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Didattica

generale

Di

Maria Chiara Manauzzi

Didattica generale (M. Castoldi)


Riassunto libro
1. LA DIDATTICA OGGI: PAROLE CHIAVE

Qui di seguito verranno spiegati i 10 concetti chiave che attraversano il sapere didattico odierno.

1.1 DIDATTICA

La Didattica (dalla radice indoeuropea “dak”, ovvero, “mostrare”) nasce dall’esigenza di


trasmettere alle nuove generazioni il patrimonio culturale accumulato attraverso l’intera storia
dell’uomo e si sviluppa per effetto della tensione volta a trovare le modalità più efficaci per
svolgere tale compito formativo.
Il sapere didattico ha subito profonde trasformazioni:
- Estensione del campo della didattica, dall’insegnamento praticato a scuola ad ambiti di
educazione informale;
- Specificazione dell’oggetto della didattica, in relazione ai diversi saperi e alle varie
discipline di insegnamento;
- Proliferazione di metodologie didattiche (apprendimento cooperativo, problem solving,
ecc.) in quanto non si può pensare a un modello didattico universalmente valido.
Tali modificazioni hanno determinato un profondo ripensamento dello statuto disciplinare della
didattica. Un primo passaggio è stato la sua collocazione nell’ambito delle Scienze
dell’educazione. Queste ultime a loro volta possono essere distinte in:
- Discipline rilevative, le quali analizzano l’evento educativo nelle sue diverse dimensioni
costitutive allo scopo di migliorarne la comprensione (es. psicologia dell’educazione,
antropologia dell’educazione, ecc.);
- Discipline prescrittive, saperi orientati verso una comprensione del sistema di valori entro
cui identificare i traguardi formativi a cui è finalizzato l’evento educativo (es. filosofia
dell’educazione);
- Discipline operative, concentrate sull’azione educativa e sulle sue modalità di conduzione.
La Didattica fa parte, all’interno delle Scienze dell’educazione, delle discipline operative ed è un
sapere orientato a rispondere alla domanda: “come educare?”.
Gli elementi caratterizzanti una disciplina sono l’oggetto e il metodo che la contraddistinguono.
Nel caso della Didattica identifichiamo l’oggetto di studio di questa disciplina con l’azione di
insegnamento, ovvero, quella particolare azione formativa che si svolge dentro la scuola. Essa è
distinta da caratteri di:
- Intenzionalità, ovvero l’esistenza di traguardi formativi consapevolmente perseguiti;
- Sistematicità, ovvero l’organizzazione strutturata e progressiva dell’azione educativa.

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Entrambi i requisiti sono presenti nell’ambiente scolastico (educazione formale); solamente
l’intenzionalità negli ambienti di educazione informale (famiglia, parrocchie, attività sportive,
ecc.) e nessuno dei due caratteri in quelli non-formali (mass media, miti e riti sociali, ecc.).
Limitando l’attenzione all’ambiente di educazione formale (la scuola) possiamo definire l’azione
d’insegnamento come una relazione educativa finalizzata all’apprendimento di un determinato
patrimonio culturale agita in un dato contesto istituzionale. Parliamo di:
- “relazione educativa” per riferirci alla relazione tra insegnante-allievo/i entro cui si
inscrive l’azione didattica;
- “finalizzata all’apprendimento di un determinato patrimonio culturale” per precisare il
compito specifico affidato dalla società all’educazione scolastica
- “agita in un dato contesto istituzionale” per precisare il setting entro cui si svolge tale
relazione educativa (istituzione scolastica assieme alle sue regole, norme di
comportamento, ecc.).

Il triangolo didattico rappresenta i tratti essenziali di questa definizione rintracciabili nei tre
vertici del triangolo (I = Insegnante; A = Allievo/i; C = Contenuto culturale) e nel cerchio che lo
inscrive (Contesto istituzionale). L’azione d’insegnamento si identifica con l’insieme delle
relazioni che collegano tra loro i singoli elementi.
Sulla base di questa rappresentazione è possibile individuare le dimensioni dell’insegnamento,
ovvero alcuni punti di vista privilegiati da cui è possibile osservare l’evento didattico:

- Dimensione relazionale-comunicativa (A-I), attenta alla dinamica relazionale che si


viene a determinare tra insegnante e allievi e alle modalità di gestione di tale dinamica;

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- Dimensione metodologico-didattica (C-A), attenta alle modalità di trasmissione del
patrimonio culturale da parte dell’insegnante e al modo con cui viene gestita la
mediazione tra i soggetti che apprendono e i contenuti culturali oggetto di insegnamento.
In questa prospettiva le varie metodologie sono dispositivi attraverso cui l’insegnante
intende connettere determinati allievi con determinati contenuti culturali;
- Dimensione organizzativa (C-I), attenta alla predisposizione del setting entro cui agire
l’azione didattica (aula, materiali, gestione del tempo, ecc.).
Oggigiorno, l’oggetto della didattica sta subendo un progressivo spostamento del lavoro scolastico
verso lo sviluppo di competenze. Il compito formativo affidato alla scuola dal contesto socio-
culturale attuale non è più quello di trasmettere un insieme di sapere agli allievi ma di insegnare
ad affrontare le situazioni di realtà che il proprio contesto propone. I due compiti non sono in
opposizione: fronteggiare le situazioni di vita comporta l’acquisizione di un insieme di saperi che
devono però diventare strumenti culturali per affrontare i compiti di sviluppo richiesti dal nostro
contesto sociale. D’altro canto la scuola deve gestire i contenuti culturali che le sono affidati non
come traguardi formativi ultimi ma come mezzi per sviluppare le competenze, ovvero, la capacità
di inserirsi efficacemente nel proprio contesto di vita. In questa prospettiva di competenze, al
triangolo si può aggiungere un quarto vertice rappresentante le “Situazioni di vita” (S) nelle quali
utilizzare i contenuti culturali.

1.2 RICERCA

La definizione di Didattica come “ricerca sull’insegnamento” ha il pregio di focalizzare l’attenzione


sull’oggetto della didattica, l’insegnamento, e sulla metodologia di indagine, la ricerca.
Si tratta di una disciplina orientata a comprendere il fenomeno dell’insegnamento dove da sapere
per gli insegnanti si è passati a sapere con gli insegnanti. Negli ultimi decenni è l’insegnante che è
diventato fonte del sapere didattico, nel senso che la produzione della conoscenza muove da una
esplorazione e rielaborazione dell’azione didattica dell’insegnante attraverso un’alleanza tra chi
opera, l’insegnante, e chi fa ricerca, il ricercatore. Da questo punto di vista l’insegnante non è più
un destinatario di un sapere estraneo alla sua pratica ma egli stesso fonte del sapere che produce
attraverso la sua stessa esperienza.
Se la didattica tradizionale si fondava su un rapporto gerarchico tra teoria ed azione e il compito
dell’insegnante era essenzialmente esecutivo, nella nuova didattica questo rapporto diviene
circolare. Il presupposto è che ogni situazione didattica è diversa e necessita di risposte didattiche
differenti; da qui l’impossibilità di avere un modello didattico univoco e sempre valido e la

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necessità di mettere ogni proposta didattica in relazione al contesto entro cui si attua. Teoria e
pratica interagiscono reciprocamente.
Da qui l’immagine del docente interpretata da D. Schon come “professionista riflessivo”, ovvero
in grado di attuare un processo di pensiero che Schon definisce “riflessione in azione” basato sulla
conoscenza tacita che è implicita nell’azione del soggetto ed è caratterizzato da un
comportamento spontaneo ed intuitivo (mentre riflettono in azione gli individui cercano di
attribuire significato a ciò che stanno facendo e conseguentemente modificano i mezzi e i fini in
rapporto alla situazione). Come l’improvvisazione, la riflessione in azione di combinare e
ricombinare, di conferire senso a situazioni mutevoli e cambiare strategie di azione in accordo a
tali mutamenti. Da qui:
- “conoscere sull’agire”, ovvero sapere insito nell’azione;
- “professionista come ricercatore”, dove la figura del docente condensa in sé il sapere
pratico e il sapere teorico;
- “consapevolezza critica”, basata sulla rielaborazione personale e il confronto sociale.
L’espressione “professionista riflessivo” mette in luce come la professionalità dell’insegnante si
gioca nel passaggio da un sapere tacito a un sapere esplicito, ossia nell’acquisire consapevolezza
del proprio sapere, in questa relazione continua tra esperienza e riflessione.
Il ruolo del ricercatore si qualifica invece come consulente di processo, fungendo da supporto ad
un percorso di autodiagnosi del docente, non offrendo soluzioni ma mirando ad attivarne le
risorse a disposizione e offrendo una metodologia di gestione di situazioni e problematiche.
La professionalità di un docente non si riflette solamente sul ruolo del ricercatore ma anche sulle
visioni relative alla formazione dei docenti:
- Formazione come alimentazione, ovvero come strumento professionale utile a
fronteggiare le sfide che l’esperienza pratica comporta (conoscere per agire);
- Formazione come socializzazione, acquisizione di conoscenze già esistenti tra insegnanti
(conoscere dall’agire);
- Formazione come ricerca, che nasce nel momento in cui l’insegante considera la classe e
la scuola un terreno fertile d’investigazione, utilizzando conoscenze e teorie prodotte
altrui per porsi interrogativi e fare interpretazioni (conoscere sull’agire).
Il compito della didattica consiste nell’aiutare l’insegnante a rendere dicibile il proprio sapere,
nel dare parole al sapere pratico che sta dentro l’azione, fornendo categorie di lettura, strutture
d’interpretazione, opportunità di rielaborazione della propria esperienza.
Calidoni presenta tre visioni della ricerca didattica in base al rapporto che si viene a
determinare tra azione (d’insegnamento) e riflessione (didattica):
- Visione grammaticale, per sottolineare la funzione regolativa affidata alla didattica in
rapporto all’azione d’insegnamento. Si tratta della proposta di modelli di insegnamento
finalizzati a guidare l’insegnante nella sua azione professionale;
- Visione sintattica, che sottolinea la funzione esplicativa affidata alla didattica. Essa, cioè,
propone strumenti e categorie di lettura utili a scomporre l’insegnamento e a
comprenderlo nel suo sviluppo e nella sua efficacia. Si tratta quindi di fornire
all’insegnante gli strumenti per comprendere la sua azione;
- Visione semantica che vuole far emergere la funzione narrativa affidata alla didattica in
rapporto all’azione di insegnamento. La didattica contribuisce quindi ad esplorare i
significati sottesi alle concrete esperienze d’insegnamento per i diversi attori che ne sono
implicati.

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In conclusione, la didattica cambia ruolo, da sapere per gli insegnanti a sapere con gli insegnanti,
e diventa strumento di accompagnamento offerto ai protagonisti dell’azione d’insegnamento per
comprendere e rielaborare la propria esperienza. La ricerca si interseca perciò con l’azione, dove
il ricercatore non si sostituisce all’insegante ma lo affianca, nell’intento di dare significato alla
propria esperienza professionale.

1.3 INNOVAZIONE

Il concetto di innovazione si aggancia a quello di ricerca: se la ricerca si orienta ad essere con gli
insegnanti allora sfocia inevitabilmente nell’azione e diventa strumento per la gestione del
cambiamento, anche in ambito didattico. Anche il paradigma di Schon del “professionista riflessivo”
si orienta nella stessa direzione: la circolarità del processo tra azione e ricerca porta a considerare
l’azione in termini di innov-azione, nel senso di una rielaborazione continua della propria azione
didattica orientata al miglioramento.
Scurati definisce questa nuova fase del cambiamento educativo momento antropologico, dove il
cambiamento viene inteso come un evento complessamente umano, non puramente tecnologico,
promosso dall’uomo per l’uomo, nel clima e nell’ambito delle interazioni dialogiche, cioè un
procedimento di proposta che dà luogo ad un’esperienza di scambio e nuova interpretazione.
Il cambiamento è caratterizzato dalla ricorrenza di alcuni principi di fondo:
- Storicità del processo di cambiamento, inteso come insieme di eventi che si sviluppano e
modificano nel tempo all’interno di una configurazione strutturale, relazionale e culturale
di una propria peculiarità;
- Soggettività di colui che è responsabile dell’azione (preoccupazioni, convinzioni,
esperienze pregresse), come punto di connessione tra intensione progettuale e processi
reali. A seconda del soggetto gli individui recepiscono, interpretano e agiscono il
cambiamento in un certo modo. Tra queste interpretazioni vi può essere lo sviluppo di
una certa “resistenza al cambiamento”, la quale però assume una connotazione
fondamentale nel processo innovativo in quanto modalità di percezione e riconoscimento
della presenza del cambiamento stesso;
- Contestualità, ovvero comprensione del significato dell’innovazione in relazione allo
specifico contesto ambientale entro cui è inserita (unità scolastica diviene attore collettivo

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del cambiamento, bersaglio su cui si concentrano gli sforzi di miglioramento del servizio
scolastico);
- Globalità, cambiamento come processo di reciproco apprendimento tra individui e
ambiente, ovvero coinvolgimento nell’evento trasformativo del sistema organizzativo
nella sua totalità;
- Reciprocità, che vuole mettere in luce la natura dialogica del cambiamento tra scuola e
ambiente esterno. Emerge un processo di bidirezionalità del processo trasformativo,
inteso come reciproco sviluppo e adattamento tra i processi innovativi veicolati
dall’esterno e la capacità della scuola di interpretarli;
- Riflessività, intesa come la capacità del sistema organizzativo di apprendere dalla propria
esperienza, valutando le proprie azioni e essendo capaci di retroazione sui processi
decisionali.
Per quanto riguarda il rapporto tra ricerca e cambiamento, nello sviluppo di un processo di
innovazione il momento della ricerca costituisce un’opportunità di apprendimento, ossia la
possibilità di assumere consapevolmente i significati della propria azione e regolarla
progressivamente in corso d’opera.

1.4 DOCUMENTAZIONE

La centralità della documentazione del sapere didattico trae origine dall’idea di ricerca: per
rielaborare l’esperienza dell’insegnamento diventa decisivo possedere un linguaggio per rendere
dicibile tale esperienza, per poterne parlare, analizzarla, formalizzarla e utilizzarla in altri contesti.
Da qui il valore della documentazione, per trasformare l’azione d’insegnamento in un
documento e, quindi, in qualcosa che possa essere conservato e capitalizzato. Per documentazione
si potrebbe intendere la memoria della nostra esperienza di insegnanti e della scuola in generale
e ciò attualmente rappresenta una vera e propria sfida per il sapere didattico.
Nella storia della pedagogia ci sono stati alcuni tentativi illustri di raccontare l’azione ma il dato
generale che emerge negli anni è una scarsa attenzione alla memoria da parte dei docenti e degli
educatori, problema riportato al centro dell’attenzione solo negli ultimi anni. Paradossalmente la
scuola ha sempre curato la documentazione in un’ottica amministrativa e burocratica (pagella,
registro, ecc.) a discapito di quella della propria esperienza didattica. La scuola oggi è perciò un
soggetto privo di memoria e, forse, questa sua attitudine è una buona chiave di lettura per
analizzare la profonda crisi d’identità che sta attraversando. Manca perciò una documentazione
di tipo professionale, utile a comunicare le esperienze didattiche tra gli insegnanti, confrontarle e
a traferirle in altri contesti.
Un altro problema si pone sulle forme e le modalità attraverso cui rendere dicibile un’esperienza
didattica, proprio in relazione a quella distanza che separa il “il dire” (sapere teorico) e “il fare”
(sapere pratico).
Un primo criterio riprende tre visioni della ricerca didattica affidate alla documentazione:
regolativa (indirizzare l’azione), esplicativa (fornire chiavi di lettura per comprendere
l’esperienza didattica) e narrativa (raccontare l’esperienza e i suo significati).
Un secondo criterio distingue tre fasi temporali: ex-ante (preparatoria dell’azione), contestuale
(momento in cui si svolge l’azione) e ex-post (successiva all’azione, per ricostruirne il percorso e
apprezzarne valore e risultati).
L’incrocio di questi due criteri consente di individuare 9 combinazioni differenti, ciascuna
espressione di una particolare forma di documentazione didattica.

