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UNIVERSITA’ TELEMATICA
NICCOLO’ CUSANO
DISTURBI SPECIFICI
DELL’APPRENDIMENTO E ADHD.
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INDICE
1. Dislessia e Disgrafia………………………………………………..………..
1.1 “Apprendimento” del linguaggio…………………………………….
1.2 Fasi di apprendimento della lettura e della scrittura…………….…..
1.2.1 Lingue a ortografia opaca e trasparente…..……………..…
1.3 Modello cognitivo per la descrizione dei processi di lettura e
scrittura: il modello a due vie…………………………………….....
2.3.1 Relazioni tra i meccanismi implicati nei processi di lettura
e scrittura……………………………………………………
1.4 Dislessia: definizione e caratteristiche……………………………...
2.4.1 Classificazione……………………………………….….…
1.5 Disgrafia: definizione e caratteristiche…………………………..….
2.5.1 Classificazione……………………………………….……
1.6 Cause dei disturbi di lettura e scrittura: interpretazioni………….…
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DISLESSIA E DISGRAFIA
Fino a circa trent’ anni fa l’approccio allo sviluppo del linguaggio era fortemente
influenzato dalla linguistica Chomskiana: si riteneva che l’input linguistico a cui il
bambino è esposto avesse unicamente la funzione di innescatore di meccanismi
biologicamente predeterminati e che quindi l’“acquisizione” del linguaggio fosse un
processo per lo più spontaneo. Indipendentemente dall’ambiente linguistico in cui
crescevano, sembrava infatti che i bambini raggiungessero tutti una competenza
linguistica per molti versi simile. In tale prospettiva non c’è molto spazio per un
discorso sulla rieducazione o sull’intervento precoce rivolto al linguaggio. Si poteva
al massimo cercare di facilitare l’entrata in funzione del Lad (Language Acquisition
Device, Dispositivo per l’Acquisizione del Linguaggio), che Chomsky aveva
descritto quale meccanismo che rendeva possibile l’acquisizione del linguaggio in
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tempi estremamente rapidi distinguendo gli esseri umani da tutte le altre specie
(Camaioni, 2001).
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decontestualizzazione. Ciò sottolinea il legame tra le due funzioni di produzione e
comprensione, ma queste presentano anche una dissociazione: il numero delle
parole comprese non è mai inferiore al numero delle parole prodotte, e non vi è un
rapporto proporzionale tra le due. Queste considerazioni possono lasciar supporre
che i due relativi “domini” seguano processi di maturazione diversi. Tra i 16 e i 20
mesi, si assiste ad una vertiginosa e inaspettata crescita del vocabolario e alla sua
riorganizzazione. Tra i 18 e 24 mesi è il periodo in cui i bambini generalmente
cominciano a combinare parole in frasi. Verso i due anni ha inizio il periodo che
possiamo definire dello sviluppo della grammatica che inizia con la prima
combinazione di parole. Dopo i tre anni lo sviluppo della grammatica sembra in
qualche modo realizzato, il bambino mostra di utilizzare correttamente le principali
regole morfologiche e anche sul piano sintattico sa utilizzare le principali strutture
frasali. Dopo questa avviene un importante aumento del vocabolario, aumenta
l’efficienza e l’accessibilità della grammatica e soprattutto migliorano sensibilmente
le abilità conversazionali e di racconto.
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scritta procede comunque per i primi due anni di scuola, come previsto dai
programmi scolastici ufficiali.
Per molto tempo lo studio dell’acquisizione della lingua scritta è stato ignorato dai
ricercatori, fino agli anni settanta quando Emilia Ferreiro (1979), psicologa
piagetiana, inizia nuovi studi in questo ambito, applicando una prospettiva
psicogenetica alla comparsa del codice scritto. L’attenzione della psicologa era posta
più sullo sviluppo dei processi che sull’acquisizione delle abilità. Ferreiro si è
dedicata in modo particolare allo studio della scrittura spontanea dei bimbi e del
loro modo di imitare gli adulti. Infatti nella nostra cultura il bambino viene esposto
precocemente al codice scritto, per questo non possiamo ignorare l’ipotesi che
cominci presto a produrre concettualizzazioni sui segni scritti che incontra. Il
bambino costruisce una vera e propria teoria linguistica che evolve nel corso del
tempo attraverso il costante confronto con il sistema convenzionale. Attraverso
questa analisi l’autrice ha individuato le costanti che i bambini acquisiscono tramite
l’osservazione e l’imitazione degli adulti e che applicano regolarmente nella
riproduzione della scrittura (Stella e Pippo, 1987). Le osservazioni delle varie abilità
dei bambini ha portato ad una sistematizzazione dell’intero percorso di acquisizione
della letto-scrittura da parte di numerosi ricercatori. La rappresentazione migliore
schematizzata dei processi cosiddetti “strumentali” implicati nella lettura e nella
scrittura di singole parole e delle relative tappe di apprendimento è stato messo a
punto da Frith (1985) e Saymour (1987).
Il modello descritto da Uta Frith prevede l’evolversi della scrittura e della lettura in
quattro fasi tra loro dipendenti, ciascuno stadio è caratterizzato dall’acquisizione di
nuove procedure e dal consolidamento e automatizzazione delle competenze già
acquisite:
fase logografica
fase alfabetica
fase ortografica
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fase lessicale
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Verso la fine della scuola materna e con l’ingresso alla scuola elementare, il
bambino accede alla fase alfabetica, nella quale inizia a comprendere la relazione tra
grafema e fonema, ovvero il valore sonoro convenzionale delle lettere. Secondo Uta
Frith il bimbo utilizza una strategia di scomposizione fonetica della parola che gli
permette di riprodurla per iscritto applicando le regole di conversione fonema-
grafema. In questo modo il bambino è capace di scrivere le parole in cui vi è una
corrispondenza biunivoca tra suono e segno ma non di scrivere parole che
contengono fonemi che hanno corrispondenze grafemiche più complesse.
Nella fase ortografica vengono sviluppate le varie capacità acquisite nella fase
precedente, e si assume una maggiore padronanza del sistema di codifica della
parola orale, poiché si richiede un superamento della strategia di analisi fonologica
che si rivela inefficiente per produrre molte delle parole del nostro lessico
ortografico. La fase ortografica richiede quindi una modificazione nella strategia di
processamento dell’informazione. I bambini comprendono alcune regole essenziali
per la lettura, procedendo così per sillabe e non più per singole lettere. La continua
esposizione alle parole permette al bambino di memorizzare la forma grafica delle
parole riconoscendole così, in maniera automatica e globale.
Si passa così alla fase lessicale, nella quale la lettura di parole di uso comune
diviene veloce, mentre la lettura di non parole e di parole nuove viene realizzata
utilizzando le strategie apprese nella fase precedente. Questa fase consente al
bambino di rappresentare in modo corretto elementi omofoni che devono essere
rappresentati in modo diverso a seconda del loro significato all’interno della frase
(ad esempio: a oppure ha che rivestono diverso ruolo grammaticale di preposizione
o di ausiliare). Questo livello consente quindi una corretta segmentazione degli
elementi della frase e introduce una nuova strategia (lessicale) indispensabile per
trascrivere una frase pronunciata in parlato continuo (Cornoldi, 1991).
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le acquisizioni dello stadio logografico, non sarà in grado di acquisire competenze
relative allo stadio successivo. La completa acquisizione delle prime tre fasi rende
completa la modalità di lettura tramite la via fonologica. Mentre, il raggiungimento
della quarta fase permette al bambino di utilizzare correttamente la via lessicale e di
leggere le parole conosciute senza bisogno di operare la conversione grafema-
fonema. L’originalità del modello di Frith sta nell’aver ipotizzato le relazioni tra
processi di lettura e scrittura, prevedendo che lo sviluppo delle abilità di lettura e
quello delle abilità di scrittura siano in interazione reciproca, ma asincroni.
INIZIALE LOGOGRAFICO
AVANZATO LOGOGRAFICO ------- LOGOGRAFICO
Gli stadi sono attivati in successione, sia in lettura che in scrittura nello stesso
ordine, ma non in modo simultaneo, così nel primo stadio la strategia logografica è
adottata prima in lettura e solo successivamente in scrittura. Nel secondo stadio, la
strategia alfabetica è adottata in un primo momento in scrittura e successivamente in
lettura. Infine nel terzo stadio, la strategia ortografica è utilizzata in un primo
momento in lettura e solo successivamente in scrittura. Si evince quindi che la
scrittura non è trattata in modo secondario alla lettura, come nella maggior parte dei
modelli, ma le viene attribuito un ruolo primario costituendo, in talune fasi
evolutive, un precursore della lettura.
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In alcune lingue come l’inglese, il francese o l’ebraico vi è una corrispondenza
relativamente opaca tra la sequenza di fonemi che compongono una parola e la
stringa di lettere che convenzionalmente ne caratterizza l’ortografia. Nelle lingue
che presentano una ortografia trasparente come l’italiano e il tedesco, la pronuncia
delle parole può nella maggior parte dei casi essere ricavata dall’applicazione di un
set di regole di conversione grafema e fonemi (Camaioni, 2001). Per quanto
riguarda lo studio dell’acquisizione della lettura e della scrittura, la maggior parte
della letteratura, come rappresenta il modello di Uta Frith, ha riguardato la lingua
inglese. Tale ipotesi teorica ha rappresentato un punto di riferimento anche per
indagini effettuate su lingue a ortografia più regolare dell’inglese. I dati sperimentali
tuttavia non supportano l’idea che esistano stadi qualitativamente differenziabili
nell’acquisizione di lettura e scrittura.
Zoccolotti, Angelelli, Judica, Luzzatti (2005) fanno notare due aspetti fondamentali
rispetto l’acquisizione della lettura e scrittura in lingue a ortografia regolare.
Riportando i dati degli studi condotti da Orsolini sulle primissime fasi di
acquisizione della lingua scritta, che colgono in maniera efficace il momento critico
di transizione in cui i bambini cominciano ad acquisire il principio alfabetico e le
strategie utilizzate dal bambino in tali acquisizioni, affermano che “nel complesso
ciò sottolinea anche per l’italiano la presenza di marcate differenze individuali nelle
prime fasi di acquisizione della lingua scritta…” (Zoccolotti, Angelelli, Judica,
Luzzatti, 2005, p. 37). Le strategie identificate dalla Orsolino (2005) sono quattro:
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3. “strategia alfabetica”. Il bambino decifra le parole in modo più efficace
convertendo i grafemi in sillabe, l’assemblaggio delle unità decodificate
avviene in modo per lo più appropriato.
4. “strategia alfabetica avanzata”. In questi bambini la fase di decifrazione non è
chiaramente separabile da quella di produzione
Zoccolotti e coll. (2005) sostengono inoltre che “in generale, i ragazzi italiani o di
altre lingue trasparenti sembrano capaci di raggiungere un elevato livello di
correttezza già alla fine del primo anno di scuola, mentre gli stessi livelli sono
ottenuti da ragazzi inglesi o francesi in fasi molto più avanzate del loro sviluppo”
(ibidem, p.38). Riprendendo il contributo di Tressoldi infatti, gli autori sottolineano
il confronto nelle prestazioni di bambini di madrelingua italiana con quella di
bambini di madrelingua inglese, nella lettura di parole con stessa frequenza d’uso.
