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Riassunto Auri.

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Il rapporto tra generazioni diverse è segnato da una certa conflittualità e disagio, oggi però è diverso in
quanto possiamo comunque vedere come il rapporto tra l’adulto e i giovani e l’adulto e i bambini è
totalmente diverso. C’è chi considera la storia dell’umanità e vede sempre per una persona la propria
Bildung: formazione, cammino di conquista della propria forma. Abbiamo visto come l’educazione
prima veniva misurata in un rapporto di vero/falso, oggi questo concetto sembra essere molto in crisi,
ovvero una crisi educativa. Si parla di “crisi” nei figli anche per quanto riguarda i padri che nelle
generazioni precedenti davano delle risposte chiare ai figli, dei valori da seguire e invece oggi questo
non c’è piu’. Oggi gli adulti lasciano far fare ai figli ciò che vogliono e questo avviene perché non si
vogliono utilizzare i rimproveri e decisioni da parte dei genitori. Se osserviamo questo attegiamento
notiamo come nessuno si reputa in grado nel correggere gli altri. Con l’espressione ‘ignoranza
riflessiva’ si intende il non saper usare la ragione per riflettere su di se. Oggi questo si nota piu’ sugli
educatori, non trasmettono piu’ quello che gli educatori sono. Una ocsa su cui ci dobbiamo soffermare
è quella che viene chiamata “prima regola per il pensiero” e cioè noi che ragioniamo in quanto
fenomeni educativi, e che quindi cisono dei soggetti che si pongono domande. Come è originaria
l’appartenenza è anche originaria la disposizione per orientarci nel mondo in cui abitiamo.
Noi soggetti che apparteniamo al mondo abbiamo una comprensione del mondo che viene chiamata
“precomprensione” che è una comprensione originaria che viene prima di ogni comprensione acquisita.
Si tratta di un sapere che ognuno di noi ha già dalla nascita ricevendolo dai mondi della sua vita,
innanzitutto dal mondo della famiglia, poi crescendo tramite tutte le esperienze e i contesti sociali che
si incontrano. Il sapere è un sapere prospettico in base all’appartenenza del soggetto ad un contesto
storico ma anche per il fatto che occupa uno spazio in quanto essere umano. Heiddeger coglio un
legame tra precompresnione e ontesto storico perché per lui il soggetto è definito storicamente non è
una conoscenza. Noi interpretiamo il mondo in base a come lo sentiamo, a come lo viviamo, in base a
come sentiamo la realtà in base anche all’affetto che abbiamo verso la realtà che viviamo. L’analisi
dell’esistenza umana costituisce la presentazione della fenomenologia di Hursell che la indica come
una posizione di principio che assume come punto di partenza ogni riflessione del mondo della vita.
Alla base della nostra esistenza possiamo quindi trovare la fonte e il senso di tutte le cose e di tutte le
forme del nostro sapere ma bisogna avere una concersione dell’intelligenza cioè una vera e propria
purificazione , un’ascesi grazie alla quale essa sia mossa solo dall’evidenza , mentre l’ascesi del volere
consiste solo nell’arrivare alla ricerca del vero.
Questa descrizione esistenziale della humana conditio ci introduce, come appena scritto,
adeguatamente alla fenomenologia; ma si deve anche dire che essa permette d’intendere tutta la
pregnanza di un’affer-mazione di principio dell’ermeneutica contemporanea. La coscienza –possiamo
dire ora portando a sintesi quanto finora è emerso – è costitu-ita dal senso, è relazione al senso; e
ritrova il senso interpretando quanto incontra: gli enti e gli eventi, i segni e i testi. In ogni realtà infatti
viene a parola, si offre e si dice, un senso delle cose; tanto che di ogni realtà possiamo affermare che
essa è un linguaggio, in sé sempre specifico e che necessita di una altrettanto specifica interpretazione.
