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Didattica generale Seconda edizione

CAP. 7 La trasposizione didattica Scoprire il senso dei saperi


disciplinari

7.1 insegnare le discipline: LE SCELTE DELL’INSEGNANTE TRA


PASSIONE, CREDENZE E COMPETENZE
Dewey, nell’opera Democrazie e educazione, scrive che il compito principale degli
insegnanti è “suscitare il desiderio” di imparare, ossia suscitare in loro la curiosità di
quanto non conoscono per poter essere cittadini di oggi e di domani. Il messaggio di
Dewey ispira tutti gli ordini dall’infanzia alle superiori, dove è spesso radicato un
insegnamento perlopiù trasmissivo. È anche un messaggio valido anche per tutte quelle
esperienze cosiddette “trasversali”, che abbracciano quindi tutte quelle competenze
trasversali che sono centrali nei momenti di certificazione alla fine della classe V primaria e
della III secondaria. Alla luce delle Indicazioni Nazionali per il Curriculo del 2012 e delle
Indicazioni nazionali e Nuovi Scenari del 2018, ci si propone il superamento della
separazione tra discipline e la promozione di una visione interdisciplinare
dell’insegnamento e dell’apprendimento.
Quale funzione attribuire alla conoscenza disciplinare a scuola?
Quale spazio assegnare all’accompagnamento degli studenti nella costruzione dei concetti
attraversando le varie discipline?
Come permettere che oltre alla padronanza dei concetti vi sia anche la possibilità per lo
studente di creare dei ponti tra le discipline per attuare l’interdisciplinarietà che è il
prossimo orizzonte?
In che modo rendere accessibili concetti e conoscenze che sembrano scollati dalla realtà
del quotidiano degli studenti?
Rispondiamo con le parole di Emanuele Ferrari, professore di didattica della musica: “il
‘problema’ di tutti gli insegnanti è come appassionare ad una disciplina e, allo stesso
tempo, garantire il rigore concettuale degli apprendimenti non solo e non tanto con
l’entusiasmo e la passione, ma con un radicale investimento esistenziale del docente nella
disciplina”.
Passione e rigore conoscitivo sono due poli che nella pratica professionale dell’insegnante
sono in costante tensione: questa tensione può essere vista come il nucleo costitutivo da
cui originano le competenze professionali dell’insegnante. Si tratta di andare ben oltre le
discipline. Il compito è grande: portare dentro di sé quella tensione che non può risolversi
in uno o nell’altro dei due poli ma che necessita di un dialogo continuo tra questi due ossia
tra le competenze pedagogiche-didattiche e quelle dei diversi ambiti disciplinari. A questo
dialogo auspica Giovanni Benvenuti, parlando di una vera e propria ‘sfida’ professionale da
risolvere in una terra di mezzo, ossia un campo di mediazione, dove appunto per B. si
incontrano il sapere disciplinare e il sapere pedagogico-didattico. In quanto è l’insegnante
che si trova a dover costruire ponti tra mondi diversi e lontani, sarà proprio egli che
assumerà il ruolo di mediatore del sapere, operando quella che viene chiamata la
“trasposizione didattica”, ossia quel processo in base al quale vengono selezionati e
organizzati i contenuti disciplinari da insegnare, sotto una forma scolastica insegnabile e
accessibile agli allievi. Il concetto di ‘trasposizione didattica’ nasce dalla riflessione sulla
relazione tra la scelta dei contenuti da insegnare agli studenti e l’idea socio-politica-
culturale che tale sapere porta con sé. Tale processo ha diverse fasi: 1. Quella iniziale del
sapere elaborati in luoghi specifici come le Univeristà/Ricerca; 2. Quella dove la
“Sapienza” è trasformata dall’istituzione scolastica in modo che sia utilizzabile dagli
insegnanti; 3. Quella in cui il sapere entra nelle mani dell’insegnante che lo rende
accessibile agli studenti che così possono apprendere. L’azione traspositiva avviene quindi
in due momenti: a cavallo dei due passaggi di trasformazione del sapere, di cui il primo si
concretizza nella costruzione dei libri di testo e il secondo nella trasformazione del sapere
da parte dell’insegnante.
Se si pensa ad un insegnante che non accetta passivamente le proposte, pur valide, dei
libri di testo, ma compie un continuo approfondimento disciplinare e un cercare il raccordo
tra il mondo degli studenti e l’universo che è fuori, allora le scelte alla base della
trasposizione interna non si possono limitare allo spezzettamento dei contenuti senza una
visione d’insieme e quindi senza una connessione con il mondo esterno alle mura
scolastiche. L’insegnante deve adottare uno sguardo ampio, olistico, prima di spezzettare
un certo argomento, e questo per evitare una presentazione superficiale e atomizzata
priva di passione e competenza a beneficio di una reale padronanza concettuale. La
trasposizione didattica è quel processo che porta l’insegnante a interrogarsi sul suo
rapporto con il sapere disciplinare e sulle finalità per cui si predilige un certo sapere (ad es.
Rosso Malpelo) al posto di altri più contemporanei ma meno adeguati agli obiettivi posti. E’
fondamentale porsi la domanda: “che cosa voglio che i ragazzi imparino in un certo ambito
del sapere” e la risposta ha un ruolo centrale nell’accompagnare l’apprendimento degli
studenti e il loro rapporto con la conoscenza appresa poiché è attraverso la selezione dei
contenuti che l’insegnante costruisce il processo di mediazione e allestisce le condizioni
per orientare il rapporto tra il desiderio di conoscere degli studenti e il sapere.
Spesso capita di sentire studenti o docenti affermare di non essere per nulla portati per
una determinata materia, come se apprendere una certa abilità o competenza sia
appannaggio di pochi eletti. Come poter quindi rendere accessibile a tutti gli studenti le
conoscenze disciplinari e accompagnare la costruzione dei saperi e lo sviluppo di
competenze? Per rispondere bisogna interrogare la soggettività dell’insegnante e i suoi
riferimenti sul come si apprenda. Una credenza stereotipata e limitata di un insegnante,
circa le basse possibilità di prestazione di certi alunni, orienta le stesse scelte didattiche e
il rapporto che tali studenti costruiscono con un dato sapere. Molte ricerche indagano il
rapporto tra le credenze degli insegnanti e l’atteggiamento che gli studenti costruiscono
verso le lor discipline. Talvolta i docenti cascano in rappresentazioni stereotipate, in
etichettature che tradiscono un’attenta osservazione e capacità dello studente, di fatto
discriminandolo.
È chiaro come il primo passo per mettere in atto una trasposizione didattica efficace è
quello di indagare il rapporto dell’insegnante con la disciplina.

Approfondimento 1 La trasposizione didattica


il concetto di trasposizione didattica compare in sociologia nel lavoro di Michel Verret del
1975, per descrivere l’azione di privazione e decontestualizzazione subita dal sapere nel
passaggio dai contesti di produzione a quelli di insegnamento universitario. La successiva
opera di Yves Chevallard del 1985 inserisce tale concetto all’interno della teoria didattica,
in particolare alla didattica della matematica.

7.2 Le credenze degli insegnanti sui saperi disciplinari


Lee Shulman, negli stessi anni, descrive la conoscenza degli insegnanti come una rete di
forme conoscitive che nascono dall’esperienza e afferma che la modalità con cui
l’insegnante propone la sua disciplina dipende dagli assunti ideologici e dai valori del
docente stesso. Shulman indaga il ruolo di tali principi, di tali “credenze”, nell’orientare le
azioni didattiche dell’insegnante e sottolinea l’importanza di interrogare tali credenze al fine
di comprendere i motivi profondi alla base delle sue scelte: cosa so di quella disciplina?
Quali sono le fonti delle conoscenze che ho? Come decido cosa insegnare? Diventa
prioritario riuscire a ripercorrere i punti cruciali della “storia” dell’insegnante con i contenuti
disciplinari e rendere esplicite le ragioni che condizionano le scelte che si compiono nel
selezionare un certo argomento e proporlo agli studenti. Questo per evitare che si mettano
in atto delle azioni didattiche in maniera meccanica, seguendo pedissequamente l’ordine
cronologico del libro senza aggiungere nulla di proprio, come se la conoscenza si
ripetesse identica anno dopo anno, classe dopo classe. Un insegnante che abbia un buon
rapporto con la sua disciplina se ne innamora, ci si immerge nella quotidianità della vita
reale.
Il modo di comprendere e comunicare i contenuti disciplinari da parte di un docente
trasmette agli studenti l’idea di cosa sia essenziale e cosa sia periferico circa l’oggetto
trattato e una serie di attitudini e valori che influenzano la comprensione dello studente.
Vediamo un esempio di una modalità di “credenze” che orienta le azioni disciplinari di un
insegnante. Contesto> correzione di un tema, in una seconda media, dal titolo “rifletti sul
tuo futuro e scrivi quello che pensi sul tuo quaderno: il prossimo anno, quando davvero
dovrai fare la scelta, lo potrai rileggere”. Due ore di tempo, correzione individualizzata,
consegna del testo corretto.
L’analisi, rapida e parziale, della modalità di correzione del tema, è un’utile strategia per
provare a ricostruire alcuni aspetti della particolare visione disciplinare dell’insegnante.
Considerare gli elementi a cui l’insegnante volge il proprio sguardo valutativo, consente di
caratterizzare alcuni tratti della conoscenza disciplinare del docente, in questo caso
riguardanti l’insegnamento della lingua italiana e in qui la didattica della scrittura. Emerge
con evidenza la concentrazione delle ‘segnalazioni’ in rosso su periodi da riformulare e la
frequente attenzione sulla punteggiatura. Si richiede quindi prima una riformulazione senza
chiarire su cosa e poi l’inserimento di una possibile soluzione inserendo il punto in due
passaggi del periodo. Sono due tipologie di correzioni: la prima di carattere rilevativo
(poiché identifica la porzione testuale che necessita una revisione senza classificare
l’errore ma invitando lo studente a trovarlo e correggerlo) , la seconda di carattere
risolutivo (poiché interviene direttamente sul testo e lo modifica laddove ritiene ci sia un
errore). In continuità con le domande di Shulman possiamo chiederci come mai
l’insegnante dedichi priorità a questi due elementi e perché concentra l’attenzione su
forma, contenuto e lessico e non su altro? Perché usa il rosso per gli ‘errori’ adottando una
correzione ‘rilevativa’ e ‘risolutiva’ quando gli studi affermano che le strategie valutative più
efficaci sono quelle in cui gli studenti mettono in atto forme di autovalutazione in grado di
attivare modalità metacognitive? Perché non si fornisce un feedback sul contenuto ma solo
sugli aspetti morfosintattici? A quali modelli di didattica è collegabile un simile approccio?
Per Giovanni Benvenuti spesso la scuola promuove un legame debole con l’esperienza
letteraria: non viene suscitato il desiderio alla lettura e viene appoggiata invece una
tendenza ad assimilare la ‘scienza’ non come un’entità viva ma come un repertorio di
nozioni. Tale legame debole trova radici in anni e anni in cui a scuola l’esperienza
letteraria è stata ed è strumentale alle interrogazioni e non invece alla libera esplorazione
di opere. Come costruire allora un rapporto generativo tra studenti e contenuti disciplinari?
Come creare incontro tra la quotidianità degli studenti e il mondo conoscitivo chiuso nei
confini disciplinari?

