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RIASSUNTO "I disturbi

dell'apprendimento" di Cesare
Cornoldi
Disturbi dell'Apprendimento
Università degli Studi di
Firenze 116 pag.

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DEFINIZIONI, CRITERI DIAGNOSTICI E CLASSIFICAZIONI

BAMBINI CON BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI (BES), DAS E DISTUBI SPECIFICI


In tutto il mondo, moltissime famiglie sono coinvolte, prima o dopo, nelle problematiche scolastiche
dei propri figli. In ambito istituzionale, si è fatto riferimento a quei bambini che non ce la possono
fare da soli in un normale percorso scolastico, perché presentano bisogni educativi speciali (BES),
un acronimo che indica semplicemente l’esistenza di un bisogno, ma che talvolta è stato associato
erroneamente a una diagnosi. Molte sono le ragioni per cui uno studente può fallire a scuola e molti
sono i profili sottostanti:
1. CONDIZIONI DI HANDICAP = mentale, sensoriale visivo, sensoriale uditivo, multiplo (1-
1.2%)
2. DISTURBO SPECIFICO DI APPRENDIMENTO = definito dalla Legge 170/2010 (2.5-4%)
3. DISTURBI SPECIFICI COLLEGATI = disturbo di attenzione e/o iperattività (ADHD) e altre
problematiche evolutive severe (autismo ad alto funzionamento, disturbi del
comportamento, problematiche emotive gravi, ecc.) (2-4%)
4. FUNZIONAMENTO INTELLETTIVO LIMITE = circa il 10% se si considera semplicemente
il riferimento descrittivo al QI totale e all’adattamento, presumibilmente 1% se si fa
riferimento a un profilo diagnostico
5. SVANTAGGIO SOCIO-CULTURALE GRAVE = condizioni di deprivazione precoce,
appartenenza a gruppi svantaggiati e/o stranieri (percentuale variabile a seconda dei contesti
sociali)
6. DIFFICOLTA’ SCOLASTICHE IN ALTRE AREE RILEVANTI = quali comprensione del
testo, espressione scritta e apprendimento matematico (considerati veri e propri DSA in
molti paesi del mondo, ma non in Italia), lingua straniera, apprendimenti non-verbali, abilità
trasversali di studio, ecc. (5%)
Questo libro si occupa della seconda categoria, ovvero quella del disturbo specifico di
apprendimento e della sesta categoria, cioè le difficoltà scolastiche in aree rilevanti, ma toccherà
anche le altre categorie per alcune ragioni importanti:
1. Non sempre i confini tra una categoria e l’altra sono evidenti
2. Un’altra problematica può essere compresente senza la possibilità di stabilire in modo
inequivocabile che l’una è la conseguenza dell’altra
3. Vi sono problematiche che, pur essendo in linea di principio distinguibili dal vero e proprio
DSA, ne condividono alcune caratteristiche al punto che anche per esse si è parlato di
disturbo di apprendimento
4. Procedure diagnostiche e strategie di intervento possono essere simili indipendentemente dal
fatto che le eziologie sono differenti
5. Sono tenuti i confini fra i classici disturbi specifici di apprendimento (dislessia, disortografia
e discalculia) e altri disturbi (disgrafia, difficoltà severe nella comprensione del testo,
nell’espressione scritta, nel ragionamento matematico) al punto che vari sistemi includono
l’uno o le altre all’interno dei DSA

LA CARATTERIZZAZIONE DEL DSA E IL DOCUMENTO CONSENSUS


LEARNING DISABILITY (LD)  viene presentata per la prima volta da Hammill nel 1990. Si
riferisce a un gruppo eterogeneo di disturbi manifestati da significative difficoltà nell’acquisizione e
nell’uso di abilità di ascolto, espressione orale, lettura, ragionamento e matematica,
presumibilmente dovuti a disfunzioni nel sistema nervoso centrale. Possono coesistere con la LD,
problemi nei comportamenti di autoregolazione, nella percezione sociale e nell’interazione sociale,
ma non costituiscono di per sé una LD. Le learning disabilities possono verificarsi in concomitanza
con altri

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fattori di handicap o con influenze estrinseche (culturali, d’istruzione, ecc.) ma non sono il risultato
di quelle condizioni o influenze.
In sintesi, tale definizione faceva riferimento a una categoria che veniva a raccogliere una gamma
diversificata di problematiche nello sviluppo cognitivo e nell’apprendimento scolastico, non
imputabili primariamente a fattori di handicap mentale grave e definibili in base al mancato
raggiungimento di criteri attesi di apprendimento rispetto alle potenzialità generali del soggetto.
Per quanto concerne il contesto italiano, nel 2007 sono state rese disponibili le Raccomandazioni
per la pratica clinica sui Disturbi Specifici dell’Apprendimento elaborate con il metodo della
Consensus Conference. Si ribadiva che la principale caratteristica per la definizione di questa
“categoria nosografica” è quella della “specificità”, con riferimento al fatto che il disturbo interessa
uno specifico dominio di abilità in modo significativo ma circoscritto, lasciando intatto il
funzionamento intellettivo generale. Il criterio per stabilire la diagnosi di DSA era quella della
discrepanza tra abilità nel dominio specifico interessato e l’intelligenza generale.
Da ciò derivavano fondamentali implicazioni sul piano diagnostico:
1. Necessità di usare test standardizzati, sia per misurare l’intelligenza generale sia l’abilità
specifica
2. Necessità di escludere la presenza di altre condizioni che potrebbero influenzare i risultati di
questi test, come a) menomazioni sensoriali e neurologiche gravi, disturbi significativi della
sfera emotiva; b) situazioni ambientali di svantaggio socio-culturale che possono interferire
con un’adeguata istruzione
La Consensus aveva rilevato un sostanziale accordo sul fatto che:
1. La compromissione dell’abilità specifica deve essere significativa, operazionalizzabile nei
termini di una prestazione inferiore a -2ds
2. Il livello intellettivo deve essere nei limiti della norma, che operazionalizzato veniva inteso
nei termini di un quoziente intellettivo (QI) totale non inferiore a -1ds (equivalente a un
valore di 85 rispetto ai valori medi attesi per l’età)
Tale documento faceva riferimento anche ad altre caratteristiche critiche dei DSA condivise dalla
comunità scientifica, tra cui:
1. Il carattere “evolutivo” di questi disturbi
2. La diversa espressività del disturbo nelle diverse fasi evolutive dell’abilità in questione
3. La comorbilità
4. Le origini neurobiologiche delle anomalie processuali dei DSA che interagiscono
attivamente nella determinazione della comparsa del disturbo, con i fattori ambientali
5. Il fatto che il disturbo specifico debba comportare un impatto significativo negativo per
l’adattamento scolastico e/o per le attività della vita quotidiana

LO SVILUPPO DELLA RICERCA NEL CAMPO


Secondo Doris (1986), il primo caso descritto di DSA sarebbe contenuto in un lavoro di Filostrato,
il quale scriveva delle difficoltà nella lettura incontrate dal figlio di Erode il Sofista. Per aiutarlo, il
padre avrebbe associato le ventiquattro lettere dell’alfabeto a ventiquattro schiavi, rendendo quindi
le lettere più facilmente discriminabili.
C’è oggi la grande differenza rappresentata dal passaggio per cui la “scuola per pochi” è diventata la
“scuola per tutti” e quindi alunni, una volta inclusi in una generica categoria di “quelli che non
riescono” ed esclusi presto dalla scuola, oggi sono invece oggetto di considerazione, tutela e aiuto.
I contributi di Ponce De Leon, Willis, Frobel, Pestalozzi, Montessori e molti altri hanno
sicuramente influenzato il lavoro educativo con i disturbi dell’apprendimento. Bollea (1970)
osservava che si possono rintracciare due filoni, a seconda che si pensi a un danno giudicato
irreversibile o a una “disarmonia strumentale e perciò teoricamente recuperabile”. Questo secondo
filone, per esempio, sarebbe stato rappresentato da Itard e Seguin, uno illuminista e l’altro
cattolico- sociale; uno parla di enfant sauvage e l’altro utilizza il metodo fisiologico. Antonio
Provolo (1840) ha raggiunto risultati concreti significativi. Alcuni religiosi, come ad esempio,
Cottolengo e Bosco, si caratterizzarono per l’impegno e le proposte educative per soggetti in
difficoltà. In epoche più recenti, alcune organizzazione religiose come La Nostra Famiglia, don
Calabria, don Guanella, Oasi hanno lavorato nel campo delle difficoltà di apprendimento.
Tradizionalmente la nascita in Italia della pedagogia speciale, cioè mirata a bambini con BES, è
collocata alla fine dell’Ottocento e associata all’opera di De Sanctis, Montesano e Montessori. De
Sanctis non solo si occupò di disabilità intellettiva grave, ma anche di bambini con ritardo lieve,
disturbi specifici dell’apprendimento, svantaggio socio-culturale. Montesano diede il via alla prima
scuola magistrale ortofrenica. Maria Montessori aveva promosso un esteso programma di
educazione di bambini con difficoltà di apprendimento, portando alcuni idioti ricoverati in
manicomio a leggere e scrivere. Nel 1907, diede vita a Roma a un’iniziativa per bambini di povere
condizioni chiamata Casa dei bambini.
Le prime puntuali descrizioni di dislessie specifiche risalgono invece all’ambiente medico
britannico della fine dell’Ottocento. Orton (1937) si era occupato di disturbi di lettura già a partire
dagli anni ‘20 del Novecento.
Dal punto di vista riabilitativo, l’accento veniva comunque posto sugli aspetti costitutivi dell’attività
del leggere. Con gli anni ’40 del XX secolo, si era invece osservato un progressivo spostamento
dell’attenzione diagnostica e riabilitativa sulle “abilità di base” anche in relazione a una
caratterizzazione dei disturbi dell’apprendimento all’interno della sindrome di “disfunzione
cerebrale minima”.
A partire da Strauss si svilupparono, con diversi autori come Cruickshank, Kephart, Frostig,
Kirk, Zazzo e De Ajuriaguerra, approcci di diagnosi-trattamento che insistevano sull’esame di
abilità soprattutto percettive e motorie, prima, linguistiche, poi, come fattori da un lato per sé stessi
critici, dall’altro sottostanti alle difficoltà di lettura, scrittura, calcolo, comportamento, manifestate
dai bambini.
Negli ultimi dieci anni, si sta tornando a un’attenzione alle abilità cognitive deficitarie per la diagnosi
e per lo stesso intervento.
La prima definizione che faccia esplicito riferimento al termine di learning disability fu proposta da
Kirk nel 1962. A livello pubblico, la prima definizione importante di DSA era stata data nel report
annuale del gennaio 1968 del National Advisory Committee on Handicapped Children. Nello
stesso anno, nasceva la rivista scientifica più importante del settore e cioè il Journal of Learning
Disabilities. Nel 1969, la legge USA 91/230 includeva il Children with Specific Learning
Disabilities Act.
In Italia, l’ambito legislativo ha avuto ritardi e ondeggiamenti, ma ricerca e pubblicazioni teoriche e
pratiche sono state attive sin dagli anni ’70. Un momento particolarmente delicato
nell’organizzazione delle nostre istituzioni educative fu costituito dalla creazione e dall’immediato
fallimento di “classi speciali”, per l’handicap, e di “classi differenziali” ove avrebbero di fatto
dovuto trovar posto anche i bambini con disturbi specifici. Ma la marea montante della critica alle
istituzioni educative degli anni successivi al 1968 non poteva certo lasciar passare indenne l’istituto
discriminatorio delle classi differenziali, spazzate via insieme a larga parte delle classi speciali
destinate a soggetti portatori di handicap gravi, a favore dell’inserimento nelle classi normali.
A fianco di una filosofia inclusiva che riconosce le differenze, ma ritiene che esse non debbano
portare a una segregazione, si svilupparono però anche filosofie che negavano addirittura l’esistenza
o il valore informativo delle categorie diagnostiche.
In Italia, nel frattempo, erano state create figure apposite di insegnanti di sostegno per il soggetto
con difficoltà inserito e venivano quindi trasformate le vecchie e gloriose scuole ortofreniche cui
erano
affiancate, con una certa approssimazione e improvvisazione, nuove rabberciate scuole biennali per
la formazione di insegnanti specializzati.
Venne anche affrontato il problema di tradurre l’espressione learning disability e si optò per
disturbo (specifico) di apprendimento (che poi è stato abbreviato spesso con l’acronimo DSA). La
scelta di riferirsi al problema anziché al soggetto sembrava opportuna perché evitava il pericolo di
una patologizzazione del bambino in toto e che il termine più appropriato era quello di disturbo.

EVOLUZIONI RECENTI, LEGGE 170 E COMPARSA DI DSM-5 E ICD-11


Con gli anni 2000, il campo dei disturbi dell’apprendimento ha visto in Italia, una crescita
esponenziale, con l’istituzione di numerosi corsi e percorsi universitari, anche post-laurea, nella
forma di corsi di perfezionamento o master e lo sviluppo di una ricca e significativa ricerca e di una
massiccia pubblicazione di strumenti. La Consensus cominciò a cogliere l’idea di provvedimenti
dispensativi o compensativi. Nel 2010 questa sensibilizzazione portò alla promulgazione di una
legge specificatamente dedicata ai DSA (la Legge 170).
La direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012 ha affermato che “è bene precisare che alcune
tipologie di disturbi, non esplicitati nella Legge 170/2010, danno diritto a usufruire delle stesse
misure ivi previste in quanto presentano problematiche specifiche in presenza di competenze
intellettive nella norma” e ha definito la suddivisione delle casistiche che presentano bisogni
educativi speciali precisando che sono comprese tre grandi sottocategorie:
1. DISABILITA’ GENERALE = come nel caso della maggioranza dei portatori della sindrome
di Down (Legge 104/92)
2. DISTURBI EVOLUTIVI SPECIFICI = disturbi specifici dell’apprendimento (DSA, Legge
170/2010), disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività (ADHD), disturbi dell’area
linguistica (disturbi specifici del linguaggio o bassa intelligenza verbale, disturbo di
comprensione del testo), disturbi nell’area non-verbale (disturbo di coordinazione motoria,
disturbo non-verbale, disprassia o bassa intelligenza non-verbale), disturbo dello spettro
autistico lieve, funzionamento intellettivo limite (FIL, Legge 104/92)
3. SVANTAGGIO SOCIOECONOMICO, LINGUISTICO E CULTURALE
Le edizioni più recenti dei manuali diagnostici sono il DSM-5 (2015) rilasciato dall’APA e l’ICD-
11 (2018) rilasciato dall’OMS. Il DSM-5 ha introdotto l’elemento di novità di fondere in un’unica
categoria, chiamata specific learning disorder, problemi che precedentemente erano stati distinti e
cioè i vari tipi di DSA, in base all’osservazione che essi condividono:
1. Antecedenti genetici
2. Fattori eziologici pre e perinatali
3. Storie psicopatologiche precoci
Il DSM-5 usa quindi una categoria allargata per essere sicuri di non lasciarsi sfuggire casi
significativi, ma si avvale degli specificatori per l’identificazione del problema principale anche al
fine di individuare l’intervento più appropriato. I sintomi che riporta nella categoria 315.00 devono
persistere per almeno 6 mesi e comprendono:
1. Lettura delle parole inaccurata o lenta e faticosa
2. Difficoltà a capire il significato di ciò che si legge
3. Difficoltà nella sillabazione o spelling delle parole
4. Difficoltà nell’espressione scritta
5. Difficoltà nel maneggiare il senso dei numeri, i fattori numerici o il calcolo
6. Difficoltà nel ragionamento matematico
L’ICD-11 ha invece mantenuto la distinzione fra i precedenti disturbi e, inoltre, mantiene esplicito il
principio della “discrepanza” e non esplicita invece l’aspetto della resistenza all’intervento.
I CRITERI E I PROBLEMI MISURATIVI ASSOCIATI
Le Raccomandazioni per la pratica clinica sui DSA della Consensus Conference fissavano come
criterio per la diagnosi di disturbo una deviazione di almeno 2 deviazioni standard o la prestazione
al di sotto del 5° percentile, in assenza di deficit intellettivo (QI almeno di 85). Questo principio
prende il nome di deviazione rispetto al proprio gruppo di riferimento. Non si tratta tuttavia
dell’unico principio utilizzabile per definire un valore (cut-off) al di là del quale il problema si
considera rilevante. Vediamo altri principi:
1. DEVIAZIONE RISPETTO AL PROPRIO GRUPPO DI RIFERIMENTO = ove il gruppo di
riferimento viene di solito considerato quello dei bambini che hanno usufruito di simili
stimolazioni educative e quindi il gruppo di bambini della propria classe
2. RITARDO RISPETTO ALLA PROPRIA FASCIA SCOLASTICA = ad esempio, viene in
questo modo identificato come DSA un bambino che presenta un livello di apprendimento
comparabile a quello di bambini di una fascia scolastica inferiore di 18 (scuola primaria) o
24 mesi (scuola secondaria) e che non rientra nei criteri di esclusione
3. DISCREPANZA FRA UN PUNTEGGIO DI ABILITA’ INTELLETTIVA E UN PUNTEGGIO
DI APPRENDIMENTO = per questo criterio verrà per esempio identificato come DSA un
bambino che si colloca a un percentile medio (al 50°) in un test di intelligenza e al 5° in un
test di lettura, o usando i riferimenti standardizzati, con un QI di 100 e un punteggio in
lettura di 2 ds sotto la media, ma potrà essere identificato come DSA anche un bambino con
un QI di 115 o al 70° percentile e una prestazione di lettura con deviazione standard sotto la
media o al 15° percentile
Il criterio della discrepanza è stato spesso criticato per una serie di ragioni e in particolare per il
riferimento diretto all’uso dei test di intelligenza. È importante essere cauti con l’uso dei criteri di
discrepanza.
Il Council for Learning Disabilities (1986) ha messo a fuoco otto ragioni fondamentali per cui le
misure di discrepanza non dovrebbero essere utilizzate. Faceva riferimento alla scarsa sicurezza
offerta da certe misure, all’uso del solo QI totale, al rischio di lasciarsi sfuggire casi rilevanti solo
perché il QI totale era basso.
Le formule che si basano sulla discrepanza intelligenza-apprendimento ignorano alcuni fondamentali
problemi d’ordine teorico, metodologico e operativo:
1. Dal punto di vista teorico, esse presuppongono chiare definizioni di intelligenza e fanno
generalmente riferimento a un’ampiamente discussa teoria unitaria dell’intelligenza
2. Dal punto di vista operativo, il principio di discrepanza assume la completa indipendenza
fra intelligenza e apprendimento mentre molte teorie e test fanno riferimento chiaramente a
componenti intellettive in cui l’apprendimento gioca un ruolo fondamentale
3. Dal punto di vista metodologico, il significato della differenza fra due punteggi dipende
dall’attendibilità dei due test, dall’ampiezza delle loro deviazioni standard, dal grado di
correlazione fra i due test e dalle differenze fra i due gruppi di standardizzazione
Una valutazione delle esigenze educative suggerirebbe pertanto di riconoscere l’esistenza di una
difficoltà in base al reale bisogno che il bambino presenta.
Nel 1981, alcuni studiosi avevano in particolare distinto tra quattro diversi livelli di prestazione:
ottimale, sufficiente rispetto al criterio, di richiesta di attenzione, di richiesta di intervento
immediato. I due ultimi livelli, inferiori rispetto al criterio, dovrebbero implicare un riferimento a
gradi diversi di severità del problema e scelte operative caratterizzate da una minore o maggiore
urgenza. A partire dal 2014, tali fasce di prestazione sono state lasciate solo per la scuola, mentre
per la clinica i criteri corrispondono ai percentili.
Il cut-off che distingue la cosiddetta patologia dalla cosiddetta normalità separa casi contigui che
non divergono in misura radicale. Questa osservazione ha portato molti studiosi a ritenere che le
caratteristiche di soggetti con disturbo grave non divergano qualitativamente da quelli con disturbo
lieve né, in un certo senso, da soggetti senza disturbo.

DATI EPIDEMIOLOGICI RELATIVI AI DSA E AGLI ALTRI DISTURBI DEL NEUROSVILUPPO


Va aggiunto che la definizione di un criterio predefinisce la percentuale di casi che possono essere
interessati da un problema. Una nota delle Nazioni Unite riportava che non più di 10-15 nazioni al
mondo erano in grado di fornire statistiche nazionali sulle varie disabilità, senza compiere un errore
almeno del 50% rispetto al valore indicato. A questo proposito l’OMS ha proposto di distinguere
tra:
1. MINORAZIONE = quale il danno organico
2. DISABILITY = sua conseguenza funzionale
3. HANDICAP = svantaggio della persona in relazione alla sua minorazione e disability
Questo non toglie che molta variabilità esista nell’uso della diagnosi di DSA. Le differenze
regionali sono ancora più vistose in Italia e, in questo caso, non solo per l’uso differenziato dei
criteri diagnostici, ma anche per una diversa sensibilità al problema.
Un risultato sorprendente di un’indagine condotta da Barbiero nel 2012 è che più della metà dei
bambini identificati, pur essendo arrivati in 4° elementare non aveva ricevuto alcuna diagnosi, il che
ha fatto parlare gli autori di iceberg della dislessia, un problema in buona parte sommerso.
Relativamente alle diagnosi di DSA segnalate nelle scuole, il ministero interessato (MIUR) ha
riportato che, per l’anno scolastico 2016/2017, gli alunni diagnosticati rappresentavano il 2.9% della
popolazione scolastica con una percentuale cresciuta clamorosamente e con impressionante
regolarità dall’anno scolastico 2010/2011. Dei casi diagnosticati 139.620 avevano una menzione di
dislessia, mentre 57.259 per disgrafia, 68.421 per disortografia, 62.877 per la discalculia. La
diagnosi di DSA interessa circa il 5% della popolazione scolastica delle regioni italiane nord-
occidentali, ma solo l’1% delle regioni più meridionali (nord-ovest 4.5%; centro e nord-est 3.5%;
sud 1.4%).
Per quanto concerne l’età della prima diagnosi, si è rilevato che già in seconda elementare alcuni
bambini (15%) ricevono la diagnosi, che ha comunque il suo picco in terza (21%) e quindi declina
lentamente nelle classi successive (dal 16 al 5%).
Un altro elemento di discussione riguarda la differente incidenza di maschi e femmine. Eventuali
differenze di genere nel caso dei DSA sono state spiegate sia con riferimento a fattori biologici,
come le differenze nella lateralizzazione cerebrale, sia in riferimento a fattori ambientali.

CLASSIFICAZIONE DEI DISTURBI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO


Attualmente i servizi pubblici italiani fanno riferimento, per la diagnosi di DSA e degli altri disturbi
del neurosviluppo, al sistema ICD che ritiene che la più appropriata classificazione debba
distinguere fra disturbi di lettura, scrittura e calcolo. L’espressione spelling disorder è stata tradotta
con “disturbo della compitazione”, ma in Italia si preferisce disturbo della competenza
ortografica o disgrafia. Nei primi apprendimenti, hanno particolare rilevanza i problemi
manifestati nelle abilità strumentali fondamentali di lettura, scrittura e calcolo. In questo modo non
si è tenuto conto del fatto che più avanti il focus dell’insegnamento si sposta su apprendimenti più
complessi della comprensione del testo, dell’apprendimento della lingua straniera, del ragionamento
matematico e dell’acquisizione dei concetti e quindi è ad essi che va rivolta la maggiore attenzione.
Classificazione dei disturbi dell’apprendimento nel DSM-5 e nell’ICD-11:
ICD-11 DMS-5
Disturbo specifico dell’articolazione Disturbo della fonazione
Disturbo del linguaggio espressivo Disturbo di sviluppo del linguaggio espressivo
Disturbo della comprensione del linguaggio Disturbo misto dell’espressione e della ricezione
del linguaggio
Disturbo specifico della lettura Disturbo di sviluppo della lettura
Disturbo specifico dello spelling Disturbo dell’espressione scritta
Disturbo specifico delle abilità aritmetiche Disturbo di sviluppo del calcolo
Disturbo evolutivo specifico della funzione Disturbo di sviluppo della coordinazione
motoria
Disturbo dell’attività e dell’attenzione Disturbo da deficit di attenzione e iperattività:
combinato con disattenzione e predominante
con iperattività-impulsività
Disordine della condotta ipercinetica
DISTURBO DELL’APPRENDIMENTO  si pensa che tale termine sia un’espressione-
ombrello che raccoglie una gamma diversificata di problematiche definibili in base al mancato
raggiungimento di taluni obiettivi di apprendimento che all’interno del contesto in cui il bambino
vive sono considerati essenziali.
L’obiettivo della ricerca sulla classificazione è quello di sviluppare una serie di criteri oggettivi in
base ai quali i soggetti possano essere esaminati in gruppi omogenei. Per Fletcher e Morris, una
classificazione nel campo dei disturbi dell’apprendimento può basarsi su tre criteri:
1. Prestazione scolastica
2. Analisi dei processi
3. Esame dello sviluppo
Di fatto, possiamo distinguere tre tipi fondamentali legati all’apprendimento scolastico, tre tipi legati
al linguaggio e il disturbo di sviluppo della coordinazione motoria:
1. APPRENDIMENTO SCOLASTICO = comprende:
 Calcolo
 Scrittura
 Lettura
2. LINGUAGGIO = comprende:
 Articolazione
 Espressione
 Ricezione
 Disturbi dell’eloquio
3. DISTURBO DI SVILUPPO DELLA COORDINAZIONE MOTORIA
Va tenuto presente come molti problemi si presentino associati, o in concomitanza o in successione.

DISTURBI DEL NEUROSVILUPPO E STRUTTURE INTELLETTIVE


In Italia, associamo i disturbi del neurosviluppo a un nostro sistema che, in primo luogo, tiene conto
della natura delle operazioni richieste dall’apprendimento interessato, ovvero della minore o
maggiore relazione con le strutture centrali dell’intelligenza e, in secondo luogo, in accordo con le
classiche teorie della differenziazione cognitiva, tiene conto della distinzione fra i contenuti di
informazione che devono essere elaborati.
MODELLO A CONO DELL’INTELLIGENZA  Cornoldi, 2007. Gli apprendimenti possono
essere distinti, sul piano definito dal continuum orizzontale, fra quelli che implicano
prevalentemente a) abilità linguistiche, b) abilità matematiche, c) abilità visuospaziali; sul piano
verticale del controllo fra quelli che implicano a) processi a basso controllo e maggiormente
automatizzabili (decodifica, ortografia, calcolo, visualizzazione) e quelli che implicano b) processi
ad alto controllo (comprensione del testo, espressione scritta, soluzione di problemi ed elaborazione
attiva di immagini). Il sistema di classificazione attribuisce una particolare importanza ai disturbi
nei processi visuospaziali che implicano difficoltà di apprendimento non solo in aspetti
prevalentemente visuospaziali (disegno e geometria) ma anche nelle aree classiche di lettura,
scrittura e matematica, quando però sia richiesta l’elaborazione di informazione visuospaziale.
LE COMPONENTI DELL’INTELLIGENZA  gli apprendimenti fanno parte del complesso
delle abilità intellettive e sono il risultato dell’interazione delle abilità di base con l’esperienza, la
motivazione e la metacognizione. Nei DSA il livello di controllo massimo non è toccato in modo
specifico, mentre al contrario nelle disabilità intellettive sono le abilità al livello del massimo
controllo a essere soprattutto implicate.
DISTURBO DELLA COORDINAZIONE MOTORIA  viene usato per descrivere un bambino
che ha un ritardo nelle capacità motorie, o difficoltà di coordinamento dei movimenti fini e grosso-
motori, nella realizzazione di sequenze motorie finalizzate e/o coordinate e nelle attività grafiche.
Torgesen e Houck (1980) sostenevano che esistono specifici casi di disturbi dell’apprendimento,
differenziabili da altri sottogruppi, che si caratterizzano per difficoltà nella memoria sequenziale.
Una classificazione simile è stata proposta da Das (1975) che faceva una distinzione tra problemi
nell’elaborazione successiva e problemi nell’elaborazione simultanea. Kail e Leonard (1986)
individuavano a loro volta un sottotipo di disturbo che si caratterizza per problemi linguistici che
non hanno a che fare con problemi di oblio e di memoria a breve termine.

PROFILO COGNITIVO E NEUROPSICOLOGICO NELLE DIFFICOLTA’ DI APPRENDIMENTO


L’attenzione ai problemi relativi agli apprendimenti scolastici veri e propri può portare a trascurare
la considerazione di problemi di sviluppo cognitivo e neuropsicologico che compaiono ben prima
della scolarizzazione. Tali disturbi hanno origini remote che possono essere associate a fattori innati
o ambientali, ma legati a fattori biologici o ad aspetti psicologici comparsi nei primi anni di vita. Lo
sviluppo della lateralizzazione si delinea sui 3-4 anni e si stabilizza a 5-7 anni.
Comuni problemi neuropsicologici segnalati tradizionalmente per i disturbi dell’apprendimento
riguardano il linguaggio, il coordinamento visuo-motorio, l’organizzazione spazio-temporale, il
pensiero, la memoria e l’attenzione. Nel 1980, Cornoldi assumeva che distinti deficit di memoria
potessero essere evidenziati in base alle seguenti dicotomie:
1. Verbale vs non verbale
2. Rievocazione vs riconoscimento
3. Sequenziale vs simultaneo
4. Episodico vs semantico
5. Di breve vs di lungo termine
6. Semplice vs complesso
MODELLO CLASSICO DEI KIRK  di Kirk e Kirk (1971); si basava sul riconoscimento delle
seguenti abilità: ricezione uditiva, ricezione visiva, associazione uditiva, associazione visiva,
espressione verbale, espressione manuale, completamente grammaticale, completamento visivo,
memoria sequenziale uditiva, memoria sequenziale visiva, completamento uditivo e fusione di
suoni. I diffusi profili intraindividuali costituivano riprova dell’esistenza di tipologie differenti di
bambini in difficoltà.
IPOTESI STRENGHTS AND WEAKNESSES  secondo cui molti bambini con disturbi del
neurosviluppo si caratterizzerebbero per punti di forza e punti di debolezza marcati.
La WISC-IV può mettere in luce come i bambini con DSA abbiano la tipica caratteristica di avere
più elevate abilità processuali di memoria di lavoro, di velocità e di elaborazione. Memoria di
lavoro e velocità di elaborazione sembrano dunque essere aspetti deboli del DSA.
FUNZIONI ESECUTIVE  il concetto si riferisce a una serie di processi altamente controllati e
attentivi riconducibili prevalentemente all’attività delle aree prefrontali del cervello. Queste
funzioni non nascono dalla riflessione su un unico e ben precisato meccanismo cognitivo, ma sono
abbastanza eterogenee. Comprendo per esempio la soluzione di problemi, la pianificazione, la
categorizzazione, la flessibilità e la fluenza. I processi attentivi sembrano rivestire un importante
parte nei DSA e in disturbi connessi.
MEMORIA DI LAVORO  secondo Baddeley (1986) è un sistema utilizzato in una varietà di
compiti della vita quotidiana che richiedono il mantenimento temporaneo delle informazioni. Il loop
articolatorio è, ad esempio, impegnato nella lettura, nel calcolo, nella produzione linguistica per cui
eventuali deficit nella componente provocano disturbi di apprendimento in lettura e nel linguaggio.
La memoria di lavoro visuospaziale appare critica nei disturbi visuospaziali e gioco un importante
ruolo negli apprendimenti matematici. Il riferimento alla memoria di lavoro fonologica ha alcune
relazioni con l’idea che il successo di lettura sia largamente influenzato dalla cosiddetta
“consapevolezza fonologica” intesa come “comprensione della struttura linguistica interna alle
parole”.
Un altro aspetto che ha assunto notevole rilevanza è costituito dal ruolo esercitato dalle strategie e
dalla metacognizione nel soggetto con disturbi di apprendimento.
È infine indubbio che lo sviluppo cognitivo e buona parte degli apprendimenti si basano
sull’esecuzione veloce di una varietà di processi che si susseguono e/o si integrano. L’assunzione
che l’efficienza nell’esecuzione di tutti questi processi sia legata a un unico meccanismo si oppone
all’idea pure diffusa per cui ciascuno processo si presenta in un individuo una sua specifica
efficienza e velocità di esecuzione.

TEORIA DELL’INTELLIGENZA E DELLA DIFFERENZIAZIONE PSICOLOGICA


Il modello a cono ci dice che gli apprendimenti fanno parte dell’intelligenza, ma ne costituiscono
componenti a diverso livello di centralità e quindi anche a diverso livello di specificità. Vediamo
alcune teorie dell’intelligenza:
1. TEORIA PIAGETIANA = ha trovato numerose applicazioni per la comprensione della
disabilità intellettiva e dell’apprendimento matematico
2. TEORIA DELLE COMPONENTI = un altro celebre teorico dell’intelligenza, Sternberg
(1987) ha fornito spunti utili per la classificazione dei DSA. La sua teoria si riferisce alle
relazioni tra intelligenza e il mondo interno o mentale di un individuo e specifica tre tipi di
componenti:
 Metacomponenti: riguardano il funzionamento di un sistema esecutivo centrale di
pianificazione e diversificano i soggetti normali da quelli con disabilità intellettiva o
grande talento generalizzato
 Componenti di prestazione: sono utilizzate nell’esecuzione di varie strategie richieste
nell’azione concreta specifica e si organizzano in fasi di soluzione del compito; sono
deficitarie nella disabilità intellettiva
 Componenti di acquisizione di conoscenza: sono invece processi usati nell’acquisire
nuova conoscenza
3. MODELLO MODULARE = è un modello di funzionamento mentale teorizzato da Fodor
(1988). È un modello in base al quale si assume, oltre a un sistema centrale non modulare,
l’esistenza di sistemi cognitivi di elaborazione dell’input, chiamati moduli, fra loro
perfettamente indipendenti. Tali moduli si caratterizzano per il fatto di interessare un singolo
dominio cognitivo, di essere predeterminati geneticamente, di avere una ben precisa struttura
neurologica, di non essere il risultato della composizione di abilità più semplici, di essere
autonomi, di dare avvio automatico e completo all’elaborazione dell’informazione che li
riguarda, di avere uscite poco profonde, di avere specifiche caratteristiche evolutive, di non
consentire all’informazione elaborata contatti con altri sistemi. L’obiettivo dell’indagine
neuropsicologica a ispirazione modulare è stato quello di identificare i moduli non
funzionanti, ovvero le dissociazioni fra sistemi integri e sistemi deficitari
L’idea di multicausazione ha trovato crescente supporto, e si è idealmente contrapposta all’idea
dell’esistenza di un core deficit, ovvero di un deficit critico che starebbe alla base del disturbo, in
particolare un deficit di tipo fonologico nella dislessia, del senso del numero nella discalculia, delle
funzioni esecutive nell’ADHD, della teoria della mente nell’autismo, della memoria di lavoro
visuospaziale nel disturbo non-verbale, ecc. Oggi, in particolare per quanto riguarda il DSA, è
sempre più diffusa l’ipotesi multifattoriale.
TRANS-DISORDER  fattori che possono avere un ruolo anche in altri disturbi, determinando
quindi una compresenza di sintomi (comorbidità e comorbilità) e ridimensionando ulteriormente il
concetto di specificità del disturbo.

L’EVOLUZIONE LONGITUDINALE DEI DISTURBI: DAI FATTORI DI RISCHIO PRECOCI AI


PROFILI NELL’ADOLESCENTE E NELL’ADULTO
Un interesse esteso allo sviluppo dei disturbi lungo tutto l’arco di vita ha la conseguenza di offrire
elementi prognostici e di portare maggiore attenzione sui disturbi di apprendimento in adolescenza
o anche in età adulta.
FASCIA PRE-SCOLARE  la storia del settore si è caratterizzata molto presto per progetti
ambiziosi di identificazione e intervento precoce. Badian osservò, in una sua ricerca, che le
caratteristiche che maggiormente differenziavano questo gruppetto da altri studenti “a rischio”
risultati poi senza problemi, riguardavano la storia della nascita, la presenza di disturbi di
apprendimento in famiglia, lo status socio-economico e il ritardo linguistico. I problemi linguistici,
appunto, erano fra i migliori predittori dei disturbi di lettura e scrittura, che inadeguate
rappresentazioni della quantità predicevano il disturbo di calcolo e problemi del temperamento
erano associati alla comparsa di ADHD.
FASE ADOLESCENZIALE  gli strascichi di severi DSA si possono far ancora sentire e
possono entrare in interazione con le problematiche tipiche dell’adolescenza oltre che con le
aumentate richieste della scuola. Dellai e alcuni colleghi (2014) hanno constatato che 33 casi con
DSA riesaminati dopo 7 anni mantenevano le stesse difficoltà con singolari concordanze di
prestazione. Inoltre, le caratteristiche dell’adolescenza fanno pensare che i problemi tendano ad
accentuarsi. In più, le scuole italiane sembrano caratterizzarsi per richieste e sanzioni maggiori
rispetto ad altri paesi del mondo, con la conseguenza di accrescere il disagio psichico e cognitivo,
che è comunque ampiamente diffuso. L’adolescente con disturbi di apprendimento è stato descritto
come un soggetto che apprende passivamente e per il quale l’approccio metacognitivo e
l’insegnamento di strategie attive sono particolarmente utili. Si associano problemi legati alle
richieste tipiche delle scuole secondarie, quale la comprensione di testi complessi, l’espressione
scritta, il metodo di studio, il ragionamento matematico, la capacità di concentrazione e
organizzazione del proprio lavoro intellettuale. Vi sono poi elementi associati di tipo
comportamentale ed emotivo. Il DSA può essere portato a situazioni problematiche gravi, per gli
elementi associati relativi all’insuccesso, al conflitto
e all’esclusione. È opinione diffusa che la probabilità di devianza sociale e delinquenza minorile
siano più che raddoppiate nei soggetti con disturbi di apprendimento. L’insuccesso scolastico è stato
talora il primo passo verso una catena di eventi che hanno portato verso la criminalità. L’insuccesso
appare legato a fattori quali esperienze di rifiuto o di critica, lo sviluppo di un’autoimmagine
negativa e di un atteggiamento critico verso la scuola e le istituzioni, un aumento della frustrazione,
bocciature ed estromissioni dalla carriera scolastica. Va aggiunto che, in molti casi, non è
l’insuccesso di per sé a produrre devianza, ma il profilo psicologico sottostante, causa al tempo
stesso di insuccesso scolastico e di comportamenti problematici.
FASCIA ADULTA  il cardine del disturbo è l’incompleta automatizzazione in lettura, scrittura e
calcolo, manifestati attraverso lentezza e poca accuratezza. La dislessia infatti non viene mai del
tutto compensata. Le maggiori difficoltà associate riguardano la capacità di prendere appunti,
leggere grandi quantità di materiale, comporre testi o progetti, organizzare individualmente l’attività
di studio. Aaron, Phillips e Larsen (1988) ritenevano che personaggi celebri come Edison,
Woodrow Wilson, Andersen e Leonardo da Vinci fossero tutti riconducibili a tipologie di ritardo di
lettura. Le università italiane hanno previsto Servizi d’aiuto per studenti in difficoltà o con vera e
propria disabilità, compresi i DSA. Se le università hanno preso iniziative concrete a favore dei
DSA, meno si può dire per il mondo del lavoro. Però, alcune aziende (chiamate dyslexia friendly)
hanno preso l’iniziativa di tutelare i dipendenti con DSA. Tuttavia gli adulti con DSA possono
incontrare diverse difficoltà nella loro vita, anche per la comparsa associata di altri problemi
emotivi, sociali ed economici, che vengono mitigati da una serie di fattori. Chi ha avuto DSA ha un
lavoro meno remunerato ma non presenta un minor grado di soddisfazione sul lavoro o sul
benessere psicologico. Werner (1993) ha identificato cinque cluster protettivi rappresentati da:
1. Capacità relazionali, resilienza e atteggiamento positivo di fronte alla vita
2. Auto-attribuzioni appropriate e realismo
3. Presenza di genitori adeguati
4. Presenza di un adulto di riferimento che abbia guidato e consigliato il giovane
5. Puntuali opportunità nei momenti di transizione

IL RUOLO DEI FATTORI DI ESCLUSIONE


Una corretta diagnosi richiede che vengano applicati i fattori di esclusione rappresentati dallo
svantaggio socioculturale, da handicap sensoriale o mentale (disabilità intellettiva), dalla carenza di
istruzione e dai disturbi emotivi. Tuttavia, nella pratica clinica quotidiana, questi fattori vanno tenuti
in considerazione:
1. HANDICAP = si fa riferimento a quelli classici, come quelli sensoriali, motori e “mentali”
2. ASPETTI EMOTIVI = tra cui troviamo problemi di comportamento e di adattamento,
disturbi emotivi, problemi di personalità. Bender e Smith (1990) hanno ottenuto una stima
dell’effect size. Nella loro ricerca, i campioni di comportamento sono stati raccolti in
momenti casuali della giornata scolastica del bambino e sono stati classificati in cinque
grandi categorie:
 Comportamenti sul compito (on-task): riferiti a tutti quei casi in cui lo studente mostra
di essere impegnato nel compito proposto o di seguire la spiegazione dell’insegnante
 Comportamenti non sul compito (off-task)
 Comportamenti distruttivi e interferenti sull’attività degli altri
 Comportamenti disattenti
 Comportamenti e stati associabili a problemi di personalità
3. SVANTAGGIO SOCIO-CULTURALE = particolarmente attivo nei disturbi
dell’apprendimento. Infatti vari elementi potenzialmente contribuiscono alla nascita di un
problema o alla sua identificazione: la deprivazione sensoriale e affettiva precoce, la povertà
di stimoli intellettuali, la carena di condizioni ambientali favorevoli, la povertà linguistica, la
differenza culturale e linguistica, la mancanza di sollecitazioni e di attenzioni
all’apprendimento e di aiuto a casa, la scarsa presenza di sussidi e opportunità necessarie, il
cattivo rapporto con la scuola, un particolare atteggiamento della famiglia nei confronti del
problema e di una sua eventuale identificazione. Lo svantaggio è un valore aggiuntivo che
contribuisce ad aumentare la resistenza all’intervento.

IL CASO DEGLI STUDENTI STRANIERI


Una esemplificazione drammatica e straripante delle problematiche dello svantaggio è rappresentata
dagli studenti stranieri. Già vent’anni fa circa, veniva menzionata un’incidenza quasi doppia di
ritardi di lettura, scrittura e matematica nei bambini stranieri, con una percentuale di bocciature
addirittura quasi quattro volte superiore. Il divario tra i tassi di promozione degli allievi stranieri e di
quelli italiani era nel 2003-2004 di -3,36 punti percentuali nella scuola primaria, -7,06 nella
secondaria di I grado, -12,56 nella secondaria di II grado, in cui più di un alunno straniero su quattro
non conseguiva la promozione. Sono state identificate variabili importanti per distinguere tra
soggetti stranieri con e senza difficoltà che sono il numero di anni di permanenza in Italia e di
frequenza della scuola, l’intelligenza non verbale, la lingua usata nella comunicazione con i
famigliari, l’ampiezza del vocabolario. Si è osservato che il numero di errori nella lettura delle non-
parole era simile a quello degli studenti italiani. Gli stranieri utilizzerebbero maggiormente la stessa
modalità di lettura sia per le parole (italiane) sia per le non-parole poiché entrambe le categorie di
stimoli non appartengono al loro lessico. Altre ipotesi testate erano quelle per cui il livello degli
apprendimenti degli alunni stranieri avrebbe dovuto essere influenzato dalla quantità di tempo di
permanenza in Italia e dall’esposizione all’italiano. Solo la seconda di queste è stata confermata.
Duca, Murineddu e Cornoldi, nel 2009, sono arrivati a fornire una tabella-guida per la diagnosi di
DSA o disabilità negli studenti stranieri. È importante ricordare che alcune difficoltà riscontrate
negli studenti stranieri possono essere il semplice risultato di uno svantaggio linguistico, mentre
difficoltà in altre prove possono riflettere la presenza di un vero disturbo. Le difficoltà di
apprendimento sono particolarmente frequenti nei casi di adozione.

L’ASSESSMENT
La valutazione dei DSA e degli altri disturbi del neurosviluppo deve sciogliere il dilemma
rappresentato dalla necessità di trovare un equilibrio fra l’esigenza di una valutazione accurata e
quella di un assessment agile e non eccessivamente costoso.
La procedura tipica di assessment prevede:
1. Un colloquio clinico con la famiglia e l’interessato, con raccolta di elementi anamnestici e la
rilevazione delle criticità e dei punti di forza
2. La raccolta di informazione
3. La valutazione delle abilità interessate dal problema (per esempio, gli apprendimenti nel
caso di sospetto di DSA)
4. La valutazione eventuale del profilo intellettivo
5. Approfondimenti utili in base al profilo emerso ai punti 1-4
COLLOQUIO INIZIALE  è utile che siano presenti entrambi i genitori, per il fatto non solo che
essi possono offrire informazioni complementari, ma anche perché in questo modo vengono
coinvolti entrambi. La prassi alternativa di far parlare liberamente i genitori sembra più utile e
meglio capace di venire incontro alla loro esigenza di esprimere eventuali disagi. Il clinico dovrà
comunque assicurarsi di aver raccolto informazioni sui seguenti aspetti:
 Struttura della famiglia: potrebbe essere una risorsa o al contrario un ulteriore elemento di
difficoltà
 Famigliarità: è ormai ampiamente documentato che i disturbi del neurosviluppo hanno una
forte componente ereditaria
 Problematiche prenatali o perinatali
 Malattie importanti
 Sviluppo neuromotorio e linguistico nei primi anni di vita
 Reazioni ai primi “no” e alle prime frustrazioni
 Elementi emersi durante la frequenza del nido o della scuola per l’infanzia
 Impatto con la scuola primaria e con gli apprendimenti iniziali
 Socializzazione
 Attività pomeridiane strutturate
 Uso del tempo libero
RACCOLTA DI INFORMAZIONI  include documentazioni pregresse, pagelle, quaderni e
altre eventuali produzioni del bambino, riscontri forniti dalla scuola. Nel 2015, Cornoldi ha
standardizzato la Scala indicatori BES, una scala per insegnanti per la rilevazione generale di
bisogni educativi speciali, che include anche una scala basilare di adattamento, e altre scale, spesso
in versione per genitori e per insegnanti.

