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LAURA ARCANGELI
II LEZIONE – 08 / 02 / 2018
Iniziamo riprendo il concetto del modello di classificazione della salute ICF. Mentre l’ICD - 10
(lezione precedente) va a tracciare i fattori eziologici, che producono la patologia, l’ICF non si
interessa di classificare le patologie. Nel testo non troviamo mai le patologie. E la disabilità, come
intreccio di tutti gli elementi (presenti nel grafico), perché c’è un rapporto circolare tra i vari
elementi (mentre avevamo visto che l’ICD10 era un rapporto unidirezionale; freccia di
menomazione – disabilità – handicap), qui è completamente ribaltata, a 360°, perché prima di
tutto la disabilità è vista dentro il concetto di salute. Che vuol dire la disabilità dentro il concetto di
salute? Che ci sono molte persone con disabilità, anche gravi, che hanno un livello di equilibrio bio
– psico - sociale molto più alto di qualcuno di noi. Quindi non è la disabilità l’unico elemento che
va a determinare la non salute. All’inizio avevamo visto la salute come assenza di malattia: la
disabilità non è una malattia. Perché la disabilità è caratterizzata da una menomazione
permanente, quindi che non ha un decorso. Può aggravarsi, questo si. Quindi l’ICF – che, a
differenza delle altre classificazioni, è uno strumento straordinario per il mondo della scuola -
assume quello che viene definito il paradigma bio – psico – sociale. Molto spesso la disabilità è
affrontata solo attraverso il modello medico. Che vuol dire che la disabilità è affrontata solo
attraverso il modello medico? Che viene focalizzato il disturbo, che tende a mettere in secondo
piano l’identità plurale della persona. (ricordiamo che ogni identità di ciascuno di noi è plurale).
Molto spesso, nel modello medico, la lettura della persona è fatta soltanto in termini che la
disabilità, che è un elemento molto importante della sua identità, diventa il tutto. Cioè, una parte
diventa il tutto. E questo produce stereotipi e pregiudizi (esempio di dare del tu anche a persone
adulte, con disabilità, quando in condizioni normali ad un adulto diamo del lei. Non si riesce a
vedere la persona con disabilità come persona adulta. Rimangono sempre degli eterni ragazzini.
Errore micidiale del mondo della scuola). Se io mi approccio solo con il modello medico, cosa
consegue in termini educativi? In termini educativi consegue che adotto quel concetto che
abbiamo definito, lunedì, di normalizzazione. Pensiamo a coloro che insegnano. Quando c’è
l’accettazione vera dell’alunno con disabilità? Quando comincia ad assomigliare sempre più al
cosiddetto normale. Noi facciamo una difficoltà enorme ad accogliere all’interno della classe la
diversità (concetto di diversità e di differenza plurale). Facciamo una gran fatica ad accettarlo. E
allora l’educazione diventa tutte quelle modalità, strumenti, ecc. che portano il soggetto a non
essere un problema. Perché laddove lo vivo come problema, delego totalmente l’insegnante
specializzato ad assumersi la responsabilità dell’alunno con disabilità, non capendo molte cose. La
scelta italiana della scuola comune per tutti, è stata sì una scelta anche spinta profondamente da
ideologie, ma che si basa anche su verità scientifiche. E che cosa significa per questi ragazzi
frequentare una scuola comune, o essere relegati in una istituzione speciale. È una scelta di non
ritorno. È una scelta però che non è assolutamente compiuta. L’inclusione di questi ragazzi è a
macchia di leopardo. Ci sono delle istituzioni che hanno veramente lavorato bene, dove si può
parlare veramente di scuola inclusiva, e ci sono situazioni che fanno accapponare la pelle. Quindi
c’è una difficoltà. Questa difficoltà è legata anche al fatto che tutti questi anni la legge 517, che è
una legge che parlava di valutazione (quindi non è nata, nel ’77, sui temi della disabilità ma sulla
valutazione) ma parla di attività di sostegno e parla dell’accoglienza di tutti, di una scuola aperta a
tutti; diceva, Don Milani, che la scuola che espelle quelli che hanno maggior bisogno (lui non
parlava solo dei disabili, ma parlava anche degli ultimi), una scuola che espelle quelli, è una scuola
che non ha ragione di esistere, perché gli altri vanno avanti comunque, nonostante la scuola.
