La maniera più comune d’intenerire il cuore di coloro che abbiamo offeso quando, avendo in mano la vendetta, ci tengono alla loro mercé, è di muoverli a compassione e a pietà con la sottomissione. Tuttavia la spavalderia e la fermezza, mezzi del tutto opposti, hanno talora servito a questo medesimo effetto. Edoardo, principe di Galles, che governò tanto a lungo la nostra Guienna, personaggio il cui rango e la cui fortuna hanno molti onorevoli aspetti di grandezza, era stato gravemente offeso dai Limosini, e avendo preso la loro città con la forza, non poté essere fermato dalle grida del popolo, delle donne e dei fanciulli abbandonati al macello, i quali gettandoglisi ai piedi gli chiedevano mercé: finché, inoltrandosi sempre più nella città, scorse tre gentiluomini francesi che con incredibile ardire sostenevano da soli l’urto del suo esercito vittorioso. […] E assolutamente contro i miei primi esempi, il più ardito degli uomini e tanto benevolo verso i vinti, Alessandro, avendo preso con la forza, dopo molte grandi difficoltà, la città di Gaza, incontrò Beti che la comandava e del cui valore egli aveva avuto, durante quell’assedio, prove meravigliose: il quale, solo, abbandonato dai suoi, con le armi in pezzi, tutto coperto di sangue e di ferite, combatteva ancora in mezzo a parecchi Macedoni che lo colpivano da ogni parte. E inasprito da una vittoria ottenuta a così caro prezzo, poiché, fra gli altri danni, egli stesso aveva poco prima ricevuto due ferite, gli disse: «Non morirai come volevi, Beti: sta’ certo che dovrai sopportare tutti i tormenti che si potranno inventare contro un prigioniero». L’altro, con una espressione non soltanto sicura, ma superba e altera, non fece motto a tali minacce. Allora Alessandro, vedendo il suo fiero e ostinato silenzio: «Ha forse piegato un ginocchio? Gli è sfuggita qualche parola supplichevole? In verità, vincerò il tuo mutismo; e se non posso strapparne delle parole, ne strapperò almeno dei gemiti». E volgendo la sua collera in rabbia, ordinò che gli si forassero i calcagni e così, vivo, lo fece trascinare, dilacerare e smembrare attaccato dietro a un carretto. L’ardire gli era forse tanto familiare che non ammirandolo lo rispettava di meno? O lo stimava a tal punto suo proprio che in tale grandezza non poté sopportare di vederlo in un altro senza il disappunto d’un sentimento d’invidia. Oppure la naturale irruenza della sua collera non poté tollerare alcuna opposizione. Invero, se avesse potuto tollerare un freno, è da credere che ciò sarebbe avvenuto nella presa e nello sterminio della città di Tebe, alla vista di tanti valorosi, perduti e senza più alcun mezzo di pubblica difesa, passati crudelmente a fil di spada. Di fatto ne furono uccisi ben seimila, e non se ne vide alcuno fuggire o domandar grazia, cercando al contrario chi da una parte, chi dall’altra, per le strade, di affrontare il nemico vittorioso, provocandolo affinché li facesse morire di morte onorevole. Né se ne vide alcuno a tal punto spossato per le ferite che, all’ultimo respiro, non tentasse ancora di vendicarsi; e col coraggio della disperazione, di trovar consolazione alla propria morte nella morte di qualche nemico. Così la mortificazione della loro virtù non suscitò alcuna pietà, e non bastò la lunghezza d’un giorno a saziare la sua vendetta. Durò quel macello finché si trovò una goccia di sangue da spargere, e non si fermò che davanti ai disarmati, vecchi, donne e bambini, per farne trentamila schiavi.