ABILITA’ DOMINIO-GENERALE E STRUMENTI PER LA VALUTAZIONE COGNITIVO-


NEUROPSICOLOGICA
Vediamo quali sono gli strumenti più utilizzati per la valutazione del bambino a livello cognitivo-
neuropsicologico.
SCALA WISC  è il test più classico nel campo, utile non solo come misura eventuale di
controllo (per escludere un deficit generale e quindi una disabilità intellettiva), ma anche per
esaminare possibili deficit cognitivi sottostanti il DSA. Non è opportuno fare riferimento al QI
totale ottenuto con questa scala, ma all’INDICE DI ABILITA’ GENERALE (IAG), o addirittura
a indici più specifici come l’INDICE DI RAGIONAMENTO PERCETTIVO di intelligenza
non-verbale, se il bambino ha problemi specifici di natura linguistica.
SCALA LEITER-3  esclude prove verbali e non include nel calcolo del QI i punteggi di
memoria, attenzione e velocità, ma è tuttavia una batteria comprensiva di più prove e quindi riduce
il rischio di approssimazione che si incontra quando si usa una sola prova come nel caso delle
MATRICI DI RAVEN, che comunque rimangono un utile strumento qualora non ne siano
disponibili altri per la valutazione intellettiva.
Tutti e quattro i gruppi di DSA si caratterizzano per un punteggio medio attorno o superiore a 100
negli indici di abilità generale e cioè nell’intelligenza verbale (ICV) e nell’intelligenza non-verbale
(IRP) e debolezza nella memoria di lavoro (IML) e nella velocità di elaborazione (IVE).
Quindi, anche la valutazione dell’intelligenza può offrire informazioni su diverse componenti
cognitive del bambino con disturbo del neurosviluppo.
Altre batterie di valutazione neuropsicologica possono essere la NEPSY e la BVN, che includono
prove con discreto rapporto col funzionamento intellettivo. Sono finalizzate alla valutazione di
singoli aspetti e per questo può accadere che di esse siano usate solo una o poche prove.
Per capire meglio, vediamo un esempio di valutazione di una caso di DSA.
La bambina in questione è intellettivamente molto competente, senza le marcate cadute in IML e
ICV che di solito si ritrovano, ma presenta indubbie difficoltà di lettura e scrittura. Le prove
aggiunte in questo caso riguardano l’elaborazione visiva, l’attenzione e alcuni prerequisiti di lettura
e scrittura. La tabella seguente riassume la tipica sintesi valutativa per un caso di DSA:
1. Lettura di brano (Prove MT-3 clinica)
LETTURA 2. Lettura (DDE-2)
3. Prove di abilità di lettura sublessicale
(Dislessia e trattamento sublessicale)
PCR-2/2009:
1. MUSFU 1b – span di sillabe
PREREQUISITI 2. SD 1 – denominazione di oggetti
3. SD 2/1° – denominazione di oggetti
seminascosti
COMPRENSIONE Comprensione (Prove MT-3 clinica)
1. Velocità di scrittura (BVSCO-2)
2. Dettato di brano (BVSCO-2)
SCRITTURA 3. Scrittura (DDO-2)
4. Prova di produzione del testo scritto
(BVSCO-2)
Calcolo individuale (AC-MT 6-11)
1. Calcolo a mente
2. Calcolo scritto
3. Enumerazione all’indietro
4. Dettato di numeri
CALCOLO 5. Recupero di fatti numerici
Carta e matita (AC-MT 6-11)
1. Operazioni scritte
2. Giudizio di numerosità
3. Trasformazione in cifre
4. Ordinamento
Test delle campanelle
ATTENZIONE 1. Campanelle
Attenzione uditiva (BVN 5-11)
1. Attenzione uditiva selettiva
Figura complessa di Rey
ABILITA’ VISUO SPAZIALI 1. Copia
2. Ricordo
VMI
WISC-IV
1. Disegno con i cubi
2. Somiglianze
3. Memoria di cifre
4. Concetti illustrati
FUNZIONAMENTO INTELLETTIVO 5. Cifrario
6. Vocabolario
7. Riordinamento lettere-numeri
8. Ragionamento con le matrici
9. Comprensione
10. Ricerca di simboli

ASPETTI METODOLOGICI DELLA VALUTAZIONE INIZIALE E DEGLI ESITI


DEI TRATTAMENTI
In generale gli strumenti disponibili sono stati oggetto di standardizzazione, ma circolano
tranquillamente anche strumenti privi di riscontro psicometrico.
Evidenziamo di seguito alcuni dei problemi principali di tali strumenti e delle conseguenti cautele
da prendere:
1. Le standardizzazioni italiane avvengono senza un sostegno economico adeguato e quindi si
basano sulla collaborazione di laureandi e sulla buona volontà di volontari con modalità
eterogenee e di somministrazione
2. Per alcuni test, le norme fornite riguardano un campione di standardizzazione non italiano
3. Per test altamente specifici che esaminano singole funzioni è facile che le proprietà
psicometriche siano molto deboli
4. Alcuni specifici test o sub-test contengono un numero molto limitato di item e/o possono
portare a una gamma limitata di punteggi
5. Tradizionalmente, i test di apprendimento si differenziano in distribuzione dai test cognitivo-
neuropsicologici. La distribuzione a J è basata sul fatto che normalmente ci si attende che
molti bambini conseguano un certo obiettivo di apprendimento con la conseguenza che in
molti casi si avvicinano ai punteggi massimi della distribuzione
6. La debolezza degli strumenti rende meno affidabile la valutazione di efficacia degli
interventi, perché una variazione potrebbe essere imputata a effetti casuali delle oscillazioni
dei punteggi, misconoscendo effettivi sostanziali riscontri

RIABILITAZIONE E ABILITAZIONE
RIABILITAZIONE  è un termine tipicamente utilizzato per caratterizzare interventi di carattere
specialistico e differenziarli da interventi non-specialistici, talvolta chiamati di “abilitazione”. È un
processo di soluzione dei problemi e di educazione nel corso del quale si porta una persona a
raggiungere il miglior livello di vita possibile sul piano fisico, funzionale, sociale ed emozionale,
con la minor restrizione possibile delle scelte operative.
La riabilitazione è in relazione con il disturbo e si pone come obiettivi:
1. La promozione dello sviluppo di una competenza non comparsa, rallentata o atipica
2. Il recupero di una competenza funzionale che per ragioni patologiche è andata perduta
3. La possibilità di reperire formule facilitanti e/o alternative
ABILITAZIONE  avrebbe a che fare con lo sviluppo tipico e con l’insieme degli interventi volti
a favorire l’acquisizione e il normale sviluppo e potenziamento di una funzione.
Ecco alcuni elementi che caratterizzano un intervento specialistico:
1. Ancoraggio alla diagnosi
2. Riferimento a un modello di funzionamento e di struttura deficitaria
3. Riferimento a tecniche di intervento per le quali esistano prove di efficacia
4. Progettualità e sistematicità
5. Predefinizione delle procedure criterio per la valutazione dell’efficacia
6. Inclusione nel progetto di tutte le risorse di sistema utili per ridurre il problema
7. Eventuale attenzioni ai risvolti psicologici
Il programma riabilitativo dunque definisce le aree di intervento specifiche, gli obiettivi, i tempi e le
modalità di erogazione degli interventi, gli operatori coinvolti e la verifica degli interventi. In
particolare:
1. Definisce le modalità della presa in carico da parte della struttura riabilitativa
2. Definisce gli interventi specifici durante il periodo di presa in carico
3. Individua e include gli obiettivi da raggiungere previsti nel programma e li aggiorna nel
tempo
4. Definisce modalità e tempi di erogazione delle singole prestazioni previste negli stessi
interventi
5. Definisce le misure di esito appropriate per la valutazione degli interventi
6. Individua i singoli operatori coinvolti negli interventi e ne definisce il relativo impegno
7. Prevede una puntuale verifica periodica con eventuali aggiornamenti durante il periodo di
presa in carico
8. Va interrotto quando il suo effetto non sposta la prognosi naturale del disturbo
La ricerca sull’efficacia dei programmi di intervento nei DSA incontra intoppi difficilmente
superabili, quali la difficoltà a costituire gruppi omogenei, la sostanziale impossibilità di avere
gruppi di controllo, il tipico “rumore” presente e la difficoltà a monitorare quanto avviene nelle
sessioni abilitative. Nell’ambito educativo esiste una gamma svariatissima di soluzioni didattiche
che ancora non sono state oggetto di interesse da parte dei settori riabilitativi.
Quando specifici deficit cognitivi sono stati identificati, il laboratorio è ideale per documentare che
specifiche tecniche conseguenti sono effettivamente in grado di incidere sull’apprendimento.
L’ambito educativo implica specificità di cui inevitabilmente la sperimentazione di laboratorio non
può tenere conto, quali:
1. Le limitazioni amministrative nella selezione dei casi
2. La manipolazione contemporanea di più variabili quando il trattamento è di gruppo
3. Confusione tra gli effetti della classe e del trattamento
4. Attriti
5. Effettiva fedeltà nell’uso della tecnica quando non è possibile seguire fino in fondo il ruolo
esercitato dagli insegnanti o dal riabilitatore
Le ricerche ben controllate richiedono la manipolazione di una o poche variabili e il rigoroso
controllo degli eventi che si verificano durante il trattamento e il periodo che precede la valutazione
dei risultati. Le ricerche di laboratorio sulle tecniche di intervento dimostrano generalmente che la
variabile manipolata ha presumibilmente un rapporto significativo con il disturbo e la capacità di
modifica dello stato di cose, ma non costituiscono un esempio di intervento esaustivo.
Nel 1990, Worrall suggeriva delle linee guida che potessero essere affidate a ogni educatore e
genitore per evitare che venissero ingannati. Queste sono alcune delle caratteristiche generalmente
associate alle tecniche prive di sostanziale fondamento:
1. Appaiono prive di una chiara e logica connessione con il problema che devono trattare
2. Non sono in relazione con teorie scientifiche accreditate
3. Non offrono prove scientifiche della loro efficacia
4. Si presentano come eccessivamente efficaci
5. Dichiarano di curare un’ampia gamma di malattie le più disparate
6. Si presentano con un’enfasi scarsamente scientifica, usando espressioni come “completo”,
“immediato”, “stupefacente”, “esclusivo”

L’OGGETTO DEL TRATTAMENTO RIABILITATIVO


La logica più diffusa nell’intervento sui DSA è quella del training centrato sul deficit, perché
suggerisce di promuovere l’acquisizione del meccanismo deficitario. Il training può abilitare il
bambino nell’uso del meccanismo promuovendo processi meno consueti, ma funzionalmente
equivalenti.
Il setting (ri)abilitativo è spesso strettamente individuale e rischia da un lato di non riconoscere il
ruolo di fattori ambientali, dall’altro di non utilizzare potenti variabili di carattere sociale e
soprattutto interattivo. Queste sono alcune delle ragioni per cui il coinvolgimento di realtà esterne,
la creazione di occasioni di apprendimento sociale e collaborativo possono portare a ottimi risultati.
Si caratterizzano cinque tipi di interventi:
1. INTERVENTI SULLA PRESTAZIONE = sono volti a migliorare o a rafforzare la didattica
per l’insegnamento della competenza deficitaria, in base al principio “di più della stessa
cosa”. molte tecniche di ispirazione comportamentista si fondano sulla formulazione di
obiettivi di
prestazione che spesso si identificano con gli apprendimenti mancati e studiano le strategie
più adeguate per raggiungerli. Tra queste tecniche comportamentali, troviamo:
 Shaping (modellaggio): rinforzo di tutti i comportamenti che segnalano
l’avvicinamento al comportamento-meta
 Prompting: aiuti gestuali, visivi, verbali, fisici
 Fading (attenuazione): riduzione graduale di un aiuto
 Modeling (modellamento): usare l’adulto come modello
 Errorless learning (apprendimento senza errori) : creazione delle condizioni per cui il
bambino viene portato a manifestare un comportamento adeguato senza aver mai
compiuto e sedimentato risposte erronee
 Tecniche di rinforzo: assegnazione di ricompense alle risposte appropriate secondo
strategie sistematiche di rinforzo continuo o intervallato
 Analisi delle contingenze: individuazione delle condizioni contestuali che inducono
o tendono a mantenere taluni comportamenti
2. INTERVENTO SULLE COMPONENTI DELLA PRESTAZIONE = le tecniche
comportamentali includono spesso la raccomandazione di svolgere una analisi del compito
relativa all’abilità deficitaria. Questo tipo di intervento non si limita a esercitare la
prestazione deficitaria, ma si propone di promuovere gli elementi che la costituiscono.
Questo tipo di intervento ha i vantaggi di operare in base a criteri più fini, con la sicurezza di
giocare su tutte le variabili più semplici implicate, e di consentire interventi mirati laddove si
trovi opportuno lavorare solo su una o su poche componenti dell’abilità complessiva
3. INTERVENTO SULLE ABILITA’ DOMINIO-GENERALI = si è assistito a un grande
sviluppo di programmi incentrati sulle abilità generali, soprattutto visuopercettive,
linguistiche e psicomotorie. La logica dell’intervento sulle abilità generali si è basata sulla
considerazione che:
 Bambini con disturbi di apprendimento scolastico presentano deficit in abilità di base
 Queste abilità di base sono implicate negli apprendimenti scolastici
Se n’è dedotto che, se il bambino impara, questo è dovuto ai suoi deficit nella abilità di base
e dunque bisogna rimediare a tali deficit. Questi programmi possono anche essere utili per la
promozione di abilità visivo e motorie, ma non si giustificano se rivolti alla soluzione di
difficoltà di lettura, scrittura e calcolo
4. INTERVENTI STRATEGICI E METACOGNITIVI = in questo contesto, è stato sottolineato
come i disturbi di apprendimento possano essere dovuti alla mancanza tanto di automatismi
quanto di una corretta utilizzazione di tali automatismi e di una loro integrazione strategica
nei comportamenti finalizzati semplici e soprattutto altamente controllati. È comunque
sempre presente la preoccupazione di rendere consapevole il bambino sul funzionamento
della sua mente e sulla natura e sugli obiettivi del trattamento. Per quanto concerne la
conoscenza metacognitiva, ovvero la riflessione sul proprio funzionamento mentale, un altro
programma influente fu quello chiamato dell’insegnante reciproco, proposto da Brown e
Palincsar (1987) e che si caratterizzava per una serie di proposte di strategie per la
comprensione nella lettura e per una organizzazione didattica articolata in cui anche i
compagni del bambino con problemi entrano in gioco offrendo una specie di tutoring
5. MATERIALI E MEDIA = la comunicazione non-verbale può integrare la comunicazione
linguistica, la comprensione del messaggio visivo può integrare la comprensione del
messaggio scritto. Anche il computer, infatti, ha un uso riabilitativo. Molti ragazzi con
disturbi di apprendimento mostrano di gradire maggiormente e di non sentire come
“scolastiche” le attività svolte al computer. Vediamo le diverse tipologie di materiale per
l’intervento:
 Materiale didattico: volto a favorire il normale apprendimento
 Materiale didattico individualizzato: mirato a studenti con particolari difficoltà
 Materiale psicopedagogico: basato sugli studi scientifici relativi al processo
d’apprendimento in gioco
 Materiale scientificamente costruito e testato: basato su studi scientifici e verificato
attraverso indagini che ne documentano l’efficacia
Un limite del materiale prodotto da molte case editrici è l’essere assemblato senza una
diversificazione, con una certa prevalenza di materiale didattico (universale).
BASI BIOLOGICHE DELLA DISLESSIA E DELLA DISCALCULIA

È tuttora oggetto di acceso didattico quale sia la specifica funzione neuropsicologica alterata e di
conseguenza il preciso substrato neurobiologico alla base dei DSA. La dislessia evolutiva viene
spiegata come un disturbo specifico del modulo linguistico-fonologico, oppure come una
disfunzione evolutiva del sistema di elaborazione dell’informazione uditiva o visiva, o in alternativa
come un più generalizzato disturbo multisensoriale visivo e uditivo. Risulta molto dibattuto anche la
base neuropsicologica della discalculia evolutiva; vi sono infatti sostenitori di una disfunzione
specifica del modulo numerico innato, sostenitori di un disturbo evolutivo visuo-percettivo, della
memoria o dell’attenzione visuospaziale.
Il dibattito nasce dall’intrinseca difficoltà di distinguere i disturbi neurocognitivi semplicemente
associati da quelli realmente causali. Diviene quindi fondamentale utilizzare disegni sperimentali
adeguati, per esempio studi longitudinali eseguiti su bambini prescolari che non sono stati esposti
alla letto-scrittura o del calcolo e della matematica, oppure studi su bambini con DSA.
La difficoltà nel distinguere il ruolo causale di un deficit è in relazione con i limiti sia teorici che
metodologici di una rigida applicazione dell’approccio neuropsicologico tradizionale alla
neuropsicologia evolutiva dei DSA.
L’approccio multifattoriale suggerito da Pennington prevede che ogni disturbo possa essere
prodotto da un concorso di cause e che le stesse cause possano essere presenti in più disturbi.
Questo approccio, oltre a spiegare l’esistenza di diverse forme di dislessia evolutiva (DE) in cui si
possono riscontrare difficoltà nelle competenze linguistiche, mnestiche, percettive e attenzionali,
permette di spiegare le frequenti associazioni tra molteplici disturbi del neurosviluppo e DE.
L’approccio, secondo cui ci sia una comorbilità tra ADHD e DE, e tra il disturbo del linguaggio e
DE, permette di capire non solo la logica multifattoriale alla base di un DSA, ma anche la natura
probabilistica dell’insorgenza di esso, in cui la presenza di più fattori di rischio aumenterà la
possibilità di sviluppare un disturbo specifico.

GENETICA DEI DSA E DEI DISTURBI DEL NEUROSVILUPPO


I dati che mostrano come i disturbi del neurosviluppo, compresi i DSA, abbiano una forte base
genetica. Tuttavia i fattori ambientali sembrano avere altrettanto peso determinando una differente
enfasi del fattore genetico. Questa osservazione non esclude che singoli geni o cluster predefiniti di
geni possano essere la causa di una compromissione neuro-evolutiva. Sia ricerche di popolazione
sia ricerche di genetica molecolare hanno avvalorato l’ipotesi dei geni generalisti basata sui
seguenti tre punti fondamentali:
1. Gli stessi geni che influenzano l’apprendimento tipico di una competenza sono anche alla base
del corrispondente disturbo
2. Molti geni associati con un aspetto di difficoltà influenzano anche un altro aspetto
3. Geni associati a un disturbo dell’apprendimento sono associati anche a un altro disturbo
Il coinvolgimento di geni candidati nella predisposizione alla DE è stato replicato in almeno uno
studio indipendente. Nello specifico, i geni maggiormente interessati sono: DYX1C1, DCDC2,
KIAA0319, C2ORF3, MRPL19, ROBO1, GRIN2B, FOXP2 e CNTNAP2.
In particolare, è stata trovata un’associazione tra questi geni e la consapevolezza fonologica,
l’elaborazione rapida di stimoli uditivi, l’abilità di recupero dell’etichetta fonologica, le capacità
attentive e la percezione del movimento a carico della via visiva magnocellulare-dorsale.
Queste evidenze quindi mostrano come i meccanismi eziopatogenetici della DE abbiano una forte
componente genetica, anche se essa non è in grado di spiegare completamente l’insorgenza del
disturbo. Ovviamente, esistono anche fattori ambientali extra-genetici, quali, per esempio, l’età e il
livello di istruzione dei genitori, oppure generici disturbi perinatali.
MECCANISMI COGNITIVI GENERALI TRANS-DISEASE
Esiste dunque un’influenza genetica non solo sul fenotipo vero e proprio e cioè sul risultato della
prestazione finale (lettura, scrittura, ecc.), ma anche sui processi cognitivi sottostanti, per i quali si
parla talora di endofenotipi.
Deficit in abilità cognitive ampie possono essere alla base di una gamma differenziata di disturbi del
neurosviluppo, sia sempre nell’ambito dei DSA, sia in riferimento a disturbi chiaramente
distinguibili, per cui talora si parla di deficit trans-disease. Tutti questi disturbi appaiono
accomunati dalla presenza di un possibile deficit nella percezione visiva dell’insieme e una
inalterata percezione delle informazioni connesse ai particolari elaborate rispettivamente
dall’emisfero destro e sinistro.

NEUROPSICOLOGIA “EVOLUTIVA” DEI DSA


Tutti i ricercatori sono in accordo sul fatto che lo sviluppo tipico o atipico dei processi cognitivi
complessi siano il risultato finale della complessa interazione fra i programmi genetici e i fattori
ambientali.
Fra le numerose posizioni teoriche esistenti, troviamo:
1. INNATISTI = hanno una visione deterministica dello sviluppo e sostengono che la causa dei
DSA vada attribuita a fattori genetici, per esempio a un’alterazione congenita di un circuito
corticale circoscritto che controlla una specifica funzione cognitiva. Per loro, lo scopo
ultimo della ricerca è identificare il gene (o meglio, l’insieme di geni) alla base del DSA e vi
è un interesse particolare per compiti cognitivi che misurano la presunta funzione
danneggiata
2. EMPIRISTI = sottolineano come le cause dei DSA possano avere origine nei fattori
ambientali, i quali determinerebbero un’alterazione cerebrale
La posizione teorica adottata determina gli strumenti metodologici per studiare i DSA. Le
neuroimmagini funzionali dovrebbero mostrare l’eventuale presenza di aree “sottoattivate”
durante un compito rilevante (lettura, scrittura e calcolo), mentre le neuroimmagini strutturali
dovrebbero rilevare l’eventuale alterazione neuroanatomica delle specifiche strutture cerebrali
situate in corrispondenza di queste aree funzionalmente sottoattivate.
METODO DELLE DOPPIE DISSOCIAZIONI  è lo strumento elettivo della neuropsicologia
cognitiva dell’adulto, che viene utilizzato per identificare funzioni cognitive specializzate: se il
paziente x ha la funzione A intatta ma quella B danneggiata, mentre il paziente y ha la funzione A
danneggiata e quella B intatta, si conclude che il cervello è organizzato in moduli e circuiti
specializzati che possono essere danneggiati in modo selettivo.

L’APPROCCIO NEUROCOSTRUTTIVISTA
L’approccio neurocostruttivista riconosce il ruolo dei vincoli biologici innati (fattori genetici), ma
considera questi vincoli meno forti e meno dominio-specifici. Si ritiene che sia il processo di
sviluppo stesso a giocare un ruolo cruciale nel determinare il risultato finale.
Secondo questo approccio, l’evoluzione ha progressivamente selezionato una forte capacità
dominio- generale di apprendere, piuttosto che rigide e poco adattive conoscenze dominio-
specifiche a priori. Per poter studiare lo sviluppo di una funzione, le tecniche di neuroimmagine (sia
funzionali che strutturali) dovrebbero essere applicate molto precocemente, oltre che essere ripetute
frequentemente nel tempo per poter mappare puntualmente ogni singola fase dello sviluppo e del
potenziale compenso del disturbo.
L’approccio neurocostruttivista riconosce il forte ruolo giocato dai fattori ambientali sulla plasticità
neurale del sistema cognitivo, e quindi anche dalle strategie di possibile compenso al disturbo del
neurosviluppo. Attribuisce un’elevata rilevanza alle associazioni fra le diverse disfunzioni,
ipotizzando un possibile denominatore comune che agisca a livello precoce nello sviluppo di tutte
queste funzioni neuropsicologiche. La questione della compresenza di più disturbi (comorbilità),
molto rilevante nella pratica clinica, viene liquidata da alcuni approcci innatisti, come semplice
manifestazione di disturbi associati, non causalmente legati al DSA, secondo la logica di una rigida
applicazione di un modello in cui un’unica causa sarebbe alla base di un DSA.
L’approccio neurocostruttivista legge la comorbilità fra i diversi disturbi evolutivi come importante
informazione per comprendere la complessità delle relazioni causali alla base di essi.
ENDOFENOTIPI  alterazioni neuropsicologiche o neurofisiologiche intermedie tra il fenotipo
clinico finale (manifestazione del DSA) e le sue originarie cause genetiche.
Durante lo sviluppo, una funzione neuropsicologica complessa difficilmente può essere ridotta a un
insieme di moduli che compongono un circuito precostituito.
Riassumendo, l’approccio neurocostruttivista interpreta il DSA come il risultato distale e indiretto di
disfunzioni nei processi di elaborazione precoci, piuttosto che come risultato di uno specifico
modulo cognitivo danneggiato. Inoltre, i costruttivisti riconoscono il ruolo di specifici fattori innati
(fattori genetici), ma, diversamente dagli innatisti, assumono che questi abbiano inizialmente un
effetto ampio e diffuso, diventando dominio specifici con i processi di sviluppo e con le specifiche
interazioni ambientali.
A) ASSUNZIONI TEORICHE B) METODOLOGIA DELLA
RICERCA
Un complesso difetto Identificare i periodi
genetico dell’espressione
genetica e la
La causa Difetto speciale o La causa studiata possibilità di
generale? Dipende da interazione con altri
quanto precocemente eventi genetici e
avviene l’alterazione ambientali
dello sviluppo
Alterazione del Identificare il livello
normale sviluppo pre neuropsicologico più
e post natale del elementare del
cervello disturbo e studiarne
Il livello La scelta del gli effetti evolutivi sui
neurobiologic Neuroplasticità: dominio di processi
o caratteristica di base ricerca neurocognitivi di
sia per lo sviluppo livello superiore nei
tipico che patologico bambini sia con
sviluppo normale che
patologico
I moduli e i circuiti Pianificare strumenti
di moduli si che siano in grado di
sviluppano attraverso isolare i diversi
processi di graduale processi
“modularizzazione” neuropsicologici
elementari
Il livello Le rappresentazioni La scelta
cognitivo- innate si sviluppano della Utilizzare studi
neuropsicologico dai meccanismi di metodologia longitudinali per
elaborazione di basso indagare i possibili
livello durante cambiamenti
specifici periodi strutturali e funzionali
evolutivi dovuti allo sviluppo o
al trattamento
riabilitativo
La stimolazione Studiare i segni del
ambientale è possibile DSA il più
decisamente dinamica, precocemente
cambiando in base possibile nell’infanzia
all’elaborazione e alla
selezione La scelta della Utilizzare gruppi di
Il ruolo dell’ambiente dell’informazione del popolazione controllo comparabili
bambino bersaglio anche per abilità
cognitiva indagata

Studiare bambini con


DSA tenendo conto
sia delle dissociazioni
che
delle associazioni
La manifestazioni
possono essere sia
specifiche che
generali
La manifestazione
clinica Quanto più tardiva
risulta l’espressione
del gene tanto più
specifico sarà il
disturbo atteso

IPOTESI NEUROPSICOLOGICHE UNICAUSALI DELLA DISLESSIA EVOLUTIVA


Un bambino per imparare a leggere deve sviluppare una consapevolezza esplicita degli elementi
strutturali del linguaggio, ovvero i fonemi (consapevolezza fonologica) e apprendere il loro legame
con una serie di simboli visivi definiti in modo arbitrario, ovvero i grafemi (conversione grafema-
fonema). Sebbene sia ormai diffusamente riconosciuto che la base della DE sia costituita da
un’alterazione neurobiologica, restano dibattute le ipotesi eziologiche riguardo alla specifica
funzione neuropsicologica che, se compromessa, risulta in grado di determinare una manifestazione
così eterogenea di difficoltà nell’apprendimento della lettura.
L’applicazione di un modello unicausale ha permesso tuttavia, nella storia della ricerca sulla DE, di
evidenziare il ruolo di alcuni meccanismi fondamentali.
Le principali ipotesi eziologiche della DE possono essere ricondotte a due principali categorie di
meccanismi:
1. IPOTESI DEL DEFICIT FONOLOGICO = in cui uno specifico disturbo nell’elaborazione,
nella manipolazione o nell’accesso ai suoni linguistici a carico delle aree perisilviane
dell’emisfero sinistro sembra essere la causa delle DE
2. IPOTESI BASATE SUI DEFICIT DEI MECCANISMI SENSORIALI NON-LINGUISTICI =
che alterano i precoci processi di elaborazione dell’informazione visiva e uditiva
Vediamo altre tipologie di ipotesi neuropsicologiche.
IPOTESI DEL DEFICIT MAGNOCELLULARE  la teoria magnocellulare nasce
dall’osservazione che molti bambini con DE presentano un disturbo specifico nella via visiva M. Il
sistema M, che a livello della corteccia cerebrale va a costituire la cosiddetta via dorsale (detta
anche via del “dove” e recentemente rinominata circuito dell’“azione”), è specializzato nell’analisi
del movimento visivo e delle relazioni visuospaziali fra gli oggetti. Gori, nel 2014, ha dimostrato
che la presenza del disturbo del sistema M, misurano mediante una illusione di “duplicazione delle
basse frequenze spaziali”, è presente specialmente nei bambini con DE in cui risulta compromessa
l’efficienza della decodifica fonologica. Nel 2016, ha dimostrato che il sistema M è già alterato nei
bambini prescolari non alfabetizzati che svilupperanno successivamente difficoltà di lettura. Il
sistema M, se adeguatamente migliorato, aumenta l’efficienza della lettura sia nei bambini che negli
adulti con DE. Infine Flint e Pammer nel 2018 in un loro studio hanno escluso che i deficit del
sistema M nei soggetti con DE possano essere la semplice conseguenza della mancata esperienza
alla lettura.
ESTENSIONE DEL SISTEMA M ALLA MODALITA’ UDITIVA  alcune ricerche hanno
dimostrato l’esistenza di un sistema M anche per la modalità uditiva. Questa via uditiva M potrebbe
essere il substrato neurobiologico del tanto discusso deficit dell’elaborazione temporale uditiva. I
bambini con DE mostrano un deficit specifico nell’elaborazione di stimoli uditivi. Questo deficit
dell’elaborazione temporale comprometterebbe selettivamente la percezione dei rapidi acustici alla
base della capacità di discriminazione dei fonemi. La decodifica fonologica, necessaria per leggere
le parole nuove, si avvale infatti di specifici meccanismi di conversione grafema-fonema.
La versione multisensoriale (visiva e uditiva) della teoria M suggerisce quindi che i bambini con DE
(e anche con disturbo del linguaggio) abbiano uno specifico deficit nell’elaborare stimoli sensoriali
brevi o presentati in rapida successione temporale sia nella modalità visiva che in quella uditiva.
IPOTESI DEL DEFICIT GENERALE DELL’ELABORAZIONE MULTISENSORIALE 
tuttavia, i deficit specifici del sistema M non vengono riscontrati in tutti i soggetti con DE. Al fine di
spiegare un generico deficit dell’elaborazione percettiva nei bambini DE hanno sviluppato un
modello basato sull’efficienza dell’elaborazione. Questo modello suggerisce che gli effetti di
mascheramento potrebbero essere interpretati in base a un’ipotesi di efficienza dell’elaborazione
piuttosto che da un’ipotesi dell’elaborazione temporale. L’efficienza dell’elaborazione si riferirebbe,
in questo contesto, alla soglia del rapporto segnale/rumore ovvero a tutti quei fattori che favoriscono
l’abilità di rilevare un segnale visivo e uditivo in presenza di uno stimolo distrattore interferente.
I bambini con DE presentano un disturbo specifico nell’elaborazione di un segnale visivo seguito da
una maschera, ovvero uno stimolo distrattore presentato successivamente che provoca
un’interferenza sull’elaborazione del segnale (mascheramento all’indietro).
La capacità di escludere il rumore risulta compromessa utilizzando sia stimoli M che stimoli
elaborati dal sistema parvo cellulare, specializzato nella fine discriminazione delle forme e dei
colori. È quindi possibile concludere che un rumore (la maschera), presentato subito dopo un
segnale (il bersaglio), sia in grado di produrre un’interferenza maggiore nei bambini con DE rispetto
ai bambini con normali abilità di lettura nella modalità visiva che uditiva.
Inoltre, i bambini dislessici sembrerebbero maggiormente disturbati, rispetto ai lettori tipici, anche
da una maschera laterale, presentata contemporaneamente al segnale da riconoscere sia nella
modalità visiva che in quella uditiva (mascheramento laterale, o affollamento). Hancock, Pugh e
Hoeft, nel 2017, hanno proposto l’ipotesi del “rumore neurale”, in cui i disturbi nei meccanismi
di esclusione del rumore precedono e spiegano il disturbo fonologico che risulta la disfunzione
neuropsicologica maggiormente documentata nella DE.
Inoltre, sarebbe proprio l’attenzione spaziale a regolare il flusso dell’elaborazione delle
informazioni visive necessarie per la decodifica seriale dell’esatta sequenza delle lettere che
costituiscono le parole, e delle parole che costituiscono l’intero testo. Questo disturbo nella ricerca
visiva potrebbe essere un semplice effetto e non una causa della DE, dovuto al ridotto allenamento
attenzionale indotto dalla caratteristica deprivazione alla lettura. È bene ricordare che il principale
meccanismo che regola la selezione sia spaziale che temporale dell’attenzione sembra essere
proprio quello di esclusione del rumore.
IPOTESI DEL DEFICIT DI ATTENZIONE CONSEGUENTE A UN DEFICIT M  una delle
prime evidenze in merito a un deficit specifico dell’attenzione spaziale che potrebbe essere alla
base dell’aumentato rumore neurale, potenzialmente conseguente a un deficit M, è stata fornita da
Brannan e Williams nel 1987. Precisamente, il disturbo rilevato era selettivo per il rapido e
automatico orientamento all’attenzione spaziale, in cui l’indizio veniva presentato nella periferia
retinica. Il fatto che gli stimoli periferici siano principalmente elaborati dal sistema visivo M,
sembra sostenere la presenza di un disturbo del sistema M nella DE.
La via sublessicale richiede il processo primario della “segregazione fonemica”, ossia la
segmentazione visuospaziale di una stringa di lettere nei suoi grafemi corrispondenti. È chiaro che
la decodifica fonologica, mediata dalla via sublessicale, implica un ancoraggio e un disancoraggio
fluente e accurato dell’attenzione visiva, in aggiunta alle appropriate abilità puramente fonologiche.
Va ricordato che la percezione visiva del movimento è fortemente modulata dai meccanismi di
orientamento dell’attenzione. L’attenzione spaziale è uno dei fattori cruciali che influenzano
l’efficienza dell’elaborazione percettiva degli stimoli sia visivi che uditivi. Essa sembra modulare le
funzioni percettive aumentando la rappresentazione neurale degli stimoli che cadono dentro l’area
attesa, ovvero il fuoco dell’attenzione.
L’aumento dell’elaborazione del segnale e la riduzione dell’interferenza del rumore si manifestano
in diversi modi, tra cui:
1. Tempi di reazione più veloci per rilevare e discriminare uno stimolo
2. Incremento della sensibilità percettiva: le soglie di riconoscimento di uno stimolo si abbassano
3. Riduzione dell’interferenza esercitata dagli stimoli distrattori vicini sia nello spazio che nel
tempo
L’attenzione spaziale permette di selezionare un’informazione alla volta (procedura seriale),
precisamente quella nella posizione attesa, inibendo gli stimoli distraenti. Si noti che il disturbo
dell’attenzione spaziale nella DE non sembra riguardare esclusivamente la modalità visiva, ma
anche
quella uditiva. Ricordiamo infatti che i deficit nella percezione uditiva sono molto frequenti nella DE.
Tra questi ricordiamo:
1. Difficoltà nella percezione dei suoni linguistici in presenza di rumore di fondo
2. Difficoltà nella discriminazione tra suoni acusticamente simili
3. Disturbo nell’elaborare suoni presentati in rapida sequenza
L’identificazione del suono può essere incrementata significativamente quando l’attenzione è
correttamente focalizzata, fornendo una forte evidenza che l’attenzione spaziale uditiva può
facilitare la percezione uditiva e fonemica.
Secondo l’ipotesi dello span attentivo, la DE è provocata da un disturbo nella percezione simultanea
degli elementi visivi, più che un deficit dell’attenzione focalizzata. Un deficit che coinvolge sia
l’elaborazione temporale rapida che l’elaborazione spaziale globale potrebbe spiegare una
contemporanea alterazione dei meccanismi dell’attenzione sia focalizzata che distribuita. Studi
longitudinali hanno dimostrato nello stesso campione che sia la percezione globale che l’attenzione
focalizzata risultano contemporaneamente disturbate in età prescolare in bambini che hanno
sviluppato successivamente DE.
Riassumendo, una lieve disfunzione del sistema M potrebbe determinare gravi deficit
nell’elaborazione degli stimoli sensoriali sia uditivi che visivi. Un disturbo visivo dell’attenzione
spaziale potrebbe selettivamente compromettere il meccanismo di segregazione grafemica, mentre
un disturbo uditivo dell’attenzione temporale potrebbe alterare il meccanismo di segmentazione
fonemica e/o sillabica alla base della percezione, nonché dell’elaborazione e della memoria
fonologica.

IPOTESI INTEREMISFERICA  è stato anche suggerito che lo sviluppo delle asimmetrie


funzionali nella comunicazione tra i due emisferi cerebrali possa essere compromesso nella DE a
causa di lievi alterazioni del corpo calloso, la struttura costituita dall’insieme delle fibre nervose che
uniscono i due emisferi cerebrali.
IPOTESI FONOLOGICA  la DE potrebbe essere causata da molteplici fattori di natura sia
uditivo-fonologica che visuopercettiva. L’ipotesi fonologica della DE sostiene che la patologica
difficoltà nell’acquisizione della lettura sia sostanzialmente da imputare a un unico deficit
nell’elaborazione, memorizzazione e consapevolezza dei suoni linguistici. Questo disturbo specifico
sarebbe da attribuire alla disfunzione di un modulo, o di un circuito, preposto all’elaborazione
fonologica. Le abilità di lettura e le rappresentazioni ortografiche migliorano le rappresentazioni
fonologiche, che a loro volta sembrano migliorare le abilità di lettura, per cui non è chiaro in che
misura il deficit fonologico possa essere la causa o la conseguenza della DE. Secondo alcuni
sostenitori dell’ipotesi fonologica, non esiste una causa sottostante al deficit fonologico stesso,
poiché deficit neuroanatomici delle aree perisilviane sinistre ne costituirebbero il substrato
neurobiologico, ma alcune evidenze sembrano indicare un primario deficit uditivo.
Le evidenze biologiche provenienti da diversi studi di neuroimmagini suggeriscono che
l’identificazione visiva delle parole sia controllata da due diversi circuiti posteriori dell’emisfero
sinistro: il sistema temporo-parietale, associato alla primitiva elaborazione seriale della via
sublessicale, e il sistema occipito-temporale, alla base del rapido meccanismo di riconoscimento
della forma globale delle parole.
L’efficace attivazione di queste aree, che costituiscono il circuito preposto all’elaborazione del
linguaggio scritto, può riflettere l’assenza della loro specializzazione, a seguito di un’alterata
rappresentazione fonologica e ortografica, che caratterizzano la DE e permangono nel corso degli
anni. Vengono solitamente interpretate come la semplice compensazione del deficit dei sistemi
posteriori dell’emisfero sinistro, un’ipotesi alternativa potrebbe invece sostenere che le iper-
attivazioni di queste due aree associative, coinvolte nelle iniziali fasi dell’apprendimento in cui le
diverse modalità sensoriali vengono combinate, siano semplicemente il risultato di un deficit nel
raggiungimento dell’automatizzazione della lettura e della scrittura.

LA DISCALCULIA EVOLUTIVA
Anche la discalculia evolutiva (DCE) sembra avere una forte base genetica. Inoltre, diversi disturbi
genetici, come la sindrome di Williams e la sindrome di Turner, sono caratterizzati da specifici
profili neuropsicologici che includono sia difficoltà specifiche nell’elaborazione del numero che
dell’aritmetica. Un’altra capacità di base della cognizione numerica è il subitizing, ovvero la
precisa e rapida percezione simultanea di piccole quantità senza contare. Queste elementari capacità
numeriche sono i precursori del successivo sviluppo dei più sofisticati concetti numerici e
matematici che sarebbero acquisiti in modo gerarchico e dinamico.
Vediamo le ipotesi di deficit che caratterizzano la DCE.
IPOTESI DEL DEFICIT NEUROPSICOLOGICO NON-NUMERICO  numerose evidenze
comportamentali suggeriscono che altri fattori non-numerici, come la memoria, il linguaggio, le
abilità spaziali e i meccanismi attenzionali, possono influenzare fortemente lo sviluppo della
cognizione numerica. La memoria di lavoro assume un ruolo cruciale nello sviluppo delle
competenze numeriche, come anche le funzioni esecutive e le abilità visuospaziali. Nel
compromettere le competenze numeriche giocano un ruolo importante anche i disturbi della lettura e
l’agnosia digitale. Alcuni ricercatori hanno rilevato che i bambini con disturbo combinato (cioè,
DCE + DE) hanno soprattutto disturbi linguistici, legati probabilmente a una disfunzione delle aree
corticali dell’emisfero sinistro che controllano l’elaborazione fonologica. I bambini con DCE puro
manifestano invece problemi in numerosi compiti non-verbali che richiedono una organizzazione
visuopercettiva, una fine coordinazione oculomotoria e una precisa percezione tattile. Tali bambini
presentano un caratteristico disturbo nella rappresentazione e nell’elaborazione dei numeri,
maggiormente legato alla semantica della grandezza numerica.
Piazza e altri, nel 2011, hanno rilevato un severo disturbo nelle capacità di stima approssimativa
delle quantità nei bambini con DCE.
Nei bambini, lo sviluppo della cognizione numerica e del calcolo è fortemente condizionato
dall’efficienza dei processi neuropsicologici dominio-generali come attenzione e percezione visiva
spaziale, memoria di lavoro e funzioni esecutive che assumono un ruolo importante per un buon
sviluppo di rappresentazioni numeriche dominio-specifiche.
IPOTESI DEL DEFICIT NEUROPSICOLOGICO DELL’ELABORAZIONE DELLA
NUMEROSITA’  tale ipotesi è stata definita da Butterworth nel 2005 ipotesi del deficit del
modulo numerico e assume che la DCE risulti da una disfunzione nella cognizione numerica di
base. Secondo tale teoria, l’uomo nasce con una capacità innata di comprendere e manipolare la
numerosità, abilità resa disponibile da circuiti neurali specializzati, localizzati nel lobo parietale. La
DCE sarebbe causata da uno sviluppo anomalo delle abilità di base della numerosità, e si
manifesterebbe quindi con estrema difficoltà nel comprendere la semantica del numero e
nell’apprendere le informazioni numeriche. Anche l’elementare capacità di denominare
velocemente e accuratamente fino a 3 elementi (subitizing) appare disturbata nei bambini con DCE.
Numerose ricerche su adulti hanno suggerito che il solco intra-parietale potrebbe costituire la base
neurobiologica dell’elaborazione semantica del numero poiché quest’area è sistematicamente
attivata in tutti i compiti che richiedono una manipolazione di quantità numeriche. Inoltre, il giro
angolare sinistro sembra implicato anche in processi aritmetici.
Si è dimostrato che la quantità di materia grigia del solco intra-parietale sinistro fosse minore nei
soggetti prematuri con DCE rispetto ai soggetti prematuri senza DCE.
In conclusione, tutti questi risultati sembrano supportare l’ipotesi che una disfunzione evolutiva delle
aree parietali sia implicata nello sviluppo del modulo numerico.

IPOTESI NEUROPSICOLOGICHE MULTIFATTORIALI DEI DISTURBI


DELL’APPRENDIMENTO
Secondo un ricco filone di ricerche esisterebbero diverse forme di DE.
Boder, nel 1973, ha distinto tra:
1. DISFONETICA = la cui base potrebbe essere linguistica-fonologica
2. DISEIDETICA = la cui base potrebbe essere visiva-ortografica
3. MISTA = in cui le rappresentazioni fonologiche e ortografiche potrebbero essere alterate
contemporaneamente
Altre ricerche suggeriscono risultati che fanno riferimento all’esistenza di diverse forme di DE:
1. PERCETTIVE
2. ATTENZIONALI
3. MNESTICHE
4. LINGUISTICO-FONOLOGICHE
L’identificazione di diversi tipi di DE diventa cruciale per la riabilitazione del disturbo, in quanto
differenti tipologie di trattamento potrebbero essere adatte per una forma specifica di DE, ma non
per un’altra.
La DE fonologia potrebbe essere interpretata come causata da un deficit della via sublessicale;
mentre la DE superficiale potrebbe essere causata da un deficit nella rappresentazione ortografica.
La DE potrebbe avere non solo una natura “centrale-cognitiva”, ma potrebbe avere anche diverse
nature “periferiche” in cui il disturbo alla base della difficoltà nell’acquisizione della lettura
potrebbe essere di natura percettiva e attenzionale, visiva e/o uditiva. Il miglioramento indotto nella
percezione delle lettere è un processo attenzionale visivo che precede i processi linguistici centrali,
quali la via lessicale e la via sublessicale.
La DCE può essere considerata come il risultato di diversi e distinti disturbi neuropsicologici di
base e può manifestarsi con distinti sottotipi, ognuno dei quali potrebbe essere causato da uno
specifico danno neuropsicologico.
Si possono, quindi, ipotizzare varie tipologie di DCE:
1. DISFUNZIONE DELL’ELABORAZIONE VERBALE DEL NUMERO = fatti aritmetici e
tabelline
2. DISFUNZIONE DEL CIRCUITO LINGUISTICO-FONOLOGICO DELL’EMISFERO
SINISTRO = potrebbe accomunare DCE e DE spiegandone la comorbilità
3. DEFICIT SPECIFICO DELLE FUNZIONI VISUOPERCETTIVE DEL LOBO PARIETALE
POSTERIORE
4. DISFUNZIONE ATTENZIONALE
5. DEFICIT SPECIFICO DEL MODULO NUMERICO INNATO
Il modello multifattoriale e probabilistico prevede che:
1. L’eziologica dei DSA sia multifattoriale e implichi l’interazione tra molteplici fattori di
rischio e di protezione che possono essere genetici e/o ambientali
2. Questi fattori di rischio e di protezione alterino il normale sviluppo delle funzioni
neuropsicologiche
3. Sebbene l’alterazione di poche funzioni neuropsicologiche sia necessaria per causare un DSA,
nessuna singola funzione alterata sia tuttavia sufficiente a spiegarne l’eziologia
4. L’associazione (comorbilità) tra i diversi DSA sia molto frequente poiché essi condividono
spesso fattori di rischio comuni
5. La predisposizione a sviluppare un DSA è attribuita in modo continuo nella popolazione,
piuttosto che discreta e categoriale, cosicché la soglia per definire la presenza di DSA sarà
decisamente arbitraria
A livello neurobiologico, un singolo fattore di rischio genetico o ambientale influenzerà molto
probabilmente più di un sistema neurale e anche se inizialmente un fattore di rischio condizionerà
un solo sistema neurale, l’alterazione che ne deriva generalizzerà i propri effetti sullo sviluppo di
altri sistemi neurali.
LA DISLESSIA EVOLUTIVA

La dicitura dislessia evolutiva viene abbreviata in DE per ricordare, con la specificazione evolutiva,
che si tratta di casi di bambini che non hanno mai imparato a leggere bene e che quindi si
distinguono da quelle in cui il problema è emerso in seguito, con la perdita di una capacità
precedentemente posseduta. Il bambino è intelligente, ha buone condizioni socioculturali, non ha
problemi emotivi rilevanti, riceve una scolarizzazione regolare, eppure presenta una sorprendente
difficoltà in lettura che permane nonostante gli sforzi per aiutarlo. Si tratta di un disturbo con elevata
famigliarità: è infatti frequente che un bambino con dislessia abbia un genitore, un parente o un
fratello con lo stesso disturbo. Questo testimonia un profilo di rischio a base genetica.