è evidente che il radicamento della nostra riflessione sui fenomeni educativi nei mondi della vita
conferisce ad essa una ca-ratteristica intonazione esistenziale; più precisamente, trattandosi di una
ricerca su quanto è veramente originario nell’esistenza umana, l’orizzonte dispiegato è innanzitutto ed
essenzialmente filosofico. Ora, è del massi-mo interesse osservare che proprio questa premessa
esistenziale consente una ‘prima aurorale intuizione del senso stesso di educare. Col progredire
dell’analisi dell’esistenza nella sua dimensione inautentica, infatti, pare emerga con sempre mag-giore
evidenza un compito che al soggetto sembra proporsi o forse im-porsi: che egli, per essere
autenticamente un soggetto, debba rispondere di sé proprio nella qualità di attore protagonista delle
proprie azioni e attivo propositore delle proprie parole; è evidente, per il soggetto non è un aspetto
secondario, ne va anzi del suo stesso esser-soggetto. Si tratta, in buona sostanza, di prendere in mano la
propria vita, come s’usa dire nel linguaggio quotidiano, e di rispondere di sé in prima perso-na,
tentando dunque un’opera di personalizzazione della propria esisten-za: alla lettera, rendendola
l’esistenza di una persona che si ponga di essa come il soggetto. Ricoeur ne parla come del compito di
«ap-propriazione di sé», reinterpretando i significati cui la coscienza è esposta, e che già da sempre la
configurano; quanto costituisce, a ben vedere, una ricomprensione critica delle opere e dei testi. Il
passo preliminare, da parte del soggetto, è di riconoscere lo stato di «deiezione» o di «alienazione», una
sorta di assenza di sé a sé, e di volerne prendere distanza. La pedagogia ha il vantaggio, rispetto ad altre
scienze, di assumere, da esperienze educative reputate esemplari già dalla coscienza sponta-nea, delle
presupposizioni e di avviarsi sul loro fondamento. In parti-colare, essa si sostanzia del presupposto
della persona, evidenza etica e assiologica in senso eminente. Nella pedagogia educativa fa parte amche
quell’aspetto che possiamo chiamare pedoagogia spontanea che accompagna chi è impegnato in azioni
educative , infatti tutte le azioni umane educative nascono già comprese e interpretate. Da queste parole
si comprende che, in questi educatori, è spontanea, in modo naturale, una certa pedagogia, un certo
sapere sull’educare. Questo sapere, sebbene abbia dei limiti non va trascurato dallo studioso di
pedagogia fondamentale;piuttosto, è degno della massima attenzione. Evidenziamone dunque alcune
caratteristiche specifiche. In primo luogo non è un sapere teoricamente elaborato. È una sortadi
“pedagogia nascosta” , ossia un sapere – come oggi dicono alcunistudi – incorporato nella pratica e
nelle comunità. Ciò implica almeno due corollari: a) il criterio di validità di questo sapere, proprio
perché sapere pre-riflessivo, è innanzitutto l’efficacia pratica (deve “funzionare”e, come vedremo, se si
constata che questo non accade siamo già alle soglie di un diverso tipo di sapere); b) se si vuol
comprendere qualcosa della pedagogia spontanea, ad esempio di una mamma o di una ma-estra,
innanzitutto bisogna guardarla operare. Senza chiedere nulla o senza voler troppo elaborare. D’altra
parte, se si vuol apprendere qual-cosa sul fare educazione da quella mamma o da quella maestra, perché
riteniamo il suo fare buono, o persino esemplare, ciò che desideriamo è starle accanto per imparare a
fare come lei. Pertanto, la pedagogia spontanea possiede un certo grado di automatismo. Se la maestra,
in ogni momento, stesse a problematizzare, a chiedersi se il suo dato per scontato è affidabile o no,
smetterebbe di fare la maestra: se si dubita continuamente della stabilità del terreno su cui si cammina,
non si fa più un passo (ciò non significa, all’opposto, che non bisogna mai dubitare, perché come
vedremo non sono poche le circostanze in cui è opportuno scegliere di non fare più un passo e fermarsi;
oppure è il cammino stesso che si interrompe bruscamente, a prescindere dalla nostra volontà).