La percentuale di risposte errate è nettamente inferiore per i bambini italiani rispetto
ai bambini inglesi che si differenziano a loro volta nelle prestazioni di lettura di
parole irregolari (percentuale più alta di errori) e regolari (percentuale più bassa di
errori).
Brizzolara afferma che “studi recenti hanno dato supporto all’idea che
l’apprendimento di procedure di decodifica di tipo sublessicale siano facilitate dalla
regolarità ortografica della lingua.” (Campioni, 2001, p. 248). Ne consegue la
deduzione che apprendere le regole di conversione grafema-fonema sia
relativamente semplice in lingue come l’italiano e che vi siano differenze sostanziali
nella caratterizzazione della dislessia dei bambini italiani rispetto ad esempio alla
dislessia dei bambini tedeschi. Tale diversità sarebbe da rintracciare (grazie agli
studi di Wimmer) nella velocità di lettura; nelle lingue regolari il problema
principale sarebbe rappresentato dalla lentezza di lettura, mentre la correttezza della
decodifica sarebbe soddisfacente, si parla in questo caso di “speed dislexia” . Se si
considera la lentezza assieme ad altri elementi rilevati in diverse ricerche come le
fissazioni oculari necessarie per identificare una parola rispetto ai controlli o
l’effetto lunghezza delle parole sui tempi di risposta nei bambini dislessici italiani, il
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quadro che si ottiene è quello di una prevalente utilizzazione delle procedure
indirette e di una difficoltà di accesso lessicale diretto, cioè quello tipico della
dislessia superficiale.
Il modello “a due vie” per la lettura, detto anche modello a doppio accesso, deriva
sia dalla ricerca sui processi normali di lettura che dall'esame clinico di casi singoli
di dislessia (Sartori, 1984). E' stato proposto per la prima volta da Coltheart (1981)
ed è stato successivamente confermato ed ulteriormente specificato da un gran
numero di ricerche condotte da autori diversi, tanto da essere oggi chiamato
"modello standard" indicando con questo termine che si tratta del modello teorico di
spiegazione della lettura su cui esiste un generale accordo tra i ricercatori che si
occupano dell'argomento e, inoltre, che non può essere attribuito ad un autore in
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particolare. Il modello è rappresentato graficamente in Figura 1. I rettangoli
rappresentano le tappe delle diverse elaborazioni cui viene sottoposto lo stimolo
visivo in entrata, mentre le frecce indicano la direzione del flusso di informazioni; il
Sistema Semantico, rappresentato in un ovale, è un magazzino di memoria a lungo
termine. Prima di procedere ad una descrizione più dettagliata del modello, è
necessario accennare brevemente alla sua storia, al fine di chiarire alcuni concetti di
base necessari per la sua comprensione. Quando una persona legge il suo scopo è
innanzitutto quello di comprendere, cioè di tradurre in rappresentazioni con
significato i diversi segni e simboli stampati sulla pagina. Perchè questa traduzione
sia possibile il lettore deve essere in grado di utilizzare i dati sensoriali provenienti
dai caratteri di stampa per recuperare dalla sua memoria le informazioni
corrispondenti.
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della parola. Nei primi modelli teorici formulati allo scopo di spiegare il processo di
lettura (Rubenstein, Lewis, Rubenstein, 1971) era stato ipotizzato che questo
avvenisse in maniera rigidamente sequenziale, cioè queste tre fasi si succedevano in
un ordine prestabilito, una fase per volta: nella fase di codifica i simboli grafici
venivano convertiti in suono, questo era poi confrontato con ognuno dei suoni delle
parole immagazzinate in memoria; quando veniva identificato nel sistema semantico
un suono uguale a quello della parola stimolo, la ricerca terminava e le diverse
informazioni in memoria relative a quella parola divenivano disponibili. Il processo
di accesso lessicale era quindi immaginato in modo abbastanza simile a quello della
ricerca di una parola su un dizionario, con la differenza che le singole "voci" del
dizionario erano costituite dai suoni delle parole invece che dai loro corrispondenti
ortografici.
L'ipotesi che il codice di accesso al sistema semantico sia costituito dal suono delle
parole è chiamata ipotesi della "codifica fonologica" o "mediazione fonologica" ed è
basata sia su argomentazioni logiche sia su evidenze sperimentali. Da una parte,
dato che la lettura è una abilità che viene acquisita successivamente al
raggiungimento di una certa competenza linguistica, appariva logico supporre che
fosse mediata da una qualche forma di "linguaggio parlato interno"; dall'altra
Rubenstein e coll. (1971) avevano evidenziato che chiedendo ad un lettore abile
adulto (di lingua inglese) di indicare se una stringa di lettere era o no una parola
reale (compito di decisione lessicale) il tempo di decisione era più lungo se veniva
presentata una stringa di lettere senza significato che avesse lo stesso suono di una
parola reale. Ad esempio la non-parola BRANE in inglese ha lo stesso suono della
parola BRAIN, tuttavia ci vuole più tempo a leggere BRANE che BRAIN, questo
fenomeno e’ chiamato effetto omofonia. Questo effetto è stato considerato una prova
del fatto che il codice di accesso al lessico è di tipo fonologico: la confusione tra
BRANE e BRAIN evidenziata dal maggior tempo impiegato per emettere la
risposta, può essere spiegata solo se la ricerca lessicale avviene su base fonologica
in quanto i due stimoli sono diversi dal punto di vista ortografico.
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Ricerche successive condotte da autori diversi hanno però messo in discussione i
modelli "a ricodificazione fonologica" evidenziando che non sempre l'accesso al
sistema semantico è mediato fonologicamente e che per particolari stimoli e
particolari soggetti questo può avvenire direttamente sulla base delle caratteristiche
ortografiche degli stimoli (accesso diretto). Innanzitutto si è visto che l'effetto
omofonia, su cui principalmente questo tipo di modello si basa, non era sempre
evidenziabile e inoltre, quando l'effetto omofonia risultava significativo anche tra
due parole vere e proprie, esso riguardava solo parole a bassa frequenza d'uso, cioè
parole poco familiari. Questo risultato suggerisce che l'accesso lessicale delle parole
molto note, al contrario di quelle a bassa frequenza, non necessita di una ricodifica
fonologica ma avviene direttamente sulla base delle caratteristiche ortografiche della
parola in questione. I risultati di diversi lavori hanno contribuito all'affermarsi dei
cosiddetti modelli "a doppio accesso" basati sull'ipotesi che l'accesso al significato
delle parole possa avvenire sia direttamente sulla base di un codice visivo (via
visiva) che sulla base di un codice fonologico (via fonologica) (Cornoldi, 2007a).
I primi due stadi di elaborazione, comuni alle due vie, sono quelli dell'Analisi Visiva
e del Riconoscimento delle Lettere, cioè vengono innanzitutto individuate le
caratteristiche visive rilevanti dello stimolo (la sua forma globale e la forma delle
lettere che lo compongono), a questo punto è possibile arrivare al Sistema
Semantico attraverso due strade alternative.
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FIGURA 1 - Un modello generale di lettura che prevede due vie di lettura a voce alta e due modalità di accesso al
significato delle parole..
La prima strada utilizza è il Lessico Visivo di Input. Questa strada consiste nel
registrare e accumulare informazioni sulle caratteristiche ortografiche delle parole
stampate. Ad esempio per la parola TAVOLO verranno prima identificate solo le
lettere T A V O L O o le sillabe TA-VO-LO identificando le parti in comune con
altre parole come TA di TASCA o LO di VELO ma via via scartandole poiché non
corrispondono in pieno. Vengono, quindi, accumulate sempre più informazioni fino
a che non si raggiunge la soglia di attivazione della parola TAVOLO, ovvero fino a
quando non si arriva al punto in cui quella stringa di lettere non può che essere la
parola TAVOLO. A questo punto nel Sistema Semantico viene attivato il codice
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corrispondente, viene raggiunta la relativa entrata lessicale e la comprensione del
significato della parola. Questa via di accesso al significato viene denominata "via
visiva" o "via ad accesso diretto", in quanto avviene sulla base delle sole
caratteristiche visive e non vi è nessuna mediazione del suono della parola né dei
singoli suoni di cui è formata (fonemi).
Oltre a comprendere il significato delle parole stampate il lettore abile deve anche
essere in grado di tradurre velocemente e correttamente il testo scritto in linguaggio
parlato. Un'altra domanda che ci si è quindi posti rispetto al processo di lettura
riguarda i meccanismi che consentono una lettura a voce alta veloce ed accurata,
indipendentemente dai processi di comprensione (possiamo anche leggere a voce
alta senza errori e non capire tutto il senso di quello che leggiamo se svolgiamo il
compito distrattamente, o leggere una lingua sconosciuta che abbia le stesse regole
di pronuncia della nostra e tuttavia non riuscire a capire cosa leggiamo). Il modello a
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due vie prevede che anche la lettura a voce alta possa essere portata a termine o
mediante la via visiva o mediante la via fonologica.
Per quanto riguarda la via visiva, si giunge all'attivazione del significato della parola
nel Sistema Semantico attraverso il Lessico Visivo di Input. Come è stato accennato
all'inizio l'accesso al Sistema Semantico consente di ottenere non solo il significato
di una parola, ma anche tutte le altre informazioni che abbiamo immagazzinato su di
essa, e quindi anche il suo suono. Infatti una volta che sia stato attivato il codice
semantico di una parola questo attiva a sua volta il corrispondente codice fonologico
che fornisce la rappresentazione fonologica della parola da pronunciare. Il risultato
di questo processo è che il suono della parola non è costruito a partire dai suoni che
la compongono, ma è attivato e recuperato in maniera globale direttamente dal
"lessico interno", il magazzino interno in cui sono conservate tutte le informazioni
che ogni parlante possiede rispetto alle parole della sua lingua.
Secondo questo modello, dunque, vi sono in realtà tre modi diversi per ottenere il
suono di una parola stampata durante la lettura a voce alta, ma solo due di essi
consentono però l'accesso al significato delle parole. Le caratteristiche delle vie di
lettura ipotizzate nel modello standard sono le seguenti:.
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il riconoscimento uditivo. Questa via è necessaria per la lettura di stringhe di lettere
che non hanno una entrata lessicale nel sistema semantico e quindi non possono
essere lette direttamente mediante la via visiva, come per es. non-parole o parole di
lingue straniere o parole della nostra lingua che non abbiamo mai udito.