VALUTAZIONE E DIAGNOSI DI DISLESSIA


L’ICD-11 definisce il “disturbo evolutivo dell’apprendimento con difficoltà nella lettura” (cioè, la
dislessia) sotto il codice 6A03.0, che ha sostanzialmente le stesse caratteristiche. La Consensus
Conference specifica che per dislessia si deve intendere solo il disturbo specifico nella decodifica,
ossia nella automatizzazione (velocità) e correttezza (numero di errori) della lettura.
Di fronte ad un sospetto caso di dislessia si attua una valutazione clinica e una psicometrica:
1. VALUTAZIONE CLINICA = include l’accertamento dell’impatto delle difficoltà sulla vita di
tutti i giorni, specialmente alle ricadute sullo studio, sulla riuscita scolastica, e
potenzialmente sul piano emotivo e relazionale. La valutazione clinica deve accertare anche
che la difficoltà sia specifica e non attribuibile a un problema più generale, quale, per
esempio, disabilità intellettiva, deficit visivi, svantaggio socio-culturale o scolarizzazione
irregolare. Include l’indagine di storia clinica, famigliarità per il disturbo, conseguenze
adattive, funzionamento cognitivo, eventuali comorbilità
2. VALUTAZIONE PSICOMETRICA = si intende la quantificazione della difficoltà di lettura.
Ciò significa determinare che il ragazzo o il bambino abbia un livello di lettura che si
discosta significativamente (negativamente) rispetto alla popolazione degli allievi con simili
caratteristiche, in questo caso del suo steso grado scolastico. Cornoldi e Tressoldi, nel
2014, hanno suggerito l’uso dei seguenti cut-off:
 Prestazione sotto il 5° percentile o almeno 2ds sotto la media per il parametro velocità
 Prestazione sotto il 5° percentile per il parametro accuratezza
Per quanto riguarda i parametri, raccomandano di considerare sia la velocità che l’accuratezza,
ma suggeriscono di dare più importanza alla velocità.
Per la decodifica in lettura, suggeriamo tre tipi di prove: brano, parole e non-parole:
1. Con la lettura di non-parole si valuta la lettura a livello fonologico o sublessicale
2. Con la lettura di parole si indaga invece il concorso di via fonologica e via lessicale
3. Con la lettura di brano si valuta una condizione di lettura più ecologica, cioè più simile alla
lettura di materiale di senso compiuto come avviene in classe, durante lo studio individuale
o nella vita di ogni giorno
La diagnosi di dislessia si può porre solo dopo la metà o la fine della seconda classe della
scuola primaria. Gli strumenti per l’età prescolare non sono finalizzati alla diagnosi, ma alla
valutazione dei prerequisiti della lettura che possono individuare bambini a rischio. Una novità degli
ultimi anni è la costruzione di nuove prove per la scuola secondaria di II grado e perfino per
l’università e l’età adulta.
Un’opzione è quella di utilizzare, per l’età adulta, prove ben consolidate simili a quelle già in uso
per l’età evolutiva, come la lettura di parole, non-parole, brano, a cui eventualmente aggiungere una
prova di lettura silente. Alcuni autori hanno suggerito per studenti universitari e adulti altre prove di
“lettura
silente”, osservando che in età adulta una prova di lettura silente può mettere in luce differenze più
marcate tra chi ha dislessia e chi è normolettore rispetto a una prova di lettura ad alta voce. Tutte
queste prove hanno buone proprietà psicometriche e standardizzazioni che possiamo considerare
valide a livello nazionale. Una valutazione basata sull’uso di scale ordinali o fasce di prestazione è
più robusta rispetto all’uso di punteggi di deviazioni (come i punti z).
Per quanto riguarda la comorbilità, è noto che la dislessia è spesso associata ad altri disturbi del
neurosviluppo, in primis ad altri DSA. Si può quindi ritenere che metà dei casi di dislessia
presentino anche discalculia; c’è alta comorbilità della dislessia con la disortografia, con il disturbo
da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) e il disturbo della coordinazione motoria; con i
disturbi dell’umore e di ansia.

MODELLI INTERPRETATIVI E PROFILI COGNITIVI


Vediamo le principali ipotesi evidenziate dalla ricerca cognitiva in associazione con la pratica
clinica, cercando di focalizzarci sulle potenziali ricadute pratiche e sulla loro rilevanza per gli
interventi.
IPOTESI DEL DEFICIT FONOLOGICO  quest’ipotesi è sicuramente la più conosciuta e
accreditata nell’ambito della dislessia. Tale deficit consiste nella difficoltà dei bambini con dislessia
di rappresentare, immagazzinare e/o recuperare i suoni della propria lingua. Si evidenzia nella
difficoltà di dividere le parole in singoli fonemi, o viceversa di unire più suoni presentati
singolarmente per comporre una parola, nell’elaborare e ricordare materiale fonologico. Le
difficoltà dei bambini con dislessia si manifestano quindi in compiti fonologici, o di
consapevolezza fonologica, cioè nella capacità di comprendere che le parole sono composte da un
insieme di suoni e di elaborare questi suoni. La consapevolezza fonologica a livello di “grandi
unità” è presente già in bambini prescolari, mentre la consapevolezza fonemica è soprattutto appresa
con la scolarizzazione. Se la capacità di rappresentare, immagazzinare e recuperare i singoli suoni
del proprio sistema alfabetico è deficitaria, sarà difficile costruire un sistema di conversione
grafema-fonema, ovvero collegare le lettere che compongono le parole e i rispettivi suoni.
IPOTESI DEL DEFICIT VISIVO  quest’ipotesi ha anch’essa una lunga storia nell’ambito della
ricerca sulla dislessia. Si pensi che nell’Ottocento la dislessia era stata definita “cecità congenita alle
parole”. Le ipotesi visive generalmente sostengono che alla base della dislessia possa esserci un
danno a carico del sistema visivo magnocellulare, ossia di quella parte del sistema visivo deputata a
rilevare movimenti e cambiamenti rapidi nella periferia del campo visivo. Un inadeguato
funzionamento della via magnocellulare impedirebbe quindi una corretta elaborazione degli stimoli
visivi, causando inoltre un effetto crowding (letteralmente “(effetto) affollamento”), in quanto la
minore risoluzione spaziale impedirebbe la distinzione di stimoli visivi molto vicini tra loro come,
per esempio, le lettere all’interno di una parola. Se la prestazione di lettura, in termini di correttezza
e di velocità dovesse aumentare in modo sensibile, il risultato potrebbe essere plausibilmente
attribuito alla riduzione dell’effetto affollamento.
Tale ipotesi presenta alcuni limiti:
1. Il primo è che, se esso offre una convincente spiegazione delle difficoltà nel leggere brani
affollati o sequenze di non-parole, non sembra però offrire un altrettanto valida spiegazione
della difficoltà nella lettura di parole isolate e altamente famigliari
2. Il secondo limite riguarda il fatto che il deficit di attenzione visuospaziale si presenta
comunque di solito in combinazione col deficit fonologico, e non risulta quindi indipendente
da esso
L’ipotesi del deficit dello span di attenzione visiva fa riferimento al “numero di elementi visivi che
possono essere simultaneamente elaborati all’interno di un insieme”. Tale ipotesi deriva dal multi-
trace model per la lettura di parole polisillabiche. La procedura globale viene generalmente
adoperata
per leggere parole famigliari mentre parole nuove o non-parole richiedono l’impiego della procedura
analitica.
IPOTESI DEL DOPPIO DEFICIT  tale ipotesi propone che esistano due deficit indipendenti
che sottostanno alla dislessia, che possono presentarsi distinti, dando origine a due sottotipi
specifici, oppure combinati:
1. Il primo deficit sarebbe quello della componente fonologica
2. Il secondo, invece, sarebbe quello rappresentato dall’inefficienza nel recupero veloce di
informazioni verbali
Per le ortografie regolari come l’italiano, l’apprendimento delle relazioni tra ortografia e fonologia è
un obiettivo non particolarmente problematico, che al massimo può essere acquisito un po’ in
ritardo. Il deficit più caratteristico della dislessia nelle lingue a ortografia trasparente come l’italiano
potrebbe essere, più del deficit fonologico, un deficit nel recupero rapido di informazioni verbali.
IPOTESI DELLE DUE VIE  quest’ipotesi sostiene che la lettura può avvenire tramite due vie:
1. Una fonologica, che si basa su regole di trasformazione del testo scritto in corrispondenti
fonemici, ad esempio la decodifica lettera-per-lettera
2. Una diretta, che implica il riconoscimento immediato dell’intera parola scritta
In alcuni tipi di dislessia sarebbe compromessa la via fonologica e in altri ancora l’accesso al
significato. Tale modello, però, presenta dei limiti:
1. Un primo limite è il fatto che la classificazione del tipo di dislessia cambierebbe a seconda
dei metodi utilizzati, del riferimento normativo e i parametri
2. Un secondo è che il disturbo di lettura sia principalmente conseguenza di un arresto o di un
marcato rallentamento nell’acquisizione della fase lessicale, quella che permette di
riconoscere una parola intera senza doversi soffermare sui singoli grafemi, sillabe o morfemi

INTELLIGENZA, MEMORIA DI LAVORO E BINDING  il profilo intellettivo dei bambini e


dei ragazzi con dislessia misurato con le celebri scale WISC-IV risulta caratterizzato nella maggior
parte dei casi da punteggi in abilità generale relativamente superiori rispetto ai punteggi in memoria
di lavoro e velocità di elaborazione, essendo questi ultimi particolarmente deficitari. La debolezza
nella velocità di elaborazione dei bambini con dislessia è coerente con la lentezza che il bambino
con dislessia presenta sicuramente in lettura. La debolezza in memoria di lavoro appare ancora più
radicata nella dislessia; questa viene misurata con compiti che coinvolgono principalmente la
memoria fonologica. Anche nella componente del taccuino visuo spaziale è stato riscontrato un
deficit in chi ha dislessia, sia negli aspetti strettamente visivi che in quelli spaziali.
Un’altra abilità specificamente colpita dalla dislessia sembra essere quella di ricordare associazioni
visuo-fonologiche, abilità originariamente studiata in relazione alla capacità di apprendimento
associativo e recentemente indagata con riferimento alla memoria di lavoro e descritta come
binding cross-modale di memoria di lavoro.
È stato mostrato che i bambini con dislessia hanno una difficoltà specifica a mantenere queste
associazioni arbitrarie anche in un compito di span di memoria e di lavoro. La difficoltà spaziale
sembra essere legata alla dislessia.
È possibile classificare le lingue come opache o trasparenti in base al livello di “consistenza” o
trasparenza, ovvero alla regolarità della corrispondenza tra i grafemi e fonemi:
1. Quando la corrispondenza tra le unità ortografiche e fonologie è poco regolare e poco
prevedibile si parla di LINGUE OPACHE
2. Quando la corrispondenza è elevata e le eccezioni sono rare si parla di LINGUE
TRASPARENTI
L’italiano è una lingua trasparente, anzi una delle più trasparenti al mondo; l’inglese al contrario è
una lingua opaca. Nelle lingue a ortografia trasparente (come l’italiano o il tedesco) la dislessia
sembra più caratterizzata da una lettura lenta e faticosa, mentre l’accuratezza sarebbe relativamente
meno intaccata. Al contrario, nelle lingue opache (come l’inglese) l’aspetto maggiormente
caratteristico della dislessia è la scarsa accuratezza, mentre la rapidità viene ritenuta meno rilevante.
Alcuni autori distinguono tra:
1. SPEED DYSLEXIA = in cui l’aspetto più deficitario è la velocità, che sarebbe più tipicamente
riscontrabile nelle lingue trasparenti
2. DECODING DYSLEXIA = caratterizzata da marcate difficoltà a carico dell’accuratezza, la
quale contraddistinguerebbe invece più tipicamente la dislessia nelle lingue opache
L’effetto lunghezza è stato scarsamente investigato in lingue opache. Alcuni risultati suggeriscono
l’esistenza di processi cognitivi sottostanti alla dislessia che sono comuni a lingue anche molto
diverse, ma che possono determinare un diverso livello di gravità del disturbo a seconda che la
lingua sia opaca o trasparente.

IL PROCESSO DI APPRENDIMENTO DELLA LETTURA


Imparare a leggere, per l’aspetto della decodifica, significa imparare a trasformare una serie di
simboli scritti su un foglio in una sequenza di suoni. Il primo passo verso questo apprendimento è
riconoscere i simboli che appartengono al proprio sistema ortografico.
Le due cornici teoriche predominanti nelle quali si inserisce lo studio dell’acquisizione della lettura
sono l’ipotesi sulla “profondità dell’ortografia” e l’ipotesi psicolinguistica della “granularità”.
1. La prima ipotesi fa riferimento alla distinzione fra ortografie opache e trasparenti,
osservando che le prime richiedono maggiore sforzo al lettore inesperto per imparare a
leggere
2. La seconda ipotesi si rifà in parte agli studi sulla profondità delle ortografie. Per
GRANULARITA’  si intende la misura delle unità psicolinguistiche impiegate per
leggere. Nelle ortografie opache o profonde, i bambini imparano a leggere riconoscendo
unità psicolinguistiche complesse, cioè più ampie dei semplici grafemi, come le sillabe, i
morfemi, o addirittura le parole intere. Nelle ortografie trasparenti, invece, i bambini
ricorrono prevalentemente alla strategia di conversione grafema-fonema tipica della via di
lettura fonologica, e solo successivamente imparano a operare una strategia di lettura basata
sul recupero dell’intera parola
I bambini che imparano a leggere nelle ortografie opache sono più veloci, ma meno accurati, dei
coetanei nelle ortografie trasparenti.
EFFETTO FREQUENZA  indica la facilitazione dovuta alla lettura di parole famigliari rispetto
a quelle meno conosciute.
Di converso, i bambini che leggono in ortografie trasparenti sembrano più lenti di quelli alle prese
con ortografie opache.
Il modello neuropsicologico a due vie identifica due sottotipi di dislessia:
1. FONOLOGICA = causata da una compromissione della via sublessicale; questo deficit è
tipico delle ortografie trasparenti (come l’italiano)
2. SUPERFICIALE = causata invece da un deficit della via lessicale; questa compromissione è
tipica delle ortografie opache (come l’inglese)
MODELLO A STADI DI UTA FRITH  un approccio che ha avuto una larga influenza, sebbene
oggi meno utilizzato, è stato quello di interpretare i disturbi come dei “ritardi”, per cui il bambino si
troverebbe in una fase precedente rispetto ai coetanei. In questa ottica, la soluzione consisterebbe
nel promuovere lo sviluppo delle fasi immediatamente successive a quelle nelle quali il bambino si
è fermato. In ogni modo, anche quando il disturbo non è interpretabile come un ritardo, può essere
utile considerare le tappe dell’apprendimento normale come riferimento, per identificare in quali di
esse l’apprendimento è lacunoso. Tale modello di Uta Frith integra il modello neuropsicologico a
due vie in un’ottica evolutiva di apprendimento sinergico della lettura e della scrittura.
Per quanto concerne la lettura, esistono alcune fasi di apprendimento:
1. FASE LOGOGRAFICA = è la prima fase e comporta il riconoscimento di intere scritte o,
appunto, loghi che appaiono frequentemente
2. FASE ALFABETICA = è la seconda fase, nella quale il bambino acquisisce ma soprattutto
automatizza progressivamente il riconoscimento di parti sempre più ampie della parole
scritta
3. FASE ORTOGRAFICA = è la terza fase nella quale il bambino apprende gruppi di lettere
corrispondenti alle sillabe, ai prefissi e suffissi e ai morfemi
4. FASE LESSICALE = è la quarta fase e corrisponde all’automatizzazione della lettura di intere
parole, e implica un processo necessario soprattutto per il riconoscimento di parole irregolari
Il modello di Uta Frith sembra suggerire che gli stadi di apprendimento della lettura andrebbero
intesi come indipendenti e successivi. Si assume che le varie fasi non siano indipendenti e
successive, ma evolvano parallelamente, sebbene con punti di partenza e ritmi di sviluppo diversi.
Con l’inizio della scolarizzazione iniziano quasi contemporaneamente l’apprendimento
dell’associazione fonema- grafema, la lettura sublessicale per raggruppamenti e la lettura lessicale.
Queste tre componenti della lettura giungono però a piena maturazione in tempi diversi.
Le ricerche italiane hanno dimostrato come bambini a sviluppo tipico aumentino in rapidità, in
media, di almeno mezza sillaba/secondo all’anno nella lettura di un brano; mentre tipicamente chi
ha dislessia presenta un aumento medio quasi dimezzato, stimabile in circa 1/3 di sillaba/secondo
per anno. Si noti che a tutte le età i ragazzi con dislessia presentano una velocità media pari a meno
delle metà rispetto ai normolettori. Gli studenti che hanno avuto storia di dislessia mantengono una
debolezza in decodifica anche ai gradi più alti di istruzione scolastica come l’università. La lettura
silente fornisce ulteriori elementi interessanti riguardo all’evoluzione del processo di decodifica in
età adulta.

IL TRATTAMENTO DELLA DISLESSIA


Può sembrare paradossale parlare di trattamento della dislessia se si ritiene che questo disturbo
abbia una base neurobiologica e sia caratterizzato per definizione dalla mancata risposta al
trattamento. Un bambino con dislessia non potrà arrivare a leggere con la stessa velocità e
accuratezza dei suoi pari normolettori, ma può comunque recuperare almeno una parte delle
difficoltà.
Un trattamento per la dislessia può definirsi efficace se ottiene un miglioramento superiore rispetto
al naturale sviluppo della lettura. L’efficacia si valuta facendo un confronto tra il gruppo di bambini
che ha ricevuto un determinato trattamento e un gruppo di controllo che non ha ricevuto alcun
trattamento o ha ricevuto un trattamento non specifico. Affinchè un trattamento sia efficace, il
miglioramento deve essere percepito soggettivamente come tale da parte del paziente o dalle
persone rilevanti per lui. È importante incidere sull’abilità in sé, ma è anche importante stimolare un
bambino
a usare strategie funzionali che compensino le sue difficoltà, a superare la paura della pagina scritta
o magari perfino a fargli acquisire il piacere di leggerle.
Per l’italiano, non esistono grossi studi altamente controllati: Tressoldi e Vio, nel 2011, hanno
individuato 17 studi, dividendoli con riferimento a quattro tipi principali di trattamento: trattamento
lessicale, sublessicale, neuropsicologico e balance.
TRATTAMENTI BALANCE  prevedono l’esposizione di materiali e procedure specifiche a
seconda del tipo di dislessia dei partecipanti, basate sulla considerazione neuropsicologica
dell’emisfero debole.
PHONICS INSTRUCTIONS  ovvero metodi fonologici basati sull’insegnamento sistematico
delle corrispondenze grafema-fonema, mirati a potenziare le abilità di segmentare le parole in
sillabe e lettere, e poi a ricombinare queste in parole. Solitamente per i training basati sulle phonics
instructions esiste sufficiente evidenza statistica per poter parlare di efficacia significativa.
È incoraggiante notare come gli interventi agiscano sulla plasticità neurale, anche in un disturbo
caratterizzato da deficit neuropsicologici primari come la dislessia.
EFFICACIA  si intende il fatto che un ciclo di intervento induca dei miglioramenti nella lettura
che siano superiori rispetto all’evoluzione naturale di questa abilità e che siano stabili nel tempo.
EFFICIENZA  fa riferimento al rapporto costi-benefici.
I programmi di intervento vengono utilizzati tramite piattaforme online monitorate a distanza, quali
ad esempio EPRO e RIDInet. I risultati hanno suggerito come entrambi i tipi di trattamento fossero
efficaci e che, sebbene il trattamento in clinica avesse un effetto maggiore, quello a domicilio fosse
più efficiente. La pratica maggiormente “distribuita” del trattamento a domicilio potrebbe forse
spiegarne l’efficienza.
Per la dislessia si raccomandano cicli di trattamento “brevi” e ripetuti nel tempo. Un ciclo dovrebbe
strutturarsi in due o tre sedute a settimana per almeno tre mesi. Gli operatori italiani hanno a
disposizione un’ampia e crescente selezione di libri, suggerimenti e materiali psicopedagogici
fondati sulla teoria e sull’evidenza empirica, proposti dai maggiori gruppi di ricerca italiani. I
trattamenti più efficaci sono quelli che puntano per prima cosa a raggiungere la massima correttezza
senza enfatizzare la velocità e successivamente prevedono esercizi per l’automatizzazione del
riconoscimento di sillabe e parole. Per quanto riguarda l’età, la maggior parte delle ricerche si
concentra su bambini di scuola primaria e fino alla scuola secondaria di I grado, mentre c’è scarsa
evidenza riguardo ai gradi di istruzione superiori.
Ovviamente, è anche importante l’individuazione precoce dei bambini a rischio. Un tema dibattuto è
se un intervento precoce per potenziare e stimolare adeguatamente queste abilità possa coadiuvare
l’acquisizione della lettura e attenuare così le conseguenze negative della dislessia nel lungo
termine. A fianco del trattamento vero e proprio è utile comunque proporre attività aspecifiche per
facilitare il rapporto del bambino con la forma scritta e agire sugli aspetti emotivo-motivazionali. La
minore competenza determina minore pratica e la minore pratica determina ancora minore
competenza accentuando dunque le differenze con i coetanei.
LE DIFFICOLTA’ E I DISTURBI DEL CALCOLO

I numeri, e la matematica più in generale, hanno un ruolo importante nelle nostre vite. Nel corso del
proprio percorso scolastico, molti bambini incontrano momenti di particolare difficoltà
nell’apprendimento dei numeri, delle strategie e delle procedure di calcolo e della matematica più in
generale. Queste difficoltà sono persistenti e pervasive, andando a incidere pesantemente non solo
sul rendimento scolastico generale, ma provocando a volte anche notevoli problemi emotivi e di
autostima.
Ma perché è possibile riscontrare con una certa frequenza forme di disagio legate alla matematica?
Le ragioni alla base sembrano essere numerose e coinvolgere diversi domini: alcune sembrano
risiedere in atteggiamenti emotivo-motivazionali degli studenti, caratterizzati da ansia, resistenza al
ragionamento-matematico, oppure timore di sbagliare; altre ragioni possono essere dovute al fatto
che i diversi aspetti dell’apprendimento matematico si intersecano tra loro; nella complessità dei
concetti matematici.
Complessa è anche la nomenclatura associata a tali profili clinici. Si usano principalmente due
termini per definire una compromissione rilevante delle abilità matematiche: Mathematical
Learning Disability (MLD) e/o discalculia evolutiva (Developmental Dyscalculia). Alcune ricerche
considerano le due etichette verbali come il riflesso di due profili distinti, mentre altre le
considerano come sinonimi di una stessa condizione clinica.

I PREREQUISITI DELLE COMPETENZE MATEMATICHE: DALLE ABILITA’ DOMINIO-


SPECIFICHE ALLE ABILITA’ DOMINIO GENERALI
Un importante interrogativo centrale in molti studi è inerente alla relazione che si viene a creare tra
competenze matematiche e abilità cognitive. Esistono processi di comprensione e di
rappresentazione del numero sin dalla nascita.
Ma quale ruolo ha l’ambiente nello sviluppo dei processi matematici? Butterworth, nel 1999 e nel
2005, sostiene che le competenze matematiche hanno una base innata e geneticamente determinata,
che egli chiama modulo numerico, ma che non si possono ignorare le differenze individuali
derivanti dalla cultura alla quale si appartiene, dovute alla scuola e ad altre forme di apprendimento.
Numerosi studi hanno cercato di delineare quelle che sono definite competenze di base, ossia i
precursori, del concetto di numero o numerosità, che a loro volta sembrano fornire il punto di
partenza necessario per l’acquisizione delle successive competenze matematiche apprese a scuola.
Esistono due sistemi di rappresentazione che permettono a neonati e a bambini piccoli di percepire e
manipolare piccole numerosità: un sistema veloce, ma relativamente impreciso, che permette di
discriminare tra due quantità entro un certo rapporto; e un sistema esatto, capace di tener traccia di
precise quantità, ma limitato a un piccolo intervallo numerico.
SISTEMA ANALOGICO-APPROSSIMATO (APPROXIMATE NUMBER SYSTEM)  è il
primo sistema, nel quale le rappresentazioni numeriche sono approssimate e codificate in termini di
grandi quantità.
OBJECT FILE SYSTEM/OBJECT TRACKING SYSTEM  il secondo è un sistema di
rappresentazioni di piccole quantità di oggetti che si rifà ai principi spazio-temporali di coesione,
dove la numerosità esatta verrebbe delineata in maniera implicita e consente un riconoscimento
immediato di pochi elementi.
Le rappresentazioni astratte legate a questi due sistemi forniscono una percezione di quantità,
definita in letteratura come number sense. Bambini con un deficit a livello di ANS, a differenza dei
coetanei, non riuscirebbero a discriminare un insieme di 5 o 6 elementi senza contare, rallentando in
questo modo la loro acquisizione dei simboli numerici. I bambini con DCE avrebbero problemi ad
accedere al significato analogico (non-simbolico) partendo dall’elaborazione del simbolo numerico.
ABILITA’ SIMBOLICHE  queste si possono riassumere nella conoscenza delle parole numero
e dei simboli arabici, de loro valore cardinale (“4” < “5”) e relativa grandezza (“4” = ••••). I risultati
sembrano mostrare come questi sistemi di rappresentazione innata non sarebbero così rilevanti per il
successivo apprendimento scolastico, una volta che le fondamentali competenze simboliche siano
state acquisite.
Prima dell’acquisizione effettiva del conteggio, i bambini, verso i 2-3 anni, possiedono una forma di
counting non-verbale basata sulla sensibilità innata (ANS) per codificare e riprodurre la
numerosità. Uno dei primi modelli (di Gelman e Gallistel, 1978), che cerca di spiegare come
avviene il passaggio da conoscenze preverbali alle abilità di conteggio effettivo è basato
sull’individuazione di cinque principi di calcolo:
1. Il principio della CORRISPONDENZA BIUNIVOCA = per ciascun elemento dell’insieme
viene associato un solo numero
2. Il principio dell’ORDINE STABILE = le parole-numero hanno un ordine definito che deve
essere applicato anche agli oggetti da contare
3. Il principio della CARDINALITA’ = l’ultima parola-numero che viene espressa nel contare
gli oggetti è anche quella che determina la numerosità degli oggetti contati
4. Il principio di ASTRAZIONE = secondo questo tipo di principio ogni cosa può essere contata
5. Il principio di IRRILEVANZA DELL’ORDINE = gli elementi di un insieme possono essere
contati in ordine diverso, in quanto la cosa risulta irrilevante
I meccanismi innati (conoscenze non-verbali) e i meccanismi appresi (parole-numero), anche se
distinti e indipendenti gli uni dagli altri, sono in continua relazione tra loro e, più specificamente,
permettono di acquisire una “mappatura bidirezionale” durante l’apprendimento del conteggio, che
consente l’utilizzo di entrambi i meccanismi, verbali e non-verbali di quantificazione.
Un ulteriore modello (detto “dei contesti diversi”) presentato da Fuson, nel 1991, suggerisce come i
principi di calcolo, anche se hanno delle basi innate, devono il loro sviluppo agli esercizi e ai
compiti imitativi eseguiti appunto dai bambini.
Entrambi i modelli riconoscono l’importanza della loro interazione, al fine di promuovere la
formazione e il passaggio all’abilità di conteggio effettiva.
Lo sviluppo di queste abilità viene rese esplicito dalle seguenti cinque fasi:
1. La sequenza dei numeri è usata come se fosse una sola stringa di parole
2. Le parole-numero sono distinte, ma la sequenza segue una sola direzione, in avanti e a
partire dal numero uno
3. La sequenza è più flessibile potendo partire da un numero qualsiasi, nonostante ciò debba
seguire delle regole di relazione numerica
4. Le parole-numero ora sono ben distinte nella sequenza e non è più necessario il ricorso a una
corrispondenza biunivoca
5. La sequenza diventa uno strumento bidirezionale tramite cui operare con diverse modalità
Si può dunque concludere che il conteggio è un processo grazie al quale abilità innate (natura) e
conoscenze apprese (cultura) si incontrano per costituire un aspetto cardine all’apprendimento
dell’aritmetica, preparando il bambino ad acquisire le competenze procedurali più complesse alla
base delle abilità di calcolo.
Il modo in cui i bambini apprendono le strategie di calcolo è parte di un percorso evolutivo, che
inizia dall’acquisizione di semplici meccanismi di conteggio, fino ad arrivare allo sviluppo di
strategie più complesse come il recupero di informazioni conservate in memoria, fino alla
scomposizione dei numeri. Siegler e Mitchell, nel 1982, hanno identificato quattro modalità usate
inizialmente dal bambino per risolvere calcoli a mente molto semplici di cui però non conosce il
risultato:
1. Conteggio con le dita esplicito
2. Conteggio verbale ad alta voce senza l’uso delle dita
3. Uso delle dita senza conteggio
4. Mancanza di strategia
La scelta della modalità non deriva da una consapevolezza da parte del bambino, quanto più da un
criterio che gli autori definiscono “livello di fiducia”. Al contrario, secondo Ashcraft (1994), i
processi di recupero (regole dichiarative) e quelli di conteggio (regole procedurali) sono attivati nel
bambino in maniera parallela, anche se solo la strategia più veloce nel fornire la risposta sarà
utilizzata. Infine, secondo Baroody (1983), questi meccanismi evolvono nel tempo, riuscendo a
trasformarsi da lente procedure di conteggio a regole automatiche, che ci aiuterebbero nella maggior
parte delle operazioni ad una cifra.
L’apprendimento della matematica formale risulta notevolmente condizionato anche da abilità
dominio-generali come il controllo attentivo e l’intelligenza. Diverse ricerche hanno evidenziato
come la capacità dei bambini di focalizzarsi sul compito e di controllare la loro attenzione sia
predittiva del loro successo a lungo termine nell’apprendimento matematico al di là dell’influenza
delle competenze dominio-specifiche nell’elaborazione numerica.
La componente cognitiva dominio-generale forse più estesamente studiata in relazione
all’apprendimento matematico è la memoria di lavoro, un sistema che permette di mantenere in
memoria informazioni per un determinato lasso di tempo, mentre, contemporaneamente, queste
stesse o altre vengono elaborate. Il modello di memoria più studiato è quello multi-componenziale
di Baddeley, che prevede al centro l’esecutivo centrale, un sistema di controllo attentivo che
gestisce la informazioni attivate nei due sistemi di rappresentazione, rispettivamente verbale e
visuospaziale. La componente verbale della memoria di lavoro sembra più coinvolta nelle prime fasi
di apprendimento, come il conteggio e la mappatura verbale dei fatti aritmetici. La componente
visuo-spaziale sembra invece fornire uno spazio di lavoro mentale per le manipolazioni che spesso
si rivela debole nei bambini con disabilità dell’apprendimento matematico. Nel 2014, Caviola ha
cercato di delineare le differenze individuali alla base delle competenze necessarie per risolvere le
sottrazioni scritte con il prestito. L’abilità di apprendere la procedura di calcolo scritto era spiegata
sia dalle abilità di memoria di lavoro visuo-spaziale che da specifiche abilità matematica.

MODELLI NEUROPSICOLOGICI
Secondo alcuni modelli neuropsicologici, le abilità numeriche sono indipendenti dalle funzioni
intellettive, dalla memoria e dal linguaggio. Si sono delineati due modelli di questo tipo:
1. MODELLO DI COMPRENSIONE NUMERICA E CALCOLO ARITMETICO = di
McCloskey, Caramazza e Basili, 1985; il sistema distingue chiaramente il sistema di
calcolo da quello di input (comprensione) e output (produzione) dei numeri. Il primo
sistema comprende tutto l’insieme di conoscenze necessarie per eseguire i calcoli aritmetici.
Il sistema dei numeri racchiude invece i processi di comprensione e di produzione numerica,
il riconoscimento, quindi, e la riproduzione, dei simboli numerici o delle parole che indicano
i numeri. Il modello consente di spiegare difficoltà nell’elaborazione e nel riconoscimento di
simboli e di procedure aritmetiche così come nel recupero di fatti aritmetici
2. MODELLO DEL TRIPLO CODICE = di Dehaene, 1992; con questo modello, la
neuropsicologia della cognizione numerica si è spostata verso un approccio più legato ad un
substrato neurale, con l’intento di individuare una relazione più ampia tra numero e altri
domini cognitivi. Ciascun codice corrisponde a dei correlati neurali distinti e ben definiti nel
cervello:
 Codice visivo-arabico: è coinvolto nei processi di lettura e scrittura del numero. I
compiti che lo attivano sono il calcolo scritto e il giudizio di parità
 Codice analogico di quantità: si occupa di rappresentare la numerosità in modo
analogico e non-verbale e, essendo alla base della comprensione della grandezza
numerica, risulta coinvolto nei confronti di grandezza o nei giudizi sull’ordine, cioè
sia nella dimensione cardinale che in quella ordinale. I compiti che lo attivano sono
compiti di stima, calcoli approssimativi e subitizing, sottolineando così la stretta
relazione al concetto di number sense
 Codice verbale: permette di rappresentare i numeri in modo lessicale, fonologico e
sintattico, così come avviene per qualsiasi tipo di parola, facendo uso di meccanismi
linguistici generali

Per quanto riguarda i fatti aritmetici, il modello del triplo codice assume quindi una
rappresentazione a base linguistica, opposta alla rappresentazione indipendente dal linguaggio del
modello modulare di McCloskey. Anche il modello del triplo codice assume comunicazioni
additive e non interattive tra i sistemi di rappresentazione. I numeri sono associati a diverse funzioni
o compiti e di conseguenza l’attivazione di codici numerici per un determinato compito innesta una
complessa rete di associazioni e di processi che includono informazioni più o meno rilevanti. Gli
errori sono solitamente di tipo semantico sulla stessa (2x7 = 21) o relativa operazione (2x7 = 9), e
spesso possono essere intrusioni di operandi o di risposte date precedentemente.
LeFevre e altri, nel 2010, hanno proposto un modello evolutivo dello sviluppo delle competenze
matematiche, il MODELLO DELLE RELAZIONI (the Pathways Model), che si basa
sull’interazione tra competenze dominio-specifiche e dominio-generali. Comprende tre precursori:
1. Le abilità linguistiche
2. L’attenzione spaziale
3. Le competenze quantitative
Secondo questo modello, i processi cognitivi sono coinvolti in tre diverse vie di apprendimento della
matematica:
1. Le abilità linguistiche permettono e supportano l’apprendimento del sistema simbolico (per
esempio, la scrittura dei numeri arabici)
2. L’attenzione spaziale e la componente visuo-spaziale della memoria di lavoro sono coinvolte
in modo indipendente in entrambi i sistemi
3. I precursori della rappresentazione di quantità sono responsabili delle operazioni sulle
quantità (per esempio, di più, di meno)
L’importante relativa di ciascuna relazione dipende dalla misura in cui il sistema numerico e la
conoscenza della quantità numerica vengono utilizzati nel compito matematico.

Infine un altro importante modello è quello di Butterworth del 2011, che prende il nome di
MODELLO CAUSALE, che riassume le possibili interrelazioni che avvengono durante
l’apprendimento e l’esecuzione di compiti matematici tra il sistema biologico, il sistema cognitivo e
quello comportamentale. Le basi neurali delle abilità aritmetiche sembrano risiedere nei lobi
parietali, separate dal linguaggio e dalle capacità dominio-generali. L’organizzazione neurale delle
conoscenze aritmetiche è dinamica e passa dal coinvolgimento di un circuito a un altro durante il
processo di apprendimento.

LA DISCALCULIA EVOLUTIVA: DEFINIZIONE E CLASSIFICAZIONE


DISCALCULIA EVOLUTIVA (DCE o DISTURBO SPECIFICO DEL CALCOLO)  con
questo termine ci si riferisce a un disturbo specifico dell’acquisizione e/o dell’apprendimento del
calcolo, che interessa non solo il calcolo (calcolo a mente, fatti aritmetici, esecuzione delle procedure
di calcolo scritte), ma anche di altri aspetti relativi al numero e alla quantità, come la produzione o
la comprensione delle quantità, il riconoscimento dei simboli numerici. Qualche volta il termine
discalculia è stato usato per descrivere genericamente tutte le difficoltà matematiche e quindi, per
esempio, l’abilità di problem solving.
Nell’ICD-10, la DCE viene identificata come un disturbo caratterizzato da prestazioni
significativamente inferiori, rispetto all’età cronologica del bambino, nella capacità di calcolo,
misurate con test standardizzati, a fronte di normali abilità cognitive e opportunità di
apprendimento. Questo disturbo implica una specifica compromissione dell’abilità aritmetica che
riguarda la padronanza delle capacità di calcolo fondamentali (addizione, sottrazione,
moltiplicazione e divisione). Tali difficoltà differiscono in modo significativo con l’apprendimento
scolastico e con le attività della vita quotidiana.
La definizione proposta dal DSM-5 prende in considerazione, oltre alle abilità strettamente legate ai
numeri e al calcolo, anche competenze più complesse, quali il ragionamento matematico, il problem
solving, e abilità come algebra e geometria, distinte però in due aspetti fondamentali. Il manuale
fornisce una sorta di rating in relazione alla gravità dei sintomi riportati, specificando gli ambiti più
compromessi: gravità che il DSM-5 specifica come lieve, moderata e severa in base alle
conseguenze adattive del disturbo e al livello di supporto e sostegno che richiede.
La Consensus Conference ha suggerito la necessità di definire criteri più precisi per
l’identificazione di profili clinici, sottolineando l’importanza di tale specificità ai fini riabilitativi. I
suoi documenti raccomandano un’analisi qualitativa degli errori commessi.
Il documento del 2012 dell’AIRIPA e dell’AID riprende e sintetizza le precedenti indicazioni
fornite dai tavoli di confronto e dalla letteratura internazionale. Tale documento raccomanda di non
utilizzare criteri di classificazione troppo rigidi, ossia facendo riferimento a sottotipi più o meno
precisi, in quanto a livello internazionale non si è ancora raggiunto un accordo sulla loro
distinzione.

INCIDENZA DEL DCE


Il disturbo viene solitamente definito da prestazioni molto inferiori alla media in prove matematiche
standardizzate. Riguardo all’età, il contenuto dei test è sempre diverso quando sono rivolti a gruppi
di età differenti. L’incidenza di DCE sembra essere stimata tra l’1,3 e il 10% della popolazione,
utilizzando un cut-off che varia da prestazioni inferiore al terzo fino al 25° percentile. In altri casi si
è utilizzato come criterio diagnostico per definire la DCE un ritardo in termini di successo
matematico di almeno due anni.
Le difficoltà matematiche possono essere associate a debolezza cognitive dominio-generali (per
esempio, memoria di lavoro, funzioni esecutive, ecc.) e a problematiche di natura emotiva, come
l’ansia per la matematica.
I maschi, mediamente, continuano a presentare prestazioni superiori, rispetto alle femmine, nella
risoluzione di problemi matematici. Però, Devine e altri, nel 2013, hanno dimostrato che con
l’applicazione di soglie assolute la prevalenza di DE non varia in relazione al genere,
indipendentemente dai valori di cut-off, viceversa, le differenze di genere emergono quando si
utilizza il criterio di discrepanza con l’abilità di lettura.

GLI STRUMENTI PER LA VALUTAZIONE DELLE ABILITA’ DI CALCOLO


Anche se l’età minima in cui è raccomandato dalla Consensus Conference cominciare a effettuare
una diagnosi di discalculia coincide con il completamento del terzo anno di scuola primaria, è
comunque possibile, già in età prescolare, realizzare degli screening utili per l’identificazione
precoce del rischio di insorgenza del disturbo e per la progettazione di interventi educativi di
potenziamento adeguati e mirati ai bisogni del bambino.
Tra gli strumenti di valutazione più utilizzati troviamo:
1. BATTERIA PER LA VALUTAZIONE DELL’INTELLIGENZA NUMERICA = può essere
utilizzata in bambini dai 4 ai 6 anni di età; consente di valutare le componenti di base
dell’apprendimento numerico e di individuare i punti di forza e di debolezza di ogni
soggetto. Il test è suddiviso in 11 prove e valuta quattro importanti precursori delle abilità di
calcolo:
 I processi della “comprensione qualitativa”
 I processi di conteggio
 I processi lessicali
 I processi presintattici
2. TEDI-MATH – TEST DIAGNOSTIQUE DES COMPETENCES DE BASE EN
MATHEMATIQUES = può essere utilizzato a partire dal termine del secondo anno della
scuola dell’infanzia fino al terzo anno della scuola primaria. Valuta le seguenti competenze:
 Enumerazione
 Conteggio
 Comprensione del sistema numerico
 Operazioni logiche
 Calcolo
 Stima di grandezza
3. AC-MT 6-11 e AC-MT 11-14 = valutano alcuni meccanismi di apprendimento, errori e
deficit, in riferimento ad aspetti semantici, sintattici e lessicali. Un aspetto considerato
unanimemente di grande importanza è rappresentato dalla conoscenza dei “fatti” tipicamente
chiamati “numerici”. Per verificare se il risultato di una somma elementare o di una tabellina
è effettivamente noto al bambino e non viene calcolato, le prove di “fatti” considerano una
risposta valida solo se data immediatamente (tipicamente entro 3-5 secondi).
 Batteria AC-MT 6-11: è impiegata con bambini della scuola primaria per valutarne
le competenze matematiche di base. È composta da una parte a “carta e matita” della
durata di 25/30 minuti per l’accertamento generale delle abilità numeriche e da una
parte “individuale” della durata di 10/15 minuti per un’analisi più specifica di questa
competenza e il controllo dei tempi
 Batteria AC-MT 11-14: è impiegata con i ragazzi della scuola secondaria di primo
grado; è composta da prove di espressioni aritmetiche, completamento di serie,
trascrizione in cifre, calcolo approssimativo e fatti, procedure e principi. Misura
quattro indici:
 Operazioni scritte in classe
 Conoscenza numerica
 Accuratezza (somma degli errori)
 Tempo totale
L’acquisizione delle abilità di calcolo scritto costituisce un’abilità centrale: esso si sorregge sia sua
abilità dominio-generali, sia su abilità dominio specifiche, compresi precedenti apprendimenti.
4. TEST ABCA – TEST DELLE ABILITA’ DI CALCOLO ARITMETICO = indaga competenze
relative alla comprensione e alla produzione di numeri
5. BDE 2 – BATTERIA PER LA DISCALCULIA EVOLUTIVA = è rivolta a bambini delle classi
terze, quarte, quinte della scuola primaria e a ragazzi della scuola secondaria di primo grado.
La batteria è organizzata in tre macroaree:
 Area del numero: consente di valutare le abilità di elaborazione numerica
 Area del calcolo: è suddivisa in prove che richiedono il recupero di fatti aritmetici,
calcolo a mente e calcolo scritto
 Area del senso del numero: per la valutazione della comprensione semantica
Inoltre è caratterizzata da quattro indici:
 Quoziente numerico (QN)
 Quoziente di calcolo (QC)
 Quoziente di cognizione numerica o senso del numero (QSN)
 Quoziente totale (QT)
6. DISCALCULIA TEST – TEST PER LA VALUTAZIONE DELLE ABILITA’ E DEI
DISTURBI DEL CALCOLO = consente una valutazione delle principali competenze e abilità
numeriche e matematiche. Sono previsti cinque moduli:
 Prova a preliminare
 Senso del numero
 Fatti numerici
 Dettato di numeri
 Calcolo a mente
7. BATTERIA PER LA DIAGNOSI DI DISCALCULIA – VALUTAZIONE DELLE ABILITA’
NUMERICHE, DI CALCOLO E DI “PROBLEM SOLVING” IN ETA’ EVOLUTIVA = è
suddivisa in quattro protocolli differenziati per gruppi di classe. Ogni protocollo indaga
quattro aree d’interesse:
 Sistema del numero: è a sua volta suddiviso in 5 prove
 Sistema del calcolo
 Cognizione numerica: indaga i processi semantici e sintattici del numero
 Abilità di “problem solving”
Nel corso degli anni 2017-2019 si è ritenuto opportuno revisionare la classiche prove AC-MT:
adesso sono caratterizzate da un’ampia considerazione degli aspetti del numero e del calcolo che
includono anche processi di ragionamento sui numeri.

PROFILI FUNZIONALI
Gli studi più recenti suggeriscono due ipotesi in cui il deficit coinvolge competenze dominio-
specifiche di base:
1. DEFECTIVE NUMBER MODULE = la quale assume che il disturbo sia legato ad un deficit
nella rappresentazione di numerosità non-simboliche, spesso definita anche con il termine
number sense, competenza che secondo gli autori consentirebbe la comprensione immediata
della grandezza numerica
2. ACCESS DEFICIT HYPOTHESIS = sostiene che il problema non si localizzi a livello di
accesso al modulo numerico di per sé, ma nel passaggio dalla rappresentazione di grandezza
non-simbolica al sistema simbolico dei numeri arabi
La ricerca più strettamente psicologica ha individuato diverse funzioni cognitive che svolgono un
ruolo chiave nello sviluppo matematico proponendo diverse spiegazioni alternative del disturbo. I
deficit cognitivi riscontrati in bambini con DCE riguardano un carente funzionamento della
memoria di lavoro verbale e/o visuospaziale che è di fondamentale importanza per il mantenimento
temporaneo e l’elaborazione di informazioni numeriche necessarie per lo svolgimento di numerosi
compiti quali il risolvere un calcolo complesso o trovare la soluzione di un problema.
Altri studi hanno individuato, in questi bambini, anche carenti abilità di inibizione e carenti capacità
attentive.
In uno studio di Szucs del 2013, si è visto come le teorie basate sull’ipotesi di un deficit del modulo
numerico o di accesso alla rappresentazione simbolica non siano sufficienti a spiegare la
complessità del profilo funzionale della DCE. I dati sembrano anche suggerire che le difficoltà in
matematica
riscontrate dai bambini siano legate a deficit specifici a livello di memoria a breve termine e
memoria di lavoro visuo-spaziale, con annessa una compromissione della funzione inibitoria.
Sempre Szucs, nel 2016, ha condotto un’altra ricerca i cui risultati hanno messo in luce l’esistenza di
due profili distinti dello stesso disturbo:
1. Un sottotipo di DCE sembra essere associato a problemi di lettura e a debolezze a livello
della componente verbale della memoria di lavoro e della memoria a breve termine
2. Il secondo profilo non risulta avere associati problemi di lettura e le basse prestazioni in
matematica sembrano essere legate a cadute selettive nella memoria di lavoro e a breve
termine visuo-spaziale

ASPETTI EMOTIVI
Gli aspetti emotivi-motivazionali degli studenti sono caratterizzati da ansia, resistenza al
ragionamento matematico, timore di sbagliare, fino ad arrivare all’impotenza attesa.
L’atteggiamento degli studenti nei confronti della matematica è strettamente influenzato dai risultati
scolastici: il conseguimento di buoni risultati in matematica innesca una spirale positiva favorendo
atteggiamenti costruttivi che a loro volta danno origine a buone prestazioni. Al contrario, risultati
scadenti influenzano atteggiamenti negativi, portando talvolta a un vero e proprio rifiuto della
matematica.
Gli aspetti emotivo-motivazionali giocano dunque una parte importante nell’ambito della
cognizione e dell’apprendimento matematico.
ANSIA PER LA MATEMATICA  stati d’ansia e sensazioni di impotenza e di preoccupazione
avvertiti durante le lezioni di matematica, o attività correlate, che influenzano negativamente
l’achievement matematico in adulti e/o bambini.
Gli studenti con livelli più alti di MA, generalmente percepita come un sensazione di tensione,
accompagnata da emozioni quali timore e paura della matematica, tendono ad avere prestazioni più
scadenti in compiti matematici rispetto ai compagni che mostrano livelli più bassi. La MA sembra
quindi avere conseguenze gravi, non solo a breve termine (sulla prestazione scolastica), ma anche a
lungo termine, influenzando negativamente la scelta della carriera, il tipo di occupazione e la
crescita professionale nell’età adulta.
Secondo il programma PISA (Programme for International Student Assessment), il 24,4% delle
ragazze riporta livelli elevati di MA contro il 15% dei ragazzi: in Italia il divario rilevato è del
48,5% per le ragazze contro il 37,8% dei ragazzi. Quindi le ragazze riportano livelli di MA superiori
rispetto ai ragazzi.
La memoria di lavoro è stata ampiamente studiata in relazione alla MA: si è ipotizzato che i pensieri
intrusivi generati da stati di ansia per la matematica andassero a interferire con la capacità dei
soggetti di eseguire compiti matematici, consumando ed erodendo le loro risorse di memoria di
lavoro. In alcune ricerche si è visto che i bambini con DE mostravano prestazioni maggiormente
compromesse nelle prove di memoria visuo-spaziale rispetto a quelle verbali; mentre i bambini con
più alti livelli di MA presentavano un profilo più debole nelle prove di memoria di lavoro verbale.