7.3 Trasposizione didattica ed evoluzione storica delle discipline


Gli autori che abbiamo visto sinora, ci spiegano che operare un processo di trasformazione
dal sapere ‘sapiente’ al sapere ‘insegnato’, significa interrogare il proprio sapere
disciplinare e quello già in possesso degli studenti. Se si vogliono avvicinare gli studenti
alla disciplina che insegniamo, occorre riflettere sul tipo di rapporto che si desidera
instaurare tra studenti e sapere; se metodico e meccanico, freddo o se pronto a strutturarsi
a partire dall’incontro con i mediatori e con esperienze significative legate alla concretezza
del quotidiano (tipo dove smaltire gli elettrodomestici, fare interviste al personale che
lavora negli impianti di riciclaggio ecc.) favorendo così uno sguardo sul potenziale del
proprio territorio a favore della collettività. Interessante lo sguardo di Maria Bartolini Bussi,
la quale afferma, a proposito della formazione dei futuri insegnanti, che conoscere qualche
elemento di storia e di antropologia dei numeri può rompere gli stereotipi eurocentrici
dell’insegnante e far riflettere sui processi elementari legati alla quantificazione come
risposta a bisogni primordiali umani quali il riparo, il commercio e l’orientamento nello
spazio. In un esempio dove viene raccontato un dialogo tra gli alunni e l’insegnante - che
non ha ancora introdotto la lettura delle centinaia – si possono esaminare le strategie,
messe in atto dai diversi bambini, per risolvere la lettura bene il numero 101, lettura legata
al riconoscimento o meno del valore posizionale delle cifre. Tale avvenimento ha dato la
possibilità all’insegnante di osservare i nodi problematici che i bambini affrontano nel
processo di concettualizzazione del valore posizionale delle cifre e, quindi, di compiere le
scelte necessarie per trasporre il sapere da insegnare in sapere insegnato. L’insegnante
non è solo chiamato a padroneggiare la disciplina che insegna, ma a conoscere cosa la
caratterizza in profondità, come è cambiata nel tempo, e nei diversi contesti storici ove si è
sviluppata.
Prendiamo degli argomenti di grande fascinazione: quello di ereditarietà genetica (i piselli
di Mendel), quello dell’astrologia, considerata una scienza fino al Seicento, o quello della
Carta di
Mercatore. È interessante notare come, per ciascuno degli argomenti indicati, sia cambiato
nei secoli il valore o la validità dei suoi contenuti e l’attribuzione di una scienza. Cosa
accompagna il passaggio da una visione a un’altra?
Conoscere i diversi passaggi epistemologici che hanno interessato una certa disciplina,
comprendere l’evoluzione che questa ha avuto nei diversi periodi storici e nei differenti
contesti culturali, può dunque influire molto sulle pratiche didattiche, magari contribuendo
anche a mettere in discussione lo stereotipo dello scienziato geniale e illuminato, chiuso
nel suo laboratorio a fare esperimenti, e a restituire un’immagine della conoscenza
scientifica piena di dubbi, tensioni, scontri che raramente trovano una soluzione definitiva.
Il sapere è sempre sapiente, anche quando determinate teorie vengono abbandonate o
superate. Il fatto che i bambini siano spesso portati a ritenere, in base a un’ “errata”
interpretazione di una “giusta” osservazione, che sia il sole a girare intorno alla Terra può
diventare uno spunto stimolante per affrontare lo scontro tra la teoria tolemaica
geocentrica, accettata per millenni dalla comunità scientifica del tempo corrispondente, e
la teoria eliocentrica elaborata da Copernico nel Sedicesimo secolo e rivista da Galileo e
Keplero in un contesto di profonde lotte e rivolgimenti politici. Come mostrano le recenti
Teorie sull’apprendimento, l’insegnante quando traspone il sapere da insegnare in sapere
insegnato, non può non considerare a fondo le conoscenze informali che i bambini hanno
elaborato nella loro esperienza del mondo reale, le loro teorie implicite e le loro
misconcezioni che hanno costruito negli anni precedenti. La possibilità di mettere a
confronto i saperi sapienti – formalizzati e riconosciuti all’interno di una comunità di esperti
– con le pratiche sociali da cui traggono origine o a cui vengono applicati, richiama la
necessità per l’insegnante di mantenere vivo il rapporto tra apprendimenti informali
(ingenui) e formali (esperti), indagato dagli studi sulla trasposizione didattica e
dell’antropologia dell’educazione e della psicologia dell’apprendimento.

7.4 Pre-conoscenze e misconcezioni: il ruolo delle conoscenze degli


studenti per trasformare il sapere da insegnare in sapere insegnato
L’A.S. 2019/2020 sarà ricordato per i lunghi mesi di DAD pensati per la pandemia Covid19:
gli insegnanti hanno dovuto reinventare il modo di raggiungere gli studenti e creare le
condizioni per far vivere la scuola non a scuola. Prima ancora degli apprendimenti
l’istituzione scolastica si è posta il quesito pratico dell’accesso alle risorse (possibilità di
possesso di pc o tablet, internet stabile e potente) tutte condizioni che non dovrebbero
avere a che fare con il diritto di imparare. In questo tempo il processo di trasposizione
didattica ha acquisito centralità poiché le nuove condizioni hanno imposto un modo diverso
di selezionare gli argomenti e di trasformarli per renderli accessibili: si è necessitato di una
selezione ulteriore, scegliendo quei nuclei tematici e concettuali ritenuti davvero cruciali
per l’apprendimento. Gli insegnanti si sono ritrovati a dover mettere in atto strategie ancora
più efficaci per agganciarsi ai saperi degli studenti. Vediamo la consegna formulata da
Monica Zanon, insegnante in una terza media. Siamo a marzo 2020, si vogliono introdurre
le equazioni di primo grado e l’unico scambio è breve ed avviene in videochiamata. La
Zanon persegue gli obiettivi di apprendimenti attraverso la valorizzazione del patrimonio
conoscitivo degli studenti e l’utilizzo delle preconoscenze di cui sono in possesso. La
consegna è divisa in due fasi: la prima parte prevede un’attività di gruppo condotta durante
una videochiamata, la seconda individuale da svolgere in un secondo momento.

La caratteristica della consegna che intende attivare un ragionamento esplorativo


finalizzato a una prima formulazione dei concetti e delle procedure di risoluzione, consente
all’insegnante di registrare le diverse strategie di risoluzione degli studenti:

Queste preconoscenze sono oggetto di attenzione dell’insegnante in questa prima fase di


concettualizzazione dell’argomento. C’è chi ha proposto un ragionamento “per
sostituzione”, chi ha utilizzato un metodo grafico e ha immaginato di togliere le medesime
quantità ad entrambi i piatti, chi ha indagato il valore da attribuire all’incognita x. L. e S.
hanno trasformato i dati presenti nell’immagine in linguaggio algebrico per risolvere
l’equazione. Questo consente all’insegnante di osservare le conoscenze che gli studenti
sono già in grado di mobilitare e di progettare le fasi successive di trasformazione del
sapere da insegnare in sapere insegnato in maniera coerente con il loro percorso.
Partendo dall’osservazione e dall’ascolto paziente e appassionato degli allievi, l’insegnante
cerca di capire come essi provino a darsi conto delle cose, come cerchino di trovare
relazioni fra i diversi elementi della realtà che vanno studiando; in questo modo
l’insegnante è in grado di perseguire un duplice obiettivo relativo alle scelte traspositive da
compiere per passare dal sapere da insegnare (che trova sui libri scolastici) al sapere
insegnato (progettato specificatamente per una determinata classe). Da un lato si
“agganciano” gli studenti sul loro terreno per motivarli, dall’altro si interrogano le loro
preconoscenze e misconcezioni per poterle osservare e costruire insieme conoscenze
disciplinarmente più adeguate. Le conoscenze degli allievi possono intendersi come delle
vere e proprie teorie implicite utilizzate per spiegare fenomeni complessi e problemi
conoscitivi che si affrontano nella quotidianità in maniera diretta o simulata (vedi risposte
dell’equazione/bilancia).
Consideriamo un esempio in cui, nella scuola d’infanzia, l’insegnante ha preso la palla al
balzo per riflettere sul galleggiamento a seguito di una lettura da cui i bambini hanno
avanzato ipotesi del perché alcuni oggetti galleggiano e altri no in acqua. Viene allestito
uno spazio con acqua in cui l’insegnante chiede di immergere diversi oggetti. I bambini
riportano le loro osservazioni e formulano ipotesi grazie allo stimolo dell’insegnante.
Concentriamoci sul ruolo giocato dalle preconoscenze degli studenti nell’azione
traspositiva dell’insegnante. Per comprenderne la funzione nei processi di insegnamento e
apprendimento occorre indagarle: saranno utili quegli studi che si sono occupati di
differenziare le preconoscenze in base alla loro origine, ossia in funzione delle modalità
con cui sono state costruite. Con questo criterio di categorizzazione possiamo trovare
preconoscenze di origine sensoriale (appartenenti al mondo naturale), di origine culturale
(appartenenti al mondo culturale e linguistico), di origine scolastica (appartenenti a un
procedimento di attribuzione e somiglianza di caratteristiche ritenute simili). Queste ultime
hanno anche il nome di misconcezioni e necessitano di essere comprese da parte
dell’insegnante nella trasformazione del sapere da insegnare poiché spesso non sono
sostituite ma permangono nel patrimonio conoscitivo degli studenti. Talvolta per poter
raggiungere la costruzione di un concetto, si rende necessario passare attraverso una
misconcezione momentanea.
Un altro ambito di ricerca che si è occupato del rapporto tra saperi formali e saperi ingenui
e del ruolo che giocano le conoscenze elaborate dagli studenti in ambito extra scolastico
nella risoluzione dei problemi quotidiani, è lo studio noto come everyday cognition: è la
conoscenza usata all’interno di attività quotidiane o l ‘apprendimento sviluppato da tali
attività. Queste ricerche partono dall’idea che i processi di apprendimento che gli individui
mettono in atto, dipendono dai modi in cui doversi soggetti coordinano reciprocamente le
loro attività sociali e come collegano le loro azioni con i compiti e gli strumenti a essi
connessi. Secondo gli studi antropologici condotti in particolare negli anni Novanta, lo
sviluppo cognitivo e le conoscenze nei diversi ambiti del sapere non consistono
nell’acquisizione passiva di conoscenze e abilità, ma si compiono in attività concrete in cui
sono presenti altre persone che condividono le stesse pratiche e tradizioni culturali. Lo
sviluppo individuale e l’attività di costruzione delle conoscenze nei diversi ambiti
consistono in un’attiva partecipazione ad attività definite culturalmente (vedi ad esempio i
bambini dei pescherecci del Mar del Nord che apprendono per imitazione e in modo
intuitivo i calcoli con gli angoli usati nelle carte nautiche). Nel 2012 il Consiglio dell’Unione
Europea ha adottato la raccomandazione sulla convalida dell’apprendimento non formale e
informale che invita gli stati membri a istituire modalità di validazione delle conoscenze,
delle abilità acquisite al di fuori dei contesti formali. Tale processo è inteso in maniera
funzionale al conseguimento di un riconoscimento di dati apprendimenti e una qualifica
parziale o completa coerente con i livelli di certificazione europea delle competenze per
quanti provengano da Paesi non UE. Si pensi ai CPIA dove vengono certificate le
competenze acquisite tanto a livello formale che a livello non formale.

Approfondimento – Le Linee Guida Europee per la Validazione


dell’apprendimento non formale e informale ci espongono le seguenti
definizioni>
- Apprendimento formale: quello erogato in un contesto organizzato, strutturato e
appositamente progettato come tale (include degli obiettivi di apprendimento e il
rilascio di una certificazione).
- Apprendimento non formale: quello erogato nell’ambito di attività pianificate non
specificatamente concepite come apprendimento in termini di obiettivi. Entrambi
questi due sono Intenzionali dal punto di vista del discente.
- Apprendimento informale: quello che risulta dalle attività della vita quotidiana. Non
è strutturato in termini di obiettivi e spesso non è intenzionale dal punto di vista del
discente.
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7.5 La seconda fase del passaggio del sapere da insegnare al sapere


insegnato: l'accompagnamento alla costruzione concettuale
In una scuola dell'infanzia, dopo aver guardato un filmato che raccoglieva foto e video dei
vari passaggi del percorso sul galleggiamento, l'insegnante chiede: "Cosa abbiamo
imparato?"
Alcuni bambini mostrano di aver elaborato una concettualizzazione articolata e lo si evince
dalle seguenti risposte:
L: Tutte le barche sono fatte così per questo galleggiano anche se sono pesanti e sono
anche di legno". L: mostra quindi di avere un'idea di galleggiamento sganciata dal concetto
di peso
A: Sì, i tappi di sughero poi non stanno sott'acqua, l'acqua li spinge su. A. mostra di intuire
la cosiddetta spinta di Archimede.