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Fig. 1 Processi implicati nella scrittura. Un modello di scrittura "a due vie"
Tornando alla descrizione del grafico possiamo vedere che in questo modello il
flusso di informazioni va dalla parola udita alla parola scritta. Le principali
assunzioni del modello possono essere meglio comprese se si prende come esempio
la scrittura di parole sotto dettatura. Quando viene dettata una parola conosciuta il
sistema di Analisi Acustica produce una rappresentazione fonologica della parola
che attiva il codice corrispondente nel Lessico Fonologico di Input. Possiamo
immaginare questa struttura come un magazzino di memoria in cui sono contenuti i
codici sonori delle parole apprese, il sistema riconosce la rappresentazione
fonologica di una parola, per esempio il suono della parola CASA e attiva a sua
volta la rappresentazione semantica di CASA nel Sistema Semantico, dove sono
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immagazzinati i significati delle parole. L'accesso del codice fonologico al sistema
semantico e la conseguente attivazione della rappresentazione semantica della
parola, consente di comprenderne il significato e di attivare a sua volta una
rappresentazione grafemica astratta della parola stessa nel Lessico Ortografico di
Output. La rappresentazione di una parola nel lessico ortografico è astratta nel senso
che non contiene informazioni relative al "formato" dei caratteri, cioè la parola
CASA è rappresentata dai grafemi C-A-S-A siano essi maiuscoli, minuscoli, in
corsivo, in stampatello ecc. Questo processo è denominato via visiva semantica di
scrittura.
Se viene dettata una parola sconosciuta o una sequenza di fonemi senza significato,
non ci sarà nessuna rappresentazione semantica disponibile nel Sistema Semantico e
quindi non verrà attivata nessuna rappresentazione grafemica nel Lessico
Ortografico di Output. Il modello assume quindi che la scrittura di parole
sconosciute o di sequenze di fonemi avvenga attraverso un processo non lessicale di
Conversione Fonema-Grafema che utilizza le regole di corrispondenza tra lingua
parlata e lingua scritta (via fonologica).
Una volta che la rappresentazione grafemica della parola è stata attivata nel Lessico
Ortografico di Output (via visiva semantica) oppure assemblata mediante le regole
di conversione (via fonologica), essa viene mantenuta in memoria, in una sorta di
magazzino di servizio chiamato Buffer Grafemico, il tempo necessario per
l'esecuzione del compito richiesto, cioè la scrittura oppure la ripetizione, o spelling,
orale (quest'ultimo caso riguarda soprattutto la lingua inglese). Nel caso della
scrittura le rappresentazioni astratte delle lettere che compongono la parola devono
essere convertite nelle appropriate forme visive a seconda che la scrittura sia in
stampatello o in corsivo, maiuscolo o minuscolo, questo processo è chiamato
Conversione Allografica. Se invece il compito è di spelling orale (ma nella nostra
lingua raramente abbiamo necessità di effettuare lo spelling di una parola) allora alle
rappresentazioni astratte delle lettere che compongono la parola saranno attribuiti i
nomi corrispondenti.
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Sia per il modello a due vie di lettura, che per quello di scrittura, le principali
conferme sperimentali provengono dallo studio di pazienti con danno cerebrale, che
hanno perso la capacità di leggere fluentemente (dislessia acquisita) o di scrivere
correttamente (disgrafia acquisita). In seguito i modelli di questo tipo sono stati
utilizzati anche per interpretare i disturbi di lettura e scrittura in ambito evolutivo.
Di seguito specifico meglio la relazione tra i due processi.
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natura fonologica, semantica, ortografica, ecc. Così noi siamo immediatamente in
grado, una volta udita una parola, di ripeterla, scriverla, dire cosa significa, trovare
un sinonimo o un'altra parola ad essa associata, dire a quale classe grammaticale
appartiene, ecc. E' importante comprendere questo punto, per capire alcune
caratteristiche dei disturbi di lettura e scrittura. Per esempio alcuni pazienti che
presentano un danno alla via semantica di lettura in realtà conservano una certa
capacità di comprendere il significato delle parole che non leggono correttamente in
quanto utilizzano vie di accesso al significato proprie dei meccanismi implicati nel
linguaggio, abilità che in loro è intatta.
Allo scopo di rendere più chiaro quanto detto finora, sono state schematizzate nella
Figura 2 le connessioni tra i principali livelli di elaborazione coinvolti nella lettura e
nella scrittura.
Fig. 2 Connessioni tra meccanismi implicati nella lettura, nella scrittura e nel linguaggio in un disegno.
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Per esempio se l'input è uditivo (es. una parola), attraverso la via di scrittura
semantica l'informazione raggiungerà il Lessico Ortografico di Output ed il Buffer
Grafemico consentendo la scrittura della parola udita, tuttavia la rappresentazione
semantica della parola, attivata nel Sistema Semantico, attiva non solo il Lessico
Ortografico di Output, ma anche il Lessico Fonologico di Ouput (implicato nel
processo di lettura) che attiva a sua volta il Sistema Articolatorio, per cui è possibile
anche pronunciare la parola. Vi è quindi un continuo flusso di informazioni tra i
meccanismi implicati nella ripetizione orale di una parola udita, compito che
coinvolge livelli di elaborazione comuni ai processi di lettura, scrittura e linguaggio.
Tuttavia, le diverse strade che l'informazione può percorrere sono tra loro
indipendenti, per cui un danno ad una di esse può lasciare le altre del tutto inalterate
e funzionanti, inoltre vi sono delle connessioni tra le diverse vie, per cui
l'interruzione in un determinato punto può essere aggirata percorrendo una via
alternativa. Ciò evita la perdita totale della capacità di effettuare un determinato
compito, ma provoca spesso delle disfunzioni dovute a disguidi nella trasmissione
delle informazioni nell'ambito di un percorso più lungo e meno diretto di quello
utilizzato in condizioni di normalità.
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scolastica. Conseguenze secondarie possono includere i problemi di comprensione
nella lettura e una ridotta pratica nella lettura che può impedire una crescita del
vocabolario e della conoscenza generale".
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F V
T D
P B
C G
L R
M N
S Z
Difficoltà di decodifica sequenziale:
leggere richiede al lettore di procedere con lo sguardo in direzione sinistra -
destra e dall'alto in basso; tale processo appare complesso per tutti gli
individui nelle fasi iniziali di apprendimento della lettura, ma, con l’affinarsi
della tecnica e con l'uso della componente intuitiva la difficoltà diminuisce
gradualmente fino a scomparire. Nel soggetto dislessico talvolta ci troviamo
di fronte, invece a un vero e proprio ostacolo nella decodifica sequenziale,
per cui si manifestano con elevata frequenza gli errori di seguito descritti:
o Omissione di grafemi e di sillabe:
il soggetto omette la lettura di parti della parola; può tralasciare la
decodifica di consonanti (ad esempio può leggere “fote” anziché
“fonte”; oppure “capo” anziché “campo”...) oppure di vocali (può
leggere, ad esempio, “fume” anziché “fiume”; “puma” anziché
piuma”) e, spesso, anche di sillabe (può leggere “talo” anziché
“tavolo”; “paro” anziché “papavero”)
o Salti di parole e salti da un rigo all’altro:
il soggetto dislessico presenta evidenti difficoltà a procedere sul rigo e
ad andare a capo, per cui sono frequenti anche “salti” di intere parole o
di intere righe di lettura.
o Inversioni di sillabe:
spesso la sequenza dei grafemi viene invertita provocando errori
particolari di decodifica della sillaba (il soggetto può, ad esempio,
leggere “li” al posto di “il”; “la” al posto di “al”, “ni” al posto di “in”.)
e della parola (può leggere, ad esempio, “talovo” al posto di “tavolo”).
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o Aggiunte e ripetizioni:
la difficoltà a procedere con lo sguardo nella direzione sinistra - destra
può dare origine anche ad errori di decodifica caratterizzati
dall'aggiunta di un grafema o di una sillaba ( ad esempio “tavovolo” al
posto di “tavolo”).
1.4.1 CLASSIFICAZIONE
Seymour (1985) utilizza un modello molto simile a quello di Uta Frith per
riclassificare le dislessie evolutive sulla base del mancato raggiungimento dei vari
stadi di apprendimento della lettura.
Secondo questo ed altri autori si possono osservare tre tipologie di dislessie
evolutive:
· dislessia fonologica
· dislessia morfologica-lessicale (detta anche superficiale)
· dislessia mista
Dislessie evolutive
Si tratta di un grave ritardo nell’imparare a leggere, pur in assenza di carenze
intellettive, socio-culturali e affettive.
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Dislessia fonologica evolutiva
Sostanzialmente i sintomi di questa dislessia evolutiva sono simili a quelli della
dislessia fonologica acquisita, sebbene si presentino in forma più sfumata e le
dissociazioni siano meno marcate.
Il bambino ha maggior difficoltà nel leggere le non parole (stringhe di lettere senza
senso) rispetto alle parole frequenti e a quelle che costituiscono eccezioni di
pronuncia o di accentazione.
Questi sintomi sarebbero la conseguenza di un arresto dello sviluppo nel processo di
apprendimento della lettura e precisamente a livello del passaggio dallo stadio
alfabetico a quello ortografico. In altre parole, lo sviluppo della lettura nel bambino
con dislessia fonologica rimarrebbe fermo a livello della conversione grafema-
fonema delle singole lettere, non riuscendo a raggiungere la fase in cui tali regole
vengono applicate a gruppi di lettere corrispondenti a sillabe, affissi e morfemi.
Dislessia mista
È la dislessia che si può osservare più frequentemente. In essa sono presenti sintomi
tipici di entrambe le categorie precedenti. Secondo il modello di apprendimento
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precedentemente presentato, questa dislessia sarebbe il frutto di un arresto alle prime
fasi dello stadio alfabetico dello sviluppo.
Occorre, inoltre, ricordare che nei casi di dislessia studiati, sia in soggetti di lingua
inglese che italiana, non sono riscontrabili casi tipici di dislessia fonologica o
superficiale e che nella maggior parte dei casi si ha una compresenza dei vari
sintomi indicante una relativa superiorità di un meccanismo di lettura sull'altro.
Iperlessia evolutiva
Questa sindrome è presente in forma evolutiva oltre che acquisita. I bambini con
diagnosi di iperlessia sono precoci nell'imparare a leggere, ma hanno significative
difficoltà nella comprensione del linguaggio verbale. Inoltre hanno difficoltà si
socializzazione e di interazione appropriata con le persone.
Molti di questi bambini, inoltre, hanno:
· difficoltà ad iniziare la conversazione
· forte necessità di attuare comportamenti abitudinari e ritualistici
· difficoltà a pensare concetti astratti e in modo non letterale
· grande memoria visiva e uditiva
Dislessie acquisite
Riguardano i disordini nella comprensione o nella produzione del linguaggio
conseguenti a traumi subiti dal cervello. I lavori pionieristici di ricerca che Broca
realizzò nel XIX secolo ci hanno rivelato che i problemi del linguaggio (pertanto
anche quelli inerenti alla lettura) sono molto più spesso conseguenza di traumi che
colpiscono la parte sinistra del cervello. Infatti l’emisfero sinistro del cervello, nella
maggior parte delle persone è responsabile delle abilità di linguaggio. La dislessia
acquisita fu studiata verso la fine del XIX secolo dal neurologo Carl Wernicke. Le
ricerche hanno dimostrato che esistono diversi tipi di dislessia acquisita.
Possono essere distinte in forme centrali e periferiche.
Dislessie periferiche
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Sono definite dislessie periferiche i disturbi di elaborazione della forma visiva della
parola. Il disturbo colpisce le prime fasi di elaborazione delle parole, che sono le più
periferiche. Tra queste:
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rappresentazione degradata delle lettere che non permette la normale elaborazione
dell'informazione.