In secondo luogo, soprattutto in contesti ristretti o in società omo-genee, la pedagogia spontanea appare
come un sapere condiviso e inter-soggettivo, che accomuna più persone. Innanzitutto in senso diacroni-
co: viene tramandata per così dire “di madre in figlia” (l’espressione alfemminile, trova ragione nel
fatto che le pratiche educative sono sempre state “affare delle donne”, mentre la riflessione teorica
dell’educazione prevalentemente affidata agli uomini; ma qualcosa oggi sta cambian-do), e viene
tramandata, ancora una volta, più con la condivisione della pratica, che di espliciti e organici
ragionamenti. sempre, insieme con le pratiche educative, viene trasmesso anche un certo ideale di
umanità, ritenuto assiologi-camente positivo. In altre parole, in ogni tempo e luogo chi educa si fa
guidare da una certa immagine dell’essere umano e della sua forma migliore, che si esplica in
un modo di vivere che è ritenuto preferibile, per ragioni che si intuisco-no non accidentali, rispetto ad
altri. L’educatore, immerso nei contesti educativi, spesso non sa darne ragione, né chiarirne dettagli e
implica-zioni. Tuttavia è evidente che si lascia guidare da un simile criterio. Lo ha in mente quando
dice, ad esempio: questa cosa è buona per il bam-bino; questa invece non lo è. come ogni sapere
condiviso in modo automatico, esso si pog-gia sull’autorità indiscussa di alcune persone, che valgono
spesso come figure esemplari. Nel nostro primo esempio potrebbe essere quella mamma che ha tirato
su ben cinque figli: con la sua esperienza non può che avere ragione – così o in modo simile, ci si
esprime, per indicare che, nella comunità, la sua opinione conta molto. O ancora quell’insegnante o
quell’educatore che ha cambiato la vita della comunità in cui si è tro-vato a operare; e molti lo hanno
preso a esempio. Per comprendere questo aspetto del sapere spontaneo, può essere utile richiamare
brevemente il modo di concepire la filosofia del fi-losofo greco Aristotele, che offre intuizioni di senso
per noi preziose. Aristotele mostra che il ragionare filosofico (e noi potremmo dire tutti i saperi critici e
riflessivi che riguardano la vita umana propria-mente in quanto umana) muove dal senso comune,
ovvero, nel suo linguaggio, dagli éndoxa. Si tratta di un particolare tipo di opinioni: le opinioni notevoli
e autorevoli. L’Autore le definisce «ciò che appare a tutti, ai più, o ai sapienti» 6 . Secondo lui, per
trattare, in modo propria-mente filosofico, con adeguato rigore, dei più diversi argomenti non si può
che muovere da esse, almeno per una prima individuazione dei problemi da affrontare.
Notiamo, per prima cosa, che egli parla di éndoxa come dei fenomeni (tà phainomena). Nelle opere
aristoteliche, espressioni come sembra che, pare che (così come il verbo phaínomai, apparire, e il
sostantivo deriva-to da esso, phainómenon) sono quindi molto frequenti: non indicano
dubbi o mere parvenze. la pedagogia spontanea viene messa in discussione quando qualcosa rompe gli
equilibri abituali dell’educare, ovvero le consuete modalità di cura e di trasmissione che la coscienza
spontanea aveva ritenuto educative. Aristotele riconosce qualcosa di simile quando afferma che le opi-
nioni, per quanto notevoli e autorevoli, vanno comprovate e ne vanno sviluppate le aporie.
Etimologicamente, l’aporia è quella situazione che si verifica quando “non c’è via d’uscita”; sentiamo
che ci mancano gli strumenti, vorremo una soluzione, un espediente per “venirne fuori”, ma sembra
proprio che non ci sia. Tutto e il contrario di tutto, ora, appare valido. Un’esperienza vissuta,
un’esperienza non facile fatta di oscurità e contraddizioni, che gli educatori conoscono bene. E
soprattutto gli educatori di oggi. Nel nostro tempo, infatti, molte sono le circostanze che mettono
costantemente in questione la pedagogia spontanea. E ciò in ragione di quel cambiamento epocale di
cui si è detto nelle Lezioni della scorsa Unità, e della conseguente rottura del patto tra le generazioni
che ha reso più complesse non solo la trasmissione, ma innanzitutto la condivisione educativa.