Questo avanzamento concettuale è stato reso possibile grazie alle scelte dell'insegnante.
Per potere trasformare il "sapere da insegnare" in "sapere insegnato" occorre rendere la
comprensione coinvolgente, per esempio partendo da un'immagine anziché da una
definizione. Tuttavia, per i bambini, la sola immagine non risulterà sufficiente ai fini della
comprensione di un fenomeno complesso (es. funzionamento delle corde vocali).
Un'altra strada mostrata da Alberto Manzi, famoso maestro, consiste nell'utilizzare le
conoscenze pregresse; in un'intervista Manzi raccontò che per sfatare una falsa
concezione di un bambino, che affermava che le corde vocali fossero 21, si mise a
strimpellare un violino in classe per mostrare che, nonostante esso avesse solo 4 corde,
poteva emettere più suoni e che lo stesso valeva per le corde vocali
I tre orientamenti degli studi sul cambiamento concettuale
Il primo orientamento vede il cambio concettuale come un processo di accomodamento,
che ristruttura una conoscenza precedente a partire da una situazione di forte risonanza
(Silveira,1991) definito con il concetto di "conflitto cognitivo".
Il secondo orientamento afferma che le nuove concezioni debbano avere un maggiore
potere conoscitivo rispetto alle precedenti per poterle sostituire (Posner & Strike, 1992). Il
limite di questo orientamento sta nel ritenere il cambio concettuale come un meccanismo
di sostituzione.
Il terzo orientamento ritiene che i concetti non siano sostituibili o completamente integrabili
ma piuttosto utilizzabili in ambienti conoscitivi diversi a condizione che vengano appresi
significativamente (Pozo & Gomez Crespo, 1998). Questa é la prospettiva che prendiamo
in considerazione, in particolare quella di Vosniadou (2008) secondo la quale il cambio
concettuale avviene tramite integrazione delle conoscenze iniziali in un sistema
gerarchico.
Il percorso, che qualifica il lavoro dell'insegnante, di trasformazione del sapere da
insegnare a sapere insegnato, può essere definito anche facendo riferimento alla teoria
della mediazione didattica (Damiano, 2013) che sottolinea il ruolo fondamentale per
l'apprendimento giocato dai mediatori che diventano sempre più caratterizzati da linguaggi
formali.
Un esempio di scelta traspositiva può essere quella attuata da Monica Zanon, insegnante
delle superiori, che per introdurre il tema delle equazioni chiede ai suoi studenti di provare
a inventare una bilancia e determinare il valore dell'incognita da inserire. Nella prima
attività l'insegnante chiede di risolvere insieme un'equazione espressa in linguaggio
algebrico (consegna di gruppo). Durante tale attività è stata già riscontrata una prima
formalizzazione dei concetti.
La seconda attività prevede una consegna individuale nel quale viene chiesto di:
Guardare due video nell'ordine dato
Schematizzare su un foglio Word ciò che si è capito
Creare un gioco per i compagni per aiutarli a capire meglio
Far sì che il gioco diventi autocorrettivo
Quindi, le scelte traspositive dell'insegnante, inizialmente focalizzate sulle conoscenze
pregresse degli studenti, in quest'ultima attività hanno permesso di far rielaborare i concetti
appresi.
7.6 Dalla legittimazione sociale dei saperi alle pratiche sociali di
riferimento: dare senso al sapere insegnato
Durante la pandemia di COVID 19, un'insegnante di lettere del CPIA (centro provinciale
istruzione adulti) propone ai suoi studenti, dopo aver introdotto il Decameron di Boccaccio,
di scrivere dei racconti autobiografici e di condividerli sulla piattaforma della classe. Questa
scelta traspositiva della docente ha reso accessibile la nota opera di Boccaccio e la sua
struttura narrativa in cui i personaggi, così come gli studenti, si ritrovano ad affrontare una
difficile situazione sanitaria (trattasi della Peste del 1300).
Il principio della rilevanza sociale del sapere
L'insegnante nel trasporre il sapere deve permettere che questo non venga percepito
come estraneo, nonostante possa appartenere a periodi lontani come il Decameron, con
questo concetto si intende il principio della rilevanza sociale o di delegittimazione del
sapere (Damiano; 1999, 2007; Rossi, Pezzimenti. 2012).
Le pratiche sociali di riferimento come elemento da conservare nella trasformazione del
sapere La stessa docente del CPIA, in un'altra consegna, propone di scrivere un breve
testo autobiografico in cui raccontare la propria infanzia. Tale attivitá oltre a consentire di
acquisire padronanza con la lingua italiana (i CPIA sono maggiormente frequentati da
stranieri) consente anche di esemplificare il concetto di pratiche sociali riferimento e di
attenzionato le scelte compiute dall'insegnante per intrecciare i tre livelli del sapere.
Conservare la dimensione pratica e sociale del sapere nell'insegnamento della matematica
nella scuola primaria
Nell'insegnamento della matematica è importante che, attuando le strategie traspositive, si
preservi una dimensione pratica e sociale del sapere. La matematica, come afferma
Bolondi (2004) è la scienza che ci fornisce strumenti per la risoluzione di problemi pratici.
Un'insegnante di seconda primaria ha deciso di avviare le prime esperienze di risoluzione
dei problemi di matematica attraverso la considerazione che i bambini avevano del
concetto di problema, intenso in senso ampio e non specifico della disciplina
(Balconi,2008) Insegnante: Bambini, cos'è per voi un problema?
S. Quando i miei fratelli mi picchiano
D: Quando sono al mare e non tocco
E: Quando faccio la monella e la mamma e il papá si arrabbiano
La scelta dell'insegnante ha una triplice valenza riguardante per i bambini, l'insegnante e la
disciplina poiché
a) favorisce il coinvolgimento e l'interesse verso il sapere, attraverso l'aggancio con le
esperienze di vita degli studenti
b) mostra la visione dell'insegnante nell'intendere il concetto di "problema" e allo
stesso tempo il suo modo di interrogare i saperi dei bambini mettendoli in relazione con i
saperi esperti.
c) consente di portare attenzione all'idea che i problemi ammettono strategie di
risoluzione differenti che chiamano in causa una serie di variabili che il linguaggio
matematico è in grado di formalizzare. Superare l'artificialità del sapere da insegnare
attraverso la ricostruzione delle pratiche sociali di riferimento
La connessione tra i tre livelli sopra menzionati aiuta a capire il concetto di "pratiche sociali
di riferimento" e permette di comprendere il limite traspositivo che spesso caratterizza i
saperi scolastici quando sono sganciati dagli obiettivi per i quali sono stati elaborati.
Questo limite nella scelta traspositiva è definito da Chevallard con la nozione di 'artificialità'
del sapere che diventa un elemento ineliminabile perché un certo sapere é costruito per
essere usato e non insegnato. Con il termine trasposizione didattica Chevallard definisce
"la transizione" dalla conoscenza concepita come strumento da usare alla conoscenza
concepita come oggetto di insegnamento.
In questo capitolo si è cercato di offrire spunti di riflessione per ridurre l'inevitabile
artificialità che caratterizza i saperi scolastici:
1. Selezionando nuove fondanti di una certa disciplina senza pretendere di coprire un
programma vasto.
2. Considerando la verticalità dei saperi e le diverse esigenze di formalizzazione
3. Pensando alla trasversalità dei saperi consentendo agli studenti di mettere in
dialogo discipline differenti.
In conclusione l'insegnante dovrà essere cosciente del rischio di svelare l'artificialità dei
saperi e dovrà costantemente mettere in gioco le proprie conoscenze, credenze e dei
presupposti disciplinari. Il rapporto tra insegnante e sapere disciplinare é un percorso di
apprendimento senza fine, che solo quando è tematizzato, crea condizioni per rendere
intenso il legame che bambine e bambini costruiscono con la conoscenza e il loro modo di
usare questa conoscenza nel mondo, come cittadini ancora prima che come studenti.
CAP. 8 I DISPOSITIVI DIDATTICI

8.1 IL DISPOSITIVO E L’AZIONE DIDATTICA


Il termine dispositivo può avere due significati:

- Il primo è quello che si rivolge all’intenzione, lo scopo;


- Il secondo invece si riferisce al concreto cioè ai mezzi, alle modalità e gli strumenti
che consentono il funzionamento di un oggetto.

L’azione didattica invece è l’insieme dei gesti, e degli atti di insegnamento in un dato
contesto didattico con i relativi strumenti.

8.2 L’INTENZIONALITA’ E IL CURRICULUM IMPLICITO


L’intenzionalità cioè i metodi, gli obbiettivi che un’insegnante deve raggiungere sono
influenzati da vari fattori:

- I documenti ministeriali (Indicazioni Nazionali) che disciplinano gli obbiettivi e il fine


dell’azione didattica.
- L’ambito disciplinare cioè “Perché insegno una disciplina?”, “Cosa vorrei che i
ragazzi apprendessero?”
- I destinatari dell’azione, tener presente quindi ogni singolo alunno per adattare
l’azione didattica al gruppo classe.

Con l’espressione “curricolo implicito” si intende l’insieme dei componenti da collegare al


“curricolo esplicito” predisposto dall’insegnante.

Il curricolo implicito comprende ad esempio: la gestione dello spazio, del tempo, del
gruppo classe e delle regole. L’insieme di questi aspetti porta a una pedagogia latente cioè
dei risultati non del tutto congruenti agli obbiettivi prefissati intenzionalmente dal docente.

Secondo De Vecchi l’insegnante deve interrogarsi. Partire da quello che sa permetterà di


comprendere ciò che non sa. Il suo compito è quello di stimolare gli alunni con tre aspetti:

- quello dell’utile quindi pratico per i bambini;

-quello affettivo o simbolico;


- la valutazione del lavoro.
8.3 LA STRATEGITA’ DEL DISPOSITIVO: ESEMPI DI ESPERIENZE
NELLA SCUOLA PRIMARIA
La strategità è la dimensione del dispositivo orientato al futuro, alle finalità. Le finalità
esplicitano le ragioni per cui un obbiettivo dovrebbe essere perseguito. Gli obbiettivi invece
sono conoscenze e abilità si può certificare il raggiungimento attraverso l’esecuzione di
compiti. Tutto ciò dipende però dall’intenzionalità degli allievi. Quindi l’insegnante deve
predisporre un buona progettazione di azione didattica.

Una delle teorie applicabili è la tassomia di Bloom:

-Conoscenza: capacità di rievocare materiale memorizzato

-comprensione: capacità di cogliere il senso di un’informazione e di saperla trasformare

-applicazione: capacità di fare uso di materiale conosciuto per risolvere problematiche


nuove

-analisi: capacità di separare degli elementi, evidenziandone i rapporti

-sintesi: capacità di riunire elementi al fine di formare una nuova struttura organizzata e

coerente -valutazione: capacità di formulare autonomamente giudizi critici di valore e

metodo.

Secondo Bloom quindi bisogna lavorare a ritroso, descrivendo nel dettaglio le abilità
necessarie al raggiungimento dell’obbiettivo.

Per Calvani la lezione frontale dove l’insegnante spiega, utilizza materiale a disposizione di
tutti e i bambini ascoltano. Per il dominio conoscitivo ritiene sia necessario al fine
dell’apprendimento un processo cognitivo di tipo mnemotico perché è strettamente legato
al cosa si conosce.

Un’altra formazione didattica per il raggiungimento degli obbiettivi formativi trasversali:

Si utilizza un’attività legato alla quotidianità dei bambini come andare in biblioteca. Ciò può
essere svolto già dalla scuola dell’infanzia dove gruppi di bambini dovranno interpretare
dei libri dalla copertina. Nella discussione vediamo che c’è un lavoro gestito dal gruppo
mentre l’insegnante ha un ruolo di sostegno. Ciò permette attraverso anche racconti
narrativi sempre in riferimento alla discussione di ampliare l’elaborazione del pensiero.
L’obbiettivo è anche una formazione dell’intero gruppo classe dove tutti interagiscono.