Dislessia attenzionale
Questi pazienti sono in grado di leggere le parole, ma non le lettere che le
compongono. Ovvero sono in grado di leggere la parola CASA, ma non riescono a
denominare la lettera presente in essa C-A-S-A. Inoltre, sono in grado di leggere le
parole e le lettere solo qualora vengano presentate separatamente, mentre non
riescono a leggerle se fanno parte di una serie. Ad esempio possono leggere la
parola CASA se presentata singolarmente ma non più se fa parte di una serie come
CASA PERA MELA SEDIA.
Uno degli errori più tipici di questi pazienti è la “migrazione” delle lettere, per cui se
vengono presentate contemporaneamente le stringhe RINE-PATO esse possono
essere lette come PANE-RITO.
Solitamente questo tipo di disturbo consegue a lesioni del lobo parietale sinistro.
L'interpretazione più accreditata di questi disturbi è che si tratti di deficit del
controllo attenzionale in modalità visiva, in altri termini non sarebbe permessa la
selezione dello stimolo a cui prestare attenzione quando si trova vicino ad
altri stimoli simili.
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errori, questi sono di tipo visivo, ovvero confondono parole visivamente simili. La
dislessia lettera per lettera viene denominata anche alessia pura perché,
generalmente, i pazienti che ne soffrono mantengono inalterata la capacità di
scrittura e di spelling e solitamente non sono associati altri disturbi del linguaggio,
quali per esempio l'afasia.
La lesione che più frequentemente è associata a dislessia lettera per lettera acquisita
è la lesione al lobo occipitale inferiore anteriore adiacente al lobo temporale di
sinistra.
Dislessie centrali
Le dislessie centrali sono quei disturbi di lettura il cui deficit è a carico delle due
procedure necessarie per la lettura ad alta voce, ovvero della via fonologica e della
via visiva.
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giudicare la correttezza semantica di frasi del tipo L'AGO E' FATTO DI ACQUA.
Queste frasi possono essere usate come equivalenti delle parole inglesi omofone non
omografe. Errori ortografici possono essere sostituzioni, eliminazioni o aggiunte di
lettere. Le parole scritte sono fonologicamente corrette, ma ortograficamente
scorrette (es A DOGNI invece che AD OGNI).
La lettura attraverso la conversione grafema-fonema, cioè la dislessia superficiale
acquisita, è frequente in pazienti che hanno subito danni alle strutture posteriori del
lobo temporale sinistro. Questo tipo di dislessia si riscontra in varie condizioni
patologiche a danno dell'emisfero sinistro tra cui traumi cranici, ictus e tumori.
Questo disturbo viene spiegato attraverso l'ipotesi dell'iperutilizzo della via
fonologica, ovvero quella via che permette la lettura attraverso la conversione
grafema-fonema. l'inoperatività della via lessicale costringerebbe i soggetti ad
utilizzare la via fonologica anche in presenza di parole irregolari, il che
spiegherebbe perché gli errori commessi con tali parole siano in genere
generalizzazioni formulate sulla base delle conversioni grafema-fonema.
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Questo pattern di sintomi rende molto labili i confini tra dislessia fonologica e
dislessia profonda (sebbene in quest'ultima siano sempre presenti errori di tipo
semantico). I sintomi critici della dislessia fonologica sono:
· incapacità di leggere le non parole;
· disgrafia
· errori visivi.
Questi pazienti tendono a fare errori sia con parole sia con non parole qualora siano
visivamente simili; vi è assenza di errori semantici (necessaria per distinguere
questo deficit dalla dislessia profonda). Nella maggior parte dei pazienti affetti da
dislessia fonologica si rilevano anche: errori morfologici; incapacità di leggere le
parole funzione (e, se, per…) in quanto prive di significato e non immaginabili
visivamente.
I pazienti affetti da dislessia fonologica acquisita hanno, generalmente, lesioni
parieto-occipitali sinistre, tali lesioni spesso comprendono il giro angolare e parte
delle aree sottocorticali.
Dal punto di vista teorico si può ipotizzare che questo tipo di deficit sia conseguente
ad una lesione della via fonologica. Il paziente si troverebbe in questo caso
nell'impossibilità di utilizzare la conversione grafema-fonema.
Leggere attraverso la via visiva permette di non commettere errori di pronuncia per
le parole conosciute, ma rende impossibile leggere stringhe di lettere senza senso e
molto difficoltoso leggere parole poco frequenti.
Dislessia profonda
I pazienti che soffrono di questo tipo di dislessia vedono compromessa la loro
capacità di leggere stringhe di lettere che non formano parole (PRENO) e con le
parole commettono vari tipi di errori. Gli errori comuni e i sintomi più frequenti per
i pazienti affetti da dislessia profonda, oltre all'incapacità di leggere a voce alta le
non parole, sono:
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· errori di tipo semantico, ovvero quando vengono presentate parole singole i
pazienti leggono non la parola scritta ma una di significato correlato a questa, ad
esempio viene presentata la parola TIGRE e il soggetto dice la parola LEONE;
questi errori costituiscono il sintomo patognomico di tale dislessia, quindi se è
presente questo tipo di errori si troveranno anche quelli descritti successivamente;
· errori visivi: ad esempio LETTO al posto METTO, cioè quando la parola letta ha
molte lettere in comune con quella che è realmente scritta; errori prima visivi e poi
semantici; cioè si fanno entrambi gli errori nella stessa parola, sostituzione di parole
funzione (es. QUANDO viene letto QUANTO);
· errori morfologici: sono gli errori che si commettono quando leggendo viene
modificato il prefisso o il suffisso della parola (es. ANDAVO viene letto ANDATO);
effetto concretezza.
Le parole molto concrete (facilmente immaginabili) sono lette meglio delle parole
astratte; i nomi vengono letti meglio degli aggettivi, che sono letti meglio dei verbi,
i quali presentano meno errori delle parole funzione; inoltre, a questi errori si
aggiungono generalmente sintomi quali:
· afasia, cioè disturbi del linguaggio orale;
· disgrafia, cioè difficoltà di scrittura;
· deficit di memoria a breve termine verbale.
La dislessia profonda è solitamente causata da vaste lesioni delle aree perisilviane
dell'emisfero sinistro con interessamento fronto-temporo-parietale. Le prestazioni di
questi pazienti sono molto simili a quelle dei pazienti affetti da disconnessione
intraemisferica (split brain) quando leggono con l'emisfero destro. Queste
osservazioni hanno condotto alcuni autori ad avanzare l'ipotesi che le abilità residue
dei pazienti affetti da dislessia profonda siano dovute ad una strategia compensatoria
messa in atto da questi pazienti. In seguito alla lesione dell'emisfero sinistro essi
metterebbero in funzione le limitate capacità di lettura dell'emisfero destro.
Il modello a due vie spiega la dislessia profonda come un disturbo
multicomponenziale che comprende deficit a vari livelli del processo di lettura.
Secondo il modello per avere questa sindrome si dovrebbero avere un deficit a
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livello della via fonologica, per cui il soggetto non sarebbe più in grado di leggere le
non parole e le parole non familiari, e un deficit anche alla via visiva, che rende
difficoltosa anche la lettura delle parole conosciute e di quelle irregolari ed infine,
un deficit alla via semantica che da origine agli errori semantici.
Le disgrafie sono state assai meno studiate delle dislessie, forse perché si è
implicitamente assunto che i tentativi di spiegare le une valessero anche per le altre,
tanto più che alcune teorie formulate sulla dislessia si sono fondate sulla presenza di
tipici errori di scrittura, come le inversioni di lettere o di sillabe.
Alcune forme di disgrafia evolutiva possono essere considerate come un particolare
disturbo espressivo del linguaggio. Se è così, e se valgono le indicazioni provenienti
dalla patologia degli adulti queste forme dovrebbero dipendere da disfunzioni
dell’emisfero sinistro. Questa parte della corteccia è probabilmente coinvolta
nell’integrazione percettiva tra le diverse modalità nonché nel controllo esercitato
dall’apparato sensoriale e cinestesico sul movimento (Cornoldi, 1991). Perciò, è
abbastanza ragionevole l’ipotesi che, quando un bambino fatica patologicamente per
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imparare a scrivere, siano funzionalmente disturbate, queste funzioni e queste aree
dell’emisfero sinistro, in cui le immagini visive, acustiche e tattili delle parole si
integrano. D’altra parte, nella maggioranza dei casi le disgrafie evolutive presentano
aspetti che prescindono da quelli linguistici: lessico, grammatica, sintassi, ortografia
possono essere apparire normali e la scrittura sembra faticosa solo sul piano
motorio.
La disgrafia viene definita come un disturbo specifico dell’apprendimento che
riguarda la riproduzione di segni alfabetici e numerici, riguarda esclusivamente il
grafismo e non le regole ortografiche e sintattiche, sebbene influisca negativamente
anche su tali acquisizioni. Si tratta infatti un disordine delle componenti periferiche,
cioè esecutivo-motorie; da distinguere dalla disortografia che rappresenta invece un
disordine di decodifica del testo scritto che viene fatto risalire ad un deficit di
funzionamento delle componenti centrali del processo di scrittura, responsabili della
transcodifica del linguaggio orale nel linguaggio scritto.
Emerge nel bambino quando la scrittura inizia la sua fase di personalizzazione,
indicativamente (e solo genericamente) alla terza elementare. In genere il problema
della scrittura disorganizzata viene sollevato dagli insegnanti elementari che
lamentano la difficoltà di seguire il bambino nel suo disordine. Nelle due classi
precedenti lo sforzo e il disordine sono in genere determinati dalla fatica
dell'apprendimento, in terza elementare il gesto è abbastanza automatizzato da
lasciar spazio alla spontaneità e, di conseguenza, all'evidenziazione della difficoltà.
Pratelli (1995) ne identifica le principali caratteristiche:
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Orientamento nello spazio grafico. La capacità di utilizzare lo spazio a disposizione
è solitamente molto ridotta, il bambino non rispetta i margini del foglio, lascia spazi
irregolari tra grafemi e tra parole, non segue la linea di scrittura.
Pressione sul foglio. La pressione della mano sul foglio non è adeguatamente
regolata, a causa di una paratonia, ossia un’alterazione del tono muscolare, si può
presentare talvolta troppo forte, talvolta troppo debole.
Direzione del gesto grafico. Sono frequenti le inversioni nella direzionalità del
gesto che si evidenziano sia nell’esecuzione dei singoli grafemi sia nella scrittura
autonoma, che a volte procede da destra verso sinistra.
Dimensioni dei grafemi. Si evidenzia uno scarso rispetto delle dimensioni delle
lettere, esse vengono riprodotte o troppo piccole o troppo grandi.
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Ritmo grafico. Anche il ritmo di scrittura risulta alterato; il bambino scrive con
velocità eccessiva o con estrema lentezza, ma la sua mano esegue movimenti a
“scatti”, senza armonia del gesto e con frequenti interruzioni. La velocità è alterata
in entrambe le direzioni: la scrittura può farsi estremamente lenta (sintomo di
enorme sforzo psicofisico) ma anche eccessivamente veloce (sintomo di una
sovraeccitazione psiconervosa).