Identità plurale del soggetto. Quindi, da una parte questo approccio medico. Alla fine degli anni 70
ha preso molto piede, e tutt’ora, con un movimento di cui parleremo quando faremo i modelli,
(riferimento al concetto dei modelli dei capability study proposto dal ministero dell’istruzione) il
modello sociale. Alla fine degli anni 70, anche una certa cultura che ha portato, per esempio, alla
chiusura dei manicomi, quindi alla deistituzionalizzazione (movimento definito di
deistituzionalizzazione), ha fatto sì che ci fosse una forte spinta per chiudere le scuole speciali, che
esistevano, e le classi differenziali. Classi differenziali che erano nate con un buon intento: cioè
dire “facciamo frequentare per un anno / due anni, a questi studenti che trovano maggiore
difficoltà, una classe dove ci sono persone specializzate a far si che questi alunni possano
recuperare le lacune che hanno, ma per poi rientrare nelle classi comuni”. Una volta che entravi
nelle classi differenziali, rimanevi per sempre, non ti muovevi più. Quindi questo movimento di
lotta contro l’istituzionalizzazione è stato molto importante e significativo. Quindi c’è stato questo
movimento, che intendeva la disabilità come prodotto delle barriere sociali. Per esempio, alcuni si
spinsero a dire che la malattia mentale non esisteva, ma era il contesto sociale che provocava il
disagio. Cioè a dire, è causa, va addebitata la colpa al contesto sociale nei processi di
disabilitazione delle persone. E certamente le strutture manicomiali producevano questo; e molte
scuole speciali (era una vita da lager). (Realtà drammatica di segregazione delle persone). Questa
spinta, forse anche eccessiva, di reputare la causa delle disabilità di queste persone al contesto
sociale, a volte ha raggiunto forse degli estremi. Però c’è del vero anche in questo. (esempio del
diritto dei cosiddetti normali di “decidere” per i disabili). Le barriere, in questa prospettiva sociale,
non sono considerate solo come ostacoli, ma proprio come fattore causale di bisogni educativi
speciali. Allora cosa mi dice l’ICF, perché è considerata una rivoluzione quella che porta l’ICF?
Siamo nel 2001. L’importanza dell’ICF, innanzitutto, è che assume il paradigma bio – psico –
sociale. Cioè, supera la dicotomia tra il modello medico e il modello sociale, ma l’intreccia, li
riconnette in un paradigma (il paradigma è un vertice interpretativo della realtà) bio - psico -
sociale; cioè a dire la persona può essere considerata nel suo funzionamento solo se teniamo
conto dell’intreccio che c’è tra l’elemento bio, cioè il suo Dna, le sue strutture corporee, quello che
è dal punto di vista fisico, biologico, genetico, con lo psico, cioè con la costruzione di un sé, di
un’identità, di emozioni, di affetti, che sono molto legati certamente all’esperienze di vita che ha
fatto. E al sociale, cioè al contesto sociale; in base a quello che i contesti sociali (esempio della
persona che nasce cieca) e delle stereotipie anche motorie che può assumere, se non c’è
un’educazione che sia calibrata alle sue esigenze. Nell’ICF scompare il termine disabilità e
handicap sostituiti da attività e partecipazione.
Visione delle slide
1) Le strutture corporee: sono tutti gli elementi che costituiscono la nostra fisicità.
2) Le funzioni. Abbiamo fatto un esempio. Il rene è una struttura che ha delle funzioni. A volte noi
il danno lo troviamo a livello strutturale. In alcune situazioni di disabilità, io non ritrovo un danno a
livello strutturale. Ad oggi, stante la scienza ad oggi, nei soggetti con spettro autistico voi potete
cercare in tutte le carte che volete, non trovate danni a livello celebrale. Alcuni, difficoltà a livello
disabilità intellettive – cognitive, non trovate danni; in altre si. Allora, evidentemente, il problema
non è a livello strutturale, ma è a livello delle funzioni. E proprio le funzioni, e l’ICF lo specifica – e
questo è molto importante, perché quando parliamo del cognitivo diciamo funzionamento
cognitivo, e ci sembra di aver detto tutto, in realtà non abbiamo detto niente – riguarda, per
quanto attiene al funzionamento della mente, sia le funzioni mentali globali, che sono la
conoscenza, l’orientamento, funzioni intellettive, psico – sociali, le attitudini, il temperamento, la
personalità, l’energia, le pulsioni, il sonno, ma anche le funzioni mentali specifiche, l’attenzione, la
memoria e qui la prof. si ferma, perché l’CF poi, negli indicatori, nella declarazione che fa di
ognuno di questi aspetti, mi dice sulla memoria “attenta”, ma di quale memoria parli, l’attenzione:
di quale attenzione parli. Cioè, quando esprimi un giudizio su alunno e mi dici “ha una scarsa
capacità di attenzione”, ma di quale attenzione stai parlando: a breve, a lungo o a medio termine?
Intanto, la prima grossa distinzione, perché non si può parlare di attenzione in questo modo
generico. Allora, dove ha difficoltà questo alunno? In quella a breve, in quella a media, in quella a
lunga, in tutte e tre, in due di queste? E poi, va ulteriormente a specificare su quella a breve, su
quella a media, e su quella a lunga. L’ICF aiuta quindi anche ad esprimere valutazioni. Parliamo
quindi di stili cognitivi. Ogni insegnante dovrebbe trovare il proprio, e poi trovare quello degli
alunni. La formazione di un insegnante si gioca su questo. Vedremo poi l’UDL, cosa ci propone, in
linea molto su quello che dice l’ICF.
1) Disabilità
2) Disturbi evolutivi specifici
3) Svantaggio socio – economico e linguistico e culturale