Obbiettivi metacognitivi: L’insegnante dovrà tener conto dello stile di apprendimento dei
singoli alunni. Quindi deve valutare l’oggetto della riflessione, i tempi della riflessione e
predisporre strumenti adatti per dare visibilità ai processi riflessivi.

Quindi è importante la documentazione a disposizione ma anche portare ad una


discussione far sollevare delle domande, portarli ad indagare.

La classificazione delle strategie didattiche non è riconducibile ad un unico criterio. Ma fa


riferimento agli schemi di Joyce Well, Freiberg ecc. Si possono classificare in:

-Lezione: considerata come la strategia con più alto grado di istruttività del docente.

-Modellamento/apprendistato: l’alunno è visto come un’apprendista che apprende dal


maestro più esperto.

-Approccio tutoriale e drill practice: prevede una sequenza di unità di conoscenza orientate
al raggiungimento di uno specifico obbiettivo. Si pone all’allievo una certa quantità di
informazioni con richiesta di risposte frequenti, delle quali è possibile controllare
immediatamente la correttezza. Anche in questo caso non è previsto u coinvolgimento
diretto dell’alunno; è limitato a eseguire le istruzioni impartite dal docente.

-Discussione: in questa strategia l’interazione sociale svolge un ruolo importante nel


processo di apprendimento e di sviluppo cognitivo. In questo caso quindi è importante il
confronto tra pari. Il docente avrà la funzione di facilitare le attività.

-Studio di caso: in questo caso il docente presenta una situazione reale o verosimile su cui
far costruire ipotesi. Es: prendere decisioni, analisi del problema ecc.

-Apprendimenti cooperativi: la collaborazione tra pari assume molta rilevanza nel processo
di apprendimento.

-Problem solving e scoperta guidata: il bambino viene posto in una situazione enigmatica
che consente l’attivazione in termini di conflitto cognitivo. Il problem solving stimola i
processi di formulazione delle ipotesi e successivi tentativi di verifica, dando vita ad
apprendimenti didattici basati sulla scoperta.
-Simulazione e role playing: Queste strategie si articolano su due assi, quelle della
simulazione e quella della drammatizzazione. Il punto di forza consiste nell’esplorare per
gli alunni ruoli differenti e in tal senso costruire rappresentazioni personali.

-Progetto e metodologia della ricerca: si tratta della realizzazione di un’attività progettuale


da parte degli alunni. In questa strategia dunque non viene richiesta solo conoscenza o
procedure, ma viene promossa l’attivazione di competenze.

-Brainstorming: viene indicata come la strategia dove si riscontra il maggior grado di attività
degli studenti; poiché sono messi nella situazione di poter esprimere liberamente la loro
opinione.

8.4 IL DISPOSITIVO E LA MEDIAZIONE


Per mediazione didattica si intende l’azione dell’insegnante che intenzionalmente mette in
atto per favorire l’apprendimento degli alunni. La mediazione può essere:

-affettivo/relazionale, creando nella classe un clima positivo, di valorizzazione delle


differenze e dell’integrazione dei differenti punti di vista;

-didattica, agendo sui contenuti, al fine di renderli più accessibili agli alunni avvalendosi di
differenti strumenti.

Per predisporre la didattica occorre sempre la mediazione. Cioè tener presente i diversi
alunni.

CAP. 9

TRA METODI, MODELLI, APPROCCI E RIFERIMENTI


ESPLICITI
9.1 Alla ricerca di una identità professionale
Essere docente significa scegliere uno specifico profilo professionale in base alle proprie
inclinazioni, alla propria idea di educazione-formazione e agli aspetti socioculturali in cui è
immerso e di conseguenza maturare un proprio metodo di insegnamento. Essi prendono
anche spunto dall’osservazione di colleghi, incontri con pedagogisti e studiando manuali.
Non basta quindi ottenere un titolo abilitante per essere docente ma è necessario un
continuo aggiornamento formativo (come previsto dalla normativa L.107-2015, art.1,
comma 124, Contratto nazionale).
Nel suo testo “Il pensiero selvaggio” Claude Levi-Strauss mette a confronto la figura del
Bricoleur e dello scienziato. Il Bricoleur è colui che esegue con le proprie mani un lavoro
con mezzi diversi rispetto a quelli usati dagli uomini del mestiere, il B. si adegua al
materiale di cui dispone e in base a quello risolve il problema che gli viene posto.

Lo scienziato fa l’inventario delle conoscenze teoriche e pratiche e dei mezzi tecnici


restringendo così il campo delle soluzioni possibili.
Alla luce di ciò possiamo affermare che l’insegnante si ispira sia al b. che allo scienziato:
da una parte, come il b., usa oggetti del passato e del presente unendoli in modo nuovo
adattandosi al contesto, dall’altra, come lo scienziato, ha uno sguardo al futuro aprendosi
all’innovazione proteso a definire nuovi orizzonti ancora non scoperti. A questo va aggiunta
la dimensione riflessiva: il docente infatti progetta, riflette, modifica, riprogetta in un
costante confronto con gli altri che gli permette di maturare.
Si capisce che il ruolo dell’insegnante è ricco e complesso e che il metodo di
insegnamento diventa una scelta di ogni educatore abbracciando un metodo o progetto a
discapito di un altro.

9.2 A partire dal nome

Nell’evoluzione della storia della didattica è interessante vedere come le cosiddette scuole
a metodo (ovvero quelle scuole che scelgono di connotarsi in un metodo definito e
riconoscibile, vedi scuole montessoriane) abbiano avuto un ascesa negli ultimi anni
(precisamente dopo gli anni ’60-’90) con una progressione delle iscrizioni degli alunni.
In questo capitolo vedremo cosa significhi come scuola e come insegnante aderire a un
metodo e proporlo alle famiglie incidendo di conseguenza nei processi di cittadinanza
consapevole arricchendo le possibili offerte educative.
Partiamo innanzitutto dal significato generale di metodo: un modo ordinato di procedere
per conseguire uno scopo che può essere poi generalizzato e applicato a contesti diversi
(caratteristiche quest’ultime dei metodi scientifici e tradizionali).
Alberto Marradi nell’Enciclopedia delle scienze sociali (Treccani, 1996) parla di metodo
inteso come “strada, cammino con il quale..” e sottolinea delle regole che caratterizzano il
metodo: esse sono facili, per tutti, non opinabili (quindi non cambiano in base
all’osservatore) e se seguite e rispettate condurranno alla conoscenza vera di ciò che si è
prefissato.
Sarà poi la scienza moderna a porre il problema del metodo e del suo rigore (Renè
Descartes discuteva del “problema del metodo” nella filosofia e G.Galilei individuò il
metodo scientifico-sperimentale come determinante per la scienza moderna).
Le definizioni di un metodo scientifico
George A. Theodorson e Achilles G. Theodorson alla voce “Metodo scientifico” nel
dizionario sociologico indicano come deve essere applicato:
1. Si definisce il problema
2. Il problema è formulato nei termini di un particolare quadro teorico
3. Si immaginano una o più ipotesi relative al problema, analizzando i principi teorici
già accettati
4. Si determina la procedura da usare per raccogliere i dati per la verifica dell’ipotesi
5. Si raccolgono i dati
6. Si analizzano i dati per verificare o meno l’ipotesi.

Per analizzare però il termine “metodo” in ambito pedagogico dobbiamo fare riferimento al
pedagogista J.Dewey che nel suo Democrazia ed educazione intende il metodo come
“un’organizzazione tale della materia che lo renda più efficace nell’uso” e in cui sottolinea
l’importanza dell’osservazione, dell’esperienza, della riflessione, della conoscenza della
materia nell’azione educativa.
Dewey infatti, spiegando il metodo in ambito pedagogico, parla anche di prospettiva
scientifica e di rigore in cui i riferimenti teorici devono attingere da molteplici saperi e in cui
ha molto valore l’esperienza pratica diretta del docente. Se vengono rispettate queste
premesse si potrà parlare di una vera e propria scienza dell’educazione in cui si progetta
l’azione didattica con determinati strumenti di ricerca connessi coi saperi e sempre
flessibili, non legati a un solo metodo ma che spaziano nel definirsi per mantenersi attuale.
Metodo pedagogico
Tornando in ambito italiano, ricordiamo la distinzione fatta da Angiolo Gambaro nel 1934
nell’enciclopedia Treccani che distingue fra metodo sistematico, inquisitivo, dimostrativo e
pedagogico. Quest’ultimo viene da lui descritto come l’insieme ordinato di atti e
procedimenti con i quali l’educatore conduce l’educando alla formazione della propria
cultura spirituale e sottolinea, inoltre, l’importanza da parte del docente di valutare il
proprio operato, applicando in modo flessibile le indicazioni legislative al contesto che ha
dinanzi e mirando ad una formazione culturale profonda senza legarsi radicalmente
all’applicazione dei dettami teorici.
Storicamente sappiamo che nel 1821 vennero create le scuole di metodo che miravano
alla preparazione di futuri maestri di scuola elementare, inizialmente con un corso di
durata fra i 3 e i 6 mesi e successivamente ampliando il percorso su un arco temporale più
lungo e rivolgendo questa formazione anche ai maestri delle scuole materne, dividendole
tra regie (in cui rientravano le scuole montessoriane) e quelle riconosciute. La creazione di
uno Stato unitario portava alla necessità di avere maestri con una eterogenea
preparazione culturale e pronti a svolgere il primo processo di alfabetizzazione di massa.
E’in questo panorama che nascono i metodi nominali.
Ritornando alla parola metodo, Gaston Mialaret nel testo “Le scienze
dell’educazione”(1978) sottolinea che sebbene siano riconosciuti diversi metodi (metodo
decrolyano, montessoriano, etc) e diverse tecniche (insegnamento individualizzato, lavoro
di gruppo, etc) manca però una sintesi della metodologia educativa, ovvero un quadro
d’insieme coerente stabilito su criteri scientifici chiaramente esplicitati. Raggiungere questo
obiettivo risulta difficile a causa della molteplicità di metodi e tecniche esistenti. Possiamo
effettuare molte classificazioni distinguendo tra metodi nuovi e vecchi, definirli in base al
loro rapporto con i fondamenti psicologici o filosofici e, ancora, in base all’analisi dei gruppi
coinvolti (classe, senza classe) o ai materiali usati (iconici, verbali, ..), la tipologia di lavoro
proposta etc… Ciò che più conta è tenere conto del metodo in quanto animato da un
educatore in una situazione educativa.
Per Piero Bertolini nel Dizionario di Pedagogia e Scienze dell’educazione (1996) il metodo,
in senso ampio, è indicato come quelle attività-in-contesto utilizzate per raggiungerei
obiettivi educativi. Un metodo didattico nello specifico individua le procedure e i mezzi
adatti per raggiungere gli obiettivi stabiliti in sede di programmazione. La scelta del metodo
sarà basato su vari fattori(obiettivi, tipologia di soggetti coinvolti, tempi, spazi, etc) e dovrà
essere posto a verifica in relazione alle risposte fornite dagli allievi.
Infine Fiorino Tessari (2002) schematizza i metodi così:
-metodi espositivi
-metodi operativi
-metidi investigativi
-metodi euristico-partecipativi
-metodi individualizzati
-metodi nominali
9.3 I metodi nominali
I metodi nominali sono quelli che fanno riferimento agli autori che li hanno inventati e
diffusi. In Italia, i più diffusi sono i metodi Agazzi, Montessori, Pizzigoni, Bortolato, Terzi,
Venturelli. Fra il 2017 e il 2018 è stata realizzata un’esposizione dal titolo “Giro giro tondo.
Design for children” realizzata per la triennale Design Museum di Milano in cui una sezione
era dedicata ai cosiddetti Maestri (Montessori, Agazzi, e altri) visti come principali designer
dell’azione educativa sottolineando la connessione esistente tra pedagogia, didattica e
design. Uomini e donne che ribaltando l’idea di insegnamento tradizionale hanno
realizzato con le loro idee innovative una scuola nuova.