1.5.1 CLASSIFICAZIONE
Disgrafie centrali
Disgrfia fonologica. Essa si manifesta con errori prevalenti o selettivi nella scrittura
di non parole, parole poco frequenti o non note all’individuo; il disgrafico
fonologico presenta una disfunzione del processo di conversione grafema-fonema ed
utilizza pertanto nella scrittura prevalentemente la via lessicale semantica,
recuperando la rappresentazione ortografica astratta delle parole dal lessico. Tale
strategia risulta inadeguata o insufficiente di parole nuove o non parole, che essendo
sottoposte al lettore per la prima volta, non sono rappresentate in forma astratta nel
lessico. Sono presenti effetti lessicali relativi alla frequenza d’uso, alla classe
grammaticale, all’effetto concretezza. Le caratteristiche appena descritte rendono la
disgrafia fonologica facilmente accumunabile alla dislessia fonologica.
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grafema-fonema determina un aumento significativo di errori di scrittura
“fonologicamente corretti”. Un esempio può essere la scrittura della parola francese
“monsieur” che diventa “messieu” o della parola italiana “cucina” scritta “qucina”.
Come rilevato in molte ricerche effettuate in soggetti di lingua straniera, la disgrafia
superficiale presenta molte analogie con la dislessia superficiale.
Disgrafia per deficit del buffer grafemico. Il danno avviene in una fase
relativamente avanzata del processo di scrittura che è comune alle due vie di
scrittura (uguale compromissione di parole regolari, irregolari e non-parole).
Disgrafie periferiche
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Disgrafia da malformazione di lettere. Consegue all’incapacità di recuperare o di
realizzare la forma grafica delle lettere. Anche in questo caso è ovviamente
risparmiata la compitazione e la scrittura su tastiera.
Ipotesi fonologiche. Ha dominato lo studio della dislessia. Nel passato specie nella
letteratura anglosassone ha prodotto importanti prove a dimostrazione che la
maggioranza dei dislessici ha abilità fonologiche ridotte le quali sono correlate con
la difficoltà di lettura. Secondo tale ipotesi un disturbo isolato della fonologia
renderebbe difficile identificare i segmenti più piccoli di cui le sillabe sono
composte: la difficoltà di analizzare le unità linguistiche a livello subsillabico
renderebbe alquanto arduo imparare un codice (quello alfabetico) che appunto su
quelle unità si fonda. In questo modo, la difficoltà di acquisire, memorizzare e
richiamare la rappresentazione fonologica dei segni grafici comporta un
rallentamento della lettura e la comparsa di errori specifici di confusione tra fonemi.
42
elettrofisiologiche mostrerebbero, negli adulti, prestazioni scadenti a compiti di
discriminazione uditiva, e questi sarebbero correlati con la prestazione a prove
fonologiche, come la ripetizione di non parole. Questa posizione sottolinea la
rilevanza di un disturbo di base all’origine dell’inefficiente analisi fonologica.
Anche Brizzolara afferma che i fattori di rischio per la lingua scritta potrebbero
essere legati prevalentemente a un disturbo della componente fonologica data la
centralità dei processi fonologici nell’acquisizione delle procedure alfabetiche
(Camaioni, 2001). I dati presenti in letteratura sono a tal riguardo contraddittori:
alcuni sostengono che un disturbo fonologico isolato presente al momento iniziale
della scolarizzazione costituisce un fattore associato ai problemi di alfabetizzazione,
altri dimostrano invece che, i bambini che in età prescolare presentavano un
disturbo fonologico isolato non sviluppavano poi difficoltà di apprendimento della
lingua scritta, mentre bambini con un disturbo relativo a un ampio raggio di abilità
linguistiche (morfosintassi, lessico, comprensione e produzione) avevano in età
scolare problemi di comprensione e produzione di testi e di decifrazione.
Ipotesi uditiva. E’ questa un’altra delle strade che la ricerca sta percorrendo:
riguarda la possibilità che la percezione acustica delle parole possa avere un ruolo
nei problemi di linguaggio. Già vent’anni fa la psicologa americana Paula Tallal
(1980), avanzò l’ipotesi che i problemi specifici di linguaggio e dislessia avessero
origine in un difetto uditivo. Questi bambini non hanno niente alle orecchie, sentono
perfettamente i suoni, ma poi i centri del loro cervello che dovrebbero elaborare quei
suoni non sono in grado di farlo. Li confondono e li sovrappongono. Che un
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problema di lettura possa avere a che fare con un problema di udito o di linguaggio
parlato, non facilmente tradotto nella sua struttura fonemica, può sembrare
paradossale, ma Tallal è convinta del contrario.
Di solito il percorso dall’orecchio al cervello è il seguente: il suono raggiunge il
talamo, un importante centro di controllo e di coordinazione degli impulsi nervosi, e
lì viene smistato verso la corteccia uditiva dove avviene la decodiflcazione, secondo
percorsi neuronali già tracciati dal linguaggio parlato. Il problema, crede Tallal, sta
nei tempi, e cioè nella capacità di distinguere sequenze di suoni semplici che
differiscono per la distanza di tempo tra l’uno e l’altro. I suoni ricchi di vocali
risuonano per cento millisecondi, qualche volta anche più a lungo, e sono più facili
da individuare delle consonanti che invece “volano” nella conversazione alla
velocità di quaranta millisecondi o anche meno.
La maggior parte dei bambini con dislessia non riesce a distinguere suoni che
abbiano un intervallo superiore a trecento millisecondi, cosa che li rende in un certo
senso “sordi” ad alcuni suoni. Ora il rischio di suoni acustici rapidi come le
consonanti è che, nel momento in cui devono essere decodificati nel cervello, si
sovrappongano tra loro, creando le note difficoltà di linguaggio e lettura. Il
problema sta quindi nella capacità di elaborare e distinguere suoni acuti troppo
vicini.
Michael Merzenich (1996), dopo aver sottoposto a prove di ascolto alcuni adulti con
diverse abilità di lettura giunge a simili considerazioni. Quasi tutti i volontari con
prestazioni scadenti di lettura facevano fatica nei test a distinguere i suoni troppo
vicini: la rapidità creava confusione nel riconoscerli. Se nel linguaggio parlato,
hanno dedotto Tallal e Merzenich (1996), i dislessici riescono a compensare il loro
problema di udito, non così avviene nel leggere e nello scrivere. Se i fonemi hanno
intervalli ravvicinati vengono confusi perché il cervello immagazzina una
rappresentazione impropria del fonema-suono: è per questo che i dislessici
commettono errori nel convertire mentalmente i suoni in lettere e le lettere in suoni.
Galaburda (1999), neuroanatomopatologo, ha verificato singolari anomalie in
piccole strutture poste ai lati del talamo (i nuclei genicolati mediali) dove transitano
44
e vengono smistati i segnali acustici. Nelle cinque persone con dislessia esaminate
dopo la morte, le cellule neuronali di quelle particolari aree cerebrali nell’emisfero
sinistro erano di dimensioni ridotte rispetto all’emisfero destro.
Semplicistico sembra ad alcuni studiosi ridurre i diversi problemi che probabilmente
convergono nella dislessia a una particolare anomalia uditiva o una minima
differenza nel numero (un 10-15 per cento in meno) dei neuroni di una piccolissima
area cerebrale.
Queste osservazioni di tipo neurologico, anche se interessanti, allontanano
l’attenzione dal ruolo che anche l’ambiente (il contesto sociale, culturale, e le
consuetudini) gioca sull’apprendimento.
Ipotesi visive e attenzionali. Negli ultimi venti anni si è assistito alla ripresa degli
studi sulla natura percettiva del problema dislessico. Questa interpretazione,
individua nel difetto della via visiva Magnocellulare (sistema transiente) la causa
principale del disturbo. In breve la parte dorsale della via retino-genicolo-
parietaleprende origine dai neuroni magnocellulari della retina, i quali, a causa delle
loro grandi dimensioni, rispondono bene alle frequenze spaziali basse e temporali
alte. Questa via dunque è specializzata nella rilevazione dei cambiamenti istantanei,
nel movimento dello stimolo. La sua linea di ricerca trae origine da studi
sull’instabilità della dominanza oculare, misurata con il test di Dunlop. In
quest’ottica, il disturbo di lettura sarebbe associato a una perturbazione
dell’integrazione binoculare. L’ipotesi magnocellulare è stata vivacemente criticata
pochè i dati sperimentali non forniscono un riscontro chiaro dell’ipotesi (Zoccolotti
e coll., 2005a).
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identificare una lettera singola presentata in periferia se è abbastanza grande. Se
però questa viene affiancata da altre lettere, gli osservatori non sono più in grado di
identificarla. Quando leggiamo un testo, solo una piccola parte delle lettere cade
nella posizione centrale del campo visivo, mentre la maggioranza di esse si trovano
in periferia e sono quindi soggette a crowding. Recentemente è stato dimostrato che
gli effetti del crowding e di mascheramento sono il risultato di fasi diverse
dell’elaborazione visiva di oggetti. Il mascheramento è un fenomeno attribuibile
all’attività dei meccanismi di rilevazione delle caratteristiche che costituiscono il
primo livello di analisi visiva. Il crowding sarebbe, invece, un fenomeno che
identifica il secondo livello di integrazione dell’informazione fornita dai
meccanismi di rilevazione delle caratteristiche (Cornoldi, 2007a).
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Ipotesi dell’integrazione e dell’automazione delle funzioni. Al dibattito sulle
ipotesi visive, uditive o linguistiche, si è aggiunto molto più di recente un filone di
ricerca che ha spostato l’interesse sull’integrazione dei diversi processi cerebrali che
elaborano l’informazione.
I risultati degli studi condotti da Mauer Khami confermano che i bambini dislessici
riescono bene nei compiti associativi, ma hanno bisogno di un tempo superiore per
eseguirli rispetto ai coetanei (www.ariee.it). Gli stimoli per loro più difficili da
elaborare sono quelli sonori e linguistici, ma manifestano una certa difficoltà anche
in quelli visivi, sia che il materiale preveda ideogrammi che lettere dell’alfabeto. Si
deduce che la cattiva lettura dei bambini con difficoltà di apprendimento può
dipendere non tanto da una generale difficoltà di associazione o di riconoscimento
dei diversi stimoli visivi o acustici, quanto dall’elaborazione simultanea di tutte le
informazioni da prendere in esame.
Inoltre, l’indagine conferma l’importanza della capacità di riconoscere le parole
automaticamente, senza particolari sforzi cognitivi, capacità che permette di
dedicare maggiori risorse e attenzione alla comprensione del testo e acquisire nuove
informazioni e concetti. Le ricerca di Khami conferma che input, sia visivi sia
fonetici, comportano un carico cognitivo che può rendere la prestazione più
complessa e difficile.
Si tratta di un’osservazione importante, già avanzata da altri ricercatori, che
sottolinea come la mancata automatizzazione delle varie abilità sia forse alla base
dei deficit di apprendimento.
Il vantaggio di svolgere un compito automaticamente sta nel fatto che consente di
eseguirlo utilizzando al minimo la complessiva capacità di elaborazione, un po’
come se lo si facesse inconsciamente, senza innescare una sorta di competizione con
altre abilità (Nicholson e Fawcett dell’Università di Sheffleld).