Certamente, se pensiamo a qualche decennio fa, oggi si potrebbe dire – meno senso comune, meno
consenso intorno ad una pedagogia spontanea condivisa (che, in passato, attingeva ai grandi raccontidi
significato e alla fiducia nell’autorità): non a caso, ordinariamente, ci sono conflitti più che alleanze tra
educatori (esempio evidente è, come detto nella ricognizione empirica, il rapporto scuola/famiglia). nel
passaggio dalla pedagogia spontanea alla pedagogia critica, non è in gioco solo la possibilità della
pedagogia come scienza bensì, ancor più originariamente, la possibilità dell’educazione. Se oggi
davvero non possiamo uscire dall’ambito, alla fine sempre aporetico e contraddittorio, delle certezze
soggettive e se la verità è una questione di gusti, allora con quale diritto, o meglio
su quale fondamento, pensare di educare qualcuno? Di offrirgli una anche minima indicazione sulla sua
possibile Bildung, sul suo cammino verso la sua forma migliore? Con quale legittimità voler
trasmettere come trasmettere un sistema di valori piuttosto che un altro o nessuno? l’educatore a suo
modo, e lo studioso di pedagogia in altro modo, osservando e accogliendo l’istanza veritativa che
emerge nei mondi nella vita, avvertono la necessità di percorrere un itinerario di ricerca che
problematizzi la precomprensione, mettendo in questione le idee fondanti; per ricominciare di nuovo
tutto daccapo, per così dire, cercando di vedere come stanno le cose e, con la forza
dell’argomentazione, dire perché non possono stare altrimenti .Infine, più in generale, si può osservare
che l’esigenza della prova di cui sentiamo il bisogno per orientarci in questioni davvero pressanti per
l’educare – in cui sentiamo che è in gioco qualcosa di prezioso e speciale, come il compimento
possibile di un essere umano rivela altresì che l’essere umano ha ancora, nonostante l’ideologia del
postmoderno, una certa fiducia nelle capacità della scienza: una fiducia che non va rinnegata come tale,
semmai rinnovata in forme nuove. Sta qui forse uno dei compiti affidati all’umana capacità di pensare e
di fare, quindi anche di educare, in un’epoca che voglia davvero portare a compimento la modernità,
rispondendo alle sfide e cogliendo le opportunità inedite della contemporaneità. Occupiamoci ora nel
dettaglio della prima accezione aristotelica di ragion pratica, ovvero di quella che la intende come
sinonimo di “scienza pratica”. Va detto innanzitutto che il filosofo greco distingue le scienze in
pratiche, poietiche e teoretiche; le prime hanno per oggetto l’agir bene esemplificato dall’uomo buono;
le seconde il saper fare, cioè il produrre in modo competente, di cui è modello esemplare il buon
technico; le terze concernono la contemplazione e la dimostrazione delle realtà immutabili, di cui si
occupa il sapiente. Sia l’agire, sia il fare riguardano, infatti, ciò che non rimane sempre
lo stesso, ma può sempre essere diverso da come è, ovvero il contingente: è la nostra concreta vita di
esseri umani, dove molto dipende da noi, ma molto altro non dipende da noi.La scienza pratica, ovvero
l’etica secondo il linguaggio husserliano prima utilizzato, procede con rigore, ma non può farlo con il
rigore delle scienze dimostrative che riguardano oggetti immutabili e necessari, che cioè non possono
mai essere diversi da come sono. Aristotele dice che a causa delle differenze e delle fluttuazioni che
sono proprie del suo oggetto, che appunto è la vita umana e il suo specifico bene, la scienza pratica
mostra la verità ma «per grandi linee», come facendo uno schizzo.