I requisiti necessari di un metodo


Per essere definito “metodo” la proposta didattica dovrebbe:
- avere caratteristiche originali distinguibili dalle teorie e dalle pratiche comuni;
- avere una strutturazione teorica peculiare che si confronta con la pratica;

- l’attività deve avere principi pedagogici e didattici dichiarati;


- collocarsi in un’unitarietà di prospettive e di finalità;
- superare la singola attività o la semplice successione e concatenazione di una serie
di attività;

- presentare un’articolazione di proposte che considerano almeno uno o più ordini


scolastici;
- presentare una procedura regolata;
- prevedere un materiale specifico e/o uno spazio connotato (quando possibile);
- poter essere sperimentata concretamente e verificata;
- essere estendibile e applicabile ad altri contesti;
- presentare dei punti fermi flessibili solo per l’adeguamento all’attualità.
Alla luce di tale elenco possiamo ritrovare il metodo Agazzi, Montessori e Pizzigoni: 4
donne, tre delle quali nate nel 1870 periodo in cui l’Italia appena nata vedeva come priorità
la scuola e i progetti educativi. Tre metodi che provavano a giungere a quei criteri di
validità e generalizzabilità elencati prima, con una sperimentazione per prove ed errori e
rendendoli applicabili a qualsiasi contesto.
9.4 Il metodo Agazzi
Rosa Agazzi (1866-1951)

Carolina Agazzi (1870-1945)

Educatrici nate a Vologno in provincia di Cremona.

Per loro fu decisivo l’incontro con il direttore didattico Pietro Pasquali (1847-1921), che
aveva realizzato a Brescia una profonda riforma degli asili infantili.

Pasquali ha unito le caratteristiche del Kindergarten di Froebel (1782-1852) alle proposte


di Ferrante Aporti (1791-1858).

1891 le sorelle Agazzi si formano in qualità di maestre giardiniere. Sviluppano


un’attenzione nei confronti degli oggetti da offrire ai bambini.

Francesco Altea nel libro Il metodo di Rosa e Carolina Agazzi. Un valore educativo intatto
del tempo sottolinea che nel loro progetto erano presenti numerosi riferimenti ad altre
teorie pedagogiche:

1. I giardini d’infanzia di Froebel;


2. L’ambiente naturale del Rousseau;
3. La pedagogia pragmatista di Dewey;
4. La pedagogia del Pestalozzi;
5. Il principio di globalità del Decroly.

Le caratteristiche del metodo Agazzi:

1. Viene combattuto lo scolasticismo proprio di Ferrante Aporti. I bambini rimangono


bambini anche a scuola e non diventano scolari.
2. L’ambiente scolastico deve essere il più possibile familiare e sereno.
3. Presenza del giardino e degli animali all’interno della scuola.
4. I materiali usati per il percorso educativo sono suddivisi in due gruppi
4.1.“Cianfrusaglie senza brevetto”, sono gli oggetti della vita quotidiana,
profondamente diversi dal materiale montessoriano. Sono le cose che potevano
essere trovate nelle tasche dei bambini e normalmente sarebbero state gettate
via dal maestro. A partire da questo materiale può essere costituito il “Museo
didattico”. Questo materiale aveva il pregio di non costare nulla, di essere
facilmente recuperabile e poteva essere trasformato in proposte educative
ricche e sempre diverse.
4.2. Materiali utilizzati per gli esercizi della vita pratica e per il gioco,
contrassegnati da simboli. I contrassegni furono un’invenzione molto
importante. Rosa Agazzi ebbe l'idea di sostituire i numeri negli armadietti o gli
oggetti personali dei bambini con l’immagine di un oggetto vero, un utensile
della vita pratica o una figura geometrica.
5. L’attività compiuta dai bambini è il punto cardine del progetto educativo.
6. La figura dell’educatrice si pone a fianco del bambino in una posizione di attenzione
materna.
7. L’educatore non interviene direttamente, ma crea situazioni e ambienti in cui i
bambini possono effettuare delle scoperte.
8. Le proposte dedicate ai bambini sono: attività di vita pratica, educazione estetica,
educazione sensoriale, educazione al canto, istruzione intellettuale, educazione al
sentimento.

Le sorelle Agazzi propongono un materiale “adatto” ai bambini, tratto dalla vita di tutti i
giorni, e non un materiale “adattato” come quello montessoriano, cioè costruito
appositamente dagli adulti.

Molta attenzione era dedicata all’atto del parlare, definito anche come parlare vivente, che
nasceva dalle conversazioni naturali dei bambini posti a contatto con gli oggetti e i
materiali. Si trattava di esercizi volti ad arricchire il lessico e a implementare le capacità
dialogiche, relazionali, argomentative. Lo scopo è imparare a esprimere un proprio
concetto intorno alle cose che già si conosce.

Questi principi sono descritti in alcuni testi di Rosa Agazzi:

La lingua parlata nell’asilo infantile e nella prima classe elementare, 1898;


L’abbicì del canto educativo ad uso dei giardini d’infanzia e delle scuole elementari, 1908;

Come intendo il museo didattico nell’educazione della infanzia e della fanciullezza, 1922;

L’arte delle piccole mani, 1927;

Guida delle Educatrici dell’infanzia, 1929-30;

Conversazioni nella scuola materna: note di critica didattica, 1942.


Le sorelle Agazzi dedicarono una particolare attenzione alla formazione dei futuri docenti,
realizzandola grazie a corsi di formazione. Le scuole con metodo Agazzi si diffusero su
tutto il territorio italiano, avendo il supporto di Giuseppe Lombardo Radice.

9.5 Il metodo Pizzigoni


Giuseppina Pizzigoni (1870-1947), è la prima di quattro sorelle, tutte indirizzate verso le
professioni educative. Giuseppina avrebbe voluto fare l’attrice in un teatro, ma
l’insegnamento era un impiego più accettabile per una donna dell’epoca.

Nonostante la frustrazione iniziale, Pizzigoni si appassiona all’insegnamento, soprattutto


perché pensa di poter fare qualcosa di utile per i bambini.

Così la maestra inizia ad approfondire e ampliare le proprie conoscenze sul processo


educativo, il che la porta a:

1. Studiare o ristudiare alcuni autori più antichi come Bacone, Comenio, Rousseau,
Pestalozzi, Filangeri, Voltaire, Herbart, Cuoco, Froebel, Spencer, Huxley, Ardigò,
De Dominicis, mantenendo come riferimento il metodo sperimentale di Galileo
Galilei;
2. Ricercare e studiare i programmi delle scuole delle altre nazioni;
3. Andare all’estero per verificare di persona la proposta relativa alle scuole nel bosco;
4. Individuare i punti cardine per la propria proposta educativa, sperimentandoli e
verificandoli;
5. Creare un comitato scientifico con cui condividere il programma innovativo,
confrontandosi sulle proposte, cercando un supporto culturale e finanziario.

Dopo la visita alle scuole nel bosco, dove gli alunni passavano gran parte del tempo
all’aperto ma continuavano a studiare col metodo dei cartelloni, Pizzigoni ha concluso che
non poteva bastare un ambiente salubre per modificare la scuola. Bisognava ribaltare il
concetto stesso di insegnamentoapprendimento. Ecco in sintesi i principi di base per
rinnovare il modo di fare la scuola:

1. Attenzione allo sviluppo fisico e culturale di ogni bambino;


2. Esperienza diretta e sperimentazione del bambino come prima fonte del processo
di insegnamento-apprendimento;
3. Abolizione dell’insegnamento teorico, realizzato solo attraverso le parole;
4. Utilizzo del metodo sperimentale e scientifico per molte delle esperienze
scolastiche;
5. Progettazione accurata dell’ambiente interno ed esterno della scuola al fine di
consentire percorsi di scoperta e di apprendimento, con una cura dedicata
all’aspetto estetico.
6. Promozione della natura, dell’orto e degli animali come principali centri di interesse
della scuola, attorno ai quali possono collegarsi le discipline varie.
7. Abolizione della visione della scuola chiusa, ampliamento del contatto con l’esterno.
8. La scuola è un elemento vivo inserito nel mondo: la scuola è il mondo.
9. Frequentazione diretta del quartiere, della città, dell’ambiente circostante e di quello
più lontano;
10. Valorizzazione dell’apporto culturale di ogni persona posta in contatto con i
bambini, grazie alla mediazione del maestro;
11. Articolazione negli anni delle proposte, con la sottolineatura di una progressività e
una costante ripresa delle esperienze;
12. Individuazione del lavoro dei bambini, pensato in una prospettiva collettiva, come
elemento formativo.

8 settembre 1911 il Comune di Milano consente l’applicazione del metodo sperimentale in


due sezioni della scuola, con il totale di 60 posti, trenta per le ragazze e trenta per i
ragazzi.

Nel 1927 si inaugura la scuola Rinnovata, in via Castellino da Castello, 10 a Milano, che
vedeva nel progetto architettonico, la piena realizzazione del pensiero educativo
pizzigoniano. L’edificio scolastico progettato da Belloni è stato oggetto di critiche per
l’investimento economico sostanzioso, molto diverso dalle altre scuole. La scuola era
curata nei minimi dettagli con l’ambiente molto bello e funzionale, con porta-finestre per
poter uscire direttamente nel giardino da ogni aula. Fu una delle prime volte in cui didattica
e architettura si erano messe a dialogare.

Per Pizzigoni il metodo della “Rinnovata” vuole poche parole e molti fatti, mette
l’informazione e il libro al secondo posto; al primo posto mette il dar forza al corpo e allo
spirito dello scolaro, attraverso la vita in una scuola ricca di esperienza.
Attualmente in Italia vi sono due soli plessi che utilizzano il metodo Pizzigoni: Rinnovata e
Dante Alighieri a Milano, per poter insegnare in essi è necessario frequentare un corso
riconosciuto di differenziazione didattica.

Approfondimento 1

Che cosa vuol dire oggi essere una preside di una scuola a metodo
Pizzigoni?
Ancora oggi la scuola Rinnovata è sperimentale e ha una organizzazione didattica ad hoc:
i docenti devono avere un titolo specifico e sono assegnate in organico dal Ministero
dell’Istruzione risorse extra organico per la realizzazione del metodo. Ancora oggi la
fattoria didattica e gli spazi agricoli formano nello scolaro la capacità di osservare e trarre
delle conclusioni. Agli alunni di ogni classe viene dato in gestione un piccolo
appezzamento di terreno in cui devono decidere cosa coltivare e come organizzare la cura
del seminato. Al momento del raccolto devono gestire la vendita dei prodotti e la loro
pubblicizzazione, scegliendo anche come utilizzare il ricavato. In questo modo avviene il
processo di apprendimento per competenze.

Nell’anno del Covid è stata sperimentata la vendita on Line dei prodotti che l’agronomo
della scuola aveva coltivato durante il lockdown, aggiornando i bambini con videolezioni.
Gli alunni si sono impegnati anche nella pubblicazione di una rivista scolastica in formato
digitale.

9.6 Il metodo Montessori


Maria Montessori nasce il 31 agosto 1870 a Chiaravalle (Ancona).

1896 si laurea in medicina con una tesi in psichiatria, ottenendo un posto all’ospedale San
Giovanni.

1906 accetta un incarico come direttrice di alcune scuole per bambini dai tre a sette anni
nel quartiere
San Lorenzo. Si trattava di un progetto, ideato dall’ingegnere Eduardo Talamo, per la
riqualificazione di un quartiere povero e malfamato.

Il 6 gennaio 1907 si inaugurò in via dei Marsi al n. 58 la prima Casa dei Bambini.
Questo incarico le consentì di sperimentare il materiale didattico all’educazione dei sensi,
ideato per bambini con ritardo mentale, proponendo a bambini, senza difficoltà legate a
una specifica patologia, inseriti però in un contesto estremamente degradato. I risultati
ottenuti erano inaspettati, e la condussero a sistematizzare quanto osservava in modo
scientifico.

Nel 1935 Jean Piaget nel XV tomo dell’Encyclopèdie Française spiega così l’efficacia del
metodo
Montessori: nei primi stadi dello sviluppo il bambino apprende più con l’azione che con il
pensiero.
Un opportuno materiale, che serva ad alimentare l’azione, conduce alla conoscenza più
rapidamente rispetto a seppur ottimi libri.