Se un’abilità non è “in automatico”, occorre uno sforzo maggiore per eseguire un
compito che viene inoltre percepito come difficile. Un principio che vale in ambiti
diversi: dalla elaborazione fonologica alle capacità motorie (ciò può forse spiegare
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come siano numerosi i bambini con dislessia che hanno problemi con la scrittura e
anche ad allacciarsi le stringhe delle scarpe).
Fawcett e Nicholson sono convinti che la dislessia non sia semplicemente un deficit
di lettura, ma una più generalizzata difficoltà di apprendimento che hanno definito
"il paradigma del doppio compito".
Bambini con difficoltà di apprendimento hanno mostrato abilità simili ai coetanei
del gruppo di controllo ma risultati inferiori quando i due compiti dovevano essere
svolti insieme come se il loro sistema di elaborazione fosse saturo e la prestazione,
di conseguenza, più scadente.
Si evidenziano, quindi, nei bambini con disturbo dell'apprendimento difficoltà di
automatizzazione (utilizzo di maggiori risorse) e di modularità (indipendenza dal
contesto e conoscenze precedenti del compito letto).
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2. Che cosa è l’ADHD?
Il processo evolutivo consente al bambino, in particolar modo durante gli anni della scuola
elementare, di acquisire abilità di autoregolazione del proprio comportamento che gli
consentono di adattarsi al contesto in cui si trova e di esprimere le proprie potenzialità
cognitive. Non sempre, purtroppo, tutto questo si sviluppa in modo ottimale. In molti casi
si tratta di una semplice vivacità ed esuberanza che vengono positivamente indirizzate in
determinate abilità durante il processo di crescita; in altri casi, l’elevato livello di attività
motoria e la scarsa capacità di concentrazione, fanno pensare che forse quel bambino sia un
po’ troppo infantile e che non riesca a controllarsi come i propri compagni.
Sono sempre più numerosi, infatti, i bambini che non riescono a prestare attenzione
all’insegnante quando spiega, alla mamma quando dà delle istruzioni; che non riflettono a
sufficienza prima di iniziare un’attività e che non riescono a stare fermi quando tutti gli
altri lo sono. Si osserva, infatti, come, più ora che in passato, genitori e insegnanti si
lamentano che i bambini sono sempre più distratti e incontrollabili.
Questi bambini presentano livelli eccessivi di attività motoria, impulsività (incapacità di
riflettere adeguatamente prima di iniziare una qualsiasi attività) e difficoltà di attenzione
(soprattutto difficoltà nel mantenere la concentrazione per un periodo prolungato), da
rientrare in quella categoria denominata DDAI o Disturbo da deficit di
attenzione/iperattività (ADHD, acronimo per l’inglese Attention Deficit Hyperactivity
Disorder),termine recentemente coniato per indicare un problema che interessa sia bambini
che adulti nel regolare il proprio livello di attivazione fisiologica e comportamentale.
Prima di addentrarci nella diagnosi e valutazione clinica di tale disturbo, risulta necessario
ai fini di una maggiore comprensione, conoscere le radici storiche dell’ADHD e l’insieme
degli studi e teorie che hanno permesso di poterne definire il quadro clinico-diagnostico.
L’ADHD costituisce uno dei disturbi psichiatrici infantili più diagnosticati nei Paesi di area
anglosassone.
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L’interesse per il disturbo da deficit di attenzione/iperattività risale ai primi anni del 1900,
più specificatamente nel 1902, data importante in quanto prima di tale anno la
documentazione sul ADHD è praticamente inesistente.
In quell’anno un medico inglese, il Dott. George Fredick Still, descrisse per primo i sintomi
dell’ADHD; egli infatti, condusse uno studio su 20 bambini, i quali sembravano
manifestare un deficit nella inibizione volontaria o un difetto nel controllo morale del loro
comportamento. Per descriverli, usò aggettivi come: aggressivi, passionali, sregolati,
distratti, impulsivi e iperattivi.
Attraverso tale studio l’autore ipotizzò la presenza di un malfunzionamento, non ben
precisato, del Sistema Nervoso Centrale, quale causa scatenante del disturbo (Still, 1902).
Egli parlò di bambini fortemente disturbati, ipercinetici, irrefrenabili, affetti da una turba
neuropsichiatrica organica, in cui il deficit della volizione, del controllo morale e della
concentrazione erano tra loro legati ad un sottostante difetto neurologico.
Tale lavoro successivamente venne esposto al Royal College of Physicians e pubblicato in
una serie di articoli su Lancet ( rivista scientifica francese).
Benchè Still sia comunemente considerato il “padre” dell’ADHD, di questo disturbo
organico se ne parlò già nella prima metà dell’800, quando apparve la prima pubblicazione
del neurologo Hoffman e successivamente anche dello psichiatra francese Bourneville nel
1887. A questi anni risalgono infatti i primi studi, compiuti da psichiatri come Griesinger,
Alzheimer e Kraeplin, sull'anatomia del cervello e le irregolarità delle cellule nervose come
causa di disordini mentali. Si può osservare come per più di un secolo gli psichiatri
cercarono le cause fisiche sottostanti della malattia mentale.
Gli studi di Still cominciarono ad essere confermati a partire dagli anni Venti, grazie alle
ipotesi avanzate da diversi autori (Gallucci F., Bird H., Berardi C, 1921). Si osservò infatti,
come negli anni successivi alla Prima Guerra Mondiale (1917-1918), a seguito di una
devastante epidemia virale causa di innumerevoli casi di encefalite legati a forte influenza,
venne avanzata l'ipotesi di una correlazione organica tra cervello e comportamento
iperattivo, inattento, impulsivo; tale correlazione nacque poiché nei bambini parzialmente
guariti furono messi in relazione i danni cerebrali provocati dall’encefalite ed i
comportamenti di tipo iperattivo, inattento, impulsivo da loro manifestati.
Negli anni Trenta le ricerche arrivarono alla conclusione che i sintomi dell’iperattività e
della disattenzione erano legati tra di loro, in modo piuttosto variabile a seconda dei casi.
50
Ciò consentì di poter parlare della presenza, nei soggetti con ADHD, di un Danno
Cerebrale Minimo (MBD o Minimal Brain Dysfunction), sebbene non venne riconosciuta
alcuna lesione specifica (Meyers & Byers, 1952). In questi anni un notevole contributo
venne offerto dagli studi condotti dal famoso psichiatra Adolph Meyer, questi impiegò per
la prima volta l’osservazione al microscopio di fette di cervello, nuova metodologia
scientifica attraverso la quale cercò di individuare quelle lesioni al cervello che potevano
essere collegate ai problemi mentali.
Altri autori ipotizzarono che la spiegazione più plausibile fosse da ricercare, non in una
lesione vera e propria, ma in una non ben precisata Disfunzione Cerebrale Minima causata
da traumi perinatali, intossicazione da piombo, o da infezioni cerebrali (DuPaul &
McMurry, 1990), aspetti che però approfondiremo meglio nel corso del secondo capito.
Tuttavia studi e ricerche di approfondimento in materia iniziarono solo a metà degli anni
’40, più specificatamente con l'avvento e la diffusione su larga scala dei concetti di
Sigmund Freud, autore che con le sue idee sulla sessualità e sulla mente inconscia apportò
un impatto notevole nello studio della mente umana, sconvolgendo per certi aspetti ciò che
autori precedentemente aveva affermato. Con Freud infatti per la prima volta il cervello
venne lasciato fuori dalla scena, i processi delle malattie fisiche non furono più considerati
come il primo indirizzo dove cercare la causa delle malattie mentali. La psicologia
freudiana si concentrò sulla mente, intesa come separata dal cervello. Per la prima volta
nella sua storia, la psichiatria non fu più sotto la guida di medici ordinari. Gli psicologi
presero il controllo del campo, concentrando l'attenzione sulla "psiche". La maggior parte
delle malattie mentali, affermavano, derivassero da eventi avversi, come traumi
dell'infanzia, relazioni con i genitori, e esperienze nei primi anni. Non era mai successo che
una specialità medica venisse assunta da operatori non prettamente medici.
In questi anni apparvero le prime pubblicazioni sul trattamento di bambini iperattivi che
riportarono l’efficacia delle amfetamine nel ridurre tali sintomi.
Nel 1952 comparve la prima edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi
Mentali (DSM) pubblicato dall’Associazione degli Psichiatri Americani, tuttavia fu solo
con la revisione della terza edizione del manuale (DSM III-R,1987) che venne usata la
dicitura "Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività", sostituendo la vecchia
51
espressione di “Sindrome infantile da Danno cerebrale” coniata alla fine degli anni ’40, e
mantenuta fino alla fine degli anni 80’.
52
essere considerata causa primaria di tale disturbo, in quanto la maggioranza di essi non
sembrò aver avuto alcun problema di tal genere.
Alla fine degli anni ’90 fu condotto uno studio dal Dipartimento di Neuropsichiatria
Infantile della Seconda Università degli Studi di Napoli (C. Bravaccio, F. D’Amico, E.
Morelli, A. Topatino et altri), in cui venne studiato un campione di soggetti in età evolutiva
con diagnosi di Disturbo da Deficit dell’Attenzione ed Iperattività per valutare le eventuali
alterazioni elettroencefalografiche. I pazienti, tutti di età compresa tra i 6 ed i 12 anni, e con
un livello intellettivo nella norma, furono seguiti periodicamente in regime ambulatoriale.
Alla popolazione di bambini in esame fu effettuata una valutazione EEG in stato di veglia e
sonno dopo privazione, mediante supporto digitale di Video Eeg Recording (Brain Quick
System 98 - Micromed). Solo in una percentuale minore di questi soggetti, la registrazione
EEG in stato di sonno evidenziò la presenza di anomalie significative del tipo punta-lenta
in sede temporo-centrale di sinistra. Nel restante campione l’attività elettrica cerebrale, sia
in stato di veglia che di sonno, era nei limiti della norma.
Barkley diviene uno degli autori che s’interessò più a lungo di questo disturbo sia nei
bambini che negli adulti, diventando nel corso della storia uno dei punti cardine nello
studio dell’ADHD.
53
ovviamente, ambiente familiare, in totale sincronia con l’altro, di cui non condivide però il
patrimonio genetico in modo identico.
Circa il meccanismo specifico con cui i geni interferirebbero con l’attenzione, e
considerando che gli agonisti della dopamina, quale l’anfetamino-simile metilfenidato,
sono i più efficaci agenti terapeutici nel miglioramento del disturbo da deficit di attenzione/
iperattività, si è visto che i geni che codificano per il trasporto della dopamina (sul
cromosoma 5p15.3) e il gene incaricato delle caratteristiche del recettore dopaminergico
D4 (sul cromosoma 11p15.5) sono in correlazione coerente con i risultati della trasmissione
genetica intra familiare di alleli associati al disturbo da deficit attenzione/iperattività.
Ulteriori autori come Eaves, Eysenck e Martin (1989), condussero tra il 1976 e il 1988
circa 36 studi sui gemelli, questi attraverso il metodo model-testing verificarono l’influenza
dell’ereditarietà e dell’ambiente condiviso/non condiviso quali fattori determinanti nella
comparsa dell’ADHD.