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Tra le forme di documentazione citiamo i “diari di bordo”, documenti che seguono l’azione e
svolgono una funzione di ricostruzione del vissuto esperienziale. Vuole essere una forma di
scrittura con cui tenere traccia del proprio “viaggio da insegnante”, registrando a caldo la propria
esperienza, con lo scopo di conservarne tutta la ricchezza e la vitalità.

1.5 AZIONE DI INSEGNAMENTO

Abbiamo precedentemente identificato come oggetto di studio della Didattica l’azione


d’insegnamento, definendola come l’azione comunicativa finalizzata all’apprendimento di un
determinato patrimonio culturale agita in un contesto istituzionale e contraddistinguendola per i
suoi attributi di sistematicità e intenzionalità. Bisogna però cercare di comprendere il significato
più profondo di questo concetto chiave: quello di mediazione. L’insegnamento è un’azione
comunicativa, un sapere orientato ad un scopo e agito in un determinato contesto.
L’insegnamento può essere definito come un’azione pratico-poietica, richiamando due attributi
del pensiero aristotelico:
- Praxis: azione guidata verso un fine etico-sociale e non verso un prodotto concreto. Essa
acquista un valore in sé in quanto ispirata ad un insieme di valori e mirata ad incarnare
un determinato ideale morale. La qualità di questo tipo di azione risiede nella saggezza e
nei principi etici di cui il soggetto si fa portatore e che incarna tramite la sua azione
(phronesis);
- Poiesis: azione finalizzata alla realizzazione di un determinato prodotto, tangibile e
concreto, che acquista valore in relazione al risultato che produce. Un esempio è quello
dell’artigiano, la cui azione è funzionale alla produzione di un manufatto e la cui maestria
nella realizzazione può essere ricondotta all’insieme delle abilità e competenze che egli
deve possedere (techne).
Quindi, mentre l’azione pratica ha un fine in sé, in quanto espressione dei valori etici a cui si rifà,
l’azione poietica raggiunge il suo scopo attraverso il prodotto che realizza. Facendo riferimento
all’azione di insegnamento:
- La dimensione poietica, orientata al prodotto, richiama la valenza didattica
dell’insegnamento e si riferisce alle qualità tecnico-professionali dell’insegnante nel
mettere in relazione determinati allievi con determinati contenuti culturali;
- La dimensione pratica, orientata al processo, richiama la valenza educativa
dell’insegnamento e si riferisce alle qualità umane e personali dell’insegnante nel
veicolare e testimoniare una serie di valori etici.

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La qualità dell’azione di insegnamento sta nel coniugare e connettere queste due dimensioni per
rispondere adeguatamente all’istanza di formazione che la giustifica e la legittima (nel chiedersi
che cosa faccio?, nel senso di contenuti ed argomenti, e perché lo faccio?, intendendo quale aspetto
della persona voglio sviluppare). Adeguatezza tecnica e legittimità etica sono i due requisiti
essenziali con cui apprezzare l’insegnamento, richiamando rispettivamente la scelta dei mezzi più
idonei per raggiungere il proprio scopo formativo e la coerenza con i fini verso cui l’azione è
orientata.
All’interno di questa visione comprensiva dell’azione d’insegnamento, focalizziamo l’attenzione
sull’azione poietica, ovvero sulle modalità operative con cui l’insegnante persegue il suo compito
di apprendimento e sul prodotto di questa azione, i risultati di apprendimento. Questi dipendono
a loro volta dalla “disponibilità ad apprendere” da parte dell’allievo (motivazione, preconoscenze,
impegno, ecc.). Da qui una riconcettualizzazione del prodotto dell’insegnamento, come
mediazione didattica operata dall’insegnante per promuovere l’apprendimento dei propri allievi
dove però entrambi sono responsabili del risultato dell’apprendimento.
Il prodotto dell’azione didattica non è quindi l’apprendimento ma la mediazione didattica. Per
essa si intende la regolazione della distanza tra i contenuti culturali da trasmettere e i soggetti in
apprendimento. Considerando il triangolo didattico si tratta di agire sulla lunghezza della freccia
che determina la distanza tra i due vertici: “contenuti culturali” e “allievo/i”. Operare una
mediazione didattica significa mettere in relazione i due vertici e gestirne l’interfaccia di
connessione.
Nell’incontro tra i contenuti culturali e la matrice cognitiva degli studenti è necessario attuare un
processo di metaforizzazione attraverso il quale i primi vengono trasformati in contenuti
accessibili all’apprendimento per i secondi. La realtà di cui si parla viene sostanzialmente
sostituita con delle rappresentazioni (figure, vignette, parole, esperienze, formule, ecc.) con lo
scopo di facilitarne l’apprendimento e la comprensione; per questa ragione si parla di mediazione
come regolazione della distanza tra la realtà e la forma di rappresentazione della realtà.
Il processo di metaforizzazione assolve due funzioni: da un lato protegge il soggetto dai rischi
dell’esperienza diretta, attraverso la predisposizione di un ambiente di simulazione che assicura
condizioni di sicurezza e distanza; dall’altra sostituisce il contenuto di realtà con segni appropriati
attraverso un processo di semplificazione e di ristrutturazione spazio-temporale.
La mediazione didattica può essere inserita all’interno di un più ampio concetto di “trasposizione
didattica” per cui si intende “il lavoro che rende un oggetto del sapere da insegnare un oggetto di
insegnamento”. Tale lavoro è caratterizzato da alcuni passaggi chiave:
- Selezione dei contenuti di sapere (“sapere sapiente”) da inserire in un programma
d’istruzione (“sapere da insegnare”);
- Trasformazione del contenuto scelto allo scopo di renderlo oggetto d’insegnamento
(“sapere insegnato”);
- Gestione del contenuto di sapere nel corso dell’azione didattica attraverso la dinamica di
interazione tra la mediazione dell’insegnante e l’apprendimento degli alunni (“sapere
appresso”).
La mediazione didattica si riferisce al passaggio da “sapere da insegnare” a “sapere appreso” e
questo si esplica attraverso le diverse dimensioni dell’azione d’insegnamento (relazionale-
comunicativa, metodologica, organizzativa) strettamente correlate tra loro e dove il ruolo di
mediazione del docente non può che agire su tutte e tre.

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1.6 MEDIATORI DIDATTICI

All’interno della dimensione metodologica è possibile riconoscere modalità e codici comunicativi


diversi con cui poter mettere in relazione i soggetti in apprendimento con i contenuti culturali
oggetti dell’apprendimento. È possibile classificare i mediatori didattici in 4 categorie, in base
alla natura del codice comunicativo impiegato:
- mediatori attivi (uscite didattiche, esperimenti scientifici, ecc.), i quali mirano alla
ricostruzione dell’esperienza di realtà seppur in un contesto didattico.
- Vantaggi: consistenza fisico-ricettiva, riferimento al contesto, alta motivazione.
- Svantaggi: problemi di fattibilità, particolarismo, tempi lunghi, scarsa
memorizzazione degli aspetti salienti.
- mediatori analogici (drammatizzazioni, giochi di ruolo, giochi di simulazione), che
trasformano la realtà in contesti simulati, mantenendo un rapporto di analogia con la
realtà stessa.
- Vantaggi: possibilità di manipolazione e di analisi del fenomeno.
- Svantaggi: distorsione della realtà, difficoltà di distinzione tra realtà e situazione
simulata, tempi e costi elevati e difficoltà di coinvolgimento.
- mediatori iconici (disegni, schemi, modelli, figure, grafici, ecc.), che privilegiano la
rappresentazione della realtà attraverso immagini visive.
- Vantaggi: condensazione e organizzazione, anche sul piano spaziale,
dell’informazione, oggettivazione del fenomeno e possibilità di analisi.
- Svantaggi: limitazione dell’attività percettiva, ambiguità di significato, difficoltà di
rappresentazione di concetti astratti.
- mediatori simbolici (formule, codificazioni, verbalizzazioni, ecc.), i quali rappresentano
la realtà attraverso simboli, tendenzialmente astratti e privi di un rapporto di
corrispondenza con la realtà stessa.
- Vantaggi: sinteticità, elevato grado di generalizzabilità, copertura di una infinita
gamma di esperienze, rapporto economico in termini di tempo.
- Svantaggi: distanza dall’esperienza e dalla realtà, difficoltà di decodificazione e
necessità di un lessico comune.

Ogni tipologia di mediatore ha pregi e limiti; sicuramente è possibile riconoscere quelli attivi
come i più vicini alla realtà, arrivando quasi a riprodurla, mentre quelli simbolici i più lontani.
L’analisi comparata di tutte e quattro le categorie di mediatori in base a vantaggi e svantaggi porta
a concludere che un elemento di qualità dell’insegnamento consiste proprio nell’utilizzo di tutta
la pluralità dei linguaggi comunicativi e, quindi, dei diversi mediatori in modo equilibrato. L’uso
di codici comunicativi differenti permette di personalizzare le modalità di accesso ai contenuti
culturali da parte degli studenti, in relazione agli stili di apprendimento di ciascuno.

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1.7 DIMENSIONE METODOLOGICA

Considerando la rappresentazione dell’azione d’insegnamento, l’asse di collegamento tra allievi e


contenuti culturali (A-C) è quello che maggiormente enfatizza la dimensione metodologica.
Secondo l’approccio cognitivista, la metodologia didattica è un dispositivo di adeguazione del
contenuto culturale al soggetto in apprendimento, uno strumento attraverso il quale mettere in
relazione la matrice cognitiva del soggetto che apprende e la struttura del contenuto culturale
oggetto di apprendimento. Tale concetto è stato successivamente allargato dalla qualità
complessiva dell’esperienza cognitiva, con riferimento sia alle dinamiche relazionali, sia alla
disponibilità ad apprendere da parte del soggetto.
I caratteri dell’approccio cognitivista sono stati classificati da D. Ausubel in relazione a due
parametri:
- La relazione del contenuto di apprendimento con la matrice cognitiva del soggetto,
distinguendo in:
- apprendimento significativo, caratterizzato da un processo d’integrazione tra il
nuovo apprendimento e le conoscenze pregresse;
- apprendimento meccanico, caratterizzato da una giustapposizione del nuovo
apprendimento ai precedenti.
- La modalità di approccio del soggetto che apprende al nuovo contenuto culturale, che può
essere distinta in:
- apprendimento per ricezione, che vede il soggetto in posizione passiva rispetto al
nuovo contenuto culturale;
- apprendimento per scoperta, dove il soggetto è in posizione attiva ed esplorativa
nei confronti del nuovo contenuto culturale.
L’incrocio di questi due parametri permette di riconoscere 4 tipologie di apprendimento,
riassunte in tabella.

Secondo Ausubel, punto focale dell’approccio cognitivista è l’apprendimento significativo, e


quindi di integrazione tra matrice cognitiva del soggetto e nuovo contenuto culturale. Tale
processo prevede un adattamento della matrice cognitiva attraverso un’espansione della matrice
preesistente o una sua ristrutturazione.
La prospettiva da cui osservare l’apprendimento è stata allargata successivamente attraverso
altre due tipologie di approcci: il costruttivismo e la metacognizione.
Il costruttivismo (Jonassen) pone in rilievo il valore dell’interazione sociale nella costruzione
della conoscenza e il carattere situato dell’apprendimento in rapporto al contesto entro cui
avviene. Un importante ruolo nel processo di apprendimento viene quindi assolto:
- dalla costruzione attiva da parte del soggetto (apprendimento costruttivo), il cui
apprendimento è significativo, ovvero, un processo di continua costruzione/ricostruzione
di conoscenze pregresse e ricostruzioni mentali;
- dal contesto di realtà entro cui si realizza l’esperienza apprenditiva (apprendimento
situato). Si apprende quindi quando si è immersi in una situazione o in un contesto che
sollecitano conoscenze, schemi mentali, abilità e linguaggi;

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- dalla collaborazione sociale (apprendimento socio-culturale), ovvero dall’interazione
con gli altri. Si parla di conoscenza co-costruita nello scambio con la comunità di
apprendimento.
Un altro filone di studi che ha allargato la prospettiva con cui osservare l’apprendimento e
l’insegnamento è stato quello della metacognizione. Si ha in questo caso uno spostamento di
attenzione non solo in direzione dei processi cognitivi attivati dal soggetto ma anche del livello
meta di consapevolezza e controllo di tali processi; una consapevolezza del sé da parte del
soggetto che sviluppa la capacità di apprendere, ossia di riflettere sul proprio sapere e sui processi
di sviluppo della propria conoscenza.
A partire dalla proposta di Ausubel e integrandola con i contributi provenienti da costruttivismo
e metacognizione, Pellerey propone una serie di principi che qualificano una metodologia efficace:
- significatività (capacità d’integrazione);
- motivazione (disponibilità ad apprendere);
- direzione (condivisione dei traguardi di apprendimento);
- continuità (apprendimento a “spirale”, ripresa progressiva a diversi livelli di estensione
ed approfondimento);
- integrazione (trasversalità con i diversi sapere disciplinari);
- trasferibilità linguistica (impiego di diversi codici cognitivi);
- negoziazione sociale (dimensione sociale dell’apprendimento, co-costruzione della
conoscenza);
- contestualità (apprendimento in contesti di realtà autentici e significativi);
- riflessività (sviluppo di autoconsapevolezza dell’esperienza cognitiva);
- pluralità culturale (molteplicità delle prospettive culturali attraverso cui approcciarsi).

1.8 REPERTORIO DI METODOLOGIE DIDATTICHE

Abbiamo detto che per dimensione metodologica (C-A) si intende la modalità di trasmissione del
patrimonio culturale da parte dell’insegnante e al modo con cui viene gestita la mediazione tra i
soggetti che apprendono e i contenuti culturali oggetto di insegnamento. In questa prospettiva
Calvani (2000) ha fatto una rassegna di differenti approcci con cui gestire tale mediazione,
definendo un repertorio di metodologie didattiche.
1. La lezione, metodologia didattica per eccellenza caratterizzata da una sistematica
esposizione di contenuti dove chi impara di più è l’insegnante, in virtù della rielaborazione
del sapere.
- Insegnante: rapporto con il sapere attivo e produttivo, ruolo di esperto;
- Studente: ruolo passivo sia con l’insegnante che con il contenuto culturale;
- Punti di forza: efficienza in termini di quantità di informazioni trasmesse/tempo,
standardizzazione e sistematicità;
- Criticità: scarso coinvolgimento e poca attenzione dello studente; limitato feedback.