Nel 1909 in occasione del primo corso di formazione tenuto da Montessori a Città di
Castello in Umbria è stato pubblicato Il Metodo della Pedagogia Scientifica applicato
all’educazione infantile nelle case dei bambini. Quello che l’aveva in particolare colpita era
l’enorme attenzione e concentrazione che i bambini avevano mostrato nei confronti del
materiale proposto.

Scoprimmo così che l’educazione non è ciò che il maestro dà, ma è un processo naturale
che si svolge spontaneamente nell’individuo umano; che essa non si acquisisce
ascoltando le parole, ma per virtù di esperienze effettuate nell’ambiente. (Montessori,
1970, p.6)

Ecco allora che vi è un ribaltamento del ruolo del docente che non deve continuamente
parlare, spiegare, correggere, ma ha compiti di conoscere bene il materiale, saperlo
presentare nella lezione, intervenire meno possibile, favorendo la capacità del bambino di
scoprire da solo.

Le caratteristiche del materiale montessoriano:

1. Un’attenzione estetica e un’attrattività che agisce sul bambino (si tratta di oggetti
belli, accattivanti, facili da maneggiare, curati, con colori vivaci e forme armoniose);
2. L’attività proposta (gli oggetti sono facilmente maneggiabili e trasportabili dai
bambini anche piccoli);
3. Il controllo dell’errore (il materiale è progettato accuratamente per autocorreggersi,
senza l’intervento dell’adulto);
4. I limiti (in questo materiale non è previsto un eccesso di stimolazioni, come nella
vita reale, ma è individuato un solo aspetto approfondito).

L’ambiente montessoriano è costituito da materiali, strumenti, oggetti, arredi semplici,


curati, facilmente maneggiabili da ogni bambino, evocando il suo monito sempre presente:
“Aiutami a fare da solo.”

In una prospettiva storica il metodo Montessori era criticato dagli esponenti del mondo
accademico e scolastico, soprattutto di formazione realista, neokantiana, idealista o
spiritualista.

Attualmente in Italia ci sono le 235 scuole a metodo Montessori (nidi, scuole primarie,
scuole secondarie di primo grado).

Approfondimento 2

Che cosa vuol dire oggi essere una preside di una scuola a metodo
Montessori?
L’Istituto Comprensivo “Riccardo Massa” di Milano, al cui interno funziona dall’anno
scolastico 1969/70 un plesso di scuola primaria a metodo Montessori, ha avviato una
sperimentazione della scuola secondaria di primo grado a indirizzo Montessori nel 2016.

Molti docenti utilizzano da anni metodi attivi, attraverso scelte metodologiche che
privilegino l’adozione di azioni cooperative e bandiscano le competitività, favoriscano il
tutoring, accolgano e valorizzano le diversità, spostino l’attenzione valutativa da una mera
somma a una consapevole differenziazione e personalizzazione. È quindi nello scambio
continuo e reciproco delle buone pratiche che si costruisce una comunità che accetta con
favore il principio che gli alunni si aiutino e facciano “gruppo” solidale.

Nei processi innovativi possono esserci tensioni, incomprensioni e addirittura conflitti tra
gruppi diversi di docenti che hanno impostazioni metodologico-didattiche diverse. Questo
comporta per il dirigente scolastico la necessità di diffondere a tutto il personale la
consapevolezza di appartenere a un’organizzazione complessa unitaria, in modo che le
persone superino la tendenza a operare come singoli.
9.7 Tecniche Freinet
Celestin Freinet (1896-1966) Gars, Francia.

A partire dal pensiero pedagogico e sociale di Celestin ed Elise Freinet in Italia nel 1951
nacque il MCE (Movimento di Cooperazione Educativa). Erano molti i docenti che
sentivano la necessità di condividere un’ipotesi di un’azione educativa marcatamente
democratica con priorità come: la cooperazione solidale, l’integrazione sociale, la
valorizzazione del lavoro.

Perché chiamarle tecniche e non “metodo Freinet”?

Le tecniche non hanno nulla di definitivo in quanto sono soltanto delle risposte a bisogni
emergenti, ricavate in maniera sperimentale. Sono un esempio di atteggiamento dinamico,
non dogmatico verso le esigenze educative. Basta guardare agli schedari autocorrettivi,
all’uso stesso della tipografia a scuola, ai piani di lavoro e ai sistemi di valutazione.

Freinet ha voluto definire in termini di “metodo” le procedure operative via via messe a
punto, come risposta a precisi bisogni. Inoltre, egli considerava scorretto parlare di metodo
nei confronti di una pedagogia popolare che ancora mancava di basi sicure,
scientificamente provate su cui fondare i sistemi educativi.

Definendole tecniche si ponevano in primo piano i materiali, gli strumenti, le azioni.

Tra le moltissime tecniche da lui proposte, modificate costantemente nel tempo, le


principali furono: la tipografia, il giornale scolastico, la corrispondenza con i coetanei, il
testo libero, il testo collettivo, le lezioni all’aria aperta, il lavoro cooperativo, gli schedari
autocorrettivi.

9.8 Uno sguardo al contemporaneo


La pedagogia steineriana

Il metodo Steiner-Waldorf conta oltre 2600 istituti nei vari continenti, dal nido alla scuola
superiore, di cui 97 in Italia. L’ideatore di questa proposta è Rudolf Steiner (1861-1925),
fondatore dell’antroposofia, che sperimentò molte esperienze pratiche e riflessioni nel
campo della pedagogia anche terapeutica, arrivando negli anni Venti a definire un diverso
tipo di progetto educativo.
Nel 1919 Rudolf Steiner fu invitato a organizzare una scuola per i figli degli operai presso
la fabbrica di sigarette Waldorf-Astoria.

La visione antropologica di Steiner si articola secondo cicli di sette anni, da 0 a 7 anni il


bambino sviluppa il proprio corpo fisico, da 7 ai 14 anni si accrescono le forze vitali, ma
tutto il corso della vita è costellato da alcuni passaggi.

In Italia la prima scuola steineriana è stata realizzata negli anni Quaranta. Questo percorso
prevede da parte dell’educatore una conoscenza approfondita di quello che viene definito
l’uomo quale essere triarticolato, ovvero diviso nelle capacità di pensare, sentire e
volere. Per favorire questo sviluppo vengono tenute presenti le facoltà cognitivo-
intellettuali (pensiero), creativo-artistiche (sentimento), pratico-artigianali (volontà).

Due argomenti che caratterizzano questo metodo sono una grande attenzione rivolta alle
discipline artistiche quali: arti, arti plastiche, musica, teatro, pittura, lavori manuali e
artigianato, oltre a una differente suddivisione degli argomenti. Viene proposta anche
l’euritmia.1

Rudolf Steiner spiega cosi l’euritmia:

L’euritmia si divide da noi in euritmia musicale ed euritmia parlata. Nell’euritmia musicale


noi suscitiamo nel bambino quei movimenti che corrispondono alla formazione del corpo
astrale; nell’euritmia parlata suscitiamo quegli impulsi che agiscono conformando
l’organizzazione dell’io.

Si precisa che queste scuole non appartengono all’elenco dei metodi riconosciuti dal
Ministero e per questo motivo devono essere realizzati degli esami esterni nei momenti dei
passaggi ai successivi ordini scolastici. La formazione dei docenti è legata a un rigoroso
percorso di autoeducazione connesso a una crescita interiore, il maestro non esprime né
voti, né valutazione.

1 L'euritmia è un’arte del movimento basata sui principi esoterici propri dell'antroposofia. È stata creata da Rudolf
Steiner insieme alla danzatrice Lory Maier-Smits. Secondo Steiner l'euritmia può fornire una connessione diretta fra chi
la pratica e il mondo supersensoriale. Avrebbe inoltre finalità curative. (Wikipedia)
Loris Malaguzzi e il Reggio Emilia Approach

Loris Malaguzzi (1920-1994), Correggio (RE), si laurea in Pedagogia e si specializza in


Psicologia. Tra i fondatori del Centro Medico Psico-Pedagogico comunale di Reggio
Emilia.

Nel 1963 apre la prima scuola dell’infanzia comunale.

Nel 1970 diventa Direttore delle scuole dell’infanzia e poi dei nidi.

Il Reggio Emilia Approach si fonda su un’immagine di bambino dotato di cento linguaggi e


soggetto di diritti. Punti centrali sono: la documentazione dei processi di apprendimento, la
cultura di atelier, il valore dell’ambiente, la dimensione estetica del conoscere, il lavoro
collegiale, la partecipazione della città.

La figura degli adulti-insegnanti ha imparato a modificare il proprio posizionamento. Ci si è


accorti, grazie alle conversazioni raccolte, trascritte e diffuse, ai disegni realizzati, che i
bambini anche molto piccoli avevano e hanno mille capacità per affrontare argomenti
anche estremamente complessi.
Queste capacità sono state lasciate lungamente ai margini delle istituzioni scolastiche.

Loris Malaguzzi ha condiviso con i propri collaboratori delle aspettative altissime nei
confronti dei bambini: non aspettative di prestazioni, di risultati quantificabili, bensì di
fiducia che i bambini fossero interessati a tutto, capaci di trovare un senso nelle occasioni
e nelle piste offerte dalla città, dalle cose, dagli animali, dalla natura; fiducia che avessero
la capacità di raccontare, di sentire.

La Rete delle Scuole Senza Zaino

Creatore di questo progetto è Marco Orsi. Si tratta di una proposta che sta riscuotendo un
grandissimo successo nelle scuole attuali, molte sono le istituzioni scolastiche che
chiedono di poter aderire a questa rete.

Senza Zaino è una rete di scuole, attive da oltre dieci anni, il cui modello educativo è
fondato sui valori dell’ospitalità, della responsabilità e della comunità. Non serve più lo
zaino, perché tutto il materiale è a scuola, uguale per tutti, condiviso, rispettato e curato.
Tavoli di lavoro sono quadrati o modulari e le lezioni sono concordate con i ragazzi
all’inizio della giornata.
Lo zaino è un simbolo di una costante non appartenenza al luogo, in questo caso la
scuola. Togliere lo zaino significa riprogettare l’ambiente formativo con la partecipazione
attiva di alunni, genitori e docenti.

Le scuole nel bosco

Attualmente si va verso il processo di riscoperta di un rapporto con la natura, che si


manifesta nelle riproposte delle scuole nel bosco. Queste sono asili in cui non ci sono
giocattoli, ma foglie, pigne, conchiglie, bastoncini di legno, ghiande e tutto ciò che la terra
offre per le ricerche dei bambini. Questi materiali sollecitano l’immaginazione, colpiscono i

sensi e l’anima, coltivando in questo modo bellezza e relazione con il mondo.

CAP. 10

SCUOLA E TERRITORIO
10.1 UNA SCUOLA CHE APRE LE SUE PORTE

Come sosteneva la Pizzigoni nel 1961, occorre "sostituire al verbalismo scolastico


l'esperienza personale del ragazzo, quale mezzo di apprendimento.."

Alcune prospettive pedagogiche sull'antica frattura tra l'universo della scuola e quello della
vita:

Come Giuseppina Pizzigoni, molti pedagogisti e insegnanti hanno sentito la necessità di


colmare il divario tra la scuola e la vita reale. Pensiamo, per esempio, ai ragazzi della
Scuola di Barbiana (don Lorenzo Milani) 1923-1967 che, emarginati dalla società di allora,
poichè di estrazione sociale molto bassa, notavano una spaccatura dicendo:"Un po' di vita
nell'arido dei vostri libri scritti da gente che ha letto solo libri". Anche sui libri di testo, si
faceva la narrazione delle cose solo tramite l'astrazione; non c'era posto per la vita pratica,
l'esperienza.

Edgar Morin nel 1921 aggiunge:"La nostra educazione ci insegna solo molto parzialmente
a vivere...perchè ignora i problemi del vivere..".