La scienza pratica, quindi, non può essere rigorosa al modo delle scienze esatte. Né ciò sarebbe
auspicabile. Aristotele sa bene che non in tutto si può cercare lo stesso rigore e che, per usare il suo
esempio, non sarebbe sensato cercare di misurare con una riga dritta le scanalature di una colonna. La
seconda accezione aristotelica di “ragion pratica” è quella che la intende come “saggezza”, cioè come
quella specifica virtù dianoetica che permette di realizzare di volta in volta le diverse virtù etiche: ciò
significa, avendo riconosciuto un fine buono, di ragionare e calcolare quali siano i mezzi migliori per
raggiungerlo in un contesto concreto e particolare, quindi anche quale sia il tempo più opportuno per
operare. In tal modo, nell’esercizio della saggezza si manifesta una specifica modalità di comprensione
del reale, non disponibile altrove. Ciò vale anche per gli educatori e le educatrici. Solo e soltanto loro
possono offrire una specifica e insostituibile modalità di comprensione della realtà educativa, altrimenti
non conoscibile, agli stessi pedago-gisti (che devono stare sempre in loro ascolto). Il filosofo Gadamer,
padre dell’ermeneutica contemporanea, ha esplicitamente riconosciuto il valore della saggezza –
quindi, in tal senso, l’attualità ermeneutica di Aristotele –, valorizzando la capacità del saggio di
mettere in rapportol’universale e il particolare . Ora, nell’Etica Nicomachea, è presentando le diverse
virtù dianoeti-che (scienza, sapienza, intelletto, saggezza e arte/techne), che Aristotele
spiega che l’uso teoretico della ragione (che riguarda le prime tre) ha come scopo la sola conoscenza
della verità, mentre l’uso pratico della ragione (che riguarda le altre due, ed è quello che qui ci interessa
considerare) ha come scopo l’accordo tra la verità e il desiderio, da cui scaturisce l’azione. In altri
termini, l’uomo saggio, come il bravo tecnico, e quindi anche l’educatore, è l’uomo pratico che si
impegna per cambiare le cose. Tuttavia, queste sono anche persone contemplative, perché devono avere
innanzitutto una conoscenza il cui valore sia svincolato dai contesti per agire in essi, ovvero devono
conoscere la realtà oggettivamente, nelle sue cause proprie e non solo nelle manifestazioni empiriche
che di volta in volta si presentano. Qui il compito dello studioso di pedagogia può essere meglio
illuminato da una considerazione sulla peculiarità del lavoro dell’educatore, il quale si trova dinanzi a
situazioni sempre nuove e ad alto tasso di complessità, per le quali non possono essere disponibili
indicazioni precodificate di azione. La scienza pedagogica può supportare la saggezza di chi è chiamato
a ben deliberare, a decidere e operare in situazioni che sono sempre diverse e spesso cambiano
rapidamente. Come sarà progressivamente chiarito nel corso di questa Lezione, la pedagogia
fondamentale può rendere l’educatore più capace di riflettere sul proprio vissuto, personale e
professionale, e di compiere un’ermeneutica della pratica, cioè una lettura di essa orientata al
coglimento del senso e di nuovi significati e di nuovi interventi possibili. La pedagogia fondamentale è
una ricerca di senso e di metodo. Infatti, abbiamo osservato che la finalità propria della pedagogia
fondamentale è duplice: tracciare profili essenziali dell’educare (il senso) e, a partire da questi,
direzioni per la prassi (la teoria del metodo), che siano appropriate ai mondi vitali effettivi e storici in
cui l’educazione, di fatto,ha luogo. Si tratta di una duplicità inscindibile: non si può perseguire l’una
finalità senza l’altra. Allo stesso tempo, si intuisce che, poiché il momento teoretico si compie e si
riempie di significato nel momento poietico-prassico, la pedagogia fondamentale è, in ultima istanza,
segnata da un «intrascendibile primato della ragion pratica» . Per rendere più chiara e piena
quest’ultima intuizione, cerchiamo di argomentare meglio cosa siano il momento teoretico e il
momento prassico-poietico (e il loro nesso). Poniamo che lo studioso di pedagogia fondamentale voglia
dedicare una ricerca al dialogo interculturale. Per prima cosa farà un inventario delle maggiori
questioni concernenti le migrazioni, il multiculturalismo, ecc.; si porrà in ascolto delle indagini
psicosociali che fotografano la situazione attuale e i vissuti delle persone coinvolte; utilmente farà
riferimento anche alle ormai numerose buone pratiche per la scuola inclusiva.

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