IL TRATTAMENTO DELLE DIFFICOLTA’ DI CALCOLO


Gran parte delle esperienze di trattamento sono più dei suggerimenti sul cosa fare, una volta
completata la diagnosi. La comprensione richiede rappresentazioni semantiche sul significato di
simboli e numeri. Nella produzione invece si richiedono processi di recupero di combinazioni e
sequenze di numeri oltre che la loro identificazione e scrittura.
Conoscendo lo stato di efficienza di diverse sotto-abilità, sarà possibile scegliere esercitazioni
mirate al potenziamento di quelle deficitarie evitando di esercitare l’alunno in quelle che risultassero
a livelli sufficienti. Il primo obiettivo sarà quello dell’accuratezza, seguito da quello della
velocità. Un esempio è quello del training per automatizzare il recupero di combinazioni tra
numeri come le
tabelline; è consentito l’uso di materiale compensativo come la tavola pitagorica e la calcolatrice.
L’insegnamento infine di strategie, sia generali che specifiche, risulterà fondamentale per assicurare
il livello massimo di autonomia operativa nell’applicazione e nel controllo delle conoscenze e delle
abilità acquisite. Si possono usare tecniche come quella della dimostrazione, guida esplicita,
modellamento, auto-verbalizzazioni e rinforzo.
Vediamo una serie di tecniche utile per favorire determinate capacità matematiche:
1. CONSTANT TIME DELAY = è utile per favorire l’apprendimento dei fatti moltiplicativi (le
tabelline); consiste nel proporre al soggetto una tabellina fornendo inizialmente subito la
risposta. Questa tecnica costituisce una delle varianti possibili di un apprendimento di tipo
associativo, che sfrutta il vantaggio della ripetizione sistematica ai fini
dell’automatizzazione della risposta, ma non tiene conto del passaggio rappresentato dalla
comprensione del fatto
2. MEMOCALCOLO = è un programma di Fuchs (2013) di promozione dei fatti numerici che
è stato portato avanti con successo, sia con una modalità diretta di drill and practice
(esercizio e pratica) oppure con una modalità combinata che tiene conto del fatto che il
bambino può essere aiutato da strategie di conteggio e scomposizione/composizione di
numeri. Il bambino capisce il fatto e il suo risultato e, per memorizzarlo, sceglie la strategia
per lui più propizia. È finalizzato all’insegnamento dei fatti aritmetici, ma sollecita anche
alcune funzioni matematiche. Il programma infatti si articola nelle seguenti parti:
 Principi di calcolo
 Strategie per automatizzare
 Fatti additivi e sottrattivi
 Fatti pitagorici e sottrazioni
 Fatti moltiplicativi
 Dai fatti al calcolo
 Giochi con i numeri
 Attività di consolidamento
Il bambino deve sia capire sia automatizzare il fatto e quindi occorrono processi iniziali
attentivi e successivi processi associativi ripetuti con costanza e sistematicità.
3. METODO DEGLI SPLITS = cioè della divisione in decine e unità con una linea dei numeri
fino a 100 sulla quale sono evidenziati con un colore diverso i multipli di 10
4. Per quanto riguarda la comprensione e il calcolo con i numeri razionali, alcuni studiosi
un’analisi cognitiva: in breve si passa a esperienze concrete e rappresentazione grafica di
cosa significa “metà” o 50%, un “quarto” o 25% ecc., alla scrittura di quantità
corrispondenti a interi più una loro parte. Gli studiosi suggeriscono l’utilizzo di diversi tipi
di rappresentazione grafica e concreta dei rapporti tra intero e sue parti che includono la
comprensione dell’intero, l’introduzione del formalismo, il confronto di frazioni, i calcoli
con frazioni
5. CURRICULUM DELLA RESNICK = favorisce l’apprendimento del calcolo aritmetico
6. NUMBER RACE
7. Un programma più ampio, che propone sia il potenziamento che il recupero delle abilità
numeriche e del calcolo, è quello di Lucangeli del 2003. Si focalizza sulle modalità
cognitive di elaborazione del sistema numerico. L’accento viene posto anche sugli aspetti
metacognitivi. L’intero progetto di base è articolato in quattro volumi:
 L’intelligenza numerica: abilità cognitive e metacognitive implicate nella costruzione
della conoscenza numerica dai 3 ai 6 anni
 L’intelligenza numerica: abilità cognitive e metacognitive implicate nella costruzione
della conoscenza numerica dai 6 agli 8 anni
 L’intelligenza numerica: abilità cognitive e metacognitive implicate nella costruzione
della conoscenza numerica dagli 8 agli 11 anni
 L’intelligenza numerica: abilità cognitive implicate nella costruzione della conoscenza
numerica dagli 11 ai 14 anni
La ricerca recente ha individuato alcune principali componenti cognitive dominio-generali, quali la
memoria di lavoro visuo-spaziale e le funzioni esecutive, che risultano essere fortemente associate
allo sviluppo della competenza matematica e quindi compromesse nel disturbo.
I DISTURBI DELLA SCRITTURA: DISGRAFIA, DISORTOGRAFIA E DIFFICOLTA’ DI
ESPRESSIONE SCRITTA

La scrittura si configura come un processo complesso che comprende tre componenti molto diverse
tra loro:
1. La competenza grafo-motoria
2. La competenza ortografica
3. La capacità di espressione scritta
La competenza grafo-motoria e quella ortografica costituiscono gli aspetti strumentali della scrittura
implicati nella fase di trascrizione, ossia nel momento in cui le parole vengono messe per iscritto.
La prima racchiude tutte le abilità che consentono al bambino di riprodurre i singoli segni grafici dal
recupero dei pattern motori necessari per realizzare ciascun grafema fino alla loro effettiva
esecuzione. La seconda comprende i processi di conversione dei fonemi nei corrispondenti grafemi
e quelli di recupero della forma ortografica dell’intera parola, necessari per scrivere correttamente.
L’espressione scritta rappresenta un’abilità più complessa che implica processi cognitivi con un
maggior grado di controllo.

MECCANISMI MENTALI E APPRENDIMENTO DELLA SCRITTURA: LA COMPETENZA


ORTOGRAFICA
COMPETENZA ORTOGRAFICA  riguarda la capacità di codificare la parola pensata o
ascoltata nella corrispondente forma scritta, seguendo le regole e le convenzioni caratteristiche della
propria lingua di appartenenza.
Il funzionamento di tale processo può essere spiegato da un modello, già proposto per il caso
simmetrico delle lettura attivano a partire dalla parola udita: la via fonologica e la via semantico-
lessicale:
1. VIA FONOLOGICA = consente, attraverso l’attivazione del buffer fonemico, di identificare i
singoli suoni che compongono la parola, convertirli nei corrispondenti segni grafici e
organizzarli secondo un preciso ordine
2. VIA SEMANTICO-LESSICALE = permette di recuperare la forma ortografica dell’intera
parola e il suo significato
BUFFER GRAFEMICO  ha il compito di conservare in memoria i grafemi e la loro corretta
posizione mentre si attivano i processi periferici necessari per trascrivere la parola.
Nelle lingue trasparenti come l’italiano, la via fonologica consente di scrivere correttamente la
maggior parte delle parole. Tuttavia, anche nella lingua italiana, ci sono parole caratterizzate da
ambiguità ortografiche.
Invece, per spiegare l’apprendimento della scrittura dal punto di vista ortografico si ha un altro
modello.
MODELLO STADIALE  di Uta Frith (1985); identifica le diverse fasi attraverso cui si declina
l’acquisizione dei processi di scrittura secondo una modalità sequenziale:
1. STADIO LOGOGRAFICO = nel quale il bambino familiarizza con alcune forme scritte delle
parole
2. STADIO ALFABETICO = il bambino prende consapevolezza del fatto che la parola è
composta da una serie di elementi costituenti
3. STADIO ORTOGRAFICO = nel quale il bambino si costruisce un magazzino ortografico
4. STADIO LESSICALE = in cui la parola viene letta e scritta in modo globale
Uno studio di Notarnicola del 2012 ha evidenziato che sin dal primo anno di scolarizzazione sono
presenti entrambe le vie di scrittura. Tuttavia, è possibile osservare già in queste prime fasi che, a
parità di difficoltà ortografica, la probabilità di trascrivere correttamente le parole varia in funzione
dell’effetto della lessicalità e dell’età di acquisizione, ossia il bambino tende a scrivere più
correttamente parole che fanno parte del lessico infantile. Il ricorso alla via fonologica raggiunge la
sua massima efficienza intorno al terzo-quarto anno della scuola primaria, invece l’evoluzione della
via lessicale si protrae anche nella scuola secondaria di I grado.
Angelelli nel 2017 ha evidenziato che nelle prime fasi di apprendimento della scrittura, i bambini si
mostrano sensibili alle proprietà ortografiche e alla frequenza con cui esse si presentano nelle parole
quando scrivono utilizzando la via sublessicale. Le informazioni morfologiche vengono utilizzate
per favorire la correttezza ortografica.

LA COMPETENZA GRAFOMOTORIA
COMPETENZA GRAFOMOTORIA  comprende tutte quelle abilità che consentono al
soggetto di riprodurre i singoli segni grafici. Riguarda i processi periferici e tali processi sono
caratterizzati da tre componenti distinte:
1. La prima specifica la forma e l’esecuzione dell’allografo
2. La seconda consente di programmare la dimensione del grafema unitamente alla velocità e
alla forza di esecuzione
3. La terza attiva le unità motorie necessarie per eseguire effettivamente quanto programmato
Lo sviluppo della componente esecutivo-motoria è composto da:
1. ABILITA’ VISUO-SPAZIALE = si declinano in abilità specifiche quali la discriminazione
visiva, il completamento visivo e la percezione dei rapporti spaziali
2. SCHEMA MOTORIO = i principali movimenti coinvolti nella realizzazione dei grafemi sono
quelli di incisione, iscrizione e progressione. Il bambino deve conoscere e rispettare le
regole che riguardano la disposizione spaziale delle lettere e delle parole all’interno della
pagina, secondo le convenzioni del proprio sistema di scrittura
Secondo McCloskey e Rapp (2017), l’acquisizione della scrittura a mano comporta una serie di
modifiche durante lo sviluppo: la scrittura, inizialmente lenta e variabile, intorno ai 10 anni di età e
come risultato di un’ampia pratica, diventa automatizzata, veloce e meno variabile. Tali
cambiamenti si pensa corrispondano all’integrazione progressiva nella memoria motoria a lungo
termine dei vari programmi motori necessari per realizzare le parole in modo fluente.
Come evidenziato da Kandel e Perrett (2015), un’altra conseguenza della maggiore automaticità
include l’aumento dell’interazione tra i livelli di elaborazione ortografica centrale e i processi
motori più periferici.

LA CAPACITA’ DI ESPRESSIONE SCRITTA


ESPRESSIONE SCRITTA  può essere definita come la capacità di scrivere in modo autonomo
dei testi che siano adeguati rispetto a diversi contesti e scopi.
La costruzione di un testo implica vari processi cognitivi, metacognitivi, linguistici e sociali.
Haynes e Flower, nel 1980, hanno descritto l’espressione scritta come un compito di problem
solving che coinvolge tre componenti principali interconnesse tra loro:
1. Il contesto del compito, ovvero titolo, argomento, destinatario, scopo per cui si scrive
2. La memoria a lungo termine, ovvero conoscenze di vario genere e piani di scrittura
3. Il processo di scrittura vero e proprio, articolato nelle fasi di:
 Pianificazione
 Trascrizione
 Revisione
Tale modello sottolinea anche il coinvolgimento continuo di processi di controllo e di memoria di
lavoro che svolgono una funzione di coordinamento delle diverse variabili coinvolte.
Successivamente, Berninger e Swanson (1994) hanno sottolineato la distinzione tra la generazione
del testo e la sua trascrizione.
La produzione di un testo scritto può essere considerata come il risultato di alcuni fattori generali
che, nell’ambito di uno specifico contesto e in relazione a specifici scopi, influenzano i principali
processi psicologici coinvolti: generazione, pianificazione, trascrizione e revisione. La generazione
di idee è influenzata dalla quantità di informazioni pertinenti immagazzinate nella memoria a lungo
termine e della facilità con cui si accede ad esse.
TRASCRIZIONE  è la fase in cui si inseriscono anche le componenti strumentali della scrittura,
ossia la competenza ortografica e le abilità grafo-motorie, ed è fortemente influenzata dalla
competenza linguistica del bambino.
La rilettura è un’operazione attiva e produttiva in cui lo scrittore si pone con un atteggiamento
“critico” rispetto al proprio elaborato.
I processi fondamentali dello scrivere si sviluppano con ritmi differenti:
1. Fase della trascrizione
2. Generazione del testo
3. Pianificazione e correzione online o locale
4. Fase della revisione sia locale che globale
Durante la scuola primaria, cresce anche la capacità della memoria di lavoro.

I DSA E LA SCRITTURA
La configurazione della capacità di scrittura come l’insieme di tre componenti fondamentali (grafo-
motoria, ortografica e di espressione scritta) si declina anche nelle condizioni di difficoltà o
disturbo. L’ICD-10 riconosce il disturbo specifico della compitazione. La disgrafia in molti paesi
del mondo viene tipicamente inclusa nel disturbo della coordinazione motoria ma può essere
codificata all’interno della categoria Altri disturbi evolutivi delle abilità scolastiche.
Il DSM-5 inserisce le difficoltà di spelling (disortografia) e di espressione scritta all’interno della
categoria unica dei Disturbi specifici dell’apprendimento. In più, sono stati identificati criteri
specifici che è necessario soddisfare per porre diagnosi di disgrafia, disortografia e/o difficoltà
nell’espressione scritta.

LA DISORTOGRAFIA
DISORTOGRAFIA EVOLUTIVA  è un deficit che riguarda la componente linguistica della
scrittura e può essere definita come un “disordine nella codifica del testo scritto, che viene fatto
risalire a un deficit di funzionamento delle componenti centrali del processo di scrittura,
responsabili della transcodifica del linguaggio orale nel linguaggio scritto”. Si manifesta attraverso
la presenza di una quantità elevata di errori ortografici, a cui si associa talora una lentezza nella
scrittura conseguente proprio alla ridotta efficienza dei meccanismi che regolano il passaggio dal
codice orale al codice scritto. Può essere ricondotta a un deficit a carico di una o di entrambe le vie:
la via fonologica che porterà alla presenza di errori nel rapporto fonema-grafema; la via semantico-
lessicale che comporta errori nella rappresentazione ortografica della parola.
La disortografia si accompagna molto spesso a difficoltà di lettura o a vera e propria dislessia.
Alcuni studi con bambini italiani con dislessia e disortografia hanno evidenziato che essi presentano
frequentemente una fragilità nelle procedure sublessicali ma con un deficit maggiore
nell’elaborazione della parola intera (Angelelli e altri, 2010). È emerso che bambini con
disortografia isolata presentano deficit a carico del loop fonologico, e in particolare nel magazzino
fonologico a breve termine. A tale deficit si aggiunge una disfunzione a carico del sistema esecutivo
centrale. In conclusione, questo studio rileva una compromissione a carico della memoria di lavoro
visuo- spaziale.
Un altro studio condotto da Torppa nel 2017 ha evidenziato che il gruppo di bambini con disturbo
di lettura isolato aveva presentato debolezze soprattutto nella denominazione rapida automatizzata e
nella conoscenza di lettere, mentre i bambini con disturbo a carico dell’ortografia isolata avevano
mostrato difficoltà nella consapevolezza fonologica e nella conoscenza delle lettere.
Per la diagnosi di DSA, il parametro quantitativo su cui si fonda la valutazione è costituito dal
numero di errori commessi, che deve essere tale da collocare la prestazione al di sotto del 5°
percentile. In associazione a un’analisi qualitativa degli errori, vi sono diverse proposte teoriche di
classificazione degli errori ortografici. Tressoldi e Cornoldi (2000) propongono tre tipologie di
errori:
1. ERRORI FONOLOGICI = riguardano tutti i casi in cui non viene rispettato il rapporto
fonema-grafema
2. ERRORI NON FOLOGICI = si intendono gli errori nella rappresentazione ortografica visiva
della parola
3. ERRORI FONETICI = fanno riferimento all’uso errato di doppie e accenti
Angelelli, nel 2008, ha suddiviso gli errori ortografici in quattro gruppi:
1. Parole regolari con corrispondenza 1 fonema-1 grafema
2. Parole regolari contenenti suoni a conversione sillabica
3. Parole a trascrizione ambigua
4. Non-parole con corrispondenza 1 fonema-1grafema
Infine, lo studio di Bozzo (2000) prevede ben 16 categorie di errori.
L’iter valutativo deve prevedere la somministrazione di una batteria di prove di diversa tipologia. Le
prove più importanti sono quelle di dettato a diversi livelli: brano, parole isolate, non-parole. A ciò
si aggiungono compiti particolari di ortografia e prove di espressione scritta. È stato possibile
osservare che in fasi scolastiche più avanzate prove più semplici come il dettato di parole isolate o
non-parole sono spesso meno discriminative rispetto a quanto di osserva in fasi scolastiche
precedenti. È dunque possibile porre diagnosi di disortografia in presenza di punteggi critici, che si
collocano sotto il cut- off del 5° percentile (o delle 2 ds), in almeno il 50% delle prove in una
batteria sufficientemente rappresentativa delle abilità di scrittura, rispetto alla classe frequentata e al
programma didattico svolto.

LA DISGRAFIA
DISGRAFIA  è un deficit che riguarda la componente motoria della scrittura e può essere
definito come un “disturbo che coinvolge il controllo degli aspetti grafici, formali della scrittura
manuale ed è collegato al momento motorio-esecutivo della prestazione”. Si configura come una
difficoltà nella riproduzione dei segni grafici (numeri e lettere), riguardante la gestione di forma,
dimensione e collegamenti tra i segni, che produce una scrittura eccessivamente lenta, faticosa e
poco leggibile per il lettore esterno ma spesso anche per il bambino stesso. Vi sono altre
problematiche presenti frequentemente nei bambini con disgrafia: impugnatura scorretta della
penna, pressione sul foglio troppo forte o troppo leggera, scarso rispetto dei margini della pagina,
oscillazioni al di sopra e al di sotto del rigo e irregolarità nello spazio tra le lettere e tra le parole. È
riconducibile a un’alterazione nei processi implicati nella fase di trascrizione. Risultano
compromessi tutti e tre i processi motori implicati nella scrittura: selezione dell’allografo,
programmazione di dimensione, velocità e spaziatura degli allografi e regolazione muscolare.
Sono state rilevate tra i bambini con disgrafia meno organizzazione e maggiore quantità di lettere
cancellate o sovrascritte e di lettere irriconoscibili. Tra i deficit, troviamo: abilità visuopercettive o
visuo-spaziali, motorie e di coordinazione visuo-motoria.
Vengono identificati due parametri generali su cui deve basarsi la valutazione:
1. FLUENZA = ossia la velocità media di scrittura che deve collocarsi al di sotto delle 2 ds
dalla media
2. QUALITA’ DEL SEGNO GRAFICO
La fluenza è maggiormente legata agli aspetti motori dell’atto di scrittura e riguarda la velocità con
cui il soggetto scrive, misurata in termini di quantità di grafemi riprodotti per unità di tempo.
Tra le prove maggiormente utilizzate per la valutazione diagnostica troviamo:
1. BATTERIA PER LA VALUTAZIONE DELLA COMPETENZA ORTOGRAFICA = la qualità
del segno grafica dovrà essere valutata in termini di leggibilità del prodotto scritto
2. SCALA BHK
3. TEST DGM-POST = il grado di leggibilità della scrittura è dato dalla qualità dei movimenti
scrittori, delle forme e delle dimensioni della scrittura, nonché dalla disposizione della
scrittura sul foglio
Russo e Cornoldi (2011) suggeriscono di dare priorità al parametro della leggibilità per porre
diagnosi di disgrafia, pur sottolineando l’importanza di riconoscere le ricadute negative di
un’eccessiva lentezza sulla gestione dei compiti di scrittura. È importante rilevare la presenza di un
profilo neuropsicologico caratterizzato da prestazioni basse in almeno una prova prassica, visuo-
motoria o visuo-spaziale.
Altri strumenti sono: i test VMI, TPV, figura complessa di Rey, test sulle funzioni senso-motorie
della Nepsy-II.

DISGRAFIA E DISTURBO DELLA COORDINAZIONE MOTORIA


Il deficit a carico della componente grafo-motoria (disgrafia) viene spesso considerato come un segno
riscontrabile all’interno del disturbo di sviluppo della coordinazione motoria.
DISTURBO DELLA COORDINAZIONE MOTORIA  è un disturbo neurologico che
influisce sulla pianificazione dei movimenti e sulla coordinazione motoria.
Nel DSM-5 il DCD viene inserito nei disturbi neuroevolutivi. Tali bambini possono cadere
frequentemente e avere difficoltà a imitare posizioni del corpo, essere goffi, impacciati e avere in
genere uno scarso rendimento negli sport. Presentano un deficit nelle attività della vita quotidiana
che richiedono controllo prassico accurato, come vestirsi, afferrare oggetti e soprattutto scrivere.
La scala di valutazione maggiormente utilizzata è la Scala olandese MOQ-T.

LE DIFFICOLTA’ NELL’ESPRESSIONE SCRITTA


Alcuni studiosi hanno visto che elaborati espositivi degli studenti con disturbi dell’apprendimento
risultavano carenti sia nelle misure più generali, come lunghezza e qualità complessiva, sia in altre
specifiche che, facendo riferimento a vari sistemi di classificazione, riguardavano un maggiore uso
dei pronomi di prima persona e un minore utilizzo degli avverbi temporali.
È possibile identificare diversi sottotipi di difficoltà. Alcuni studiosi hanno identificato cinque aspetti
principali che possono spiegare i diversi profili di difficoltà a carico dell’espressione scritta:
1. Comprensibilità
2. Grammatica
3. Semantica
4. Ortografia
Gli studenti con disturbi dell’apprendimento incontrano maggiori difficoltà nel rivedere il testo.
Cornoldi, nel 2010, conferma l’importanza di considerare aspetti specifici nella valutazione delle
capacità di espressione scritta, al fine di identificare i diversi sottotipi di difficoltà.
Gli elaborati vengono valutati a livello qualitativo e quantitativo:
1. VALUTAZIONE QUALITATIVA = prevede l’attribuzione di un punteggio di adeguatezza alle
voci:
 Impressione generale
 Aderenza alla consegna
 Struttura del testo
 Vocabolario
 Morfosintassi e punteggiatura
2. VALUTAZIONE QUANTITATIVA = si basa sulla rilevazione della quantità di parole e di
frasi scritte, del numero di errori ortografici commessi e della percentuale di altri elementi
come aggettivi, termini ripetuti, frasi subordinate che possono supportare la valutazione
della qualità e della complessità del prodotto

EFFETTI DI TRASCINAMENTO E COMORBILITA’


La presenza di deficit a carico di una o più componenti della scrittura può avere ricadute negative
anche sulle altre, limitando l’espressione delle potenzialità del bambino. L’esistenza di tali
debolezze può comportare una maggiore demotivazione e insicurezza da parte del bambino.
È stato evidenziato che un ritmo di scrittura particolarmente lento, oltre ad impedire al bambino di
stare al passo con i compagni può limitare la capacità di comporre testi ben strutturati e creativi. In
direzione opposta, la scarsa qualità del tratto grafico può ostacolare il riconoscimento dei propri
errori ortografici.
È importante prendere in considerazione la comorbilità con altre aree di deficit: la condizione di
disortografia si presenta spesso associata a dislessia ed entrambe, a loro volta, possono presentarsi
insiemi ad altri disturbi dell’apprendimento (per esempio, discalculia), del neurosviluppo (ADHD) o
psicopatologici (ansia, depressione e disturbi della condotta). È emerso che i bambini con ADHD
commettono in generale più errori ortografici, specialmente quelli legati all’uso di accenti e doppie.

IL TRATTAMENTO DELLA DISORTOGRAFIA


Gli interventi di maggiore efficacia sulle difficoltà ortografiche sono quelli che utilizzano
l’insegnamento sistematico della corrispondenza suono-lettera e gli esercizi volti ad analizzare
suoni, sillabe e morfemi e che applicano procedure di training volte a favorire l’acquisizione e la
generalizzazione delle regolarità ortografiche. Nel 2013, McLaughlin, Weber e Derby hanno
sottolineato l’utilità di metodi diretti che insistono sulla pratica della scrittura di parole difficili,
intervenendo con una semplice correzione dell’errore o meglio con una procedura sistemica come
quella dei Tre C che indica i tre step della parola dopo averla vista scritta:
1. COVER = coprire la parola vista
2. COPY = riprodurla
3. COMPARE = confrontare la parola vista con quella scritta
L’intervento in presenza di deficit a livello ortografico potrà essere declinato partendo da un’analisi
qualitativa delle tipologie di errore più frequentemente commesse dal bambino. Le attività proposte
dovranno essere finalizzate a migliorare i processi che sottostanno alla trascrizione di parole
regolari e irregolari.
Sono state suggerite strategie che coinvolgono in modo più attivo e costruttivo il bambino attraverso
un approccio metacognitivo. Alcune strategie utili possono essere il ragionamento grammaticale, la
riflessione semantico-etimologica sul significato delle parole scritte o sugli aspetti morfologici e la
strategia sublessicale. È importante che l’uso delle strategie descritte venga promosso sia in fase di
scrittura che in quella di revisione; quest’ultima, infatti, può costituire un ulteriore strumento di
controllo per la riduzione degli errori ortografici. Nel contesto italiano sono stati predisposti diversi
materiali sia cartacei che informatici.
Esempi di proposte di questo tipo possono essere giochi da svolgere a livello orale con i bambini
più piccoli, oppure giochi enigmistici come cruciverba, crucipuzzle, rebus, scarabeo, ecc.
INTERVENTO SULLA DISGRAFIA
Un programma di intervento rivolto ai bambini con disgrafia può porsi come obiettivo quello di
riabilitare le prassie della scrittura, attraverso l’insegnamento dei pattern grafo-motori corretti e il
sostegno delle abilità visuospaziali necessarie per consentire un miglior controllo della dimensione
delle lettere, della loro disposizione sul foglio, delle distanze tra lettere e tra parole e delle
proporzioni all’interno della pagina.
È stato pubblicato un percorso di insegnamento dei movimenti della scrittura basato sul modello di
apprendimento motorio del corsivo. Santangelo e Graham, nel 2016, hanno confermato che
l’insegnamento esplicito dei pattern grafo-motori migliora la grafia in entrambi i parametri di
leggibilità e fluenza. È stato evidenziato che un’istruzione individualizzata in associazione con
attività di copia o riproduzione a memoria dei modelli e momenti di autovalutazione a supporto
dell’apprendimento del tratto grafico, può migliorare la leggibilità della grafia. A tal fine, può essere
utile in primo luogo fornire al bambino strumenti che rendano più facilmente identificabile lo spazio
di scrittura. È importante stimolare l’uso progressivamente autonomo di strategie che rendano più
sistematica e funzionale la gestione dello spazio.
Infine la competenza grafo-motoria risente anche di aspetti ergonomici disfunzionali quali
prensione della penna scorretta e postura non adeguata durante la scrittura. In riferimento
all’impugnatura, sono disponibili anche strumenti volti a facilitare la prensione a tre dita dinamica.

L’INTERVENTO SULL’ESPRESSIONE SCRITTA


Vediamo gli strumenti più famosi e utilizzati:
1. COMPREHENSIVE WRITING PROGRAM = che include una serie di tecniche
comportamentali che si focalizzano su tre abilità specifiche implicate nella produzione: frasi
complete, frasi composte e frasi contenenti aggettivi
2. REGULATED STRATEGY DEVELOPMENT = che lavora, in un’ottica metacognitive, su
quattro strategie di base per l’autoregolazione: definizione dell’obiettivo, autoistruzioni,
automonitoraggio e autorinforzo
3. Rogers e Graham, nel 2008, hanno riscontrato effetti positivi impiegando 12 procedure
molto eterogenee che si riportano di seguito in ordine di efficacia rilevata:
 Insegnare le strategie per pianificare, revisionare e modificare il testo
 Insegnare a fare il riassunto scritto
 Utilizzare il peer tutoring per specifiche componenti
 Stabilire obiettivi specifici
 Insegnare le abilità di scrittura implicate (grafia, ortografia e dattilografia)
 Usare programmi di scrittura al computer
 Insegnare agli studenti la scrittura di frasi complesse
 Stabilire un approccio alla scrittura come a un processo
4. IO SCRIVO = è volto ad accrescere la capacità di produrre un testo scritto orientando
l’intervento su quattro componenti principali: generazione di idee, pianificazione, revisione
e memoria di lavoro

GLI STRUMENTI COMPENSATIVI E LE MISURE DISPENSATIVE


Secondo quanto previsto dalla legge 170/2010, è prevista l’introduzione di misure compensative e
dispensative formalizzate all’interno di un piano didattico personalizzato.
In presenza di disgrafia, è prevista la possibilità di concedere tempo aggiuntivo (30% in più rispetto
ai compagni) per il completamento di verifiche scritte e prevedere la possibilità di dispensare dal
prendere appunti e copiare dalla lavagna e dall’eseguire un dettato a ritmo incalzante. Può inoltre
essere prevista la scelta dei formati dei quaderni da utilizzare prevedendo ad esempio l’esonero
dall’utilizzo delle righe di classe III e l’utilizzo di quaderni con quadretti più grandi, nonché
l’impiego di quaderni speciali per la disgrafia con le righe già evidenziate. Al momento del
passaggio al ciclo di istruzione secondaria, si aggiungono tecniche come l’introduzione del
computer, programmi di video scrittura, registratori vocali e “smart pen”, ovvero penne digitali, che
permettono di registrare l’audio e collegarlo al testo che si scrive.
Tali misure valgono anche per la disortografia, alle quali si può aggiungere la possibilità di
privilegiare il canale orale e comunicativo.
Infine, in relazione ai momenti valutativi è importanti adottare criteri che valorizzino i contenuti
espressi rispetto alla forma, al fine di non penalizzare lo studente per gli errori ortografici e, al
contempo, sostenere la motivazione a utilizzare il canale della scrittura per esprimere le proprie
idee.
DISTURBI DELLA COMPRENSIONE DEL TESTO

ESISTE UN DISTURBO DI COMPRENSIONE?


La pubblicazione del DSM-5 nel 2013 ha preso implicitamente posizione relativamente all’ambigua
differenziazione fra problemi che riguardano la lettura come decodifica e come comprensione
presente nella precedente del DSM e nell’ICD-10. Nel caso il disturbo riguardi la comprensione, il
DSM-5 lo descrive come una difficoltà nel comprendere il significato di ciò che si legge, in
presenza di una buona capacità di decodifica, che implica una difficoltà nella comprensione della
sequenza, della relazione, di quello che non è esplicitamente detto (inferenze), in altre parole del
significato profondo del contenuto del testo.
Il disturbo di comprensione del testo può essere considerato come un disturbo con delle
caratteristiche ben distinte dal disturbo di decodifica. Le evidenze che supportano questa distinzione
provengono dalle ricerche che hanno messo in luce le differenze nei seguenti aspetti: predittori della
comprensione del testo e della decodifica, abilità e processi cognitivi sottostanti, stime
psicometriche delle abilitò di decodifica e di comprensione, caratteristiche dei disturbi e di
conseguenza dei programmi di trattamento.
I migliori predittori della comprensione del testo sono, oltre alle misure di vocabolario e QI verbale,
misure di memoria di lavoro, controllo metacognitivo e produzione di inferenza, aspetti poco o per
nulla predittivi della prestazione in compiti di decodifica. La lettura ad alta voce è invece predetta
da una prova di delezione di fonemi.
L’abilità di decodificare un testo è strumentale all’abilità di comprensione: non c’è
comprensione del testo senza la capacità di decifrare il testo, così come, viceversa, la
comprensione facilita la decodifica, quando questa riguarda materiale significativo. È
dimostrato che individui che incontrano difficoltà ad apprendere una lettura ad alta voce corretta e
veloce (hanno quindi problemi di decodifica) non presentano sempre e necessariamente difficoltà di
comprensione del testo: l’accesso al significato è per loro possibile utilizzando ad esempio un
approccio strategico al testo. La stessa cosa può dirsi per studenti con disturbi di comprensione: la
loro lettura ad alta voce può essere nella norma, al contrario della capacità di comprendere il testo.
Gli studi sui disturbi dell’apprendimento della decodifica e della comprensione emergono dati a
favore di una netta distinzione fra le due componenti di lettura.

CARATTERISTICHE DEL DISTURBO DI COMPRENSIONE DEL TESTO E CRITERI PER


L’IDENTIFICAZIONE
DISTURBO DI COMPRENSIONE DEL TESTO (DCT)  può essere definito come la difficoltà a
comprendere in modo adeguato il significato di ciò che si legge.
Lo studente con disturbo di comprensione (denominato poor comprehender, ovvero cattivo lettore)
non deve presentare difficoltà semplicemente dovute a problemi di decodifica del testo: quindi a
fronte di una lettura ad alta voce nella norma egli non riesce a comprendere il contenuto del testo. I
cattivi lettori possono avere competenze nella norma nei processi di lettura di base, mentre le
prestazioni deficitarie si evidenziano in processi più complessi come ad esempio la capacità di fare
inferenze. Un disturbo di comprensione dovrebbe escludere tutti quei casi in cui le potenzialità
generali sono al di sotto della norma, quantomeno nella componente non-verbale. Analizzando in
dettaglio la relazione fra misurazione del quoziente intellettivo e comprensione del testo, gli studiosi
hanno tuttavia evidenziato che il profilo più comune fra i cattivi lettori vede una discrepanza di
almeno 15 punti fra subtest verbali e di performance. Gli individui con disturbo di comprensione
del testo si caratterizzano per profili estremamente variabili.
Cornoldi, De Beni e Pazzaglia, nel 1996, hanno evidenziato come per alcuni studenti il deficit di
memoria di lavoro fosse la caratteristica peculiare mentre per altri il deficit nelle conoscenze e nel
controllo metacognitivo fosse più rilevante.
Secondo Cain e Oakhill (2006), le competenze cognitive generali non spiegano le differenze
individuali nella comprensione ma predicono l’evoluzione del disturbo di comprensione: studenti
con un peggior funzionamento generale mostrano un minore miglioramento in prove di
comprensione del testo all’età di 11 anni.
Gli aspetti legati strettamente all’elaborazione semantica del linguaggio sembrano importanti, ma
tuttavia non possono essere considerati esaustivi delle caratteristiche del cattivo lettore.

ASPETTI FONDAMENTALI
La comprensione del testo è un processo attivo di costruzione del significato del testo, dipendente
quindi non esclusivamente dalle informazioni presenti nel testo, ma anche dalle informazioni
possedute dal lettore. In mancanza di questa interazione tra informazioni presenti nel testo e
conoscenze precedenti, il lettore, pur essendo in grado di comprendere il significato del testo a un
livello superficiale non riesce a cogliere il suo significato globale e quindi non riesce a costruire una
coerente rappresentazione complessiva.
Anticipiamo due dei modelli cognitivi classici più popolari per comprendere questo tipo di disturbo:
1. SIMPLE VIEW OF READING = di Gough e Tunmer (1986), che ha come punto centrale la
distinzione all’interno della lettura fra decodifica e comprensione del testo
2. STRUCTURE BUILDING FRAMEWORK = di Gernsbacher (1991), che analizza quali
meccanismi legati alla creazione di una rappresentazione mentale del significato del testo
possono spiegare le differenze fra buoni e cattivi lettori
SIMPLE VIEW OF READING  il livello di comprensione del testo può essere predetto
dall’interazione fra due componenti: la decodifica (d) e la comprensione linguistica (orale) (l), quindi:
(c) = d x l
Ne deriva che se la capacità di decodificare è uguale a zero, non ci sarà comprensione del testo, così
come se la comprensione del linguaggio è pari a zero. Nelle fasi iniziali dell’apprendimento, il
livello di comprensione sarà completamente spiegato dall’efficienza nella lettura ad alta voce,
mentre la correlazione fra comprensione del linguaggio e comprensione del testo sarà poco
significativa. Al contrario, al crescere del livello di scolarità, la prestazione in compiti di
comprensione del linguaggio e comprensione del testo sarà meglio predetta dal linguaggio di
comprensione del linguaggio.
Nelle lingue con ortografia trasparente, anche nei primi anni di scolarizzazione, la comprensione di
ascolto risulta essere un predittore più forte del livello di comprensione di ascolto risulta essere un
predittore più forte del livello di comprensione del testo rispetto all’abilità di decodifica.
Al modello iniziale sono stati proposti vari cambiamenti: ad esempio, alcuni studiosi hanno messo
in discussione l’idea di un modello moltiplicativo, suggerendo che un modello additivo (c = d + l)
catturi meglio il contributo di decodifica e comprensione da ascolto nell’illustrare la comprensione
del testo. In realtà, altri studiosi hanno affermato che il modello moltiplicativo ( c = d x l) sia da
preferire per la sua capacità di prevedere casi come ad esempio i dislessici piccoli o gravi; il
modello additivo, al contrario, prevedrebbe una certa capacità di comprensione, dovuta alle
competenze di comprensione linguistica.
STRUCTURE BUILDING FRAMEWORK  un contributo importante allo studio sulla
comprensione del testo viene dagli studi che hanno inteso la comprensione come un processo attivo
di costruzione di un modello mentale. Secondo il modello, lo scopo della comprensione è quello di
creare una rappresentazione del testo coerente. La costruzione della rappresentazione del resto
avviene partendo dai primi elementi contenuti nell’elaborato, le quali gettano le “fondamenta”
dell’edificio; sulla base del loro significato alcune informazioni in memoria saranno attivate, altre
saranno inibite. Proseguendo a lettura, se le informazioni attivate saranno ancora coerenti, la
costruzione sarà mantenuta, in caso contrario avverrà un “aggiornamento” per cui saranno attivate
altre informazioni in memoria e ricomincerà il processo di costruzione. In questo processo di
costruzione due meccanismi rivestono un ruolo fondamentale:
1. ATTIVAZIONE = consente di mantenere attive le informazioni rilevanti
2. SOPPRESSIONE = diminuisce l’attivazione di quelle non rilevanti
Questi due meccanismi svolgono un ruolo chiave per la comprensione del testo consentendo al
lettori di seguire le azioni del protagonista di un racconto senza subire l’interferenza di quello che
accade ad altri personaggi. I cattivi lettori mantengono attive anche informazioni non più rilevanti
con la struttura costruita tendono quindi a creare per lo stesso testo più sub-strutture. Questi nel
seguire le azioni del protagonista risentono dell’interferenza di informazioni che riguardano altri
personaggi della storia.

LA RICERCA SUI DISTURBI DI COMPRENSIONE DEL TESTO


Se da una parte la memoria di lavoro sembra sostenere la produzione di inferenze, dall’altra anche
le conoscenze e il controllo metacognitivo e la memoria di lavoro sembrano fra di loro legate nello
spiegare la prestazione nella comprensione del testo sia in giovane che in anziani. È possibile
comprendere cosa differenzia la prestazione di un lettore abile da quella di un lettore meno abile
nella comprensione del testo, in assenza di taluni fattori concomitanti rilevanti che avrebbero potuto
avere un peso aggiuntivo, ma inevitabilmente non di tutti.
Le difficoltà nella decodifica possono avere ripercussioni negative sul livello di comprensione del
testo. Una serie di studi ha approfondito quanto le differenze possano dipendere da scarse abilità di
natura fonologica. Hanno evidenziato che i cattivi lettori avevano prestazioni inferiori nelle prove
che richiedevano un maggiore coinvolgimento di risorse in memoria di lavoro, ma nessuna
differenza in prove di elaborazione fonologica con un basso carico di memoria. Questo risultato
suggerisce che le differenze riguardino non tanto l’elaborazione fonologica per sé, ma una
componente più generale di controllo delle risorse. I cattivi lettori sono più lenti nella lettura di
parole irregolari e non sono facilitati dal contesto per la lettura di parole a bassa frequenza. Tuttavia,
basse prestazioni nel vocabolario non sono sufficienti per spiegare le difficoltà di comprensione.
Recenti studi hanno anche analizzato le differenze nella consapevolezza morfologica, vale a dire la
capacità di cogliere la struttura morfemica della parola e di riuscire a manipolarla.
INFERENZA  fa riferimento a un’informazione che viene attivata durante la lettura e che non è
esplicitamente presente nel testo. Fare inferenze significa capire le cose non dette all’interno del
testo, fare collegamenti, comprendere il significato di una parola sulla base del contesto in cui è
inserita o disambiguare il significato di una parola polisemica; serve a mantenere la coerenza del
modello mentale.
Esistono varie classificazioni circa il tipo di inferenze che un lettore può dover fare durante la
lettura. La distinzione più classica è tra:
1. INFERENZE CHE MANTENGONO LA COERENZA = sono fondamentali per la
comprensione in quanto supportano la creazione di un modello mentale coerente; consente
di mettere in collegamento fra di loro informazioni lontane nel testo (inferenze ponte)
oppure le informazioni presenti nel testo e le conoscenze pregresse del lettore
2. INFERENZE ELABORATIVE = permettono di elaborare o di approfondire il contenuto del
testo; sono utili per l’approfondimento ma sono meno necessarie per comprendere un testo
La difficoltà dei cattivi lettori di fare inferenze è dovuta da una parte alla minore consapevolezza
circa la necessità di fare un’inferenza, focalizzandosi maggiormente sul significato letterale delle
parole, e dall’altra a un deficit di integrazione delle informazioni del testo con quelle già possedute.
I cattivi lettori tendono anche a perdere le informazioni rilevanti del testo, con la conseguenza di un
fallimento ance nel processo di integrazione.
In alcuni esperimenti, è stato dimostrato come, riducendo il carico di informazioni, i cattivi lettori
diventino capaci di integrare le informazioni mentre, aumentando la quantità di informazioni
presenti nel testo, la loro prestazione diventa più carente.
La misura della sola componente “passiva” della memoria a breve termine non rispecchia
adeguatamente le caratteristiche del processo di comprensione del testo che richiede invece
l’impegno di un sistema attivo di memoria di lavoro (ML) ovvero la capacità di mantenere e
contemporaneamente di elaborare il contenuto del testo.
La memoria di lavoro è riconosciuta da molti ricercatori come potenziale fonte di differenze
individuali in molte attività complesse, fra cui anche la comprensione.
INTRUSIONE  un’intrusione è data dall’inclusione di una parola presente all’interno della lista
nel ricordo finale, ad esempio “campione” al posto di “testa”. L’idea è che per ottenere un buon
ricordo, il partecipante deve essere in grado di diminuire l’attivazione delle parole che ha elaborato
e concentrarsi su quella da ricordare (le ultime).
ERRORE DI INTRUSIONE  permette di rilevare, in un contesto diverso dalla comprensione
del testo, il deficit di soppressione dei cattivi lettori.
Per il cattivo lettore, dovrebbe essere difficile escludere dal ricordo le parole precedentemente
elaborate, e in particolare quelle elaborate maggiormente, vale a dire le parole di animali. I cattivi
lettori mostrano una prestazione più bassa nel compito di ricordo, e il loro ricordo è caratterizzato
da un maggior numero di intrusioni di parole della lista, specialmente i nomi degli animali.
Pimperton e Nation, nel 2014, hanno evidenziato come il deficit di memoria di lavoro si manifesti
anche a scuola: gli insegnanti riportano una maggiore frequenza di comportamenti imputabili a un
deficit di memoria di lavoro agli studenti con profilo di disturbo di comprensione rispetto agli
studenti nella norma.
METACOGNIZIONE  si riferisce alle conoscenze che un soggetto ha sui propri processi
mentali e al controllo che è in grado di esercitarvi.
Il disturbo di comprensione potrebbe essere caratterizzato da carenze in una di queste aree o in tutte
e tre:
1. CONOSCENZE METACOGNITIVE = distingue conoscenze relative al testo, allo scopo della
lettura, alle strategie e al soggetto come lettore. In questo caso il lettore è più focalizzato
sull’abilità di decodifica e non sembra conoscere lo scopo per cui si legge
2. CONOSCENZE E IL CONTROLLO SU SE STESSO COME LETTORE = il buon lettore è
più consapevole delle proprie attività ed è maggiormente in grado di stimare la propria
prestazione o di valutare se le risposte date ad un test di comprensione sono esatte o
sbagliate
3. CONOSCENZA E USO DI STRATEGIE = i cattivi lettori non sembrano differenziarsi tanto
nella quantità di strategie che conoscono, quanto nell’abilità di applicarle in modo flessibile
e adeguato considerando lo scopo che vogliono raggiungere. I cattivi lettori utilizzano
strategie di lettura meno sofisticate rispetto ai buoni lettori
I cattivi lettori non si accorgono di non capire, quindi sono meno efficaci nel monitoraggio del
livello di comprensione. I lettori abili sono tipicamente più bravi nell’individuare errori o omissioni
e nel risolvere le incongruenze, rispetto ai cattivi lettori. Il cattivo lettore può avere la stessa capacità
del buon lettore nell’individuare elementi di difficoltà, ma non quella di trarre la logica conseguenza
di soffermarvisi più a lungo.
Lo standard di coerenza rappresenta da una parte la sensibilità del lettore all’incoerenza del
contenuto del testo e dall’altra lo sforzo che il lettore mette per fare inferenze, monitorare la
comprensione e mantenere la coerenza. Il cattivo lettore può svelare buone potenzialità
metacognitive, ma minore
coerenza, infatti mantiene una impressione di famigliarità piuttosto che di effettiva “recollection”
associata ai loro ricordi.
Studenti con disturbo di comprensione del testo hanno risultati scolastici più scadenti di quelli senza
difficoltà. La valutazione scolastica più bassa riportata in alcuni studi è correlata positivamente alla
prestazione in compiti di memoria di lavoro. Gli studenti con problemi di comprensione hanno una
media di circa due punti inferiore a quella dei buoni lettori e un numero maggiore di ripetizioni
degli esami all’università.
Ricketts, Sperring e Nation, nel 2014, hanno evidenziato che i cattivi lettori hanno voti inferiori
rispetto ai buoni lettori in discipline umanistiche e di studio.

