Sei sulla pagina 1di 33

MODULO

NOME DEL MODULO


Pedagogia,  formazione     e  società
NUMERO DI CFU-CREDITI DEL MODULO
A CURA DEL COORDINATORE DEL MODULO

GIUDITTA ALESSANDRINI
Professore ordinario di Pedagogia Sociale, Pedagogia del Lavoro e Pedagogia delle risorse umane
e delle organizzazioni presso l’Università degli Studi di Roma 3. È Presidente del Corso di Laurea
Magistrale Interclasse “Scienze Pedagogiche e Scienze dell’Educazione degli Adulti e Formazione
Continua”. È direttore del Master universitario di I livello HR SPECIALIST. È membro del GLOA
(Gruppo di lavoro per l’orientamento in Ateneo). Dirige il CEFORC del Dipartimento di Scienze della
Formazione (Roma Tre). E’ autrice di numerosi volumi, tra i quali: Comunità di pratica e società della
conoscenza (Carocci, Roma 2007); Formare al management della diversità (Guerini, Milano 2010);
Manuale per l’esperto dei processi formativi (Carocci, Roma 2005/2011); La formazione al centro
dello sviluppo umano. Crescita, lavoro, innovazione (Giuffrè, Milano 2013); La pedagogia di “Martha
Nussbaum”. Approccio alle capacità e sfide educative (Franco Angeli, Milano 2014)
INTRODUZIONE/SINTESI ORIENTATIVA DEL MODULO
A CURA DEL COORDINATORE DEL MODULO

OBIETTIVI FORMATIVI GENERALI (DEL MODULO)


A CURA DEL COORDINATORE DEL MODULO

INDICE DELLE UNITÀ DI STUDIO ON-LINE


A CURA DEL COORDINATORE DEL MODULO
UNITA’ DI STUDIO

NOME DELL’UNITÀ DI STUDIO


Pedagogia della Formazione

NUMERO DI CFU DELL’UNITÀ


………

OBIETTIVI FORMATIVI

In questa unità di studio impareremo a:

• Comprendere le motivazioni teoriche dello sviluppo di una


“Pedagogia della formazione” in riferimento al dibattito
culturale ma anche agli scenari europei relativi all’evoluzione
del diritto all’apprendimento, al welfare formativo, ed alle
esigenze di sviluppo di un management education nella
scuola;

• Comprendere come elaborare proposte e strumenti per lo


sviluppo dell’attività formativa anche in riferimento al contesto
scolastico nelle sue diverse fasi;

• Comprendere – pur sinteticamente – l’evoluzione degli


scenari della formazione professionale rispetto al quadro
normativo più recente anche in riferimento alle opportunità di
formazione finanziata;

• Acquisire un approccio orientato all’analisi dei processi di apprendimento con particolare


riguardo allo sviluppo delle “competenze” dei soggetti da formare per gestire processi di
innovazione e miglioramento organizzativo nella scuola;

• Promuovere la capacità di rilevazione delle esigenze formative in rapporto alle istanze e ai


progetti di innovazione emergenti nel contesto locale anche in rapporto alle reti di scuole e
del territorio;

• Comprendere nei suoi diversi aspetti il concetto di “competenza” nel contesto dei nuovi
scenari che caratterizzano il rapporto tra apprendimento e lavoro;

• Acquisire una comprensione delle condizioni in cui opera un formatore: le sue competenze
di ruolo, i suoi “saperi” e le declinazioni delle sue competenze;

• Comprendere l’approccio relativo ad una formazione intesa come “apprendimento


organizzativo” nei contesti scolastici /formativi.
INDICE DEI CONTENUTI DELL’UNITÀ

Introduzione

1. AREE ED AMBITI DELLA PEDAGOGIA DELLA FORMAZIONE


1.1 Significato della “formazione” tra tradizione ed innovazione
1.2 Formazione professionale come contesto di lavoro del formatore

2. I SAPERI DEL FORMATORE


2.1 Il contesto di riferimento
2.2 Formazione continua e welfare educativo
2.3 Le competenze del formatore
2.4 Il formatore come consulente
2.5 Formazione continua e piani formativi
2.6 L’orientamento alla professione come competenza dei docenti

3. DIMENSIONI-CHIAVE DELLA FORMAZIONE


3.1 Apprendimento organizzativo nella scuola
3.2 Le tipologie dei processi di apprendimento organizzativo
3.3 Quale domanda di pedagogico nella formazione degli adulti nelle organizzazioni

Note di riferimento

Autoverifica dell’apprendimento

Bibliografia e Sitografia
SVILUPPO DEI CONTENUTI

INTRODUZIONE

Questa dispensa è dedicata ad un’area della pedagogia generale che possiamo definire
“pedagogia della formazione”.
Sottolineo in premessa che la pedagogia come disciplina è un sapere necessariamente
teorico-critico caratterizzato da un forte carattere emancipativo-trasformativo. Ciò significa che la
pedagogia, pur innestata in un costrutto teorico rigoroso, si presenta come un sapere pratico teso
alla formazione delle condizioni per la crescita del soggetto-persona nella sua dimensione
individuale ed intersoggettiva.
Come leggere, dunque, la formazione come categoria pedagogica? Quali le accezioni di
significato che le competono? Quali le dimensioni interpretative?
A quale domanda di senso risponde una “pedagogia della formazione”? Quali sono le
competenze e le responsabilità di coloro che svolgono la professione di formatore nei contesti
formativi? Con quali finalità ogni organizzazione – e quindi anche la scuola – può attivare
processi di crescita delle persone sia a livello individuale che collettivo?
L’interesse da parte di chi opera nella scuola nei confronti di questa area della pedagogia è
motivata da tre ordini di considerazioni: a) l’emergere di una nuova domanda di formazione
relativa alle competenze professionali nella scuola a partire dal riordinamento giuridico relativo
all’introduzione del quadro dell’autonomia con particolare riguardo alla figura del dirigente
scolastico; b) l’emergere di nuove istanze nell’ambiente sociale ed economico che
“premono“ sulla vita della scuola (l’emergenza della disoccupazione nelle sue diverse forme, la
progressiva caratterizzazione multiculturale delle popolazioni giovanili); c) il consolidarsi di una
prospettiva pedagogica di apprendimento permanente (life long learning) che postula nuove
domande implicite ed esplicite e forme nuove di life long guidance.
Occorre a questo punto del discorso tornare un po’ indietro per ricostruire il percorso di
definizione di una pedagogia della formazione: è solo relativamente di recente che nella cultura
italiana si è verificato quello che potremmo definire il difficile incontro tra “formazione e
pedagogia” ovvero una riappropriazione pedagogica del terreno della formazione. Le pregiudiziali
di fondo che disseminavano entrambi i sentieri delle due aree hanno reso difficile l’avvio di un
processo di riappropriazione da parte della pedagogia dello studio di una categoria
logico-concettuale fondamentale. La “riscoperta” da parte della cultura pedagogica delle diverse
piste possibili nell’area della “formazione” (l’educazione degli adulti, la pedagogia sociale e del
lavoro, il versante metodologico e didattico) sta finalmente negli ultimi anni costruendo un terreno
per certi versi nuovo e stimolante che possiamo sicuramente individuare nella sua consistenza
dal punto di vista della teoria della formazione.
La critica che spesso è avanzata agli studi relativi alla formazione scorge il rischio di una visione
ingenua e riduttiva, talvolta con un approccio retorico e prescrittivo della formazione come mero
adattamento dei soggetti ad esigenze predefinite ed in qualche modo preordinate dall’esterno.
È a partire dal ”passaggio” della pedagogia generale ad approccio centrato sulle scienze
dell’educazione, che si determina un “cambio” di paradigma epocale ed irreversibile. Grazie a
tale passaggio (di indubbia natura epistemologica oltre che storica) il tema della formazione
acquisisce maturità ed enfasi nel contesto delle discipline pedagogiche.
Questo passaggio ha recato con sé però alcuni rischi; ad esempio l’appiattimento del discorso
pedagogico su un tipo di letteratura prevalentemente descrittiva e caratterizzata da una certa
enfasi “retorica”.
Il rischio della “retoricizzazione”, in effetti, svuota l’universo del discorso pedagogico di due
elementi fondanti ed essenziali come la dimensione analitica rigorosa e la
“problematizzazione”.
Come definire dunque la formazione? Questo discorso, che riprenderemo più avanti nel testo (si
veda il paragrafo 3), si innesta su una riflessione di ambito generale sulla processualità e
sull’intenzionalità formativa. Queste due categorie sono fondamentali, infatti, per definire la
specificità della formazione.
Enfatizzare la categoria “formazione” significa riscoprire la tensione verso l’identità problematica
della pedagogia generale e sociale. Ciò significa scorgere le dimensioni critiche e
tendenzialmente antinomiche correlate all’idea di sviluppo. In altri termini, il processo di crescita
della persona può essere autonomo e spontaneo o condizionato da interventi educativi
dall’esterno e dall’alto? Si tratta di temi di grande spessore e problematicità su cui si é innervata
la storia della pedagogia nelle sue diverse elaborazioni teoriche.
La formazione è definita come “categoria reggente del pedagogico” (Cambi, 1999), come asse
alternativo sia al modello filosofico tradizionale che a quello delle scienze dell’educazione.
La formazione può essere definita come la “processualità educativa” inerente alla dialettica tra
soggetto ed oggettività culturale e sociale.
L’enfasi sul rapporto tra l’idea di formazione ed il costrutto della persona é un motivo centrale di
alcune argomentazioni ampiamente sostenute da molti autori, al di là degli steccati che
denotano gli ambiti teorici e le “scuole” .
La prospettiva “personalistica” – ad esempio –, al di là delle sue diverse forme ed espressioni
(Maritain, 1995; Mounier, 1964; Stefanini, 1952) vede l’istanza dell’autorealizzazione personale
come istanza centrale dell’evoluzione educativa del soggetto. Elemento cardine dell’impianto
personalistico è l’attenzione alla estrinsecazione del valore e della dignità del soggetto, nella sua
unicità ed irriducibilità.
La lezione del personalismo si può tradurre in chiave di lettura di un agire professionale di diverso
segno e valore rispetto ad ambiti prevalentemente tesi alla dimensione tecnico-ingegneristica.
La professionalizzazione di un insegnante non è solo possesso di tecniche ma anche stile di
comportamento, capacità di “suscitare” fattori di crescita e apertura mentale negli allievi.
La lezione “personalistica” – come ha rilevato Cesare Scurati –, si articola in alcuni nodi che si
innescano in quella che possiamo definire l’area tematica centrale della pedagogia sociale
(Scurati, 91, pag. 388): l’orientamento verso un umanesimo integrale, in grado di rispettare
l’esperienza umana nei suoi limiti e nella sua natura; l’attenzione al rispetto della libertà come
caratteristica determinante dell’uomo nella storia; la convinzione dell’esigenza di dar risalto
sempre e comunque ad una visione non strumentale ma assiologica delle finalità educative.
Un elemento cardine per i processi formativi nella scuola è il sostegno allo sviluppo di una cultura
formativa della condivisione in una prospettiva “di processo” che superi la visione meramente
disciplinare per giungere ad un approccio più ampio che veda fondamentale la generazione di
una comunità coesa e consapevole, in grado di generare alleanze con altri attori formativi
anche ai fini della partecipazione alle opportunità di innovazione emergenti a livello europeo
come il programma Erasmus + e Youth Garantee.
1. AREE ED AMBITI DELLA PEDAGOGIA DELLA FORMAZIONE