2. L’apprendistato, sorta di lezione in cui i contenuti culturali sono più orientati ad abilità
operative.
- Insegnante: insegnante ricalca ruolo della lezione, configurandosi come modello;
- Studente: imita i comportamenti in risposta ad un problema concreto fino ad ottenere una
progressiva autonomia;
- Punti di forza: concretezza, progressiva autonomia da parte dello studente, approccio
riflessivo all’apprendimento;

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- Criticità: rischio ad una riduzione ad una imitazione passiva, possibilità d’uso in limitate
discipline, scarsa trasferibilità del sapere.

3. L’approccio tutoriale, forma di supporto personalizzato all’apprendimento, caratterizzato


da una piena valorizzazione del triangolo didattico in virtù della relazione intensa e
personalizzata che si viene a stabilire tra docente e studente nel trattamento del contenuto
culturale.
- Insegnante: tende ad avere ruolo indiretto e di supporto allo studente nell’interazione con
il contenuto culturale. Si approccio, appunto, come tutor;
- Studente: ruolo attivo nell’interazione con il contenuto culturale sul piano cognitivo,
motivazionale ed emotivo;
- Punti di forza: forte interazione tra insegnante, alunno e contenuto culturale, approccio
personalizzato, rinforzo mirato e feedback continuo;
- Criticità: rischio di una relazione a due tra studente-insegnante e di incremento delle
differenze con gli altri allievi della classe.

4. La discussione, inteso come confronto di opinioni in rapporto ad un dato argomento. Un


importante ruolo viene assunto dal gruppo, la classe, e dall’interazione tra i suoi componenti.
- Insegnante: fa parte del gruppo e assume il ruolo di conduttore, ossia moderatore del
contenuto e gestore delle interazioni;
- Punti di forza: interazione sociale, scambio costruttivo di opinioni, problematizzazione e
sviluppo di un’argomentazione condivisa;
- Criticità: difficoltà di avere una partecipazione attiva da parte di tutti i componenti del
gruppo per via di dinamiche di ruolo paralizzanti e controproducenti, rischio di andare
fuori tema.

5. Il problem solving, variante della discussione dove, anziché il semplice confronto su un


argomento, avviene un processo sociale di risoluzione di un problema, orientato al
raggiungimento di un prodotto.
- Insegnante: ruolo di catalizzatore, nel senso di colui che convoglia le energie e le risorse
del gruppo verso la risoluzione del problema;
- Punti di forza: interazione sociale, approccio euristico (relativo all’ipotesi che orienta la
ricerca) centrato su un problema condiviso;
- Criticità: necessità di avere un gruppo di lavoro produttivo, tempi di lavoro più lunghi e
problemi di trasferibilità ad altri contesti.

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6. L’apprendimento cooperativo (o cooperative learning), variante del problem solving dove
cambia il ruolo dell’insegnante e gli studenti assumono una maggiore autonomia.
- Insegnante: si pone al di fuori dal gruppo, come un regista, in posizione di supporto
indiretto al gruppo stesso. Nella fase preliminare, definisce regole e modalità di lavoro;
nella fase contestuale fornisce materiale e svolge un ruolo di monitoraggio; nella fase
conclusiva, esercita una valutazione del lavoro svolto;
- Punti di forza: integrazione delle risorse all’interno del gruppo, sostegno reciproco tra
componenti e arricchimento complessivo grazie all’apporto di contributi e prospettive
diverse;
- Criticità: l’autonomia affidata ai gruppi può portare a dinamiche disfunzionali,
irrigidimento dei ruoli e difficoltà di rimanere centrati sul compito.

7. L’espressione libera (o brain storming), metodologia orientata a sollecitare il contributo


attivo da parte dei componenti del gruppo, liberando le risorse di creatività e di energia
presenti.
- Insegnante: svolge un ruolo di animatore del gruppo, stimola contributi, li recepisce e li
valorizza, creando le condizioni per un confronto libero e partecipato;
- Punti di forza: coinvolgimento di tutti i componenti, stimolo ad aprirsi a diversi punti di
vista e a valorizzazione delle risorse del gruppo;
- Criticità: difficoltà nella gestione e rilettura dei contributi, che possono sconfinare dal
tema trattato.

Quelli presentati sono idealtipi metodologici diffusi nella pratica formativa e didattica. Sta
all’insegnante riconoscere la soluzione più pertinente in rapporto alle diverse situazioni, al
contesto e allo scopo entro cui si agisce. Per posizionare le diverse metodologie analizzate si
possono usare i seguenti criteri con relative polarità:
- Autonomia dell’alunno (eterodiretto vs autodiretto);
- Ancoraggio al contesto (situato vs astratto);

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- Importanza ed enfasi sul gruppo (individuale vs sociale);
- Focus metodologico (attività vs relazione);
- Processi cognitivi attivati (trasmissive vs euristiche);
- Ruolo delle risorse tecniche (centralità vs irrilevanza).
Il ruolo dell’insegnante si modifica a seconda di queste dimensioni, a conferma della sua posizione
chiave nella gestione della mediazione didattica all’interno delle tre dimensioni (metodologica,
relazionale e organizzativa).

1.9 DIMENSIONE RELAZIONALE

Collocata lungo l’asse di collegamento tra insegnate e allievo/i (I-A), per dimensione relazionale
si intende la dinamica relazionale che intercorre tra i diversi attori coinvolti nell’evento didattico.
Come già precedentemente evidenziato, questa dimensione è in stretta relazione con quella
metodologica ed organizzativa dell’azione d’insegnamento; in particolare, la dinamica relazionale
si connette fortemente con la predisposizione del setting.
In genere, si possono distinguere due tipologie di relazioni comunicative, in rapporto alla
dinamica che si viene a creare tra gli attori :
- relazioni simmetriche, con distribuzione del potere equilibrata tra i due attori
dell’interazione, ovvero di pari responsabilità nella gestione della relazione dove possono
prevalere dinamiche collaborative o dinamiche oppositive;
- relazioni asimmetriche, caratterizzate da una distribuzione diseguale del potere tra i due
attori dell’interazione. I ruoli sono ascritti e la responsabilità della gestione della gestione
della comunicazione è attribuita al soggetto in posizione up a discapito di quello in
posizione down.
Sulla base di queste categorie, la relazione didattica si può definire una relazione asimmetrica,
in quanto strutturata su ruoli ascritti e fondata su una distribuzione del potere diseguale, con
insegante in posizione up e studente in posizione down. La qualità della relazione didattica
dipende pertanto, più che dal tentativo di rendere la relazione simmetrica, dal grado di
flessibilità con cui viene gestita l’interazione di tipo asimmetrico tra insegnante e allievo. Una
relazione flessibile implica:
- superare le dinamiche relazionali stereotipate;
- possibilità di variare il setting relazionale entro cui avviene la comunicazione didattica;
- sviluppare una responsabilità condivisa nella gestione della relazione.
All’interno di questo principio è possibile approfondire qualche esempio di declinazioni operativa
di modalità di interazione flessibile. Franta e Colasanti (1991) parlano di “arte
dell’incoraggiamento” nei confronti degli allievi, ovvero di una dinamica promozionale della
crescita e dello sviluppo dell’autonomia dello studente. Per fare ciò, l’insegnante deve possedere
due competenze di base:
- l’ascolto attivo, inteso come la capacità di comprendere il vissuto esperienziale del
proprio interlocutore aldilà del contenuto della comunicazione;
- il messaggi-io, ovvero la capacità di comunicare agli allievi il proprio vissuto circa
l’esperienza relazionale.
In entrambi i casi si tratta di andare oltre una relazione centrata esclusivamente sul contenuto e
dare spazio e voce alle dimensioni affettive, emotive, relazionali presenti in qualunque dinamica
comunicativa. Si tratta di riconoscere la centralità dell’asse allievo-insegante del triangolo

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didattico nel determinare la qualità della relazione didattica, non vedendola solamente in
funzione del contenuto culturale da trasmettere.
L’ascolto attivo, in particolare, è una modalità di gestione flessibile della relazione tra allievo-
insegnante, attraverso il potenziamento della funzione di ascolto da parte dell’insegnante, ovvero
di una posizione in cui mettersi a disposizione dell’altro, valorizzandolo e cercando di
comprenderne il punto di vista. Questo tipo di approccio punta a sviluppare negli allievi la
capacità di esternare i propri vissuti emotivi oltre a metacomunicare accettazione e rispetto del
proprio interlocutore e, di conseguenza, a incrementare il rapporto di fiducia tra insegnante e
allievi. In un atteggiamento di ascolto attivo si possono distinguere 3 passaggi essenziali:
1. fase di ricezione del messaggio, ovvero di ascolto autentico limitando i propri vissuti
emotivi e i propri pregiudizi;
2. fase di lettura del significato del messaggio, considerando non solo le parole dette ma
l’insieme della dinamica che si viene a determinare;
3. fase di re-azione comunicativa, ovvero la modalità con cui l’insegnante risponde all’allievo.
Schulz ha proposto un modello operativo efficace che propone di prestare attenzione alle diverse
facce del messaggio del nostro interlocutore, identificandone quattro:
- piano del contenuto, ciò che dice il soggetto;
- piano della relazione, come lo dice, ovvero la dinamica verbale e non-verbale entro cui
viene pronunciato il messaggio;
- piano dell’autorappresentazione, come si presenta il soggetto, quale immagine di sé vuole
veicolare attraverso il messaggio;
- piano dell’appello, riferendosi allo scopo dell’azione comunicativa, l’intenzione con la
quale viene pronunciato il messaggio.

Ciò che è interessante è la visione pluridimensionale del messaggio da parte di Schulz, attenta a
cogliere la globalità della dinamica comunicativa e prendendo in considerazione le prime due fasi
dell’ascolto attivo (ricezione e lettura del messaggio). La terza fase è quella della re-azione
comunicativa che segue la comprensione del messaggio dell’allievo; Franta e Colasanti
distinguono tra:
- reazioni direttive, che tendono a chiudere e a bloccare la comunicazione (moralizzazione,
generalizzazione, manipolazione, persuasione, valutazione, ecc.);

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- reazioni proattive, che tendono ad aprire e ad alimentare la comunicazione
(verbalizzazione, chiarificazione, comprensione, ecc.).
Una visione più interculturale proposta da M. Sclavi (2003) esplora i significati di una posizione
di ascolto e di rispetto del proprio interlocutore, evidenziando come il modo per poterlo attuare
sia quello di uscire dai propri schemi culturali e relazionali e decentrarsi nei confronti dell’altro.
L’autrice propone 7 regole che denomina “i segreti dell’arte di ascoltare”:
1. Non avere fretta di arrivare a delle conclusioni, le conclusioni sono la parte più difficile
della ricerca;
2. Quel che vedi dipende dal tuo punto di vista. Per riuscire a vedere il tuo punto di vista devi
cambiare punto di vista;
3. Se vuoi comprendere quel che un altro sta dicendo, devi assumere che ha ragione e
chiedergli di aiutarti a vedere le cose e gli eventi dalla sua prospettiva;
4. Le emozioni sono degli strumenti conoscitivi fondamentali, se sai comprendere il loro
significato. Non ti informano su cosa vedi, ma su come guardi; il loro codice è relazionale
e analogico;
5. Un buon ascoltatore è un esploratore di mondi possibili;
6. Un buon ascoltatore accoglie volentieri i paradossi del pensiero e della comunicazione,
affronta i dissensi come occasioni per esercitarsi nella gestione creativa dei conflitti;
7. Per divenire esperto nell’arte di ascoltare devi adottare una metodologia umoristica; ma
quando hai imparato ad ascoltare l’umorismo viene da sé.
Se l’ascolto attivo mira ad approfondire la dimensione emotiva della relazione comunicativa tra
insegnante e allievo, C. Pontecorvo propone una lettura più strettamente cognitiva della dinamica
comunicativa, non limitandola al solo piano socio-emotivo ma puntando a valorizzarne le
potenzialità sul piano dell’apprendimento. L’autrice si riferisce soprattutto all’interazione sociale
nel gruppo classe, all’interno del quale il processo di costruzione attiva dell’apprendimento da
parte del soggetto viene amplificato (costruttivismo sociale). L’interazione sociale diviene la
premessa nel processo di co-costruzione della conoscenza che Pontecorvo rappresenta con
l’espressione “sindrome di Qui, Quo, Qua”: i nipotini di Paperino spesso elaborano il loro pensiero
come somma dei contributi individuali, dove ciascuno formula una parte della frase che acquisisce
senso compiuto solo se considerata nel suo insieme; così deve essere in un gruppo, nel quale
ciascun componente fornisce il suo piccolo contributo per arrivare ad un risultato che è superiore
alla somma delle parti. Tale approccio mira a valorizzare la discussione tra allievi come risorsa
per l’apprendimento e dove l’insegnante svolge un ruolo di gestione e regolazione dell’interazione.
Gli indicatori che testimoniano lo sviluppo argomentativo di una discussione sono: apportare
elementi nuovi, mettere in relazione, delimitare, opporsi con ragioni, comporre relazioni a livello
superiore, generalizzare, problematizzare, ristrutturare. Gli indicatori invece che testimoniano il
contrario sono: ripetere, confermare e riferirsi ad un’esperienza personale.
Ascolto attivo e co-costruzione sono due approcci importanti per una gestione della relazione
comunicativa orientata all’apprendimento: una relazione comunicativa pensata come un
percorso di esplorazione aperto e condiviso, nel quale l’insegnante è consapevole della meta (i
traguardi formativi) ma è disponibile ad elaborare l’itinerario insieme ai propri allievi.