L’APPROCCIO CLINICO AL DISTURBO DI COMPRENSIONE DEL TESTO


La valutazione dell’abilità di comprensione del testo scritto è prassi comune per tutti i bambini con
difficoltà scolastiche ed è frequente rilevare casi di DCT più o meno severi. Sul piano diagnostico
essi vengono spesso ricondotti ad altre tipologie per le relazioni che hanno con queste. In
particolare:
1. Al disturbo specifico del linguaggio per il fatto di essere spesso associati a problemi di
elaborazione semantica e sintattica del testo
2. Al disturbo specifico di decodifica o dislessia per il fatto che i due problemi possono essere
compresenti
3. Alla disabilità intellettiva lieve o al funzionamento intellettivo limitato per il fatto che la
comprensione del testo scritto è in questi individui particolarmente penalizzata. Un disturbo
di comprensione è frequente anche in individui con buona intelligenza
4. A difficoltà aspecifiche di memoria e di studio per il fatto che generalmente una scarsa
comprensione del testo scritto produce problemi di memoria e di studio che in realtà sono
almeno in parte secondari
In Italia, le prove più utilizzate per la verifica della comprensione del testo scritto sono incluse nelle
batterie MT, usate per la scuola primaria e secondaria di I grado e il biennio della scuola
secondaria di II grado; talvolta anche per gli studenti universitari. Quelle che accomuna le diverse
batterie è la modalità di verifica della comprensione: essa infatti prevede che l’esaminato affronti il
testo come preferisce senza limiti di tempo e risponda a un numero variabile di domande a scelta
multipla avendo a disposizione il testo letto, a cui ricorrere in caso di necessità.
Esiste poi la batteria di prove Alce-Assessment di lettura e comprensione per l’età evolutiva,
dove la comprensione è valutata attraverso un brano che lo studente deve leggere a voce alta: lo
stesso brano infatti consente anche di avere misure di correttezza e velocità. La comprensione viene
valutata attraverso una serie di domande aperte a cui il bambino deve rispondere oralmente.
Anche il livello di QI deve entrare a far parte delle informazioni da considerare. Uno studente che
ha, infatti, difficoltà a seguire una lezione necessita di una adattamento della didattica anche in
questa situazione.
Vediamo altri strumenti usati nella valutazione del DCT:
1. VALUTAZIONE DEL PROFILO DI COMPRENSIONE = Alce-Assessment di lettura e
comprensione per l’età evolutiva, prove MT clinica, prove MT avanzante clinica, prove di
lettura e scrittura
2. MISURE DI CONTROLLO = livello intellettivo generale, svantaggio linguistico, aspetti
emotivo-motivazionali
3. ESAME DEL RAPPORTO CON ALTRI APPRENDIMENTI = decodifica in lettura,
espressione scritta, problem solving
4. VALUTAZIONE DEGLI ASPETTI SOTTOSTANTI IL PROCESSO DI COMPRENSIONE =
TOR, CO-TT, ALCE, listening span test, nuova guida
La letteratura sul trattamento della comprensione riguarda per la maggior parte studenti con sviluppo
tipico. L’accento del trattamento viene spesso messo sulle strategie.
Il National Reading Panel negli Stati Uniti nel 2000 ha identificato alcune strategie che si sono
dimostrate efficaci nel miglioramento della comprensione:
1. Monitoraggio del livello della propria comprensione
2. Rappresentazione visiva delle idee principali di un testo
3. Riconoscimento della struttura di un testo
4. Verifica della comprensione con feedback immediato
5. Riassunto delle idee principali
Nella loro rassegna, Battaglia e Rizzato (2001) hanno distinto tre tipi di programmi per la
promozione della comprensione del testo:
1. Interventi di tipo cognitivo che puntano all’insegnamento di strategie specifiche
2. Trattamenti che integrano l’insegnamento di strategie con la promozione di conoscenze
metacognitive relative al testo e alla lettura
3. Trattamenti che associano a un’istruzione sulle strategie e sulle conoscenze metacognitive un
lavoro sugli aspetti motivazionali e attributivi implicati nell’apprendimento
Questi programmi consentono all’alunno di acquisire nuove strategie e riflettere sulla loro utilità, di
migliorare le proprie conoscenze circa gli scopi della lettura e migliorare le abilità di controllo
durante la lettura.
Tra altri programmi utilizzati troviamo:
1. Lettura e meta-cognizione
2. Nuova guida alla comprensione del testo, che promuove le competenze del lettore (dai 6 ai
15 anni) in 10 aree distinte. Le aree di trattamento sono organizzate secondo una
“tassonomia” che prevede attività specifiche sia su alcune abilità cognitive sia su aspetti
metacognitivi legati alla comprensione. Lo studente è spinto a riflettere e a esercitarsi sulle
operazioni da svolgere per portare a termine il compito
Ultimamente è stata considerata la possibilità di migliorare la comprensione del testo attraverso
percorsi sulla comprensione del linguaggio. Nel 2010, Clarke ha mostrato che un training centrato
sulla comprensione del linguaggio orale, in cui erano incluse anche attività sul vocabolario, produce
un miglioramento anche in prove di comprensione del testo.
L’incremento nella memoria di lavoro è risultato essere associato al miglioramento nella
comprensione del testo, in linea con altri studi che suggeriscono che i training che combinano
attività sul processo di apprendimento da migliorare e sulla memoria di lavoro possano produrre dei
risultati positivi.
Si sta diffondendo inoltre l’uso di software, anche incluso in piattaforme di tele-riabilitazione,
consentendo di ottimizzare i tempi. Un esempio può essere il programma Cloze 2, che stimola i
processi inferenziali durante la comprensione del testo.
DISTURBI DEL RAGIONAMENTO MATEMATICO E NELLA SOLUZIONE DI
PROBLEMI

DIFFICOLTA’ MATEMATICHE E DISTURBI DI SOLUZIONE DEI PROBLEMI


Teoricamente una disabilità nell’apprendimento matematico può derivare da un deficit nell’abilità di
rappresentare o elaborare l’informazione da utilizzare in uno o in tutte le varie aree della
matematica. MODULO NUMERICO  definito, secondo Butterworth nel 1999, come la
capacità preverbale di riconoscere e manipolare le numerosità, un sistema innato dedicato
all’elaborazione di grandezze numeriche non simboliche.
Nell’ultimo ventennio l’interesse dei ricercatori e dei clinici si è indirizzato anche al ragionamento
matematico e alla soluzione dei problemi in bambini e adulti e all’esame delle abilità cognitive e
metacognitive sottostanti.
Il DSM-5 parla di ragionamento matematico, un’espressione che può essere applicato non solo al
problem solving, ma anche ad altre operazioni matematiche che richiedono ragionamento, talora
legate al numero, come la scoperta di un principio numerico o la comprensione di una regola, ma
anche legate ad altri aspetti, come nel caso della geometria. Il caso del problem solving aritmetico
rappresenta l’esemplificazione più rappresentativa e frequente dei compiti proposti a uno studente.
Non è tuttavia ancora chiaro se è possibile parlare di un disturbo specifico nell’area della soluzione
dei problemi, ossia:
1. Se si possa configurare in questo ambito un ben preciso disturbo, dal momento che esso si
confonde con le difficoltà molto più generiche, spesso anche emotivo-motivazionali, che
molti studenti incontrano in ambito matematico
2. Qualora individuato, sia possibile trovare una dissociazione fra abilità di calcolo e abilità
risolutive
Nel 2013, Fuchs ha osservato che i due disturbi sono distinguibili non solo perché le debolezze
matematiche sono diverse, ma anche perché precursori e abilità sottese sono differenti. Le difficoltà
nella soluzione di complessi problemi aritmetici siano frequenti e comuni sia nella discalculia
acquisita sia in quella evolutiva.
Una difficoltà (o disturbo) nel ragionamento matematico appare più rilevante del disturbo di
calcolo, sia perché, col passare degli anni, diviene sempre più importante sia perché ricevere solo un
modesto aiuto dagli strumenti compensativi. Andrebbe valutata l’incidenza di possibili tipologie
quali “buoni calcolatori/cattivi solutori di problemi” e “cattivi calcolatori/cattivi solutori di
problemi”, accanto a una meno probabile categoria di “cattivi calcolatori/buoni solutori”. Non è raro
trovare queste sorprendenti abilità di calcolo in individui con livello d’intelligenza decisamente
carente, con gravi deficit cognitivi e sociali e difficoltà di ragionamento matematico.

TIPOLOGIE DIFFICOLTA’ ASSOCIATE COL DISTURBO DEL PROBLEM SOLVING


Le stesse difficoltà nella soluzione di problemi trovano una specifica differenziazione lungo il
percorso scolastico dello studente, in corrispondenza con il variare dei programmi e delle richieste
didattiche. A livello di scuola elementare, compaiono soprattutto difficoltà nel problem solving
aritmetico, in associazione più o meno forte con problemi di calcolo e con l’intuizione del
significato delle operazioni e di alcuni concetti. Inoltre, l’introduzione dei concetti geometrici
(includendo la visualizzazione di rapporti spaziali elementari, la comprensione e la memorizzazione
di regole geometriche e l’uso di calcoli appropriati) può creare difficoltà. Successivamente
l’impegno per l’apprendimento dell’aritmetica e della geometria diviene più complesso a causa
dell’introduzione di concetti e processi complessi (frazioni, proporzioni, numeri decimali, figure
geometriche) e i problemi proposti. L’aggiunta di elementi di logica e statistica potrà ulteriormente
mettere in difficoltà lo studente.
TIPI DI PROBLEMI E DISTURBI DEL PROBLEM SOLVING
Gli psicologi della Gestalt si sono concentrati sullo studio di situazioni problematiche in cui, per
poter raggiungere il successo, è cruciale ristrutturare l’interpretazione degli elementi a disposizione
per venderli in una nuova luce (problemi insight). Per chiarire meglio questo concetto, prendiamo in
esame:
1. PROBLEMA DELLE CANDELE = che costituisce una dimostrazione del fenomeno di fissità
funzionale. La soluzione al problema consiste nell’usare la scatola di puntine come supporto
per la candela, fissandola alla porta con alcune puntine
2. PROBLEMA DELLE DUE CORDE = per raggiungere il successo è necessaria un’idea
creativa. La soluzione può essere trovata solo dopo aver operato un cambiamento di
prospettiva nel considerare gli elementi disponibili
I problemi insight stimolano particolarmente un pensiero di tipo “produttivo”, che porta a un’idea
nuova, originale, mai sorta prima, piuttosto che un pensiero meramente “riproduttivo”, limitato cioè
all’impiego di strategie già apprese nel passato. I problemi matematici proposti dalla scuola sono
invece tipicamente “routinari” perché il bambino può valersi degli apprendimenti precedenti e della
stessa pratica con problemi simili.
Vi sono stati vari tentativi di classificare i problemi matematici e vedere quali implicano maggiori
difficoltà per i cattivi solutori o se a ciascuna tipologia possono essere ricondotte difficoltà
specifiche. Infatti, si è distinto tra:
1. PROBLEMI ARITMETICI SEMPLICI = presentano un testo breve ed essenziale, con una
domanda e con la richiesta di un’unica operazione per ottenere la soluzione
2. PROBLEMI ARITMETICI COMPLESSI = hanno un testo più lungo, ma ancora
relativamente breve, contengono delle domande e dei dettagli non essenziali, ma nessuno
dato numerico irrilevante, e richiedono per la soluzione da una a tre operazioni
3. PROBLEMI DEL MONDO REALE = presentano un testo esteso, con dettagli non essenziali
e con elementi numerici irrilevanti, che possono richiedere lo stesso numero di operazioni di
un problema complesso
Questi si dispongono lungo un continuum.
I risultati di Fuchs (2002) hanno messo in luce un deficit nella soluzione di tutti e tre i tipi di
problemi in studenti di scuola elementare con disabilità specifica in aritmetica o con difficoltà
anche nella comprensione (ALD+RD), messi a confronto con un gruppo di controllo. Le difficoltà
nella soluzione dei problemi sono più severe nel gruppo che presenta difficoltà anche nella
comprensione.
Carpenter e Moser (1983) hanno classificato i problemi aritmetici in base alla struttura semantica e
li hanno collocati nelle seguenti categorie:
1. PROBLEMI “CAMBIO” = vi sono una quantità iniziale e un’azione che determina un
aumento o decremento della quantità
2. PROBLEMI “ASSOCIAZIONE” = comportano una relazione statica fra un particolare
insieme e due distinti sottoinsiemi
3. PROBLEMI “COMPARAZIONE” = comportano una relazione statica in cui c’è una
comparazione fra due sottoinsiemi distinti
4. PROBLEMI “UGUAGLIANZA” = c’è lo stesso tipo di azione come nei problemi “cambio”,
ma è richiesta la comparazione di due distinti sottoinsiemi
5. PROBLEMI “NON CANONICI” = quelli in cui il termine sconosciuto è posto all’inizio,
quelli che si rivelano generalmente più difficili e comportano particolari difficoltà specie
negli alunni con DSA
Lesioni a carico del lobo frontale possono essere causa di severi deficit nel funzionamento cognitivo,
fra cui l’abilità a risolvere problemi. Il sistema attentivo supervisore (SAS), situato nel lobo
frontale,
ha le funzioni di programmare, pianificare e operare su un problema. Il danno a carico del lobo
frontale determinerebbe l’incapacità del paziente nel controllare e formare un piano di azione.
Lurija e Tsvetkova, nel 1967, hanno distinto fra quattro tipi diversi di disturbo nell’area
matematica che possono essere utili per l’analisi dei disturbi dell’apprendimento:
1. DIFETTI DI LOGICA = da applicare al mondo dei numeri
2. DIFETTO DI PROGETTAZIONE DELL’AZIONE = che si esplicita in tutte le difficoltà
associate alla pianificazione
3. PERSERVERAZIONE IN PROCEDURE CHE NON SI DIMOSTRANO PIU’ APPROPRIATE
= per cui il bambino, una volta padroneggiata una certa modalità di soluzione dei problemi,
la applica indebitamente a problemi che sono invece differenti
4. DIFFICOLTA’ A COMPIERE I CALCOLI RICHIESTI DAL PROBLEMA
Una parte cospicua dei problemi scolastici si caratterizza per essere costituita da prove in cui la
situazione problematica viene proposta verbalmente e la soluzione ai quesiti viene ottenuta tramite
una serie di operazioni aritmetiche. Tali tipologie di compiti vengono definite in letteratura
arithmetic word problems (problemi aritmetici di tipo verbale).
PROBLEMI DI TIPO “ROUTINARIO”  ossia basati su situazioni tipiche, già incontrate in
precedenza seppur con una diversa formulazione linguistica, che sottendono un medesimo schema
risolutivo.
Mayer, nel 1998, ha individuato alcune categorie di processi cognitivi messi in atto durante la
soluzione di questo tipo di quesiti. Secondo il suo modello, il processo di soluzione ha inizio con la
“codifica del problema” (che è a sua volta suddivisa in traduzione e integrazione) cui segue il
“processo di ricerca” per la soluzione costituita anch’esso da altre due fasi di elaborazione
dell’informazione (pianificazione e calcolo):
1. CODIFICA DEL PROBLEMA = suddivisa in:
 Processo di traduzione: ogni affermazione contenuta nel testo del problema viene
trasformata da parte del solutore in una rappresentazione semantica in memoria.
Richiede operazioni diverse: una di tipo linguistico, che consiste nel comprendere il
significato di ogni espressione del problema e una di tipo semantico, per cui il
solutore deve inferire le implicazioni di una determinata espressione
 Processo d’integrazione: il solutore cerca di mettere insieme in una rappresentazione
coerente tutte le varie fasi del testo
 (Categorizzazione: ossia l’individuazione della categoria generale alla quale il
problema può appartenere).
Individuare e utilizzare lo schema del problema è un processo fondamentale per connettere
tra loro le informazioni, pianificare e giungere allo svolgimento delle operazioni necessarie
2. PROCESSO DI RICERCA = comprende:
 Processo di pianificazione: il solutore deve ricercare nella sua memoria la strada per
la soluzione. Si presuppone una conoscenza strategica che si riferisce all’abilità di
costruire e monitorare il piano di soluzione, riconoscendo quali operatori applicare e
quando è il momento opportuno di utilizzarli
 Processo di calcolo: in cui il solutore identifica quali sono le operazioni da utilizzare
per ottenere i differenti sotto-obiettivi. Viene data molta enfasi alla conoscenza degli
algoritmi di calcolo mentre si presta minor attenzione ad altre forme di conoscenza
matematica quali quelle relative allo schema del problema, alla conoscenza strategica
e alle conoscenze di tipo linguistico
È importante tenere in considerazione anche alcune variabili, tra cui: caratteristiche del compito
stesso, abilità specifiche dello studente, caratteristiche del contesto.
ABILITA’ METACOGNITIVE
Alcuni ricercatori hanno considerato la possibilità che abilità sovraordinate di tipo metacognitivo
possano influenzare in modo casuale la prestazione. I buoni solutori possiedono un livello più alto
di capacità metacognitive che permette loro di analizzare in modo migliore la struttura del
compito, di scegliere in modo flessibile le strategie più adatte e di utilizzare in modo più produttivo
le risorse cognitive.
Sono state descritti alcuni processi metacognitivi di controllo implicati nella soluzione di un
problema, risultati altamente correlati col successo in matematica, e precisamente le capacità di:
1. PREVISIONE = prevedere se si è in grado di risolverlo
2. PIANIFICAZIONE = predisporre un progetto di soluzione
3. MONITORAGGIO = tenere sotto controllo il processo risolutivo
4. VALUTAZIONE = valutare il risultato conseguito
Prima di procedere va ricordato che la metacognizione include:
1. Le riflessioni sulla mente
2. Il controllo che la mente esercita su sé stessa (in questo secondo aspetto, sono inclusi
processi esecutivi)
Gli individui abili nelle risoluzione di problemi presentano buone abilità cognitive relative alla
comprensione del testo, e anche una buona abilità di categorizzazione.

MEMORIA DI LAVORO, PROCESSI ESECUTIVI E DIFFICOLTA’ DEI PROBLEMI


La soluzione di un problema matematico implica la necessità di una conoscenza concettuale relativa
al significato delle operazione aritmetiche e di una conoscenza delle procedure necessarie per
eseguirle, ma è possibile con queste abilità, più strettamente legate al processo matematico, da sole
non siano sufficienti per sviluppare un’elevata abilità nella soluzione. Alcune ricerche confermano
l’importanza di usare prove di funzioni esecutive, quali la Torre di Londra e il Wisconsin Card
Sorting Test. Sembra del resto messa in gioco una capacità risolutoria, cosa che risulta essere più
evidente in test come il Twenty questions dove, a somiglianza di quanto accade in certi giochi per
bambini, il bambino deve trovare le domande più idonee per riuscire a capire qual è l’item scelto
dall’esaminatore.
Tra le funzioni esecutive sembra importante anche la memoria di lavoro attiva. La comprensione del
problema richiede infatti che le informazioni in ingresso siano integrate con le informazioni
precedenti e il sistema della memoria di lavoro è coinvolto anche nello sviluppo della
rappresentazione mentale della situazione problematica e del processo di soluzione.
Passalunghi e Mammarella, nel 2010, hanno indagato distintamente il ruolo giocato dalle
componenti visiva e spaziale della memoria di lavoro nella capacità di soluzione dei problemi. I
solutori non abili mostrano un deficit specifico nei compiti di memoria di lavoro spaziale ma non in
quelli di memoria di lavoro visiva o fonologica. Vari ricercatori ipotizzano che a influenzare la
comprensione non sia la capacità basica della memoria di lavoro, ma il modo in cui vengono trattate
le informazioni irrilevanti. Sempre gli stessi ricercatori, nel 1999, hanno evidenziato che in compiti
di memoria di lavoro, i solutori non abili hanno un minor ricordo delle informazioni rilevanti e
contemporaneamente un ricordo più elevato delle informazioni irrilevanti.
Un ricordo carente o distorto del problema può avere così un effetto negativo sulla sua
rappresentazione mentale e conseguentemente può influire sulla correttezza della soluzione. I
problemi risolti in modo più corretto sono quelli di cui si è avuto un ricordo migliore.
Bambini con ADHD evidenziano un deficit nei processi inibitori maggiormente evidente con le
informazioni irrilevanti verbali, mentre i bambini con specifiche difficoltà aritmetiche presentano
difficoltà più marcate nell’elaborare e inibire informazioni irrilevanti di tipo numerico.
ATTIVITA’ DI AGGIORNAMENTO  è un’attività complessa che richiede di attribuire
differenti livelli di attivazione alle diverse unità di informazione che via via vengono presentate, per
potere mantenere attivo solo un ristretto numero di elementi.
Durante la comprensione e la soluzione di un problema, la rappresentazione della soluzione è
arricchita non appena una nuova informazione è elaborata ed è possibile che questa porti a
riconsiderare l’informazione precedente ed eventualmente a scartarla.
I risultati ottenuti da Cornoldi, nel 2012, hanno mostrato che, rispetto al gruppo di controllo, quello
con scarsa capacità di comprensione ha difficoltà non solo nei compiti di comprensione del testo ma
anche nella soluzione di problemi e nei compiti di memoria che implicavano un aggiornamento
delle informazioni da processare. Pelegrina, invece, nel 2015, ha dimostrato che esistono processi
dominio-specifici nell’updating per cui i bambini con problemi di comprensione falliscono
maggiormente quando l’updating è basato su parole, e bambini con difficoltà matematiche
falliscono maggiormente quando l’updating è basato sui numeri.

ABILITA’ COGNITIVE CHE SI DIMOSTRANO PRECURSORI PRECOCI DELL’ABILITA’


MATEMATICA E DELLA SOLUZIONE DI PROBLEMI
Prendiamo in esame una serie di abilità cognitive che potrebbero essere alla base
dell’apprendimento della matematica all’inizio della scolarità. È stato dimostrato che la memoria di
lavoro ha un ruolo causale sull’apprendimento matematico già all’inizio della scolarità.
Tra le abilità cognitive dominio-generali, anche l’intelligenza e la velocità di elaborazione
risultano intervenire precocemente nel complesso processo dell’apprendimento matematico. In uno
studio di Gioffrè, Borella e Mammarella (2017) è stato notato che l’intelligenza è il miglior
predittore del rendimento matematico e media anche la relazione tra prestazione matematica e
memoria di lavoro. Per quanto riguarda la velocità di elaborazione, essa mostra un’associazione con
le abilità matematiche precoci, contribuendo a determinare la velocità con cui un bambino recita
una sequenza di numeri, conta una serie di oggetti o risolve dei problemi. Infatti, quanto più
velocemente questi sistemi lavorano tanto maggiore è la quantità di informazioni che può essere
processata prima del decadimento. Sempre gli stessi ricercatori, nel 2015, hanno dimostrato una
relazione significativa tra le abilità numeriche precoci e la velocità di elaborazione, al di sopra e al
di là dell’influenza della memora di lavoro.
Le abilità cognitive dominio-generali e dominio-specifiche implicate nella capacità matematica
possono variare anche in relazione al particolare dominio dell’apprendimento matematico
considerato.
L’apprendimento della geometria risulta un processo molto complesso, dal momento che implica
una conoscenza esplicita di principi, concetti e regole, e la capacità di applicarle nel processamento
delle figure nello spazio e nella rappresentazione delle loro reciproche relazioni spaziali.
L’apprendimento della geometria sembrerebbe chiamare in causa fattori cognitivi quali la memoria
di lavoro, soprattutto visuo-spaziale, l’intelligenza fluida, le abilità di calcolo, l’abilità di soluzione
dei problemi aritmetici e non, e la capacità immaginativa mentale visuo-spaziale.
CAPACITA’ IMMAGINATIVA VISUO-SPAZIALE  consente agli individui di generare
rappresentazioni mentali di figure geometriche a partire da una descrizione verbale, di
riorganizzarle, di manipolarle e di confrontare elementi tra diversi modelli figurativi immaginati.
Emerge l’importanza di valutare precocemente sia gli aspetti cognitivi dominio-generali sia i fattori
cognitivi dominio-specifici, al fine di delineare un quadro il più possibile chiaro e comprensivo
delle abilità, dei punti di forza e di debolezza di ciascun bambino.

FATTORI EVOLUTIVO-MOTIVAZIONALI: L’ANSIA E LA MATEMATICA


Va ricordata l’influenza delle componenti emotivo-motivazionali, e del generale atteggiamento
dell’individuo nei confronti della disciplina e dei risultati. Percepire sé stessi come capaci di
comprendere e controllare le esperienze nell’area matematica risulta una forza trainante
dell’apprendimento. I bambini (e soprattutto, le bambine) che hanno conseguito insuccessi
sviluppano un senso di scarsa competenza, che contribuisce a renderli ansiosi e diminuisce la loro
motivazione a cercare di raggiungere la padronanza della materia.
ANSIA PER LA MATEMATICA  definita come “un sentimento di tensione, apprensione,
paura che interferisce con la manipolazione dei numeri e la soluzione dei problemi matematici in
una vasta varietà di situazioni quotidiane e accademiche”, oppure come “un insieme di sensazioni e
di sintomi corporei legati al fare matematica”.
L’ansia della matematica ha diverse manifestazioni che variano da individuo a individuo. Queste
vanno da sintomi fisiologici come sudorazione e tremori alle mani, nausea, palpitazioni cardiache e
risate nervose, a esperienze di blocco del pensiero e reazioni emotive difensive, sino a reazioni
meno marcate associate a una moderata agitazione relativa al compito o all’esame. L’insorgenza di
tale ansia è spesso precoce: fenomeni ansiosi possono essere già presenti all’inizio della scolarità e
perdurare o ripresentarsi a livello di istruzione superiore e universitaria.
Le ragioni di questa ansia possono essere molteplici:
1. Stile di insegnamento di alcuni docenti che pretendono un alto livello di correttezza e di
competenza senza però dare un adeguato sostegno in termini di spiegazioni, utilizzo di
strategie utili e rinforzo motivazionale
2. Natura stessa della disciplina
3. Considerare la competenza matematica come espressione del livello intellettivo
L’ansia della matematica comporta forti conseguenze per la vita degli individui, in quanto è un
fattore che limita le loro scelte formative e i loro percorsi professionali. Gli studenti che manifestano
questa condizione presentano infatti una tendenza pervasiva a evitare la matematica e tutto ciò che
pertiene a essa. Di conseguenza, gli studenti con l’ansia della matematica, evitando le discipline
matematiche, diventano effettivamente sempre meno competenti nella materia e si precludono
importanti sbocchi lavorativi e di carriera professionale. Tra gli strumenti maggiormente utilizzati
per la misurazione di questo costrutto abbiamo la Mathematic Anxiety Rating Scale (MARS),
costituita da 98 items, anche se esistono delle versione abbreviate. La versione italiana esamina tre
dimensioni distinte:
1. Ansia da apprendimento generale
2. Ansia da apprendimento matematico
3. Ansia da valutazione matematica
Quali effetti può avere l’ansia per la matematica sulla prestazione? Le basse prestazioni nei compiti
matematici sembrano infatti trovare una spiegazione anche nella scarsa competenza matematica dei
soggetti ansiosi, che deriva a sua volta dalla loro pervasiva tendenza ad evitare la matematica e tutto
ciò che a essa è collegato. Infatti, i trattamenti per l’ansia matematica conducono ad un significativo
miglioramento della prestazione. Si pensa, quindi, che la competenza matematica precedente al
trattamento venga depressa dall’ansia matematica e, quando questa viene alleviata, emerga un
quadro più realistico delle competenze.
L’ansia infatti ha effetti distruttivi su ogni tipo di prestazione cognitiva producendo preoccupazione
e pensieri negativi, che l’individuo non riesce a controllare, disperdendo così energie e risorse
mnestiche non più disponibili per svolgere il compito richiesto.
Non è ancora chiaro, quindi, quando emerga l’ansia matematica nei bambini e quale sia la sua
relazione con la prestazione matematica precoce. In una ricerca di Cargnelutti, Tomasetto e
Passolunghi, del 2017, i risultati hanno rilevato che questo legame è significativo al terzo anno ed è
caratterizzato da una direzione che va prevalentemente dall’ansia matematica alla performance e
non viceversa. Sempre nella stessa ricerca, hanno dimostrato una relazione negativa solo tra
ansia
generale e prestazione matematica, al di là del contributo delle abilità cognitive. Gli stessi studiosi,
nel 2018, hanno valutato il possibile effetto combinato di fattori cognitivi ed emotivi in un
campione di bambini frequentanti la classe quarta della scuola primaria. I risultati hanno definito
che l’ansia matematica contribuisce significativamente a spiegare la capacità di soluzione dei
problemi aritmetici anche dopo aver controllato le abilità cognitive di memoria di lavoro e di
velocità di elaborazione.
Tra i fattori emotivo-motivazionali, troviamo anche l’autonomia scolastica e l’autoefficacia.
AUTONOMIA SCOLASTICA  definisce i sentimenti e le percezioni dei bambini rispetto a loro
stessi all’interno del contesto scolastico o in relazione al rendimento scolastico. Predice in modo
significativo il rendimento matematico.
AUTOEFFICACIA  ovvero la percezione che un individuo ha delle proprie capacità di
organizzare ed eseguire le azioni richieste per svolgere determinati tipi di compiti e raggiungere gli
obiettivi desiderati. Risulta associata al rendimento scolastico.
Peters, nel 2013, ha rilevato una correlazione positiva tra autoefficacia nel dominio matematico e
rendimento matematico in un campione di studenti universitari e Hoffman, nel 2010, ha riscontrato
un’associazione di autoefficacia di un gruppo di studenti universitari e la loro accuratezza nella
soluzione dei problemi.

FATTORI AMBIENTALI, SOCIOCULTURALI E APPRENDIMENTO MATEMATICO


Anche le attività che i bambini svolgono precocemente insieme ai propri genitori in ambiente
domestico sono rilevanti per lo sviluppo dell’apprendimento matematico. A tal proposito, si
distinguono due categorie di attività numeriche:
1. FORMALI = si riferiscono a esperienze condivise in cui i genitori direttamente e
intenzionalmente insegnano ai propri figli concetti, nozioni o contenuti relativi ai numeri,
alle quantità o all’aritmetica al fine di promuovere la loro conoscenza numerica
2. INFORMALI = non solo deliberatamente volte all’insegnamento di contenuti relativi i
numeri e alle quantità ma, durante il loro svolgimento, l’apprendimento di alcuni aspetti
della matematica da parte dei bambini può avvenire ugualmente, in maniera accidentale, ad
esempio giocando con giochi da tavola che coinvolgono numeri oppure misurando, pesando
o confrontando le diverse quantità degli ingredienti mentre si cucina
Le attività formali predicono la prestazione numerica precoce dei bambini, invece quelle informali
risultano predire la conoscenza matematica e la fluenza aritmetica dei bambini nella scuola
dell’infanzia e nel primo e secondo anno della scuola primaria.
Tra i fattori ambientali e socio-culturali, troviamo anche:
1. Status socio-economico della famiglia
2. Grado di istruzione dei genitori
3. Caratteristiche genitoriali: atteggiamento, attitudine nei confronti della matematica,
eventuale ansia specifica per questa disciplina, aspettative sul futuro rendimento accademico
dei figli, credenze relative alla matematica dei figli
4. Interesse del bambino verso i numeri e/o la matematica
5. Stereotipi di genere: quelli che enfatizzano la concezione secondo cui i maschi sono più
competenti delle femmine in matematica possono compromettere sia la prestazione che
l’apprendimento
Alcune ricerche tenute nel 2010 hanno suggerito che tali incoerenze nei risultati possono essere
risolte facendo riferimento alla distinzione concettuale tra credenze consapevoli, ovvero contenuti
mentali deliberati, controllati, accessibili all’introspezione, e cognizioni automatiche, cioè contenuti
mentali spontanei, impulsivi e controllati.
La considerazione degli aspetti emotivo-motivazionali, ambientali e socio-culturali implicati nello
sviluppo dell’apprendimento matematico è utile ai fini dell’implementazione di programmi di
intervento e training il più possibile adeguati ed efficaci.

STRUMENTI USATI PER LA VALUTAZIONE DELL’ABILITA’ DI SOLUZIONE DI PROBLEMI


L’unica prova specifica disponibile in Italia è l’SPM (Test delle abilità di soluzione dei problemi
matematici), che però ha un limitato numero di item e, più che offrire una stima della capacità
solutoria, si caratterizza come strumento diagnostico esplorativo. È utile per l’analisi delle difficoltà
nella soluzione di problemi matematici presentati in forma verbale. È utilizzata per bambini dagli 8
ai 13 anni e prevede quattro problemi per ogni classe. Ogni problema è suddiviso in cinque
componenti che si sono dimostrate in grado di spiegare una buona parte della varianza totale relativa
all’abilità di soluzione di problemi matematici:
1. COMPRENSIONE delle informazioni presenti nel problema e delle loro relazioni
2. RAPPRESENTAZIONE delle informazioni mediante uno schema in grado di strutturarle e
integrarle
3. CATEGORIZZAZIONE del problema in base alla struttura profonda
4. PIANIFICAZIONE del proprio percorso di esecuzione della soluzione
5. VALUTAZIONE della correttezza della procedura
Oltre a questo strumento, ne esistono degli altri: AC-MT, la batteria BDE 2 – batteria per la
discalculia evolutiva, batteria per la diagnosi di discalculia – valutazione delle abilità numeriche,
di calcolo e di “problem solving” in età evolutiva, prove MT – avanzate, test WOND (composto da
due parti: la prima sul ragionamento matematico e la seconda sull’esecuzione di operazioni) e la
scala WISC-IV.

POSSIBILITA’ D’INTERVENTO E TRAINING PER SVILUPPARE LE ABILITA’ DI SOLUZIONE


DEI PROBLEMI
La sperimentazione di training riguardanti lo sviluppo dei processi cognitivi implicati nella
risoluzione di problemi aritmetici occupa uno spazio ancora assai limitato e alterna metodologie di
istruzione diretta e approcci cognitivi e metacognitivi. Quattro sembrano comunque gli approcci più
importanti:
1. Aumento della significatività del problema
2. Interventi sulle componenti cognitive del problem solving
3. Insegnamento diretto di strategie
4. Intervento metacognitivo ed emotivo motivazionale
AUMENTO DELLA SIGNIFICATIVITA’ DEL PROBLEMA  si raccomanda di insegnare la
matematica in modo significativo e di stimolare la visualizzazione dei problemi. L’approccio CRA
prevede che manipolazioni e visualizzazioni siano presentate insieme col materiale più astratto
matematico, preferibilmente insegnando gradualmente le fasi che servono a valersi di questa
modalità.
INTERVENTI SULLE COMPONENTI COGNITIVE  a proposito di questo esistono
programmi che promuovono le competenze cognitive, tra cui:
1. Risolvere problemi in 6 mosse. Potenziamento del problem solving matematico per il
secondo ciclo della scuola primaria
2. Risolvere problemi aritmetici: che promuove lo sviluppo e il potenziamento non solo delle
componenti cognitive implicate nella risoluzione di un problema aritmetico, ma anche delle
abilità mnestiche impiegate in ogni processo cognitivo complesso
Il training si è rivelato efficace rispetto a un gruppo di “training standard” che aveva utilizzato le
usuali procedure didattiche comunemente svolte in classe.
3. Prepararsi ai problemi aritmetici di scuola secondaria: promuove lo sviluppo e il
potenziamento tanto delle abilità cognitive implicate nella risoluzione di un problema
aritmetico quanto delle capacità dominio-generale di memoria di lavoro e di updating e delle
abilità metacognitive
4. Delfino Otto: che ha lo scopo di far familiarizzare i bambini con i numeri, promuovendo la
capacità di conteggio, la comprensione della linea dei numeri, il confronto tra quantità,
l’associazione tra insiemi e numeri corrispondenti e l’abilità di svolgere semplici
ragionamenti di tipo aritmetico
5. Elefante Memo: include attività ludiche e laboratoriali ideate per potenziare precocemente le
abilità di memoria verbale e visuo-spaziale, attraverso l’insegnamento di strategie adeguate,
da quelle più semplici a quelle più complesse
INSEGNAMENTO DIRETTO DI STRATEGIE  tale approccio comprende delle “istruzioni
strategiche” focalizzate su un piano d’azione e una serie di regole esplicite e specifiche utili per
prendere decisioni durante la risoluzione di un problema. Si utilizzando alcune strategie:
1. SCHEMA-BASED STRATEGY INSTRUCTION = per insegnare ad alunni della scuola
primaria a risolvere i problemi attraverso quattro fasi:
 Individuare la tipologia del problema
 Organizzare le informazioni mediante un diagramma
 Pianificare la soluzione
 Utilizzare gli algoritmi di calcolo per giungere alla soluzione
2. SCHEMA BROADENING INSTRUCTION = include anche l’insegnamento al bambino della
capacità di controllare il rumore irrilevante; è efficace.
È importante anche fare attenzione alle procedure euristiche che conducono alla risoluzione di un
problema aritmetico. Esse possono essere individuate nella parafrasi, nella visualizzazione del testo,
nel riconoscimento della struttura sottostante il problema, nell’individuazione di ipotesi inerenti al
percorso risolutivo e nella valutazione dell’intero processo risolutivo. Tale metodologia prevede
quindi un lavoro metacognitivo di supporto attuato attraverso l’autoistruzione, l’autoregolazione e
l’autocontrollo.
INTERVENTO METACOGNITIVO  si differenzia dall’insegnamento diretto di strategie
perché insiste sulla consapevolezza del bambino ed è volto a modificare non solo l’uso di strategie,
ma anche il generale atteggiamento del bambino nei confronti della matematica.
Si usano programmi come Matematica e metacognizione, finalizzato allo sviluppo di abilità
metacognitive per la matematica. Si tratta di un programma diviso in due parti:
1. Nella prima si promuovono conoscenze relative al lavoro della mente
2. Nella seconda si sviluppano competenze relative a cinque processi fondamentali implicati
nel controllo metacognitivo, e cioè: comprensione, previsione, pianificazione, monitoraggio
e valutazione
Una caratteristica dell’intervento metacognitivo è di cercare di modificare l’atteggiamento e le
risposte emotivo-motivazionali del bambino nei confronti della matematica, aumentandone
interesse, motivazione e percezione di autoefficacia e al tempo stesso riducendo l’ansia.
I DISTURBI SPECIFICI DEL LINGUAGGIO, LE DIFFICOLTA’ DI APPRENDIMENTO
DELLA LINGUA STRANIERA E IL CASO DEGLI STUDENTI CON DSA

L’apprendimento delle lingue sta diventando fondamentale per i bambini in gran parte del mondo ed
è quindi naturale che ci si debba occupare di difficoltà o veri e propri disturbi in quest’area.

LE DIFFICOLTA’ DI APPRENDIMENTO DELLA LINGUA STRANIERA


L’inglese diventa forzosamente la lingua necessaria alla comunicazione e per coloro che sono nati e
cresciuti in un contesto linguistico non anglofono imparare l’inglese diventa una priorità se non una
urgente necessità.
Con l’espressione Second Language Acquisition (SLA), ovvero apprendimento della scuola lingua
o L2, si fa riferimento all’acquisizione di una lingua dopo che quella nativa è stata appresa. Chi sta
imparando una lingua seconda (L2) si distingue quindi per almeno due aspetti da chi sta imparando
la lingua madre o L1:
1. Il processo di acquisizione di chi apprende una L2 inizia in un’età successiva a quella di
acquisizione della L2
2. Chi sta imparando una L2 possiede già un sistema linguistico consolidato
L’espressione “acquisizione della L2” fa riferimento all’acquisizione di una lingua in un contesto in
cui quella lingua è usualmente parlata (per esempio, imparare il giapponese in Giappone), mentre
l’espressione “apprendimento della lingua straniera” si riferisce più propriamente all’apprendimento
di una nuova lingua nel contesto della propria lingua madre (per esempio imparare l’inglese in
Italia).

DIFFICOLTA’ DI APPRENDIMENTO DELLA LINGUA STRANIERA E RAPPORTI CON


L’APPRENDIMENTO DELLA LINGUA MADRE
Il fatto che in questo specifico caso si parli di una lingua, anche se straniera, suggerisce che le
DALS potrebbero derivare da una più generalizzata difficoltà di apprendimento della lingua madre,
in base all’ipotesi per cui la lingua madre rappresenterebbe un substrato su cui la conoscenza della
seconda lingua si costruisce facilitando meccanismi di trasferimento da una lingua all’altra. Alcune
ricerche hanno stimato che il contributo positivo dell’alfabetizzazione nella prima lingua nel
determinare l’apprendimento della lettura nella L2 si possa considerare tra il 14 e il 21%. Ciò
significa che le competenze raggiunte dal bambino nella lettura nella propria lingua madre entrano
in gioco nel determinare il successo nell’apprendimento della lingua straniera in misura non
marginale. La lingua madre influenza positivamente l’apprendimento della lingua straniera.
Sparks e colleghi, nel 1992, hanno determinato che i primi fattori causali nel determinare il successo
o l’insuccesso nell’apprendimento della L2 sono di tipo linguistico.
LINGUISTIC CODING DEFICIT HYPOTHESIS  è stata introdotta nella letteratura relativa
alle learning abilities e all’apprendimento della lingua straniera nei primi anni 90. Essa suggerisce,
in particolare, che gli studenti DALS avrebbero una dissociazione all’interno dell’area linguistica,
presentando qualche problema nella codifica degli aspetti fonologici e sintattici del linguaggio, ma
non nell’area semantica.
Il Modern Language Aptitude Test viene utilizzato per la misurazione della capacità fonologica, per
la sintassi e la semantica.
I risultati di Sparks, quindi indicano pertanto la possibilità di individuare studenti con DALS a un
livello avanzato di scolarità e dimostrano che le difficoltà in lingua straniera sono strettamente
associate a difficoltà fonologico-ortografiche nella lingua madre.

BAMBINI CHE POSSONO INCONTRARE DIFFICOLTA’ CON LA LINGUA STRANIERA: IL CASO


DEI DISTURBI SPECIFICI DEL LINGUAGGIO
I bambini con disturbo specifico del linguaggio (DSL) sono dotati di normali capacità cognitive, ma
mostrano una competenza linguistica limitata, senza che siano presenti fattoti causali quali sordità o
ipoacusia, deficit cognitivi, emotivo-affettivi, motori o condizioni socio-ambientali svantaggiate che
giustifichino la ridotta competenza linguistica. Tali disturbi possono manifestarsi sia nella
comprensione della lingua che ne suo utilizzo o nella sua produzione e sulla base della loro
estensione e dell’evoluzione nel tempo, vengono classificati in sottotipi. Questa classificazione
comprende quattro differenti categorie:
1. DISTURBO SPECIFICO DELL’ARTICOLAZIONE DELL’ELOQUIO = deficit nell’uso dei
suoni verbali rispetto a quanto atteso in relazione all’età cronologica e/o mentale
2. DISTURBO DEL LINGUAGGIO ESPRESSIVO = consiste in un deficit specifico nella
produzione linguistica tale per cui l’espressione verbale è dissociata dalla comprensione
verbale
3. DISTURBO DEL LINGUAGGIO RECETTIVO = deficit primario della comprensione del
linguaggio
4. AFASIA ACQUISITA CON EPILESSIA = deficit linguistico acquisito in cui il bambino che
ha normalmente sviluppato le competenze linguistiche espressive e recettive le perde pur
conservando un livello intellettivo nella norma
I disturbi del linguaggio accettano un’ulteriore distinzione, che riguarda in particolare i disturbi
espressivi. Tra questi ne troviamo due importanti: il ritardo specifico espressivo e il disturbo
specifico espressivo.
Si riscontra la massima incidenza in età prescolare sia del disturbo specifico dell’articolazione
dell’eloquio che del ritardo specifico espressivo, mentre per il disturbo specifico espressivo e il
disturbo specifico recettivo la massima incidenza si colloca invece in età scolare; più frequente nei
maschi che nelle femmine.
L’esame precoce del problema di linguaggio porta con sé quindi il rischio elevato di falsi positivi,
ovvero di individuare problemi la cui risoluzione può avvenire in maniera del tutto spontanea e
scomparire nell’arco dell’età prescolare. Il riscontro di un deficit di comprensione in età precoce in
associazione all’individuazione di un ritardo di vocabolario possa essere considerato un indicatore
di serietà del problema e suggerire eventualmente un intervento di sostegno all’apprendimento. I
sistemi diagnostici attuali non includono generalmente il DSL fra i disturbi dell’apprendimento.
Tuttavia ci sono autori che parlano di Language-Learning Disability e ne hanno fornito una
descrizione anche a livello di età scolare.
Vediamo le caratteristiche in età scolare di un disturbo specifico di apprendimento del linguaggio:
1. SEMANTICA = comprendente:
 Lessico complessivo ridotto
 Scarsa conoscenza di parole a bassa frequenza
 Uso di terminologia approssimativa
 Difficoltà a comprendere il linguaggio figurato
2. MORFOSINTASSI = che comprende:
 Difficoltà soprattutto a livello di testo scritto
 Difficoltà a produrre e a comprendere prefissi e suffissi
 Problemi sintattici in comprensione e produzione
3. FONOLOGIA = comprendente:
 Mantenimento di alcuni modesti problemi articolatori
 Difficoltà con parole e frasi fonologicamente complesse
 Ridotta consapevolezza fonologica
4. PRAGMATICA = che comprende:
 Difficoltà nello stare sul tema e a esprimersi con chiarezza
 Problemi comunicativi
Sono stati inoltre rilevati fattori associati al problema, quale basso peso alla nascita, prematurità,
convulsioni febbrili e presenza di epilessia in un familiare del bambino.
Alcuni studi hanno ottenuto importanti benefici dalla messa a punto di programmi computerizzati
che “parlino” al bambino con DSL a un ritmo più lento in modo da consentirgli di imparare
gradualmente a distinguere i suoni più brevi della lingua e arrivare infine a comprenderla alla
velocità naturale di produzione. Hanno dimostrato, inoltre, che l’acquisizione del vocabolario si
basa sull’efficienza del mantenimento a breve del termine della traccia fonologica della nuova
parola.
Un altro aspetto importante della storia del DSL è costituito dall’evoluzione del disturbo in un vero
e proprio DSA. Così come talune forme di DSL evolvono in dislessie e disortografie, altre forme
evolvono in disturbi della comprensione della lettura, ma altre ancora portano a sperimentare una
difficoltà di apprendimento della lingua straniera.

DISLESSIA E APPRENDIMENTO DELLE LINGUE


Gli alunni con DSA e in particolare con dislessia e disortografia hanno importanti deficit nella
componente fonologica del linguaggio. La legge italiana traccia un’empatica descrizione della
condizione dei bambini con disturbo dell’apprendimento, sottolineando il parallelo con una
condizione di disagio che emerge proprio dalla severa difficoltà ad apprendere la seconda lingua.
Chung e Ho, nel 2010, hanno evidenziato che i bambini con dislessia avevano prestazioni inferiori
al gruppo di controllo, appaiato per età, in quasi tutte le misure considerate non solo in L1, ma
anche in L2. L’essere dislessico di per sé crea uno svantaggio soltanto nella letto-scrittura mentre le
altre competenze della lingua inglese vengono perfettamente acquisite, al pari dei partecipanti senza
dislessia.
I bambini italiani infatti imparano velocemente le regole fonologiche che la governano e ad affidarsi
a esse nella lettura sia di parole che di non-parole. L’acquisizione delle regole fonologiche pare solo
rallentata: i problemi nell’uso dei processi di decodifica fonologica presenti nei primi anni della
scuola primaria vengono via via superati e “sostituiti” da problemi nell’uso di quelli lessicali. La
lentezza sembra quindi essere il tratto distintivo dei dislessici italiani, almeno quando leggono nella
loro lingua.
Palladino, nel 2013, ha evidenziato che gli studenti dislessici, significativamente più deboli nella
lettura di parole inglesi, avevano prestazioni equiparabili (per accuratezza) ai controlli nella lettura
di non-parole inglesi. Riveste un ruolo fondamentale la memoria di lavoro fonologica, che consente
di mantenere temporaneamente parole, frasi e tutte le informazioni verbali utili in un dato momento.
Sempre lo stesso ricercatore, nel 2016, suggerisce che studenti con dislessia della scuola secondaria
di I grado sembrano da un lato sforzarsi di individuare lo spelling corretto sulla base delle regole
della lingua inglese e, dall’altro, utilizzare la fonologia italiana, usando quindi la via fonologica,
piuttosto che la via diretta.

BILINGUI E BAMBINI DI COMUNITA’ LINGUISTICHE MINORITARIE


Questi bambini appartengono all’ampio gruppo dei bambini bilingui in una concezione ampia di
bilinguismo che si riferisce a tutti quei bambini che nella loro vita quotidiana utilizzano due lingue.
I bilingui che sia dalla nascita sono esposti a due lingue sono per esempio molto diversi per
apprendimenti e profili di sviluppo cognitivo, ma anche spesso per livello socio-economico, dai
bilingui che provengono da famiglie di migranti che parlano a casa la lingua del paese di origine,
detta lingua minoritaria, e vivono in contesti svantaggiati.
Nel 2017, Bonifacci ha dimostrato che i bambini bilingui mostrano prestazioni comparabili ai
monolingui nell’apprendimento dell’inglese come L2. L’apprendimento dell’inglese come L2 nel
contesto scolastico sembra essere un punto di forza dei bambini bilingui che frequentano la scuola
in Italia benché i dati descritti necessitino di ulteriore supporto attraverso ricerche con gruppi di
soggetti più ampi per numero e regioni di provenienza. I risultati ottenuti indicano una
predominanza della lingua madre anche quando la seconda lingua è ben appresa e il bambino vi è
stato esposto sin dall’età di tre anni.
Un maggior grado di familiarità con la lingua influisce sulla prestazione di memoria, facilitando il
ricordo di materiale simile per fonologia alla lingua appresa per prima, nel caso dei bambini bilingui
non alla nascita.

