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PARTE II: Una pedagogia antirazzista

Paulo Freire: Passaggio degli oppressi


1. La concezione depositaria dell’educazione
I rapporti tra educatore e educando, in qualsiasi contesto educativo, sono fondamentalmente
rapporti narrativi e nozionistici. La narrazione della realtà è qualcosa di fermo, che tende a
fossilizzarsi, e spesso si disserta su argomenti estranei all’esperienza esistenziale degli educandi,
che vengono riempiti di contenuti decontestualizzati, di ritagli della realtà sconnessi rispetto
all’insieme da cui hanno origine. La parola, qui, più che un significato, è un suono, e si trasforma in
verbosità alienata e alienante. Infatti, i contesti educativi danno più importanza alla sonorità della
parola e non alla sua forza trasformatrice, quindi gli educandi imparano in modo meccanico e
mnemonico, senza capire di cosa stanno parlando: diventano i depositi dell’educatore, che sarà
visto tanto migliore quanto più sarà capace di riempire i suoi recipienti. In questo modo,
l’educazione diventa l’atto del depositare.
L’educatore non si comunica, bensì fa comunicati e depositi, che gli educandi imparano a memoria
e ripetono: l’unico margine di azione degli educandi è ricevere depositi, conservarli e archiviarli. A
rimanere archiviati, in realtà, sono gli uomini, che nel pratico non possono agire, questo perché
molti sistemi educativi omettono la creatività e la trasformazione. Gli individui, possedendo molte
nozioni, non potranno far altro che giudicarsi sapienti rispetto agli altri, che considereranno
ignoranti (per questi individui, l’ignoranza si troverebbe sempre nell’altro, ciò che possiamo
definire come l’alienazione dell’ignoranza). L’educatore, alienato dall’ignoranza, si mantiene in
posizioni fisse, che lo portano a reputarsi al di sopra degli educandi, la cui ignoranza è la propria
ragione di esistenza: l’educatore sarà sempre colui che sa, mentre gli educandi sempre coloro che
non sanno. Ci troviamo nella dialettica servo-padrone hegeliana: gli educandi sono consapevoli di
essere la ragione di esistenza dell’educatore, ma non arrivano a scoprirsi educatori dell’educatore,
questo perché nella concezione depositaria, non può verificarsi questo superamento, quindi
abbiamo una sorta di cultura del silenzio, una cultura oppressiva in cui l’educatore e l’educando
non avranno mai lo stesso livello di conoscenza. In questa concezione, esistono dei rapporti
verticali, quali:
L’educatore sa, gli educandi non sanno; L’educatore parla, gli educandi ascoltano docilmente;
L’educatore sceglie e prescrive la sua scelta e il programma; gli educandi seguono la sua
prescrizione e si adattano (così come devono adattarsi all’autorità); L’educatore è il soggetto del
processo, gli educandi puri oggetti.
L’educatore, che sa, narra agli educandi, che non sanno, un sapere: questo sapere non è esperienza
fatta, bensì esperienza narrata. Quanto più gli educandi diventano abili nel gestire l’archivio, tanto
meno sviluppano la loro coscienza critica, il che li porta a adattarsi (quindi ad essere plasmati) e a
perdere la loro forza trasformatrice. Questa educazione depositaria minimizza il potere creatore
degli educandi, che perdono la loro capacità critica, ciò favorisce gli oppressori, per cui non è
importante mettere a nudo il mondo e cambiarlo: gli oppressori vogliono preservare la situazione
di cui risentono i benefici, perciò reagiscono in modo istintivo contro qualunque tentativo di
educazione che stimoli veramente il pensiero. Ciò che gli oppressi si ripromettono è di trasformare
la mentalità degli oppressi, e non la situazione che li opprime, per dominarli meglio. Gli oppressi,
denominati assistiti, sarebbero la parte malata della società, che gli oppressori traggono a sé,
cambiando la loro mentalità di inetti e pigri. Gli oppressori vogliono trasformare gli emarginati,
coloro che sono al di fuori, in soggetti che sono dentro di, ma la vera soluzione non è integrarsi,
bensì cambiare la struttura che grava sugli oppressi e trasformarla per divenire esseri per sé (e non
esseri per gli altri). Gli educandi, però, possono rendersi conto dell’educazione depositaria a loro
impartita attraverso il confronto con la realtà: per esperienza esistenziale, scoprono l’inautenticità
del sistema educativo e riescono ad umanizzarsi. Potrebbe esistere anche un educatore umanista
e rivoluzionario, il cui scopo sarebbe l’umanizzazione di entrambe le parti, in questo caso,
l’educatore imparerebbe con gli educandi, e gli educandi con l’educatore. L’educatore non sarebbe
più al servizio della disumanizzazione e dell’oppressione, bensì al servizio della liberazione, in
quanto incline al dialogo.
Inoltre, la concezione depositaria comporta altri aspetti che coinvolgono la sua falsa visione degli
uomini, si concepisce quindi la coscienza come qualcosa che è negli uomini, e non gli uomini come
corpi coscienti. Quindi la coscienza stessa è vista come un contenitore, come un deposito del
mondo. Ma, se per questa concezione, la coscienza è una stanza passivamente aperta al mondo,
aspettando che esso vi penetri, l’educatore non dovrebbe far altro che sorvegliare affinché il
mondo entri negli educandi. E dal momento che tutto ciò accade passivamente, sta all’educatore
far sì che questi soggetti siano ancora più passivi, così da adeguarli al mondo. È una concezione che
beneficia solo agli oppressi, che staranno tanto più in pace quanti più soggetti educati esisteranno.
Quindi, questo metodo rende difficile un sapere autentico, in quanto l’educatore non cerca di
simpatizzare e di convivere, il che comporterebbe il dialogo, l’intercomunicazione, bensì alimenta
l’educazione depositaria. Ciò porta allo sviluppo della necrofilia: la persona necrofila ama tutto ciò
che non cresce, tutto ciò che è meccanico, per il necrofilo conta la memoria, non l’esperienza;
l’avere, non l’essere. Il necrofilo ama controllare, e controllando, uccide la vita. La stessa
oppressione, ovvero lo stesso controllo, è necrofilia. La concezione depositaria trasforma gli
educandi in quasi-oggetti, è un concetto meccanico, statico, che nasconde la sua marca necrofila.
Tutto ciò porta gli uomini a adattarsi al mondo, questo però li fa sentire frustrati, quindi cercano di
ristabilire la loro capacità di amare sottomettendosi ad un gruppo o ad una persona: l’uomo ha
l’illusione di agire, ma in realtà si sottomette soltanto e diviene una parte di coloro che agiscono.
Quindi, l’educazione come pratica di dominio pretende indottrinare gli educandi affinché si
adattino al mondo dell’oppressione.
La liberazione autentica, che consiste in un processo di umanizzazione, è una prassi che comporta
azione e riflessione degli uomini sul mondo, per trasformarlo. Proprio perché non possiamo
accettare l’idea di coscienza come contenitore, non possiamo neppure accettare che l’azione
liberatrice usi le stesse armi della dominazione: la propaganda, gli slogan e i depositi.

2. La concezione problematizzante dell’educazione e la liberazione


L’educazione non può considerare gli uomini come dei vuoti da riempire, e neanche la coscienza
come uno spazio suddiviso meccanicamente. L’educazione deve considerare gli uomini come dei
corpi coscienti, e la coscienza come coscienza in rapporto intenzionale col mondo: la coscienza
deve essere problematizzante, deve quindi rifiutare i comunicati e rendere intenzionale la
comunicazione. L’educazione liberatrice non è l’atto di depositare o di narrare conoscenze e valori
agli educandi, bensì è un atto di coscienza, in quanto l’uomo deve riflettere su se stesso, sugli altri,
e su se stesso in relazione agli altri (la coscienza è coscienza della coscienza).

3. Il superamento della contraddizione educatore/educando


L’esigenza preliminare dell’educazione problematizzante è il superamento della contraddizione
educatore/educandi. In questo tipo di educazione, tutti risultano essere dei soggetti, in particolare
dei mediatori: l’educatore è allo stesso momento educatore e educando, e viceversa. Senza questo
superamento, il rapporto dialogico non è possibile. L’antagonismo tra le due parti (concezione
depositaria e concezione problematizzante) è proprio nel rapporto dialogico: la prima nega il
dialogo, e ciò rende possibile il controllo; la seconda lo rende proprio la centralità dell’educazione.
Attraverso il dialogo si verifica il superamento, quindi, come anticipato, abbiamo l’educatore con
l’educando, e l’educando con l’educatore, dove ambedue le parti imparano e crescono
contemporaneamente, gli uomini si educano insieme attraverso la mediazione col mondo. In
questo modo, gli educandi possono fare degli atti gnoseologici, e invece di essere docili recipienti
di depositi, sono dei ricercatori critici in dialogo con l’educatore, che è un critico a sua volta.
L’educatore, quindi offre la situazione in cui si possa verificare il superamento della doxa, per
mezzo della vera conoscenza, ovvero il logos. Quindi, se l’azione depositaria comporta una specie
di anestesia, l’educazione problematizzante è riflessiva, quindi comporta la rivelazione della realtà.
Questa pratica porta gli educandi a riflettere sempre di più per trovare delle soluzioni, il che porta
all’abbandono dell’uomo-astratto, così da capire che l’uomo non vive slegato dagli altri, bensì nel
mondo. La coscienza e il mondo – dice Sartre – si svolgono contemporaneamente: il mondo è
essenzialmente esterno alla coscienza ma anche relativo ad essa. Man mano che l’uomo riflette sul
mondo, aumenta il campo della sua percezione, quindi oggetti che prima erano presenti sullo
sfondo diventano oggetti di riflessione. Ciò che prima esisteva ma non era percepito assume il
carattere di un problema, e quindi di una sfida. Detto ciò, l’educazione problematizzante diventa
uno sforzo permanente attraverso cui gli uomini capiscono criticamente come sono in divenire nel
mondo, con e in cui si trovano.
Per riassumere: la concezione depositaria è assistenziale, è asservita alla dominazione, inibisce la
creatività e nega agli uomini di crescere nella loro vocazione ontologica e storica, quindi non
possono umanizzarsi; la concezione problematizzante è critica, è a servizio della liberazione e si
basa sulla creatività, quindi stimola la riflessione e l’azione autentica dell’uomo sulla realtà:
risponde ad una vocazione all’essere, che porta l’uomo a voler cambiare il mondo.