1.1 Significato della “formazione” tra tradizione ed innovazione


A partire dalla metà degli anni novanta, assistiamo ad una consistente ripresa dell'attenzione ad
una riflessione teorica sulla formazione in ambito pedagogico (1) (Alessandrini, 1998; Cambi,
Fraunfelder, 1994; Cambi, Orefice, 1996). Va sottolineato il fatto che l'oggetto “formazione",
negli anni del suo progressivo affermarsi come prassi metodologicamente orientata nei vari
contesti relativi agli ambiti aziendali e professionali, è stato prevalentemente terreno di interventi
di tipo metodologico o valutativo. La "modellizzazione" dell'agire formativo è stato un campo
lasciato per così dire prevalentemente agli psicologi ed ai sociologi (2). La forte centratura della
riflessione teoretica sui temi dell'educazione nell'età evolutiva o della scuola (anche come
approccio teorico-didattico) ha "esonerato" i pedagogisti – soprattutto nel contesto italiano e fino
agli anni novanta – dall'impegno in una riflessione d tipo fondativo su una teoria della formazione
a tutto campo. A partire dalla metà degli anni novanta – viceversa – il dibattito su questi temi si
avvia con una certa vivacità. Bocca (2000, pp.88-89) sottolineò ad esempio "una possibile
ripensabilità della formazione all'interno del perimetro di interesse della pedagogia – in quanto
scienza che riflette attorno alla relazione educativa – rendendo conto delle problematiche
emergenti dalle esperienze in atto nella società e in continuità con il ricco patrimonio
storico-culturale articolatosi attorno al suo intrinseco legame con la piena educazione dell'uomo".
È indubbio che il tema della società cognitiva – oggetto negli ultimi quindici anni di riflessione –
ha costituito un "detonatore" per dare ossigeno ad una lettura - tendenzialmente sistematica - dei
significati e dei paradigmi possibili di coniugazione "pedagogica" della categoria " formazione".
La consapevolezza della complessità dei fattori in gioco nell'apprendimento "adulto" rende
necessario il bisogno di interpretazione del "senso" della formazione in rapporto al problema del
pieno sviluppo della persona nel contesto di una società che sembra interpretabile sempre più
nei termini di “società del rischio”, di incertezza e complessità.
Il termine “formazione” ha due etimologie che vanno ricordate anche perché emblematiche
dell’accezione di significato più ampio ad esso correlato. “Formazione” deriva infatti
dall’etimologia classica latina (“forma“) e greca (“morfé”): la prima ha un’estensione di significato
che postula il richiamo ad attività specifiche di “formazione” in quanto condizionamento, la
seconda implica soprattutto un ”modo di essere” in quanto autosviluppo. Si comprende come il
significato correlato al “formarsi autonomo” (morfé) ed all’essere formati” (forma) sono in rapporto
specifico ed interagente. È dalla matrice semantica del termine “formazione” che emerge, quindi,
la ragion d’essere di quella querelle irrisolta relativa alla sovrapponibilità, dell’idea di
autoformazione e di formazione.
La “Bildung” è sviluppo e conformazione, processo tensionale e dinamico volto verso un
“modello” (al quale, appunto, confarsi); per certi versi però è anche “disvelamento” e non solo
effetto di pratiche empiriche agite dall’esterno nei confronti dell’individuo (Alessandrini, 1998).
La “Paideia”, invece, è il fine stesso dell’educazione, l’ideale di perfezione morale, culturale e di
civiltà cui l’uomo deve tendere. Secondo il modello ispiratore emergente dal pensiero filosofico
greco, che da Platone e Socrate al tardo ellenismo ha assunto varie sfumature, il raggiungimento
della paideia è frutto di un processo continuo, mai compiuto, che impegna tutto l’uomo, ma
attraverso cui questi realizza pienamente sé stesso come soggetto autonomo, consapevole di sé
e in armonia col mondo.
Due polarità si coniugano a partire dalla riflessione sviluppata dalla pedagogia occidentale nella
sua maturità: la formazione come “crescita ontologica dell’essere”, e la formazione come attività
del soggetto nel suo sviluppo storico attraverso processi di continua interazione e costruzione di
senso attraverso processi di socializzazione integrata. La rilettura della seconda di queste due
polarità si snoda in un asse, che partendo dalla riflessione kantiana, giunge all’idealismo
moderno, e che, ancora, rielaborato dalla lettura hegeliana giunge fino all’analisi ermeneutica. Si
può affermare che il problema della formazione può identificarsi in effetti sia con il paradigma
dello sviluppo organico che con quello dell’emergenza della soggettività ed, infine, del rapporto
tra persona e cultura (Alessandrini, 2003) (3).
Vediamo ora di argomentare intorno alle finalità della formazione rispetto ai contesti organizzativi.
Internamente alla formazione (intesa come sapere pratico) si incontrano, o per meglio dire si
scontrano, due “anime”: la tendenza alla trasformazione, al cambiamento, al “disapprendimento”
fa da contraltare alla conservazione e memorizzazione del contributo “storico” che le
organizzazioni (core business, mission) affidano ai loro membri come fattori essenziali per la
conservazione della loro identità (un insegnante, un funzionario, un leader).
Ogni attore organizzativo dovrebbe interpretare il suo duplice ruolo di trasmettitore-testimone
della storia organizzativa (con i suoi simboli, le sue expertises) e di attivatore di processi di
cambiamento.
Alla leadership scolastica si è sempre chiesto di “mantenere aggiornata la scuola negli intenti e
nei modi di operare e di coordinare l’azione educativa con gli altri programmi educativi della
comunità” (Fawcett, 1968).
A qualche decennio di distanza da questa affermazione non si può che sottolineare l’urgenza
delle istanze formative a fronte di un contesto esterno alla scuola sempre più dinamico, incerto e
turbolento a seguito delle trasformazioni economiche, tecnologiche e demografiche intervenute.
Apprendere è una necessità cogente per chiunque operi in un’organizzazione.
Il costo del “non apprendimento” o, per converso, della mancata conservazione di identità in
un’organizzazione, potrebbe essere molto alto, perché potrebbe significare incapacità di far
fronte alla sfida del cambiamento. Questa riflessione riguarda sia gli ambiti scolastici e formativi,
che quelli della sanità, e dei servizi.
La domanda che occorre porsi, allora, è la seguente: sono capaci di apprendere le
istituzioni/organizzazioni in qualunque settore esse operino? Secondo quale modalità avviene il
flusso di trasmissione e creazione di conoscenze sul lavoro? Quando e come è ostacolato?
Come il sapere individuale, promosso e sviluppato attraverso la formazione tradizionale, si
traduce in innovazione?
Pensando allo specifico dell’istituzione scolastica occorre far riferimento agli studi di
management education (Musgrave, 1969; Scurati & Ceriani, 1994); in questo contesto occorre
ricordare che la scuola deve essere vista come organizzazione aperta, disponibile ad interazione
continue con l’ambiente esterno, mirando al mantenimento flessibile dei propri confini con esso.
L’apertura all’innovazione è una delle caratteristiche funzionali fondamentali sia per la
sopravvivenza che per l’adattamento.
Potremmo scoprire, con gli strumenti della ricerca empirica, che intensità e direzione delle
strategie formative, effetti e risultati non si sovrappongono coerentemente a processi di
formazione intenzionale. Saremmo di fronte al superamento dell’idea di simmetria e
corrispondenza tra apprendimento e formazione?
Indubbiamente, se entriamo nella logica dell’apprendimento organizzativo, di fatto ribaltiamo
l’idea di corrispondenza automatica tra i due piani, apprendimento e formazione. In realtà è l’idea
stessa di formazione che muta spessore. Per apprendimento organizzativo intendiamo l’idea di
“codifica” dell’informazione e la sua trasformazione in patrimonio comune, come elemento della
memoria collettiva del gruppo .Non si tratta, dunque, di “mera sommatoria” di apprendimenti
individuali, ma di trasformazione della capacità cognitiva del gruppo in virtù del contributo
apportato dalle singole esperienze e riflessioni degli individui.

"L'apprendimento organizzativo” – come sostenevano Argyris e Schön nel 1978 – "avviene


quando i membri dell'organizzazione agiscono come attori di apprendimento per
l'organizzazione, quando cioè, informazioni, esperienze, scoperte, valutazioni di ciascun
individuo diventano patrimonio comune dell'intera organizzazione fissandole nella memoria
dell'organizzazione, codificandole in norme, valori, metafore e mappe mentali in base alle quali
ciascuno agisce. Se questa codificazione non avviene gli individui avranno imparato, ma non le
organizzazioni".

Occorre un ripensamento globale che può ben esprimersi secondo una metafora: dal modello
biologico della nutrizione, in cui è centrale il processo di erogazione di un prodotto (il cibo) da
fagocitare e metabolizzare, al modello della propagazione in cui è centrale il processo di
diffusione dello stimolo (secondo ad esempio la metafora dell’onda magnetica) in funzione della
capacità di risonanza del contesto.
Il primo è un processo lineare (del tipo causa/effetto) che è rappresentabile secondo un modello
di tipo binario (fame/sazietà) per il ricevitore ma anche per il trasmettitore (erogazione).
Il secondo è un processo olistico (del tipo interazione) che è condizionato dal contesto e
caratterizzato da fenomeni di feedback (l’eco nella propagazione del suono).
Ripensare la formazione nella direzione del “formatore consulente” e dell’apprendimento
organizzativo significa,a mio modo di vedere, operare un mutamento nel modo di intendere il
costrutto base del processo formativo.
Formazione non più e non solo come attività di progettazione di contenuti/corso, ma come
attivazione di condizioni per lo sviluppo di processi di propagazione/diffusione di forme di crescita
individuale e di gruppo in un contesto che può essere sociale oltre che organizzativo.
In questo contesto, la diffusione di una cultura collaborativa e tesa alla condivisione tra i docenti
in un contesto scolastico è condizione di qualità dell’interazione e di ricerca di eccellenza. Il
dirigente scolastico ha un’ampia responsabilità come “formatore” rispetto a specifiche
competenze dei docenti ,rispetto alla rimozione di ostacoli ed alla promozione di una cultura
cooperativa aperta all’innovazione .
Il paragrafo che segue, partendo da alcune riflessioni sullo scenario della formazione, intende
disegnare un percorso di ricerca sul ruolo del formatore nelle diverse “vesti” e nei vari contesti in
cui si trova a “recitare” il suo ruolo. Il discorso parte dal contesto della formazione professionale
per poi articolarsi in modo più ampio sugli scenari della formazione continua.

1.2 Formazione professionale come contesto di lavoro del formatore


È importante considerare il processo di trasformazione che negli ultimi trenta anni, da una
ricollocazione generale del ruolo della formazione professionale, ha innovato i modelli delle
strutture tradizionali che erogano tale formazione, innovazione che ha portato i Centri a doversi
misurare con strategie e modalità di intervento in quanto agenzie.
La riorganizzazione dei sistemi formativi, pertanto, si è indirizzata verso la sostituzione degli
apparati burocratici con strutture agili ed essenziali, capaci di proporre un’offerta di servizi nel
quadro dei principi dell’alternanza, della policentricità e della polivalenza.
Questa innovazione, che si è affermata soprattutto dagli inizi degli anni novanta, ha portato a una
ridefinizione dei centri di formazione anche dal punto di vista terminologico, dal cfp al csf (Centro
di Servizi Formativi), nella generale convergenza, da parte di tutte le strutture e istituzioni che
operano nel campo della formazione, verso un modello organizzativo definito “modello
agenziale”.
Esistono differenti interpretazioni di agenzia formativa:

§ centro polifunzionale, cioè pluralità di servizi offerti e pluralità di utenti (gli enti organizzati
in csf tendono ad operare in questo modo);
§ polo per la formazione di adulti e imprese, con forte connotazione tecnologica, con un
nucleo di dipendenti e una rete di collaboratori ed esperti esterni;
§ organismo consortile (imprese, enti, centri formativi) con un piano di sviluppo per
intervenire in un territorio/contesto di riferimento.

Si é consolidato pertanto dalla metà degli anni ottanta in poi, un ruolo emergente delle strutture
formative come “luoghi” da cui far partire azioni a sostegno dell’inserimento occupazionale, della
riqualificazione e per la formazione permanente dei lavoratori.
Nei nuovi assetti organizzativi hanno assunto centralità i compiti di integrazione e coordinamento
e le agenzie, per gestire l’innovazione, si sono dotate di un’organizzazione flessibile, sia a livello
sistemico che a livello progettuale.
In un Rapporto Isfol della metà degli anni Ottanta, si presentavano già alcune ipotesi per un
modello di formatore, in cui si rilevava: la necessità di diversificare le figure professionali
all’interno dei cfp, l’adozione della flessibilità nell’impiego del personale, la possibilità di utilizzare
l’apporto di quadri aziendali ed esperti esterni.
Successivamente l’evoluzione contrattuale del settore della formazione professionale ha recepito
questi orientamenti, abbandonando una descrizione di profili professionali ancorata ai ruoli e alle
mansioni, a favore di un’organizzazione delle strutture formative più agile e flessibile. Questi ruoli
e competenze devono costituire un comune riferimento per chiunque agisca in funzione di
formatore, indipendentemente da titoli accademici o investiture istituzionali.
È in questa ottica, che è quella peraltro sviluppata negli orientamenti delle istituzioni formative
italiane ed europee, che usiamo il termine “formatore”, puntualizzando, però, come si vada
avvertendo la necessità di un ulteriore incremento di flessibilità e complessità di questa figura,
per adeguarla alle effettive esigenze del mercato del lavoro e alle peculiarità dei committenti, cioè
le imprese private.

Il modello professionale del formatore dovrebbe fare riferimento a un eterogeneo campo di


attività, che rispetto alla formazione continua preveda:

§ l’individuazione della domanda sociale di formazione;


§ l’individuazione di obiettivi correlati alle esigenze del contesto;
§ l’adeguamento dei metodi e delle strategie formate in relazione ai mutamenti del contesto
socio-economico;
§ la cooperazione con le forze sociali e il mondo imprenditoriale;
§ l’instaurazione di canali di comunicazione con istituzioni, parti sociali, altre strutture di
ricerca e di formazione;
§ la rilevazione dei processi organizzativi e formativi impliciti nelle strutture aziendali.

Dal punto di vista degli scenari della formazione professionale oggi occorre cogliere i seguenti
elementi – indicati qui molto sinteticamente – come aree su cui investire per i sistemi formativi e
per la riflessione pedagogica sia sul piano teorico che delle soluzioni politiche:

a) lo sviluppo nel soggetto di un sistema ampio ed articolato che consenta la mappatura ed il


riconoscimento delle competenze non solo dal punto di vista tecnico-specialistico (saperi
teorici, saperi in azione) ma anche dal punto di vista etico-relazionale (attenzione allo
scambio di conoscenza, alla reciprocità, alla fiducia, ed alla responsabilità);
b) lo sviluppo di sistemi di orientamento al lavoro in grado di sostenere le opportunità di
occupabilità delle categorie giovanili (bilancio di competenza, assessment, coaching,
colloquio individuale e personalizzato) in un’ottica di life long guidance;
c) lo sviluppo di percorsi formativi per l’adulto in accompagnamento alle transizioni
professionali che possono interessare la sua vita vista la discontinuità di esperienze
professionali intervallate con esperienze formative;
d) lo sviluppo di percorsi formativi nei contesti di lavoro ai fini della crescita del capitale
sociale presente in questi ultimi. Tali percorsi possono transitare attraverso lo sviluppo di
istanze partecipative al lavoro, favorendo esperienze individuali e collettive di crescita
culturale e professionale.