LE DIFFICOLTA’ DI APPRENDIMENTO DELLA LINGUA STRANIERA IN STUDENTI SENZA


ALTRE DIFFICOLTA’
Una differenziazione fondamentale riguarda i casi dell’apprendimento di una lingua parlata in un
paese in cui non si vive o viceversa della lingua parlata nel paese in cui ci si trova ad abitare. Un
secondo problema è relativo all’esistenza di DALS come effetto concomitante o secondario di altre
problematiche. Un terzo problema, infine, è relativo alla possibilità di parlare di un vero e proprio
disturbo, specifico, biologicamente e neuropsicologicamente ancorato.
Sono stati individuati quattro profili fondamentali:
1. FONOLOGICO = si caratterizza per una difficoltà nell’elaborazione degli aspetti fonologici
ma per buone abilità intellettive e linguistiche
2. SEMANTICO = profili meno frequenti benché possibili quando si esaminano le difficoltà di
apprendimento della lingua straniera sono ad esempio quelli di soggetti con elevata abilità
fonologica, elevata abilità sintattica, ma scarsa abilità semantica
3. MISTO = profili invece più omogenei benché sempre poco frequenti tra i DALS sono quelli
di studenti con medio-bassa intelligenza e deficit generalizzati nelle competenze linguistiche
4. MOTIVAZIONALE = casi che hanno buone abilità verbali, fonologiche, sintattiche e
semantiche, ma bassa motivazione all’apprendimento di una seconda lingua
Le ricerche indicano che l’area più debole può essere quella legata alla codifica fonologica. È
esperienza comune per un italiano incontrare maggiori difficoltà con l’inglese piuttosto che con lo
spagnolo, ma il problema è ancora maggiore per uno studente inglese o italiano con le lingue come
il russo, per il cui apprendimento occorre studiare l’alfabeto cirillico. Particolari difficoltà
presentano invece le lingue “ideografiche” come giapponese, cinese e coreano che richiedono
l’apprendimento di un sistema di scrittura che si basa su regole non alfabetiche.
Si osserva che imparare a manipolare i suoni della propria lingua appare più semplice per i bambini
italiani, turchi e greci che per i bambini inglesi e francesi: i primi mostrano più precocemente dei
secondi il possesso di sensibilità fonologica per le unità sillabiche. Dobbiamo notare come ci siano
lingue con maggiore coerenza interna e regolarità per cui una lettera o sillaba viene sempre
pronunciata allo stesso modo (come in italiano) o in modo diverso (come in inglese o in francese).

LA VALUTAZIONE E LO STUDIO DELLE DIFFICOLTA’ DI BAMBINI


ITALIANI NELL’APPRENDIMENTO DELLA LINGUA STRANIERA
Gli studenti a rischio DALS sembrano però incontrare qualche difficoltà in più rispetto al gruppo a
bassa rischio nel controllo dell’attenzione, valutato in base alle osservazioni degli insegnanti. Si può
supporre che una difficoltà di apprendimento della lingua straniera sia più frequente e più severa in
studenti ancora nella scuola dell’obbligo rispetto a studenti di scuola superiore o addirittura
universitari. La difficoltà dei partecipanti a rischio sembrerebbe più marcata in compiti in cui è
richiesto un mantenimento passivo dell’informazione, piuttosto che un’elaborazione attiva.
Questi studi sono stati tutti indirizzati al caso dell’inglese, ma è indubbio che i bambini italiani
potrebbero avere diverse e forse minori difficoltà con lingue trasparenti, soprattutto se si tratta di
lingue neolatine e quindi con un discreto grado di somiglianza con l’italiano.

INSEGNARE LA LINGUA STRANIERA ANCHE A CHI HA DIFFICOLTA’


Sul piano linguistico, si può facilitare il trasferimento di conoscenze e abilità di analisi linguistica,
esplicitando strategie e regole proprie della L2, guidando il ragionamento e spingendo lo studente ad
assumere un atteggiamento attivo verso la scoperta delle caratteristiche tipiche della L2. Questo tipo
di insegnamento esplicito dovrebbe perciò riguardare tutti gli aspetti della lingua: fonologico-
ortografico, sintattico, lessicale e morfologico e avere come obiettivo quello di fornire strategie
adeguate ed efficaci per affrontare i diversi compiti linguistici. Dal punto di vista degli aspetti
emotivo-motivazionali, va ricordato che le problematiche a questo livello sono accentuate dalla
presenza del disturbo.
METODO DIDATTICO  si tratta di un metodo in cui la lingua straniera viene inserita in un
format narrativo e la drammatizzazione della vicenda ricca di significato ed emozioni aiuta il
bambino a costruire una solida rappresentazione semantica a cui agganciare fonologia, lessico,
grammatica e sintassi della nuova lingua. È adatto a bambini dai tre anni in poi. I materiali proposti
e attentamente costruiti sono concentrati sull’esercizio fonologico e meta-fonologico che diventa
parte integrante di una didattica mirata all’insegnamento dei suoni delle lingue.
IL DISTURBO NON-VERBALE (DISTURBO DELLO SVILUPPO DELLE ABILITA’
VISUO-SPAZIALI)

INTRODUZIONE AL DISTURBO NON-VERBALE


DISTURBO DELL’APPRENDIMENTO NON-VERBALE  si caratterizza per difficoltà in
compiti di natura visuo-spaziale, associate a prestazioni sufficienti in gran parte delle prove di
natura verbale.
Se infatti fino ai primi anni 90 tale problematica era praticamente ignorata dalla gran parte dei
neuropsicologici evolutivi, attualmente la mole di ricerche sull’argomento, con la conseguente
possibilità di comprendere alcune manifestazioni cliniche di natura visuospaziale, ne ha
indubbiamente incrementato la conoscenza.
Johnson e Myklebust, nel 1975, furono i primi a suggerire una valutazione delle componenti
visuospaziali in bambini che mostravano problemi di apprendimento. Rourke, nel 1989, non
attribuiva un ruolo centrale alle disfunzioni dell’emisfero destro per sé, ma piuttosto considerava la
gravità del disturbo in funzione del grado di alterazione della sostanza bianca. La sindrome non-
verbale sarebbe più grave nei casi in cui le fibre che consentono il passaggio di informazioni entro e
tra i due emisferi cerebrali sono danneggiate oppure non si sono sviluppate in modo adeguato.
Esistono una serie di disturbi neurologici e/o sindromi evolutive nelle quali i sintomi della sindrome
non-verbale sono presenti in misura maggiore o minore.

LA SINDROME NON-VERBALE E I LIMITI DEL MODELLO


A partire dal 1989, Rourke ha proposto un modello che non solo descriveva risorse e deficit della
sindrome non-verbale, ma si proponeva anche di spiegare le manifestazioni cliniche sulla base di
relazioni causa-effetto. Questo modello riporta le caratteristiche tipiche dei bambini con sindrome
non-verbale:
1. DEFICIT E RISORSE PRIMARIE = si osservano deficit nella percezione tattile bilaterale,
difficoltà di coordinazione psicomotoria bilaterale; la percezione uditiva è intatta
2. DEFICIT E RISORSE SECONDARIE = si manifestano con scarsa capacità di organizzazione
visuospaziale, difficoltà nell’adattarsi a situazioni nuove e/o complesse, comportamenti
meccanici, ripetitivi e inappropriati; deficit nelle abilità di memoria visuospaziale; la
discriminazione visiva tende a migliorare con la crescita e risultano adeguate le capacità di
attenzione uditiva e verbale
3. DEFICIT E RISORSE TERZIARIE = comprendono difficoltà nella risoluzione di problemi e
nella formazione di concetti di natura visuospaziale. È ridotta la capacità di falsificare le
ipotesi e di trarre beneficio da feedback positivi o negativi, è compromessa l’abilità di
stabilire relazioni causa-effetto. Si osservano anche distorsioni nella capacità di stimare lo
scorrere del tempo durante le attività quotidiane. L’abilità di memoria uditiva e verbale
meccanica è ben sviluppata, al contrario la memoria di materiale complesso di natura
verbale può risultare deficitaria
4. DEFICIT E RISORSE VERBALI = si osservano problemi a verbosità, scarsa prosodia e
difficoltà d’uso pragmatico del linguaggio. Le abilità di ricezione e di ripetizione verbale e
le competenze fonologiche sono preservate
5. DEFICIT E RISORSE A LIVELLO SCOLASTICO = difficoltà in aritmetica, anche per
apprendimenti di natura meccanica; le capacità di lettura migliorano, mentre la capacità di
comprensione del testo può continuare a essere compromessa. Le abilità grafo-motorie
possono svilupparsi in modo adeguato; risultano buone le capacità di decodifica verbale e
memoria meccanica a breve e a lungo termine
6. DEFICIT E RISORSE A LIVELLO SOCIOEMOTIVO = comprende problemi nella
percezione, nel giudizio e nell’interazione sociale; il bambino può apparire iperattivo, con
tendenza al ritiro e isolamento sociale

Il modello di Rourke è stato per lungo tempo il principale riferimento per il NDL. Tuttavia nel corso
degli anni, è stato soggetto a diverse critiche:
1. Lo studioso sosteneva che le risorse e i deficit primari fossero la causa di quelli secondari.
Tuttavia, poche sono state le ricerche volte a dimostrare tale rapporto causale
2. Un’altra critica è stata la mancanza di un’analisi dei processi considerati deficitari in bambini
con disturbo non-verbale
3. Una delle maggiori critiche ha riguardato l’utilizzo molto ampio del termine “sindrome non-
verbale”, per riferirsi a qualunque condizione clinica dove fosse presente una discrepanza tra
abilità verbali, preservate, e visuo-spaziali, deficitarie

LO STATO DELL’ARTE DELLE RICERCHE SULLE ABILITA’ VISUOSPAZIALI E GLI


APPRENDIMENTI SCOLASTICI DEI BAMBINI CON NLD
Alcuni studi si sono focalizzati principalmente sulla memoria di lavoro visuospaziale, un sistema
volto contemporaneamente a mantenere e ad elaborare informazioni di natura visiva e spaziale.
Numerose evidenze hanno mostrato come i bambini con NLD presentino difficoltà in questa
componente della memoria di lavoro. Le difficoltà visuo-spaziali sono state rilevate nelle seguenti
prove: ricordo di percorsi in matrici di diverse dimensioni, ricordo di posizioni e identità di oggetti
all’interno di matrici e ricostruzione di figure mediante compiti di puzzle. In altre ricerche si sono
soffermati sulle difficoltà di visualizzazione (immaginazione) di questi bambini e sulle difficoltà
d’inibizione misurate con prove di memoria di lavoro spaziale.
Mammarella e Cornoldi, nel 2005, hanno osservato un pattern di risposta particolare in bambini
con NLD nel Test dei blocchi di Corsi che richiede di riprodurre nell’ordine indicato, o in quello
inverso, una serie di cubetti disposti casualmente su un piano. Hanno notato che i bambini con
sviluppo tipico non mostravano alcuna differenza tra il ricordo in avanti e all’indietro, invece i
bambini con NLD ottenevano prestazioni di poco inferiori a quelle dei bambini a sviluppo tipico
nella versione in avanti, ma cadevano pesantemente in quella all’indietro. Tale risultato dimostra
che le due versioni del test implicano processi differenti o inducono l’utilizzo di strategie alternative
nella soluzione del compito.
Durante i primi anni di scolarizzazione possono verificarsi problemi di acquisizione della lettura
strumentale dovuti a un’incapacità nel riconoscere le lettere visivamente simili come per esempio
“b, d” oppure “p, q”, errori che si presentano di solito anche durante l’acquisizione della scrittura. A
partire dai 9 anni, i problemi di lettura strumentale tendono a risolversi mentre possono permanere
difficoltà di comprensione e nell’uso pragmatico del linguaggio. La forma linguistica dei bambini
con NLD è preservata, tanto da ritenere che in questi bambini verbosi il contenuto sia lievemente
deficitario, mentre sembrerebbe più deficitario l’uso funzionale del linguaggio.
Cardillo (2018) ha dimostrato come bambini con dislessia sembrerebbero in realtà maggiormente
compromessi nella pragmatica del linguaggio rispetto ai bambini con NLD. I processi di natura
visuo- spaziale possono essere implicati anche nella comprensione del testo, laddove è richiesta la
generazione di immagini e la rappresentazione di rapporti spaziali. Il materiale impiegato consisteva
nella Prova di comprensione spaziale, che prevede la presentazione di brevi descrizioni spaziali.
Inoltre, nel NLD si ritrovano difficoltà di effettuare inferenze che richiedono l’interpretazione di
relazioni spaziali con una relazione significativa tra inferenze di tipo spaziale e inferenze di tipo
emotivo. Si è visto che nella capacità di comprensione orale, i bambini con NLD ottenevano
punteggi peggiori di quelli ottenuti dal gruppo di controllo nelle inferenze, ma non nelle domande
relative a eventi raccontati nei brani.
Mammarella, Lucangeli e Cornoldi (2010) hanno messo in luce alcuni errori tipici dei bambini
con NLD. Hanno notato che il gruppo con NLD commetteva più errori di incolonnamento e di
confusione nell’uso del prestito/riporto nel calcolo scritto, e risultava più lento del gruppo a
sviluppo tipico in una prova di ordinamento di numeri dal più piccolo al più grande e viceversa.
Mammarella, nel 2013, ha dimostrato una maggiore difficoltà dei bambini con NLD in prove di
confronto di numerosità non-simboliche e, al contrario, una maggiore compromissione nel recupero
di fatti numerici e nel calcolo a mente in bambini con discalculia associata a difficoltà di lettura.
Tali risultati hanno evidenziato l’assenza dell’EFFETTO SNARC ( cioè la tendenza a
rispondere più velocemente a numeri più piccoli presentati a sinistra e a numeri grandi presentati a
destra) in bambini con NLD e difficoltà nella rappresentazione di numerosità.
Infine, Mammarella e Gioffrè nel 2013 hanno riscontrato delle difficoltà da parte di un gruppo con
NLD in una prova di geometria intuitiva, ma anche in questo caso, come per gli errori di calcolo, le
difficoltà osservate erano mediate dalla memoria di lavoro visuospaziale.

LE ABILITA’ SOCIALI IN BAMBINI CON DISTURBO NON-VERBALE


Le difficoltà di giudizio sociale erano attribuite ai problemi di ragionamento e di formazione di
concetti astratti. La scarsa capacità di riconoscere emozioni, stati d’animo altrui e linguaggio non-
verbale era considerata il risultato delle basse prestazioni ottenute in compiti di organizzazione di
stimoli visuo-spaziali. L’avversione nei confronti delle novità avrebbe reso difficile ai bambini NLD
la possibilità di crearsi gruppi di amici all’interno di nuovi contesti sociali. Tali bambini hanno una
forte tendenza all’isolamento sociale e allo sviluppo di tratti ansiosi e depressivi in bambini con
NLD. Nel 2016, Mammarella utilizzando il DANVA-2 (Diagnostic Analysis of Nonverbal
Accuracy), che misura la capacità di interpretare messaggi non-verbali associati a quattro emozioni
di base (felicità, tristezza, paura e rabbia) ha approfondito l’analisi delle capacità di riconoscimento
e di comprensione sociale del bambini con NLD.
Il test è composto da quattro subtest:
1. Il primo richiede di associare delle posture del corpo alle quattro emozioni fondamentali
2. Il secondo rappresenta i gesti che devono essere abbinati alle emozioni corrispondenti
3. Il terzo raffigura espressioni del volto di adulti e bambini che veicolano emozioni a diversa
intensità
4. Il quarto subtest richiede il riconoscimento delle emozioni attraverso la tonalità della voce
Il gruppo di bambini con NLS era meno accurato nell’abbinare le emozioni ai gesti e alle
espressioni del volto di soggetti adulti, rispetto a un gruppo con difficoltà linguistiche e a un gruppo
di controllo. Un altro studio ha riguardato il riconoscimento di emozioni a bassa intensità da parte
del gruppo con NLD. Infine, Semrud-Clikeman nel 2014 ha analizzato il riconoscimento delle
emozioni e dei messaggi non-verbali in bambini con NLD attraverso la presentazione di video. Con
questo studio, si è evidenziato che i bambini con NLD non differivano da quelli con sviluppo tipico
nel riconoscere le emozioni dei protagonisti dei video, ma facevano fatica a interpretare i messaggi
non-verbali in modo corretto.

EVIDENZE A FAVORE DEL NLD COME CATEGORIA DIAGNOSTICA INDIPENDENTE DA


ALTRI DISTURBI EVOLUTIVI
Le caratteristiche principali dei bambini con NLD comprendono: difficoltà visuo-spaziali, in
particolare in prove di memoria di lavoro visuo-spaziale, difficoltà negli apprendimenti scolastici,
problemi a relazionarsi in modo adeguato con i pari e nell’interpretare correttamente la
comunicazione non-verbale. Alcuni di questi sintomi possiamo, però, ritrovarli in altri DSA o nei
casi di autismo lieve, in particolare ad alto funzionamento.
Nel 2010, i risultati della ricerca di Semrud-Clikeman hanno mostrato che i bambini con NLD
ottenevano prestazioni peggiori degli altri gruppi clinici in prove visuo-percettive e in prove di
percezione visiva in cui era richiesto di indentificare delle lingue con uguale orientamento. In prove
di motricità fine i bambini con NLD e con sindrome di Asperger ottenevano prestazioni più basse
dei controlli, ma non si differenziavano dai casi con ADHD. Infine, i gruppi NLD e con sindrome di
Asperger mostravano prestazioni simili in una prova di ragionamento spaziale.
Invece, nel 2018, i risultati di Mammarella, Cardillo e Zoccante hanno evidenziato prestazioni più
basse del gruppo NLD rispetto ai casi di autismo, sia in prove visuocostruttive che in prove di
memoria di lavoro visuospaziale, mentre il gruppo con autismo era sensibile alla manipolazione
relativa all’elaborazione locale/globale.
Alcuni studi di neuroimmagini stanno mettendo in luce la specificità del funzionamento cerebrale
dei bambini con NLD: sono stati riscontrati anomalie del corpo calloso (lo splenio del corpo calloso
appariva molto ridotto nei casi con NLD), volumi più ampi nell’amigdala e nell’ippocampo di
bambini con autismo, volume ridotto nella corteccia destra e sinistra del cingolo anteriore.

IL DISTURBO NON VERBALE: CRITERI PER LA SUA IDENTIFICAZIONE E DIAGNOSI


DIFFERENZIALE
I possibili criteri per la diagnosi del NLD sono organizzati in diversi punti che indicano non solo le
principali aree di difficoltà, ma anche aspetti di funzionamento preservati e che derivano da
un’analisi della letteratura e dei criteri proposti nelle varie ricerche.
Possono essere così sintetizzati:
1. Presenza di un deficit persistente in una o più misure di intelligenza o ragionamento non
verbale in presenza di intelligenza verbale in norma o sopra la media
2. Cadute sostanziali nell’elaborazione visuospaziale, dimostrate da difficoltà in almeno due
delle seguenti aree:
 Difficoltà in prove di percezione visiva
 Difficoltà nella riproduzione su copia o nel ricordo di disegni
 Difficoltà nel ricordare temporaneamente informazioni visuo-spaziali
3. Presenza di indici clinici e/o psicometrici di debolezze in almeno una delle seguenti aree che
sono frequentemente associate al NLD:
 Difficoltà fino-motorie
 Difficoltà nell’apprendimento del calcolo soprattutto per gli aspetti che implicano
processi visuo-spaziali o in altre materie che coinvolgono le abilità visuo-spaziali in
presenza di un’adeguata decodifica della lettura
 Difficoltà nelle interazioni sociali
4. Alcuni sintomi possono essere visibili prima dei 7 anni sebbene possano non manifestarsi
completamente fino al momento in cui le richieste scolastiche o della vita quotidiana non
eccedano le capacità del bambino, e possano essere mascherati dalla presenza di buone
strategie verbali
5. Ci sono evidenze che mostrano un’interferenza dei sintomi sulla qualità del funzionamento
sociale, scolastico o nella vita del bambino
6. Le difficoltà non sono spiegate dalla presenza di un disturbo dello spettro autistico ad alto
funzionamento o di un disturbo della coordinazione motoria
Cornoldi e Mammarella, nel 2016, suggeriscono anche di modificare il nome del disturbo che è
espresso in negativo “non-verbale” e risulta quindi poco comprensibile. Inoltre in alcuni contesti il
termine “non-verbale” viene utilizzato per riferirsi a casi che non hanno sviluppato il linguaggio
verbale, mentre nel NLD gli aspetti verbali sono un punto di forza. Per cui è stato proposto un
nuovo nome: disturbo dello sviluppo delle abilità visuo-spaziali.
I principali disturbi con cui il NLD può essere confuso sono i DSA, il disturbo di sviluppo di
coordinazione motoria, l’ADHD, l’autismo lieve ad alto funzionamento e il disturbo sociale della
comunicazione:
1. NLD E DSA = gli autori parlano di non-verbal disorders of learning con un chiaro
riferimento alle compromissioni a livello scolastico, ma è importante sottolineare che il NLD
non presenta necessariamente un DSA. Si differenziano quindi dai disturbi di
apprendimento, dove la compromissione riguarda appunto in modo specifico gli
apprendimenti. Le ricadute a livello scolastico non sono quindi specifiche del NLD. Quanto
detto non esclude, tuttavia, la possibile presenza di comorbilità tra NLD e DSA
2. NLD E DISTURBO DELLA COORDINAZIONE MOTORIA = alcuni sintomi motori che
concorrono alla diagnosi del disturbo di coordinazione motoria possono essere presenti
anche nel NLD. Se sono presenti difficoltà motorie, queste appaiono solitamente più sfumate
e meno chiare e, inoltre, in associazione con altri sintomi precedentemente indicati. Le
cadute in memoria di lavoro sembrerebbero essere meno specifiche o più presenti nella
componente sia verbale che visuospaziale
3. NLD E ADHD = anche l’ADHD può condividere alcuni sintomi con il NLD, poiché alle
volte sono presenti nel NLD sintomi di disattenzione e difficoltà di organizzazione delle
proprie attività. Nelle abilità visuocostruttive, i bambini con NLD mostrano più difficoltà dei
bambini con ADHD. Nei casi di NLD sono più presenti sintomi ansiosi e difficoltà di
interazione con i pari oppure delle difficoltà di comprensione degli aspetti non-verbali della
comunicazione
4. NLD E DISTURBO DELLO SPETTRO DELL’AUTISMO = nel NLD non sono presenti
comportamenti stereotipati e ripetitivi; un numero cospicuo di ASD ad alto funzionamento
presenta come punto di forza delle buone competenze di ragionamento visuo-spaziale e di
abilità visuocostruttive, con uno stile di elaborazione rivolto all’analisi di dettagli visivi. I
casi NLD solitamente hanno maggiore desiderio di relazionarsi con i pari, ma sono carenti
nella comunicazione non-verbale e possono sviluppare ansia sociale, mentre solitamente non
hanno difficoltà nel cogliere il punto di vista o lo stato d’animo delle altre persone
5. NLD E DISTURBO SOCIALE DELLA COMUNICAZIONE = questo disturbo ipotizza
l’esistenza di casi con difficoltà nelle abilità pragmatiche della comunicazione in assenza di
un disturbo dello spettro dell’autismo. Alcuni studi hanno documentato la difficoltà da parte
di bambini con NLD nel fare inferenze su contenuti emotivi o su contenuti visuospaziali,
così come alcune difficoltà di comprensione dell’ironia

GUIDA PER LA VALUTAZIONE E LA DIAGNOSI DEL DISTURBO NON-VERBALE


Per effettuare diagnosi, il clinico è tenuto non solo a ricercare durante il colloquio anamnestico con
la famiglia la presenza di alcuni sintomi, ma anche ad approfondire la consultazione mediante la
somministrazione di alcuni test al bambino.
Riteniamo fondamentale un buon colloquio anamnestico, una valutazione delle potenzialità
cognitive, dello stato degli apprendimenti, un approfondimento neuropsicologico e infine la
valutazione delle componenti emotive e relazionali:
1. POTENZIALITA’ COGNITIVE = particolare attenzione deve essere posta alla discrepanza
tra abilità verbali e visuo-spaziali dell’intelligenza. Il confronto fra una misura di
intelligenza verbale e una di intelligenza visiva è molto indicativo e può essere integrato con
l’analisi della prestazione in alcuni subtest sintomatici della WISC-IV
2. STATO DEGLI APPRENDIMENTI = è possibile richiedere la collaborazione di insegnanti o
di altre figure significative che interagiscono con il bambino nella compilazione di
questionari basati sull’osservazione di prestazioni scolastiche che implicano l’uso di abilità
visuospaziali
3. ABILITA’ STRUMENTALI DELLA LETTURA E DELLA COMPRENSIONE DEL TESTO =
si può prevedere una lettura strumentale carente fino a circa otto anni, mentre le difficoltà di
comprensione, soprattutto legate ad aspetti inferenziali, possono permanere
4. ABILITA’ DI CALCOLO = gli errori tipici riscontrati sono nella scrittura e nella lettura di
numeri, nella difficoltà di riconoscimento dei segni delle operazioni e nell’incolonnamento
5. GRAFISMO
L’analisi delle competenze visuo-spaziali deve essere condotta a diversi livelli, utilizzando alcuni
test, tra cui troviamo:
1. TEST VMI
2. FIGURA COMPLESSA DI REY = di solito, in questi test, le prestazioni dei bambini sono
molto basse
3. BATTERIA DI VALUTAZIONE NEUROPSICOLOGICA
4. NEPSY-II
5. TEST DI CORSI = il compito del bambino consiste nel riprodurre l’esatto ordine di
presentazione dei cubetti indicati dall’esaminatore. La batteria è organizzata su due livelli: il
primo include due compiti di screening veloce, il test di Corsi e lo Span di cifre, mentre il
secondo comprende un’ampia gamma di test di memoria di lavoro attivi e passivi
6. APL-MEDEA = utilizzato per approfondire le abilità pragmatiche del linguaggio dai 5 ai 14
anni

IL TRATTAMENTO DEL DISTURBO NON-VERBALE


Un buon trattamento riabilitativo deve essere strutturato a partire dall’analisi dei bisogni, ovvero
dalle abilità risultate carenti attraverso il processo diagnostico e dalle conseguenze adattive. È
necessario considerare quali siano le priorità nello specifico caso da trattare. Il core del disturbo
risiede in deficit a carico delle abilità visuospaziali, compresa la memoria di lavoro visuospaziale.
Non è consigliabile lavorare esclusivamente sulle aree deficitarie, ma è bene operare in maniera
“ecologica” rispetto alle necessità del caso. Può sicuramente risultare utile la riabilitazione di
componenti di base, ma di fronte a gravi cadute a livello scolastico o difficoltà relazionali ed
emotive, è necessario integrare il trattamento con materiale volto a migliorare le prestazioni a questi
livelli. È possibile predisporre materiali che partono da processi di base per arrivare, in un secondo
momento, a esercizi più complessi che permettano di acquisire e migliorare le prestazioni in compiti
di matematica o di scrittura. Tra i programmi più utilizzati, troviamo:
1. ABILITA’ VISUOSPAZIALI = utilizzato su bambini dalla terza classe della scuola primaria
alla terza classe della secondaria di primo grado. Tutto il programma è centrato
sull’apprendimento di strategie attraverso un’ottica metacognitiva, secondo la quale il
bambino è portato a riflettere sulle strategie effettivamente impiegate in modo spontaneo
durante l’esecuzione delle schede e sulla possibilità di adottarne di nuove e più funzionali
2. EDUCARE ALLA VISUALIZZAZIONE = è indirizzato a ragazzi con disabilità intellettiva.
L’obiettivo è stimolare le capacità di tipo immaginativo-spaziale attraverso quattro
operazioni immaginative:
 Riconoscimento degli oggetti
 Spostamento degli oggetti
 Rotazione degli oggetti
 Deformazione degli oggetti
3. ORIENTAMENTO E RAPPRESENTAZIONE DELLO SPAZIO
4. RECUPERO IN… ABILITA VISUOSPAZIALI = contiene utili esercizi per potenziare la
rievocazione e la rielaborazione seriale, il ragionamento visuospaziale, l’immaginazione
mentale, l’orientamento spaziale e la comprensione di testi contenenti informazioni
topografiche
Spesso il bambino NLD è un po’ goffo e può apparire trasandato nel modo di vestire. Anche questi
aspetti possono essere oggetto di trattamento, nel bambino piccolo anche con generiche attività
psicomotorie, nel più grande con attività mirate. Si consiglia all’operatore di programmare un
interventi volto a migliorare l’autostima e le competenze sociali e relazionali, da associare a
iniziative che favoriscano la socializzazione del bambino.
5. SOCIAL SKILLS = è rivolto anche a bambini e ragazzi con NLD che presentano difficoltà
nello stabilire e mantenere relazioni positive e significative con i pari
L’assenza di una categoria diagnostica presente nei sistemi di classificazione internazionali
costringe a formulare diagnosi parzialmente corrette, nel senso che viene data enfasi a uno dei
sintomi del disturbo che sono sì manifestazioni del disturbo, ma che possono creare confusione sia
alle famiglie che ai professionisti che spesso si trovano ad impostare dei programmi di intervento
che non risultano poi ottimali, proprio perché non tengono conto dell’insieme dei sintomi, ma solo
di una parte di essi.
DISABILITA’ INTELLETTIVE E FUNZIONAMENTO INTELLETTIVO LIMITE

Disabilità intellettive (DI) e funzionamento intellettivo limite (FIL) sono accomunate dalle stesse
difficoltà: carenze cognitive generalizzate che condizionano negativamente lo sviluppo
dell’intelligenza, del pensiero e del ragionamento e problemi di adattamento. Nel caso del FIL, le
carenze sono minori ed escludono una diagnosi di disabilità, ma sono comunque tali da poter
comportare difficoltà a livello adattivo e/o scolastico.

DISABILITA’ INTELLETTIVE: DAL DSM-IV AL DSM-5


Nel DSM-5, le disabilità intellettive rientrano nei disturbi del neurosviluppo in quanto si
caratterizzano per l’esordio nel periodo di sviluppo. Il DSM-5 prende atto del fatto che la comunità
scientifica e clinica da alcuni anni non usa più l’espressione “ritardo mentale”. La disabilità
intellettiva (disturbo dello sviluppo intellettivo) è un disturbo con esordio nel periodo dello sviluppo
che comprende deficit del funzionamento sia intellettivo che adattivi negli ambiti concettuali, sociali
e pratici.
Affinchè si possa fare diagnosi, è richiesto che siano soddisfatti tre criteri:
1. Un deficit delle funzioni intellettive (con un QI = 70 o minore di 70), come: ragionamento,
problem solving, pianificazione, pensiero astratto, capacità di giudizio, apprendimento
scolastico, apprendimento dall’esperienza
2. Un deficit del funzionamento adattivo, tale da comportare il non raggiungimento degli
standard di sviluppo e socioculturali, relativi ad autonomia e responsabilità. Si tratta di
deficit adattivi che, in assenza di un supporto costante, limitano il funzionamento nelle
attività della vita quotidiana
3. Esordio di criterio 1 e 2 durante il periodo dello sviluppo
L’1% della popolazione ha come diagnosi prima la disabilità intellettiva, ma almeno il 2% ha un QI
inferiore a 70.

Il DSM-5 invita a specificare la gravità della disabilità intellettiva con una modifica notevole
rispetto al DSM-IV: è abbandonato il riferimento ai punteggi dei test di intelligenza. Lo stesso
manuale prevede anche una diagnosi di ritardo globale dello sviluppo. La diagnosi di disabilità
intellettiva è consigliata solo in casi eccezionali.
Vediamo i gradi di gravità della disabilità intellettiva secondo il DSM-IV:
Vediamo anche i gradi di gravità della disabilità intellettiva secondo il DSM-5:

Inoltre, sono considerati quattro diversi gradi di gravità, secondo la misurazione del quoziente
intellettivo (QI) che sono più flessibili rispetto a quelle del passato: per esempio per quanto riguarda
il ritardo moderato non si considera più un range compreso tra 40 e 55, ma uno che va da 35-50 a
50-55.

DISABILITA’ INTELLETTIVE: LIVELLI, PROFILI E TRAIETTORIE


Il QI totale dei vari test di intelligenza evidenzia il livello generale delle prestazioni: per esempio,
un QI di 68 è comunque meno grave di uno di 55.
Nei subtest di una batteria per la valutazione dell’intelligenza, gran parte delle persone con disabilità
intellettiva tende ad avere punteggi bassi e abbastanza simili. Avendo presenti soprattutto le scale
Wechsler si possono considerare con attenzione i punteggi ai singoli subtest o ai raggruppamenti
possibili. Un problema è rappresentato dal fatto che tipicamente si prevede la somministrazione
anche al bambino con DI un test di intelligenza previsto per la sua fascia d’età, con la conseguenza
che tutti i punteggi possono risultare molto bassi e poco discriminabili.
Con una disabilità intellettiva lieve, si possono raggiungere al massimo in tarda adolescenza,
competenze scolastiche paragonabili a quelle di un bambino di 10-11 anni; con una disabilità
intellettiva moderato si può al massimo conseguire il livello di un bambino di 9 anni; con una
disabilità intellettiva grave, non si possono affrontare gli apprendimenti scolastici, ma è possibile
l’acquisizione del linguaggio verbale, e lo sviluppo di abilità di autonomia personale.
Una buona valutazione delle prestazioni cognitive non può limitarsi a considerare il livello di QI
generale. Cruciale è definire un profilo che consideri i rapporti fra gli aspetti cognitivi, linguistici,
sociali o adattivi. Alcune sindromi sono caratterizzate da una diminuzione del QI con
l’aumento dell’età cronologica. Ne risulta che in questi casi ha un significato molto diverso un QI
di 50 a 3 anni o a 18 anni. La disabilità intellettiva comporta spesso carenze a livello di sviluppo
motorio e possibili condizioni mediche negative.
Tra i problemi fondamentali che hanno implicazioni per la diagnosi, particolare rilievo ha la
contrapposizione tra l’ipotesi del ritardo e quella dello sviluppo eterocronico. Alcuni studiosi si
sono soffermati sulle prove che evidenziano un ritardo omogeneo nelle prestazioni del soggetto e
quindi in passato hanno espresso una preferenza per l’espressione ritardo mentale, mentre altri
enfatizzano l’eterocronia o non omogeneità dello sviluppo e parlano quindi di disabilità
intellettiva. Quindi, ogni situazione è caratterizzata da un combinarsi complesso di ritardi, di profili
tipici di una eventuale sindrome e di profili tipici dell’individuo.

SINDROMI GENETICHE E DISABILITA’ INTELLETTIVE


La disabilità intellettiva può essere causata sia da fattori biologici che ambientali. Tra le cause
biologiche vengono distinte anche quelle genetiche. La sindrome genetica più famosa associata alla
disabilità intellettiva è la sindrome di Down.
L’incidenza è calcolata con riferimento a 100.000 nati vivi. Circa 585, corrispondenti allo 0,58%,
sono affetti da una sindrome genetica che può causare in modo significativo disabilità intellettiva. Si
può notare che nel complesso meno del 50% di tutte le persone affette dalle sindromi genetiche
prese in considerazione presenta anche QI inferiore a 70. Per altre, invece, avviene il contrario. In
più, altre sindromi sono invece caratterizzate da un decremento del QI con il passare degli anni.
Comunque, ogni sindrome genetica causa di disabilità intellettiva tende ad avere caratteristiche
peculiari. A titolo esemplificativo, ricordiamo: la sindrome di Williams (con buone prestazioni
linguistiche e scarse prestazioni visuo-spaziali), la sindrome di Prader-Willi (caratterizzata da
iperfagia e quindi obesità), la sindrome di Smith-Magenis e di Lesch-Nyhan (l’individuo è
aggressivo verso sé stesso e gli altri), la sindrome di Rett (che comporta tratti simil-autistici).

DISABILITA’ INTELLETTIVE NON DOVUTE A CAUSE GENETICHE


La disabilità intellettiva può essere causata da fattori biologici non genetici. Tra le cause più comuni
(che comprendono rischi prenatali, gravidanza, primi anni di vita, malattia della madre o del
bambino, ecc.) troviamo: rosolia, toxoplasmosi, sifilide, citomegalovirus; incompatibilità del sangue
materno e fetale; gravidanza a rischio o parto difficile; abuso di alcol, tabacco; nascita prematura,
asfissia, encefalite, meningite, traumi, tumori cerebrali; malnutrizione e gravi deprivazioni/carenze.
Quantitativamente le disabilità intellettive dovute a gravi deprivazioni e carenze a livello fisico,
affettivo, educativo o socioculturale costituiscono una minoranza e sono progressivamente
diminuite in tutto il mondo, producendo eventualmente profili di “funzionamento intellettivo limite”
o di “disturbi nello sviluppo della personalità”. Per una buona diagnosi, quindi è necessari
considerare le caratteristiche culturali dell’individuo. La disabilità intellettiva è spesso associata ad
altri disturbi, perciò non esclude, ad esempio, la diagnosi di disturbo dello spettro autistico.

DISABILITA’ INTELLETTIVE: ASPETTI MOTIVAZIONALI, DI PERSONALITA’ E RISCHIO


PSICOPATOLOGICO
Questo non esclude che alcune condizioni mediche generali possano comportare peculiari
caratteristiche di personalità e comportamentali. Per altre sindromi è più opportuno parlare di
maggiori probabilità che sia presente una qualche caratteristica di personalità o comportamento
disadattivo o patologico: ad esempio, il disturbo d’ansia, l’iperattività, la compulsività,
l’autolesionismo.
Le condizioni di vita associate ad una disabilità intellettiva possono comportare effetti sul piano
motivazionale e, più generalmente, sulla personalità. Sono stati evidenziati sette costrutti di
personalità e/o motivazionali che possono avere valore adattivo o disadattivo e che possono essere
considerati in relazione alla disabilità intellettiva:
1. TENDENZA ALLA REAZIONE POSITIVA = forte motivazione che spinge gli individui sia
all’interazione con un adulto supportivo che alla dipendenza dall’adulto
2. TENDENZA ALLA REAZIONE NEGATIVA = caratterizzata da iniziale diffidenza nei
confronti di adulti estranei
3. ASPETTATIVA DI SUCCESSO = definita dal livello di successo o di fallimento che ci si
aspetta di fronte ad un compito nuovo
4. TENDENZA A FARSI GUIDARE DALL’ESTERNO = definita dal comportamento di cercare
l’aiuto degli altri al fine di ricevere suggerimenti quando si devono affrontare problemi di
una certa difficoltà
5. MOTIVAZIONE DI COMPETENZA = soddisfazione e percezione di competenza che
l’individuo prova nell’affrontare e risolvere compiti difficili
6. CURIOSITA’/CREATIVITA’
7. OBBEDIENZA
Gli individui con disabilità intellettiva tendono a riportare punteggi inferiori nel livello di
aspettativa di successo, nella motivazione di competenza, nella curiosità/creatività, e
nell’obbedienza; superiori nella tendenza alla reazione positiva e nella tendenza a lasciarsi guidare
dall’esterno, non significativamente diversi nella tendenza alla reazioni negativa.
Consideriamo infine il rischio psicopatologico: il rischio psichiatrico aumenta quindi con il progredire
dell’età cronologica, oltre che con la gravità della disabilità intellettiva.

LE SINDROMI PRINCIPALI
SINDROME DI DOWN  è la causa cromosomica di disabilità intellettiva più diffusa. Essa
interessa tutte le etnie, sia maschi che femmine, e si manifesta in un caso ogni 700-1.000 nati vivi.
La causa genetica di questa sindrome è la presenza di un cromosa 21 in più, cioè tre invece dei due
soliti. A livello cromosomico, si distinguono sottotipi diversi di sindromi:
1. TRISOMINA PIENA = il cromosoma in più è in tutte le cellule del corpo
2. FORMA A MOSAICO = solo alcune cellule hanno il cromosoma 21 in più
3. FORMA CON TRASLOCAZIONE NON BILANCIATA = un cromosoma o parte di esso è
attaccato ad un altro cromosoma con carenza o eccesso di materiale genetico
4. ULTERIORI FORME RARE = è sempre coinvolto il cromosoma 21, ma in forme diverse
(cromosoma 21 a forma di anello o la presenza di una parte in più di un terzo cromosoma
21, ecc.)
Il tono muscolare è caratterizzato da “rilassatezza”. Le tappe fondamentali dello sviluppo motorio
vengono raggiunte in ritardo. Troviamo poi difetti cardiaci, problemi alla vista, all’udito, al
funzionamento tiroideo, ai denti. Tipici della sindrome di Down sono un precoce invecchiamento e
un rischio di demenza più alto (di solito, morbo di Alzheimer).
La quasi totalità delle persone con sindrome di Down viene valutata nei test di intelligenza con un
QI inferiore a 70. La produzione è inferiore alla comprensione e alla pragmatica e il lessico tende ad
essere migliore della fonologia, della morfologia e della sintassi. Mostra una certa disomogeneità
nel profilo delle abilità visuospaziali.
Lo sviluppo sociale e adattivo è superiore al livello intellettivo e che le prestazioni scolastiche sono
fra loro disomogenee, con una prestazione in lettura e scrittura superiore a quanto prevedibile
dall’età equivalente relativa all’intelligenza.
Per quanto riguarda i dati relativi ai QI a varie età, si può notare che ben scarse sono le differenze
nei primi tre anni di vita, ma che poi essere aumentano in maniera difforme, presumibilmente a
seconda dell’ambiente in cui il bambino è inserito.
In generale vengono segnalati comportamenti psicopatologici nel 15% circa dei minori e nel 25%
circa degli adulti con sindrome di Down. I disturbi più frequenti in età minore sono: disturbo da
deficit di attenzione con o senza iperattività e comportamenti oppositivi e provocatori. Con l’età
adulta, si manifestano disturbi depressivi, associati a passività, apatia e mutismo.
SINDROME DI X FRAGILE  è la più comune causa ereditaria, tra quelle conosciute, di
disabilità intellettiva. La causa di questa sindrome è un singolo gene presente nel cromosoma x. A
livello genetico, è dovuta all’ereditarietà materna e non a quella paterna, elemento di cui si deve
tenere bene conto nel counseling alla famiglia. Da un punto di vista psicologico, è necessario aiutare
la madre a gestire eventuali sensi di colpa e purtroppo, a volte, come ci insegna anche l’esperienza
diretta di counseling, anche i sentimenti del coniuge che in modo diretto o indiretto potrebbe
ritenerla responsabile dei problemi del figlio/a.
A livello fisico, abbiamo viso lungo, orecchie prominenti, ecc. La variabilità è notevole non solo nel
confronto tra i maschi e le femmine che ne risultano meno danneggiate, ma anche tra i maschi
stessi. Il profilo cognitivo è caratterizzato da prestazioni migliori in prove che implicano
elaborazione simultanea piuttosto che elaborazione sequenziale nei compiti di memoria a lungo
termine piuttosto che in quelli a breve termine, negli apprendimenti di abitudini piuttosto che in
quelli richiedenti adattamenti nuovi. Inoltre, risultano deficitari numerosi aspetti dell’attenzione e di
altre funzioni esecutive. Tale deficit è stato rilevato a qualsiasi età nei maschi e nelle femmine.
La traiettoria del cui è discendente. Il dato, comunque, non indica deterioramento, in quanto le
prestazioni comunque migliorano, anche se molto più lentamente. Il bambino è inoltre caratterizzato
da buon interesse sociale, ma anche da timidezza e ritrosia nei rapporti sociali.
SINDROME DI WILLIAMS  la causa genetica di questa sindrome è una micro-delezione nel
braccio lungo di uno dei due cromosomi 7. Ne è coinvolto anche il gene che produce l’elastina, cioè
una proteina che dà elasticità e forza ai tessuti della pelle, alle arterie, ai vasi sanguigni, alle pareti
degli organi.
I livelli di intelligenza generale sono in media lievemente superiori rispetto a quelli tipici della
sindrome di Down. Infatti, i dati a disposizione non confermano una discesa del QI dai primi anni di
vita al periodo adolescenziale e giovanile. Il linguaggio è particolare: caratterizzato dall’uso di
parole non comuni e dalla tendenza ad esprimersi con narrazioni colorite. La socialità è
caratterizzata da estroversione e in particolare da disinibizione negli approcci con l’estraneo. Questi
individui hanno una notevole capacità nel riconoscere i volti, tanto più singolare se associata con le
tipiche difficoltà a livello visuospaziale.
SINDROME DI ANGELMAN E DI PRADER-WILLI  vengono presentate insieme perché dal
punto di vista fenotipico sono profondamente diverse, ma hanno in comune una caratteristica
genetica: condividono spesso la stessa delezione (15q11-13), che in un caso è nel cromosoma di
derivazione materna (sindrome di Angelman) e nell’altro nel cromosoma di origine paterna
(sindrome di Prader-Willi).
1. La sindrome di Angelman comprende sempre o quasi sempre disabilità intellettiva grave-
estrema. I linguaggio verbale è quasi assente e l’individuo è caratterizzato da attacchi
epilettici. Tipico è un camminare rigido e saltellante che ai primi studiosi ha fatto pensare al
movimento di un burattino; si mettono a ridere anche quando non è il momento
2. Per quanto riguarda la sindrome di Prader-Willi, la delezione di una parte del cromosoma 15
di origine paterna comporta una disabilità intellettiva lieve o moderata, iperfagia, bravura
nella soluzione dei puzzle, ma anche irritabilità, ostinatezza, impulsività e compulsività
Ovviamente, esistono anche altre sindromi e sono numerose le sindromi genetiche in cui la
disabilità intellettiva riguarda solo una minoranza (sindrome di Klinefelter, di Turner e di
Noonan); in altre invece il ritardo tende ad essere grave, come nella sindrome 5p, di Rett e di
Patau. In alcuni casi il fenotipo comportamentale prevede anche aggressività verso gli altri e verso
sé stessi (sindrome di Smith-Magenis e di Lesch-Nyhan); in altri è elevato il rischio di tratti
autistici o di altri disturbi di tipo psichiatrico, come nella sindrome velocardiofacciale o 22q.

FUNZIONAMENTO INTELLETTIVO LIMITE (FIL)


Molto scarsa è la ricerca sul funzionamento intellettivo limite (FIL) o borderline, che costituisce
una specie di “limbo” tra la normalità e la disabilità intellettiva. Di solito, è l’oggetto di attenzione
clinica oppure ha un impatto sul trattamento e sulla prognosi dell’individuo. Per quanto riguarda il
riferimento al QI, questo non è più esplicito, però per fare diagnosi di tale disturbo, si considera un
QI compreso fra 70 e 85 (infatti secondo la direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012, si afferma
che “si tratta di bambini o ragazzi il cui QI globale risponde a una misura che va dai 70 agli 85 punti
e non presenta elementi di specificità. Per alcuni di loro il ritardo è legato a fattori neurobiologici ed
è frequentemente in comorbilità con altri disturbi”).
Alcuni di loro manifestano tuttavia difficoltà rilevanti e caratterizzate, per cui si potrebbe passare da
una pura menzione del funzionamento intellettivo globale, spesso associato a una vera e propria
diagnosi diversa a una vera descrizione diagnostica di un profilo a sé stante. Questo profilo non
trova posto nei principali manuali diagnostici a impostazione medica, ma è invece stato descritto
dalla letteratura psicopedagogica, spesso nei termini di slow learner (cioè, un bambino lento
nell’apprendimento). Tale bambino:
1. Presenta un QI inferiore a 85
2. Non ha discrepanza fra abilità generale di tipo verbale e non-verbale
3. Ha apprendimenti comparabili e non discrepanti rispetto al livello intellettivo
4. Non è riconducibile ad alcun disturbo specifico e nemmeno a disabilità intellettiva lieve
Quali sono i criteri per la diagnosi? Per fare una buona diagnosi, bisogna che questa sia motivata
dalla semplice constatazione di un QI fra 70 e 85, ma da un profilo intellettivo senza punti di forza,
e dalla constatazione di obiettive difficoltà di apprendimento e di adattamento, che richiedono un
intervento personalizzato. Il riferimento al FIL può andare oltre la constatazione del valore del
QIT, ma deve riferirsi a un vero e proprio profilo che presenti una serie di caratteristiche, fra cui:
1. Livello intellettivo basso
2. Alcuni problemi adattivi
3. Problemi di apprendimento
Riteniamo utile considerare due tipologie diverse di casi con funzionamento intellettivo limite,
caratterizzati da diverso contesto famigliare.