4. L’uomo come essere inconcluso e la sua permanente ricerca di “essere di più”


La concezione e la pratica depositaria finiscono per misconoscere gli uomini come esseri storici,
mentre quella problematizzante parte esattamente dal carattere storico degli uomini, che sono
esseri in divenire, incompleti, inconclusi. A differenza degli animali, gli uomini sono consapevoli
della loro incompletezza, e da qui nasce l’educazione – come fenomeno esclusivamente umano –
per sopperire a questa mancanza. È, ovviamente, la concezione problematizzante che porta gli
uomini al cambiamento e alla non accettazione di un futuro prefabbricato, in quanto li vede come
soggetti che guardano in avanti, non come vittime dell’immobilismo della concezione depositaria.
Il punto di partenza si trova nel rapporto uomo/mondo, nel loro qui e adesso, e per progredire
autenticamente, è necessario che gli uomini vedano ciò come una sfida, non come qualcosa di
fatale e insuperabile. Questo perché la concezione problematizzante propone agli uomini la loro
situazione come un problema, mentre la concezione depositaria porta gli uomini ad avere una
percezione fatalista di una situazione. Con un’educazione problematizzante, la realtà viene
oggettivata e superata, quindi la presa di coscienza della situazione porta gli uomini a cambiare il
mondo. Questo movimento di ricerca, però, è giustificabile solo se porta all’umanizzazione degli
altri uomini, perché la ricerca dell’essere di più non può realizzarsi nell’isolamento, bensì nella
comunione: nessuno può essere con autenticità mentre impedisce che gli altri siano.
Quindi, per la concezione problematizzante, come avventura umanista e liberatrice, è importante
che gli uomini, attraverso la mediazione col mondo e con gli altri, lottino per l’emancipazione.
Superando l’intellettualismo alienante e l’autoritarismo dell’educatore, si supera anche la falsa
coscienza del mondo, che può essere cambiato dagli uomini.