1.10 DIMENSIONE ORGANIZZATIVA

È importante dare valore alle variabili contestuali entro cui avviene l’azione didattica perché la
influenzano sul piano dei valori culturali, delle condizioni strutturali, delle regole organizzative,
dei significativi istituzionali entro cui essa avviene. L’espressione setting formativo (o contesto)

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condensa l’insieme di questi aspetti e la sua rappresentazione come un cerchio che racchiude il
triangolo didattico ben simboleggia il ruolo che esso esercita sull’azione didattica.
È possibile riconoscere tre livelli di condizionamento, visualizzabili come cerchi concentrici
attorno al nostro triangolo:
- Macrocontesto, l’ambiente socio-culturale e istituzionale entro cui si colloca la scuola;
- Mesocontesto, riconducibile all’istituto scolastico;
- Microcontesto, identificabile con l’aula e, nello specifico, il setting formativo entro cui
avviene l’evento didattico.
In particolare, il setting formativo consiste nell’insieme di variabili che definiscono il contesto
entro cui si svolge la relazione formativa. Tali fattori sono:
- lo spazio, contenitore fisico entro cui si realizza l’insegnamento (organizzazione della
classe, disposizione dei banchi e posizione della cattedra);
- il tempo, struttura temporale entro cui viene agita l’azione d’insegnamento (orario
giornaliero e settimanale, distribuzione e alternanza delle diverse attività);
- le regole, insieme di norme implicite ed esplicite che regolamentano la vita della classe e
lo svolgimento della lezione didattica (definite nell’aula o dall’organizzazione scolastica);
- gli attori, insieme dei soggetti coinvolti nella relazione didattica (docente, allievo,
compagni di classe, corpo insegnanti, dirigente scolastico, genitori, ecc.);
- i canali comunicativi, ovvero medium attraverso cui avviene la relazione didattica.
Possiamo riconoscere le forme d’interazione diretta oppure altri canali d’integrazione
comunicativi (lavagna tradizionale, LIM, cartelloni, video-proiettore, ecc.).
Da questo semplice elenco si può cogliere la complessità e l’importanza del setting formativo
entro cui avviene l’azione didattica. Emerge in questo modo, accanto alle scelte metodologiche e
relazionali, il ruolo dell’organizzazione didattica come gestione intenzionale del setting formativo
da parte dell’insegnante: la modalità di gestione dei fattori elencati incide fortemente sui
significati dell’esperienza formativa e sulle valenze emotive ed affettive che tale esperienza
assume per i diversi attori. Il setting formativo veicola un determinato modello pedagogico che,
anche se non espresso a parole, incide in modo profondo sul processo formativo e sui suoi
significati. Non a caso nel linguaggio didattica si è sempre più diffuso il concetto di curricolo
implicito per identificare quella dimensione dell’offerta formativa che non viene generalmente
resa esplicita dall’insegnante ma che riguarda la gestione relazionale e organizzativa dell’evento
didattico, altrettanto incidente nel determinare la qualità dell’insegnamento e la sua efficacia.
Da qui l’idea di una gestione della dimensione organizzativa più intenzionale ed esplicita da parte
del docente, a partire dalla consapevolezza degli elementi che la compongono e delle modalità
d’intervento a sua disposizione. Il setting formativo svolge una funzione cruciale e richiede
un’attenta regia da parte dell’adulto, senza sottovalutarne l’incidenza: spazio, tempo, regole, ruoli
degli attori, canali comunicativi devono essere assunti come variabili indipendenti, manipolati e
gestiti in funzione del proprio progetto formativo.

1.11 PROGETTAZIONE

Dopo aver esplorato l’aula e le sue diverse dimensioni (metodologica, relazionale e organizzativa),
parliamo del momento della progettazione, strettamente connesso all’azione didattica.
Potremmo dire che ci spostiamo da ciò che avviene durante la lezione a ciò che avviene prima e
dopo, dalla riflessione nell’azione alla riflessione sull’azione.
Quando si parla di progettazione didattica spesso c’è un’ambiguità di fondo tra:

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- visione amministrativa o burocratica (legale), caratterizzata da un dover adempiere un
dovere contrattuale (predisposizione piano annuale, documenti progettuali);
- visione professionale (reale), volta a predisporre uno strumento utile ad orientare la
propria azione didattica.
Dietro ai vari modelli di progettazione si possono riconoscere due logiche progettuali:
- logica della razionalità tecnica. Essa presuppone un rapporto lineare tra i momenti del
progettare, dell’agire e del valutare, pensati come fossero in successione. La progettazione
in questo caso viene intesa come un momento ex-ante l’azione didattica tale da avere il
pieno padroneggiamento dell’azione didattica e di tute le variabili in gioco (processo
analitico, ovvero scomposizione del processo nelle sue componenti elementari, in fasi
preordinate e controllabili);
- logica della complessità. Essa postula un rapporto di circolarità tra i momenti del
progettare, agire e valutare, non pensati in sequenza cronologica e logica, bensì in
continuo dialogo e interazione reciproca. Il ruolo assegnato alla progettazione, più che
quello di stabilire i singoli passi del processo, diviene di orientamento strategico, di
delineazione di una direzione di marcia verso cui orientare l’azione, attraverso la
“conversazione riflessiva” a cui fai riferimento Schon.
Quest’ultima muove dalla consapevolezza che non è possibile tenere sotto controllo tutte le
variabili implicate nel processo formativo: è il progetto che si adegua al processo, o meglio alle
caratteristiche contestuali entro cui si sviluppa l’azione didattica.

È possibile identificare alcuni ingredienti chiave di un progetto didattico, concettualizzati nella


mappa di Kerr:
- traguardi formativi (perché insegnare?), obiettivi a cui è finalizzato il progetto didattico,
ovvero i risultati attesi verso cui tendere. Si possono usare i termini più svariati (mete,
obiettivi, finalità, ecc.) ma si tratta comunque di mettere a fuoco la direzione strategica
della propria azione progettuale;
- contenuti culturali che saranno affrontati nel percorso didattico (che cosa insegnare?).
Traguardi e contenuti a volte si integrano e si incrociano tra di loro;
- processi formativi (come insegnare?) attraverso cui sviluppare i traguardi e i contenuti
culturali intesi sia in senso statico (ambiente di apprendimento) che dinamico (sviluppo
del processo didattico nella sua scansione temporale ed operativa). Ci si chiede attraverso
quali soluzioni didattiche perseguire i traguardi proposti e come “mediare” i contenuti;

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- valutazione, che si riferisce ai risultati attesi posti alla base del percorso didattico (come
valutare il processo formativo?). Si tratta di un processo formativo essenziale in quanto
definisce modalità, criteri, strumenti con cui verificare il raggiungimento dei traguardi
formativi e l’efficacia complessiva della propria azione d’insegnamento.
Considerando un progetto didattico nel suo insieme dobbiamo saper rispondere a tutte e quattro
le domande indicate.
Ora che ne abbiamo definito le caratteristiche, possiamo descrivere alcune tra le principali
tipologie di modelli progettuali:
1. Progettazione per obiettivi (“perché insegnare?”). Diffusasi in Italia a partire dagli
anni ’70, si tratta dell’espressione più fedele della logica di razionalità tecnica: contenuti,
metodologie, strategie e modalità di valutazione vengono definite in funzione degli
obiettivi/traguardi formativi. Quest’ultimi vengono definiti tramite un criterio di
declinazione progressiva, andando dagli obiettivi più ampiamente educativi a quelli più
generali e specifici di una disciplina, fino alla definizione degli obiettivi osservabili,
misurabili e valutabili. La stessa valutazione viene vista, essenzialmente, come un
accertamento (feedback) del grado di raggiungimento degli obiettivi.

2. Progettazione per temi. Si tratta di un modello progettuale molto diffuso e consueto tra
gli insegnanti, dove il momento progettuale si riduce alla selezione dei contenuti da
affrontare nel lavoro d’aula. Di fatto questo metodo si concretizza nell’indice del libro di
testo e nella scelta di quali aspetti trattare; gli altri elementi progettuali (traguardi,
metodologie, strategie, valutazione) rimangono impliciti e affidati agli schemi abitudinari.
Sostanzialmente i “contenuti di sapere” sono l’unico regolatore della progettazione del
lavoro del docente.

3. Progettazione per concetti (Bruner-Damiano, “che cosa insegnare?”). Si tratta di un


modello progettuale più attento ai modi in cui il soggetto apprende e ai caratteri distintivi
dei diversi saperi. Il punto centrale della progettazione diventa la “mediazione didattica”
tra soggetto che apprende e contenuto culturale. Un modello di progettazione di questo
tipo emerge in presenza di una visione strutturalista delle discipline d’insegnamento, in
base alla quale poter identificare la struttura concettuale fondamentale, i concetti chiavi
appunto, e la struttura sintattica riferita alle metodologie di analisi proprie della disciplina.
Sul piano più strettamente didattico, possiamo definire tre operazioni distinte e connesse:

- Identificazione da parte del docente dei concetti chiave, attraverso una mappa
concettuale “esperta”;
- Rilevazione della matrice cognitiva pregressa degli allievi attraverso una
“conversazione clinica”;
- Determinazione della mappa “ingenua” da assumere come punto di partenza per il
processo didattico.
Sulla base del confronto tra le due mappe il compito del docente consisterà nello
strutturare il percorso didattico attraverso cui far evolvere le mappe “ingenue” degli allievi
in direzione della mappa “esperta” del docente. La valutazione farà riferimento a
quest’ultima tipologia di mappa, per tentare di cogliere gli elementi di cambiamento
concettuali e i progressi rilevabili negli studenti in rapporto alle conoscenze pregresse.

4. Progettazione per sfondo integratore (“come insegnare?”). Diffusa prevalentemente


nella scuola dell’infanzia, consiste nell’identificare una cornice/sfondo progettuale (es.

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ambiente, personaggio fantastico, storia, problema da affrontare, progetto da realizzare)
che faccia da contenitore ad un determinato percorso didattico orientato allo sviluppo di
specifici traguardi formativi. Si tratta di un modello progettuale dall’impianto leggero e
dall’orientamento strategico, in funzione delle risposte degli allievi e dalle opportunità
offerte dal contesto d’azione.

5. Progettazione a ritroso (“come valutare?”). Si caratterizza per un’inversione logica del


momento progettuale e quello valutativo dove l’approccio progettuale muove appunto da
alcune scelte valutative per svilupparne poi le implicazioni sugli altri elementi della
progettazione didattica (obiettivi/traguardi, metodologie, strategie). Un presupposto da
cui muove questo modello è la concettualizzazione dell’apprendimento in chiave di
competenze, più che di conoscenze ed abilità, e di conseguenza prevede uno sguardo più
globale ai traguardi di apprendimento e un’attenzione all’impiego degli apprendimenti
sviluppati in contesti di realtà. Si tratta di:

- Scegliere le competenze focali su cui centrare l’attenzione del percorso;


- Ricostruire il percorso che deve fare il soggetto allo scopo di individuare le risorse
chiave che devono essere mobilitate per sviluppare la prestazione richiesta.
L’espressione “a ritroso” richiama proprio questo tipo di procedura progettuale: si parte
da alcune domande tipicamente valutative, che sollecitano ed analizzano la competenza
che si intende promuovere, per poi andare a strutturare il progetto formativo, definendo
la situazione problematica attorno a cui sviluppare il percorso, i contenuti di sapere
impliciti, le diverse attività e le relative metodologie di lavoro, le modalità di valutazione.

Nella seguente tabella sono riassunti i focus di ciascuno dei modelli progettuali trattati in rapporto
agli elementi chiave di un progetto didattico identificati precedentemente nella mappa di Kerr.

1.12 VALUTAZIONE

Anche il momento della valutazione è oggi sempre più pensato come strettamente connesso
all’azione didattica, più che come un momento conclusivo e terminale del percorso didattico:
progettazione, azione e valutazione sono in rapporto circolare tra loro e inseparabili.
La valutazione è generalmente un’operazione cognitiva che ciascuno di noi si trova ad esercitare
quotidianamente nella sua esperienza di rapporto col mondo. Barber (1977) definisce il momento
della valutazione come “un duplice processo di rappresentazione, il cui punto di partenza consiste
in una rappresentazione fattuale di un fenomeno/oggetto e il punto di arrivo in una
rappresentazione codificata di questo fenomeno/oggetto.” È giusto sottolineare come la
valutazione sia un processo inevitabilmente soggettivo, dovuto all’identità del soggetto che
valuta e alla realtà che viene valutata.

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I dati di riferimento costituiscono la rappresentazione fattuale dell’oggetto che colui che valuta
si è fatto, attraverso gli strumenti di indagine e le modalità di osservazione impiegate per rilevare
la realtà empirica. La soggettività in questo caso viene messa in gioco attraverso gli occhi di chi
osserva la realtà, le sue esperienze pregresse, categorie di lettura, ecc.
Il giudizio di valore costituisce la rappresentazione codificata dell’oggetto, ottenuta attraverso
l’intreccio tra i dati di riferimento e i referenti concettuali con cui interpretarli. In altre parole si
tratta della lettura della rappresentazione fattuale dell’oggetto alla luce dei criteri di qualità
esplorati o esplicitamente assunti dal valutatore.
I criteri di giudizio non costituiscono altro che quel quadro valoriale assunto dal valutatore in
ordine all’oggetto d’indagine, l’idea di qualità in base a cui esprimere un giudizio di valore.
Ma quali sono le funzioni assegnate al momento valutativo? Possiamo distinguere tra:
- Valutazione predittiva, con lo scopo di prevedere le caratteristiche del percorso formativo
più adatto alle caratteristiche di un soggetto (es. test di orientamento);
- Valutazione diagnostica, si colloca nella fase iniziale del processo formativo e assolve lo
scopo di analizzare le caratteristiche d’ingresso di un allievo in relazione al percorso da
compiere;
- Valutazione formativa accompagna le diverse fasi del processo formativo e assolve lo
scopo di fornire un feedback all’allievo e all’insegnante sull’evoluzione del processo
formativo;
- Valutazione sommativa, si colloca nella fase conclusiva di un percorso formativo (unità di
lavoro, modulo didattico, anno scolastico) con lo scopo di tirare le somme sui risultati
conseguiti dall’allievo;
- Valutazione certificativa, segue il percorso formativo e ha lo scopo di attestare socialmente
il conseguimento di determinati risultati da parte del soggetto (es. diploma, laurea, ecc.).

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Al di là di queste distinzioni, si possono riconoscere due logiche di fondo con cui considerare la
valutazione in ambito scolastico:
- logica di controllo (valutazione dell’apprendimento), finalizzata ad accertare ed attestare
determinati risultati formativi;
- logica di sviluppo (valutazione per l’apprendimento), finalizzata a potenziare il processo
formativo stesso e i suoi risultati.
Quest’ultima è utile a coinvolgere il soggetto nel momento valutativo e ad accrescere la sua
consapevolezza del processo di apprendimento.

Per quanto riguarda le fasi di cui è composto il processo valutativo, partendo dalla definizione
di Barber e circoscrivendola in modo più preciso, è possibile individuarne sei. Esse possono
assumere caratteristiche differenti a seconda che ci si collochi in una prospettiva di valutazione
dell’apprendimento, secondo le logiche di controllo, o di valutazione per l’apprendimento, che
seguono logiche di sviluppo. Le fasi del processo di valutazione sono qui di seguito elencate:
1. Individuazione dell’oggetto. Questa fase mette in gioco il significato che attribuiamo
all’esperienza di apprendimento: che cosa significa valutare per me docente l’apprendimento
dei miei allievi? Ci sono diverse polarità (antinomie inconciliabili) che si presentano
all’insegnante nel rispondere a questa domanda:
- quella tra prodotto e processo dell’apprendimento, ovvero tra i risultati di apprendimento
a cui giunge l’allievo e le modalità attraverso cui consegue tali risultati;
- quella tra dimensione cognitiva, ossia conoscenze e abilità sviluppate dall’allievo, e
dimensione extra-cognitiva, che mette in gioco gli aspetti emotivi, sociali e metacognitivi
implicati nell’esperienza di apprendimento;
- quella tra apprendimenti specificatamente disciplinari e gli apprendimenti più
ampiamente trasversali.
Il significato che possiamo perciò attribuire al termine apprendimento non è univoco e ciò si
riflette anche sul processo valutativo. L’assunzione del concetto di competenza come parola
chiave con cui considerare l’apprendimento consente di affrontare i dilemmi evidenziati in
una prospettiva comprensiva e di integrazione delle diverse polarità.
2. Rilevazione dei dati. Si tratta della fase rilevativa (momento descrittivo), che consiste nella
raccolta dei dati di riferimento utili alla valutazione (rilevazione, misurazione, descrizione,
osservazione, ecc.). Essa avviene attraverso l’interazione quotidiana che il docente ha con i

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propri allievi, che gli permette di farsi un’idea delle caratteristiche di ciascuno, in termini di
risorse, limiti e potenzialità, e attraverso momenti più formalizzati, deputati ad accertare gli
apprendimenti conseguiti, le cosiddette prove di verifica.
La prova di verifica altro non è che la somministrazione di un determinato stimolo all’allievo
(domanda, consegna, problema, ecc.) orientato a sollecitare una prestazione (competenza) in
grado di manifestare gli apprendimenti acquisti (conoscenze e abilità) e che interessa al
docente accertare. Le prove di verifica possono essere distinte in base alle caratteristiche
dello stimolo proposto e del tipo di risposta ottenuta in: prove non strutturate (elevati gradi
di libertà, domanda aperta), prove strutturate (bassi gradi di libertà, domanda a risposta
chiusa o breve), prove semi-strutturate (situazione intermedia tra le due precedenti). I due
parametri attraverso i quali si apprezza la qualità di uno strumento di verifica degli
apprendimenti sono:
- Validità, ovvero corrispondenza tra la prestazione rilevata e l’apprendimento che si
intende accertare (associata alle caratteristiche dello stimolo);
- Attendibilità, intesa come la costanza nella lettura della prestazione fornita dal soggetto,
indipendentemente da chi valuta e il momento in cui valuta (associata alle modalità di
lettura della prestazione da parte dell’insegnante).