INTERVENTI EDUCATIVI E ABILITATIVI


Per una buona abilitazione cognitiva sono cruciali una diagnosi precoce e un’articolata valutazione
dei vari aspetti dello sviluppo cognitivo, associata con problemi di intervento mirati, cioè adeguati
al profilo cognitivo individuale. L’intervento abilitativo non può esaurirsi nei primi anni di vita, ma
deve continuare almeno fino ai 18-20.
Nella realtà italiana, sul piano delle promozione delle abilità cognitive hanno avuto particolare
influenza programmi a largo spettro, come il Metodo Feuerstein che coordina il progetto MS, creato
proprio con l’obiettivo di potenziamento del pensiero e del ragionamento in bambini e ragazzi con
disabilità cognitive con un’età mentale di almeno 3 anni. Con tale programma si è messo l’accento
sull’insegnamento di abilità funzionali di lettura, scrittura e calcolo, ove il bambino non è
impegnato nell’apprendimento di tutti i processi implicati, ma nell’acquisizione di quelli più
funzionali al suo adattamento.
Relativamente alle aree delle autonomie e delle abilità sociali sono opportuni interventi volti
all’acquisizione di abilità specifiche, come tenersi puliti, lavarsi, indossare indumenti di vestiario o
cucinare, effettuare compere al supermercato, ecc.
Le tecniche di intervento maggiormente utilizzate sono d’impostazione comportamentista, con
l’obiettivo di modificare il comportamento: shaping, fading, prompting, modeling, apprendimento
senza errori, programmi di rinforzo, ecc.
Non sono da trascurare gli aspetti motivazionali: è fondamentale cercare di ridurre al minimo
l’influenza negativa di aspetti di personalità e motivazionali; è anche importante valorizzare
incentivi interni più che esterni. È cruciale l’offerta di compiti cognitivi all’altezza delle capacità
dell’individuo, cioè tali da portare successo e non a fallimento e favorire un atteggiamento attivo,
esplorativo e curioso.
A livello abilitativo sono utili tutte le competenze necessarie sia per le situazioni di disabilità
intellettiva, sia, in aggiunta, quelle riguardanti la comunicazione. Uno dei programmi maggiormente
utilizzati è il TEACH.
Molto scarse, invece, sono le indicazioni specifiche di intervento per bambini e ragazzi con
funzionamento intellettivo limite, però si può dare attenzione al potenziamento, che può essere
libero dal vincolo del contenuto uguale a quello dei compagni, nel contesto scolastico.
DISTURBO DA DEFICIT DI ATTENZIONE/IPERATTIVITA’ (ADHD)

DESCRIZIONE CLINICA E CLASSIFICAZIONE DIAGNOSTICA


Il disturbo da deficit di attenzione/iperattività, traduzione di Attention Deficit/Hyperactivity
Disorder (ADHD), è un disturbo del neurosviluppo che riguarda sia l’area dei comportamenti sia
l’area cognitiva. L’ADHD è diventato negli ultimi decenni una delle sindromi infantili più studiate e
discusse al mondo, nonostante il suo riconoscimento non risalga a moltissimo tempo fa. Dalla
pubblicazione della terza edizione riveduta del DSM, il disturbo da deficit di attenzione e
iperattività è diventata la sindrome infantile più studiata in tutto il mondo e la sua caratterizzazione
ha ottenuto crescente consenso.
Le caratteristiche principali del disturbo, come dice lo stesso nome, sono la disattenzione,
l’iperattività e l’impulsività:
1. DISATTENZIONE = si caratterizza soprattutto come difficoltà a mantenere l’attenzione per
un periodo di tempo prolungato e quindi si manifesta come divagazione dal compito,
mancanza di perseveranza, disorganizzazione, e non è causata da atteggiamento di sfida o da
mancanza di comprensione
2. IPERATTIVITA’ = si presenta a livello motorio, come un’eccessiva e afinalistica attività
motoria che si manifesta specialmente in momenti non appropriati, ad esempio un eccessivo
dimenarsi, tamburellamenti delle dita o anche eccessiva loquacità
3. IMPULSIVITA’ = viene definita come un’incapacità di inibire i comportamenti e una
difficoltà nel dilazionare la gratificazione
I bambini con ADHD manifestano comportamenti quali agire senza riflettere, non rispettare i turni
né nelle conversazioni né nelle attività ludiche. Tendono a preferire compiti o giochi in cui si ottiene
una ricompensa immediata. Questo spiegala difficoltà che essi incontrano a crearsi delle
motivazioni interne che li spingano in attività impegnative e a lungo termine.
L’ultima importanza caratterizzazione dell’ADHD è stata data dal DSM-5 che ha inserito il disturbo
all’interno del capitolo dei disturbi del neurosviluppo. Per porre diagnosi di ADHD è necessario che
compaiano almeno 6 dei 9 sintomi di disattenzione e/o di iperattività-impulsività che vengono
descritti nel manuale e che essi perdurino per un periodo di almeno 6 mesi. È ammesso che i sintomi
possano comparire entro i 12 anni e non più solo i 7 anni; inoltre per la diagnosi a adolescenti e
adulti sono richiesti almeno 5 sintomi (invece di 6) sui 9 descritti.
Inoltre, compaiono per la prima volta delle specifiche sul livello di gravità del disturbo (lieve,
moderato, grave), come a voler rendere più dimensionale e meno categoriale la descrizione del
disturbo. È possibile diagnosticare contemporaneamente l’ADHD e il disturbo dello spettro
autistico perché quest’ultimo non è più un criterio di esclusione diagnostica.
L’ICD-11 ha apportato diverse modifiche alla definizione di ADHD e adesso si parla di disturbo da
deficit di attenzione/iperattività e di varie manifestazioni del disturbo. Vengono indicati tre sottotipi
che sono praticamente uguali al DSM:
1. Disturbo da deficit di attenzione e iperattività, presentazione prevalentemente disattenta
2. Disturbo da deficit di attenzione e iperattività, presentazione prevalentemente
iperattivo/impulsiva
3. Disturbo da deficit di attenzione e iperattività, presentazione combinata

CRITERI PER LA DIAGNOSI DI ADHD SECONDO IL DSM-5


ersistente di disattenzione e/o iperattività-impulsività che interferisce con il funzionamento o lo sviluppo, come caratterizzato n
 Disattenzione: 6 o più dei seguenti sintomi si sono mantenuti per almeno 6 mesi
con un’intensità incompatibile con il livello di sviluppo e che ha un impatto
negativo diretto sulle attività sociali e scolastiche/lavorative:

 Iperattività e impulsività: 6 o più dei seguenti sintomi persistono per almeno 6


mesi con un’intensità incompatibile con il livello di sviluppo e che ha un impatto
negativo diretto sulle attività sociali e scolastiche/lavorative:

B. Diversi sintomi di disattenzione o di iperattività-impulsività devono essere presenti prima


dei 12 anni
C. Diversi sintomi di disattenzione o di iperattività-impulsività si presentano in due o più
contesti (per esempio a casa, a scuola o al lavoro; con amici o parenti; in altre attività)
D. Vi è una chiara evidenza che i sintomi interferiscono con, o riducono, la qualità del
funzionamento sociale, scolastico e lavorativo
E. I sintomi non si presentano esclusivamente durante il decorso della schizofrenia o di un
altro disturbo psicotico e non sono meglio spiegati da un altro disturbo mentale
È importante specificare la gravità attuale:
1. LIEVE = sono presenti pochi, ove esistenti, sintomi oltre a quelli richiesti per produrre la
diagnosi e i sintomi comportano solo compromissioni minori del funzionamento sociale o
lavorativo
2. MODERATA = sono presenti sintomi e compromissione funzionale compresi tra “lieve” e
“grave”
3. GRAVE = sono presenti molti sintomi oltre quelli richiesti per porre diagnosi, o diversi
sintomi che sono particolarmente gravi, o i sintomi comportano una marcata
compromissione del funzionamento sociale o lavorativo

SINTOMI E CRITERI DIAGNOSTICI SECONDO L’ICD-11

ompiti che non forniscono un alto livello di stimolazione o ricompense frequenti, distraibilità e problemi con l’organizzazione. L’ip

La percentuale media di prevalenza in Europa sarebbe del 4,5% e in Nord America del 6,5%.

ASPETTI EVOLUTIVI DELL’ADHD: DALL’INFAZIA ALL’ETA’ ADULTA


Nonostante l’ADHD sia un disturbo che si manifesta frequentemente durante l’infanzia, ci sono
sempre maggiori evidenze sia scientifiche che cliniche che dimostrano che il disturbo perdura per
tutta la vita, assumendo manifestazioni sintomatologiche diverse a seconda dell’età. Si può dire che
l’ADHD sia un disturbo life-span, ossia un disturbo che tende a coprire l’intero arco di vita
dell’individuo, con caratteristiche psicopatologiche centrali che si mantengono costanti nel tempo.
Ovviamente la sintomatologia cambia con il passare degli anni e con le modifiche che comporta lo
sviluppo. Il cambiamento della sintomatologia si manifesta soprattutto per i sintomi più esterni e
vistosi (come l’iperattività) che tendono a diminuire con l’età, mentre i sintomi più cognitivi, come l
disattenzione e la difficoltà di pianificazione, permangono nel tempo.
1. PRIMA INFANZIA = nelle attività ludiche si può notare una facile affaticabilità. Sono
numerosi i bambini che prima dei 5 anni mostrano un elevato livello di attività motoria senza
tuttavia sviluppare un vero e proprio disturbo del comportamento. Le difficoltà sono
maggiormente evidenti quando il bambino non riesce a soddisfare le richieste dell’ambiente
2. SCUOLA PRIMARIA = le difficoltà aumentano proprio a causa della presenza di una serie di
regole che devono essere rispettate e di compiti che devono essere eseguiti. Durante gli anni
della scuola primaria, il bambino con ADHD è molto attivo e, sebbene abbia un’intelligenza
uguale a quella dei suoi coetanei, dimostra un comportamento poco maturo rispetto all’età
cronologica e può presentare problematiche anche negli apprendimenti, sia per una
predisposizione genetica che accomuna ADHD e DSA, sia come conseguenza secondaria
delle sue caratteristiche. A seconda delle situazione, il comportamento del bambino con
ADHD appare più o meno problematico: per esempio, in contesti in cui si richiede il rispetto
di determinate regole viene descritto come “problematico e difficile da gestire”. Le
interazioni positive con i compagni richiedono, con il progredire dell’età, sempre maggiori
abilità sociali, di comunicazione e di autocontrollo
3. PREADOLESCENZA E ADOLESCENZA = con la crescita, l’iperattività tende a diminuire in
termini di frequenza e intensità e può venire parzialmente sostituita da “un’agitazione
interiorizzata” che si manifesta soprattutto con insofferenza, impazienza e continui cambi di
attività o movimenti del corpo. Tra i tratti comportamentali più diffusi troviamo: ostinatezza,
scarsa obbedienza, prepotenza, labilità dell’umore, scarsa tolleranza, scatti d’ira e ridotta
autostima, scarsa capacità di mantenere amicizie e risolvere i conflitti interpersonali.
L’adolescenza, con tutti i suoi cambiamenti, può apportare ulteriori problemi: le normali
difficoltà emotive degli adolescenti possono diventare per loro veri e propri problemi con
cadute in episodi di depressione, ansia e bassa stima di sé. I problemi di identità, di
accettazione nel gruppo e lo sviluppo fisico sono problematiche che non sempre riescono a
essere efficacemente affrontare. Gli inevitabili insuccessi possono determinare problemi di
autostima, scarsa fiducia in sé stessi, o addirittura ansia o depressione clinicamente
significative.
4. ETA’ ADULTA = anche se i sintomi di iperattività e di impulsività decrescono ulteriormente,
tuttavia permane la difficoltà nel mantenere l’attenzione, di pianificazione, per cui gli adulti
con ADHD possono, per esempio, dimenticare frequentemente impegni di studio o di lavoro
o avere difficoltà a fare delle previsioni su eventi futuri. Possono essere caratterizzati da una
personalità impulsiva, manifestare un disturbo di personalità antisociale, presentare problemi
coniugali, essere imprudenti nella gestione del denaro, impegnarsi in attività illegali e
cambiare spesso lavoro. Quindi, il disturbo continua a creare difficoltà sociali e lavorative
anche in età adulta, associandosi spesso ad altri problemi incluso il fumo di sigarette e
l’abuso di sostanze.
Un tema importante dell’ADHD riguarda la possibile comorbilità. Il 50% dei bambini con ADHD
presenta almeno due disturbi psichiatrici che co-occorrono tra loro.
Sono tre i principali cluster di disturbi che sono frequentemente legati all’ADHD:
1. Disturbi del comportamento
2. Disturbi ansiosi e dell’umore
3. Disturbi del linguaggio e disturbi dell’apprendimento
Per fare un esempio, le percentuali di comorbilità nei bambini con ADHD possono raggiungere il
40- 50% per quanto riguarda i disturbi oppositivi-provocatori e scendere fino al 10-15% per i
disturbi della condotta. Per stabilire una comorbilità con un disturbo da comportamento dirompente
è necessario osservare le caratteristiche di ostilità, provocatorietà e aggressività tipiche di questi
disturbi. È inoltre opportuno porre attenzione allo stile educativo dei genitori e all’ambiente
famigliare.
Circa il 25% dei casi di ADHD presenta disturbi d’ansia. Questi bambini hanno una prevalente
compromissione attentiva, ma appaiono meno impulsivi, almeno sul piano comportamentale, quasi
che la componente ansiosa rappresentasse una sorta di freno al loro comportamento.
Inoltre si ipotizza una grande fetta di casi che presenta depressione, derivante dalle esperienze
frequentemente vissute dai bambini con ADHD, come per esempio, difficoltà di rendimento
scolastico, rimproveri da genitori e insegnanti, emarginazione da parte dei coetanei, insuccessi e
solitudine.

COMPRESENZA NELL’ADHD DI DIFFICOLTA’ O DISTURBI DI LETTURA, SCRITTURA E


MATEMATICA
Secondo una metanalisi circa il 45% dei bambini con ADHD presenterebbe anche un disturbo
specifico dell’apprendimento (DSA) con una grande variabilità tra gli studi a seconda di quali DSA
vengono presi in considerazione. Inoltre è stato verificato che i bambini con DSA e ADHD erano
quelli che ottenevano i risultati peggiori sia nelle prove di apprendimento sia in quelle di attenzione.
Diversi studi hanno riscontrato che i bambini che presentano sia ADHD che DSA mostrano un
profilo neuropsicologico differente rispetto ai bambini che presentano solo ADHD o solo DSA
ritengono che
il gruppo con disturbo misto sia un sottotipo dell’ADHD con un profilo neuropsicologico diverso
rispetto a quello dell’ADHD “puro”.
Vediamo adesso una breve rassegna delle principali comorbilità tra ADHD e i diversi tipi di DSA:
1. ADHD E DISLESSIA = la compresenza di dislessia e ADHD è il caso più frequente: il 25-
40% dei soggetti con ADHD presenterebbe anche dislessia e il 15-40% dei soggetti con
dislessia soddisferebbe anche i criteri per la diagnosi di ADHD. Marzocchi, nel 2008, ha
rilevato delle comunanze, trovando che il solo processo esecutiva che differenziava i due
gruppi era la pianificazione valutata tramite la Torre di Londra. Altri studi invece hanno
concluso che il gruppo di ADHD + dislessia mostra la combinazione dei sintomi presentanti
da entrambi i disturbi considerati singolarmente. Un’ipotesi alternativa per spiegare questa
associazione è che essi condividano un’eziologia biologica comune che è basata su una
predisposizione genetica di entrambi i disordini. Studi sui gemelli hanno rilevato che sia la
dislessia sia l’ADHD sono due disturbi ereditabili e poligenici; inoltre analisi bivariate su
gemelli suggeriscono che la comorbilità tra dislessia e ADHD sia dovuta primariamente a
influenze genetiche comuni
2. ADHD E PROBLEMI DI SCRITTURA = sembra che la percentuale di comorbilità con
problemi di scrittura sia pari, se non superiore, a quella con i disordini di matematica o di
lettura. I bambini con ADHD presentano una qualità inferiore di grafismo e, pur potendo
procedere con la stessa velocità degli altri bambini, tendono a presentare una maggiore
fluttuazione; si caratterizzano per una minore correttezza ortografica. È noto che i compiti di
scrittura, in particolare quelli di espressione scritta, mettono in gioco diverse funzioni
cognitive come la pianificazione, la capacità di organizzazione, la memoria di lavoro che
sappiamo essere deficitarie nell’ADHD; quindi è abbastanza ragionevole aspettarsi che i
bambini con ADHD incontrino delle difficoltà in scrittura. Si è visto che i bambini con tratti
ADHD producevano testi più corti, qualitativamente peggiori e commettevano molti più
errori, soprattutto riguardanti l’uso di doppie e accenti. In linea con questa ipotesi, altre
evidenze hanno dimostrato come il metilfenidato possa avere degli effetti sul miglioramento
della performance in compiti di scrittura di studenti con ADHD. Sembrano suggerire che i
deficit di scrittura in bambini con ADHD siano più collegati alle problematiche cognitive
dell’ADHD piuttosto che a uno specifico problema di DSA in comorbilità
3. ADHD E PROBLEMI IN MATEMATICA = è stato riportato che un quarto degli studenti con
discalculia presenta anche sintomi di ADHD. Il fatto di trovare difficoltà a mantenere
l’attenzione durante compiti ripetitivi potrebbe contribuire a spiegare anche la difficoltà che
incontrano in ragazzi con ADHD a imparare ad automatizzare calcoli basici, come i fatti
aritmetici. Un’altra funzione cognitiva che ha un ruolo molto importante nei compiti di
matematica e in particolare nel problem solving matematico è la working memory, che
sappiamo essere spesso compromessa nei bambini con ADHD. I bambini con ADHD, per
risolvere un problema, prendono in considerazione le informazioni irrilevanti presenti nel
testo. La loro performance era molto più carente nei problemi con informazioni irrilevanti a
prescindere dal fatto che queste fossero posizionate all’inizio o alla fine del testo e a
prescindere dal fatto che le informazioni irrilevanti fossero di tipo verbale o numerico. I
risultati mostrano che i bambini con ADHD commettevano maggiori errori nei problemi con
updating a differenza del gruppo di controllo che non mostrava differenze tra le due
tipologie di problemi. Le difficoltà incontrate dai bambini con ADHD sono da ricollegare ai
problemi cognitivi che essi presentano e in questo caso particolare alla difficoltà nel riuscire
a identificare le informazioni rilevanti e a ignorare quelle irrilevanti. Il genere e l’ansia
hanno comunque un ruolo moderatore: a bassi livelli d’ansia un lento processing speed
predice infatti scarse prestazioni in matematica solo per i ragazzi e non per le ragazze
LE BASI BIOLOGICHE DELL’ADHD
I ricercatori si concentrano sull’individuazione delle cause dell’ADHD, spaziando dai fattori genetici
a quelli ambientali.
Faraone e Larsson, nel 2018, hanno analizzato 37 studi di genetica delle popolazioni con gemelli
con ADHD e hanno calcolato che la percentuale media di ereditabilità dei sintomi ADHD dovuta a
fattori genetici si attesta al 74%. Questo significherebbe che per circa tre quarti della varianza, le
cause dell’ADHD dipendono dai fattori genetici, mentre il resto dipende da eventi di natura
ambientale. Tra i fattori prenatali non genetici, troviamo per esempio l’uso di nicotina da parte della
madre durante la gravidanza e il basso peso del nascituro.
Vediamo gli approcci che cercano di spiegare le cause dietro all’insorgenza dell’ADHD:
1. GENETICA MOLECOLARE = utilizza due metodi:
 Linkage: si identificano le aree dei cromosomi che contengono i geni coinvolti,
studiando il DNA del bambino con ADHD e quello dei suoi genitori. Di solito, si
analizzano i geni regolatori delle catecolamine. In particolare il focus è posto sul
sistema dopaminergico, il cui ruolo nella sindrome è stato stabilito su basi
indipendenti:
 I farmaci utilizzati con successo nel trattamento dell’ADHD agiscono
principalmente su questo sistema
 Ulteriori evidenze sono state trovate grazie agli studi di neuroimmagine e a
quelli basati sui modelli animali
Gli studi si sono concentrati principalmente su 8 geni, tra cui: dopamina, recettore D4
e D5, serotonina, 1B, SNAP25
 Genoma-scan: prevede lo scan dell’intero genoma. Alcuni studi hanno dimostrato
che solamente nel cromosoma 16 è stata individuata una variante di DNA che può
essere associata all’ADHD
2. BASI NEUROANATOMICHE = per valutare la basi neuroanatomiche dell’ADHD le ricerche
hanno utilizzato soprattutto la tecnica della risonanza magnetica (RM) e la risonanza
funzionale. Più recentemente si utilizza anche la tecnica dell’imaging con il tensore di
diffusore che permette di visualizzare i collegamenti tra i circuiti neuronali tramite l’analisi
delle molecole di acqua presenti nel cervello. Le regioni prefrontali di destra sarebbero più
coinvolte nell’ADHD rispetto a quelle di sinistra; i bambini con ADHD hanno lo spessore
corticale pari a quello di bambini sani di un’età inferiore di 2 anni, suggerendo un ritardo
maturativo del cervello di circa 2 anni
3. BASI NEUROFISIOLOGICHE = un filone di ricerca molto promettente è quello che include
lo studio del Default Mode Network, ovvero di un circuito cerebrale che prevede
un’interazione tra diverse regioni del cervello e che risulta maggiormente attivo in diverse
situazioni, tra cui i momenti in cui una persona ha pensieri esterni e distraenti rispetto al
compito principale

MODELLI NEUROCOGNITIVI DELL’ADHD


Questa parte riguarda le basi neurocognitive (per ricollegarsi al paragrafo precedente ).
ENDOFENOTIPI  indici quantificabili, ed ereditabili geneticamente, che inducono una maggiore
probabilità di sviluppare il disturbo. Per studiare questi fattori è necessario che essi:
1. Siano quantificabili
2. Predicano probabilisticamente il disturbo
3. Siano cause agenti piuttosto che mere categorie diagnostiche
4. Siano basati sugli studi delle neuroscienze
È attraverso l’individuazione di endofenotipi che avverrà l’integrazione tra neuroscienze e le
prospettive genetiche molecolari. In particolare, l’analisi fatta dagli studiosi presenta tre
endofenotipi candidati, ovvero:
1. La ridotta capacità di tollerare l’attesa
2. Il deficit di analisi temporale
3. Le difficoltà riscontrate a livello della memoria di lavoro
Nel 2010, Sonuga-Barke ha proposto l’esistenza di un circuito ventrale che regolerebbe la
motivazione, in particolare l’incapacità di procrastinare l’attesa e i rinforzi, e infine un terzo circuito
cerebellare-motorio che controlla la capacità di sincronizzare le risposte e i tempi di reazione.

MODALITA’ E STRUMENTI DI VALUTAZIONE DIAGNOSTICA


La valutazione diagnostica dell’ADHD è un processo molto complesso. Un primo problema è
dovuto al fatto che i bambini con ADHD in un contesto eteroregolato, come il setting della
valutazione, riescono a mantenere un comportamento controllato. I principali manuali diagnostici,
quali l’ICD e il DSM, per effettuare una diagnosi di ADHD, richiedono una valutazione di tipo
comportamentale, ossia una rilevazione della presenza dei sintomi in almeno due contesti di vita del
bambino, suggerendo che l’osservazione ambulatoriale non è il contesto maggiormente informativo
per formulare una diagnosi di questo tipo.
Di solito il procedimento diagnostico prevede le seguenti fasi:
1. La RACCOLTA DI INFORMAZIONI da fonti multiple (genitori, insegnanti, educatori)
utilizzando interviste semistrutturate e/o questionari standardizzati sui diversi aspetti del
comportamento e del funzionamento sociale del bambino
2. Un’INTERVISTA AL BAMBINO stesso per indagare il livello di consapevolezza delle
proprie difficoltà e i vissuti a esso associati
3. Una VALUTAZIONE NEUROPSICOLOGICA e possibilmente una VALUTAZIONE DEGLI
APPRENDIMENTI
4. Un’OSSERVAZIONE CLINICA STRUTTURA O SEMISTRUTTURATA, possibilmente in un
contesto famigliare per il bambino, ad esempio casa o scuola
INTERVISTE SEMISTRUTTURATE  si può condurre un colloquio clinico con i genitori al
fine di ricostruire la storia del bambino e della sua famiglia, oppure usare un’intervista clinica
specificatamente costruita per la diagnosi psicopatologica. Lo svantaggio principale però è che le
interviste sono lunghe e spesso includono domande che non hanno attinenza con il quadro clinico
del bambino e con la richiesta di consulenza specialistica. Nel contesto italiano, l’intervista più
utilizzata è la Kiddie-SADS, nella quale sono presenti quattro diverse sezioni:
1. L’intervista introduttiva non strutturata
2. L’intervista diagnostica di screening, che è a sua volta divisa in 5 aree psicopatologiche:
 Disturbi dell’umore
 Psicosi
 Disturbi d’ansia
 Disturbi del comportamento
 Abuso di sostanze
3. I supplementi diagnostici
4. C-GAS
Se con l’intervista di screening si ottiene un punteggio superiore al cut-off in una certa area, è
necessario somministrare i supplementi diagnostici per approfondire un’eventuale psicopatologia.
QUESTIONARI  sono strumenti molto utili perché consentono di avere in poco tempo un quadro
del comportamento del bambino/ragazzo in contesti di vita diversi. Hanno quasi tutti una versione
per genitori e una per insegnanti. In alcuni casi i questionari includono anche una versione per il
ragazzo in modo da poter conoscere anche il suo punto di vista. Tutti i questionari principali
prevedono una valutazione che non si limita a domandare se un comportamento sintomatico è
presente o no, ma chiede di stimare la frequenza (o gravità) del comportamento/tratto su una scala a
tre o quattro premi usando una gamma di punteggi che va da 0 a 3 o 4 punti.
I comportamenti disattenti e iperattivi dei bambini con ADHD sono tipicamente espliciti e
facilmente identificabili, per cui i maggiori questionari per l’ADHD godono di ottime capacità di
identificazione. Le Conners-3, per esempio, includono 6 versioni: una completa e una breve: per
genitori, per insegnanti e per l’autovalutazione del ragazzo. Hanno diverse scale che permettono di
ottenere un profilo diagnostico del paziente con ADHD:
1. Le scale di contenuto (inattenzione, iperattività/impulsività, problemi di
apprendimento/funzionamento esecutivo, provocazione/aggressività e relazione con i pari)
2. Le scale dei sintomi secondo il DSM-5 (ADHD inattentivo, ADHD iperattivo-impulsivo,
disturbo della condotta, disturbo oppositivo provocatorio)
3. Gli item di screening di ansia e depressione
4. Gli indici critici per rilevare la presenza di comportamenti gravi
5. Le scale di validità per valutare il grado di affidabilità del compilatore
6. Gli indici di compromissione funzionale del comportamento per stabilire quanto incidano
negativamente i sintomi ADHD nella quotidianità
7. Due domande aperte per rilevare i punti di forza e di debolezza del bambino/ragazzo
La Child Behavior Checklist (CBCL) consente di ottenere una valutazione da parte del genitore,
dell’insegnante e del ragazzo. Ognuna delle tre varianti contiene 113 item atti a indagare una vasta
gamma di comportamenti manifestati dai soggetti in età compresa fra i 4 e i 18 anni. Permette
inoltre di mettere in luce eventuali problematiche secondo una suddivisione in sintomi internalizzati
ed esternalizzati. Tra i disturbi internalizzati, troviamo: ritiro sociale, sintomi somatici, ansia-
depressione, problemi sociali; tra i disturbi esternalizzati, vi sono: comportamenti definiti di
delinquenza e aggressività. Infine vengono distinti due gruppi di sintomi: disturbi del pensiero e
problemi di attenzione.
Confrontando questi due questionari, le Conners-3 vengono utilizzate soprattutto per valutare più
nello specifico un bambino su cui c’è già un forte sospetto di ADHD, mentre le CBCL sono utili per
effettuare una valutazione diagnostica più ampia in cui ci sia il sospetto di una psicopatologia più
complessa oppure diverse comorbilità con l’ADHD.
Altri questionari sono:
1. SDAI e SDAG = consentono di valutare la presenza di sintomi dell’ADHD; sono coincise e di
veloce somministrazione
2. SCALE COM = raccolgono indizi di eventuali comorbilità con tutte le sintomatologie più
frequentemente associate all’ADHD; sono composte da 30 item e divise in sei aree:
 Disturbo oppositivo provocatorio
 Disturbo di condotta
 Disturbo dello spettro autistico
 Disturbi d’ansia
 Disturbi dell’umore
 TIC motori
Esistono due versioni di questa scala: una per gli insegnanti e una per i genitori
3. QUESTIONARIO IPDDAI = ha solo la versione per gli insegnanti
4. QUESTIONARIO IPDDAG = è la versione per i genitori
5. SDQ (Strengths and Difficulties Questionnaire) = è strutturato in quattro scale di 5 item
ciascuna che descrivono i più frequenti disturbi in età evolutiva e una scala di 5 item che
descrive i comportamenti prosociali
OSSERVAZIONE DEL COMPORTAMENTO  è una modalità molto ecologica poiché
consente di ottenere numerose informazioni nel contesto naturale del bambino. Solitamente le
osservazioni si conducono nel contesto scolastico previo ottenimento delle necessarie autorizzazioni
e liberatorie da parte della scuola in accordo con i genitori. L’osservazione ha due scopi:
1. Comprensione della relazione tra un comportamento problematico e gli antecedenti che lo
scatenano e le conseguenze che lo mantengono
2. Apportare alcune modificazioni al contesto del bambino e migliorare il suo adattamento
nell’ambiente in cui si trova inserito
Ci possono essere diverse tecniche per effettuare un’osservazione clinica:
1. È necessario ottenere un inventario dei comportamenti più rilevanti (positivi o negativi) che
il bambino manifesta
2. Categorizzazione dei comportamenti positivi e negativi: in questa fase bisogna cercare di
raggruppare quelli più frequenti, nel contesto scolastico. Le categorie dei comportamenti
possono essere:
 Azioni verbali non adeguate
 Attività motoria inopportuna
 Comportamenti aggressivi
 Non completamento di compiti assegnati
 Aiuto verso compagni in difficoltà
L’individuazione di comportamenti positivi serve per comprendere quali sono le condizioni
affinchè l’alunno con ADHD manifesti azioni adeguate e adattive rispetto al contesto.
3. Osservazione strutturata delle classi di comportamento: può essere svolta in 3-4 ore in
momenti diversi della settimana per verificare il comportamento dell’alunno e la sua
interazione con diversi insegnanti
4. L’osservazione è la rilevazione della sequenza ABC: una volta identificati i comportamenti
target su cui si intende lavorare si osserva quali sono gli eventi che si verificano prima e
dopo ciascun comportamento
TEST COGNITIVI E NEUROPSICOLOGICI  il clino può somministrare test cognitivi, per
indagare alcune funzioni neuropsicologiche, allo scopo di ottenere conferme per la diagnosi,
delineare il profilo funzionale, effettuare una diagnosi differenziale da altri disturbi di tipo cognitivo
o neuropsicologico e programmare un eventuale intervento riabilitativo. Se aggiungiamo poi il fatto
che i bambini con ADHD possono essere piuttosto intuitivi e rapidi, ai test neuropsicologici si
possono mostrare brillanti prestazioni.
La diagnosi di ADHD è clinica, ossia non esiste alcun test in grado di stabilire con certezza la
presenza del disturbo, ma è necessario incrociare diverse fonti di informazione e soppesare ogni tipo
di dato raccolto. La valutazione cognitiva può includere l’analisi delle abilità intellettive attraverso
la somministrazione di una scala WISC.
La valutazione neuropsicologica dell’ADHD può riguardare le varie funzioni oggetto di indagine
anche nel caso dei disturbi del neurosviluppo, ma riguarda soprattutto l’attenzione e, più in
generale, le funzioni esecutive per la classica ipotesi che un deficit esecutivo sia alla base
dell’ADHD.
Tra gli strumenti più utilizzati, troviamo la BIA (Batteria Italiana per l’ADHD), dove sono contenuti
test e questionari che possono essere utilizzati anche in modo disgiunto per ottenere un profilo
relativo all’attenzione, alla memoria, alle funzioni esecutive e al comportamento del bambino di età
compresa tra 6 e 11 anni. Contiene 7 test (descritti di seguito) e 2 questionari:
1. TEST DELLE RANETTE = attenzione selettiva, sostenuta e inibizione motoria
2. TEST DI ATTENZIONE SOSTENUTA (TAU) = attenzione uditiva sostenuta; richiede
vigilanza e memoria fonologica
3. TEST DI STROOP NUMERICO = indicare la quantità di stimoli e non la loro identità
4. COMPLETAMENTE ALTERNATIVO DI FRASI (CAF) = processi di inibizione della
risposta verbale
5. TEST DI MEMORIA STRATEGICA VERBALE = memoria episodica verbale e capacità di
categorizzare gli item e rievocarli in modo coerente e organizzato
6. TEST MF
7. TEST CP
Oltre a questi test, la BIA utilizza anche la Torre di Londra e un compito di ricerca visiva, che
riprende alcune delle caratteristiche dei tipici Continuous Performance Test (CPT).

GLI INTERVENTI TERAPEUTICI


Una premessa fondamentale per una buona riuscita di una terapia con un bambino con ADHD è un
lavoro multimodale, che includa il bambino, la famiglia e la scuola, data la pervasività dei sintomi
del disturbo. Lo studio più importante in merito a ciò, nominato MTA e finanziato dal National
Institute of Mental Health (NIMH) ha lo scopo di confrontare l’efficacia dei possibili trattamenti
per il bambino con ADHD, ossia il trattamento farmacologico, quello psicologico di tipo
comportamentale, la combinazione di questi due tipi di intervento e il trattamento di controllo, che
consisteva nella cura di solito fornita dal pediatra di base. I primi risultati enfatizzarono il ruolo
cruciale del trattamento farmacologico per la riduzione dei sintomi, in presenza o meno di terapie
psicologiche associate. Tuttavia, analisi approfondite rilevarono che il trattamento combinato dava
dei risultati migliori anche rispetto al farmacologico soprattutto per gli aspetti definiti secondari,
quali ad esempio la relazione con i pari.
TERAPIA FARMACOLOGICA  negli anni 80 erano soprattutto i clinici americani a trattare
l’ADHD con farmaci, mentre i clinici europei erano molto più restii, soprattutto in Italia. Il
trattamento farmacologico in Italia è disponibile dall’aprile 2007 e comprende la possibilità di
prescrizione di due farmaci: il metilfenidato (MPH) e l’atomoxetina (ATX). Comunque, il
trattamento farmacologico in Italia non ha raggiunto, e probabilmente non raggiungerà mai, i
numeri degli altri paesi europei.
Il principio attivo del metilfenidato agisce sulla modulazione della ricaptazione della dopamina e si
è dimostrato efficace in circa il 70% dei pazienti con ADHD, riducendo i sintomi di disattenzione e
iperattività. Tra gli effetti avversi, ci sono la riduzione dell’appetito, insonnia, irrequietezza, mal di
stomaco, riduzione della crescita. Nei periodi “di vacanza” da farmaco solitamente il bambino
mostra anche un parziale recupero della crescita staturo-ponderale. Il metilfenidato modifica
moderatamente le prestazioni della memoria di lavoro, migliora leggermente i tempi medi di
reazione, ma soprattutto la loro variabilità all’interno di uno stesso compito, e riduce l’impulsività.
TERAPIE PSICOLOGICHE  ogni intervento deve essere personalizzato in riferimento alle
caratteristiche del bambino: emotive, neuropsicologiche, della sua situazione famigliare e del suo
contesto scolastico. È di fondamentale importanza che si instauri una buona alleanza di lavoro e che
le parti coinvolte (bambino, genitori, insegnanti) siano disposte a collaborare per il raggiungimento
degli obiettivi prefissati. Il clinico assume spesso un ruolo di mediatore tra le parti coinvolte,
fungendo da supervisore dei lavori tecnici, svolti a casa e a scuola e mostrando affidabilità dal punto
di vista psicologico. Il bambino deve collaborare attivamente nelle attività che gli vengono
proposte, ad esempio nello svolgere esercizi per il potenziamento delle competenze scolastiche o di
quelle neuropsicologiche e deve creare un contatto empatico e comunicativo con gli adulti coinvolti.
INTERVENTI SUI GENITORI E PARENT TRAINING  i sintomi di disattenzione,
iperattività e impulsività che caratterizzano l’ADHD sono infatti presenti anche a casa e possono
mettere in crisi la relazione fra genitori e figlio, aumentando il livello di stress e di frustrazione dei
genitori. Infatti, i genitori possono sviluppare delle convinzioni errate, che hanno conseguenze
negative sia per la gestione e l’educazione del bambino, sia per la qualità della vita famigliare.
Si possono realizzare dei corsi di formazione, chiamati parent training, che hanno la funzione di
sostenere i genitori nel difficile compito di capire e educare bambini così speciali, ma anche di
insegnare loro delle tecniche educative diverse da quelle tradizionali. Consiste in una serie di
incontri gestiti da uno psicologo che prende contatto con gruppi di genitori. Gli obiettivi sono:
1. Sostenere i genitori nell’educazione del loro bambino con ADHD
2. Evidenziare alcune abitudini di interazione problematica
3. Fornire maggiori strategie per affrontare (coping) i momenti di difficoltà
4. Migliorare e/o risolvere situazioni problematiche all’interno del contesto di vita quotidiana
In Italia, al momento, esistono tre possibili percorsi di parent training:
1. Il percorso che potremmo definire “classico”, poiché è stato il primo introdotto in Italia e
riprende molto i modelli del PT americani a stampo prevalentemente comportamentale
2. Un secondo percorso con un taglio maggiormente cognitivo e psicodinamico che lavora
anche sul vissuto dei genitori
3. Un percorso specifico per la fascia di età prescolare
I parent training possono essere molto brevi oppure avere un’organizzazione più complessa. Quelli
“classici” si dividono idealmente in tre fasi:
1. La PRIMA FASE ha sia una funzione conoscitiva che informativa. È inoltre indispensabile
chiarire il concetto di ADHD e sfatare eventuali “false credenze” in merito. Si cerca di
preparare i genitori ai cambiamenti che l’introduzione di tecniche comportamentali e
cognitive comporterà
2. Nella SECONDA FASE, si insegnano delle tecniche di gestione del comportamento del
bambino (di solito, tecniche comportamentali). Si insegna a riconoscere e a manipolare gli
antecedenti e le conseguenze dei comportamenti negativi del bambino, a monitorare i
comportamenti problematici, a rinforzare i comportamenti positivi con premi concreti se si
tratta di bambini più piccoli o con elogi verbali se sono bambini un po’ più grandi
3. Nella TERZA FASE, si insegnano tecniche di tipo cognitivo. I genitori possono auto-
osservarsi su come si propongono ai loro figli di fronte alle situazioni complesse e come
appaiono le strategie di soluzione dei problemi
Per quanto riguarda i parent training di taglio cognitivo e psicodinamico, questi tengono meglio
conto degli aspetti cognitivi, emotivi e relazionali dei genitori. Lo scopo è quello di far emergere,
rielaborare e trasformare i pensieri, le emozioni e le modalità relazionali dei genitori con riferimento
al loro rapporto con i figli con ADHD. Le peculiarità di questi PT sono:
1. L’attenzione che viene posta nella selezione dei genitori allo scopo di formare gruppi quanto
più omogenei
2. Il potenziamento di strategie cognitive per la risoluzione di conflitti famigliari, con
particolare attenzione agli aspetti emotivi, relazionali e cognitivi che entrano in gioco nella
relazione genitore-bambino; la presenza di uno spazio non strutturato, chiamato “tempo
privilegiato del gruppo”
I genitori dichiarano di migliorare le proprie pratiche disciplinari, riducono il loro stress genitoriale,
ritengono che i propri figli presentino meno sintomi dell’ADHD e si percepiscono più efficaci dal
punto di vista educativo.
I risultati di efficacia del PT possono essere mediati da alcuni fattori, tra cui: la depressione
materna, la bassa autostima delle madri, bassa efficacia genitoriale nei padri o il loro minore
coinvolgimento
nell’azione educativa del figlio, che spesso si associano a una scarsa risposta agli interventi di
supporto comportamentale.
TEACHER TRAINING  una parte molto importante del lavoro con il bambino con ADHD è
una collaborazione efficace con gli insegnanti, figure educative di grande rilevanza per la vita di un
bambino. gli insegnanti possono intervenire sia lavorando sulla gestione del comportamento del
bambino sia su aspetti più legati al rendimento scolastico. Alcune tecniche che vengono utilizzate
sono:
1. Rinforzo
2. Rimproveri e punizioni
3. Regole e istruzioni efficaci
4. Introduzione di una routine che rende la giornata prevedibile e quindi meno faticosa per il
bambino
Sappiamo che il bambino con ADHD riesce meglio quando il suo comportamento è eteroregolato,
pertanto è necessario strutturare tempi e spazi di lavoro. È possibile poi lavorare su obiettivi più
specificatamente legati ai risultati scolastici. Per definire meglio gli obiettivi educativi è opportuno
partire da ciò che il bambino è in grado di fare in quel momento per arrivare poi a potenziare le sue
abilità, così da ridurre i suoi deficit. Il progetto non avrà come obiettivo quello di intervenire
direttamente sul comportamento ma sugli eventi antecedenti o conseguenti che, attraverso l’analisi
funzionale, sono considerati i fattori che favoriscono il mantenimento di una serie di
comportamenti. CHILD TRAINING  l’intervento psicoeducativo per i bambini con ADHD si
basa spesso su tecniche cognitivo-comportamentali messe in atto sia in situazioni di gioco che in
attività scolastiche. Alcune di queste includono, le autoistruzioni verbali, la gestione delle
contingenze e attività per il problem solving, il controllo e la consapevolezza delle emozioni in
situazioni stressanti e soprattutto l’autoregolazione. In alcuni casi severi può essere utile ricorrere a
tecniche comportamentali più radicali come il contratto col bambino, l’uso sistematico di gettoni per
gestire i rinforzi (token economy), il costo della risposta per contenere le risposte errate e i
comportamenti negativi.
Lo scopo principale del trattamento con il bambino con ADHD è quello di renderlo consapevole
delle proprie difficoltà e di aiutarlo nell’acquisizione di una maggiore autoregolazione. Poiché
l’autoregolazione è basata su processi di controllo, sono stati proposti anche interventi che insistono
su funzioni cognitive che implicano il controllo della memoria di lavoro, dell’attenzione e
dell’impulsività.
Il training cognitivo, che consisteva soprattutto, in esercizi di memoria di lavoro e applicazione di
strategie cognitive, si è rivelato mediamente produttivo.
L’approccio deve essere necessariamente di tipo clinico, da contrapporre a quello psicometrico, in
quanto non esiste alcun test in grado di discriminare in modo efficace i pazienti con o senza ADHD.
L’approccio terapeutico suggerito da tutte le pubblicazioni scientifiche è di tipo multimodale.
ASPETTI EMOTIVO-MOTIVAZIONALI CHE ACCOMPAGNANO LE DIFFICOLTA’ DI
APPRENDIMENTO

È un’opinione comune quella che porta a credere che siamo motivati verso i compiti e le attività che
sappiamo svolgere con successo. Uno studente che presenta difficoltà d’apprendimento dovrebbe
risultare assolutamente demotivato verso ogni attività che abbia a che vedere con l’apprendimento,
lo studio, la scuola e molto più motivato verso attività e compiti extra-scolastici in cui riesce bene.
Questa visione alternativa, secondo la quale le persone possono essere motivate a fare ciò che
ancora non sanno fare, rischiando l’insuccesso e non avendo risultati immediati né rinforzi, trova
una spiegazione in alcune spinte motivazionali di base fra cui le più importanti riguardo la curiosità,
il bisogno di sentirsi competenti, di scegliere e dare una direzione alla propria vita, di vivere
esperienze in cui ci si sente appagati per il fatto stesso di svolgere quella data attività, anziché per il
risultato e di dare valore a ciò che si fa.
Può capitare che queste naturali tendenze vengano bloccate o rallentate a causa di paure o di un
ambiente non adeguatamente supportivo. Si possono instaurare dei circoli disfunzionali del tipo:
non capisco, penso di non essere capace, vado in confusione su come fare, non mi applico a
sufficienza, ottengo un risultato mediocre, confermo l’impressione di non essere bravo.

ASPETTI MOTIVAZIONALI IMPLICATI NEI DISTURBI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO


Esistono disturbi motivazionali “primari” ovvero non conseguenti alle difficoltà incontrate, agli
insuccessi o a interventi errati, carenti o tardivi?
Temere di sbagliare, percepirsi incapaci, sentirsi “diversi”, ottenere brutte valutazioni sono
esperienze che determinano infatti ansia, si accompagnano a una riduzione dell’autostima, nel
tempo possono rendere meno resilienti e favorire l’emergere di convinzioni “difensive”. Il
principale obiettivo diventa quindi quello di evitare compiti difficili o situazioni in cui si può
rischiare di sbagliare. Ne può conseguire anche una svalutazione dell’apprendimento e possono
emergere difficoltà nel regolare emozioni anche contrastanti.
Vediamo i principali aspetti emotivi-motivazionali che possono accompagnare i DSA:
1. INSUCCESSI REALI O TEMUTI = che comprendono:
 Ansia scolastica: preoccupazione e agitazione anticipatorie, tensione e pensieri legati
al timore dell’insuccesso
 Stile attributivo: modalità attraverso cui vengono spiegati successi e insuccessi
 Regolazione delle emozioni: capacità di gestire efficacemente il vissuto emotivo, ad
esempio la paura di non riuscire, l’incertezza, la noia
 Resilienza: capacità di reagire agli insuccessi, evitando di abbattersi, legata a una
percezione di un sé che può, che vale
2. RAPPRESENTAZIONI DI SE’ = divise in:
 Autostima: valutazione globale di sé e per ambiti: scolastica, corporea, emotiva,
interpersonale, famigliare, controllo dell’ambiente
 Percezione di competenza: valutazione di essere capaci in vari ambiti, ad esempio
nelle diverse materie scolastiche
3. CONVINZIONI E OBIETTIVI = che comprendono:
 Convinzioni di modificabilità: credenza su quanto le proprie (e altrui) capacità
possono cambiare: si distinguono una convinzione entitaria che porta a credere di
essere fatti così e non poter migliorare; e una incrementale che spinge a pensare che
si può sempre imparare e crescere
 Autoefficacia: percezione soggettiva di essere capaci di affrontare compiti e
situazioni con successo
 Obiettivi di apprendimento: scopi per cui apprendere
Un ambito cruciale, nel caso delle difficoltà di apprendimento, è quello riguardante gli STILI
ATTRIBUTIVI  ovvero le modalità abituali con cui vengono spiegati successi e insuccessi. Si
possono distinguere stili più funzionali basati sul riconoscere principalmente l’impegno o la
mancanza di impegno quali cause dell’eventuale successo o insuccesso, distinti da altri meno
efficaci come i seguenti:
1. PEDINA = lo studente tende a riconoscere il caso e la fortuna come principali cause
2. NEGATORE = si sente sicuro di sé e nega l’insuccesso, attribuendolo ad altri o alla difficoltà
del compito
3. IMPOTENTE = attribuisce a mancanza di abilità l’insuccesso e a fattori esterni il successo.
Questo stile attributivo può indurre a stati depressivi
IMPOTENZA APPRESA  tale sindrome comporta deficit a livello motivazionale, emotivo e
comportamentale in presenza di pensieri del tipo “non valgo, non posso, non sarò mai capace”
accompagnati da emozioni disfunzionali di vergogna e da senso di inadeguata con conseguente
ritiro dal compito ed evitamento dello stesso. Può risultare più frequente in chi presenta un DSA che
sa di avere delle peculiarità tendenzialmente stabili e probabilmente incontra maggiori difficoltà o
non vede il proprio impegno ripagato da risultati adeguati agli sforzi profusi.
Le problematiche motivazionali assumono una particolare rilevanza in considerazione dei seguenti
aspetti:
1. Sono legate e in parte dipendenti dai risultati scolastici, spesso inadeguati o non
commensurati all’impegno profuso. Nel 2013, Pasta ha evidenziato come non sia solo la
presenza del disturbo, ma anche la prestazione scolastica a influenzare la motivazione
determinando una riduzione dell’attribuzione all’impegno
2. Sono presenti anche nell’età adulta
3. Non sono comuni a tutti gli studenti in difficoltà. Differenze sono state trovate anche per
quanto riguarda il genere: le ragazze tenderebbero più dei ragazzi a uno stile attributivo
tipico dell’impotenza appresa
4. Sono fattori predittivi che possono portare a una diagnosi di DSA. Sideris, nel 2006, ha
evidenziato che, mentre i deficit neuropsicologici discriminano dal 55 al 64% delle difficoltà
di apprendimento e i punteggi d’intelligenza il 54%, le componenti motivazionali ne
discriminano fino al 96%
È la complessità dinamica fra le componenti cognitive, metacognitive e motivazionali che, nel
tempo, porta lo studente a sviluppare diverse forme di demotivazione verso le attività di
apprendimento che, a loro volta, diventano causa di difficoltà.