Fanon: L’anno V della rivoluzione algerina


Il secondo libro di Fanon, L’an V de la révolution algérienne, ha a che vedere con una rivoluzione
avvenuta nella sua stessa vita. Nel suo lavoro precedente, Peau noire, masques blancs (scritto
come tesi di laurea), Fanon cercava di mettere a fuoco i diversi stati patologici della coscienza nera
in un mondo razzializzato e dominato dalla whiteness. Nel 1953, Fanon diventa chef de service
della sezione psichiatrica dell’ospedale militare di Blida-Joinville, in Algeria, qui abolisce la divisione
razziale tra francesi e algerini, mette fine ai trattamenti coercitivi e istituisce nuovi metodi di cura,
come le terapie di gruppo. Con la sconfitta dei francesi a Dien Bien Phu (1954), inizia la guerra di
indipendenza, in questa situazione, Fanon si trova a curare sia le vittime delle torture che i
torturatori. Nel novembre del 1954 si unisce al Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) dell’Algeria, e
concede ai nazionalisti algerini l’uso dell’ospedale di Blida per nascondere le armi. Due anni dopo,
Fanon abbandona il suo posto a Blida per aderire al FLN, che aveva stabilito a Tunisi una delle sue
basi militari. È da questa città che Fanon portò a compimento L’an V de la révolution algérienne,
che però fu sequestrato dalla polizia francese dopo la pubblicazione. In questo libro, Fanon cercava
di giustificare la rivoluzione agli occhi stessi dei francesi; in effetti, adottando un calendario
centrato sul 1° novembre 1954, Fanon proponeva un’analogia tra la Rivoluzione francese e la
Rivoluzione algerina. L’an V, nella sua prefazione censurata, si apre con una giustificazione e una
spiegazione ragionata dei metodi violenti adottati dall’FLN durante la lotta per l’indipendenza
(c’erano anche dei gruppi moderati, come il Mouvement national algérien di Messali Hadj, che
avevano cercato di negoziare un mutamento costituzionale con le autorità francesi). Dopotutto,
Fanon cercava di contrastare il dominio francese (che si considerava portatore di modernità), in un
modo non del tutto comprensibile, in quanto tutto ciò che i francesi venivano a sapere dell’Algeria
proveniva da fonti francesi. In questo contesto, si può dire che L’an V affronta la questione della
modernità coloniale e che rappresenta un tentativo di mettere a fuoco un diverso tipo di
modernità per l’Algeria; questo non era possibile, in quanto l’Algeria era dominata da
rappresentazioni stereotipiche che rafforzavano presso i diversi pubblici europei l’idea che il nativo
algerino fosse un soggetto imprigionato all’interno di una società immutabile e senza storia; per
esempio, il fotografo austriaco Rudolph Lehnert, ritraeva foto del Maghreb, raffigurato come
l’immagine eterna del passato, ovvero come una regione popolata da società tradizionali, chiuse e
capaci di conservare stili di vita ormai dimenticati dagli europei. In realtà l’Algeria, ai tempi, era più
moderna della Francia, basti pensare ai processi meccanizzati dell’agricoltura, le prime
sperimentazioni di architettura urbana moderna di Le Corbusier e la tuttora popolare Orangina,
una bibita inventata da un colono francese e prodotta negli stabilimenti di Boufarik. Ciononostante,
nei loro resoconti antropologi, i francesi continuavano a rappresentare gli algerini come estranei
alla modernità.
C’è da dire che proprio attraverso la guerra di indipendenza il popolo algerino stava contrattando
le proprie forme di modernità, che rappresentavano una sorta di rinegoziazione degli stili di vita
precedenti: è proprio attraverso una presa di coscienza che si può avere un cambiamento. Il titolo
del libro, che inizialmente doveva essere La réalité d’une nation, aveva l’intento di fare appello alla
coscienza rivoluzionaria francese direttamente attraverso il titolo, che propone una visione della
società algerina come dinamica e in continuo movimento, in contrasto con le rappresentazioni
tradizionaliste trasmesse dai sociologi coloniali francesi. In inglese, il titolo fu tradotto come A
dying colonialism, espressione che trascurava del tutto l’accento posto sulla cultura algerina.
Fanon, nelle sue critiche nei confronti dei sociologi francesi, si rivolgeva soprattutto a Bourdieu
(non in modo diretto), che si trovava in Algeria come soldato di leva per prendere parte alla
“pacificazione dei ribelli”. Lo stesso si fermò ad Algeria per condurre la sua ricerca in Kabilia e tra i
migranti berberi di Algeri. Questa regione era un luogo di interesse per gli antropologi francesi,
stupiti del fatto che molti abitanti fossero biondi. È molto probabile che Fanon si riferisse a
Bourdieu, in quanto l’anno precedente (1958) pubblicò Sociologie de l’Algérie, testo costruito su
fonti tradizioni di seconda mano e tipicamente orientaliste, in cui vi era una descrizione astratta
della società algerina. Inoltre, Bourdieu cercava di enfatizzare le diversità interne all’Algeria,
dedicando ogni capitolo ad una singola popolazione (kabili, shawia, mozabiti, etc.). Poi, in sintonia
con lo strutturalismo, ravvisa nell’Islam l’unità soggiacente. Infine, Bourdieu concentra l’attenzione
sulle discontinuità prodotte dal colonialismo sulla società indigena algerina, parlando di processi di
désagrégation sociale.
Il testo di Fanon, in contrapposizione a Bourdieu, cercava di delineare una società alternativa della
società algerina in rivolta, ovvero di mettere a fuoco una descrizione rivoluzionaria del nucleo
dinamico e mutevole del popolo algerino. Fanon critica la visione nazionalista della cultura, che
guarda all’indietro con lo scopo di recuperare il passato, cercando di ripopolare il presente. Nel
portare avanti la sua strategia, Fanon sviluppa una critica radicale della négritude, secondo cui la
mancanza di una nazione poteva essere compensata attraverso la riscoperta di una cultura. Fanon
si schiera contro la prospettiva nazionalista secondo cui la nazione diviene l’anima della cultura
comune, in quanto è la lotta per la nazione a produrre e definire la cultura: “l’esistenza della
nazione non si fonda sulla cultura, ma sulla lotta del popolo contro le forze occupanti”. Quindi la
cultura non è più un archivio/inventario del passato, bensì un processo dinamico attraverso la
nazione crea se stessa e lotta per stessa.
Per Fanon, il mutamento di una società avviene al suo interno attraverso una trasformazione
volontaria dei comportamenti e delle pratiche sociali. Gli eventi raccontati da Fanon ci mostrano
che il popolo algerino respinge la modernità francese in un primo momento, per poi tradurla in
qualcosa di diverso, tipico del popolo algerino: è questa forza a produrre la nuova cultura
nazionale.
Fanon: L’Algeria si svela (1959)
L’aspetto esteriore, il vestiario e l’abbigliamento sono i caratteri più evidenti di una società, in
quanto sono immediatamente percettibili. È tramite il vestiario che i vari tipi di società sono
riconosciute, attraverso i reportage, i documenti fotografici e le pellicole cinematografiche; ci sono,
quindi, civiltà senza cravatta, altre senza capelli e così via. L’appartenenza ad una determinata area
culturale è spesso indicata dalle tradizioni d’abbigliamento dei suoi membri, nel mondo arabo, il
turista nota subito la donna col velo, che finisce per definire tanto la società algerina quanto la sua
componente femminile: la donna algerina finisce per essere colei che si nasconde dietro il velo. Il
velo sarà la posta in gioco di una battaglia campale per la quale le forze di occupazione
mobiliteranno tutte e migliori risorse e il colonizzato svilupperà una stupefacente resistenza.
La società araba è stata spesso presentata dagli occidentali come una società dell’esteriorità, del
formalismo e del personaggio. La donna algerina pare assumere allora un’importanza
fondamentale: dietro il patriarcato visibile, viene affermata l’esistenza, più profonda, di un
matriarcato. Le funzioni delle donne, della mamma, della nonna, sono ben catalogate e precisate.
L’amministrazione coloniale può così definire una precisa dottrina politica: “se vogliamo colpire la
società algerina nelle sue capacità di resistenza, dobbiamo conquistare le donne, dobbiamo
andarle a cercare dietro il velo con cui si nascondono e nelle case in cui l’uomo le rinchiude”.
L’amministrazione vuol difendere la donna umiliata, tenuta in condizione di clausura; si descrivono
le potenzialità delle donne, trasformate dall’uomo algerino in un oggetto. Il comportamento
dell’uomo algerino viene quindi paragonato a quello di un barbaro. Intorno alla vita familiare
dell’algerino, l’occupante raccoglie un complesso di giudizi, considerazioni e moltiplica gli aneddoti
e gli esempi edificanti, tentando di tracciare intorno all’algerino un recinto di colpevolezza.
Moltiplicando le organizzazioni di soccorso per le donne e raccogliendo le denunce, si vuole che
l’algerino si vergogni della sorte che riserva alla donna.
Si comincia, dapprima, con l’assedio delle donne indigene affamate: ad ogni chilo di semola
distribuito corrisponde una dosa di indignazione contro il velo e la clausura. Dopo l’indignazione, i
consigli pratici: le donne algerine vengono spinte a rifiutare una soggezione secolare e viene
descritta loro la funzione che potranno esercitare in un futuro. Dopo aver stabilito che la donna è il
perno della società algerina, si fa ogni sforzo per assicurarsene il controllo. L’algerino non si
smuoverà, resisterà all’opera di distruzione culturale svolta dall’occupante. Nel programma
colonialista, tocca alla donna la missione storica di scuotere l’uomo algerino. Conquistarla,
convertirla ai valori stranieri, strapparla alla sua condizione significa impadronirsi di un potere reale
sull’uomo e possedere i mezzi pratici per minare la struttura della cultura algerina. Vi era, quindi, il
sogno di un asservimento totale della società algerina, tramite l’aiuto di donne senza velo, complici
dell’occupante.