In particolare per quanto riguarda il punto a) vorrei sottolineare che l’idea di “competenza” è
una nozione di carattere polisemico che é ormai largamente studiata in letteratura (Ajello, Cevoli
& Meghnagi 1992; Alberici, Serreri, 2003; Boam & Sparrow, 1996; Boyatzis, 1982; Civelli,
Manara, 1997; Di Francesco, 1994). Questa nozione consente in termini analitici il processo di
definizione della professionalità sia nei percorsi formativi che nei processi di analisi organizzativa.
Secondo il dibattito scientifico in materia, la competenza è un “sapere combinatorio” in cui
entrano conoscenze tecniche, teoriche, metodologiche e procedurali, abilità operative ma anche
relazionali che permettono alle persone di agire in contesti sempre diversi.
Dal punto di vista del discorso formativo, il concetto di competenza soprattutto se declinato come
competenza trasversale può essere visto come “condizione evolutiva del soggetto adulto in
formazione” (4).
La “competenza” in quest’ottica acquista maggiore determinatezza e rende l’idea di come – in
ogni contesto organizzativo – agiscono e possono agire le persone, esprimendo saperi, saper
essere e potenzialità a tali istanze connesse.
La competenza – nella sua essenza – è la capacità di un soggetto di combinare potenzialità (da
qui la dimensione della plasticità/evolutività), partendo dalle risorse cognitive, emozionali e
valoriali a disposizione (saperi, saper essere, saper fare, saper sentire) per realizzare non solo
performances controllabili ma anche intenzionalità verso lo sviluppo di obiettivi che possono
essere propri e della propria organizzazione. Si tratta, in altri termini, della “capacità di mobilitare
progettualità” in azioni concrete, rilevabili ed osservabili (cioè “saperi in azione”).
Lo schema di decreto legislativo del 16 Gennaio 2013 sulla validazione degli apprendimenti non
formali ed informali e sugli standard minimi di servizio del sistema nazionale di certificazione
delle competenze focalizza l’attenzione sulle norme ed i sistemi per l’individuazione e la
validazione degli apprendimenti formali ed informali e quindi va considerato indubbiamente un
passo in avanti significativo relativamente ad un percorso ormai ampio – anche se discontinuo –
che negli ultimi anni ha finalmente dato concretezza ad un tema consolidatosi sia a livello
nazionale che europeo e poi codificato anche con la raccomandazione del Consiglio europeo del
20 dicembre 2012 (2012/C 398/01) in tema di convalida delle conoscenze, abilità e competenze
acquisite mediante l’apprendimento non formale ed informale. In particolare, lo schema di
decreto istituisce – come sopra richiamato – il repertorio nazionale dei titoli di istruzione e
formazione e delle qualifiche professionali di cui all’art. 4, comma 67 della l. 28 giugno 2012, n.
92, quale quadro di riferimento unitario per la certificazione delle competenze (cfr: 2009,
CEDEFOP, European guidelines for validating non- formal and informal learning).

Riepilogando
In questo capitolo abbiamo compreso quali siano le istanze che motivano il ruolo della
formazione in due aree, quella dello sviluppo della persona e quella dei contesti organizzativi.
Abbiamo compreso anche come la formazione sia diventata una parola chiave nelle scienze
educative. Una considerazione è stata sottolineata in particolare: il bisogno di vedere la
formazione come un processo che accompagna il naturale anelito all’innovazione ed al
cambiamento, e non un elemento rituale o traumatico di mero aggiornamento su procedure.
Abbiamo esplorato anche le trasformazioni della formazione professionale dagli anni ottanta ad
oggi e le nuove sfide emergenti.
2. I SAPERI DEL FORMATORE

Pur rendendoci conto di quanto discutibile e riduttivo possa essere ogni tentativo di
classificazione, proponiamo di considerare il sapere dei formatori, nella concezione integrata di
“saper essere” e “saper fare”, come un complesso di conoscenze e competenze che afferiscono
a tre dimensioni principali).

Il contesto di riferimento è costituito da:


§ conoscenza generale delle dinamiche di crescita e sviluppo del mondo della formazione e
del lavoro, dei fenomeni organizzativi e produttivi che coinvolgono le imprese e le
istituzioni, dell’evoluzione relativa alle tecnologie di riferimento, oltre che delle esigenze di
professionalità emergenti;
§ conoscenza particolare del contesto sociale e macroeconomico e culturale in cui insiste
l’organizzazione sulla quale agire;
§ conoscenze mirate delle esigenze e caratteristiche dei soggetti da formare.

Le metodologie e gli approcci formativi da utilizzare riguardano in particolare:


§ la conoscenza teorico-pratica della gamma disponibile di metodologie formative e di
strumenti didattici efficaci nella formazione continua (tassonomie, modelli espositivi o per
scoperta ecc.);
§ la conoscenza generale delle situazioni di apprendimento insite nelle organizzazioni e,
con particolare riferimento alle situazioni non dichiaratamente formative, ma che incidono
sui processi di sviluppo delle risorse umane per il miglioramento dei fattori produttivi (es.
apprendimento organizzativo, lavoro di gruppo);
§ la conoscenza dei modelli e delle tecniche di analisi dei fabbisogni relativamente alle
componenti organizzative e funzionali dell’impresa e dei soggetti a cui è rivolta la
formazione.

Le competenze di ruolo si esplicitano in:


§ competenze didattico-metodologiche generali (es. analisi dei bisogni, programmazione
della formazione, utilizzo di strumenti e supporti didattici, valutazione dell’efficacia della
formazione e dell’apprendimento);
§ competenze relazionali nel contesto del setting d’aula (rapporto formatore-partecipante,
rapporto formatore-imprenditore o manager del “personale”, gestione delle dinamiche di
gruppo);
§ competenze tecnico-specialistiche in merito ai contenuti o ai processi inerenti alla
formazione da erogare.

2.1 Il contesto di riferimento


In questo paragrafo entriamo nel merito dei processi formativi nella scuola.
I docenti rappresentano il nucleo portante della scuola che, da un punto di vista organizzativo, può
essere descritta utilizzando la tassonomia di Mintzberg, come una burocrazia professionale in cui i
docenti rappresentano il nucleo operativo di base, mentre il personale ATA – la cui funzione è
quella di fornire un supporto organizzativo, diretto ed indiretto, all’attività dei docenti e del dirigente
–, rappresenta lo staff di supporto (Mintzberg, 1985).
Nell’anno scolastico 2009-2010 l’organico di fatto delle scuole, che comprende anche il personale
con incarico a tempo determinato, ha sfiorato il milione di unità suddivise in 730.000 docenti e
240.000 ATA. Si tratta pertanto di una popolazione di grande ampiezza sul piano nazionale che
esprime una domanda formativa ancora per certi versi inesplorata.
Ogni organizzazione opera in un contesto ambientale che si caratterizza secondo diverse
dimensioni (economiche, geografiche, di mercato, antropologiche, culturali). La consapevolezza
delle caratteristiche che denotano l’interazione organizzazione-ambiente sono un fattore
essenziale anche rispetto alle logiche di sviluppo di formazione.
È doveroso pertanto focalizzare in modo particolare la necessità che gli insegnanti posseggano
una conoscenza di base delle dinamiche del mondo del lavoro, caratterizzate oggi, come appare
sempre più visibile, da forti turbolenze e discontinuità: una “cultura” del lavoro che, ad esempio,
postula la crescita di responsabilità diffusa, un ampliamento delle skills ovvero una diversa
distribuzione dei compiti e delle mansioni in rapporto al cambiamento dei modelli organizzativi.
Considerando il fatto che le trasformazioni sociali sono i fattori che incidono maggiormente
sull’articolazione e definizione della professionalità, sul dimensionamento delle strutture e sui
fenomeni organizzativi, si comprende che la capacità di interpretare e analizzare i macrotrend si
traduce in condizione perché il formatore possa sviluppare azioni mirate nel contesto di un piano
progettuale organico in riferimento alle istanze sociali ed economiche emergenti.
Facciamo un esempio. L’emergere di episodi di bullismo in una scuola genera una nuova
domanda di formazione per la comunità scolastica, di cui il dirigente dovrà farsi carico.
La dimensione locale, inoltre, fa da sfondo all’effettiva operatività del formatore, coerentemente
con lo sviluppo e l’articolazione delle offerte formative, che “nascono” da un’interazione e
interdipendenza con il contesto territoriale. Questa conoscenza del contesto, inoltre, viene
sviluppata anche attraverso l’intreccio di reti di relazione e partecipazione con istituzioni, realtà
economiche, mondo scolastico, con le quali la scuola può stabilire alleanze e collaborazioni in
forma di convenzioni.
Si tratterà, quindi, di capire quali competenze siano più utili e quali processi culturali e cognitivi
vadano stimolati, per favorire con la formazione processi di adeguamento e comprensione delle
esigenze “implicite” nel sistema organizzativo, sia da parte dei lavoratori, sia da parte dell’azienda,
che spesso non ha una visione di tali bisogni.
Il formatore, smessi i panni del docente, diviene un facilitatore dell’apprendimento, tramite l’analisi
ed evidenziazione dei processi già attivi, pur se a livello implicito, all’interno
dell’organizzazione/istituzione, o tramite interventi tesi a creare ulteriori opportunità di
arricchimento, adattamento e sviluppo culturale.

2.2 Formazione continua e welfare educativo


Le organizzazioni possono essere considerate un naturale ambiente di apprendimento, in cui
sviluppare processi di apprendimento organizzativo finalizzati allo sviluppo di modalità
consapevoli di autoformazione individuale e di gruppo.
Come sostiene l’ultimo Rapporto Isfol (2012, p. 12) ”I sistemi di formazione delle competenze
stanno attraversando, in tutti i Paesi comunitari, un processo di cambiamento i cui tratti
fondamentali possono essere riassunti in due paradigmi che descrivono i principali passaggi
evolutivi degli ultimi anni. Il primo è rappresentato dal superamento della demarcazione dei
luoghi dell’apprendimento, che vede sempre più affermarsi – accanto alle scuole, ai centri di
formazione e alle università – il ruolo chiave delle organizzazioni produttive nella generazione di
nuove competenze sia specialistiche, che trasversali. Il secondo paradigma riguarda i tempi
dell’apprendimento e attiene al superamento delle tradizionali fasi dell’acquisizione di
conoscenza, concentrate generalmente nelle età più giovani e precedenti l’ingresso nel mondo
del lavoro”.
Ma come attivare processi formativi finalizzati all’acquisizione di competenze, considerando che il
diritto all’apprendimento debba essere colto come parte integrante di un welfare moderno? Quali
risorse economiche possono essere messe a disposizione? A questo punto occorre fare una
puntualizzazione sui dispositivi normativi disponibili nel paese.
Alcuni strumenti normativi (come la Legge 236 del ’93 e la Legge 53 del 2000, fino all’istituzione
dei Fondi Interprofessionali) hanno contribuito a generare in Italia un processo di focalizzazione
sui piani formativi (territoriali, aziendali o regionali) concordati tra le parti sociali attraverso la
pratica della bilateralità e in grado di identificare progetti professionali specifici.
In particolare il D. Lgs. 112/98, nel riordino delle competenze tra Stato e Regioni, ha assegnato le
competenze sulla formazione continua (5) all’Amministrazione centrale. Lo Stato, però, ha
stabilito un raccordo con le amministrazioni decentrate per permettere di individuare le esigenze
del mercato locale. Si è delegato alle Parti Sociali il compito di gestire una parte rilevante delle
risorse finanziarie a disposizione dei lavoratori e delle imprese.
È la Finanziaria del 2001 – in relazione all’art. 118 della Legge 388/2000 – a permettere la
costituzione dei Fondi Paritetici Interprofessionali Nazionali per la Formazione Continua
(Dandolo, Pettenello, 2003).
Dal centralismo si è passati ad un modello decentrato grazie anche ai decreti attuativi della
Legge 236/93 e ai Fondi Interprofessionali, che attuano il concetto di sussidiarietà orizzontale,
ovvero la gestione piena di una funzione pubblica, come la formazione, a organismi di natura
privata. La sussidiarietà orizzontale è anch’essa un’innovazione normativa, che permette di
rispondere meglio alle esigenze di un territorio, non perdendo, però, la garanzia di una funzione
pubblica. Una commistione importante e positiva tra il pubblico e il privato, non posti in una
situazione di concorrenza, ma di collaborazione per il raggiungimento di un fine comune.
Naturalmente, avendo gli strumenti legislativi, è poi compito dei soggetti interessati avvalersi
dell’innovazione normativa per creare e sviluppare un cambiamento significativo nel contesto
della formazione.
Negli ultimi anni si è registrata la tendenza ad accrescere il ruolo delle politiche formative
nazionali rispetto al F.S.E., grazie soprattutto alle erogazioni finanziarie dei Fondi
Interprofessionali. Inoltre, il F.S.E. è uno strumento di non facile gestione, avendo una procedura
di accesso ai finanziamenti abbastanza complessa per il nostro tessuto produttivo, costituito per
quasi il 95% da aziende medio/piccole. In questo senso i Fondi Interprofessionali, sicuramente,
rappresentano la principale novità del sistema delle politiche attive per la formazione dei
lavoratori.
Un altro tema significativo nell’ambito del dibattito sulla formazione è la crescita di attenzione alla
complementarità tra dimensioni tecnico-specialistiche di tipo formale e dimensioni "informali".
Quest'area di "incontro" diventa area di investimento formativo a livello iniziale ma anche a livello
di strategie di formazione continua. Tanto più questi obiettivi appaiono cruciali, quanto più si fa
riferimento alle fasce deboli: il concetto di welfare educativo che permea sostanzialmente gli
orientamenti delle politiche formative dell'Unione vede congiunti i due approcci, quello formale ed
informale come due aspetti di una medesima linea d'intervento.
Nei più recenti documenti comunitari in tema di formazione e lavoro, le competenze trasversali
sono sempre più riconosciute a livello sociale come importante componente di una buona
prestazione lavorativa. Il termine competenze “trasversali“ è usato generalmente per intendere
competenze comuni ad una larga gamma di situazioni non relative alla situazione lavorativa
specifica. Competenze relative alla relazionalità, alla capacità di risolvere i problemi, la
competenza nel leggere i contesti, la capacità di diagnosticare situazioni complesse, sono
alcune delle competenze trasversali che sono al centro dell'attenzione come aree di particolare
criticità sia per le organizzazioni che per i giovani, al di là delle specifiche aree disciplinari e
settoriali.
Concludendo, un messaggio-chiave che emerge dalla lettura dei processi di trasformazione in
atto, a mio modo di vedere, é la sottolineatura della visione dell'apprendimento come attività
sistematica e su basi di continuità.
2.3 Le competenze del formatore
Con il termine di competenze di ruolo intendiamo quel complesso di competenze che fanno
riferimento al “sapere di base” che caratterizza la professionalità del formatore in quanto tale. Le
competenze didattico metodologiche consentono l’ottimale gestione delle situazioni formative,
anche attraverso l’utilizzazione di strumenti e tecniche precisi. Anche chi non svolge un’azione
diretta con gli utenti della formazione deve poter padroneggiare gli elementi metodologici degli
interventi, per progettare analoghe azioni o per valutarne e monitorarne lo svolgimento.
Possiamo raggruppare le competenze didattico-metodologiche in tre macro contenitori:

a) area della formazione degli adulti:


– modelli e teorie dell’apprendimento;
– andragogia;
– teorie della personalità;
– teorie dell’apprendimento organizzativo;
– teorie didattiche;
– antropologia culturale;
– teoria dell’organizzazione aziendale;
– comportamento organizzativo;
– organizzazione sindacale;
– formazione manageriale (teorie della leadership, gestione delle riunioni ecc.);
– career counseling;
– gestione delle risorse umane;
– metodologie e modelli di apprendimento (lezioni, esercitazioni, studio dei casi, role playing,
simulazioni, business games, gruppi di ascolto, istruzione programmata, teledidattica,
sperimentazione attiva, analisi transazionale, ricerche motivazionali, audit, addestramento sul
campo, sessioni di problem solving, micromondi, reporting, pratiche Kaizen, empowerment, job
rotation, job enrichment, benchmarking ...);

b) area della progettualità:


– analisi dei fabbisogni;
– teorie e tecniche di progettazione formativa;
– programmazione didattica e sviluppo dei piani d’aula;
– progettazione di strumenti per l’analisi dei fabbisogni;
– teorie e tecniche della valutazione dell’apprendimento;
– teorie e tecniche del project management;

c) area tecnologica:
– ambienti multimediali;
– tools di comunicazione;
– ambienti per l’autoistruzione assistita;
– ambienti per la gestione della didattica in rete;

d) area della comunicazione:


– modelli della comunicazione organizzativa;
– teoria della comunicazione;
– la comunicazione non verbale;
– la pragmatica della comunicazione umana.

Le competenze comunicazionali e relazionali si identificano nella capacità di “gestire” processi di


apprendimento relativi a gruppi di partecipanti agli interventi di formazione, trattando dinamiche
psico-sociali e fattori di criticità. La competenza comunicativa gioca il suo ruolo anche all’interno
dei processi di comunicazione organizzativa. In questo contesto acquistano particolare rilevanza i
fenomeni legati alla leadership, alla creazione di gruppi informali all’interno delle organizzazioni,
e alle dinamiche socio-organizzative.
Le competenze tecnico-specialistiche riguardano il complesso di saperi specialistici che il
formatore possiede ed è in grado di trasferire su aspetti direttamente legati ai processi di lavoro e
alle dimensioni procedurali a questi connesse..
Solo il formatore, però, può garantire un approccio metodologico e didattico che consenta la
“conversione” delle conoscenze cosiddette “tacite” o esperienziali in conoscenze strutturate ed
esplicite. Secondo il pensiero di Nonaka & Takeuchi (1998), ad esempio, compito delle
organizzazioni è creare attraverso metodologie diverse, tutte quelle forme che possano
assicurare processi di trasferimento della conoscenza.
La formazione dei formatori costituisce ormai un’area relativamente autonoma della formazione
all’interno della quale si è sedimentata una notevole esperienza sul campo. La
multidimensionalità della professionalità del formatore richiede l’impostazione di percorsi
differenziati, rivolti alla progettazione o alla gestione differenziata degli interventi, tenendo conto
anche delle esigenze differenti di aggiornamento e qualificazione che presentano i formatori. Non
mancano elementi di criticità che contraddistinguono le prospettive di sviluppo della formazione
dei formatori, in particolare considerando le nuove esigenze che si affacciano all’orizzonte, in
particolare le logiche di apprendimento organizzativo e di orientamento verso una maggiore
presenza diretta nei contesti lavorativi.

2.4 Il formatore come consulente


Quali sono,dunque, possibili ruoli del formatore. “Organizzatore di risorse”, “docente d’aula”,
“progettista” e “analista dei fabbisogni”, “esperto del processo di apprendimento degli adulti” e
tanti altri ruoli sono associati ad un profilo professionale che si apre a ventaglio su problematiche
psicologico-didattiche e organizzative sempre più vaste e complesse (cfr. tav. 1).
Ma probabilmente è più esatto dire che convivono più culture della formazione, spesso non
compatibili.
Ma al di là della babele dei linguaggi e dei tecnicismi, l’elemento cardine che configura il ruolo del
formatore nei contesti organizzativi è quello di essere un consulente ed un animatore.
In particolare per quanto concerne la formazione nella scuola siamo di fronte a diverse occasioni
e possibilità che richiedono l’organizzazione di eventi formativi: al di là di programmi specifici volti
alla formazione del dirigente (si vedano i programmi attivati da alcune università e consorzi per la
preparazione ai concorsi nazionali), si organizzano corsi specifici per migliorare il lavoro di
gruppo e la gestione dei conflitti, lo sviluppo di una progettazione interdisciplinare, la
partecipazione a Bandi internazionali di ricerca come i progetti pilota Leonardo, la gestione
dell’intercultura ed altro.
Quando la formazione è inserita in un piano complessivo è necessario apportare interventi molto
più diversificati e flessibili. Occorre tradurre la strategia formativa complessiva in mappa di
competenze.
Per raggiungere un obiettivo così rilevante, il formatore dovrà essere sempre meno portatore di
pacchetti di metodologie più o meno raffinate ma precostituite, e capace di “ascoltare” domande
complesse (anche implicite) e focalizzare problemi nuovi, promuovere ricerca e studiare i
contesti. Sempre meno specialista, con i suoi “attrezzi” sempre più conoscitore dei sistemi
organizzativi in cui opera, in grado di cogliere i bisogni impliciti e portare contributi ad alto
contenuto di conoscenza.
Questo scenario richiede nuove skills da formare all’interno di progetti di formazione dei formatori
centrati su laboratori e stage all’interno degli stessi contesti di lavoro.
In questi curricoli, sempre più spazio deve essere affidato alla conoscenza dell’organizzazione,
della cultura e dei processi di comunicazione interni alle organizzazioni ed alle istituzioni. Solo
un’ottica di formazione integrata può rispondere alle esigenze di un lavoro che sarà sempre più
spostato all’interno dei processi e alle logiche organizzative che lo presidiano.
Si è parlato correttamente di “sfida della generatività” per i formatori intesa come capacità di
sviluppare responsabilmente motivazioni e processi atti a creare energie e potenziale cognitivo
nell’incontro con altre soggettività.
La ricerca etnografica su questo insieme di professionisti definito come un vero e proprio
“arcipelago professionale” (Lipari, 2012) ha evidenziato la complessità ma anche la
frammentarietà dell’identità del formatore.

Tav. 1 – Le dimensioni del “sapere” del formatore aziendale


Il contesto di riferimento

Il mercato del lavoro e delle professioni versus gli obiettivi formativi necessari per
l’implementazione delle strategie d’impresa;

La dimensione locale e specifica

La dimensione organizzativa e i fruitori della formazione.


Le metodologie e gli approcci formativi da utilizzare

Metodologie e strumenti della formazione continua;

Caratteristiche cognitive e organizzative dell’apprendimento;

Esigenze e bisogni del personale a cui è rivolta la formazione rispetto ai piani di sviluppo previsti
nella mission.
Le competenze di ruolo

Competenze didattico-metodologiche

Competenze comunicativo - relazionali;

Competenze tecnico-specialistiche sui contenuti della formazione.

Fonte: Alessandrini G.,1998

2.5 Formazione continua e piani formativi


Il sostegno all’individuo e l’ampliamento delle sue opportunità sono il “motore” del sistema della
formazione continua nel paese. Alcuni strumenti normativi (come la Legge 236 del ’93 e la Legge
53 del 2000, fino all’istituzione dei Fondi Interprofessionali) di cui si è già accennato in
precedenza - hanno contribuito a generare in Italia un processo di focalizzazione sui piani
formativi (territoriali, aziendali o regionali) concordati tra le parti sociali attraverso la pratica della
bilateralità e in grado di identificare progetti di formazione professionale specifici.
In questa direzione è sempre più rilevante, accanto al processo di analisi della domanda, la
progettazione dell’offerta e il rafforzamento dei soggetti in grado di identificare le strategie efficaci
per un incontro di domanda e offerta.
I dati più recenti relativamente al benchmarching sull’investimento in formazione continua
indicano un posizionamento insufficiente del paese relativamente alla spesa per una formazione
sul posto di lavoro.
La seguente tabella ci vede, infatti, terzultimi nello scenario europeo relativamente alle ore di
istruzione per ore lavorate (Cfr. tav. 2).
Sul fronte della formazione per gli adulti, peraltro, dagli indicatori OCSE emerge attualmente una
situazione di “sottoinvestimento strutturale” nel nostro paese, e si riscontra anche una
dispersione delle risorse in fonti differenziate di finanziamento non integrate tra loro, che
generano diseconomie.
Da qui l’esigenza di riaffrontare il tema della formazione continua non solo come elemento
strutturale di una politica del lavoro ma anche in vista della possibilità di una nuova governance
del workfare. In Italia si riscontra attualmente una condivisione da parte di istituzioni e parti
sociali su alcune iniziative in via di sperimentazione (per il riconoscimento di crediti da
esperienza) e il “Libretto formativo” del cittadino (6).
Per quanto riguarda la pubblica amministrazione, è indubbio che il quadro valoriale della
formazione sia oggi potenzialmente di fronte a nuovi “driver” significativi in grado di
accompagnare l’innesto di quei processi di formazione che possano consentire una reale
innovazione.