3. Definizione dei criteri. Questa fase richiama la stretta relazione che esiste tra il momento
progettuale e quello valutativo, in quanto i criteri di giudizio in campo della valutazione
richiamano ai traguardi formativi che sono stati individuati in fase progettuale. Accanto ai
criteri di giudizio espliciti (documenti e griglie di valutazione) è importante richiamare
l’incidenza di quelli impliciti utilizzati dall’insegnante nel valutare i suoi allievi.
È importante tenere conto che questa fase del momento valutativo non riguardi solamente
all’identificazione dei criteri di giudizio ma anche alle modalità di attribuzione del giudizio
all’allievo, fatta spesso mettendo a confronto la rappresentazione che ci siamo fatti di un
determinato allievo con i nostri criteri di giudizio, la nostra idea di qualità. Ci sono tre modi
differenti attraverso cui è possibile formulare un giudizio scolastico:
- Facendo riferimento ad uno standard assoluto (prestazione ottimale vs prestazione
dell’allievo; scarto esistente tra allievo ideale e allievo reale);
- Facendo riferimento alle prestazioni ottenute dalla classe, posizionando ogni singolo
studente in rapporto alle prestazioni dei compagni (media);
- Facendo riferimento ai progressi fatti dall’allievo in rapporto ad un livello ritenuto iniziale.
Requisito essenziale della valutazione scolastica resta di fatto la trasparenza, trattandosi di
una valutazione di tipo pubblico con una rilevanza sociale: il giudizio dell’insegnante deve
essere fatto tramite scelte esplicite e in base a formulati ed evidenze empiriche fondate.

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4. Espressione del giudizio. Questo momento pone essenzialmente una problematica di codici
attraverso cui esprimere l’esito della valutazione. La variabile può essere di tipo:
- nominale, ad indicare una situazione dicotomica di presenza/assenza di una certa
condizione (es. promosso/bocciato, superato/non superato, ecc.);
- ordinale, che indica un certo numero di livelli su cui stilare una graduatoria (es. scala di
numeri, lettere, aggettivi, ecc.);
- metrico, che quantificano una prestazione in base ad un’unità misura bene definita (es.
numero di prove superate, ecc.).

5. Regolazione dell’insegnamento. Questa fase evidenzia la circolarità tra momento


valutativo, azione didattica e momento progettuale; sostanzialmente il giudizio sul singolo e
sull’insieme di allievi rappresenta il feedback per l’insegnante per ripercorrere il processo
didattico realizzato e riconoscerne o meno l’efficacia, in rapporto ai traguardi formativi
prefissati. Il giudizio può divenire inoltre la base su cui stabilire il percorso di sviluppo
dell’allievo, in termini di successi ma anche di lacune, potenziamento e miglioramento
dell’apprendimento. Cruciale in questo caso è la distinzione tra valutazione formativa, per
l’apprendimento, e valutazione sommativa, dell’apprendimento.

6. Comunicazione del giudizio. Questa fase richiama la necessità di collocare il momento della
valutazione in una logica formativa: il giudizio scolastico non è una sentenza che si esaurisce
nell’espressione del giudizio. Ciò evidenzia la necessità di tenere conto dei destinatari (allievi,
genitori, docenti, ecc.) e delle diverse funzioni attribuite alla valutazione nello stabilire le
modalità di comunicazione e di fornire le chiavi di lettura necessarie per utilizzare il giudizio
come risorsa per il proprio percorso formativo. Un altro aspetto da pensare è la
responsabilizzazione dei soggetti coinvolti che non possono essere pensati come destinatari
passivi ma considerati protagonisti del proprio percorso di crescita e quindi interlocutori con
cui condividere il giudizio al fine di migliorarsi.

Riguardo i ruoli dei soggetti implicati nel processo di valutazione, vi sono diversi piani di lettura
in ambito scolastico. Possiamo avere innanzitutto la valutazione individuale affidata ad ogni
singolo docente e la valutazione collegiale affidata al consiglio di classe, quest’ultimo con lo scopo
di privilegiare un punto di vista inter-soggettivo in merito ad alcune decisioni cruciali nel percorso
scolastico dell’allievo come la promozione o la bocciatura. Un altro ruolo importante è svolto dalle
famiglie, fonte d’informazione sulla crescita complessivo dell’allievo e osservatori privilegiai in
grado di fornirci una visione dell’allievo negli ambienti extra-scolastici. Infine abbiamo l’allievo

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Per risolvere questo problema si possono mettere a confronto tra loro due tipologie di approcci:
- quella di un allievo “diligente”, che possiede le conoscenze e le abilità necessarie alla
risoluzione del problema ma che può faticare ad applicarle trovandosi di fronte ad una
situazione inedita o diversa da una abituale;
- quella di un allievo “competente”, che ricorre al suo bagaglio di saperi per affrontare e
risolvere una situazione nuova, escogitando percorsi ingegnosi ed originali.
Attualmente la cultura scolastica manifesta diverse difficoltà nell’approcciarsi al tema delle
competenze, in quanto tende ad attribuire molto valore alla prima tipologia di allievo e molta
meno attenzione alla seconda.
È possibile riconoscere tre livelli di analisi di una competenza:
- risorse cognitive, ovvero le conoscenze e le abilità necessarie per affrontare un
determinato compito (sapere);
- processi cognitivi ed operativi che il soggetto è sollecitato a mobilitare per affrontare il
compito proposto (saper fare);
- disposizioni ad agire che condizionano e determinano il comportamento del soggetto nel
gestire la situazione in cui si trova ad agire (saper essere).
Pellerey (2004) riassume il concetto di competenza definendola come la “capacità di far fronte
ad un compito, o un insieme di compiti (manifestazione del comportamento competente
evidenziando la dimensione operativa sottesa al concetto di competenza), riuscendo a mettere in
moto ed a orchestrare le proprie risorse interne, cognitive, affettive e volitive (segnala la natura
“olistica” della competenza, ovvero, motivazionale, socio-emotiva, metacognitiva, ecc.), e a
utilizzare quelle esterne disponibili in modo coerente e fecondo (intendendo come risorse esterne
sia gli altri soggetti implicati, sia gli strumenti e i mezzi a disposizione, sia le potenzialità presenti
nell’ambiente fisico e culturale)”.
Nel progetto DoSeCo promosso dall’OCSE, orientato all’individuazione delle competenze chiave
per l’inserimento nella vita adulta, la competenza è definita come la “capacità di rispondere a
esigenze individuali e sociali, o di svolgere efficacemente un’attività o un compito”. Il progetto
richiama i tre piani di sviluppo della competenza (sapere, saper fare, saper essere) e 4 parole
chiave: realizzazione, integrazione, contesto e responsabilità.

Nella Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio sul Quadro europeo delle
qualifiche e dei titoli di apprendimento permanente, vengono proposti i seguenti termini per
designare i risultati di apprendimento in ambito formativo:

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- le conoscenze sono il risultato dell’assimilazione di informazione attraverso
l

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- Situato, a porre attenzione non solo alla cornice socio-culturale entro cui avviene il
processo individuale di costruzione della conoscenza, ma anche il contesto d’azione entro
cui essa si genera.
Da qui la definizione dei caratteri che qualificano il processo di apprendimento:
- Attivo, ruolo consapevole e responsabile del soggetto;
- Costruttivo, processo di equilibrazione tra conoscenze pregresse e nuove;
- Collaborativo, dinamica di interazione sociale entro cui avviene l’apprendimento;
- Intenzionale, ruolo dei processi motivazionali e volitivi nell’apprendimento;
- Conversazionale, ruolo del linguaggio, del confronto e della negoziazione tra gli attori;
- Contestualizzato, riferito a compiti di realtà;
- Riflessivo, circolo tra conoscenza – esperienza – riflessione.
La sfida più grande che oggi si trovano ad affrontare i docenti è promuovere nello studente la
capacità di affrontare i problemi che la sua esperienza di vita gli può presentare, mobilitando le
proprie risorse interne e agendo funzionalmente in un contesto complesso. Ciò significa riuscire
a connettere le esperienze di apprendimento scolastico alle situazioni di vita, ovvero lavorare sui
legami piuttosto che sulle fratture tra scuola e vita. Questa “rivoluzione copernicana” operata
dalle competenze nel pensare l’apprendimento non può non riflettersi sulle pratiche didattiche e
valutative. Pensando ad una didattica per competenze, la scuola si trova ad affrontare alcune
questione cruciali:
- Il rapporto tra saperi e contesti di realtà. La competenza infatti implica la capacità di
mettere in relazione i propri saperi con i contesti di realtà entro cui operare.
- La centralità dei processi nell’apprendimento. La visione dinamica delle competenze
riporta al centro dell’attenzione i processi di apprendimento, ovvero le modalità
attraverso le quali il soggetto utilizza al meglio il proprio sapere per affrontare un compito
di realtà. Apprendere non significa solo riprodurre un insieme di saperi bensì saperli
rielaborare in funzione di una situazione problematica da affrontare: è qui che sta lo
scarto tra “diligenza” e “competenza”, da un sapere inerte, erudito, morto, a un sapere
autentico, competente, vivo.
- La “progettazione a ritroso”, ovvero, il ribaltamento della logica progettuale tradizionale,
anteponendo alcune questioni tipicamente valutative alla strutturazione del percorso
progettuale, allo scopo di poterlo traguardare ad un’idea di competenza definita ed
articolata.
- L’allargamento dello sguardo valutativo, verso una valutazione orientata verso la
competenza del soggetto, tesa ad apprezzare il livello di padronanza raggiunto in rapporto
allo specifico dominio di competenza che il progetto intendeva sviluppare.
Quella della competenza consiste quindi in una nuova modalità con cui avvicinarsi
all’insegnamento e con cui approcciarsi, per lo studente, all’apprendimento.

2.2 LAVORARE PER COMPETENZE: QUALE INSEGNAMENTO

Esistono delle evidenti differenze strutturali tra l’apprendimento scolastico, fondato su un


ordine logico, e l’apprendimento in situazioni di realtà, fondato su un ordine pratico. Le differenze
tra queste due tipologie di approcci sono riassunte da L. Resnick (1995) su un saggio sulle
discontinuità tra l’apprendimento dentro e fuori dalla scuola:
1. La scuola richiede prestazioni individuali mentre il lavoro mentale all’esterno è spesso
condiviso socialmente. La valutazione scolastica viene fatta solitamente separando ogni
allievo dal resto del mondo, una situazione artificiosa se confrontata con qualsiasi

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esperienza reale, in cui ci viene naturale condividere con altre persone la gestione di un
compito di realtà;
2. La scuola richiede un pensiero privo di supporti, mentre fuori ci si avvale di strumenti
cognitivi o artefatti (normalmente affrontiamo un compito con l’ausilio delle risorse che
l’ambiente ci mette a disposizione);
3. La scuola coltiva il pensiero simbolico, nel senso che lavora su simboli, mentre fuori della
scuola la mente è sempre direttamente alle prese con oggetti e situazioni. Il sapere
scolastico tende a essere astratto, decontestualizzato; il sapere reale, invece, concreto,
situato;
4. A scuola si insegnano capacità e conoscenze generali, mentre nelle attività esterne
dominano competenze specifiche, legate alla situazione.
Oggi la sfida per il sistema scolastico consiste nel ricerca questo link tra scuola e realtà,
mantenendo una relazione costante con l’esperienza reale, con il vissuto degli allievi, in modo da
essere in grado di restituire un senso all’apprendimento e di ricollegarlo all’esperienza di vita.
Comoglio (2004) descrive in questo senso due visioni dell’insegnamento:
- L’insegnamento-muro, in cui prevale una logica di separazione tra scuola e realtà, che
rimangono due entità distinte e prive di relazioni.
- L’insegnamento-ponte, in cui domina una logica di integrazione, attraverso una relazione
dialettica che si manifesta con connessioni continue tra scuola e realtà.

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L’insegnamento-muro è caratterizzato da ordine di esposizione, sistematicità, pianificazione
rigida, affinità con il sapere teorico; si assumono le discontinuità indicate da Resnick come dati
incontrovertibili su cui costruire l’identità formativa della scuola. L’insegnamento-muro si fonda
su una sequenza lineare gerarchica (insegnante – conoscenza – studente – apprendimento) ed è
caratterizzato principalmente da:
- Studente come ricettore passivo;
- Conoscenza inerte, incapace di connettersi alla realtà;
- Conoscenza frazionata in componenti elementari;
- Gruppo visto come fattore di sfondo o di disturbo del processo di apprendimento.
L’insegnamento-ponte presenta ordine di scoperta, intuizione, gestione flessibile, affinità con il
sapere pratico. Essa si fonda su una sequenza circolare (studente – conoscenza – insegnante) ed
è caratterizzata dai seguenti attributi:
- Studente sollecitato ad elaborare una prestazione complessa, riferita ad un problema
concreto;
- Conoscenza muove su contesti reali e ritorna su di essi;
- L’insegnamento assume la conoscenza come evento complesso, globale, situato;
- Gruppo diventa una risorsa per la risoluzione del problema, un amplificatore e un
collettore delle risorse e potenzialità individuali.
Quest’ultimo scioglie quindi le discontinuità di Resnick, creando dei costanti collegamenti tra
mondo reale e conoscenza scolastica offrendo agli studenti l’opportunità di ritrarsi dalla realtà
per poterla osservare e comprenderla in modo più approfondito.
Ma quali sono le implicazioni di un approccio per competenze in relazione alle logiche della
progettazione dell’insegnamento?
In questi anni la letteratura ha fornito agli insegnanti una molteplicità di modelli progettuali
abbastanza disorientante. M. Balducci (2004) ha proposto due parametri in base ai quali
riconoscere i tratti salienti dei diversi modelli di progettazione:
- La struttura di analisi progettale, distinta a sua volta in:
- molecolare (di tipo analitico);
- molare (di tipo globale);
- La strategia progettuale sottesa, distinguendo tra
- deduttiva (top-down), fondata su una gerarchia fini-mezzi per la quale
l’individuazione degli scopi determina le modalità operative attraverso cui
perseguirli;
- induttiva (bottom-up), che si orienta verso un rovesciamento della gerarchia fini-
mezzi per la quale sono le caratteristiche e i significati dell’esperienza a
determinare gli scopi formativi.
In base a questi due parametri è possibile riconoscere tre tipologie progettuali:

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1. L’unità didattica, struttura molecolare che mira a riconoscere le unità elementari del
percorso didattico;
2. Il modulo didattico, che mira a rappresentare il percorso didattico nella sua complessità;
si tratta di un’unità progettuale finalizzata al raggiungimento di traguardi formativi più
ampi e globali (generalmente articolato in unità didattiche);
3. Il progetto didattico, caratterizzato da una strategia induttiva, basata sul significato
dell’esperienza, ed una struttura molare, che mira a rappresentare il percorso didattico
nella sua complessità.