Gli uomini algerini, invece, sono oggetto di critiche degli europei e dei loro padroni. Spesso gli si
chiede se sua moglie sia velata o di portarla con sé in diversi eventi. Portare la propria donna con
sé, significherebbe prostituirla, esibirla, abbandonare un metodo di resistenza; andarci da solo
significherebbe opporsi al padrone, che ha posto l’invito, e rischiare la disoccupazione. A livello
psicologico, ciò indica la tragedia della situazione coloniale (“mia moglie è velata, non uscirà” vs.
“dato che volete vederla, eccola”).
Con l’intellettuale algerino, l’aggressività appare in tutta la sua evidenza. Se il fellah, lo schiavo
passivo di un gruppo rigido, gode di una certa indulgenza da parte del conquistatore, l’avvocato e il
medico sono denunciati con più vigore. Di fronte all’intellettuale algerino, i ragionamenti razzisti
emergono con più facilità (es. “per quanto medico, è pur sempre un arabo”). Gli si rimprovera
quindi di limitare l’estensione delle abitudini occidentali acquisite, di non esercitare un ruolo nel
rovesciamento della società colonizzata, di privare la moglie dei privilegi di una vita più degna.
Presentando l’algerino come la preda di una disputa egualmente feroce tra l’Islam e la Francia
occidentale, si svelano l’atteggiamento del colonizzatore, la sua filosofia e la sua politica:
l’occupante, insoddisfatto dei suoi insuccessi, presenta in modo semplicistico e peggiorativo il
sistema di valori con cui il dominato si oppone alle sue innumerevoli offensive. La volontà di essere
se stessi e la preoccupazione di mantenere intatti alcuni frammenti di esistenza nazionale vengono
assimilati a pratiche religiose, magiche, fanatiche. Questi fenomeni di resistenza osservati presso il
colonizzato devono essere riferiti ad un atteggiamento di contro-assimilazione, di conservazione
della propria originalità culturale e quindi nazionale.
La forze di occupazione, concentrando sul velo della donna algerina il massimo della loro azione
psicologica, dovevano finire con l’ottenere qualche risultato. Nel vedere una donna dal viso nudo e
dal corpo libera, gli europei si sentono sovreccitati per la vittoria e sentono, attorno a queste
donne, un’atmosfera di iniziazione. I responsabili del potere, dopo ogni successo ottenuto,
rafforzano la loro fede nella donna algerina, concepita come sostegno alla penetrazione
occidentale nella società autoctona. Ogni velo tolto corrisponde a nuovi orizzonti accessibili ai
colonialisti, ogni nuova donna algerina senza velo annuncia all’occupante una società algerina dao
sistemi in via di disfacimento. Così, l’Algeria comincia a rinnegare se stessa e accettare la violenza
del colonizzatore.
In un europeo estraneo alla questione, ci sono due reazioni: la prima, fortemente tinta di
sensualità, la seconda, di aggressività. Per l’europeo, innanzitutto, il velo nasconde la bellezza, una
testimonianza afferma che gli uomini sono colpevoli di coprire tali bellezze e che dovrebbe essere
obbligato ad esporle. Un qualsiasi frammento di visto intravisto suscita nell’europeo un unico
pensiero: la donna algerina è la regina di tutte le donne. Ma allo stesso tempo, l’europeo manifesta
una certa rabbia, perché togliere il velo significherebbe mettere in mostra il segreto e la bellezza.
L’europeo vorrebbe possedere questa donna, che però non si offre, non si dà, provocando
frustrazione nel colonizzatore; l’algerino, invece, non vede proprio la donna, non c’è la stessa
curiosità. Quindi gli uomini europei non impegnati direttamente in quest’opera di conversione,
invece, si lasciano andare ad esotiche fantasie erotiche. Il velo, innanzitutto, nasconde la bellezza,
quindi strapparglielo significa svelarla, renderla disponibile all’avventura, a diventare un eventuale
oggetto di possesso. Il fatto che la donna algerina non si offra frustra il colonizzatore. Mentre
l’uomo algerino semplicemente non vede e non bada alle donne, l’uomo europeo vuole vedere e
reagisce in modo aggressivo. Lo stupro della donna algerina, nel sogno di un europeo, è sempre
preceduto dalla lacerazione del velo. Con ella non c’è una conquista progressiva, ma subito un
possesso violento. La stessa aggressività si riscontra nelle considerazioni sulla sua moralità: più si
mostra timida e riservata, più sarà ipocrita, perversa o addirittura ninfomane. Di fronte a questa
violenza, il colonizzato assume una posizione di principio: “è il bianco che crea il negro, ma è il
negro che crea la negritudine”. In pratica, all’offensiva colonialista nei confronti del velo, il
colonizzato oppone il culto del velo. Così, l’atteggiamento della donna algerina rispetto al suo velo
cessa di essere un elemento indifferenziato, per venire costantemente collegato al suo
atteggiamento globale di fronte all’occupazione straniera. Così, l’atteggiamento della donna
algerina rispetto al suo velo cessa di essere un elemento indifferenziato, per venire costantemente
collegato al suo atteggiamento globale di fronte all’occupazione straniera. L’atteggiamento della
donna e della società algerine nei confronti del velo, evidenzia Fanon, subiranno nel corso della
lotta importanti cambiamenti. Fino al 1955 la battaglia è stata portata avanti esclusivamente dagli
uomini, ma l’adattamento del nemico alle forme di combattimento ha portato, come in ogni
processo rivoluzionario, alla ricerca di soluzioni originali. La decisione di impiegare anche le donne
non è stata semplice, poiché andava armonizzata con le caratteristiche della guerra rivoluzionaria:
la donna doveva rispondere con uno spirito di sacrificio pari a quello degli uomini. La tenacia
dell’occupante aveva portato a un rafforzamento delle pratiche tradizionali, cosa positiva per la
strategia di resistenza, ma con alcuni effetti negativi sulla donna, che non era più disinvolta e
sicura. Inoltre, tutti i combattenti che erano passati per le carceri non ignoravano il fatto che
qualunque algerina arrestata sarebbe stata torturata fino alla morte. La decisione venne presa
dopo una serie di discussioni, soprattutto di fronte all’urgenza dei problemi quotidiani posti dalla
rivoluzione. Così, cominciò ad essere affidata loro la mansione di portare messaggi, ordini verbali
complessi imparati a memoria, o di fare le sentinelle davanti alle case dove si tenevano gli incontri
tra i responsabili. In questi casi, dovevano evitare di stare ferme sul posto per non destare sospetti,
e quindi, svelate, fingevano di spesso essere delle prostitute. A dispetto delle difficoltà soggettive e
dell’incomprensione a volte violenta di parte della famiglia, la donna algerina si fece carico di tutti i
compiti che le venivano affidati. Quando i responsabili cominciarono ad essere noti e quindi
ricercati dalla polizia, affidavano le loro armi (mitragliatrici, bombe, rivoltelle) alle donne. Così, due
o tre uomini dall’aspetto tranquillo procedevano seguiti da una ragazza, a 100 metri di distanza,
con una valigia in mano. Dal 1956, i massacri dei civili algerini portò la direzione della rivoluzione
ad adottare forme di lotta fino ad allora scartate. A frenare la decisione di praticare il terrorismo
c’era la preoccupazione di non accumulare vittime innocenti, di non dare una falsa immagine della
rivoluzione e di tenere dalla propria parte i democratici francesi e in generale stranieri, nonché gli
europei presenti in Algeria che simpatizzavano per la lotta. Allo stesso tempo, però, si faceva strada
la convinzione che fosse fondamentale colpire individualmente l’avversario. I primi a essere presi di
mira furono i poliziotti e i luoghi di ritrovo dei colonialisti. Da questo momento le donne algerine,
trasformate radicalmente in europee per confondersi nell’ambiente, svolsero il ruolo di portare
nella borsa le bombe e le rivoltelle che il fidai avrebbero preso all’ultimo minuto. Trasportando
rivoltelle, bombe a mano e carte di identità false, la donna algerina svelata fingeva di essere
un’occidentale evitando ogni goffaggine e allo stesso tempo ogni esagerazione. Entrando “nuda”
nella città europea, imparava di nuovo l’uso del proprio del corpo, ridefinendolo in modo
totalmente rivoluzionario. Il velo, dunque, continuamente tolto e rimesso, venne strumentalizzato.
Anche le algerine non attive nella lotta progressivamente lo abbandonarono. Tuttavia, dal 1957
l’haik rifece la sua comparsa. L’occupante, poiché alcune militanti avevano parlato sotto tortura,
ormai sapevano che le donne dall’aspetto molto europeo avevano un ruolo fondamentale nella
battaglia, così come gli europei. Le pattuglie francesi cominciarono quindi a controllare chiunque,
europei ed algerini insieme. In queste condizioni, in cui chiunque poteva chiedere conto a
chiunque della natura di un bagaglio trasportato, diventava fondamentale nascondere i pacchi
sotto l’haik. Il corpo dell’algerina, in un primo momento spogliato, si rigonfiava. Portando le bombe
legate al corpo con tutto un sistema di corde e cinghie per mostrare le mani libere, le donne
dovevano ritornare ad avere una “faccia da Fatma” per rassicurare i soldati. Se prima le donne
svelate erano sospette, ora lo ridiventano quelle velate. I francesi, nel frattempo, non rinunciavano
alle solite campagne di occidentalizzazione della donna algerina. Di fronte alle domestiche
minacciate di essere licenziate e alle prostitute condotte alla pubblica piazza per essere
simbolicamente svelate, le donne algerine ripresero l’haik per dimostrare che non si liberavano per
sollecitazione della Francia. Il velo venne dunque ripreso, ma ormai del tutto spogliato dalla sua
dimensione esclusivamente tradizionale. Fanon, dunque, conclude che c’è un dinamismo storico
del velo. Non ci si vela solo per tradizione, ma anche perché l’occupante vuole strappare il velo
all’Algeria. La sua presenza o meno viene influenzata dalle esigenze della lotta, che suscitano
sempre nuovi atteggiamenti e nuovi comportamenti.