Tav. 2 – Ore di istruzione per ore lavorate

Un altro elemento di scenario fondamentale per chi volesse approfondire il quadro relativo alle
strategie formative rispetto all’occupabilità nell’attuale quadro internazionale è il modello
cosiddetto EQF (European Qualification Framework). Questo modello definisce in un’ottica di
armonizzazione europea il sistema delle qualifiche.
La rappresentazione delle qualifiche in un comune quadro europeo costituisce infatti la modalità
più adeguata perché esse risultino comprensibili e leggibili da punti di vista diversi.
Le qualifiche vengono classificate in base a dei criteri che permettono di stabilire a quali livelli di
apprendimento. La scelta, operata in EQF, di riferire i criteri ai livelli di apprendimento raggiunti è
senza dubbio più efficace per la comprensione rispetto ad altre modalità in cui gli stessi criteri
sono espressi nei descrittori delle qualifiche in modo implicito.
In EQF, inoltre, si è preferito che il quadro comprendesse tutto l’apprendimento conseguito e non
si limitasse a particolari percorsi oppure ad un particolare settore, per esempio l’istruzione
iniziale, l’educazione/formazione per adulti o un settore occupazionale. A livello delle singole
nazioni i quadri delle qualifiche hanno caratteristiche diverse, ma uno scopo comune. Le diversità
sono rappresentate dalla struttura e dalla legittimazione.
La struttura può essere variabile e caratterizzata da più elementi oppure rigida; la legittimazione
può essere su base legale oppure frutto del consenso espresso dalle parti sociali.
L’EQF facilita e semplifica il riconoscimento delle qualifiche e la comunicazione tra chi fornisce e
chi richiede istruzione e formazione. Fornisce livelli e descrittori dell’apprendimento e di
competenza in modo “sufficientemente” generico da comprendere la varietà delle qualifiche e le
differenze di livello esistenti in ambito nazionale e settoriale. È dunque una modalità di
rappresentare le qualifiche, funzionale alla comparazione, alla traduzione e conversione dei
diversi esiti di apprendimento [http://www.eqavet.eu; http://www.eqfnet-testing.eu/].
2.6 L’orientamento alla professione come competenza dei docenti
Il punto di viraggio sostanziale nella riflessione e nelle pratiche di formazione professionale
anche nell’area scolastica è da identificare senza dubbio nell’introduzione della prospettiva
orientativa.
Tale prospettiva é parte integrante di un processo di formazione-istruzione sia a livello di età
evolutiva che per quanto riguarda l’età adulta o situazioni di cambiamento e transito
professionale.
Quali obiettivi appaiono dunque fondamentali per gli insegnanti in questa prospettiva in
particolare considerazione delle competenze orientative? Proviamo ad evidenziarne alcuni:

1. Far sentire lo studente soggetto del suo percorso di apprendimento;


2. Sviluppare il desiderio di sapere e la motivazione ad imparare;
3. Creare occasioni di riflessività dinamica sul sé e sulla dimensione intersoggettiva anche
attraverso forme di coaching;
4. Consentire sempre spazi di autoformazione;
5. Bilanciare le attività tra formale ed informale per promuovere una riflessione sui contesti
in cui avvengono i processi formativi stessi.

Quali, dunque, possono essere le fondamentali strategie didattiche orientative?

§ Aiutare gli allevi a dare senso a quello che fanno consentendo gradi di libertà e di scelta
(anche con i rischi che normalmente questa comporta);
§ Codificare in modo efficace i messaggi creatisi in aula, ovvero facilitare la traduzione di
tali messaggi in senso compiuto;
§ Formare autonomia e responsabilità attraverso forme di dialogo “singolare”, ovvero
personalizzato e dedicato con gli allievi;
§ Focalizzare le mediazioni generate dall’apprendere in gruppo, ovvero sostenere
interpretazioni che aiutino il giovane a trasferire la reazione immediata anche conflittuale
in forme più mediate di consapevolizzazione e “lettura” delle interazioni sociali;
§ Sviluppare forme di sapere solidali con la rappresentazione delle pratiche sociali in cui il
sapere è correlato anche per supportare coerenza e congruenza tra il percorso
apprenditivo teorico ed il suo crescere fattuale come persona (la sua capacità d’agire
singola e collettiva).

La centralità del soggetto come punto di riferimento del percorso formativo ha come
conseguenza la crescita di responsabilizzazione della persona impegnata nel contesto in cui
agisce ed opera. La responsabilità del singolo deve trovare il suo terreno di mediazione
incontrando la responsabilità del gruppo.
Lo sviluppo di processi di condivisione comunitaria – e la formazione degli stessi – è un elemento
fondamentale su cui può far leva un processo formativo.
In questa stessa prospettiva un esperto di politiche scolastiche americano, Thomas Sergiovanni
(2000), in una ricerca sulle caratteristiche delle scuole efficaci condotta nel Nord America ha
utilizzato i termini Gemeinschaft e Gesellschaft introdotti dal sociologo tedesco Ferdinand
Tönnies (1887), per illustrare la differenza tra una scuola efficace ed una basata su
un’organizzazione di tipo aziendale. Una Gemeinschaft è una comunità che, nel caso della
scuola, nasce dalla condivisione di un insieme di valori e uno scopo comune, una Gesellschaft è
una società basata su relazioni di natura contrattuale e su rapporti formali, non sulla condivisione
di fini etici. Il mondo della scuola è stato sempre caratterizzato da una particolare sensibilità
verso i temi della comunità educativa e della condivisione collegiale delle scelte e può quindi
rappresentare un terreno fertile per lo sviluppo di comunità di pratica, non necessariamente
limitate ad una singola scuola, di docenti per l’ambito didattico e del personale per l’ambito
tecnico e amministrativo (Alessandrini, 2012; Rosso, 2011).
Riepilogando
In questo capitolo abbiamo compreso il quadro dei saperi e delle competenze del formatore nelle
sue diverse declinazioni ed ambienti di lavoro (dalla formazione professionale alla formazione
aziendale e nella pubblica amministrazione).
La dispensa si è soffermata poi sul quadro della formazione continua e della formazione
finanziata con un riferimento al quadro europeo delle qualifiche (EQF). Si è sottolineato il peso
relativo che la formazione continua ha nel nostro paese dal punto di vista del livello di
investimento in confronto con gli altri paesi UE.
Abbiamo anche focalizzato responsabilità orientative degli insegnanti rispetto alla scelta
professionale degli studenti individuando alcuni punti chiave del lavoro possibile di
sensibilizzazione auspicabile.

3. DIMENSIONI-CHIAVE DELLA FORMAZIONE

Se negli anni settanta-ottanta, il focus della relazione formativa poteva essere visto
prevalentemente come l'adattamento dell'individuo ai contesti sociali, ed il ruolo del formatore
interpretato come prevalente trasmissività, a partire dagli anni novanta si è delineata pian piano
un'inversione di tendenza – più o meno incisiva a seconda dei settori – verso l'idea di una
formazione intesa complessivamente come facilitazione e presidio dei processi di "creazione e
sviluppo della conoscenza" durante tutto l'arco della vita dell'individuo. Questi, nel configurarsi
come soggetto che "costruisce" se stesso – nel contempo in cui costruisce la realtà in cui opera –
elabora significati e "visioni" (del lavoro, degli scopi da raggiungere, dei valori da far condividere
ai collaboratori, ecc.) su cui è chiamato in qualche modo a riflettere, a "costruire" sistemi di
significazione.
Diventa fondamentale in questo contesto la centratura sulla "ricerca di senso" dell'
apprendere/formarsi (la dimensione ermeneutica della formazione è inalienabile al di là di
qualsiasi ingegnerizzazione).
Secondo un punto di vista " descrittivo", la formazione, può essere vista secondo due polarità
sostanziali, sia come fattore per lo sviluppo culturale e socio-economico e una comunità, sia
come "bene in sé", condizione e mezzo di sviluppo. Ciò significa che il "peso" della formazione e
dell'istruzione non sono solo da correlare univocamente all'ampliamento di potenzialità che
possono produrre rispetto al lavoro, ma anche a quelle aree che riguardano il soggetto nella sua
interezza, la partecipazione civica, la sfera degli ambiti familiari e del tempo libero, il consumo
culturale in quanto tale, il benessere, la capacità di esprimere opzioni senza condizionamenti di
sorta, in definitiva lo sviluppo della persona.
Come è possibile scorgere, allora, in estrema sintesi, il passaggio dalla dimensione educativa a
quella formativa ?
A mio parere questa appare “consistente” soprattutto in considerazione di sei dimensioni chiave
che sottolineiamo qui di seguito:

1. l’intenzionalità della dimensione formativa. Questa dimensione è legata alla definibilità


stessa del concetto di formazione ed al suo rapporto con l’idea di “Bildung”.In ultima
analisi, l’intenzionalità è legata indissolubilmente alla stessa intellegibilità dell’idea di
formazione ed al ruolo da questa giocato nella relazione io-mondo.
2. la processualità come caratteristica fondante della formazione stessa. La “processualità
educativa” è inerente alla dialettica tra soggetto ed oggettività culturale e sociale. Si tratta
della dimensione descrittiva della gradualità della crescita, vista sia come “emersione” del
soggetto che come “successo” del processo di sviluppo eterodiretto dell’individuo in
coerenza dinamica con il contesto culturale e sociale (sistema di valori, ”credi” condivisi,
sistemi sanzionatori, ecc.) che caratterizza l’habitat in cui il soggetto vive.
3. la riflessività come ambito proprio del processo formativo.. La formazione diventa
sempre più identificabile come presidio dei processi di "creazione e sviluppo della
conoscenza". L'individuo, infatti, nel suo porsi come soggetto che "costruisce" se stesso
nel contempo in cui “costruisce” la realtà in cui opera, elabora significati e senso in
riferimento al suo agire individuale ed intersoggettivo.
4. la dimensione della soggettualità come chiave di volta del processo formativo adulto.
L’enfasi sulla centralità del soggetto nasce a partire dalla considerazione della
dimensione esperienziale ed autobiografica quale “chiave di volta” dell’apprendere adulto
e si coniuga nei termini di precisi dispositivi metodologici.
5. ridimensionamento di ruolo dell'esperto di formazione verso ambiti di presidio dei
processi di apprendimento e creazione della conoscenza. Le competenze del formatore
travalicano la dimensione meramente metodologica di "mediatore" didattico per
attingere un livello diverso – più ampio e complesso – che è quello di un operatore
culturale ad ampio raggio. Si configurano bisogni più complessi da parte delle persone
che lavorano: interpretazione dei contesti, analisi di culture diverse, capacità di
integrazione e di dialogo, "pensiero produttivo", capacità di autoanalisi dei comportamenti,
capacità di organizzare e creare processi di crescita della conoscenza (knowledge
management).
6. la problematicità come aspetto saliente della riflessione sulla formazione in un’ottica
pedagogica. La formazione, in sostanza, diventa il luogo in cui il soggetto per un verso
acquisisce consapevolezza del suo divenire, per l’altro introietta il senso delle sue
potenzialità inespresse. Gli esiti di ogni processo formativo devono, infatti, essere letti in
termini che non possono che essere “problematici”, in parte a causa dell’impossibilità di
predeterminazione dei risultati dei fenomeni formativi, ed in parte per le caratteristiche
stesse della fenomenologia dell’esperienza formativa stessa. Tale esperienza si gioca
sul duplice filo per un verso della “crescita individuale ed autodiretta” e per l’altro del
sostegno esterno all’emancipazione attraverso l’interazione duale tra formatore e
formando.

3.1 Apprendimento organizzativo nella scuola


Anche se diffusi nel nostro paese solo a partire da non molto, gli studi sull'apprendimento
organizzativo, appaiono alquanto consistenti già da una quindicina d'anni a questa parte.
Il DPR 80/2013 sul tema della valutazione nella scuola in effetti scorge la scuola come
comunità capace di interrogarsi in modo proficui sul senso del proprio lavoro ed é proprio a
questa riflessione che é attribuita la responsabilità di un processo migliorativo (cfr. il Rapporto
elaborato dalla Fondazione Agnelli sui nuovi criteri della valutazione, Febbraio 2014).
Il focus dell’apprendimento organizzativo è nell’indagine razionale che diventa effettiva capacità
d’azione migliorativa in quanto rimuove quei “blocchi” all’apprendimento che ostacolano (quasi
fossero “barriere difensive”) negli individui e nei gruppi il percorso verso una consapevolezza del
come incrementare il proprio comportamento.
Alla base del modello, c’è il presupposto di un legame causale tra le routines comportamentali
osservate, e una "teoria" (o modello mentale) che può essere reso noto (e quindi oggetto di
riflessione) grazie all’intervento di un facilitatore in grado di intervenire come guida per gli attori
coinvolti (vedi tav. 3).

Tav. 3 – Due postulati-chiave dell’apprendimento organizzativo

Due postulati-chiave
dell’apprendimento organizzativo

I sistemi sociali sono intesi come:

§ sistemi che “apprendono”;


L’indagine razionale sollecitata
§ sistemi che elaborano e
dai contesti formativi può
codificano conoscenze sia
rimuovere i blocchi
esplicite che tacite.
dell’apprendimento e le
strategie difensive dell’individuo.