In uno studio finlandese a larga scala sui gemelli, si osservò che la somiglianza tra i gemelli
dipendeva dalla frequenza del loro contatto e dall’età di separazione (Rose,Kaprio,
Lavignano, 1988).
Tali studi pertanto, portarono alla conclusione che le componenti che costituiscono il
comportamento iperattivo hanno una base biologica parzialmente indipendente
dall’ambiente.
In America, a partire dal 1980 furono effettuati vari studi sulla correlazione "ADHD e
adozione". Questi presero in esame la relazione tra figli e genitori biologici (influenze
sociali+biologiche) e genitori adottivi (influenza sociale).
Gran parte di questi studi vennero eseguiti prendendo come soggetti campione adolescenti
e adulti, che comunque erano stati adottati poco dopo la nascita ed allevati in famiglie
adottive.
Un primo studio sull’adozione venne condotto nel Minnesota (Scarr, Webber, Weinberg,
1981, in Witting,1988), qui venne individuata una correlazione tra i bambini ed i loro padri
biologici, ma solo una correlazione prossima allo zero con la madre biologica.
54
Nello studio condotto nel Texas (Loehlin, Willerman & Horn, 1985), si osservò una
maggiore correlazione (anche se bassa) tra i soggetti ed i genitori biologici, rispetto a quella
con i genitori adottivi (prossima allo zero); dati che successivamente vennero confermati in
uno degli studi condotti da Eysenck et altri nel 1990.
Da quanto si può osservare dai risultati offerti da tali studi, stranamente nessuna delle
correlazioni apparve significativa, sebbene quella con i parenti biologici tendeva ad essere
lievemente più alta. Tuttavia ancora una volta venne confermata come l’influenza genetica
prevalga sugli effetti dell’ ambiente (adottivo) condiviso nella comparsa del disturbo.
Nel 2000 in studi condotti da un pediatra specializzato nello sviluppo e nel comportamento
dei bambini presso l’Ospedale pediatrico Schneider, il Dott. Andrew Adesman, venne
ulteriormente confermata l’ereditarietà dell’ADHD sottolineando come il 40 % dei bambini
ADHD ha almeno un genitore affetto dallo stesso disturbo; inoltre, altri fattori
influenzerebbero e potrebbero alterare la funzione dell’attenzione, come l'uso di droga o di
alcool durante la gravidanza che porterebbero anche ad una maggiore incidenza di parti
prematuri a loro volta ulteriori fattori di rischio nello sviluppo del disturbo. Lo stesso
autore evidenziò che i bambini adottati dalla Cina, dalla Russia e dall’ Est-Europeo, in
genere, sono più a rischio di sviluppare ADHD per i motivi già esposti e ai quali occorre
aggiungere anche la malnutrizione.
Su questa scia si affianca il lavoro svolto negli Stati Uniti dal Dott. Victor Groza,
Professore del Lavoro sociale presso la Scuola delle Scienze all’Università di Cleveland
nell’Ohio, il quale evidenziò come dal 1990 le adozioni internazionali in America erano
state effettuate soprattutto dall'Europa orientale e centrale (Russia e Romania) e dal 1995
anche dalla Cina. La storia e la cultura di questi paesi sono palesemente differenti, eppure
risulterebbe uguale l'incidenza di ADHD nei bambini adottati da questi paesi e questo
appare giustificato dai simili sistemi di assistenza rivolti verso i bambini adottabili spesso
istituzionalizzati. Tali bambini, il più delle volte non sono orfani ma le condizioni socio-
economiche della famiglia d’origine non permette loro di ricevere un'adeguata assistenza e
per tale motivo vengono istituzionalizzati e resi adottabili. In questo contesto, situazioni di
malnutrizione e assenza di stimolazioni psico-fisiche adeguate verso il bambino su basi
biologiche alterate sono causa di insorgenza di diverse forme di ritardi e di ADHD.
A tal proposito nel 2002, vennero condotti in varie nazioni studi che misero a confronto
l’influenza genetica dei genitori biologici, l’influenza sociale dei genitori adottivi e la loro
interazione nella prevalenza del comportamento criminale nei bambini. Raine et altri
55
(2002) effettuarono una rassegna di 15 studi di questo genere in Danimarca, Svezia e Stati
Uniti, in cui coinvolsero circa 14.000 adozioni. Quasi tutti gli sudi mostrarono come un
genitore biologico con precedenti criminali aumenti significativamente i casi di criminalità
nei figli dati in adozione, anche nel caso in cui non ci siano mai stati contatti. Inoltre, tali
studi suggerirono che il rischio per i figli adottati aumenta linearmente con il numero di
condanne dei genitori biologici, aumento che diviene più drammatico tra i figli di criminali
più cronici; mentre l’avere un genitore adottivo criminale non aumenta la criminalità nei
figli adottati, in quanto la criminalità nei genitori adottivi sembri essere meno comune di
quella dei genitori biologici ed i generale meno grave e meno cronica.
Da quanto si è potuto osservare la maggior parte delle ricerche scientifiche che indagano le
cause di tale disturbo riguardano la genetica. Le ragioni di ciò derivano proprio dai risultati
ottenuti su familiari di bambini con ADHD e dalla genetica molecolare. E’ stato evidenziato
infatti, come il 57% dei genitori di un bambino con ADHD presenta a loro volta lo stesso
disturbo, la percentuale scende al 32% se si tratta di fratelli non gemelli; percentuali che
sono da 6 a 12 volte superiori rispetto all’incidenza del disturbo nella popolazione normale.
Secondo un ampio studio di Goodman e Stevenson (1989), la percentuale di causalità di
tale disturbo attribuibile a fattori genetici si aggira tra il 70% e il 91%, mentre il restante
10%-30% è attribuibile a fattori ambientali. Sembra pertanto plausibile ipotizzare che
l’insorgenza del ADHD sia da attribuire, per la maggior parte, a fattori ereditari. Tuttavia è
importante sottolineare come la gravità, l’evoluzione e la prognosi dei sintomi dipendono
da fattori legati all’educazione e all’ambiente sociale in cui si trova inserito il bambino
(Barkley, 1998), aspetto che approfondiremo meglio nel corso del secondo capitolo.
Accanto pertanto alla causalità genetica, un secondo fattore che toglie ogni responsabilità ai
genitori nell’insorgenza del disturbo è il fatto che la presenza di critiche, rimproveri e
atteggiamenti negativi della madre verso il figlio si attenuano non appena il bambino con
ADHD risponde positivamente al trattamento con farmaci stimolanti. In altre parole, non
sono le critiche, i rimproveri e le incoerenze educative dei genitori a causare il disturbo
(semmai questi rappresentano dei fattori che possono far persistere o aggravare il disturbo),
ma sono i fattori neurobiologici controllati da specifici geni che determinano l’insorgenza
del ADHD.
56
I bambini nati pretermine costituiscono una grossa parte dei bambini con deficit
neurologici maggiori. Ulteriori sequele importanti della prematurità e/o basso peso sono i
deficit sensoriali della vista, meno frequentemente dell’udito e la notevole predisposizione
alle allergie (latte e derivati). Oltre a questi esiti, definiti maggiori, sono riportati in
letteratura disturbi di sviluppo cosiddetti minori che si concretizzano in problemi dello
sviluppo motorio, dell’apprendimento e del comportamento. I numerosi studi di follow-up,
compiuti negli ultimi anni, si sono proposti di valutare in che modo la nascita prematura
possa influenzare lo sviluppo dell’organizzazione della vita mentale del bambino. Pur
essendo i risultati di questi studi poco standardizzabili e generalizzabili (date le notevoli
difficoltà metodologiche), essi sembrano segnalare in modo unanime che i bambini nati
pretermine mostrano di avere difficoltà più o meno intense un po’ in tutte le aree di
sviluppo (alimentazione, ritmi sonno-veglia, organizzazione motoria e utilizzazione del
linguaggio) pur senza presentare quadri patologici chiari. Questi possono essere considerati
fattori predittivi nella nascita ed evoluzione di un disturbo di disattenzione ed iperattività.
La maggior parte dei deficit di sviluppo gravi viene diagnosticata entro il primo anno di
vita del bambino, mentre il riconoscimento delle disabilità minori è più difficile e spesso
avviene solo in età prescolare o scolare.
L’analisi ha rivelato che, rispetto ai bambini nati a termine, quelli nati prematuramente tra
la 34.a e la 36.a settimana gestazionale presentavano un rischio aumentato del 70% di
sviluppare il disturbo da deficit d’attenzione ed iperattività.
Mentre i bambini nati prima della 34.a settimana presentavano un rischio 3 volte maggiore
di sviluppare il disturbo rispetto ai bambini nati a termine.
Inoltre, si osservò che i bambini di basso peso alla nascita presentavano anch’ essi un
rischio aumentato di sviluppare il disturbo da deficit di attenzione ed iperattività.
I nati a termine e di peso corporeo compreso tra 1.5kg e 2.5kg presentavano una probabilità
( 90% ) più elevata di successiva diagnosi di ADHD rispetto ai bambini di peso superiore a
3kg. (Xagena, 2006).
57
2.2.4 Il contributo di Bowlby nell’interpretazione dell’Adhd
58
di un contesto che stimola negativamente il soggetto ( ansia materna, iperprotezione, ecc),
aspetto che approfondiremo meglio nel corso della trattazione del secondo capitolo.
Si stima che le difficoltà di attenzione e iperattività interessino circa una femmina ogni 4-5
maschi.
Da quanto detto si desume che il disturbo abbia una componente biologica innata, e quindi
di natura ereditaria, e una di tipo educativo – ambientale, e quindi appresa con l’esperienza.
Bisogna tenere presente che ognuno di noi sviluppa una propria personalità che dipende dal
proprio patrimonio genetico e dall’educazione ricevuta. Questi due fattori (natura e cultura)
interagiscono tra di loro determinando la personalità di ognuno di noi.
59
Con la seconda edizione del DSM (APA, 1968) l’ADHD (non ancora definito con tale
sigla) veniva denominato con l’etichetta diagnostica “Reazione Ipercinetica del Bambino”.
La scelta di questo termine enfatizzava l’importanza dell’aspetto motorio a scapito di
quello cognitivo. Il termine Ipercinesia deriva infatti dal greco “hyper” cioè eccessivo e
“kinesis”, movimento,moto.
Tuttavia anche nel DSM-II (APA 1968) non venivano specificati i criteri per poter
formulare una diagnosi, anche perché i primi DSM erano manuali descrittivi più che
nosografici.
Il DSM-III (APA, 1980) rappresentò una vera e propria rivoluzione nella procedura clinica-
diagnostica in quanto prevedeva un sistema di valutazione multiassiale con specifici criteri
diagnostici per ogni disturbo; esso inoltre includeva un sistema diagnostico orientato in
senso evolutivo, strutturato specificatamente per i disturbi dell’infanzia. Nel DSM-III, il
termine diagnostico utilizzato per riferirsi al ADHD era “Disturbo da Deficit
dell’Attenzione”. Tale cambiamento nosografico, da Sindrome Ipercinetica a Disturbo da
Deficit dell’Attenzione (DDA), presupponeva un mutamento nella lettura della sindrome, a
vantaggio degli aspetti cognitivi rispetto a quelli comportamentali. Questo mutamento fu
reso possibile soprattutto dagli studi di Virginia Douglas (1972, 1979) la quale sottolineava
la centralità dei deficit cognitivi rispetto a quelli motori.