STRUMENTI PER LA VALUTAZIONE DEGLI ASPETTI EMOTIVO-MOTIVAZIONALI NELLE


DIFFICOLTA’ DI APPRENDIMENTO
ATTEGGIAMENTO VERSO LA SCUOLA  include tutta una serie di risposte emotive nei
confronti della scuola e le abilità sottese a un buon rapporto con essa, quali mantenere e stabilire
relazioni sociali, rafforzare la propria identità, sviluppare un senso di appartenenza, saper trarre
esempio dagli altri, comportarsi in modi valutati positivamente da insegnanti e compagni.
Un atteggiamento positivo crea infatti un ambiente-classe favorevole all’apprendimento, mentre un
ridotto senso di appartenenza costituisce un fattore di rischio di abbandono e può predisporre,
particolarmente durante l’adolescenza, a fenomeni di devianza giovanile.
Tra gli strumenti maggiormente utilizzati per la valutazione degli aspetti emotivo-motivazionali,
troviamo:
1. SCHOOL ATTITUDE ASSESSMENT SURVEY (SAAS) = è composta da 30 item da cui si
ottiene un punteggio che indica “quanto bene” il/la ragazzo/a sta a scuola e che fornisce
informazioni anche sulle componenti sociali
2. TEST AMOS = è mirato a valutare una serie di aspetti di ordine strategico e motivazionale;
l’AMOS 8-15 è rivolto a studenti della scuola primaria e della scuola secondaria di primo
grado e comprende uno strumento per valutare il metodo di studio (QAS), uno sulle strategie
(QSS), una prova di studio (PS) distinta in due livelli e degli strumenti per valutare i
seguenti aspetti motivazionali: convinzioni entitarie o incrementali, fiducia nella propria
intelligenza, obiettivi di apprendimenti e attribuzioni. L’AMOS invece è stato tarato per
studenti di scuola secondaria superiore e universitari
3. MESI = acronimo di motivazioni, emozioni, strategie e insegnamento; è pensato per valutare
negli insegnanti una serie di aspetti motivazionali e strategici

PROPOSTE PER L’INTERVENTO SU FATTORI MOTIVAZIONALI, ATTEGGIAMENTO VERSO


LA SCUOLA E METODO DI STUDIO
È stato ampiamente mostrato che un approccio efficace allo studio richiede non solo abilità e
competenze, ma anche un atteggiamento emotivo-motivazionale adeguato. Un programma mirato a
promuovere un corretto atteggiamento verso la scuola è quello, le cui attività contemplano l’area
personale delle aspettative e delle rappresentazioni di sé, l’area sociale che si riferisce al rapporto
con compagni, insegnanti e genitori e l’area emotiva che tocca alcuni aspetti fra cui l’ansia d’esame,
il senso di insoddisfazione, l’incertezza che accompagnano i vissuti scolastici.
IMPOSTAZIONE METACOGNITIVA  si parte dall’idea che gli studenti andrebbero stimolati
a riflettere sulle proprie motivazioni e strategie e portati a modificare il proprio approccio allo studio
o l’atteggiamento motivazionale a partire da quanto già fanno, sanno e pensano.
Vediamo alcuni profili fondamentali e le rispettive linee di intervento:
1. DISIMPEGNATI = ci può essere rifiuto nell’impotenza appresa, come anche nello stile
pedina che ritiene che il proprio impegno non cambi la situazione. Il pensiero è “non riesco
perché non sono bravo/a”. In un’ottica di intervento per chi presenta questo tipo di stile
attributivo risulterà quindi importante modificare la convinzione di non potercela fare e ciò
potrà avvenire non solo facendo sperimentare dei successi, ma anche portando a riconoscere
quale causa degli stessi l’impegno strategico. Nello stile pedina, invece, il pensiero
disfunzionale riguarda la convinzione che sia i successi che gli insuccessi “capitino”, non
dipendano da noi, né dalle nostre abilità/capacità, né dall’impegno eventualmente profuso. I
pensieri tipici comprendono “l’insegnante non mi capisce”, “non è la scuola giusta per me”,
“sono/non sono fortunato”, “sono capitato in una buona/cattiva classe”. A chi possiede
questo stile attributivo, andrebbero presentati dei compiti, ad esempio delle attività di studio,
e la possibilità di affrontarli con le opportune strategie o anche senza, per condurre e
constatare tramite l’esperienza diretta che l’applicazione di strategie favorisce la prestazione
e fa la differenza. Poiché i ragazzi tendono a sviluppare lo stesso stile attributivo degli adulti,
sarebbe importante considerare (ed agire) anche sulle credenza attributive degli adulti
significativi
2. CONVINTI CHE L’IMPEGNO NON CONTA = è possibile distinguere fra una convinzione
entitaria tipica di chi pensa di essere fatto così e di non poter cambiare, contrapposta a una
incrementale, caratterizzata dal pensare che si può sempre migliorare che tenderebbe a far
vivere le difficoltà come una sfida alle proprie abilità e una occasione per imparare. Quindi,
tenderebbe a preferire situazioni in cui dimostrare di sapere, di essere bravo/a e soprattutto a
evirare di dimostrarsi incapace. Il successo verrebbe inteso come riuscita per chi tende più
verso una convinzione entitaria, come impegno dedicato per coloro che invece nutrono una
visione maggiormente incrementale. La convinzione entitaria porta a concepire l’abilità
come un insieme di competenze da dimostrare che può generare pensieri del tipo “chi si
impegna tanto dimostra che è poco bravo. Se uno fosse già bravo non servirebbe che si
impegnasse”. Nel caso della convinzione incrementale, si hanno pensieri come “più mi
impegno e più divento bravo”.
Questa tendenza a ridurre l’impegno per “dimostrare” le proprie abilità preesistenti e auto-
evidenti potrebbe essere arginata proponendo una riflessione sull’importanza di un impegno
strategico mirato a rafforzare e a valorizzare le abilità esistenti e a fare emergere quelle
ancora latenti. Si dovrebbe quindi sfatare l’idea che “bravi si nasce” e di promuovere
invece quella contrapposta che “bravi si diventa”. Anche in questo caso, particolare
attenzione deve essere data alle convinzioni di insegnanti e genitori
3. SFIDUCIATI = la sfiducia nelle proprie capacità di riuscire nasce spesso dalla tendenza a
svalutarsi, legata a livelli di autostima fragili. Per rafforzare l’autostima è opportuno agire
sulle rappresentazioni di sé, preferibilmente in un clima supportivo dell’autonomia, per cui
ci si accetta per quello che si è. Un atteggiamento aperto alla scelta e alla conseguente
acquisizione di responsabilità per i percorsi verso cui si è optato può promuovere delle
credenze positive circa la personale capacità di affrontare situazioni di apprendimento e
creare un clima di classe che favorisce l’emergere di emozioni positive. Tale tipo di
intervento potrebbe inoltre stimolare maggiormente una convinzione di tipo incrementale
delle proprie abilità. Risulta cruciale il ruolo delle critiche e dei feedback. Una spiegazione
di questo atteggiamento che porterebbe a individuare obiettivi irrealistici e a strutturare
deboli percezioni della propria abilità è data dai comportamenti ipercritici o iperprotettivi
degli adulti
4. POCO RESILIENTI = definita come abilità di “piegarsi ma non spezzarsi” di fronte alle
difficoltà poste dai compiti, la resilienza è la capacità di reagire alla difficoltà senza
soccombere. Si applica anche nell’ambito dell’apprendimento riferendosi alla capacità degli
studenti di rimotivarsi anche a fronte di severi e ripetuti insuccessi.
Piers e Duquette (2016) hanno proposto delle linee-guida per favorire la resilienza in
studenti con DSA:
 Rendere consapevoli del disturbo e facilitare l’accettazione dello stesso
 Favorire l’applicazione e la richiesta di aiuti, supporti, strategie necessari per
acquisire le conoscenze e competenze richieste
 Stabilire obiettivi realistici e raggiungibili, da conseguire per rafforzare il senso di
appartenenza
 Rendere perseveranti nel procedere verso gli obiettivi stabiliti, anche a fronte di
difficoltà e insuccessi sfruttando le risorse disponibili
L’operatore, infatti, dovrebbe:
 Comunicare incoraggiamento, facendo sentire “speciali”
 Stabilire una “disciplina” ovvero regole chiare che andrebbero condivise e spiegate, al
fine di favorire poi lo sviluppo della capacità di autoregolarsi
 Ridimensionare la paura dell’insuccesso attraverso reazioni costruttive
 Valorizzare un approccio basato sul problem solving
 Spingere a considerare gli errori come opportunità per imparare piuttosto che come
minacce, usando appropriati feedback e stimolando un approccio volto a “far
scoprire l’errore” e a “superarlo”
Per favorire la resilienza, è quindi cruciale il ruolo dell’operatore o di chi sostiene il
bambino nell’apprendimento
LE FORME DI INTERAZIONE CON LO STUDENTE IN DIFFICOLTA’
In questa parte, ci soffermeremo su alcuni aspetti dell’interazione verbale (parole da non dire) e
sull’atteggiamento da assumere.
FEEDBACK EFFICACI  nel tentativo di motivare è possibile usare espressioni più o meno
efficaci che possono stimolare o frustrare il naturale bisogno di riuscita. Tra questi troviamo:
1. “TI DEVI IMPEGNARE DI PIU’” = questa frase può avere delle ripercussioni positive
suggerendo allo studente che ce la può fare, ha le potenzialità, ma non si applica a
sufficienza, trasmettendo un’idea di responsabilità e di controllo sul proprio apprendimento
che è positiva e incoraggiante. Tuttavia può significare anche che non si è abbastanza bravi e
quindi ci si deve impegnare di più. Tale interpretazione potrebbe portare a un’attribuzione
all’incapacità piuttosto che all’impegno inadeguato
2. “FACCIAMO UNA GARA” = l’eccessiva focalizzazione sul risultato, tipica delle gare, può
svantaggiare in particolare gli studenti in difficoltà che necessitano di più tempo per riuscire.
Ci sembra interessante riportare che un clima scolastico che punta molto sulla valutazione e
quindi sulla competizione fra singoli, piuttosto che sulla cooperazione, tende ad acuire le
difficoltà che lo studente con DSA manifesta nel definire un buon concetto di sé
3. “BRAVO/A!” = si pensa che rafforzi l’autostima e che la sua omissione stia a significare che
qualcosa non è andato bene. Coloro a cui è sempre stato detto di essere bravi fanno fatica ad
accettare e ad affrontare l’insuccesso e, alle prime difficoltà, tendono a evitare compiti dove
sembra loro di non riuscire. È evidente che questo può demotivare e portare a evitare di
affrontare i compiti e quindi all’insuccesso
4. “CON ME FA” = il risvolto negativo è che, in realtà, essa intende evidenziare la presenza di
un tipo di motivazione estrinseca, anziché intrinseca. Rischia di indurgli la convinzione di
non essere capace se non con l’aiuto di quella specifica persona
AIUTARE A FARE DA SOLI  la percezione di competenza si sviluppa affrontando
personalmente compiti e situazioni e riuscendo nell’intento. Tali espressioni, che dipendono da un
senso di vicinanza e dal desiderio di essere comprensivi, potrebbero tuttavia veicolare un messaggio
di incapacità e di ridotte aspettative future e contribuire a determinare uno stile attributivo
impotente, ovvero a far credere allo studente che non riesce per mancanza di capacità, con chiare
ricadute sull’autostima e sulla percezione di autoefficacia. Può essere quindi importante evitare di
intervenire se non su richiesta specifica di aiuto, perché l’aiuto non richiesto può essere vissuto
come un’intrusione, causare una perdita del senso di controllo personale sul proprio apprendimento
e favorire un’attribuzione delle proprie difficoltà alla mancanza di abilità.
Secondo la teoria della “dipendenza dall’aiuto altrui”, ripetute intrusioni, intromissioni,
sostituzioni possono aver determinato il desiderio di non cimentarsi più: “gli altri riescono meglio e
prima di me”. Un eventuale intervento andrebbe proprio nella direzione di valorizzare e semmai
valutare impegno e sforzo dedicati anziché i risultati che potrebbero non esserci o non risultare
adeguati: la motivazione alla competenza si promuove facendo non facendosi sostituire. Pertanto, è
decisamente preferibile lasciare che lo studente completi il compito e quindi abbia modo di
apprezzare il lavoro svolto, piuttosto che intervenire appena si vede un errore. E, poiché l’obiettivo
è quello di rendere lo studente autonomo e autoregolato, l’operatore dovrebbe lasciare fare e poi
invitare il bambino a “scoprire l’errore” da solo per poi rifare i passaggi e arrivare alla soluzione
corretta da solo. In alcuni studi a riguardo, i risultati hanno evidenziato che procedure di questo tipo
favoriscono un approccio indipendente da parte dei ragazzi caratterizzato dalla capacità di stabilire i
propri obiettivi, rivedere autonomamente il proprio lavoro, formulare idee personali in modo
creativo. Potrebbe capitare che lo studente in difficoltà, lasciato solo, non chieda mai aiuto, perché
si sente emotivamente disturbato (si vergogna, si percepisce poco abile, non vuole essere visto dai
compagni,
ecc.) o perché non si accorge del problema. Quindi è importante insegnare al bambino anche a
chiedere aiuto in caso di bisogno.
PROPORRE OBIETTIVI CHIARI E MOTIVANTI  affinchè lo studente possa riuscire da
solo è importante definire le caratteristiche di obiettivi che possano facilitare il successo e risultare
motivanti, favorendo la persistenza anche a fronte di difficoltà. Locke e Latham (2002) hanno
proposto il goal setting theory, che è un modello in cui gli obiettivi efficaci dovrebbero
caratterizzarsi per essere specifici e chiari, sfidanti ovvero tali da consentire di sviluppare le proprie
abilità, non annoiare né risultare ansiogeni perché troppo difficili, condivisi. Tali obiettivi chiari e
ben presenti costituiscono una importante spinta motivazionale, perché direzionano l’attenzione e
portano a percepire il compito come realizzabile.
PROMUOVERE L’AUTODETERMINAZIONE  definita come motivazione intrinseca a
sentirsi competenti e a scegliere e indirizzare i propri obiettivi e la propria vita,
l’autodeterminazione facilita la buona riuscita e il benessere. Essere autodeterminati motiva e fa
stare bene. L’autodeterminazione è favorita in un ambiente che alimenti i tre fondamentali bisogni
(competenza, autonomia e relazione), consentendo l’espressione di sé e l’autoregolazione. Sono
riportate di seguito indicazioni pratiche per stimolare l’autodeterminazione:
1. Ridurre le modalità controllanti, che spezzano il naturale fluire di pensieri e piani d’azione
2. Promuovere l’adozione di modalità supportive quali accettare le espressioni di emotività
negativa, evitando di sminuire eventuali espressioni di rabbia o disappunto, essere pazienti,
rispettando i tempi individuali, evitando di fare fretta o di anticipare soluzioni o strategie,
offrire scelte significative e fattibili
3. Considerare l’importanza della “struttura” ovvero della chiarezza degli obiettivi e delle
aspettative. È decisamente demotivante un clima controllante che fa pressione e impone e
non rende chiaro cosa ci si aspetta
L’efficacia di tali modalità supportive è stata confermata in diversi ambiti e contesti incluso quello
delle difficoltà d’apprendimento. È infatti dimostrato che chi sente frustrati i propri bisogni di
autonomia, competenza e relazione tenderebbe a frustrare negli altri i bisogni che sente frustrati in
sé.
IL LAVORO CLINICO NEI SERVIZI CON LE PROBLEMATICHE DI
APPRENDIMENTO E LA COLLABORAZIONE CON LA SCUOLA

I confini fra difficoltà di apprendimento, disturbi specifici dello sviluppo e disabilità intellettiva
sono maggiormente delineati, ma anche i diversi operatori interessati a tali problematiche possono
disporre di criteri diagnostici meglio definiti, di nuovi strumenti di indagine, e modalità di
valutazione caratterizzata dalla ricerca dei sintomi di inclusione e, di conseguenza, della possibilità
di fornire indicazioni per l’intervento a seconda dei profili clinici. Nel lavoro quotidiano con i DSA,
presso i Servizi territoriali per l’infanzia e l’adolescenza o nelle scuole, restano comunque aperti
diversi problemi. In particolare ci si domanda:
1. Come sono organizzati i servizi pubblici e privati di consulenza per l’età evolutiva, le Unità
operative di neuropsichiatria infantile e dell’adolescenza?
2. Come è opportuno procedere nella diagnosi e nella successiva elaborazione del profilo di
funzionamento?
3. Quante sono, in particolare, le richieste di consulenza per i DSA che arrivano ai Servizi e a
che età generalmente avviene la prima consulenza per DSA?
4. Cosa si attende la scuola nei casi in cui invita i genitori a portare il proprio figlio a una
consulenza specialistica perché presenta problematiche nell’apprendimento scolastico?
5. Quale percezione hanno gli insegnanti dell’alunno in difficoltà di apprendimento?
6. A quale normativa fa riferimento la scuola di fronte alle disabilità e alle difficoltà
scolastiche? Quali risorse può mettere in campo?
7. Quale ruolo potrebbe svolgere la scuola rispetto alla prevenzione primaria, secondaria,
terziaria?

L’ORGANIZZAZIONE DEI SERVIZI PER I DSA


L’applicazione della legge 170/10 comporta che la diagnosi e l’intervento nella psicopatologia
dell’apprendimento possono essere svolte da operatori e strutture diverse. In Italia, le aziende
sociosanitarie locali dispongono di Servizi ai quali il cittadino può accedere direttamente, chiedendo
una consulenza diagnostica in questo campo. Tra le più importanti troviamo:
1. Pediatra di famiglia
2. Istituti o Servizi sociosanitari privati
3. Università
4. Centri privati e/o liberi professionisti
5. Attività clinica e di ricerca, svolta dagli IRRCS
Le figure maggiormente coinvolte nel campo dei DSA sono essenzialmente tre: il
NEUROPSICHIATRA INFANTILE, lo PSICOLOGO e il LOGOPEDISTA; altre figure
potenzialmente interessate sono quelle dell’insegnante di sostegno, psicomotricista, terapista della
neuromotricità, pedagogista, foniatra, oculista, ortottista, neurologo, linguista. Questi professionisti
possono operare in strutture pubbliche diverse e differentemente denominate nelle varie realtà
locali. Si può trovare un servizio distrettuale per l’età evolutiva che accoglie in prima istanza le
richieste del territorio (scuola e famiglia), spesso costituito solo da psicologo e logopedista, i quali a
loro volta possono avvalersi, se necessario, dell’intervento del neuropsichiatra per la ricerca di
alcuni criteri di esclusione, diagnosi differenziale e per accertamenti di approfondimento.
Generalmente, nella realtà italiana, la motivazione alla consulenza viene fortemente orientata dagli
insegnanti. Spesso questa richiesta ingenera, inizialmente, nei genitori, preoccupazione, diffidenza
nei confronti dell’operato stesso dei docenti, ma anche timori di discriminazione del proprio figlio
nell’azione didattica curricolare con l’intento di giungere a una certificazione per la richiesta del
sostegno e/o proporre di conseguenza attività semplificate, spesso diversificate, nei contenuti e nella
forma.

LA VALUTAZIONE COSTI-BENEFICI
L’impegno temporale e i costi previsti per seguire un caso di bambini in difficoltà sono
estremamente variabili. In linea di principio, si dovrebbe infatti applicare ai Servizi sui DSA una
logica economica che si ponga in termini di costi-efficacia e costi-benefici.
Una valutazione per il contesto italiano potrebbe riservare delle sorprese, con eccessive spese nei
momenti diagnostici e insufficienti sforzi per il monitoraggio e l’appoggio del DSA lungo tutto il
percorso scolastico. Infatti, il numero di visite/ore necessarie per approdare a una diagnosi cambia
da struttura in struttura: in alcuni casi sono richiesti solo due incontri, in altri contesti possono essere
richieste da 5 a 13 visite; i servizi ambulatoriali prevedono un tempo per la diagnosi che va da un
mese a due-tre mesi; in altre strutture sanitarie, il bambino è valutato in regime di day-hospital,
oppure in altri casi sono previsti 3 giorni di valutazione con un impegno di tre-quattro ore al giorno
e un totale di 12-16 ore di indagini settimanali.
Alcuni servizi prevedono una figura (il neuropsichiatra infantile) che accoglie tutte le richieste di
diagnosi e coordina le varie sedute di approfondimento; in altri invece la valutazione può essere
affidata direttamente a un professionista esperto delle problematiche, in genere lo psicologo; in altre
ancora vi può essere la scelta del clinico direttamente da parte del genitore.
Il percorso diagnostico e l’impostazione del progetto riabilitativo dovrebbero essere il frutto di una
valutazione globale e multiprofessionale.
Vediamo, però, alcune lacune sia di tipo metodologico che di tipo teorico che caratterizzano le
modalità di lavoro dei Servizi:
1. La prima che è importante segnalare riguarda proprio il processo diagnostico. Il DSA
viene affrontato come un generale “problema di sviluppo”, alla pari di altre psicopatologie,
centrando quindi l’attenzione non solo sull’alterazione di una funzione ma anche sulle sue
implicazioni emotivo-motivazionali, famigliari e sociali. Tuttavia la peculiarità delle diverse
psicopatologie dell’età evolutiva impone una diversificazione delle procedure diagnostiche
così come, ovviamente, degli interventi riabilitativi. Pensiamo sia fondamentale prevedere
un lavoro clinico orientato per i DSA, coordinato da un professionista specificatamente
preparato per queste problematiche. Si riportano due esempi:
 Il primo riguarda la consulenza per difficoltà scolastiche di un ragazzo di seconda
secondaria di primo grado effettuato presso un Servizio distrettuale per l’età
evolutiva. Il professionista ha compiuto una serie di operazioni corrette che lo hanno
messo sulla buona strada, ma non ha concluso il suo percorso effettuando un esame
sullo “stato degli apprendimenti”. Il secondo errore è quello di considerare causa del
problema ciò che invece sembra essere una conseguenza. Lo sforzo di tenere
presente le diverse aree di sviluppo del ragazzo (quella cognitiva, linguistica,
affettiva) porta a parlare di tratti di personalità, di inibizione ad apprendere
 Il secondo riguarda un bambino di terza primaria seguito in logopedia all’interno di
un servizio di neuropsichiatria infantile. Qui, l’errore sta nel dare un’interpretazione
al problema di natura diversa da quella attraverso la quale il DSA si manifesta
2. La seconda riguarda alcuni problemi tipici che si incontrano nel lavoro clinico con i DSA.
Troviamo:
 La valutazione delle problematiche emotivo-relazionali come aspetti principali
dell’evoluzione del disturbo
 Il debole coinvolgimento dei genitori nella consulenza, se non addirittura, l’induzione
di un sentimento di colpa per le difficoltà scolastiche del figlio
 La mancata acquisizione di sufficienti informazioni utili per la sciola al fine di
mettere in relazione le difficoltà di apprendimento con e cause funzionali del
disturbo e scegliere di conseguenza quali misure compensative e/o dispensative
proporre
 Lo scollamento fra diagnosi e linee seguite per l’intervento
 L’assenza di elementi per stabilire quali cambiamenti sia dovuta alla maturazione del
bambino, e quali all’intervento, alle particolari tecniche utilizzate per la riabilitazione
oppure all’intervento sugli aspetti emotivo-relazionali

LA VALUTAZIONE DEL DSA E DEGLI ALTRI DISTURBI DEL NEUROSVILUPPO


Ancora in Italia non ci sono criteri del tutto codificati e utilizzati nella diagnosi di bambini con DSA
e/o con altri disturbi del neurosviluppo. Vediamo le varie fasi della valutazione:
1. Il primo momento di indagine clinica avviene attraverso la raccolta anamnestica durante la
quale i genitori vengono invitati a riferire la situazione attuale, il quadro famigliare, e se vi
sono state complicanze durante il parto o post-natali, a tracciare le tappe di acquisizione
relative alla deambulazione, al linguaggio, all’autonomia, alla conquista delle prime
relazioni sociali. Questo momento è importante dal punto di vista clinico per orientare il
successivo percorso diagnostico. Può essere utile avvalersi anche di interviste strutturate e
richiedere ai genitori e insegnanti di descrivere, attraverso questionari specifici il
comportamento, l’attenzione e altre caratteristiche psicologiche del bambino nei due
rispettivi contesti di vita. Si dovrebbero formulare delle ipotesi diagnostiche e illustrare ai
genitori come si intende verificarle
2. Il secondo momento è quello di verificare in primo luogo se sono presenti i criteri di
inclusione nel Disturbo Specifico, ove si potrà fare riferimento ai criteri standard e alle
linee-guida della Consensus Conference. Questa fase comprende due distinte operazioni:
 La prima indaga l’esistenza di un problema attraverso prove specifiche
 La seconda approfondisce, alla luce del modello interpretativo del disturbo, le cause
funzionali che lo determinerebbero
Relativamente alla prima operazione, il clinico dovrebbe pervenire a:
 Esplicitazione del motivo della richiesta di consultazione
 Raccolta dell’anamnesi fisiologica e famigliare
 Valutazione breve
La procedura diagnostica intende verificare anche il livello di acquisizione delle competenze
necessarie per affrontare le richieste scolastiche. La seconda operazione della diagnosi
dovrebbe approfondire, in modo mirato, il locus funzionale del deficit. La diagnosi dovrà
contenere una valutazione descrittiva dei disturbi cognitivi e dell’apprendimento e la
formulazione di ipotesi sulle cause del deficit e dovrà consentire l’individuazione del
problema all’interno delle classificazioni esistenti relative ai disturbi dello sviluppo, così da
favorire una possibilità di comunicazione veloce e sufficientemente precisa tra gli operatori
dei Servizi e della scuola sul tipo di patologia riscontrata nel bambino/ragazzo in esame
3. Il terzo momento è quello in cui è necessario definire un progetto di intervento all’interno
del quale chiedere la collaborazione della scuola sia rispetto alle particolari difficoltà che
incontra lo studente sia in relazione alle ricadute di queste sul piano psicologico e
motivazionale. Condividiamo inoltre che vi sia la possibilità per la scuola di disporre di un
referto in grado di documentare le difficoltà dello studente su cui basare possibili
interventi educativi. La
scelta delle procedure di intervento e degli strumenti idonei dovrebbe comunque prevedere il
coordinamento da parte di uno specialista in psicopatologia dell’apprendimento
4. Il quarto momento riguarda una valutazione completa del bambino/ragazzo, solo per i casi i
cui essa si riveli effettivamente necessaria e può coinvolgere molti piani:
 Area degli apprendimenti
 Area dello sviluppo visuo-motorio
 Area dello sviluppo delle abilità cognitive di base
 Area dello sviluppo affettivo-relazionale: comprendendo anche autostima, tolleranza
alle frustrazioni e autonomia comportamentale
 Area del livello di funzionamento cognitivo e delle potenzialità di sviluppo:
comprendendo anche l’analisi dell’intelligenza
Le aree da considerare nell’elaborazione della diagnosi per i DSA sono in parte diverse da quelle
indicate per la diagnosi funzionale della Legge 104. L’elaborazione della diagnosi e della
certificazione per i DSA in base alla legge 170/2010 non porta all’assegnazione dell’insegnante di
sostegno come invece accade con la certificazione in base alla legge 104. La scuola dovrebbe
attivarsi per cercare di limitare le conseguenze del disturbo non solo con la normale azione didattica,
ma anche attraverso l’adozione di interventi personalizzati e opportuni strumenti compensativi e
dispensativi che garantiscono il reale diritto allo studio del ragazzo. Queste indicazioni sono state
previste per la prima volta dalla nota ministeriale n. 4099/A/4 del 5 ottobre 2004, e successivamente
dalla legge 170/2010, e richiamano esplicitamente alla necessità di lavorare a scuola con specifiche
attenzioni didattico-educative con alunni con diagnosi di DSA.
Va aggiunto che gli alunni con DSA vengono visti in consulenza prevalentemente e per la prima
volta, dalla seconda alla quarta classe della scuola primaria, ma non sono pochi gli studenti che
ricevono una diagnosi di DSA durante la frequenza della scuola secondaria di primo grado.

LA NORMATIVA SCOLASTICA: DALLA COSTITUZIONE ALLE DIRETTIVE RECENTI


La normativa cui la scuola oggi si riferisce nel suo lavoro con le difficoltà e i disturbi specifici
dell’apprendimento affonda le sue radici negli ideali democratici della scuola italiana che sono a
fondamento della nostra Repubblica. Tuttavia, è con l’istituzione della scuola media unica, avvenuta
nel 1963, che il principio diviene realtà, eliminando una forte discriminazione tra gli studenti che
concludevano la scuola elementare poiché si eliminava la differenza tra una scuola di élite, che
indirizzava alla prosecuzione negli studi e una scuola di seconda categoria, in genere frequentata dai
ceti sociali più bassi, di avviamento al lavoro. Tuttavia, alla scuola elementare e alla scuola media
unica riformata, a quell’epoca, non erano ammessi i bambini/ragazzi con disabilità di diversa natura
e rilevanza.
Ricapitoliamo le pietre miliari della legislazione scolastica italiana:
1. Istituzione della scuola media unica, nel 1963
2. Legge 517 del 1977 = venivano abolite le classi differenziate per gli alunni in difficoltà ed
erano previsti l’inserimento e l’integrazione nelle classi normali di tutti gli alunni, compresi
quelli “portatori di handicap”; si assumeva che interventi educativi e didattici differenziati e
individualizzati dovessero avvenire in relazione al contesto-classe ed essere concordati con
gli specialisti della disabilità e con le strutture presenti nel territorio. L’articolo 2 precisa che
“la programmazione educativa può comprendere attività scolastiche integrative organizzate
per gruppi di alunni della stessa classe, oppure di classi diverse, anche allo scopo di
realizzare interventi individualizzati in relazione alle esigenze dei singoli alunni”. Purtroppo,
l’ambiguità e la discrezionalità dell’articolo comportarono differenti utilizzazioni di tale
opportunità educativo-didattica in stretta relazione con le caratteristiche del singolo istituto e
dei docenti che vi insegnavano e del contesto
3. Legge 104 del 1992 e successivo atto di indirizzo (1994) = determinarono un salto di qualità
nella direzione della tutela del disabile e dell’inclusione. Il legislatore intese pertanto
precisare con maggiore chiarezza i principi e le coordinate necessarie per promuovere e
realizzare l’integrazione della persona disabile nella famiglia, nella scuola, nel lavoro e nella
società, individuando a questo scopo i compiti specifici dei Servizi sociosanitari, scuola,
regione, provincia e comuni e le relazioni/collaborazioni tra i diversi enti. La legge definì
chi è la persona disabile, che dopo accertamento, ha diritto alle prestazioni stabilite in suo
favore. Inoltre, in particolare:
 Fu inserito l’insegnante di sostegno e in più per la persona disabile erano previsti la
possibilità/dovere di prevedere interventi educativo-didattici mirati al caso e i
supporti necessari per raggiungere obiettivi scelti e possibili
 La legge stabilì anche da chi e come deve essere elaborata la diagnosi che
documenta la compromissione: la diagnosi spetta alle Unità sanitarie locali, o più
precisamente alle unità multidisciplinari che elaborano la diagnosi considerando e
descrivendo le diverse funzioni e potenzialità della persona in ordine a precisi
aspetti. Gli accertamenti devono essere documentati in forma scritta. Le Unità
sociosanitarie provvederanno a stilare la “certificazione” su apposita modulistica,
dove vengono riportate la “diagnosi clinica”, la tipologia di disabilità prevalente e il
grado, la richiesta di personale e di trattamenti, e la certificazione di validità del
documento che va controfirmato da uno dei genitori
 Per quanto riguarda la certificazione, si deve specificare che la diagnosi funzionale e
la relazione collegata non sono necessariamente il presupposto per la certificazione
 Profilo dinamico funzionale (PDF): viene redatto, dopo che è stata effettuata la
diagnosi dall’unità multidisciplinare, dai docenti curriculari, dall’insegnante di
sostegno, con la collaborazione dei genitori dell’alunno, e dovrebbe indicare il
prevedibile livello di sviluppo dell’alunno in situazioni di handicap alla conclusione
del ciclo scolastico. È lo strumento di raccordo dei punti di vista sanitario-
riabilitativo, educativo-didattico e famigliare per individuare obiettivi, attività e
modalità di intervento
 Piano educativo individualizzato (PEI) : è funzionale all’alunno; è il documento nel
quale vengono descritti gli interventi integrati ed equilibrati tra loro. sono state anche
indicate modalità per garantire il diritto all’educazione e all’istruzione ai disabili.
Questo modo di operare avrebbe potuto arricchire l’esperienza didattico/educativa
della scuola perché gli insegnanti una volta definiti gli obiettivi da raggiungere e le
modalità di intervento sarebbero stati in grado di valutare criticità e punti di forza
dello studente, stimolando un processo di crescita problematico sulla base del profilo
di funzionamento e della diagnosi clinica
 Il decreto legislativo n. 66 del 13 aprile 2017 ha apportato delle modifiche alla legge
104, fra cui la stesura della certificazione di disabilità secondo la Classificazione
statistica internazionale delle malattie e dei problemi sanitari correlati (ICD) e la
redazione del Profilo di funzionamento secondo il modello bio-psico-sociale della
Classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute
adottata dall’OMS. Il profilo di funzionamento è:
 Propedeutico alla predisposizione del progetto individuale e del progetto
educativo individualizzato (PEI)
 Definisce le competenze professionali, la tipologia delle misure di sostegno e
delle risorse strutturali necessarie
 Va redatto con la collaborazione dei genitori e la partecipazione di un
rappresentante dell’amministrazione scolastica
 È aggiornato al passaggio di ogni grado di istruzione e in presenza di nuove
condizioni di funzionamento della persona
4. Legge 170 del 2010 = il principio della personalizzazione dei percorsi formativi, come
strumento indispensabile per garantire allo studente con DSA lo sviluppo delle sue
potenzialità veniva percepito dalla scuola con la legge 53/2003, nota come Riforma
Moratti, e successivamente a partire dal principio della personalizzazione
dell’insegnamento, con la nota ministeriale n. 4099/A/4 del 2004. La nota del 2004
prevedendo le cosiddette misure dispensative e gli strumenti compensativi, aveva avuto il
merito di porre l’accento sulla personalizzazione dell’insegnamento per i DSA fornendo
delle indicazioni operative. La legge 170/2010 indica quali disturbi diagnosticare e
certificare, da chi deve essere fatta la diagnosi e la certificazione, quali procedure
diagnostiche seguire e quale didattica specifica offrire. È stato inoltre chiarito e precisato chi
fa cosa e come, ponendo l’accento sulla necessità di formalizzare per iscritto i percorsi
formativi specifici che la scuola intende mettere in atto con uno studente con diagnosi e
certificazione di DSA, condividendoli con la famiglia e l’allievo stesso attraverso un
documento o piano didattico personalizzato (PDP). In generale, un PDP dovrebbe riportare i
seguenti punti:
 Dati anagrafici dell’alunno
 Tipologia di disturbo
 Attività didattiche individualizzate
 Attività didattiche personalizzate
 Strumenti compensativi utilizzati
 Misure dispensative adottate
 Forme di verifica e valutazione personalizzate
La diagnosi e la certificazione di DSA in base alla legge 170 tutelano gli studenti garantendo
un insegnamento/apprendimento su misura che tenga conto delle loro peculiarità al fine di
realizzare concretamente il diritto allo studio e il completamento del percorso formativo
scelto, ma non prevedono “oneri a carico della finanza pubblica”
5. Direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012 = ha allargato il diritto alla personalizzazione
didattica, ad altre tipologie di allievi e studenti che non potevano rientrare nella normativa
esistente fino a quel momento e che invece hanno il diritto di essere aiutati a realizzare
pienamente le loro potenzialità mettendo in atto procedure su misura. La direttiva chiarisce
che “ogni alunno, con continuità o per determinati periodi, può manifestare bisogni educativi
speciali: o per motivi fisici, biologici, fisiologici o anche per motivi psicologici, sociali,
rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta”.
L’area dei BES comprende tre categorie:
 Quella della disabilità
 Quella dei disturbi evolutivi specifici
 Quella dello svantaggio socioeconomico, linguistico e culturale
Inoltre sono da considerare studenti BES i soggetti con funzionamento intellettivo limite
(FIL). Per quanto riguarda i ragazzi plusdotati, se i percorsi formativi personalizzati hanno
lo scopo primario di garantire il pieno sviluppo dello studente offrendo maggiori opportunità
educative, tale garanzia dovrebbe essere estesa a tutti i soggetti, compresi quelli con
caratteristiche e peculiarità eccezionali. Il mancato riconoscimento degli studenti con plus-
dotazione potrebbe avere importanti ripercussioni sul loro sviluppo. I plusdotati sono talora
degli studenti di difficile gestione in classe anche per il loro atteggiamento sfidante, con
problematiche sociali, talora con sintomi depressivi, soprattutto nei casi con “doppia
eccezionalità” cioè con una super dotazione associata a un disturbo.
I Servizi sono più cauti nel produrre questa certificazione. In alcune realtà, pertanto, quando
le problematiche di apprendimento non sono associate a disabilità intellettiva, vengono
formulate diagnosi di DSA e relativa certificazione in base alla 170, in altre invece, se sono
presenti più disturbi specifici in associazione con differenti problematiche si opta per la
certificazione in base alla legge 104 che prevede l’insegnante di sostegno.
La direttiva del 27 dicembre 2012 ha ulteriormente complicato la situazione poiché prevede
l’elaborazione di diagnosi, a cui tuttavia, allo stato attuale, non possono corrispondere delle
certificazioni e conseguentemente minori solo le tutele
6. Nota ministeriale del 17 maggio 2018 = presentata con l’oggetto “l’autonomia scolastica
quale fondamento per il successo formativo di ognuno”. Sottolinea che può essere rischioso
far passare l’idea che non sia più necessario specificare la situazione problematica di un
alunno. Infatti, è importante e indispensabile per la scuola capire le caratteristiche peculiari
degli studenti per aiutarli a imparare e a crescere perché sempre “dietro ad ogni diagnosi ed
etichetta c’è una persona, dietro ad ogni alunno – certificato o no – c’è un bisogno di
educazione speciale”

RISORSE DELLA SCUOLA: INSEGNANTI SPECIALIZZATI, REFERENTI, ALTRE FIGURE DI


SUPPORTO, STRUTTURE
L’insegnante specializzato, o di sostegno, è un elemento fondamentale, ma non l’unico, per
realizzare l’integrazione scolastica dell’alunno disabile. Le ore settimanali di sostegno assegnate
sono in relazione alla gravità della disabilità dello studente (da un minimo di 4-6 ad un massimo di
18) e per i casi più gravi sono previsti altri operatori forniti dalle Aziende sociosanitarie.
L’insegnante di sostegno ha quindi di solito una preparazione, anche se non approfondita, su tutte le
difficoltà dell’apprendimento che, secondo un’interpretazione restrittiva della legge, potrebbe
spendere direttamente solo con lo studente disabile, ma può far valere anche con le altre
problematiche. La sua formazione è finalizzata ad acquisire la competenza per individuare
precocemente i segnali e la conseguente capacità di applicare strategie didattiche, metodologiche e
valutative adeguate, prevedendo una spesa congrua per alcuni anni. In alcune scuole, sono presenti
altre figure di supporto, come ad esempio l’insegnante con distacco che svolge le funzioni di
“operatore psicopedagogico”, figura ormai in via di estinzione. Queste figure potrebbero tenere le
relazioni con i Servizi e gli specialisti che hanno in carico gli studenti in difficoltà, in particolare
quelli certificati. Un’altra possibilità è quella di fare un contratto con un personale esterno, ad
esempio con uno psicologo libero professionista, ai quali affidare attività particolari a seconda delle
esigenze dell’istituto.
Gli istituti hanno una discreta disponibilità di testi, materiali, strumenti, utili sia nei casi di disabilità
che per le difficoltà e i disturbi di apprendimento, e sono in grado di portare avanti progetti
finalizzati ad attività di potenziamento e recupero mirate.

RAPPORTI FRA SCUOLA E SERVIZI SOCIOSANITARI: ALCUNE RIFLESSIONI ED


ESEMPLIFICAZIONI
La consulenza specialistica in questo ambito viene richiesta dal pediatra o dal medico di famiglia.
Infatti, più frequentemente è l’insegnante che fa presente ai genitori che qualcosa “non va
nell’apprendimento del figlio”. Questo comportamento può avere almeno due spiegazioni:
1. Le alterazioni del normale sviluppo senza chiare patologie manifeste sono spesso
considerate come espressioni di semplice sfasatura nel processo di sviluppo e non vi viene
attribuito significato clinico
2. Non sono sufficientemente noti i segni premonitori di questi disturbi ed è solo con l’ingresso
a scuola che si manifestano in modo più netto
Spesso accade invece che anche la scuola, inizialmente, assuma un atteggiamento attendista, possa
cioè attribuire difficoltà di apprendimento e/o di attenzione alla scarsa motivazione allo studio o al
debole impegno nei compiti assegnati.
Da parte della scuola, comunque, può partire un richiesta verso i Servizi per l’età evolutiva per:
1. Segnalare un alunno quando i suoi insegnanti ritengono che i problemi posti non siano
gestibili in ambito educativo, oppure quando avvertono che ci sono problemi esterni di cui
essi non possono farsi carico
2. Far presente una situazione rispetto alla quale non vi è ancora certezza che le difficoltà
riscontrate siano stabili nel tempo
3. Parlare di un bambino/ragazzo già conosciuto dal Servizio
Le prime due situazioni si configurano sostanzialmente come una segnalazione della scuola che
chiede al Servizio specialistico di esaminare il “caso”. La terza riguarda invece la situazione più
tipica nella relazione Servizi-scuola, quella in cui i Servizi hanno già in carico lo studente.
Per facilitare la relazione e la comunicazione è importante, infatti, che l’esperto renda esplicito
quanto è noto circa la natura del disturbo e metta in chiaro che non sempre è possibile una riduzione
del danno evidenziato nelle prestazioni dell’alunno.
È pure importante evidenziare quali aspettative nutrono gli insegnanti in relazione all’aiuto che
possono ottenere dai Servizi specialistici, se si aspettano solo una definizione diagnostica, oppure
aspirano alla formulazione condivisa di programmi di intervento educativo e riabilitativo, nei quali
sono chiaramente indicati gli obiettivi.
Tra i fattori di rischio che possono intralciare la definizione di un programma comune e integrato di
lavoro con studenti in difficoltà di apprendimento troviamo: diffidenze reciproche, delega della
scuola ai “tecnici”, richiesta degli insegnanti al tecnico di risolvere i conflitti che spesso la presenza
di un bambino con problemi fa sorgere nella scuola, totale deresponsabilizzazione della scuola
legata al messaggio per cui il disturbo è biologico e immodificabile, ecc.
Sarebbe da evitare il rischio che la relazione tra scuola e Servizi si sposti dai problemi del
bambino/ragazzo alla percezione – da parte dell’insegnante – dell’impossibilità di adempiere al
proprio ruolo in un contesto che non preveda facilitazioni o aiuti in questo senso. L’insegnante può
cercare di difendere la propria immagine di operatore attribuendo alla gravità del quadro clinico la
scarsa modificabilità delle prestazioni, oppure imputandole allo scarso impegno dell’alunno, alla
sua presunta demotivazione per lo studio.
Questo comporta anche che i Servizi, e in particolare il clinico dell’apprendimento, conoscano bene
la realtà scolastica in generale e quella specifica in cui è inserito il bambino/ragazzo per riuscire a
realizzare un buon passaggio di informazioni e conoscenze che possano essere davvero comprese e
condivise. La scuola può essere di aiuto al clinico almeno per quattro ordini di motivi:
1. Per offrire i riscontri dell’osservazione dell’alunno in classe
2. Per confermare ipotesi diagnostiche
3. Per monitorare i ritmi di apprendimento dell’alunno
4. Per scoprire le modalità attraverso le quali l’alunno apprende più facilmente
L’attività che la scuola svolge in modo consapevole in relazione a scopi precisi con uno studente
con disturbo specifico dell’apprendimento è indispensabile per potenziare le abilità carenti e
mantenere nel tempo i progressi realizzati sostenendo così competenze, autostima, motivazione
lungo tutto il
percorso scolastico. In questo modo la scuola svolge un importante ruolo di prevenzione terziaria
(riduzione degli effetti del deficit).
La funzione di prevenzione terziaria può essere svolta primariamente dalla scuola e non può essere
attuata dal Servizio o da un operatore esterno perché è nella scuola che lo studente vive la maggior
parte della sua esperienza di apprendimento/insegnamento.

SEGNALAZIONE E PREVENZIONE
Si è già detto che la scuola gioca un ruolo fondamentale nella segnalazione delle difficoltà di
apprendimento, poiché è proprio l’insegnante che può rendersi conto per primo del fatto che un
alunno si discosta dal gruppo nell’acquisire le competenze previste dal percorso didattico. Appare
possibile che nelle situazioni di rischio prevedere una serie di attività che potrebbero favorire una
riduzione delle problematiche. Un primo screening può essere svolto durante l’ultimo anno di
scuola dell’infanzia per valutare i precursori dell’apprendimento; un altro momento importante
potrebbe essere quando l’alunno frequenta la terza primaria.
Non è rara, tuttavia, la richiesta di consulenza per problemi di natura scolastica anche quando il
ragazzo frequenta la scuola secondaria di primo o di secondo grado e particolarmente delicato
appare il passaggio da un ordine di scuola all’altro.
Ma chi dovrebbe coordinare e dare significato a questa attività di formazione e sensibilizzazione
allo screening per gli insegnanti? Se ne occupano i Servizi specialistici interni ed esterni alla scuola
e talvolta anche l’università.
La valutazione dovrà costituire il primo passo di un percorso volto alla facilitazione degli
apprendimenti, alla promozione di abilità trasversali, al rafforzamento delle strategie degli studenti e
delle loro capacità di affrontare situazioni di difficoltà scolastica.
In conclusione, il cammino verso l’integrazione delle conoscenze e metodiche psicologiche e verso
la loro traduzione in progetti educativi individualizzati che considerino lo sviluppo come principale
dimensione di riferimento è ancora lungo.

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