Queste posizioni trovano origine nel fatto che la scuola si è posta come uno spazio "altro",
separato dalla vita, codificato grazie a uno schema ben preciso: divisione degli allievi,
consolidamento degli apprendimenti mediante una strutturazione formale delle prestazioni,
valutazioni periodiche, ammissioni o bocciature, suddivisioni per merito o ceto,
certificazioni in uscita. Tutta questa organizzazione per un unico fine: trasmettere la
conoscenza già stabilita a priori per tramandare uno status sociale legato a valori morali
ed economici che si voleva mantenere immutato.

Di contro, si ponevano pedagogisti che prospettavano una conoscenza co-costruita,


plurale e condivisa più concreta e più aderente alla vita.

Il "territorio" con cui può entrare in relazione la scuola

Il territorio può essere definito come l'insieme di natura, ambiente, paesaggi, musei, teatri,
biblioteche, archivi, patrimoni culturali di vario genere, la società civile stessa con cui la
scuola, uscendo dai propri cancelli, si relaziona. Se poi consideriamo il territorio in
prospettiva geografica, ossia un lembo di superficie sottoposto a un processo di
appropriazione da parte di una comunità, capiamo quanto sia importante far impadronire
gli alunni di ciò che sta fuori il cancello scolastico per far sì che possano esercitare la
cittadinanza attiva poichè ci si può occupare solo di ciò che si conosce e si sente "proprio".

Natura, patrimonio e società

Si sceglie in questo testo di raggruppare il "fuori" scuola in tre categorie: natura,


patrimonio, società; consci del fatto che non sono compartimenti stagni ma parametri che
necessitano di una continua contaminazione e compenetrazione.

Quando allora si parla di contatto e relazione con il territorio, non parliamo di qualcosa di
straordinario ma di qualcosa che avviene nel quotidiano, che modella l'insegnamento
stesso. Un'istituzione che si muove in questa direzione ovviamente tende a trasmettere
un'idea di cultura condivisa e non elitaria che partecipa al dibattito politico e culturale,
forgiando la sua opera sulle parole di Freinet, Freire, Don Lorenzo Milani.

L'idea oggi è che la scuola debba inserirsi nella società e ci si chiede "come " possa farlo,
quali modalità utilizzare tenendo presente il continuo flusso tra l'entrare e l'uscire di saperi,
informazioni, contatti. Così le Indicazioni Nazionali del 2012 colgono questo passaggio:"
Ogni specifico territorio possiede legami con le varie aree del mondo e con ciò stesso
costituisce un microcosmo che su scala locale riproduce opportunità, interazioni, tensioni,
convivenze globali".

Approfondimento 1 L’ecologia dello sviluppo umano


La teoria di Urie Bronfenbrenner (1917-2005) concepisce l'ambiente di sviluppo del
bambino come un insieme di cerchi concentrici: microsistema, mesosistema, esosistema,
macrosistema. L'autore scrive questo nel testo "The Ecology of human development.
Experiments by nature and design"1979, tradotto dalla Stefani in "Ecologia dello sviluppo
umano"1986.

Lo sviluppo è definito come una modificazione permanente del modo in cui un individuo
percepisce e affronta il suo ambiente. Per ambiente ecologico si intende uno spazio
concepito come un insieme di strutture una dentro l'altra, come le bambole russe. Al livello
più interno c'è la casa , l'aula, il laboratorio..e quindi un terreno familiare. Il passo
successivo ci invita a considerare le relazioni fra gli ambienti e queste sono
importantissime per lo sviluppo del bambino, tanto da influenzarlo più degli eventi stessi.
Per esempio, se il bambino impara velocemente o meno a leggere non dipende solo dalle
capacità dell'insegnante ma soprattutto dal rapporto fra scuola e casa e dalla loro natura.

Il terzo livello ci invita ad ammettere che lo sviluppo del bambino può dipendere da eventi
ai qiali il bambino non è neanche presente. Per esempio lo sviluppo può essere influenzato
dalla professione dei genitori.

Infine, ogni cultura ha situazioni ambientali simili, per esempio la casa, la strada, l'ufficio,
mentre queste cambiano passando da una cultura all'altra. E' come se all'interno di ogni
società esistesse uno schema per l'organizzazione di ogni situazione ambientale che,
volendo, potrebbe essere modificato con il risultato di alterare comportamenti e sviluppo.

Tutto ciò può essere definito in termini più astratti: il complesso di interrelazioni fra le
persone che si occupano del bambino sarà chiamato microsistema. Di queste relazioni ce
ne saranno alcune alle quali l'individuo partecipa personalmente e queste costituiscono i
mesosistemi; poi ci saranno quelle a cui l'individuo non prende proprio parte ma che lo
influenzeranno nel suo sviluppo e sono gli ecosistemi. Infine, tutti questi sistemi sono
considerati una manifestazione di modelli gerarchici di tipo ideologico e organizzativo e
sono prodotti dalle società e dalle varie culture, inseriti gli uni negli altri e danno origine ai
macrosistemi. Quindi, in una stessa società i micro- meso-eco sistemi tendono ad essere
simili mentre in culture diverse, i sistemi costituenti possono variare in modo marcato. Si
deduce che mettendo a confronto gruppi sociali differenti, si può sistematicamente
descrivere e distinguere le caratteristiche ecologiche di una società poichè questi ambienti
determinano lo sviluppo umano.
10.2 SCUOLA E NATURA

Facilitare le esperienze di contatto con l'esterno

Che cosa si intende per natura? Negli ultimi decenni si sta recuperando un concetto più
primitivo della vita umana e nello specifico delle prime fasi della vita di bambini e ragazzi.
Si cerca un contatto con la terra, con i suoi ritmi. Questo interesse si era colto fin dal
passato e si erano delineate due vie: sviluppo del bambino seguendo un andamento
naturale assecondando i tempi propri della vita e presenza di ambienti naturali per
sviluppare al meglio il portato educativo.

Il pensiero di alcuni autori

Rousseau (1712-1778) può essere considerato uno tra i più illustri difensori dell'ambiente
naturale in cui deve crescere il bambino. Infatti dice:"Mantenete il fanciullo nella sola
dipendenza delle cose ed avrete seguito l'ordine della natura nel progresso della sua
educazione". L'adulto non deve dare le risposte ma lasciare il tempop affinchè l'allievo trovi
le soluzioni: " Non impari la scienza ma la inventi".

In questo ovviamente il corpo assume notevole importanza poichè è il primo contatto con il
mondo.

Frobel (1782-1851) realizza nel 1839 il suo primo giardino d'infanzia, progettando spazi
dove il bambino potesse giocare liberamente all'aria aperta e dove venissero allestiti anche
orti destinati alla coltivazione dei bambini e laddove ciò fosse impedito a causa degli spazi
ridotti, l'autore ipotizza l'uso di cassette o vasi dove poter seminare.

Maria Montessori (1870-1952) sostiene:" il fatto più importante risiede nel liberare
possibilmente il fanciullo dai legami che lo isolano nella vita artificiale creata dalla
convivenza cittadina". Qui si prospetta addirittura che il bambino entri in contatto con
l'acqua, il sole per far sì che l'anima non rattrappisca; liberare i bambini da abiti troppo
ingessati e addirittura farli correre con i piedi nudi nell'erba fresca.

Pizzigoni: condurre il bambino ad un contatto diretto con la natura.

Punti focali di ogni azione educativa sono: l'orto della classe, i campi e il lavoro della terra.

Ogni allievo studia annualmente con qualche profondità lo sviluppo di 4 o 5 piante. Così il
lavoro della terra diventa l'asse attorno al quale ruotano tutte le altre discipline: italiano,
matematica, geometria, disegno, geografia...Quindi si realizza quella complementarietà fra
il dentro, aula, e il fuori, spazi verdi coltivati. Tutto ciò, dice la Pizzigoni, rende in
educazione e in danaro: rende in quanto rafforza l'amore per la terra e promuove
l'orientamento professionale in quel senso.

Anche l'edificio scolastico è progettato in maniera dettagliata, per cui ogni classe deve
avere un'uscita diretta sul cortile. (fiori in giardino e pure in classe).

Valore fondamentale acquisiscono le uscite didattiche per sperimentare la geografia ad


esempio. Quindi una natura sperimentata a scuola con l'orto e ritrovata fuori per essere
esperita e contemplata come elemento familiare e prezioso di cui prendersi cura.

Robert Baden-Powell(1857-1941) fondatore dello scoutismo. Organizza i giovani in un


sistema collettivo il cui punto focale è il contatto con la natura.

Tra intelligenza naturalistica, deficit di natura e tempo della lumaca.

Howard Gardner e l'intelligenza naturalistica.

Howard Gardner scrive un saggio sulla pluralità delle intelligenze nel 1983 e nell'ottava
menziona quella naturalistica o anche " arte di arrangiarsi nella natura". Egli
sostiene:"l'intelligenza naturalistica è la capacità di riconoscere piante ed animali...tutti
sappiamo farlo ma....alcuni eccellono in questo campo. Questa abilità oggi è stata dirottata
sull'osservazione di oggetti creati dall'uomo piuttosto che sulla natura. Infatti molti sono
bravissimi nel riconoscere un'auto per esempio, mentre i nostri antenati dovevano essere
in grado di riconoscere animali carnivori, serpenti velenosi o funghi commestibili". Disturbi
da deficit di natura.

Così si è iniziato a parlare di disturbi da deficit di natura, frase coniata da Richard Louv nel
libro "l'ultimo bambino nei boschi, come riavvicinare i nostri figli alla natura". Il problema
risiederebbe proprio nella mancanza di un contatto con la natura nel quotidiano che ha
portato ad un'atrofizzazione delle capacità sensoriali. La natura, invece, obbliga il bambino
all'utilizzo dei 5 sensi e lo costringe ad odorare, ascoltare, toccare, vedere, gustare.

Nella prefazione al libro di Louv, Silvia Vegetti Finzi (1938), dice che come primo passo è
necessario riportare l'attenzione al corpo ricreando il binomio vita e natura. Il nostro corpo
non è un accessorio, noi siamo il nostro corpo. Per cui, i bambini sentono il bisogno di
quelle cose che non si possono comprare come l'aria, la terra, l'acqua, l'erba, le piante, gli
animali.
Un mondo che allontana i bambini dal contatto con l'ambiente esterno
Il mondo attuale è per i bambini un ambiente pieno di divieti e di cose da non fare. la
conseguenza è che il mondo, privo di bambini diventa più pericoloso per il bambino che vi
si avventura. Anche i giardini scolastici perdono la loro segretezza: il bambino è sempre
controllato da un adulto e non può mai esplorare liberamente, ossia quando lo desidera.
raramente si scende in giardino (se non piove, a ricreazione...).Anche l'esperienza risulta
impoverita: i bambini non vivono esperienze primarie, ma secondarie ossia offerte dalla
televisione, cioè vissute da altri e da loro fruite in modo passivo.

Vivere le esperienze in modo passivo

Spesso anche le esperienze primarie sono già filtrate dall'adulto di turno e quindi
sterilizzate. Già Dewey (1859-1952) ci aveva parlato di offrire eperienze grezze, non finite
e piene di difficoltà.

Gianfranco Zavalloni (1957-2012) ci parla di orti della pace in contrapposizione agli orti
fascisti chiamati "della guerra". Lui scrive il testo "La pedagogia della lumaca. Per una
scuola lenta e nonviolenta" prospettando la possibilità di intervenire sui ritmi artificiali e
competitivi che vengono imposti agli alunni. Coltivare un orto a scuola significa "rallentare":
c'è l'attesa, la pazienza, la maturazione della capacità previsionale.

Infine si ricorda la stesura dei "Diritti naturali dei bambini" (2003) di cui è bene ricordare i 3

principali: 1. diritto all'ozio a vivere momenti di tempo non programmato dagli adulti; 2.

diritto a sporcarsi a giocare con la sabbia, la terra, l'erba, le foglie, l'acqua, i sassi, i rametti;

3. diritto agli odori a percepire il gusto degli odori, riconoscere i profumi offerti dalla natura.