Nel DSM-III (APA, 1980) venivano descritti due sottotipi di DDA: con o senza Iperattività.
I sintomi previsti erano 16, suddivisi in tre categorie: disattenzione (5 sintomi), impulsività
(6 sintomi) e iperattività (5 sintomi). Secondo tali criteri, il bambino, per essere
diagnosticato con DDA, doveva presentare almeno tre sintomi di disattenzione e tre di
impulsività; mentre se al DDA si associava l’Iperattività allora dovevano essere presenti
almeno altri 2 sintomi.
Nel 1987 fu pubblicato il DSM-III-R, il quale rappresentò forse un retrocedere rispetto alla
precedente edizione, in quanto furono eliminati i sottotipi e fu introdotta l’attuale etichetta
Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività (DDAI). Furono rimosse le tre categorie di
sintomi a favore di un’unica lista di 14 comportamenti in cui disattenzione, impulsività e
iperattività erano considerati di pari importanza per poter formulare una diagnosi di DDAI.
In base al DSM-III-R (APA, 1987) era sufficiente che il bambino manifestasse almeno 8
sintomi in due contesti per almeno 6 mesi per ricevere una diagnosi di DDAI.
Le conseguenze di questi cambiamenti furono che il campione di soggetti con DDAI,
secondo il DSM-III-R (1987), aumentò di circa il 26% rispetto a quelli diagnosticati
60
seguendo il DSM-III (1980). Tale fenomeno fu evidente soprattutto tra i maschi, mentre le
femmine con DDAI sembravano diminuire, in quanto presentavano maggiori
problematiche attentive rispetto a quelle comportamentali (Lahey & Carlson, 1992).
Dalla pubblicazione della terza edizione riveduta del DSM (DSM-III-R), il Disturbo da
Deficit di Attenzione/Iperattività divenne la sindrome infantile più studiata in tutto il
mondo; si stima infatti che in quest’ultimo secolo siano stati pubblicati oltre 6000 tra
articoli scientifici, capitoli e manuali. L’ultima descrizione nosografica del ADHD
appartiene al DSM-IV (1994) che ha ripreso alcune tematiche del DSM-III (APA, 1980),
tra cui la suddivisione dei sintomi in disattenzione, iperattività e impulsività, e la possibilità
di individuare dei sottotipi.
Il DSM-IV distingue tre forme cliniche: inattentiva, iperattiva, combinata. Nel corso dello
sviluppo, lo stesso soggetto può evolvere da una categoria all’altra manifestando nelle varie
fasi d’età le tre differenti dimensioni psicopatologiche in modo variabile. Tutti questi
sintomi non sono causati da deficit cognitivo (ritardo mentale) ma da difficoltà oggettive
nell'autocontrollo e nella capacità di pianificazione, sono persistenti in tutti i contesti e
situazioni di vita del bambino causando una limitazione significativa delle attività
quotidiane.
Il DSM IV fornisce una definizione politematica basata sulla presenza di almeno sei
sintomi evidenti in ciascuna delle due aree compromesse: disattenzione e
iperattività/impulsività.
61
più recente, specifica per il bambino e l’adolescente (OMS, 1997), mantiene il termine di
“sindromi ipercinetiche”.
Tutti gli schemi diagnostici insistono sulla diagnosi differenziale rispetto agli altri quadri
(ritardo mentale, disturbo generalizzato dello sviluppo, disturbi dell’umore, schizofrenia,
ecc.) e sui confini dell’ADHD che, se ben individuati, consentono la diagnosi di
comorbilità.
62
2.3.1 L’Adhd secondo il DSM-IV
Sebbene siano stati compiuti notevoli progressi nelle descrizioni nosografiche del Disturbo,
rimangono numerosi dubbi e perplessità sulla validità di tale diagnosi. In particolare, non è
ancora chiaro se il sottotipo disattento sia veramente una manifestazione dell’ADHD, o se,
invece, rappresenti un disturbo differente, oppure ancora sia la conseguenza di un disagio
psicologico derivante da cause eterogenee. In secondo luogo, le ricerche non hanno ancora
dimostrato se il sottotipo iperattivo-impulsivo sia separabile dal sottotipo combinato oppure
rappresenti una fase precoce di sviluppo del medesimo disturbo che, in concomitanza con
l’ingresso nella scuola elementare, assume la veste del sottotipo combinato (Barkley,
1997).
63
Il manuale richiede che il Disturbo sia pervasivo, cioè che si manifesti in almeno due
contesti (ad esempio a casa o a scuola), e che comprometta in maniera significativa il
funzionamento sociale e scolastico (o lavorativo).
La diagnosi di Sindrome Ipercinetica della Condotta dell’ICD-10 descrive quei casi che,
oltre a presentare i sintomi del Disturbo dell’Attività e dell’Attenzione, manifestano anche
comportamenti aggressivi e/o oppositivi/provocatori. Queste differenze nei criteri
diagnostici dei due manuali spiega la diversità nella frequenza di diagnosi dei disturbi da
disattenzione/iperattività presente tra Nord-America e Europa: i primi infatti prediligono il
sistema dell’APA i secondi quelli dell’OMS.
L’Italia non gode di una tradizione nell’uso di manuali nosografici (se non in quest’ultimo
decennio), pertanto ci troviamo nella condizione di poter tenere conto di entrambe le
descrizioni diagnostiche. Quella più omogenea, che probabilmente descrive un vero e
proprio disturbo, è quella dell’ICD-10, sebbene sia opportuno tenere presente che esistono
circa il 3% di bambini che presentano problematiche attentive, associate o meno a disturbi
di apprendimento, di ansia o dell’umore che non trovano alcuna collocazione all’interno del
manuale ICD-10. Da ciò deriva il fatto che per essi non vengono attivate le necessarie
procedure riabilitative di tipo cognitivo. Ci sembra opportuno sottolineare la necessità di
tenere in considerazione la presenza di questi bambini che necessitano di un aiuto, tanto
quanto quelli con iperattività/impulsività.
Le continue modifiche nelle definizioni e nei rispettivi criteri diagnostici, causano come
vedremo, incertezze classificative con conseguenti differenze nazionali nell’epidemiologia
del disturbo e nella definizione delle strategie terapeutiche.
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_________________________________________________
(1) sei (o più) dei seguenti sintomi di Disattenzione che persistano per almeno 6 mesi con
un’intensità che provoca disadattamento e che contrasta con il livello di sviluppo:
Disattenzione
(a) spesso fallisce nel prestare attenzione ai dettagli o compie errori di inattenzione nei
compiti a scuola, nel lavoro o in altre attività;
(b) spesso ha difficoltà nel sostenere l’attenzione nei compiti o in attività di gioco;
(d) spesso non segue completamente le istruzioni e incontra difficoltà nel terminare i
compiti di scuola, lavori domestici o mansioni nel lavoro (non dovute a comportamento
oppositivo o a difficoltà di comprensione);
(f) spesso evita, prova avversione o è riluttante ad impegnarsi in compiti che richiedono
sforzo mentale sostenuto (es. compiti a casa o a scuola);
(g) spesso perde materiale necessario per compiti o altre attività (es. giocattoli, compiti
assegnati, matite, libri, ecc.);
(2) sei (o più) dei seguenti sintomi di Iperattività-Impulsività che persistono per almeno 6
mesi ad un grado che sia disadattivo e inappropriato secondo il livello di sviluppo:
Iperattività
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(a) spesso muove le mani o i piedi o si agita nella seggiola;
(b) spesso si alza in classe o in altre situazioni dove ci si aspetta che rimanga seduto;
(c) spesso corre in giro o si arrampica eccessivamente in situazioni in cui non
è appropriato (in adolescenti e adulti può essere limitato ad una sensazione soggettiva di
irrequietezza);
(d) spesso ha difficoltà a giocare o ad impegnarsi in attività tranquille in modo quieto;
(e) è continuamente “in marcia” o agisce come se fosse “spinto da un motorino”;
(f) spesso parla eccessivamente;
Impulsività
(g) spesso “spara” delle risposte prima che venga completata la domanda;
(i) spesso interrompe o si comporta in modo invadente verso gli altri (es. irrompe nei giochi
o nelle conversazioni degli altri).
C. I problemi causati dai sintomi devono manifestarsi in almeno due contesti (es. a scuola
[o al lavoro] e a casa).
D. Ci deve essere una chiara evidenza clinica di una significativa menomazione nel
funzionamento sociale, scolastico o lavorativo.
66
314.01 Disturbo da Deficit Attentivo con Iperattività, Tipo Iperattivo-Impulsivo: se il
criterio A2 ma non il Criterio A1 è stato incontrato negli ultimi 6 mesi.
____________________________________________________________
Tabella 1 Sintomi e criteri diagnostici secondo il DSM-IV (APA, 1994).
Abbiamo potuto osservare come fino agli anni Settanta, nell’ambito della ricerca scientifica
americana, l’ADHD era considerata un disturbo del comportamento senza evidenti
compromissioni sia nella sfera cognitiva che emotiva, mentre in Italia, la lettura del
problema subiva l’influenza delle teorie psicoanalitiche. Su posizioni diametralmente
opposte si ponevano l’approccio americano e quello dei clinici italiani: i primi
diagnosticavano un Disturbo comportamentale, senza cercar alcuna ulteriore spiegazione,
mentre i secondi tentavano di rinvenire alla base del comportamento problematico una
causa legata ad un difficile rapporto con la madre, negando il semplice fatto che il bambino
potesse essere predisposto a sviluppare l’ADHD.
Con il nuovo millennio in Italia sono aumentate le diagnosi di ADHD come conseguenza di
un incremento della sensibilità nei confronti dell’ADHD: le richieste di genitori e
insegnanti privi di risorse e strategie per gestire i comportamenti disturbanti dei bambini
con ADHD si fanno sempre più pressanti verso gli specialisti. Per questo motivo una parte
sempre più numerosa di clinici riconosce che i modelli classici di interpretazione del
disagio infantile (soprattutto quelli derivanti dalla psicoanalisi) difficilmente forniscono
strumenti adatti per comprenderlo e fronteggiarlo, e che le psicoterapie dinamiche si
appaiono sempre meno idonee a fornire adeguata soluzioni in questo settore. Nonostante in
Italia si stia recentemente affermando questo diverso approccio al problema, accade ancora
frequentemente che alcuni specialisti ritengano i disturbi del bambino con ADHD
riconducibili ad una situazione familiare affettivamente carente, e, di conseguenza curabili,
con una maggiore attenzione ai figli da parte dei genitori.
Recentemente quindi, è stata rivolta grande attenzione a questa patologia, alla sua eziologia
e ai trattamenti, e ha suscitato talmente tanto interesse non solo in ambito medico, ma
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anche da parte dei media, che è aumentata la consapevolezza della sua esistenza ed alcuni
temono persino che possa essere diagnosticata in eccesso.
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