Siamo convinti che al modello dell’apprendimento organizzativo spetta il merito di aver


sottolineato le grandi opportunità insite nel potenziamento delle capacità autoriflessive di un
gruppo sociale, sia nella pubblica amministrazione che nel settore privato. Questi aspetti
“pedagogici”, messi in evidenza anche precedentemente in altri scritti (Alessandrini, 1998, 2005),
sono incentrati intorno ad un’idea di “apprendimento” che supera la pura dimensione
psico-didattica e che è fortemente correlata, viceversa, alle dinamiche dei processi di interazione
sociale ed alle esigenze di sopravvivenza, adattamento ed innovazione dei gruppi organizzati in
contesti ad alta trasformazione.
Un'organizzazione centrata sulla cultura dell'apprendimento, dunque, sviluppa e preserva norme
e valori a supporto dell'apprendimento stesso: la “tolleranza “dell'errore, l'apertura al dialogo,
l'attitudine alla sperimentazione consentono la presenza di condizioni consone a tali valori: una
forte delega nei confronti del gruppo, ad esempio, coerentemente all'assenza di un forte controllo
gerarchico tradizionale.
I processi di interazione sociale ed i contesti in cui questi processi avvengono nelle
organizzazioni, costituiscono l’humus in cui possono attecchire i processi di apprendimento,
individuale e collettivo e la condizione stessa per la generazione di processi di innovazione.
La nozione di learning organization (organizzazione che apprende) identifica dunque le
organizzazioni come “sistemi che apprendono”: le organizzazioni, sono così intese, come entità
che “processano” (nell’accezione informatica di “trattamento di un dato”) informazioni e
conoscenze sia di tipo esplicito sia tacito (ovvero implicito). In altri termini, ciò significa che ogni
organizzazione elabora e codifica numerose informazioni sia attraverso l’interazione con il
contesto nel quale agisce, sia attraverso lo scambio tra i suoi membri. I sistemi di conoscenze ed
informazioni “trattati” riguardano sia i comportamenti professionali, che le modalità attraverso le
quali si raggiungono i risultati previsti dall’organizzazione stessa, rispetto alle richieste
provenienti dall’ambiente in cui opera.
Un altro dei messaggi chiave che emergono dalla ricerca sul tema é la sottolineatura della
visione dell'apprendimento come attività sistematica e su basi di continuità.
La “conoscenza”, come risorsa da presidiare, attraverso i processi di apprendimento, infatti, é
intesa come risorsa materiale/immateriale con maggiore potenziale di innovazione.
Ma ciò che interessa la teoria dell’apprendimento organizzativo é soprattutto porre attenzione alle
modalità con le quali le conoscenze dei soggetti possono trasformarsi in senso migliorativo. Nel
contesto di questo ragionamento, l’apprendimento è interpretato soprattutto come un processo di
correzione individuale e collettiva degli errori.
Un apprendimento significativo è tale, infatti, se, attraverso processi di tipo riflessivo, conduce
alla consapevolezza dell’erroneità del comportamento individuale o di gruppo: chi voglia porsi
nell’ottica dell’apprendimento organizzativo deve orientare la propria attenzione (e quella del
gruppo di lavoro in cui opera) sulle motivazioni effettive che hanno generato il comportamento
erroneo, e riflettere sulle modalità per “migliorare” il comportamento diminuendo la possibilità di
incorrere in futuro, nell’esercizio della propria professionalità, nella tipologia di “errori” indagata.
Ogni servizio scolastico o educativo, ad esempio, ha incorporato nel tempo routines per gestire i
turni del personale di custodia, per progettare la didattica, per organizzare tempi e modalità per le
attività didattiche e ludiche, ecc. Questa conoscenza organizzativa, di fatto, è incorporata e
codificata anche quando gli individui non sono in grado di descrivere verbalmente le modalità di
esecuzione delle routines. In altri termini, ogni organizzazione rappresenta risposte ad un
insieme di domande e soluzioni ad un insieme di problemi.
È interessante ricordare che le teorie in azione sono incorporate anche nei documenti ufficiali di
un’organizzazione (Pof, organigrammi, ad esempio nell’ambito di un’organizzazione scolastica).
Le teorie in uso possono essere non corrispondenti alle teorie professate e possono portare
all’errore. L’errore è definito, nell’universo di discorso dell’apprendimento organizzativo, come la
“mancata corrispondenza tra risultati ed aspettative”. La scoperta dell’errore conduce alla
consapevolezza di una situazione problematica e, di conseguenza, ad innestare processi di
ricerca orientata alla correzione dell’errore. È come dire che l’errore è la fonte più significativa di
apprendimento perché segnala la presenza di un problema da indagare.
"L’indagine è una combinazione di ragionamento e azione" – sostengono Argyris e Schön – “Il
ricercatore non è uno spettatore ma è un attore che cerca di comprendere e di contribuire al
mutamento di una situazione considerata erronea”.
Solo così la ri-flessione sui comportamenti può trasformarsi in innovazione, cioè in un contenuto
comportamentale più ricco e più ampio. L’ampliamento di orizzonte che risiede nell’innovazione
nasce dal necessario riferimento a nuove esigenze provenienti dagli ambienti esterni con cui il
sistema organizzativo deve confrontarsi.
I risultati dell’indagine organizzativa, per essere definita apprendimento devono contenere prove
di cambiamento della teoria in uso organizzativa. Se tali cambiamenti sono incorporati in “mappe
mentali” ed immagazzinate in memorie collettive, possiamo sostenere che si è determinato
effettivamente un processo di apprendimento.
Per questo occorre predisporre strategie di rinnovamento in grado di rispondere a motivazioni
forti, in quanto gli adulti hanno bisogno di conoscere il significato di ciò che stanno facendo o
imparando.
Laddove il bagaglio delle conoscenze e competenze tacite non è oggetto di comunicazione,
molto spesso avviene che non si verifichi, di fatto, un vero e proprio apprendimento
organizzativo, nel senso che non si creano le condizioni per una condivisione dell’esperienza o
della competenza esperte di cui si è “portatori” alla comunità in cui si lavora (Nonaka & Takeuchi,
1998).
Cosa fare, dunque, per invertire tale tendenza che ostacola l’apprendimento?
Bisognerebbe che il professionista esperto superasse la reticenza a “comunicare” al meno
esperto o, semplicemente, ai colleghi il modo in cui si eseguono comportamenti, si risolvono
problemi, si mette in pratica la propria competenza: solo così si sviluppa un processo di
“ampliamento” delle conoscenze e competenze che il contesto nel quale si opera potrà esprimere
nel futuro.
È indubbio che la formazione possa avere un ruolo fondamentale nel facilitare lo scambio e la
condivisione delle conoscenze sia di tipo “esplicito” che di tipo “tacito”. Ma si deve trattare di una
formazione completamente diversa, non tanto incentrata sulla trasmissione di standards cui
uniformarsi, ma basata sulla possibilità di creare “indotti” per lo scambio di conoscenze, di
riflessioni, di soluzioni. Gli obiettivi formativi possono essere disegnati in funzione della lettura e
del monitoraggio delle conoscenze processate dalle organizzazioni, dei processi di ricezione e
codifica delle informazioni. È proprio in rapporto allo scambio ed all'introduzione di nuovi
comportamenti, ma anche di stereotipi e valori, che può emergere quel complesso di saperi e
saper fare che è il patrimonio condiviso su cui si é costituito il know how ed il successo
dell'organizzazione, vista nel suo complesso (tav. 4).

Tav. 4 – I principi operativi dell’apprendimento organizzativo

I principi operativi
L’indagine come fattore
di cambiamento

Centralità dell’interazione Autoanalisi attraverso


tra conoscenza ed azione interviste di gruppo
(individuo e gruppo) ed individuali

Sviluppo di un contesto
centrato sullo scambio
tra attori sociali

Laddove si sperimentano “pratiche eccellenti” di formazione nel corso di un’attività di classe, ad


esempio, bisognerebbe incentivare la diffusione di informazioni e “metodologie” del tipo “per
scoperta”, metodologie incentrate su stimoli aperti e sulla valorizzazione del contributo di attività
di ogni partecipante
L’area più complessa su cui sviluppare apprendimento, in qualsiasi contesto, è senza dubbio
l’area delle competenze tacite. Polany è stato tra i primi a riflettere sulle premesse psicologiche
per la nuova rilevanza affidata all'idea della "tacit knowledge" (conoscenza tacita). Secondo le
ricerche di quest’autore, generalmente le persone “conoscono molto di più di quello che possono
esprimere”; le conoscenze inespresse, tacite, forniscono stimoli “preziosi” alle attività individuali
generando modelli di regolazione dei comportamenti che più o meno inconsapevolmente, le
persone mettono in atto. È estremamente importante la capacità di ogni professionista, quando
"ricostruisce" i percorsi seguiti e le regole applicate, di "riflettere" sulla propria pratica (Polany,
1962).

3.2 Le tipologie dei processi di apprendimento organizzativo


È utile articolare il lavoro riflessivo sulle modalità in cui si determinano i processi di
apprendimento focalizzando a livello micro le specificità dei processi più importanti: é possibile,
quindi, verificare nell’ambito di un lavoro di gruppo assistito ed animato da un conduttore in che
misura e come é stato possibile sviluppare un autentico apprendimento nelle diverse aree
(Mortari, 2003; Striano, 2001).

Il primo processo é apprendere dall’esperienza: si tratta di un processo di filtro dell’esperienza


che svolgiamo tutti i giorni e che ci consente di migliorare con il tempo la capacità di sviluppare
attività. Facendo s’impara, dice anche un detto popolare. L’azione crea quegli stimoli che
consentono alla struttura psichica ed emotiva delle persone di plasmarsi passo dopo passo
elaborando modalità evolutive di orientamento rispetto alla prassi quotidiana. Forse pensavamo
di non essere in grado di (....), con qualche sforzo e con gli stimoli di un collega più anziano nella
funzione abbiamo provato e poi abbiamo finalmente imparato!

Il secondo processo è condividere le conoscenze: è un processo di circolazione delle


informazioni, dei saperi, saper dare e saper essere che ci sostiene giorno dopo giorno nella
nostra attività confermando anche il nostro senso di identità come membri di un gruppo.
Questo processo é ostacolato da quelli che possiamo definire “pensieri Killer” come: perché
dovrei condividere (....), forse perdo qualcosa della mia identità (.…), chi mai si ricorderà che ho
condiviso (....), cosa me ne viene in tasca?

Il terzo processo é tradurre le conoscenze in competenze: quando acquisiamo un sapere, un


saper fare, ecc., se riusciamo a fissarlo in un repertorio di riferimento stabile e continuativo
abbiamo fatto questo lavoro importante di “traduzione” in competenza. Quell’abilità diventerà un
tratto distintivo della nostra personalità del nostro abito di attore organizzativo.
La mera conoscenza può essere dimenticata (....) solo se si traduce in competenza diventa parte
integrante della persona.

Il quarto processo è tradurre le conoscenza in memoria organizzativa: si verificherà un vero e


proprio processo di apprendimento per la struttura nella quale noi operiamo se la buona pratica
che abbiamo realizzato diventerà un carattere distintivo della competenza collettiva della nostra
organizzazione. Perché ciò si realizzi potrà nascere una nuova regola, un nuovo modo di fare
legittimato e condiviso che é stato introdotto da scoperte individuali. Le conoscenze personali e
tacite diventano pian piano esplicite e del gruppo.

Il quinto processo é acquisire le conoscenze dall’esterno: questo processo é il più


apparentemente semplice tra i processi. Implica la capacità di modificare le proprie strutture
cognitive e comportamentali in funzione degli stimoli esterni che caratterizzano il nostro habitat.
Quante volte le parole di un bambino o il comportamento di un genitore o una lettura ci hanno
regalato elementi che hanno inciso nel nostro set mentale o emotivo orientandoci verso un nuovo
e più ricco modo di vedere le cose! La motivazione all’ascolto é però fondamentale, solo se
siamo veramente impegnati nel voler acquisire conoscenze dall’esterno potremo farlo, altrimenti
gli stimoli esterni non incideranno affatto nella struttura dei nostri convincimenti.

3.3 Quale domanda di pedagogico nella formazione degli adulti nelle organizzazioni (7)
Non è possibile cogliere il senso dei cambiamenti che attengono al ruolo del formatore, senza far
riferimento alle profonde trasformazioni del lavoro che nello scenario europeo. Un documento
fondamentale in merito è stato il Rapporto su Trasformazioni del lavoro e il futuro della
regolazione del lavoro in Europa predisposto dalla Direzione generale lavoro e politiche sociali
della Commissione Europea sotto la Direzione di Alain Supiot (1999). La commissione Supiot si è
trovata di fronte a numerosi e diversi mutamenti:

§ Il progressivo declino di sistemi produttivi standardizzati;


§ L’emergere di sistemi di carattere più eterogeneo, a rete;
§ L’emergere di economie centrate sul dominio dell’informazione e della conoscenza
piuttosto che su logiche di scala.