2.3 COSTRUIRE PROGETTI DIDATTICI

Il progetto didattico tende a riassumere in sé alcune delle prerogative proprie di un approccio


per competenze: da un lato si fonda su una strategia induttiva, per la quale il percorso didattico
muove da un’esperienza reale e tende ad utilizzare i saperi disciplinari come strumenti di
comprensione del mondo reale; dall’altro assume una struttura molare, evitando di ridurre la
realtà alle sue componenti elementari e assumendola nella sua complessità, in chiave
pluridisciplinare. Questa visione è quindi coerente con quella di insegnamento-ponte e con un
approccio orientato allo sviluppo di competenze.

Vi sono alcuni passaggi chiave che qualificano la costruzione di un progetto didattico in modo
che l’azione didattica possa essere orientata a costruire ambienti di apprendimento funzionali a
promuovere competenze negli allievi:
1. Assumere una prospettiva di progettazione a ritroso, caratterizzata da un’inversione
logica del momento progettuale e quello valutativo. Ciò implica l’esigenza di scegliere un
traguardo di competenza focale, su cui centrare l’attenzione e guidare l’intero percorso
(messa a fuoco della competenza). Una volta selezionata, si tratta di analizzare la
competenza attraverso l’identificazione delle dimensioni prevalenti che concorrono alla
sua manifestazione. Si tratta quindi di ricostruire il processo soggiacente alla prestazione
del soggetto allo scopo di individuare le risorse cognitive e i processi chiave che devono
essere mobilitai per sviluppare la prestazione richiesta. Ciò si concretizza:
- nell’elaborazione di una mappa concettuale rappresentante le dimensioni
implicate nel processo;
- nell’elaborazione di una rubrica valutativa che consenta di descrivere diversi
livelli di padronanza in rapporto alle dimensioni previste dalla mappa;
- nell’ipotizzare una prova di competenze a conclusione del percorso, ovvero la
sollecitazione di una prestazione con la quale si intende apprezzare la competenza.

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2. Individuare una situazione-problema intorno a cui strutturare il progetto, ovvero un
contesto d’azione proposto in chiave problematica. Essa è pensata come attività
funzionale a mettere in risalto il rapporto tra essa e lo sviluppo di competenze, dove
vengono mobilitate le risorse di cui il soggetto dispone, sia interne sia esterne, attraverso
una dialettica tra intenzione di perseguire, riflessione sul proprio agire e percezione del
contesto reale. Si tratta quindi dell’orizzonte di senso condiviso tra insegnante e allievi.
Potremmo dire che la messa a fuoco della competenza e la situazione-problema rappresentano i
due elementi distintivi del progetto didattico: la competenza si esercita all’interno di una
situazione-problema; la situazione-problema richiede l’esercizio di una competenza.
Un elemento importante che occorre approfondire è la logica didattica attorno a cui sviluppare
la scansione operativa del percorso, orientata a promuovere gli apprendimenti che si intendono
sviluppare negli allievi. La costruzione di un progetto didattico che muove da una situazione-
problema si configura come un processo di problem-solving, attraverso la messa a fuoco dei
passaggi che permettono agli allievi a cui è destinato il progetto di prepararsi, abilitarsi,
organizzarsi e realizzare le attività necessarie alla risoluzione del problema del problema posto e,
di riflesso, a sviluppare la competenza prescelta. Possiamo pertanto individuare i seguenti
passaggi:
- Fase di problematizzazione/condivisione, funzionale a sviluppare un senso condiviso
da parte di insegnate e allievi in rapporto allo sviluppo del progetto;
- Fase di allenamento, funzionale ad acquisire, potenziare, consolidare le risorse cognitive
e i processi necessari per l’esercizio della competenza;
- Fase di integrazione, funzionale a portare a frutto il percorso di allenamento
nell’affrontare il compito complesso connesso alla situazione-problema da cui si è partiti;
- Fase di rielaborazione, funzionale a rileggere il percorso svolto e riconoscere le
possibilità di quanto acquisto in altri contesti.
La fase allenamento è quella che richiede una maggiore articolazione. Il termine intende
richiamare l’allestimento di ambienti di apprendimento funzionali a sviluppare le risorse
cognitive e i processi - cognitivi, metacognitivi, motivazionali e relazionali – implicati nella
competenza che si intende sviluppare.
Di grande importanza è infine il momento della valutazione, centrato su un accertamento del
livello di competenza sviluppato dai singoli allievi a conclusione del percorso didattico.

32
2.4 LAVORARE PER COMPETENZE: QUALE VALUTAZIONE

La prospettiva della competenza sollecita una profonda rivisitazione della valutazione scolastica.
Comoglio (2004) riassume le principali critiche delle modalità valutative tradizionali:
- Tendono a condizionare pesantemente i modi e i contenuti dell’apprendimento, in quanto
il processo di insegnamento si adatta inevitabilmente alle prestazioni e le attività richieste
nella valutazione (“teach to test”);
- Si limitano ad accertare i processi cognitivi più semplici ed elementari, tralasciando abilità
più complesse (analisi, sintesi, riflessione critica, elaborazione di strategie, ecc.);
- Si basa su compiti astratti e decontestualizzati, incapaci di agganciarsi ai contesti reali;
- Impiega esclusivamente prove individuali, attribuendo scarso rilievo alle prove di gruppo;
- Classifica gli studenti in rapporto alla qualità delle loro prestazioni, selezionandoli
attraverso il successo scolastico;
- Presenta una separazione netta tra processo formativo e valutativo e tra valutatore e
valutato, rendendo lo studente passivo e deresponsabilizzato dal momento della
valutazione.
Occorre quindi ripensare il momento della valutazione in classe dove è necessario intraprendere
il passaggio da un mero accertamento del sapere dell’allievo alla comprensione dei modi in cui
l’allievo è in grado di utilizzare il proprio sapere nella sua esperienza di vita, di padroneggiare la
propria conoscenza in modo consapevole ed autonomo. Ciò mette inevitabilmente in gioco il

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rapporto tra processo formativo e valutativo, i quali divengono momenti intrecciati ed in continuo
dialogo tra loro.
Vi sono diverse parole chiave che connotano la nuova filosofia valutativa (significatività,
autenticità, processualità, responsabilità, promozionalità, ricorsività, dinamicità, globalità,
multidimensionalità) e tali parole chiave possono essere utilizzate per sintetizzare le sfide poste
ai significati e alle pratiche valutative in ambito scolastico, sfide che richiamano le suggestioni
evocate attraverso la metafora dell’iceberg, dove la parte emergente consiste nelle competenze
osservabili e misurabili – conoscenze e abilità – e la parte non visibile ai processi che vengono
messi in atto e le modalità di approccio all’apprendimento. Tali sfide sono:
- Puntare a compiti valutativi più autentici e agganciati al contesto di realtà;
- Promuovere una maggiore responsabilizzazione dello studente nel processo valutativo,
riconoscendogli un ruolo attivo;
- Integrare la valutazione del prodotto della formazione (la parte emersa dell’iceberg) con
quella processo formativo (la parte sommersa dell’iceberg), ciò che si apprende con le
modalità con cui si apprende;
- Oltrepassare i confini disciplinari della valutazione, prestando attenzione e valorizzando
le dimensioni trasversali dell’apprendimento, evidenziate attraverso la messa a fuoco
delle competenze chiave;
- Riconoscere e sviluppare la valenza metacognitiva sottesa al processo valutativo, in
quanto opportunità per il soggetto di prendere coscienza dei propri limiti e delle proprie
potenzialità.
Nel loro insieme tali sfide pongono al centro la necessità di passare da una valutazione delle sole
conoscenze e abilità a una valutazione delle competenze, ovvero la valutazione della capacità del
soggetto di impiegare produttivamente il proprio apprendimento per soddisfare i propri bisogni
e rispondere alle esigenze sociali.
Ma in che modo è possibile accertare la natura processuale, situata e complessa della competenza?
La sua natura polimorfa impedisce di assumere un’unica prospettiva di osservazione ma necessita
di più prospettive di analisi in modo da ottenere un’immagine comprensiva e integrata della
competenza del soggetto. Il principio metodologico sotteso è quello della triangolazione, dove
per la rilevazione della competenza di un soggetto si attivano e si confrontano tra loro più livelli
di osservazione che aiutano a cogliere le diverse sfumature del costrutto e a ricomporle in un
quadro d’insieme coerente ed integrato.
Pellerey (2004) identifica tre prospettive di osservazione della competenza, ognuna delle quali
presenta strumenti differenti di analisi:
1. La dimensione soggettiva (istanza autovalutativa), richiama i significati personali
attribuiti dal soggetto alla sua esperienza di apprendimento. In questo caso si ricorre a
forme di autovalutazione (diari di bordo, autobiografie, questionari di auto-percezione,
ecc.) attraverso cui il soggetto osserva e giudica la sua esperienza di apprendimento e la
sua capacità di rispondere ai compiti richiesti dal contesto di realtà in cui agisce. L’allievo
oltre a documentare la propria esperienza di apprendimento e i risultati raggiunti, ha
l’opportunità di rielaborare e accrescere la consapevolezza sul proprio percorso
apprenditivo. Domanda: “Come mi vedo personalmente in rapporto alla competenza che mi
viene richiesta”?
2. La dimensione intersoggettiva (istanza sociale), richiama il sistema di attese, implicito
o esplicito, che il contesto sociale esprime in rapporto alla capacità del soggetto di
rispondere adeguatamente al compito richiesto. Riguarda quindi alle varie persone
coinvolte nella situazione in cui si manifesta la competenza e l’insieme delle loro

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aspettative, delle valutazioni espresse. Gli strumenti utilizzati per questo tipo di
valutazione sono questionari, interviste, protocolli di osservazione rivolti agli altri attori
coinvolti (docenti, gruppo classe, genitori) nell’esperienza di apprendimento del soggetto.
Domanda: “Come viene visto l’esercizio della competenza del soggetto da parte degli attori
che interagiscono con lui”?
3. La dimensione oggettiva (istanza empirica), richiama le evidenze osservabili che
attestano la prestazione del soggetto e i suoi risultati in rapporto al compito affidato e alle
conoscenze e abilità che la manifestazione della competenza richiede. Per rilevarle ci si
può avvalere di strumenti di analisi delle prestazioni dell’individuo in rapporto allo
svolgimento di compiti operativi: prove di verifica, più o meno strutturate, compiti di
realtà richiesti dal soggetto, realizzazione di manufatti, ecc. Si tratta di dispositivi orientati
a documentare l’esperienza di apprendimento sia dal punto di vista processuale che
prestazionale. Domanda: “Quali evidenze osservabili dispongo per documentare la
competenza del soggetto in formazione”?

Al centro delle tre prospettive possiamo collocare l’idea di competenza su cui si fonda la
valutazione, l’insieme di significati condivisi in merito alla competenza che si vuole rilevare da
parte dei diversi soggetti coinvolti e delle molteplici prospettive di analisi. Si tratta di una
condizione irrinunciabile per assicurare coerenza alla prospettiva trifocale, in grado di
ricomporre uno sguardo d’insieme e di restituire le diverse competenze richiamate nell’immagine
dell’iceberg, sia quelle visibili e manifeste, sia quelle implicite e latenti. Il rigore della valutazione
consiste proprio nella considerazione e nel confronto incrociato tra le diverse prospettive, in
modo da ricomporre l’immagine dell’iceberg nella sua complessità. Lo strumento centrale di
questo tipo di approccio valutativo è la rubrica valutativa attraverso la quale:
- Viene esplicitato il significato attribuito alla competenza oggetto di osservazione;
- Vengono precisati i livelli di padronanza attesi in rapporto ad un soggetto o più soggetti.
La rubrica valutativa costituisce il punto di riferimento comune ai diversi materiali a cui si è fatto
cenno in rapporto alle tre dimensioni di analisi e assicura unitarietà e coerenza all’intero impianto
di valutazione.

35
3. LA DIDATTICA IN AZIONE: STUDI DI CASO

Vengono qui proposti alcuni tra i più significativi approcci e metodologie didattiche che sono in
sintonia con l’idea di una didattica per competenze.

3.1 APPROCCIO INDUTTIVO

La metodologia. Si centra sulle modalità di processamento da parte del soggetto, proponendo un


insieme di dati empirici come materiale di partenza e stimolando l’elaborazione di concetti
organizzatori (metodo induttivo: dall’esperienza concreta a forme di concettualizzazione). Si
tratta di conferire allo studente una metodologia esperienziale dove dall’esplorazione della realtà
può elaborare dei concetti utili per leggerla. Si tratta di un metodo che può essere proposto in vari
ambiti disciplinari con i contenuti più differenti.
Esempio sul libro. Attività sulle parole e sulla comprensione del loro significato in base alla loro
“morfologia”.
Fasi di lavoro. Questo metodo si basa su una sequenza di passaggi che richiamano il metodo
scientifico classico (di stampo galileiano):
1. Identificazione del problema da affrontare (stabilire focus, confini dell’indagine, traguardi
formativi) da parte del docente;
2. Raccolta, presentazione ed enumerazione dei dati di realtà da parte del docente;
3. Osservazione della realtà (esame dei dati e dei loro attributi) da parte degli alunni;
4. Elaborazione di ipotesi e formazione di concetti per la classificazione in categorie dei
risultati;
5. Generazione e verifica delle ipotesi tra studenti e insegnante;
6. Sintesi e consolidamento dei concetti elaborati e trasferimento in altri contesti di realtà.
Ruolo del docente. Si caratterizza come guida allo sviluppo del processo di elaborazione
concettuale attraverso: la preparazione del materiale, l’indicazione dei passaggi dell’analisi, la
conduzione del confronto sociale e lo stimolo a trarre conclusioni, fare collegamenti e trasferire i
concetti appresi ad altri contesti di realtà.
Elementi critici. Tempo necessario per sviluppare l’intera attività che può andare a scapito
dell’elaborazione dei contenuti.

3.2 APPRENDIMENTO COOPERATIVO

La metodologia. Si tratta di una metodologia dove i processi di apprendimento avvengono


all’interno del gruppo e attraverso l’interazione sociale. I principi base sono:
- Il valore motivazionale dell’integrazione sociale nel gruppo e del lavoro collaborativo;
- La maggior efficacia dell’apprendimento tra pari;
- L’incremento di complessità sociale e cognitiva favorito dalla interazione e da modalità di
costruzione sociale della conoscenza;
- Ricadute positive dell’esperienza di cooperazione sull’autostima, la responsabilità,
l’accettazione dell’altro e delle sue idee e la tolleranza verso la diversità;
Ad ogni alunno infatti durante l’attività viene assegnato un ruolo ben preciso e univoco, in modo
che egli sia considerato dal gruppo indispensabile alla costruzione della conoscenza e allo stesso
tempo si senta motivato, attivo e responsabile per la buona riuscita del compito comune.