Ngugi Wa Thiong’o: La lingua della letteratura africana (1981)


Ngugi wa Thiong’o, battezzato James Thiong’o, è uno scrittore, poeta e drammaturgo keniota che
ha scritto sia in lingua inglese che in lingua gikuyu. Nato nel 1938, ha vissuto sia la rivolta dei Mau
Mau (1952-60) contro la dominazione britannica, sia la dichiarazione di indipendenza nel 1963.
Quando era docente di letteratura inglese presso l’università di Nairobi, partecipò ad una protesta
che mirava a liberare l’ambiente scolastico e universitario dal dominio culturale inglese. In quegli
anni, scrisse anche la sceneggiatura di uno spettacolo fortemente polemico nei confronti della vita
quotidiana nel Kenya indipendente, “Ngaahika Ndeenda” (“Mi sposerò quando lo voglio io”). La
rappresentazione non fu vista di buon occhio dalle autorità, tanto da portare all’arresto dello
scrittore. Negli anni trascorsi in carcere (1977-78), scrisse il primo romanzo moderno in lingua
gikuyu, tradotto in inglese come “Devil on the cross”. Esso racconta le vicende di una donna
arrivata a Nairobi dalla campagna e costretta a sottoporsi a un sistema di sfruttamento per
sopravvivere. Più entra a far parte del sistema malato su cui si basa l’economia cittadina, più si
accorge che le regole del gioco rientrano in una dinamica più ampia e globale: il capitalismo. Dopo
il rilascio, con il divieto di insegnare, Thiong’o continuò a scrivere le sue opinioni sul governo
kenyota al tempo della dittatura Moi, assicurandosi un posto tra gli individui più sgraditi al regime.
Infatti, si trovò costretto ad emigrare con la sua famiglia prima in Gran Bretagna e poi negli USA.
Fece ritorno nel suo Paese soltanto nel 2002 con la fine della dittatura Moi, ma al suo arrivo fu
attaccato da quattro uomini armati. Così ritornò negli USA, dove tuttora vive. È durante gli anni di
esilio che scrisse “Decolonizzare la mente. La politica della lingua nella letteratura” (1986), una
raccolta di quattro saggi sulla letteratura, la storia e la cultura dell’Africa come continente ed ex-
colonia. L’idea di base è che la lingua e la cultura siano due fenomeni strettamente legati e
interdipendenti, entrambi impegnati nella costruzione di identità individuali e collettive. La
colonizzazione, con tutte le sue implicazioni linguistiche e culturali, ha soffocato le tradizioni
africane, imponendo un dominio linguistico e culturale occidentale. All’inizio del primo capitolo,
“La lingua della letteratura africana”, Thiong’o premette che non si può trattare il tema della lingua
della letteratura africana se non nel contesto delle forze sociali che l’hanno reso una questione su
cui è necessario fermarsi a riflettere. Da un lato c’è l’imperialismo, che continua a controllare
l’economia, la politica e le culture dell’Africa; dall’altro le lotte incessanti dei popoli africani per
liberare la propria economia, politica e cultura dal giogo occidentale, in modo da intraprendere
una nuova era di autodeterminazione e autoregolazione. La scelta della lingua è cruciale per la
definizione che un popolo si dà in relazione al mondo, ed è quindi al centro di questa contesta. Nel
1884 le grandi potenze europee si riunirono a Berlino e smembrarono l’Africa in diverse colonie
ignorando la molteplicità di popoli, culture e lingue che le abitavano. La divisione allora tracciata e
ancora vigente era politica ed economica, ma ebbe anche una valenza culturale, poiché l’Africa fu
divisa nelle diverse lingue delle potenze europee. Le colonie, oggi neocolonie, sono state definite e
si definiscono ancora secondo i termini delle lingue europee: Paesi africani di lingua inglese, di
lingua francese, di lingua portoghese. Nei dibattiti sulla letteratura africana, spesso non si parla del
dominio delle lingue e delle culture africane da parte di quelle dell’Europa imperialista, ma
piuttosto del contenuto, delle origini etniche e della residenza geografica degli autori. Tutta la
questione della lingua come fattore determinante del pubblico nazionale e di classe non figura; si
dà per scontato che l’inglese, il francese o il portoghese fossero le lingue naturali della mediazione
letteraria tra gli africani. In certi casi, a queste lingue europee si attribuisce addirittura la capacità di
unire i popoli africani a dispetto delle tendenze frazioniste relative alla molteplicità di lingue
africane all’interno di una stessa nazione. Questo perché negli anni della conquista alla violenza
fisica sul campo di battaglia seguì la violenza psicologica nell’aula scolastica: “Il cannone domina i
corpi, la scuola incanta le anime. (..) Le pallottole sono state il mezzo dell’assoggettamento fisico.
La lingua è stata lo strumento dell’assoggettamento spirituale”. Per illustrare al meglio questo
punto, Thiong’o attinge alla sua stessa educazione. Nato in una grande famiglia contadina, Thiong’o
ricorda che la lingua parlata fuori e dentro casa quando era bambino era il gikuyu. Quando
cominciò ad andare a scuola, la lingua di istruzione era ancora il gikuyu, ma dopo la dichiarazione
dello stato di emergenza in Kenya nel 1952, il regime coloniale assunse il controllo di tutte le scuole
gestite dai nazionalisti e le pose alle dipendenze dei distretti per l’educazione gestiti dagli inglesi.
L’inglese divenne la lingua dell’istruzione formale e se qualcuno veniva sorpreso a parlare gikuyu
nelle vicinanze della scuola veniva sottoposto a una punizione corporale (da 3 a 5 colpi di bastone
sulle natiche nude) o costretto ad andare in giro con una tavoletta appesa al collo con scritto “Sono
uno stupido” o “Sono un asino”. L’inglese, praticamente, divenne l’unità di misura dell’intelligenza
e dell’abilità nelle varie branche del sapere. Se qualcuno aveva risultati brillanti ma non sapeva
l’inglese, veniva bocciato. Viceversa, chi aveva voti anche mediocri ma buoni risultati in inglese
poteva accedere all’élite coloniale. Per capire le conseguenze di tutto ciò, dice Thiong’o, bisogna
comprendere il rapporto tra “la lingua e l’esperienza umana, la cultura umana e l’umana
percezione della realtà”. Innanzitutto, la lingua è al tempo stesso un mezzo di comunicazione e un
vettore di cultura. L’inglese, ad esempio, si parla sia nel Regno Unito che in Svezia, ma mentre per
gli svedesi è solo uno strumento per comunicare con i nonsvedesi, per i britannici è anche un
vettore della loro cultura e della loro storia. Questi due elementi sono interconnessi: la
comunicazione veicola la cultura e la cultura veicola l’intero corpus di valori attraverso i quali
percepiamo noi stessi e il mondo. La lingua come mezzo di comunicazione presenta tre aspetti:
• quello che Karl Marx chiamava “il linguaggio della vita reale”, ossia i rapporti che le persone
stabiliscono tra loro nell’agire (una comunità umana comincia davvero “il suo essere storico” come
comunità di cooperazione nella produzione attraverso la suddivisione del lavoro; la cooperazione è
comunicazione, e quindi è lingua in quanto espressione di un rapporto tra esseri umani)
• la lingua parlata, che imita il linguaggio della vita reale (il linguaggio come sistema di segni
verbali rende possibile la produzione dei mezzi di sostentamento: “la parola sta ai rapporti tra
esseri umani come la mano sta ai rapporti tra esseri umani e natura”)
• la lingua scritta, che imita la lingua parlata. Nelle società in cui lingua parlata e lingua scritta sono
la stessa cosa e quindi si rappresentano a vicenda, c’è grande armonia tra questi tre aspetti. La
lingua come comunicazione è la base per la lingua come vettore culturale. I valori che vengono
accumulati nel tempo diventano le basi sulle quali si fonda la concezione di ciò che è giusto o
sbagliato, e quindi ciò che distingue una modalità di vita dalle altre. In altre parole, si sviluppa così
una cultura specifica e una storia. I valori, che sono le fondamenta dell’identità di un popolo, sono
portati dalla lingua: la lingua come cultura è quindi “la banca della memoria collettiva
dell’esperienza di un popolo”. Essa ha tre caratteristiche essenziali:
• è un prodotto della storia e a sua volta la riflette, nel senso che è un prodotto e un riflesso degli
esseri umani che comunicano tra loro nella lotta per la produzione e il controllo della ricchezza;
• media “tra me e me stesso, tra la mia identità e le altre identità, tra me e la natura”, nel senso
che produce immagini che possono corrispondere o meno alla realtà;
• trasmette le immagini del mondo e della realtà attraverso una specifica lingua parlata e scritta (la
capacità di parlare è universale, ma la particolarità dei suoni, delle parole e l’uso specifico del loro
ordine è ciò che distingue una cultura dall’altra).
Lo scopo del colonialismo era controllare la ricchezza, quindi ciò che la gente produceva, come lo
produceva e come veniva distribuito. E dato che il controllo politico ed economico non è mai totale
ed efficace senza il controllo della mente, controllare la cultura dei popoli era essenziale per
controllare i loro strumenti di autodefinizione in rapporto agli altri. Così, il colonialismo distrusse o
svalutò deliberatamente la cultura di un popolo, la sua arte, la religione, la storia, la geografia e
l’istruzione per glorificare sistematicamente la cultura e la lingua del colonizzatore. Imporre una
lingua straniera e sopprimere gli idiomi indigeni significava spezzare l’armonia tra i tre aspetti della
lingua come mezzo di comunicazione: la nuova lingua era infatti il prodotto del “linguaggio della
vita reale” di un altro luogo, e quindi non rifletteva la vita reale della comunità. La lingua scritta
della scuola cominciò a essere separata dalla lingua parlata a casa. Il fatto che non ci fosse la
minima relazione tra il mondo scritto del bambino e il mondo del suo ambiente familiare creò
quella che Thiong’o chiama “alienazione coloniale”: la dissociazione della sensibilità del bambino
dal suo ambiente naturale e sociale. Ciò è ancora più evidente se si considera la lingua come
vettore di cultura, poiché il bambino coloniale fu costretto a vedere il mondo e il proprio posto in
esso come lo vedeva e lo rifletteva la cultura della lingua imposta. Dal punto di vista
dell’alienazione, cioè del guardarsi da fuori, non importava la “qualità” della letteratura importata,
ma il fatto che lo spazio della grande tradizione umanistica era necessariamente l’Europa, la sua
storia e la sua cultura. Quando il bambino coloniale si trovava a contatto con immagini del suo
mondo, vedeva la sua lingua nativa associata a uno status di inferiorità, umiliazioni, stupidità,
ignoranza e barbarie. Si pensi ai pronunciamenti dei giganti del pensiero politico e intellettuale
occidentale, come Hume (“il negro è naturalmente inferiore ai bianchi”), Thomas Jefferson (“i neri
sono inferiori ai bianchi nella dotazione del corpo e della mente) e Hegel, che vedeva l’Africa come
un territorio incapace di sviluppare una sua storia consapevole. La posizione inattaccabile che le
lingue straniere assunsero dopo anni di educazione selettiva e di controllo rigoroso segnò il trionfo
del sistema di dominio colonialista, poiché i colonizzati cominciarono a decantarne le virtù. Si
formò una letteratura unica di racconti, poesie, romanzi e testi teatrali scritti da africani nelle
lingue europee che presto si consolidò in una tradizione, con i suoi studi saggistici e la sua industria
accademica. Sin dal suo concepimento, si trattava della letteratura della piccola borghesia
proveniente dalle scuole e dalle università coloniale. Essa era una classe consistente, con diverse
tendenze interne: c’era chi ambiva a un’alleanza permanente con il capitalismo, in cui la piccola
borghesia avrebbe fatto da intermediario tra la borghesia metropolitana occidentale e gli abitanti
delle colonie (la “borghesia compradora”), e chi vedeva il futuro nei termini di un’economia
nazionale indipendente all’interno del capitalismo africano o di qualche forma di socialismo (la
“borghesia nazionalistica”). La letteratura africana nelle lingue europee rispecchiava quest’ultima
borghesia. Nel mondo post-bellico della decolonizzazione, questa letteratura si collocava all’interno
della grande sollevazione antimperialista in Asia, Africa, America Latina e Caraibi ed era permeata
da grande ottimismo. Ma quando la borghesia compradora assunse il predominio politico e
rafforzò i propri legami economici con l’imperialismo in quello che era chiaramente un
compromesso neocoloniale, questa letteratura si fece sempre più critica e disillusa. Essa cominciò a
cercare un altro pubblico, quello degli operai, dei contadini e di chi in generale era considerato
come appartenente al popolo. Questa ricerca di un nuovo pubblico si rifletteva nell’adozione di
forme più semplici e nei contenuti: non si descriveva più l’Africa come una massa nera
storicamente maltrattata, ma si azzardava a una qualche forma di analisi di classe e di valutazione
delle società neocoloniali. Ma questa ricerca avveniva ancora all’interno dei confini delle lingue
europee, e quindi il suo movimento verso il popolo appariva comunque limitato a quel segmento
della piccola borghesia ancora in contatto con la gente, come gli studenti e gli insegnanti. In
letteratura come in politica, la piccola borghesia parlava come se la propria identità coincidesse
con quella della società nel suo complesso, e alla letteratura da essa prodotta in lingue europee
veniva attribuita un’identità di letteratura africana, come se non ci fosse mai stata una letteratura
nelle lingue africane. Questa letteratura creava in modo falso una classe contadina e operaia
africana di lingua inglese, francese o portoghese che di fatto esisteva solo i testi. Ad ogni modo, le
lingue africane non morirono, ma furono tenute in vita dai contadini, che continuarono a parlare le
loro madrelingue senza che ciò lacerasse gli Stati multinazionali sorti lungo le frontiere tracciate a
Berlino. Durante la lotta anticoloniale, essi si unirono intorno ai leader o ai partiti che articolassero
meglio una posizione antimperialista, mentre fu proprio la piccola borghesia, e in particolare quella
compradora, con il suo inglese, francese o portoghese, a incoraggiare le divisioni verticali fino a far
scoppiare dei conflitti. *Compradora viene dal portoghese comprador, termine usato per indicare il
servo nativo impiegato per la cura della casa. Di fatto, quando contadini e operai furono costretti
ad adottare la lingua del padrone, la africanizzarono creando nuove lingue africane come il krio in
Sierra Leone o il pidgin in Nigeria e creando nuove parole ed espressioni che incorporassero i nuovi
avvenimenti in Africa e nel mondo. Questi contadini e questi operai attirarono alla loro causa una
serie di intellettuali della piccola borghesia che ridiedero una lingua scritta alle lingue africane,
come Gakaara wa Wanjau, incarcerato dai britannici per i suoi scritti in gikuyu. Il punto, dice
Thiong’o, è sempre lo stesso: a che serve denunciare il rapporto economico e politico di stampo
coloniale che l’Africa ha con l’Europa e con gli USA, se poi si continua a scrivere nelle loro lingue a
dar loro omaggio? Così non si mantiene sul piano culturale quello spirito neocoloniale servile? Che
differenza c’è tra un politico che dice che l’Africa non può fare a meno dell’imperialismo e uno
scrittore che dice che l’Africa non può fare a meno delle lingue europee? La realtà è stata
capovolta: ciò che è normale viene considerato anormale e viceversa. In effetti, “l’Africa arricchisce
l’Europa, ma le si fa credere di aver bisogno che l’Europa la salvi dalla miseria. Le risorse naturali e
umane dell’Africa continuano ad alimentare lo sviluppo europeo e americano, ma l’Africa viene
costretta a sentirsi grata per l’aiuto proveniente da coloro che la sfruttano”. Per Thiong’o, scrivere
in gikuyu è parte integrante delle lotte antimperialiste dei popoli del Kenya e dell’Africa. Il suo
scopo è quello di dare un contributo per superare l’alienazione culturale, cioè la presa di distanza
dalla realtà circostante per identificarsi con quanto vi è di più lontano dal proprio ambiente. La
scelta di scrivere nelle lingue africane, per essere parte integrante della lotta, deve anche servire a
veicolare la lotta antimperialista dei popoli africani per liberare le forze produttive dal controllo
straniero, a richiamare all’unità lavoratori e contadini di tutte le nazionalità per il controllo delle
risorse che producono. Gli scrittori nelle lingue africane, conclude, dovrebbero quindi riconnettersi
alle tradizioni rivoluzionarie di una classe operaia e contadina per creare un più elevato sistema di
democrazia e di socialismo in accordo con gli altri popoli del mondo. **Il lavoro di Ngugi si
contrappone, ad esempio, a quello di Chinua Achebe, autore del famoso “Things fall apart”
(tradotto “Il crollo”, 1958). Achebe infatti scrisse in inglese, pretendendo di proporre un inglese
“nuovo”, adattato al contesto africano. Ma anche se questa posizione sembra progressista perché
ha a che fare con l’ibridazione, impoverisce le lingue africane e arricchisce l’inglese, dandogli
inflessioni “esotiche” che pagano molto sul mercato. Per Ngugi lingua, nome e religione erano
elementi coloniali di cui bisognava liberarsi (nel suo caso l’inglese, il nome James e la religione
cristiana). Inoltre, africano che scrive in lingua europea non si rivolgeva alle masse. Non scriveva
per il popolo, ma per le classi medie istruite. Un limite dell’approccio di Ngugi è forse quello di
essere troppo determinista. Egli afferma che la lingua è il prodotto di un’attività sociale, culturale e
locale che le dà forma. In realtà, il linguaggio (inteso come dare un nome alle cose) non risponde a
qualcosa di materialmente visibile, ma dipende anche un po’ dall’arbitrio. È incastonato nella
cultura, ma non è determinato materialmente. Questo determinismo sul linguaggio proviene da
una vecchia teoria marxista che infatti è stata molto criticata dalle prospettive più sofisticate della
teoria del linguaggio. Ad ogni modo, qualcosa rimane: ogni forma di vita è un modo di
riproduzione dell’umano, e quindi della sua cultura.