Se nel passato, coerentemente alla centralità del lavoro subordinato in una società
fondamentalmente di tipo fordista, la condizione lavorativa era l’unica via dell’accesso alla
cittadinanza sociale, oggi si pongono diversi elementi che minano alla base questa
identificazione.
La continuità lavorativa (il fatto che il lavoro da dipendente durava tutta la vita) diventava
continuità dello stato professionale; la discontinuità – attualmente riscontrabile – dei percorsi di
formazione e di carriera ribalta, oggi, le caratteristiche di questo fenomeno. Le condizioni
lavorative sono, inoltre, legate in misura maggiore a dimensioni monetarie che possono essere
variabili e prescindere dallo status professionale del soggetto.
Quello che poteva essere la configurazione ”astratta” con l’unicità di un datore di lavoro viene ad
essere messa in crisi sia dal punto di vista sincronico (sono reti di imprese che si interfacciano
con il lavoratore) che diacronico (per il soggetto si moltiplicano i datori di lavoro a cui si riferisce).
A partire dai più importanti documenti europei come il Rapporto Delors ed il Rapporto della
Conferenza di Lisbona e-Europe, si è delineata negli ultimi anni una visione europeista dello
sviluppo economico e civile che coniuga gli investimenti in formazione e quelli nello sviluppo delle
reti con lo sviluppo del solidarismo e della coesione sociale. Da quest’insieme di indirizzi e
principi che è stata chiamata “la via europea alla società della conoscenza”, è emerso anche, a
partire dal 2001, quello che è stato definito un nuovo modo di pensare la cultura del lavoro e
dell’apprendimento: dal tema dell’occupabilità, a quello dell’accesso alle reti di conoscenza, o al
superamento del digital divide, al ruolo delle università come motore dello sviluppo locale, fino
allo sviluppo delle piccola e media impresa, si è delineato un approccio che può porsi come
alternativo.
L’approccio presente nei documenti elaborati e promossi dall’Unione Europea considera il
sostegno dell’apprendimento come ambito di sviluppo sostanziale della democrazia.
Un altro elemento ha, inoltre, acquisito un piano condiviso di riferimenti: l’idea di un pari livello e
valore dell’apprendimento formale, di quello informale e non formale. Tra i soggetti interessati a
questo cambio di paradigma che vede l’omogeneità del livello formale e informale, le popolazioni
più deboli (giovani poco qualificati, non occupati, persone socialmente svantaggiate, lavoratori a
rischio e con professioni con pericolo di obsolescenza professionale, e quindi i soggetti
tendenzialmente portatori di diversità)
Ma qual è la situazione oggi in piena crisi recessiva? Nel sistema italiano, a fronte di un livello di
istruzione generalmente cresciuto nel corso degli ultimi anni, la spendibilità del titolo di studio a
livello occupazionale é cambiata in funzione di numerose variabili critiche: l’ambito territoriale di
appartenenza, le variabili di genere, il settore produttivo. Può essere interessante ricordare, ad
esempio, che il tasso di disoccupazione è legato al livello di scolarizzazione in maniera molto più
debole rispetto agli Stati Uniti o ad altri paesi dell’UE: sembra paradossale ma l’economia italiana
ha difficoltà nel creare posizioni lavorative che richiedano un alto grado di formazione.
Come emerge da una recente indagine promossa dal Ministero del Lavoro, le proiezioni al 2020
sulla domanda e offerta di lavoro evidenziano che il nostro Paese rischia di farsi trovare
impreparato ai prossimi cambiamenti del mercato del lavoro (European Commission, 2011) (8).
Sul primo versante, la domanda di lavoro, le ricerche del Centro europeo per lo Sviluppo della
Formazione Professionale (CEDEFOP) esprimono la chiara tendenza verso una economia della
conoscenza e dei servizi, che avrà bisogno di lavoratori sempre più qualificati (9).
L’apprendimento adulto si ritrova nel cuore del welfare attivo, inteso come parte integrante di una
nuova rete di protezione che il soggetto concorre a costruire, impegnandosi in prima persona.

L’Italia è penalizzata per le prospettive di investimento in capitale umano alla luce del
divario con altri paesi che presentano quote di occupati di formazione terziaria in misura
maggiore che il nostro. In altri termini siamo un paese a rischio competitivo e con un
basso livello di qualificazione del capitale umano rispetto alla media dei paesi UE (37,5%
contro il 19,5%). Occorre considerare, inoltre, che l’80°% degli italiani tra i 16 ed i 64 anni
ha un’insufficiente competenza alfabetica funzionale, contro il 30% della Norvegia o il 50%
del Canada, Usa, Svizzera (10).

La debolezza della richiesta di capitale qualificato da parte delle imprese è legata ad una
specializzazione produttiva in settori a tecnologia matura, alla piccola dimensione delle
imprese ed a un modello competitivo mirato alla riduzione dei costi piuttosto che
all’investimento innovativo.

I dati AlmaLaurea (2012) registrano una flessione in merito all’occupabilità dei laureati (-9%
del tasso di occupazione per i laureati di primo livello e -6% per gli specialistici, -11% di
retribuzione) (www.almalaurea.it.I dati relativi al XVI Rapporto 2013 evidenziano oltre al
consolidamento della tendenza già segnalata per l’anno precedente anche il dato
preoccupante del calo delle immatricolazioni a livello nazionale (solo il 30% dei
diciannovenni si iscrive all’università).

La tabella seguente (5) identifica, in forma sintetica, le iniziative più significative del cartello 2020
(European Commission, 2011).

Tav. 5 – Le iniziative Europa 2020

L’Unione dell’innovazione per migliorare le condizioni generali e l’accesso ai finanziamenti per


la ricerca e l’innovazione, facendo in modo che le idee innovative si trasformino in nuovi prodotti
e servizi tali da stimolare la crescita e l’occupazione.

Youth on the move per migliorare l’efficienza dei sistemi di insegnamento e agevolare l’ingresso
dei giovani nel mercato del lavoro.

Un’agenda europea del digitale per accelerare la diffusione dell’internet ad alta velocità e
sfruttare i vantaggi di un mercato unico del digitale per famiglie e imprese.

Un’Europa efficiente sotto il profilo delle risorse per contribuire a scindere la crescita
economica dall’uso delle risorse.

Le previsioni indicano che l’economia europea domanderà nel futuro il 31,5% di occupati con
alti livelli di istruzione e qualificazione, il 50% con livelli intermedi mentre i posti di lavoro per i
soggetti con bassi livelli di qualificazione crolleranno dal 33% del 1996 al 18,5%.
Occorre dunque portare a meno del 10% la percentuale della popolazione compresa tra i 18 e i
24 anni che ha abbandonato gli studi e far sì che almeno il 40% dei giovani adulti (30-34 anni)
dell’UE conseguano la laurea.
Nell’UE attualmente si riscontra una percentuale di quasi 6 milioni di giovani sono disoccupati,
con livelli che in taluni paesi superano il 50%. Nello stesso tempo si registrano oltre 2 milioni di
posti di lavoro vacanti e un terzo dei datori di lavoro segnala difficoltà ad assumere personale
con le qualifiche necessarie .
Di fronte a questo scenario, si evidenziano comunque nuove prospettive di grande interesse
anche per gli Istituti superiori per l’avvio di progetti innovativi grazie ad alleanze con Università,
enti di ricerca o enti territoriali partecipando al programma Erasmus + “Youth Garantee”.
Nel 2014 Erasmus + disporrà complessivamente di 1 miliardo e 800 milioni di euro per
finanziamenti volti a promuovere opportunità di mobilità per:gli studenti, per i tirocinanti, per gli
insegnanti e altro personale docente, giovani per gli scambi di giovani, animatori giovanili e
volontari:

- sarà possibile creare o migliorare partenariati tra istituzioni e organizzazioni nei settori
dell’istruzione, della formazione e dei giovani e il mondo del lavoro;
- sostenere il dialogo e reperire una serie di informazioni concrete, necessarie per realizzare la
riforma dei sistemi di istruzione, formazione e assistenza ai giovani.

Sono sempre più necessarie, dunque, per i dirigenti degli istituti scolastici e per gli insegnanti
nuove competenze orientate alla capacità di intercettare opportunità di ricerca finanziata grazie ai
fondi europei e capacità di scambio e collaborazione con gli attori formativi e culturali presenti nel
territorio.
Si tratta, in definitiva, di generare nelle scuole una nuova cultura formativa orientata al dialogo ed
ad una progettualità condivisa in grado di sviluppare innovazione ed apertura
all’internazionalizzazione.
Riepilogando
Il capitolo avvia una riflessione sui focus della relazione formativa articolando alcune dimensioni
chiave come aree di impegno e ricerca. Si sofferma quindi sull’approccio dell’apprendimento
organizzativo inteso come approccio in grado di sviluppare un orientamento effettivo e duraturo
al cambiamento ed all’innovazione partendo dalla responsabilizzazione dei singoli soggetti.
Il discorso si sofferma sulle trasformazioni nelle dinamiche occupazionali e nelle risorse
tecnologiche che hanno reso sempre più complesso l’investimento in formazione. In particolare
l’accento è posto sulla situazione di svantaggio del paese per quanto riguarda la densità del
capitale umano qualificato.
Il capitolo si chiude facendo riferimento allo scenario auspicato dalla Commissione europea in
prospettiva 2020 ed alle prospettive di sviluppo per le scuole di buone pratiche collaborative.

Note di riferimento

(1) Questa filiera di ricerca sulla formazione si è avvalsa negli ultimi anni di una serie particolarmente
significativa di contributi: cfr: ad esempio, oltre agli autori citati nel testo anche in bibliografia generale, G.
Bocca, P. Calidoni, R. Laporta, U. Margiotta, D. Demetro, A. Alberici, A. Granese.
(2) Cfr. ad esempio le opere di G. Quaglino, e le opere di De Masi, molto note ed utilizzate anche dal punto
di vista dell'approccio metodologico ed applicativo dai formatori aziendali.
(3) Su questi temi cfr in particolare il volume Pedagogia sociale, Carocci Editore, Roma 2003 e la
bibliografia ivi citata.
(4) Sulla dimensione formativa cfr. in particolare il mio Manuale dei processi formativi, Carocci Editore,
1998, il capitolo “I modelli di competenza”.
(5) Nel quadro di riferimento delle politiche formative italiane, la formazione continua rientra nelle attività
formative rivolte all’individuo appartenente alla forza lavoro, mirante a far acquisire competenze spendibili
a breve tempo sul mercato del lavoro. La finalità principale della formazione continua è l’incremento del
valore del capitale umano, a beneficio sia dei lavoratori sia delle imprese e in generale del Paese nel
complesso.
(6) Rilevante al proposito è il tavolo Nazionale sul Bilancio di Competenze promosso dall’ISFOL: cfr il
saggio di Anna Grimaldi, Il documento Isfol sul bilancio di competenze, in “Professionalità”, giugno 2010,
pp. 17-26. Altresì, la ricerca appena conclusa – che ha visto coinvolti ricercatori del Centro CEFORC
“Formazione Continua & Comunicazione” e UIL TEMP – e relativo alla realizzazione ed implementazione
del “Libretto Esperienziale” come strumento di identità formativa/lavorativa del lavoratore in
somministrazione. Tale “strumento” é finalizzato al raggiungimento di due obiettivi già pre-individuati dal
sistema: il primo è di ordinare in maniera strutturata la rilevazione-attestazione-certificazione delle
competenze, a supporto dello stesso processo di gestione delle competenze del lavoratore, l’altro è di
sostenere i lavoratori, che accedono anche alla formazione continua, nell’individuazione dei percorsi
formativi, seguendo logiche di personalizzazione e di sviluppo professionale, coerenti con le attitudini e le
proprie aspirazioni.
(7) Su questi temi cfr. in particolare il mio Pedagogia delle risorse umane e delle organizzazioni, Guerini
editore, Milano 2004.
(8) Un passo in avanti significativo è stato compiuto di recente nella direzione di scenari auspicabili di
transizione formazione-lavoro dal documento Europa 2020, il quale ha fornito un quadro esaustivo
dell’economia del mercato sociale europeo per il XXI secolo. In particolare, il documento rivendica
l’esigenza – nonché priorità – di: una crescita intelligente, al fine di sviluppare un’economia basata sulla
conoscenza e sulla innovazione; una crescita sostenibile, per promuovere un’economia più efficiente sotto
il profilo delle risorse, più verde e più competitiva; una crescita inclusiva, per promuovere un’economia con
un alto tasso di occupazione che favorisca la coesione sociale e territoriale. Alla base della strategia, sono
stati definiti – in riferimento a specifiche iniziative – gli obiettivi da raggiungere in vista del 2020: a) il 75%
delle persone di età compresa tra 20 e 64 anni deve avere un lavoro; b) il 3% del PIL dell’UE deve essere
investito in R&S, migliorando in particolare le condizioni per gli investimenti in R&S del settore privato, e
definire un nuovo indicatore per seguire i progressi in materia di innovazioni. Nel 2020, l’economia europea
domanderà il 31,5% di occupati con alti livelli di istruzione e qualificazione, il 50% con livelli intermedi
mentre i posti di lavoro per i soggetti con bassi livelli di qualificazione crolleranno dal 33% del 1996 al
18,5%. Per approfondire l’argomento, cfr. Europa 2020. Una strategia per una crescita intelligente,
sostenibile e inclusive a cura della commissione Europea, 2011.
(9) La sottolineatura relativa al bisogno di qualificazione in ingresso nel mondo produttivo, viene a
contraddire paradossalmente quanto emerge dai dati. È significativo ricordare infatti che secondo i dati
dell’XI Rapporto realizzato dal Consorzio Almalaurea, il calo generalizzato nella richiesta di laureati da
parte delle imprese è del 23%. Il primo di settembre 2010, ad esempio, si legge in un quotidiano di larga
diffusione come commento ai nuovi dati ISTAT “Senza lavoro un giovane su quattro: disoccupazione
stabile all’8,4%, ed ancora tra i 15 e 64 anni in quindici milioni non lavorano, sette persone su venti sono
inattive”.
(10) Per la ricerca OCSE, Indagine ALL. Adult Literacy and Life Skills – Competenze alfabetiche funzionali
e abilità per la vita (http://nces.ed.gov/Surveys/ALL/index.asp).