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L’esperienza risponde all’esigenza di apprendere a cooperare, tramite un percorso strutturato e
progressivo (da coppie a gruppi, da compiti semplici a compiti più complessi, da tempi limitati a
periodi più lunghi, da ruoli rigidi e precisi a ruoli più flessibili, ecc.). Lo sviluppo di gruppi
cooperativi avviene nel momento in cui le persone sono tenute insieme da un compito comune
che porta allo sviluppo dei seguenti tratti distintivi: interdipendenza positiva tra i membri,
responsabilità condivisa sui risultati, capacità di operare “gomito a gomito”, opportunità di
autoverifica del proprio lavoro tramite il continuo e reciproco confronto.
Esempio sul libro. Attività di geografia a gruppi sulla conoscenza delle caratteristiche socio-
economiche di quattro regioni italiane del Meridione.
Fasi di lavoro. I passaggi chiave di tale metodologia sono:
1. Identificazione del focus di lavoro e strutturazione dei gruppi;
2. Organizzazione del compito dei gruppi (definire i ruoli, analizzare i materiali e le risorse
disponibili, organizzare il lavoro dei gruppi);
3. Studio autonomo e lavoro di gruppo;
4. Analisi del progresso e del processo (presentazione del lavoro dei gruppi e valutazione da
parte dell’insegnante dei risultati e del processo);
5. Verifica dell’attività svolta definendo eventuali azioni correttive e di miglioramento.
Ruolo del docente. L’insegnante si caratterizza per una posizione esterna e di supporto al
funzionamento del gruppo. Per una buona riuscita dell’esperienza lavorativa prende alcune
decisioni preliminari (numero, dimensione, composizione e compiti dei gruppi), definisce compiti
e regole di lavoro, monitora e supporta il lavoro dei gruppi, verifica e valuta il lavoro svolto.
Elementi critici. Tra i membri dei gruppi vi devono già essere dei prerequisiti di competenza
sociale e una predisposizione alla collaborazione. Richiede di essere ben pensata, pianificata e
preparata. Come insegnante bisogna trovare un continuo equilibrio tra l’autonomia da conferire
ai gruppi e la gestione delle dinamiche relazionali.

3.3 DIDATTICA PER PROGETTI

La metodologia. La didattica per progetti si può considerare un processo sistematico di


acquisizione e di transfert di conoscenze nel corso del quale lo studente anticipa, pianifica e
realizza, in un tempo determinato, solo o insieme a dei pari e sotto la supervisione di un
insegnante, un’attività osservabile che risulta, in un contesto pedagogico, un prodotto finito
valutabile. In particolare quest’ultimo possiede enormi potenzialità in quanto, oltre a porsi come
prodotto per la valutazione, funge da traino dal punto di vista motivazionale e fornisce un ponte
di collegamento tra scuola e vita, tra saperi formalizzati e realtà.
Lo studente è chiamato a farsi carico della realizzazione del progetto, fornendo il proprio
contributo all’interno di un disegno collettivo, assumendosi le sue responsabilità in rapporto agli
impegni assunti e rinforzando la propria autonomia nella gestione e realizzazione del progetto.
La didattica per progetti è una metodologia di apprendimento ben mirata allo sviluppo e al
consolidamento di competenze:
4. Offre rappresentazioni multiple della realtà, la cui complessità prende forma tramite i
molteplici percorsi individuabili (apprendimento come processo non lineare);
5. Promuove la costruzione attiva della conoscenza (apprendimento come processo
costruttivo e intenzionale);
6. Sostiene la costruzione collaborativa della conoscenza, attraverso la negoziazione sociale
(apprendimento come processo sociale);

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7. Alimenta pratiche riflessive (apprendimento come processo riflessivo);
8. Propone compiti autentici e contestualizza gli apprendimenti (apprendimento come
processo situato).
Esempio sul libro. Progetto per studenti della scuola primaria di pulizia e risistemazione del
cortile della scuola. Progetto elaborato da studenti della scuola secondaria sul tema
interdisciplinare “L’Errare” e sui suoi sotto-argomenti.
Fasi di lavoro. Un’attività didattica per progetti normalmente viene svolta percorrendo le
seguenti fasi:
1. Individuazione di un bisogno condiviso o problema da affrontare;
2. Prefigurazione del traguardo atteso;
3. Stesura di un disciplinare d’incarico, precisando vincoli e risorse entro cui elaborare il
progetto, precisare fasi e tempi, definire condizioni di fattibilità;
4. Definizione delle strategie e degli strumenti, rintracciabile nella precisazione dei passaggi
attraverso cui elaborare il progetto (analizzare i diversi passaggi e precisare gli sviluppi
operativi);
5. Gestione e realizzazione delle diverse fasi di lavoro. Completa elaborazione del progetto
fino al risultato finale. Necessario coordinare azioni e soggetti e organizzare l’attività
operativa del gruppo.
6. Controllo e valutazione del lavoro, che comprende il processo e il lavoro finito. Deve
essere condotta dall’insegnante insieme alla classe, promuovendo il confronto e la
discussione costruttiva.
Ruolo del docente. Anche in questo caso l’insegnante ha un ruolo indiretto e funge
principalmente da catalizzatore delle risorse del gruppo in funzione della realizzazione del
progetto stesso (inquadra la proposta didattica, integra le risorse del gruppo, incoraggia,
monitora e verifica il processo di lavoro e di apprendimento degli allievi). Quello che è importante
però che il docente faccia è:
9. Individuare le competenze che si intendono sviluppare e i traguardi formativi;
10. Interventi di “mediazione didattica” favorendo e dando un senso al progetto;
11. Favorire l’esplicitazione costante del nesso azione-riflessione, pratica-teoria.
Elementi critici. L’attività progettuale può trovarsi ad interferire con quella curriculare in
termini di tempo, rischiando di diventare un’entità separata da tutto il resto e un’attività a
carattere di episodicità. Vi è inoltre il rischio che l’attenzione si concentri sulla realizzazione del
prodotto finito anziché sullo sviluppo di competenze con conseguenti trasferimenti di ruolo,
contrazione dei tempi, disattenzione al processo e scarsa cura del clima relazionale.

3.4 GIOCO DI RUOLO

La metodologia. Si tratta di una metodologia centrata sull’impiego di modalità di simulazione del


contenuto di realtà oggetto del lavoro didattico. Il meccanismo di base consiste nel simulare un
evento relazionale, in modo da consentire una analisi e una riflessione sui ruoli sociali agiti nel
corso della simulazione.
Consente un’immedesimazione dell’esperienza che orienta l’attenzione non solo sul piano
cognitivo, ma anche su quello scoiale, emotivo, valoriale (molteplici piani di analisi). Usando la
metafora dell’iceberg, sposta l’attenzione sulla parte sommersa dell’esercizio di una competenza,
contribuendo ad esplorare aspetti di difficile accesso.

38
Le finalità di questo tipo di attività sono la comprensione di attitudini, valori, percezioni e
l’esplorazione dei propri e degli altrui sentimenti (sviluppo empatia). Contribuisce anche allo
sviluppo di abilità di problem solving.
Esempio sul libro. Attività di simulazione allo scopo di insegnare a gestire situazioni di conflitto
durante le attività di gioco, in particolare pallavolo, durante l’intervallo.
Fasi di lavoro. Possiamo riconoscere le seguenti fasi:
1. Fase di riscaldamento con identificazione del problema;
2. Scelta dei partecipanti e assegnazione dei ruoli;
3. Definizione della scena (linee d’azione, specificazione dei ruoli, situazione problematica);
4. Preparazione degli osservatori e assegnazione dei compiti di osservazione;
5. Recitazione. Inizia il gioco di ruolo vero e proprio e si arriva fino alla sua conclusione;
6. Riflessione critica e discussione (definizione di una eventuale ed ulteriore simulazione).
Ruolo del docente. Il docente svolge una funzione indiretta, essenzialmente di regia e
accompagnamento del percorso nelle diverse fasi. In particolare: contribuisce alla creazione di un
clima sociale favorevole, definisce le regole del gioco, assegna i diversi ruoli, conduce la
simulazione e il momento di confronto e riflessione (fase di debrifing).
Elementi critici. Potenziale problema aperto che può rischiare di andare fuori dai traguardi
formativi che ci si è proposti. Difficoltà nel coinvolgimento degli allievi.

3.5 APPRENDISTATO COGNITIVO

La metodologia. Si tratta dell’applicazione dei caratteri tipici dell’apprendistato per


l’apprendimento di competenze cognitive complesse anziché lo sviluppo di abilità operative. Si
tratta di “imparare facendo” a partire da un modello esperto che esplicita i processi attivati nello
svolgere un determinato compito e sollecita l’allievo progressivamente a padroneggiarli.
Si potrebbe definire l’apprendistato cognitivo “un’esperienza vicaria basta su una progressiva
autonomia del soggetto nello svolgere una determinata operazione a partire dal confronto con un
modello di competenza esperta” passando da un processo di imitazione ad un processo di
rielaborazione personale del modello proposto da parte del soggetto.
Il principio di fondo è che una competenza esperta rappresenta una forma di sapere pratico,
pertanto non può che essere insegnata attraverso l’esercizio della competenza stessa. Avendo a
che fare con competenze essenzialmente cognitive (es. saper scrivere), si tratta per lo più di
processi di pensiero interni al soggetto, contrariamente da quanto succede nell’apprendistato
tradizionale, pertanto il lavoro consiste nel verbalizzare tali processi di pensiero, nel confrontarli
e condividerli all’interno del gruppo.
Esempio sul libro. Attività volta a sviluppare una maggiore competenza nella scrittura in
particolare nell’elaborazione di un testo scritto.
Fasi di lavoro. Passaggi chiave della metodologia:
12. Indicazioni del compito da svolgere e dei relativi traguardi formativi;
13. Esecuzione del compito da parte del soggetto;
14. Esplicitazione dei processi logico-cognitivi ed operativi richiesti dal compito;
15. Richiesta agli allievi di svolgere il compito richiesto;
16. Assistenza e sostegno allo svolgimento del compito da parte dell’allievo;
17. Riflessione sulla prestazione svolta e consolidamento e trasferimento della competenza
agita in altre situazioni.

39
Ruolo del docente. In questo tipo di attività l’insegnante assume una pluralità di funzioni che
qualificano il suo ruolo di mediazione tra contenuti culturali e soggetto che si possono riassumere
nei seguenti punti:
18. Modelling, fornisce un modello esperto allo studente di una determinata prestazione,
mostrando come affronterebbe un determinato compito complesso;
19. Scaffolding, fornisce una “impalcatura” base allo studente per esercitare autonomamente
la propria competenza (passaggi chiave, schema di base, ecc.);
20. Tutoring, assiste lo studente nella sua prestazione;
21. Fading, attenua progressivamente il suo supporto, in modo da consentire lo sviluppo di
una maggiore autonomia da parte dello studente;
22. Monitoring, monitora l’attività dello studente e fornisce un feedback sulla prestazione.
Elementi critici. Rischio da parte dello studente di compiere un’imitazione passiva senza riuscire
a superare la fase di mera riproduzione di un modello. Può inoltre risultare problematico
trasferire quanto appreso in altri contesti.

3.6 APPROCCIO METACOGNITIVO

La metodologia. Si tratta di un approccio orientato a promuovere nell’allievo una maggiore


consapevolezza della sua esperienza di apprendimento, sia in rapporto a quanto acquisito, sia in
rapporto a come lo ha acquisito.
Possiamo suddividere la metacognizione in due aree distinte:
23. Conoscenza metacognitiva, distinta in consapevolezza della conoscenza (ciò che si sa, non
si sa e che si vuole sapere), del pensiero (compiti cognitivi) e delle strategie di pensiero
(approcci utili a dirigere l’apprendimento);
24. Regolazione metacognitiva, dove il soggetto una volta presa consapevolezza sul proprio
pensiero (conoscenza metacognitiva) è nelle condizioni di dirigerlo e regolarlo per il
proprio apprendimento. Esistono 3 modalità di regolazione: pianificare l’approccio al
compito, monitorare il proprio apprendimento e verificare i risultati.
I buoni pensatori cognitivi sono anche capaci di apprendere in modo intenzionale, ovvero di
dirigere il proprio apprendimento in modo adeguato per sviluppare una comprensione profonda.
Le parole chiave dell’approccio metacognitivo si possono riassumere in:
25. Consapevolezza, caratteristica principale della metacognizione. Lo studente va oltre
l’esperienza di apprendimento e promuove una riflessione su di essa, in modo da
sviluppare una piena coscienza del suo lavoro;
26. Documentazione, per avere una comprensione profonda del proprio sapere e ritornare sul
proprio percorso;
27. Responsabilità, in quanto presupposto dei processi metacognitivi e consiste in un
atteggiamento più attivo da parte del soggetto in merito al proprio apprendimento, in
modo da farsi carico di esso e dei propri successi e insuccessi;
28. Autonomia, un processo che è conseguenza della responsabilità ma che non può che essere
progressivo e che deve essere curato e seguito anche dall’insegnante;
29. Condivisione, in quanto il senso ultimo del processo metacognitivo è una sorta di alleanza
tra insegnante e allievo, attraverso una comune responsabilità.
Le strategie autovalutative rappresentano uno dei dispositivi più potenti con cui sviluppare
l’approccio metacognitivo: la connessione tra apprendimento e valutazione occorre essere

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valorizzato, dando l’occasione allo studente di farsi carico della propria esperienza di
apprendimento e dei propri risultati.
Esempio sul libro. Calcolo dell’area della sezione trasversale di una pista da skateboard con
rampe attraverso il processo metacognitivo (applicando le conoscenze insite negli allievi).
Fasi di lavoro. Si può sintetizzare l’approccio metacognitivo nei seguenti passaggi chiave:
1. Chiarezza sul significato e sui traguardi formativi del percorso;
2. Focalizzazione sui processi cognitivi chiave connessi allo sviluppo della competenza;
3. Sviluppo di modalità di documentazione del lavoro fatto che facilitino una sua
rivisitazione in una fase successiva (sia collettive sia nel lavoro individuale);
4. Sollecitazione di modalità autovalutative e valutative sul processo di apprendimento e sui
suoi risultati, rintracciabile nel continuo confronto tra il proprio lavoro e quello degli altri
e nel feedback fornito dall’insegnante;
5. Confronto e condivisione in classe delle riflessioni compiute;
6. Utilizzo da parte dell’insegnante del processo riflessivo per rivedere la propria azione e
per riprogettare.
Ruolo del docente. Deve lavorare sul senso dell’esperienza di apprendimento per l’allievo,
sollecitare la sua assunzione di responsabilità e autonomia, promuovere un atteggiamento
riflessivo e critico.
Elementi critici. Sicuramente si pone la variabile tempo. Un altro rischio è quello di ridurre a
mera tecnica l’approccio metacognitivo.