Kendi: Come essere antirazzista


CAPITOLO 1: Definizioni
Questo testo si apre con l’esibizione dei Soul Liberation all’università di Illinois, esibizione in cui
portarono dei dashiki (abito tipico dell’Africa Occidentale) e delle capigliature afro. Gli studenti
neri erano riusciti a convincere la InterVarsity Christian Fellowship, il principale ente universitario
promotore di eventi del movimento evangelico americano, a dedicare la seconda serata del
convegno alla teologia nera. Tra gli studenti presenti nel pubblico, erano presenti i (futuri) genitori
dell’autore. Non erano seduti vicini, giorni prima avevano viaggiato sullo stesso autobus per parte
dell’America per arrivare nell’Illinois centrale. I due si erano incrociati brevemente qualche
settimana prima ad un evento organizzato da uno studente di economia, Larry, per reclutare
partecipanti a Urbana ’70 nella sua chiesa a Jamaica, nel Queens. Carol (la madre) e Larry (il padre)
si erano scambiati solo qualche parola. Decisero poi indipendentemente di tornare a Urbana ’70
dopo aver saputo che Tom Skinner avrebbe tenuto un sermone e che si sarebbero esibiti i Soul
Liberation. A 28 anni, Skinner, figlio di un predicatore battista, stava acquisendo popolarità come
giovane evangelizzatore della teologia nera della liberazione; attraverso giri di conferenze e la sua
trasmissione settimanale, Skinner raggiungeva migliaia di persone grazie ai suoi sermoni, aveva
inoltre pubblicato, nel 1970, il suo terzo e quarto libro: How Black is the Gospel? e Words of
Revolution.
Larry, nella primavera del 1970, si era iscritto a The Black Aesthetic, un corso tenuto dallo studioso
di letteratura Addison Gayle Jr. al Baruch College. Qui, Larry lesse diversi libri che lo portarono a
ritrovare la sua consapevolezza nera, come La prossima volta il fuoco, Paura e Il negro seduto
accanto alla porta. I Soul Liberation si erano lanciati nel loro popolarissimo inno Power to the
people, portando tutti a cantare al suono del black power. Quando la musica cessò, fu il momento
di Tom Skinner, qui dà una visione di Gesù, visto come un rivoluzionario radicale, e del Vangelo,
che mette in discussione: se il Vangelo non parla di schiavitù, di ingiustizia e di disuguaglianza, e
non aiuta le persone povere e bisognose in nome di Dio, allora non è un Vangelo. Gesù, ai suoi
tempi, voleva rivoluzionare il sistema della pax romana, quindi i romani hanno imprigionato questo
rivoluzionario e l’hanno inchiodato ad una croce, ma dopo tre giorni, Gesù è risorto per
annunciare la liberazione dei prigionieri e la vista ai ciechi, e andò nel mondo a dire a coloro che
erano oppressi mentalmente, spiritualmente e fisicamente “È giunto il liberatore”. Quest’ultima
frase smosse l’animo degli studenti, accettando l’onere di quel nuovo vangelo: erano giunti i
liberatori.
I genitori dell’autore, colpiti da tutto ciò, abbandonarono la loro vecchia chiesa razzista e
conservatrice, per unirsi alla chiesa non ecclesiastica del movimento del Black Power, così
trovarono la salvezza nella teologia nera della liberazione. Questo movimento nacque ai tempi di
Malcom X, Fannie Lou Hamer, Stokely Carmichael e altri antirazzisti che avevano fronteggiato
segregazionismi e assimilazioni degli anni ’50 e ’60; grazie a questo ciò, la solidarietà nera,
l’orgoglio culturale nero e l’autodeterminazione economica e politica nera avevano rapito l’intero
mondo dei neri.
Nella primavera del 1971, Carol tornò al Nyack College, dove contribuì a creare un sindacato di
studenti di colore, un’organizzazione che sfidava la teologia razzista. Cominciò anche ad indossare
abiti in stile etnico e a portare una capigliatura afro. Il suo sogno era di andare nella madrepatria
come missionaria. Larry, invece, dopo aver lasciato la chiesa, cominciò ad organizzare incontri che
ponevano degli interrogativi provocatori, come “Il cristianesimo è la religione dell’uomo bianco?”.
Importante fu anche l’influenza di James Cone, padre intellettuale della teologia nera della
liberazione, autore di Teologia nera della liberazione e Black Power (1969). Larry, nel 1971,
partecipò ad una lezione dello stesso Cone sul suo nuovo libro A Black Theology of Liberation.
Dopo la lezione, Larry gli chiese cose fosse per lui un cristiano, Cone rispose che un cristiano è
colui che lotta per la liberazione. Questa definizione, che fu un momento rivelatore nella vita dei
genitori dell’autore, delineava un cristianesimo degli schiavi, non degli schiavisti. Questa
rivelazione trasformò i due, tanto da influenzare i loro due figli non ancora nati: il percorso
antirazzista dell’autore consisteva, innanzitutto, del definire chi e cosa vogliamo essere tramite un
linguaggio coerente: essere antirazzista significa stabilire definizioni chiare di
razzismo/antirazzismo, politiche razziste/antirazziste, idee razziste/antirazziste, persone
razziste/antirazziste. Per definire ciò, è importante spiegare cos’è la disuguaglianza razziale, ovvero
quando due o più gruppi razziali non si trovano neanche approssimativamente sullo stesso piano;
per esempio, nel 2014, il 71% delle famiglie bianche viveva in case di proprietà, rispetto al 45% di
famiglie ispaniche e al 41% di famiglie nere. Ci sarebbe stata uguaglianza razziale se le percentuali
fossero state relativamente eque.
Definiamo poi le politiche razziste: una politica razzista è una qualunque misura che produca o
sostenga disuguaglianza razziale tra gruppi razziali, una politica antirazzista sostiene invece
uguaglianza razziale. In questo caso, la politica è l’insieme delle leggi scritte e non scritte, delle
regole, delle procedure, dei processi, dei regolamenti e delle linee guida che governano le persone.
Non esiste una politica non razzista o neutrale, in quanto ogni politica produce o sostiene la
disuguaglianza o l’uguaglianza. L’espressione politica razzista fa capire subito la radice del
problema, è più concreto; razzismo istituzionale/strutturale/sistemico sono, invece, ridondanti, in
quanto il razzismo in sé è istituzionale, strutturale e sistemico. Un’altra espressione importante è
discriminazione razziale, ovvero una manifestazione immediata e visibile di una sottostante
politica razziale, ciò è possibile grazie alla mancanza di una politica protettiva. Questo termine però
ci distrae dai principali agenti razzisti, le politiche razziste, dettate da una minoranza esclusiva che
permette tutto ciò.
Dagli anni Sessanta in poi, il potere razzista si è appropriato dell’espressione discriminazione
razziale, trasformando l’atto di discriminare in base alla razza in un atto intrinsecamente razzista.
Ma se definiamo la discriminazione razziale come un trattare, considerare o operare una
distinzione a beneficio o ai danni di un individuo in base alla sua razza, la discriminazione razziale
non è intrinsecamente razzista. La questione dirimente è se la discriminazione crea uguaglianza o
disuguaglianza: se crea uguaglianza è antirazzista, se crea disuguaglianza è razzista. Quindi, chi si
oppone alla disuguaglianza razzista aiutando temporaneamente un gruppo razziale
sottorappresentato a conseguire ricchezza e potere relativi finché non si raggiunge l'uguaglianza è
antirazzista. L'unico rimedio alla discriminazione razzista è la discriminazione antirazzista, questo
perché per andare oltre razzismo bisogna prima tener conto della razza. Infatti, il moto razzista più
minaccioso consiste nella costante spinta americana per uno stato neutro rispetto alla razza. Il
principio della neutralità razziale alimenta di fatto il vittimismo nazionalista bianco, postulando il
concetto che qualunque politica protegga o favorisca un americano non bianco nel raggiungimento
dell'uguaglianza è una “discriminazione inversa”. Ma, dato che la neutralità razzista non esiste,
non ci sono idee non razziste, bensì solo idee razziste e idee antirazziste.
Un'idea razzista è una qualunque idea insinui che un gruppo razziale è inferiore o superiore ad un
altro, sotto qualsiasi punto di vista. Queste idee sostengono che inferiorità e superiorità dei gruppi
razziali spieghino le disuguaglianze razziali in una società (es. Thomas Jefferson sosteneva che i neri
fossero inferiori ai bianchi quanto a doti fisiche e mentali). Al contrario, un’idea antirazzista è una
qualsiasi idea insinui che i gruppi razziali sono uguali pur con tutte le loro apparenti differenze: che
non c'è niente di giusto o di sbagliato in nessun gruppo razziale. Le idee antirazziste sostengono
che le politiche razziste siano la causa delle disuguaglianze razziali.
Queste definizioni ci consentono di capire meglio il mondo razzializzato che ci circonda. I nonni
materni dell’autore trasferirono la famiglia a New York negli anni ’50, sottraendo i loro bambini ai
violenti segregazionisti e alla raccolta di cotone sotto il sole georgiano, sempre più caldo.
Pensandoci, stavano sottraendo la famiglia anche al cambiamento climatico. Anche la politica
climatica del non far nulla è una politica razzista: i paesi del Nord, prettamente bianchi, inquinano
di più e si approvvigionano di risorse dai pesi del Sud, questi ultimi, prettamente non bianchi, non
solo si ritrovano privati delle loro risorse, ma anche ad essere soggetti di catastrofi ambientali
dovuti alla sovrapproduzione dei paesi nel nord. Per esempio, quasi quattromila zone americane
(perlopiù povere e abitate da non bianchi) hanno tassi di avvelenamento da piombo più alti di
Flint.
Un’altra disuguaglianza razzista è visibile nel sistema sanitario: negli Stati Uniti, le vite dei bianchi
contano circa 3,5 anni in più rispetto a quelle dei neri; e a partire dall’infanzia, il tasso di mortalità
dei neri è doppio rispetto a quello dei bianchi. Possiamo dire che non esiste privilegio bianco più
significativo della vita stessa.
Audre Lorde sostiene che siamo stati programmati per rispondere con paura e ripugnanza di fronte
alle differenze umane, il che ci porta ad ignorarle (se possibile), imitarle (se dominanti),
distruggerle (se pensiamo che siano secondarie).