AUTOVERIFICA DELL’APPRENDIMENTO

Domanda 1
Quali sono i significati di una delle componenti etimologiche del verbo “formare”, la parola latina
“forma”?
1. l’atto dell’educare
2. “condizionamento“ e “guida”
3. autosviluppo

Commento
È corretta la risposta 2 in quanto la parola ”forma” nel significato latino indica metaforicamente
l’impronta che si determina sotto la pressione in una tavoletta di cera.
La risposta 1 non è esatta perché generica.
La risposta 3 é il significato insito nella parola greca “morfé”

Domanda 2
Focalizziamo l’attenzione alle finalità della formazione rispetto ai contesti organizzativi. Quali
sono le due anime della formazione?
1. una tendenza alla trasformazione, al cambiamento, ed una tendenza alla conservazione
2. la didattica e l’educazione
3. la dimensione della comunità e quella dell’individuo

Commento
È corretta la 1 perche richiama i due poli di un processo formativo: lo sviluppo e la memoria.
La 2 è scorretta perché didattica ed educazione sono due ambiti generali della pedagogia.
La 3 è scorretta, non pertinente.

Domanda 3
Gli interventi formativi legati ai bisogni aziendali sono:
1. formazione per neoassunti e formazione per la sicurezza
2. processi di comunicazione interna
3. formazione linguistica

Commento
La risposta 1 indica correttamente due aree di intervento del formatore aziendale.
La risposta 2 indica un’area settoriale non sempre oggetto della formazione aziendale.
La risposta 3 indica un area specialistica.

Domanda 4
Come definire la processualità dell’atto formativo?
1. è un elemento descrittivo fondamentale della formazione in quanto indica la gradualità
della crescita del soggetto
2. è un indicatore della motivazione che sottende l’apprendimento.
3. é lo strumento che permette di valutare il soggetto

Commento
La risposta 2 non è pertinente.
La risposta 3 é errata.
La risposta 1 indica effettivamente cosa si intende per processualità formativa.

Domanda 5
Il documento “Europa 2020” rivendica – in particolare – la priorità di favorire la crescita inclusiva
per:
1. promuovere un’economia più efficiente sotto il profilo delle risorse, più verde e più
competitiva
2. riconoscere la centralità dell’istruzione e della formazione come sistemi di learningfare
3. promuovere un’economia con un alto tasso di occupazione e garantire forme di coesione

Commento
La risposta 2 richiama uno dei punti previsti dal documento, ma non collegabili alla priorità
indicata.
La risposta 2 é errata.
La risposta 3 indica effettivamente in cosa consiste la priorità.

Domanda 6
L’approccio apprendimento organizzativo consente di ripensare il funzionamento dei sistemi
organizzativi ponendo l’apprendimento al centro dei sistemi gestionali come condizione di
sopravvivenza dei sistemi stessi.
1. Vero
2. Falso

Commento
Se hai risposto 1: hai colto perfettamente il valore aggiunto apportato dal concetto di
apprendimento organizzativo.
Se hai risposto 2: non hai colto che l’affermazione era esatta. L’apprendimento delle
organizzazioni, inteso come processo dinamico che consente l’interazione tra organizzazioni ed
ambiente è una fonte di sopravvivenza.

Domanda 7
Per approccio sistemico si intende l’analisi dell’organizzazione nel suo complesso vista come
sistema aperto in rapporto dinamico con l’ambiente e caratterizzato da relazioni di
interdipendenza con l’esterno.
1. Vero
2. Falso

Commento
Se hai risposto 1: hai compreso appieno che la relazione di interdipendenza tra elementi di
contesto è quella che contraddistingue la visione sistemica degli scenari organizzativi.
Se hai risposto 2: la definizione proposta è chiara e sufficientemente comprensiva della
carratterizzazione “sistemica”.

BIBLIOGRAFIA, SITOGRAFIA
AA.VV. (1989), Professione formazione, Franco Angeli, Milano.
AA.VV., Guida alla Formazione Continua, voll. 1-2, Franco Angeli, Milano 2007
AA.VV., Rapporto sulla Formazione continua 2008, Rubbettino Industrie Grafiche Editoriali, Roma
2008
AA.VV. (2014), Rapporto Fondazione Agnelli, febbraio 2014.
AJELLO A. M, CEVOLI M., MEGHNAGI S. (1992), La competenza esperta, Ediesse, Roma.
ALBERICI A., (1999), Imparare sempre nella società cognitiva, Paravia, Torino,1999.
ALESSANDRINI G. (1995), Apprendimento organizzativo. La via del Kambrain, Unicopli, Milano.
ALESSANDRINI G. (1998), Manuale per l’esperto dei processi formativi, Carocci, Roma.
ALESSANDRINI G. (2003), Pedagogia sociale, Carocci, Roma.
ALESSANDRINI G. (2004), Pedagogia delle risorse umane e delle organizzazioni, Guerini,
Milano.
ALESSANDRINI G. (2005), Manuale per l’esperto dei processi formativi, Carocci, Roma.
ALESSANDRINI G. (2007), Comunità di pratica e società della conoscenza, Carocci, Roma.
ALESSANDRINI G. (2012), Formazione, organizzazione e comunità di pratiche: un percorso per il
cambiamento, in Dirigenti Scuola, “La scuola come comunità di pratiche. Apprendistato cognitivo e
apprendimento situato”, La Scuola, Brescia, n. 32.
ALESSANDRINI G. (2013a), La formazione al centro dello sviluppo umano. Crescita, lavoro,
innovazione, Giuffrè editore, Milano.
ALMALAUREA (2012), XIV Indagine Almalaurea sulla condizione occupazionale dei laureati.
ARGYRIS C. e SCHON D., (1998), Apprendimento organizzativo, Guerini e Associati, Milano.
BENADUSI L. (1999), La scuola dell'autonomia, in "Scuola Democratica", numero monografico.
BERTOLINI P. (1988), L'esistere pedagogico, La Nuova Italia, Firenze.
BOAM R., SPARROW P. (1996), Come disegnare e realizzare le competenze organizzative,
Franco Angeli, Milano.
BOCCA G. (2000), Pandemonio. Il miraggio della new economy, Mondadori, Milano.
CALIDONI P. (2001), Ricerca pedagogica, La Scuola, Brescia.
CAMBI F. (1999), La persona non è una res. Appunti su personalismo e persona, formazione e
pedagogia, in Bernardinis A.M., Bohm W., Laeng M. e Laporta R. (a cura di), “Spirito e forme di
una nuova Paideia”, Agorà edizioni, Catania.
CEDEFOP (2009), European guidelines for validating non formal and informal learning.
CIVELLI F., MANARA D. (1997), Lavorare con le competenze, Guerini e Associati, Milano.
CONSIGLIO DEI MINISTRI (2013), Definizione delle norme generali e dei livelli essenziali delle
prestazioni per l’individuazione e validazione degli apprendimenti non formali e informali e degli
standard minimi di servizio del sistema nazionale di certificazione delle competenze, ai sensi
de|l’articolo 4, commi 58 e 68, della legge 28 giugno 2012, n. 92, 11 GENNAIO 2013.
CORONAS F. (2003), La formazione continua dei lavoratori. Fondo sociale europeo, accordi,
norme nazionali, in Meghnagi S. (a cura di), “Collana formazione”, Ediesse, Roma.
DANDOLO D., PETTENELLO R. (2003), Strumenti del nuovo sviluppo, I Fondi per la formazione
continua. Una scommessa da giocare, Guide Ediesse, Roma.
DELORS J. et al. (1996), Learning: the Treasure within. Report to UNESCO of the International
Commission on Education for the Twenty-first Century, UNESCO, Paris (trad. it., Nell’educazione
un tesoro, Armando, Roma 1997).
DEMETRIO D. (1991), Tornare a crescere, Guerini e Associati, Milano.
Di FRANCESCO G. (1994), Competenze trasversali e comportamento organizzativo, Franco
Angeli, Milano.
EUROPEAN COMMISSION (2011), Europa 2020. Una strategia per una crescita intelligente,
sostenibile e inclusive.
FAWCETT W. (1968), L’influenza dello sviluppo nelle carriere lavorative, in Havighrust R.J.. (Ed),
“Metropolitanism and its challeng education”, Chicago.
GRANESE A. (2002), Etica della formazione e dello sviluppo, nuova economia, società globale.
Preliminari pedagogici a una ricostruzione filosofica, Anicia, Roma.
GRIMALDI A. (2010), Il documento Isfol sul bilancio di competenze, in “Professionalità”, pp. 17-26.
ISFOL (1994), Competenze trasversali e comportamento organizzativo, Franco Angeli, Milano.
ISFOL (1998a), Standard formatori per un modello nazionale di competenze verso
l’accreditamento professionale, ISFOL, Roma.
ISFOL (1998b), Formazione e occupazione in Italia e in Europa. Rapporto 1998, Franco Angeli,
Milano.
ISFOL (1999) Rapporto Isfol 1999. Formazione, orientamento, occupazione, nuove tecnologie,
professionalità, Franco Angeli, Milano.
ISFOL (a cura di) (2002a), Memorandum Europeo sull'istruzione e la formazione permanente,
Rapporto nazionale sul processo di consultazione.
ISFOL (2002b), Economia e costi della formazione aziendale, Franco Angeli, Milano.
ISFOL (2008), Documento tecnico sul Bilancio delle Competenze, Roma.
ISFOL (2012), Rapporto Isfol 2012. Le competenze per l’occupazione e la crescita, Rubbettino
Editore, Roma.
LAPORTA R. (1980), Insegnanti come e perché, Giunti e Lisciani, Teramo.
LIPARI D. (2012), Formatori. Etnografia di un arcipelago professionale, Franco Angeli, Milano.
MARGIOTTA U. (2009), Genealogia della formazione. I dispositivi pedagogici della modernità,
Libreria Editrice Cafoscarina, Venezia.
MARITAIN J. (1955), L’educazione al bivio, La Scuola, Brescia.
MINTZBERG H. (1985), La progettazione dell'organizzazione aziendale, Il Mulino, Bologna.
MORTARI L. (2003), Apprendere dall’esperienza. Il pensare riflessivo nella formazione, Carocci,
Roma.
MORTARI L. (a cura di) (2010), Dire la pratica. La cultura del fare scuola, Mondadori, Milano.
MOUNIER E. (1964), Il personalismo, AVE, Roma.
MUSGRAVE P. (1969), La scuola come organizzazione, Yale University Press, London.
NONAKA I., TAKEUCHI H. (1998), The knowledge-creating company. Creare le dinamiche
dell'innovazione, Guerini & Associati, Milano.
OCSE, Indagine ALL. Adult Literacy and Life Skills – Competenze alfabetiche funzionali e abilità
per la vita (http://nces.ed.gov/Surveys/ALL/index.asp).
PARLAMENTO EUROPEO (2006), Risoluzione legislativa del Parlamento europeo del 24 ottobre
2007 sulla proposta di raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio sulla
costituzione del Quadro europeo delle Qualifiche e dei Titoli per l'apprendimento permanente
COM(2006)0479 – C6-0294/2006 – 2006/0163(COD).
PERULLI E. (2011), Il Libretto Formativo nei contesti aziendali, in “Osservatorio ISFOL”, n. 2.
POLANY M. (1962), Personal Knowledge. Towards a Post-Critical Philosophy, The University of
Chicago Press, Chicago (IL).
PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI (2000), Rapporto sullo sviluppo della Società
dell’informazione e Europe 2002. Un Progetto per l’Italia e l’Europa, un contributo per la comunità
internazionale.
PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI (2012), Schema di decreto legislativo recante
definizione delle norme generali e dei livelli essenziali delle prestazioni per l’individuazione e
validazione degli apprendimenti non formali e informali e degli standard minimi di servizio del
sistema nazionale di certificazione delle competenze.
RIFTKIN J. (1995), La fine del lavoro, Baldini & Castoldi, Milano.
ROSSO G. (2011), Gestire una scuola tramite lo sviluppo di comunità di pratica, in Alessandrini G.
& Pignalberi C., “Comunità di pratica e Pedagogia del lavoro. Voglia di comunità in azienda”,
Pensa Multimedia, Lecce.
SCURATI C. (1991), Profili nell'educazione. Ideali e modelli pedagogici nel pensiero
contemporaneo, Vita e Pensiero, Milano.
SCURATI C., CERIANI A. (1994), La dirigenza scolastica. Vicende, sviluppi e prospettive, La
Scuola, Brescia.
SERGIOVANNI T.J. (2000), Costruire comunità nelle scuole, LAS, Roma.
SPENCER L.M. & SPENCER S.M. (1995), Competenza nel lavoro ,modelli per una performance
superiore, Franco Angeli, Milano.
STEFANINI L. (1952), Personalismo sociale, Studium, Roma.
STRIANO M. (2001), La “razionalità riflessiva” nell’agire educativo, Liguori, Napoli.
SUPIOT A. (a cura di) (1999), Il futuro del lavoro. Trasformazioni dell’occupazione e prospettive
della regolazione del lavoro in Europa, Rapporto redatto per la Commissione europea in
collaborazione con l’Università Carlos III di Madrid, ed. it. a cura di Barbieri P. e Mingione E.,
Carocci, Roma.
TÖNNIES F. (1887), Gemeinschaft und Gesellschaft.
ZAGARDO G. (2000), Orientamento nel lavoro: per un bilancio di competenze, Edizioni Romane
di cultura, Roma.
www.bolognaprocess.it
www.bollettinoadapt.it
www.ceforc.eu
www.ec.europa.eu/education.it
www.ec.europa.eu/programmes/erasmus-plus/index_en.htm
www.ec.europa.eu/programmes/horizon2020/
www.eqavet.eu
www.eqf.eu
www.eqfnet-testing.eu

Potrebbero piacerti anche