3.7 STUDIO DI CASO

La metodologia. Si tratta di una metodologia di ricerca sociale che si qualifica per la sua
connotazione idiografica, ovvero attenta ad esplorare un singolo fenomeno nella sua singolarità,
allo scopo di comprenderne in profondità i tratti distintivi ed analizzarne criticamente pregi e
difetti (simile anche al “Capitolo” fatto in Clan). Lo studio di caso può essere definito come “la
presentazione ai partecipanti all’attività di una situazione, attorno alla quale sviluppare,
alternativamente o congiuntamente, operazioni di analisi (“osservare”), di diagnosi delle cause
(“dedurre”) e di presa di decisione (“agire”)”.
Il riferimento ad un’esperienza reale favorisce un approccio concreto al contenuto di
apprendimento, che muove da una riflessione da un contesto pratico per orientarsi
successivamente ad eventuali generalizzazioni e formalizzazioni. Per tale caratteristica, lo studio
di caso tende a ribaltare la logica tipica dell’insegnamento scolastico, tesa a definire il quadro
teorico e a svilupparne successivamente le implicazioni o applicazioni pratiche.
Gli scopi formativi di questa attività sono essenzialmente lo sviluppo di apprendimenti che
possono essere impiegati in situazioni analoghe o simili a quella studiata oltre che il
potenziamento delle capacità di analisi e di decisione in situazioni complesse.
Esempio sul libro. Analisi del problema generale dello smaltimento dei rifiuti facendo
riferimento ad un caso concreto di un Comune.
Fasi di lavoro. Possiamo distinguere principalmente i seguenti passaggi:
1. Fase di ricostruzione dell’esperienza, volta a consentire ai partecipanti di farsi un’idea del
caso presentato (documentazione e testimonianza diretta);
2. Comprensione del caso da parte del gruppo e analisi critica dell’esperienza,
riconoscendone punti di forza e punti debolezza;

41
3. Individuazione da parte del gruppo di azioni di miglioramento o comportamenti
alternativi in relazione all’esperienza analizzata (come agirebbero loro in situazioni
simili);
4. Generalizzazione dei contenuti emersi e sintesi degli apprendimenti conseguiti.
Ruolo del docente. Preparazione del caso su cui impegnare il gruppo, attraverso la ricerca di
fonti documentali e la loro organizzazione, gestione dell’attività didattica in generale con
particolare attenzione nell’aiutare il gruppo ad avere consapevolezza delle differenze tra fase di
ricostruzione, di analisi critica e di proposta.
Elementi critici. Possono riguardare la capacità del gruppo di immergersi nell’esperienza
presentata e la difficoltà di distanziarsene, ovvero di soffermarsi sul caso singolo senza riuscire a
generalizzare o trasferire i concetti appresi.

3.8 APPROCCIO DIALOGICO-FILOSOFICO

La metodologia. Questo tipo di approccio raccoglie un insieme di metodologie e di tecniche


didattiche accumunate dalla valorizzazione della discussione in classe o nel piccolo gruppo come
opportunità di apprendimento.
La discussione è caratterizzata da una relazione didattica di tipo circolare, attenta al ruolo del
gruppo, all’interazione reciproca dei suoi componenti e dove l’insegnante ne è parte integrante
con un ruolo di conduttore, di moderatore del contenuto e di gestione delle regole di interazione.
La cura della dimensione relazionale da parte dell’insegnante è fondamentale per consentire un
apprendimento produttivo e di co-costruzione della conoscenza in chiave socio-costruttivista, in
una prospettiva quindi di apprendimento condiviso e di organizzazione die processi di pensiero.
Esempio sul libro. Discorso dialogico-filosofico strutturato in più incontri su “linguaggio e
comunicazione”.
Fasi di lavoro. Possiamo distinguere i seguenti passaggi chiave:
1. Impiego di stimoli narrativi, esperienziali, sonori che aiutino a introdurre il tema della
discussione;
2. Messa a fuoco delle domande attorno cui sviluppare il confronto;
3. Sviluppo del confronto all’interno del gruppo dove l’insegnante ne valorizza le risorse e
rilancia le domande emergenti;
4. Sintesi degli elementi emergenti o condivisi da parte del gruppo e dell’insegnante;
5. Eventuale rielaborazione individuale del contenuto della discussione attraverso la
scrittura, il disegno, altre forme espressive e comunicative.
Ruolo del docente. Tra i compiti del docente:
30. la gestione e sollecitazione dell’interazione sociale nel gruppo;
31. funzione di scaffolding, ovvero di fornire una struttura concettuale e procedurale su cui
sviluppare l’argomentazione sociale;
32. funzione di fading, ovvero la progressiva riduzione del proprio intervento attivo a favore
di un incremento dell’autonomia del gruppo a gestire il confronto collettivo;
33. “abitare la domanda”, ossia esplorare tutti i significati possibili allo scopo di ampliare e
approfondire la riflessione del gruppo.
Elementi critici. Situazioni di difficoltà possono essere la scarsa condivisione del gruppo, la
gestione delle modalità di confronto, in particolare in presenza di opposizione di punti di vista o
di giustificazioni per una determinata presa di posizione.

42
3.9 APPROCCIO NARRATIVO

La metodologia. Il potenziale didattico della narrazione si può riassumere nell’idea di avvicinare


al sapere rendendolo più familiare. Di fronte a un sapere formalizzato che tende a privilegiare la
generalizzazione e l’astrazione dei contesti specifici, la narrazione rappresenta un antidoto per
aiutare a non spersonalizzare la conoscenza, per riportarla al vissuto del soggetto e alla sua
esperienza.
Il pensiero narrativo è applicabile a tutti i sapere disciplinari e rinvia sia ai processi di fruizione,
intendendo una forma di avvicinamento ad un contenuto di sapere, sia ai processi di produzione
del sapere, intendendo una forma di comunicazione del sapere, organizzazione dei concetti e dei
contenuti. Questa doppia prospettiva si basa sul fatto che il pensiero narrativo rappresenta una
modalità di funzionamento della mente: modalità passiva, atta nella comprensione di contenuti
informativi e di sapere, e modalità attiva, atta alla produzione di contenuti informativi e di sapere.
Una modalità di funzionamento che può utilizzare diversi codici e canali comunicativi (scrittura,
immagini, codice verbale, video, ecc.).
Il valore dell’approccio narrativo sta nel processo empatico che sollecita nel rapporto tra
conoscenza e soggetto, una conoscenza che entra e si connette col soggetto e alla sua esperienza,
riempiendosi di significato. Tale metodo non rinforza solamente i processi di coinvolgimento e
avvicinamento del soggetto al processo di apprendimento ma aiuta anche nei processi di
ritenzione e rievocazione del sapere, dandogli un senso.
Esempio sul libro. Risoluzione di una situazione-problema di natura matematica in chiave
narrativa (storia della principessa Ipazia e del messaggero Alessandro).
Fasi di lavoro. La metodologia si basa essenzialmente sull’esposizione di una situazione-
problema (problem solving) sotto forma di una storia narrativa e della sua risoluzione in piccoli
gruppi. Segue poi una fase di condivisione della risoluzione e della conclusione del racconto.
Cambia sostanzialmente il modo con cui l’apprendimento del contenuto viene passato, mediato:
tramite una storia.
Ruolo del docente. Ruolo di narratore della storia e di accompagnamento nella sua risoluzione.
Elementi critici. Limitato materiale editoriale a disposizione per poter sviluppare attività di
questo tipo. Necessità da parte dell’insegnante di un lavoro attento di progettazione per collocare
la soluzione narrativa all’interno di un percorso formativo organico e coeso. Vi posso inoltre
essere “resistenze” da parte degli allievi che ostacolano lo sforzo di immaginazione e creatività
connesso all’impiego di questi metodi.

3.10 ISTRUZIONE TRA PARI

La metodologia. A differenza del contesto strutturalmente verticale della scuola, l’istruzione tra
pari sposta l’attenzione sulle relazioni orizzontali tra allievi. Tale metodologia prende spunto dalle
teorie dello psicologo russo Lev Vygotskij (1934) che sosteneva che l’apprendimento avviene
attraverso l’interazione e la comunicazione con gli altri (beneficio dell’apprendimento in gruppo).
Da questa idea è stata sviluppata quella delle “comunità di apprendimento” centrate sulle
interazioni studente-studente e sullo scambio di idee. In una comunità di apprendimento:
34. Gli studenti imparano attraverso la collaborazione attentamente strutturata;
35. Partecipano ad una pratica condivisa o a un progetto di gruppo in un ambiente che
riproduce una situazione reale;
36. Il lavoro è condotto attraverso una divisione dei compiti e ripetuti cicli di lavoro;

43
37. La competenza è distribuita tra gli studenti, ognuno contribuisce al suo gruppo di lavoro
e ogni gruppo rappresenta una parte del tutto, in base alla conoscenza personale o di
gruppo sullo specifico argomento;
38. I pari si aiutano l’un l’altro per costruire conoscenze e competenze (l’insegnante non è
l’unico esperto o fonte di assistenza).
Sicuramente lo studente ha una forte responsabilità ed è protagonista del proprio apprendimento
e di quello dei compagni. Studi hanno dimostrato infatti che in situazioni di cooperazione si
apprende meglio che in situazioni di competizione ed individualistiche. Inoltre, la peer education
promuove maggiormente un “comportamento consapevole”, soprattutto negli adolescenti i quali
apprendono maggiormente all’interno dei gruppi di coetanei piuttosto che nel tradizionale
rapporto educativo genitore-figlio, insegnante-allievo, ecc.
Esempio sul libro. Percorso di consolidamento sui concetti di velocità ed accelerazione
attraverso un’attività di peer instruction.
Fasi di lavoro. Si tratta di una modalità di approccio molto simile a quelle di tipo cooperativo
viste fino adesso dove il rapporto tra insegnate e allievo si fonda sulla simmetria, l’uguaglianza e
il mutuo controllo. Possiamo distinguere:
39. Fase di focalizzazione su un problema o contenuto;
40. Predisposizione del materiale e suddivisione in gruppi di lavoro;
41. Tutorato tra compagni (fase di peer education);
42. Verifica dei contenuti appresi (ricerca di un feedback).
Ruolo del docente. In questo tipo di attività gli insegnanti sono molto coinvolti nel progettare e
strutturare l’ambiente di apprendimento in modo da massimizzare l’opportunità degli studenti di
interagire tra loro e con gli esperti. Il docente inoltre modella, guida e facilita i processi di
interazione sociale.
Elementi critici. Gestione del gruppo e delle interazioni sociali.

3.11 DIDATTICA 2.0

La metodologia. L’espressione “didattica 2.0” non designa tanto un metodo quanto un approccio
didattico basato su un uso intensivo delle tecnologie di informazione e di comunicazione. Questo
approccio a sua volta si integra con metodologie didattiche innovative quali l’apprendimento
cooperativo, la didattica per progetti, gli approcci metacognitivi, la didattica laboratoriale.
Alcune condizioni di base che attualmente caratterizzano un ambiente basato sulla didattica 2.0
sono l’utilizzo di: dispositivi mobili (tablet, notebook), dispositivi di condivisione (video-
proiettore, LIM), spazi di condivisione virtuale (cloud), rete di collegamento wireless, materiale di
documentazione cartacei e online, forme di interazione e condivisione online, spazi e ambienti
flessibili. Tali condizioni si possono combinare in diversi modi e a livelli differenti.
Ciò che è importante evidenziare è che la “didattica 2.0” non rimanda ad ambiente futuristici o di
nicchia, bensì si fonda essenzialmente su alcune condizioni tecnologiche e culturali che ormai
sono la normalità e presenti nella vita quotidiana della maggior parte delle persone. Da questo
punto di vista, vi è un enorme difficoltà da parte della scuola di riconoscere ed utilizzare anche
nella normalità tali condizioni, sottolineando una marcata distanza tra scuola e mondo reale.
Un concetto chiave che caratterizza la “didattica 2.0” è quello di “ambiente di apprendimento”
inteso in senso socio-costruttivista come “luogo in cui coloro che apprendono possono lavorare
aiutandosi reciprocamente, avvalendosi di una varietà di risorse e strumenti informativi, di
attività di apprendimento guidato o di problem solving tramite le quali offrire rappresentazioni

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multiple della realtà ed evidenziarne la complessità”. La presenza di strumenti tecnologici non è
un elemento qualificante di questo ambiente (organizzativo, metodologico, relazionale) sul piano
didattico ma contribuisce a realizzare tali condizioni.
Esempio sul libro. Ideazione, progettazione e realizzazione di un e-book multimediale atto alla
guida alla grammatica per ragazzi.
Ruolo del docente. Progettare e coordinare l’allestimento dell’ambiente di apprendimento in
tutte le sue valenze e dimensioni. Il docente si mette “a fianco” dei ragazzi, accompagnandoli e
supportandoli nel loro processo di apprendimento e nell’uso delle risorse tecnologiche e culturali
che esso richiede.
Elementi critici. Disposizione di una reale dotazione tecnologica attuale e performante. Necessità
che il docente possegga una preparazione tecnica e che abbia la possibilità e gli strumenti per
poter costruire un buon ambiente di apprendimento.

3.12 FLIPPED LESSON

La metodologia. In questa metodologia la “tripletta ciclica” della didattica scolastica tradizionale


(spiegazione, assimilazione, valutazione) subisce un totale capovolgimento: si tende a ribaltare
la relazione tra trasmissione dei contenuti culturali e appropriazione di tali contenuti, puntando
a spostare l’acquisizione dei contenuti da parte dello studente a casa, attraverso un approccio
individuale ai contenuti multimediali e non messi a sua disposizione, e il lavoro di rielaborazione
dei contenuti stessi a scuola, attraverso il loro impiego in contesti reali o per affrontare contesti
complessi.
Si tratta quindi di una duplici inversione dove il processo di fruizione dei contenuti è previsto al di
fuori della scuola attraverso una potenziale molteplicità di fonti mentre il processo di
rielaborazione dei contenuti stessi avviene in classe, con il recupero di alcuni concetti, soprattutto
quelli dubbi e non chiari, e la messa in gioco di quanto compreso a casa in compiti più o meno
complessi e nuove sfide.
È chiaro che in aula si potranno mettere in gioco contemporaneamente parte delle metodologie
didattiche sviluppate (approccio cooperativo, metacognitivo, narrativo, ecc.): la flipped lesson
costituisce una sorta di canovaccio entro il quale impiegare le diverse metodologie attive e
ridimensionare il significato della lezione intesa nel senso tradizionale del termine.
Esempio sul libro. Corso di chimica annuale tramite flipped lesson.
Ruolo del docente. Tende a smettere o a limitare fortemente la funzione di trasmissione dei
contenuti culturali, a fronte di una pluralità di fonti più specifiche e più mirate attraverso cui
accostarsi al sapere, e a potenziare invece la funzione di regista e supporto del processo di
apprendimento degli allievi, sia in modo indiretto, attraverso l’allestimento di una serie di risorse
da mettere a loro disposizione, sia in modo diretto, attraverso l’accompagnamento, il feedback, il
sostegno cognitivo ed emotivo.
Elementi critici. Responsabilità e una certa predisposizione all’apprendimento autonomo da
parte degli alunni. Preparazione accurata e attenta del materiale.

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