CAPITOLO 2: Conflittualità interiore


Nel 1982, il presidente Reagan decise di debellare l’abuso di droga attraverso un inasprimento
della legge, ad essere debellato, ovviamente, non era l’abuso della droga, ma le persone nere:
nonostante siano le persone non bianche a consumare più droga, è più probabile che sia un nero a
finire in carcere. I colpevoli neri non violenti di crimini connessi con la droga rimangono in prigione
all’incirca per lo stesso tempo (59 mesi) dei bianchi autori di crimini violenti (62 mesi). Nel 2016, il
56% della popolazione carceraria era rappresentata da neri ed ispanici.
La storica Elizabeth Hinton, dice che non è stato Reagan a cominciare questa guerra, bensì il
presidente Lyndon Johnson, che mascherò la guerra contro i neri con una guerra contro il crimine.
Nel 1971, inoltre, il presidente Richard Nixon annunciò la sua guerra contro le droghe: mentendo
su coloro che ne facevano uso, riuscì a mettere in cattiva luce i neri, a tal punto che i neri stessi
iniziarono a denigrarli. La maggior parte dei leader neri, infatti, cambiarono posizione e fecero dei
criminali neri i nemici del popolo, insieme ai razzisti bianchi, per apparire alla gente come i
salvatori di fronte a questa minaccia. La contraddizione di tutto ciò risiede nelle richieste dei neri ai
repubblicani (Nixon, Reagan) e ai democratici (Johnson, Clinton): da una parte, chiedevano più
poliziotti, più condanne più severe e tassative, e più prigioni; dall’altra, la fine della brutalità della
polizia, più lavoro, scuole migliori e programmi per la cura dalle dipendenze (queste richieste
furono accolte con minor entusiasmo). Nel 1982, la vergogna dei neri contro i neri stava per
travolgere l’intera generazione del “nero è bello”: non solo gli americani, ma stesso i neri
guardavano con disgusto i tossici neri.
L’avvocata Eleanor Holmes Norton, nel 1985, spronava al rovesciamento della subcultura
complessa, si appellava ai residenti dei ghetti per inculcare loro i valori del lavoro duro,
dell’istruzione e del rispetto per la famiglia. Seguendo questo mantra, i genitori educarono così
l’autore, così da poter elevarlo e, di conseguenza, elevare le persone nere.
In ogni caso, la politica di Reagan consisteva nel rendere più ricco e più potente chi lo era già: tagliò
la rete di protezione dei sussidi federali e del Medicaid, condannando i neri dal reddito basso alla
povertà. Nei primi anni Ottanta, i poliziotti violenti uccisero ventidue neri pe ogni bianco, e nel
1985, i giovani neri avevano una probabilità quattro volta più alta di restare disoccupati rispetto al
1954: pochi collegavano però l’aumento della disoccupazione con l’aumento del crimine violento.
I genitori dell’autore avevano rinunciato ai loro sogni per restare in America, la madre lavorava in
un’azienda di tecnologie biomediche, il padre era ragioniere. Erano entrati entrambi a far parte
della borghesia americana (ambiente prettamente bianco), e hanno cominciato a guardare se
stessi e gli altri non soltanto attraverso i proprio occhi, ma anche attraverso gli occhi degli altri. Si
erano uniti, insieme ad altra gente nera, in quello spazio bianco, mentre cercavano ancora di
essere se stessi e di salvare la loro gente. Du Bois, nel suo The Souls of Black Folk, parlava proprio
di ciò, definendolo una doppia coscienza: Du Bois desiderava essere due costrutti opposti, un nero
e un americano, questa conflittualità interiore consisteva nell’essere due cose opposte, in guerra,
in un corpo nero. Questo conflitto si consuma tra idee antirazziste e assimilazioniste: Du Bois
credeva nella relatività razziale (ogni gruppo razziale guarda se stesso con i propri occhi), ma
anche al concetto assimilazionista di standard razziali (guardare se stessi con gli occhi degli altri).
Quindi, Du Bois voleva liberare i neri dal razzismo, ma anche salvarli dal loro “residuo di barbarie”,
sosteneva infatti che il razzismo e il basso livello sociale delle masse nere fossero ugualmente
responsabili del degrado dei neri. Per Du Bois, l'assimilazione avrebbe parzialmente risolto il
problema, però le idee assimilazioniste sono idee razziste. Gli assimilazionisti possono identificare
qualsiasi gruppo razziale come lo standard superiore, in genere i bianchi, con cui un altro gruppo
razziale dovrebbe confrontarsi il livello che dovrebbe tentare di raggiungere.
Questa conflittualità interiore si esplicitò in modo diverso nei genitori dell’autore, che si
focalizzarono interamente sull’autonomia dei neri, che era un’arma a doppio taglio. Da un lato, era
un’avversione per la supremazia e il paternalismo dei bianchi, per i governanti e i salvatori bianchi.
Dall’altro, un amore per i governanti e i salvatori neri, per il paternalismo nero. Da un lato, quindi,
c’era la convinzione antirazzista che i neri sapessero governarsi da soli, dall’altro, l’idea
assimilazionista che i neri dovessero emanciparsi dai jeans cascanti, dai top aderenti e lasciar
perdere il crack, come se fosse stato ciò a contribuire a tenere bassi i loro salari. Questa
conflittualità alimentava l’orgoglio nero, ribadendo che non c’era nulla di sbagliato nell’esserlo, ma
coltivava anche la vergogna, con l’implicazione che ci fosse qualcosa di sbagliato in questi
comportamenti. Anche i bianchi hanno la propria conflittualità interiore, tra segregazionisti e
assimilazionista: lo schiavista e il missionario, lo sfruttatore a favore della schiavitù e il civilizzatore
contrario, l'incarceratore di massa e l'emancipatore delle masse. Le idee assimilazioniste e
segregazioniste sono le due tipologie di idee razziste. Gli assimilazionisti credono che le persone
nere possano essere portate allo sviluppo e diventare pienamente umane, proprio come le
persone bianche, quindi queste idee riducono i neri a livello di bambini che necessitano di
istruzioni per sapere come comportarsi. Le idee segregazioniste classificano i neri come animali
(proprio come Trump ha definito gli immigrati ispanici) e credono che le persone nere siano
incapaci di raggiungere lo sviluppo, quindi incapaci di essere bianche (umane). La storia del mondo
razializzato è una battaglia a tre fra assimilazionisti, segregazionisti e antirazzisti.

 Le idee antirazziste si basano sulla verità che i gruppi razziali, pur con tutte le loro
differenze, sono uguali
 Le idee assimilazioniste si fondano sulla convinzione che alcuni gruppi razziali siano
inferiori, dal punto di vista culturale o del comportamento (gruppo temporaneamente
inferiore)
 Le idee segregazioniste derivano dalla credenza che le razze siano geneticamente distinte
ed esista una gerarchia fissa, quindi credono che un gruppo sia permanentemente inferiore
(secondo l’illuminista David Hume, non c’è stata una nazione civilizzata che non fosse
bianca, e quindi reputa i bianchi superiori a tutti gli altri)
Quindi possiamo dire che le politiche e i programmi assimilazionisti puntano a promuovere lo
sviluppo a civilizzare e a integrare un gruppo razziale (ciò non significa promuovere la loro ascesa
sociale); i segregazionisti puntano a segregare, schiavizzare, incarcerare, deportare e uccidere,
perché per loro non esiste lo sviluppo; gli antirazzisti puntano a ridurre le disuguaglianze razziali a
creare pari opportunità. I bianchi, in genere, hanno propugnato politiche assimilazionista e
segregazioniste, mentre i neri politiche antirazziste e assimilazionista: questo dualismo ha generato
una conflittualità interiore tra orgoglio nero e voglia di essere bianchi. Il corpo bianco definisce il
corpo dell'America. Il corpo bianco segrega il corpo nero del corpo dell'America. Il corpo bianco
istruisce il corpo nero affinché si assimili al corpo dell’America. Il corpo bianco e respinge il fatto
che il corpo nero si assimila al corpo dell’America e la storia la coscienza sono nuovamente in
conflitto. Ma c’è un modo per liberarsi: essere antirazzisti significa emanciparsi dalla conflittualità
interiore e avere la meglio sulla coscienza assimilazionista e segregazionista. Il corpo bianco non si
presenterà più come corpo americano; il corpo nero non tenterà più di essere il corpo americano,
sapendo che un’entità come il corpo americano non esiste, esistono soltanto corpi americani
realizzati dal potere.

