà generate da motivi socio-
culturali e ambientali, da motivi linguistici, da alterazioni della personalità e disturbi
conseguenti a sradicamenti, a volte violenti, dal tessuto familiare tradizionale. Queste
ultime problematicità non hanno una natura biologica ma ugualmente producono effetti
analoghi, dal punto di vista dell’apprendimento: una ridotta capacità di imparare, una
ridotta opportunità di inserirsi nella società. La stessa espressione “integrazione” è
risultata quasi semanticamente superata e bisognosa di un’estensione a locuzioni nuove,
come “inclusione”, che sia in grado di comprendere non solo l’area patologica, ma si
allarghi a tutta la casistica e che operi efficacemente per l’inserimento a livello di soggetto
sociale e sia in grado di abbattere il confine talvolta spinoso non solo della convenzione
e della tradizione alla quale ognuno, personalmente, risulta legato e limitato, ma anche
dell’insieme complessivo delle barriere che si ergono a causa delle diversità di ogni tipo
e che non possono più costituire un fattore di emarginazione né all’interno né all’esterno
della scuola.

23
La domanda che a questo punto diventa significativa è se esista una soluzione
unitaria che possa rispondere adeguatamente, a prescindere dal tipo di diversità,
all’esigenza di una popolazione crescente di studenti che necessitano di un intervento
supplementare per superare le loro ridotte capacità di apprendimento. Ovviamente non si
deve assolutamente abbandonare la personalizzazione dell’intervento didattico che
rimane un caposaldo inalienabile, dato che ci troviamo di fronte a persone implicitamente
diverse, non solo per la singolarità della natura umana, ma principalmente per la
differenza che ognuno presenta proprio in termini di difficoltà. In definitiva, fatto salvo
lo specifico carattere individuale dell’azione finale, interessa capire quanto e come
l’intervento istituzionale sia in grado di rispondere con pari efficacia ad ogni tipo di
sollecitazione.
La scuola, da sempre, è per eccellenza il luogo di incontro di individualità diverse
per provenienza etnica, sociale, culturale e bio-psichica; in nessun altro luogo di
convivenza persone di così numerose e importanti diversità si riuniscono quotidianamente
e si trovano di fronte ad una situazione in cui l’accoglienza, l’integrazione, l’inclusione
siano alla base di un proficuo progresso culturale e sociale, senza emarginazioni e
discriminazioni pregiudiziali. Sono molto probabilmente le differenze culturali, sociali ed
etniche quelle che in un futuro non molto remoto comporteranno una maggiore, ma
sarebbe più corretto dire: una più diffusa, difficoltà nell’instaurazione di rapporti e
relazioni interpersonali idonei ad un percorso di crescita in ambito didattico,
principalmente a causa non solo degli ostacoli di natura linguistica e di costume, ma nelle
ripercussioni a livello caratteriale, come per esempio il bullismo, il rifiuto della
comunicazione, l’atteggiamento ribelle e provocatorio e in genere tutte quelle
manifestazioni che rasentano e a volte superano il confine con una vera e propria
sindrome patologica che sono comprese nel termine disturbo della personalità. Non c’è
dubbio che il sostegno ad un bambino affetto da autismo non possa essere simile a quello
offerto ad un allievo che non comunica a causa del fatto che non conosce la lingua italiana.
D’altra parte a nessuno verrebbe in mente di trattare un cerebro leso nella stessa maniera
di un allievo affetto da sindrome di Down.

24
Elemento fondamentale dell’inclusione è costituito, senza alcuna scalatura
dipendente dal tipo di disagio, dalla lotta contro la discriminazione. È indispensabile
creare un ambiente in cui la differenza sia riconosciuta come un valore e non un’occasione
per scegliere da che parte stare, per schierarsi, per prendere posizione pro o contro. Ecco
allora che viene a ridursi se non ad essere totalmente eliminata, la maggiore e la più
dolorosa vulnerabilità che non è quella comunicativa ma quella che si genera dal fatto di
trovarsi fuori di casa, lontano dalla famiglia,che induce il bambino “diverso” a
dimenticare la sua natura che riteneva stabile e consolidata e a confrontarla con un’altra,
una nuova identità, estranea ma il più possibile simile a quella degli altri, dai quali si sente
lontano… escluso. È questa una delle più frequenti occasioni in cui rischia di generarsi il
BES non dovuto a fattori biologici: si aprono conflitti interni, l’autostima personale si
indebolisce, subentrano comportamenti aggressivi o regressivi.
Come già rilevava negli anni 90 Murphy , l’avversione, l’incomprensione, non
raramente anche la paura che le persone “normali” manifestano nei confronti del disabile,
si riferiscono alla disabilità fisica ma non presentano tuttavia sostanziali differenze con le
analoghe emozioni suscitate da ogni altro tipo di disabilità. Il superamento delle
discriminazioni fra menomazione fisica e quella derivante da motivazioni socio-culturali
trova con il tempo riscontri sempre più numerosi. Si osserva infatti che il meccanismo
dell’emarginazione nei confronti del disabile fisico interviene con modalità operative
analoghe a quelle che agiscono nei confronti di altre persone etichettate comunque come
“diverse” in base alla loro estrazione etnica, sociale, razziale, culturale e perfino al genere
di appartenenza sessuale.
“Accogliere, Ascoltare, Accompagnare” sono termini consolidati nella didattica
istituzionale e imprescindibili in ogni intervento funzionale, nell’ottica di una costruzione
di un intervento volto al tema del trattamento degli alunni che presentano, in varia
modalità, difficoltà nell’apprendimento. Occorrerà introdurre, accanto alle precedenti tre
“A”, altrettante “I”, ovvero: Inserimento, Integrazione e Inclusione.

25

Potrebbero piacerti anche