Approfondimento 2. Diritti dei bambini tra vita, cultura e natura


Dal 1990 grazie ad una convenzione dell'ONU il tema dei diritti dei bambini è stato
accettato da numerosi stati. Il 10 dicembre 1948 si stabiliva la Dichiarazione Universale dei
diritti umani che condannava qualsiasi forma di tortura e limitazioni di libertà ma ci si rese
conto che mancava una legislazione comune sui diritti dei bambini. Dopo un lavoro durato
11 anni, nel 1990 è stata stilata la Convenzione Internazionale dei Diritti dell'Infanzia. In
seguito, e precisamente nel 1994, Zavalloni educatore, maestro, dirigente, stila un elenco
di diritti affinchè i bambini mantengano un contatto diretto con la natura: Diritto all'ozio,
diritto a sporcarsi, diritto agli odori, dirito al dialogo, all'uso delle mani, a un buon inizio, ala
strada, al selvaggio, al silenzio, alle sfumature.
Le forest school

Iniziano così numerose esperienze come le forest school, vere e proprie scuole create nei
boschi, dove la scelta educativa è quella di immergere i bambini nella natura. Il nome che
accomuna queste esperienze è OUTDOOR EDUCATION. Con queste occasioni ci si
rivolge anche agli adulti che vogliono misurarsi con gli altri in contesti differenti da quelli
che abitualmente frequentano.

Ma cosa si intende per natura? Se guardiamo i nostri giardini ci rendiamo conto della mano
dell'uomo che agisce su di essi. Così risulta essere più corretto parlare di "nature" come
sostiene Van Aken. Dice Louv che ci sono due significati principali: uno deriva dal verbo
latino nasci cioè nascere e l'altro è legato al concetto di "vita all'aria aperta". Ma se
focalizziamo la nostra attenzione sulle varie culture, ci rendiamo conto che il discorso si
amplia. La natura presentata ai bambini nei cartoni animati è umanizzata, già interpretata;
c'è poi una natura nascosta nelle città: cortili , giardinetti e parchi. Questa si allarga se
pensiamo alla campagna e all'agricoltura fuori città. Questa è forse la natura con cui la
scuola può confrontarsi. Si tratta di full immersion ossia un'immersione totale dove i
bsmbini apprendono vivendo in giardino. Così anche l'adulto può immergersi
accompagnando i bambini nelle loro scoperte aiutandoli a rielaborare le esperienze che
compiono.

Educazione ambientale, proposte dal micro al macro

Secondo le Indicazioni nazionali è molto importante l'aspetto riguardante la natura infatti si


legge:"La scuola è perciò investita da una domanda che comprende, insieme,
l'apprendimento e il "saper stare al mondo"". Fin dalla Scuola dell'Infanzia si ribadisce
l'importanza dell'esplorare la realtà e dell'esperienza del bambino tenendo conto della
differenza del tempo della natura, molto lungo, e quello dell'uomo, molto breve e quindi
delle trasformazioni che quest'ultimo attua nei confronti della natura anche con l'aiuto della
tecnologia. Quindi si auspica l'utilizzo di "occhi nuovi" nell'osservare ciò che ci circonda. Si
può trattare del cortile della scuola per esempio colta nella sua evoluzione storica. Ma
dove possiamo collocare tali ricerche? Forse nell'educazione ambientale? Ma noi
sappiamo che l'educazione ambientale nella scuola non è materia autonoma, ma è
collegata a differenti insegnamenti: scienze, geografia, biologia, storia.

A questo bisogna collegare il concetto di "biofilia" sviluppato da Wilson, ossia la tendenza


innata volta a concentrare il proprio interesse sulla vita e sui processi vitali, cogliendo
come una necessità umana proprio quella di conservare l'ambiente naturale. Quindi
all'interno della educazione ambientale possiamo trovare 3 livelli che si scandiscono su
movimenti diversi:

1. sull'ambiente

2. nell'ambiente

3. per l'ambiente
Dunque il contesto in cui i bambini vivono diventa un vero e proprio testo, cioè uno spazio
vivo, in cui costruire insieme ai bambini i saperi. Ovviamente, far sperimentare ai bambini
nuove esperienze di ricerca e di scoperta all'esterno è molto più complesso e faticoso,
rispetto a tenere una lezione di esclusivo insegnamento frontale in classe, ma più ricchi e
inaspettati sono i frutti di queste pratiche.

Natura e paesaggio

Secondo la Convenzione Europea del Paesaggio, quest'ultimo viene così


definito:"....determinata parte del territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui
carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni". Ciò è
facile da spiegare osservando il mondo in cui viviamo perchè è pressochè impossibile
trovare spazi in cui l'intervento umano non abbia portato dei cambiamenti. Quindi oggi
possiamo coniugare in modo complementare natura e uomo tenendo conto del fatto che
nel passato, la parola paesaggio faceva pensare esclusivamente alle bellezze naturali!
Uniamo al tutto il nostro punto di vista che sicuramente influenza quello che andremo a
scoprire.

Questa concezione del paesaggio viene ad avere importanti ripercussioni sul sistema
educativo ed è così che la conoscenza del paesaggio viene a declinarsi nelle discipline, in
tutte le discipline. Per comprendere un paesaggio occorre anzitutto guardarlo e quindi
immergersi in esso. Nell'antichità la parola vista e conoscenza erano sinonimi. Così ci
poniamo in una posizione di dialogo nello sviluppo della dialettica tra identità e diversità-
alterità.

Paesaggio come elemento del nostro patrimonio culturale

La dimensione naturale e umana diventano elemento cogente del nostro stesso patrimonio
culturale. Nei confronti del paesaggio possiamo mettere in atto azioni educative:
osservazione attiva, sperimentazione...L'idea è quella di prendere coscienza diretta del
contesto in cui si vive e dei contesti che di volta in volta ci si pongono davanti.

10.3 SCUOLA E PATRIMONIO CULTURALE

Con i termini Patrimonio o bene culturale ci si riferisce ai musei, alle biblioteche, alle aree e
ai parchi archeologici....Il concetto di bene culturale ha pian piano sostituito quello di
patrimonio perche il termine ha il vantaggio di includere anche i beni immateriali e quindi
libera la tutela da una concezione "monumentale". Bene culturale esprime la ricchezza del
fenomeno, sotto il segno di un solo denominatore:la cultura. Anche se ancora è molto
diffuso il termine cultural heritage, negli ultimi anni il termine bene culturale fa la sua
comparsa nei documenti ufficiali dell'Unione Europea. Spesso le scuole hanno "adottato"
monumenti con dei progetti volti a proteggere il nostro patrimonio. Nel 2015 è stato siglato
un protocollo d'intesa fra il MIUR e il MIBACT (Ministero dei beni e delle attività culturali e
del turismo) per unire la scuola e i beni culturali. Così la scuola si è aperta verso musei,
monumenti, biblioteche uscendo dal proprio spazio alla ricerca di un patrimonio molto
spesso dimenticato, da utilizzare come tramite immediato di conoscenza.

Andare al museo

La scuola da moltissimi anni ha imparato a confrontarsi con i musei. In America, già dalla
fine del Settecento molti musei avevano mostrato la loro attenzione per le istituzioni
scolastiche. george Brown, dal 1887, sostiene che la cultura popolare potrà ampliarsi con
l'utilizzo di musei, delle biblioteche e dei laboratori. Sempre negli Stati Uniti nel 1938
erano previste delle ore di museo come materia al pari delle altre.

In Francia, sempre nel '38 ci si interrogava su quale fosse il modo migliore per far visitare i
musei: il buon maestro deve conoscere per primo ciò che si andrà a visitare e far puntare
l'attenzione dei bambini su una cosa o su un'altra, dirigendo il processo di conoscenza.

Far vivere il museo e non subirlo passivamente

C'è da sottolineare il fatto che il museo veniva visto come un luogo non adatto
all'educazione ma come luogo per conservare o comunque per estimatori. Così l'ICOM
( International Council of Museums) ha sciolto ogni dubbio definendo il museo come luogo
in cui si effettuano ricerche concernenti le testimonianze materiali dell'uomo e del suo
ambiente. Queste vengono acquisite, conservate, comunicate ed esposte ai fini di studio,
di educazione e di diletto.
Il museo nel suo rapporto con la scuola ha attraversato diverse concezioni:
descolarizzazione ossia l'azione di quei musei che non vogliono proporre alcun
programma per le scuole; parascolarizzazione ossia quei musei che pensano a questo
luogo come un prolungamento della vita scolastica; armonizzazione ossia riconoscimento
delle specifiche diversità e obiettivi fra scuola e museo capaci di confrontarsi e cooperare.

Cose in comune fra scuola e museo: partecipazione, educazione, condivisione,


costruzione della cultura.

Differenze: educazioni differenti. A scuola educazione formale; nel museo educazione


informale.

C'è da dire che quando una scuola si reca al museo porta con sè le caratteristiche della
formalità poichè il percorso viene scelto dal docente, la proposta è uguale per tutti gli
alunni, i tempi sono scanditi ed omogenei, le alternative individuali sono poche o nulle.

Una storia tutta italiana

In Italia, dopo la seconda guerra mondiale vennero incrementati i progetti museali, ma fu


con gli anni '70 e '80 che si realizzeranno laboratori specifici. Secondo Bruno Munari
(1907-1998) vista l'impossibilità di modificare il pensiero in un adulto, è necessario, se si
vuole incentivare la comprensione dell'opera d'arte, partire dal bambino. Quindi si
organizzeranno laboratori in cui questi possano giocare con materiale strutturato, colori,
luci colorate e fra 20 anni ci sarà un pubblico diverso, più consapevole.

L'importanza di educare alla partecipazione ai musei

Oggi ogni museo propone percorsi diversi per i vari pubblici, non solo scolastici e punta
alla partecipazione diretta delle persone. I musei sono molto numerosi in Italia ed è
importante che le scuole ci si rechino per confrontarsi con oggetti culturali (scientifici,
artistici, storici, antropologici..) e riflettere accanto ad opere originali è ovviamente
differente dal lavorare sulle riproduzioni. Partecipando in maniera attiva al museo,
interviene l'azione riflessiva e partecipata: non ci sono risposte prestabilite e il bambino si
pone in modo nuovo di fronte all'oggetto.

Nuove forme di partecipazione

Chi frequenta il museo è diventato elemento imprescindibile per la vita stessa di tale
istituzione. Come sostiene Hooper, l'atto del conoscere prende forma nel momento
dell'esperienza e nel museo il soggetto che apprende e il soggetto che insegna hanno
uguali poteri poichè la conoscenza è raggiunta soprattutto attraverso lo scambio
vicendevole, il rapporto con gli altri.

10.4 SOCIETA', PRIME PROVE DI CITTADINANZA

Grazie alle varie forme di partecipazione nate dal contatto con i beni culturali, l'idea che
prende corpo è di creare una comunità sempre più ampia , verso la quale, fin da molto
piccoli, si deve imparare a rapportarsi, condividendo e partecipando pienamente a questo
mondo. Le Indicazioni Nazionali ci dicono che "il sistema educativo deve formare cittadini
in grado di partecipare consapevolmente alla costruzione di collettività più ampie e
composite, siano quella nazionale, europea e mondiale. Quindi si punta alla costruzione di
una società che si apra e si contamini costantemente con l'esterno e che si confronti con i
modi anche del fare politica, intesa come partecipazione attiva a più alti gradi.

Il territorio diventa dunque, come sostiene Frabboni, un'aula didattica decentrata


riferendosi soprattutto alla rete di agenzie educative presenti sul territorio, mentre altri
puntavano verso un sistema formativo integrato, dove musei, biblioteche, paesaggio,
patrimonio fossero elementi sempre vivi e presenti con cui interrelarsi.

Lavorare con, sul, nel territorio diventa un modo per sanare la frattura fra sistema
educativo e vita reale per permettere di riappropriarci del mondo e crescere in autonomia,
allontanando lo spettro in educazione della totale dipendenza dall'adulto. Passaggio
cruciale diventa quindi il cercare di "dare rilievo alla dimensione pubblica
dell'esistenza"(Mortari), riscoprendo una dimensione politica che Platone afferma "non è
un dono di natura e nemmeno del caso, ma è insegnabile e che la possiede l'acquista con
il prendersi cura di questo apprendimento".

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