CAPITOLO 3: Il potere
Nel Queens Village c’erano diverse scuole elementari pubbliche, dove i newyorkesi neri che
avevano i mezzi per farlo separavano i loro bambini dai bambini neri dei quartieri più poveri, così
come i newyorkesi bianchi separavano i loro bambini dai bambini neri. La conflittualità interiore dei
bianchi faceva sì che non si risparmiasse sulle spese per la casa pur di mandare i loro figli in scuole
pubbliche bianche, lontani da scuole e bambini presumibilmente cattivi. La conflittualità interiore
dei genitori neri faceva sì che non si risparmiasse sulle spese per le scuole private pur di tenere i
propri bambini lontani dalle scuole pubbliche e dagli stessi bambini.
Nella Grace Lutheran School, la composizione razziale della popolazione scolastica era di
maggioranza nera, nonostante ci fosse solo un’insegnante di colore. Era stato proprio l’autore a
chiedere alla maestra se fosse l’unica nera, questo perché Kendi stava leggendo biografie di leader
neri e, a sette anni, aveva già iniziato ad avvertire sul suo corpo nero il razzismo. La razza, infatti, è
una costruzione così potente da consumare anche un bambino, ma, nonostante ciò, la razza è un
miraggio: ciò che le persone vedono in se stesse e negli altri (che esista o no) ha significato e si
manifesta in idee, azioni e politiche, anche se ciò che vedono è un’illusione.
Kendi si è sempre identificato come nero, perché le idee, la storia e la cultura di queste persone
hanno rappresentato la razza e le hanno dato un peso. Nonostante le sofferenze, l’autore ha
sempre lottato per contrastare il razzismo. Non solo si vede politicamente e storicamente come
nero, ma anche un alleato degli ispanici, asiatici, mediorientali e nativi americani, come un
membro del Sud globale, e di tutti coloro che sono umiliati per la loro disabilità, identità sessuale,
corporazione, etc. Vedersi nero significa percepirsi storicamente e politicamente antirazzista. Uno
dei paradossi dell’antirazzismo è doversi identificare dal punto di vista razziale per identificare i
privilegi razziali e il pericolo che comporta trovarsi nei panni di una persona non bianca. L’avere più
o meno privilegi ci fa comprendere che la razza è una struttura di potere: ispanici, asiatici, africani,
europei, indigeni e mediorientali – nel contesto americano – sono identità di potere che si
posizionano su una gerarchia, al cui apice si trovano ovviamente gli americani bianchi. Il
personaggio inaugurale del potere razzista è il principe Enrico il Navigatore che, attraverso lo
sfruttamento di africani, creò le prime politiche schiaviste transatlantiche. Il secondo nome di
Kendi era proprio Henry, come il trisavolo del padre ridotto in schiavitù, quando l’autore apprese la
storia di Enrico il Navigatore, decise che questo nome doveva sparire: ora il suo secondo nome è
Xani, che significa pace, ciò che era stato sottratto all’Africa. La sua politica consisteva nel rendere
gli africani schiavi, per poi portarli in Portogallo.
Gomes Eanes de Zurara fu il primo biografo del principe Enrico e divenne il primo inventore della
razza e artefice di idee razziste. Nel 1453, Zurara terminò la sua Cronaca della scoperta e della
conquista della Guinea, il primo libro europeo sull’Africa. Uno dei racconti di Zurara faceva
riferimento alla prima grande asta di schiavi del principe Enrico a Lagos nel 1444. Nonostante
alcuni prigionieri fossero bianchi e “piacevoli da guardare”, e altri erano neri e “brutti”, Zurara li
fuse in un unico gruppo di persone che meritavano di essere ridotte in schiavitù. Il cronista non
definì i neri una razza, in quanto questo fenomeno esisteva ma non gli era ancora stato dato un
nome: il primo a farlo fu il poeta francese Jacques de Brézé nel 1481 in un poema sulla caccia. Nel
1606, Jean Nicot, nel Trésor de la langue française, definì la razza come discendenza, di
conseguenza, si poteva dire che un uomo o un animale fossero di cattiva o di buona razza. Quindi,
fin dall’inizio, inventare razze equivaleva a inventare gerarchie razziali. Proprio per questo Zurara
raggruppò tutti i popoli dell’Africa in una sola razza: per creare una gerarchia e un’idea razzista. Poi
riempi questa razza di qualità negative (l’essere perduti, l’essere bestie non ragionevoli) per
giustificare la missione evangelica del principe Enrico agli occhi del mondo. Quando arrivarono
nelle Americhe, nel XV secolo, i colonizzatori spagnoli e portoghesi fecero un'unica razza dei diversi
popoli indigeni definendoli indiani, o, in Brasile, negros da terra. Zurara inventò le caratteristiche
razziali per convincere il mondo che il principe Enrico non commerciava in schiavi per denaro bensì
per salvare anime. In Africa erano arrivati i “liberatori”. In re Alfonso accumulava più capitali dalla
vendita degli schiavi africani agli stranieri che da tutte le tasse riscosse nell'intero Regno: la razza
era servita al suo scopo.
L’avvocato spagnolo Alonso de Zuazo, nel 1510, contrappose la razza animalesca dei neri, forti e
adatti al lavoro, a quella dei nativi, talmente deboli da poter svolgere solo compiti poco
impegnativi. Queste due costruzioni razziste normalizzavano la crescente importazione di schiavi
africani, presumibilmente forti, e l’ininterrotto genocidio degli indiani d'America,
presumibilmente deboli.
Le altre razze sono state radicalmente inventate e differenziate dal XVIII secolo. A partire dal 1735,
Carlo Linneo fissò la gerarchia razziale del genere umano nel Systema Naturae, dove assegnò ad
ogni razza delle caratteristiche (nessuna era neutra, perché il potere razzista le ha create per uno
scopo ben preciso). Linneo collocò all’apice della gerarchia l’homo sapiens europaeus, mettendo
insieme i tratti più elevati (vigoroso, governato dalla legge); poi riunì i tratti razziali intermedi
dell’homo sapiens asiaticus (malinconico, sprezzante, dominato dall’opinione); l’homo sapiens
americanus (scontroso, governato dalla consuetudine); al fondo della gerarchia, l’homo sapiens
afer (apatico, pigro, noncurante, governo dal capriccio).
Kendi, dalla collana Junior Black Americans of Achievement, aveva imparato che le idee razziste
generano politiche razziste e che il problema di fondo del razzismo sono l’ignoranza e l’odio.
Quindi, dietro le politiche razziste ci sono sempre stati forti interessi personali, economici, politici e
culturali. Sono state poi prodotte idee razziste per giustificare queste politiche, così da reindirizzare
il biasimo per le ingiustizie razziali del loro tempo dalle politiche alle persone.
CAPITOLO 4: Biologia
Stipare le nostre singole esperienze con singoli individui in scompartimenti razziali contrassegnati
dal colore è un sistema di classificazione razzista. Si cerca di celare gli individui dietro ad una
dicitura genetica: “ha agito così perché è bianca”, “è così perché è asiatico”, etc. Questa
generalizzazione è ovviamente pericolosa, perché il comportamento del singolo non rappresenta il
comportamento di un’intera comunità. Un antirazzista, invece, ricorda gli individui in quanto tali.
“Ha agito così perché è razzista”, dovremmo dire.
Kendi parla delle microaggressioni che avvengono in ambienti come la scuola, in particolare,
quando l’insegnante ignorava le mani non bianche e rimproverava i neri per cose che non avevano
fatto. Chester Pierce (psichiatra) usò questo termine per descrivere gli abusi razzisti, verbali o non,
che i bianchi infliggono ai neri ogni giorno: se un nero si siede accanto a noi, controlliamo che non
ci rubi nulla; in autobus, il posto vicino ad un nero resta vuoto; la polizia è più possibile che fermi
per strada un nero. Presumono che i neri non siano brillanti e pongono loro domande che
riguardano l’intera razza. Pierce, che aveva subito ciò, aveva considerato tali offese individuali
come microaggressioni per distinguerle dalle macroaggressioni operata dalla violenza e dalle
politiche razziste. Oggi, questo termine è molto diffuso, ma l’autore preferisce non utilizzarlo, in
quanto queste offese quotidiane non hanno nulla di “micro”, anzi, sono di vitale importanza, per
questo Kendi utilizza il termine abuso: questa parole descrive accuratamente l’azione e i suoi effetti
sulle persone (angoscia, rabbia, ansia, preoccupazione, suicidio).
L’autore racconta poi la sua reazione al comportamento della docente: dopo aver portato gli alunni
alla messa settimanale, l’insegnante chiama gli alunni per andare via, ma Kendi non si smuove. Se
fosse stato un bambino bianco, la maestra gli avrebbe chiesto se qualcosa non andasse, ma, in
quanto bambino nero, aveva attribuito la sua resistenza al suo essere nero, classificandola come
cattivo comportamento, e non come angoscia. Dagli insegnanti razzisti, i bambini neri che si
comportano male non ottengono giustificazioni ed empatia, bensì ordini, punizioni e “niente
scuse”, come se fossero degli adulti. Il bambino nero è maltrattato come un adulto, e l’adulto nero
è maltrattato come un bambino. Kendi, però, voleva difendere il suo essere nero, che era anche
l’essere nero dell’altra bambina (vedeva nei suoi capelli crespi i suoi capelli afro, nelle sue labbra
spesse le sue labbra, nel suo naso largo il suo naso, il suo parlare): erano uguali per lui. Invece, i
bianchi gli sembravano tutti diversi. Gli adulti ci hanno insegnato che queste differenze implicano
diverse forme di umanità (razzismo biologico): i razzisti biologi, che sono segregazionisti,
sostengono che le razze presentino differenze significative a livello biologico e che tali differenze
creino una gerarchia di valori. Anche Kendi è cresciuto con la consapevolezza di questa differenza,
senza però credere alla gerarchia. Ciò porta a delle convinzioni razziste (anche inconsapevoli),
come “i neri hanno più capacità fisiche che naturali”, “i neri eccellono nel jazz, nel rap e nel
basket”, “le donne nere hanno il sedere grande e gli uomini neri il pene grosso”. Anche nella Bibbia
si trovano differenze biologiche: Cam, il figlio di Noè, aveva visto suo padre nudo, ubriaco e
addormentato; al risveglio, Noè scopre ciò e maledice suo figlio, dicendo “Benedetto il Signore.
Canaan sia suo schiavo”: Dio volle che il figlio di Cam e tutti i suoi discendenti fossero così neri e
ripugnanti da costituire una rappresentazione indelebile della disubbidienza per tutto il mondo. La
Bibbia, fraintesa, aveva creato questa distinzione biologica razzista.
Ma anche la scienza può essere fraintesa. Dopo la scoperta di un popolo da parte di Colombo,
sorsero speculazioni sui nativi americani, e successivamente sugli africani discendenti da un
“Adamo differente”. Ma l’Europa cristiana considerava la poligenesi (la teoria che le razze fossero
specie separate frutto di creazioni diverse) un’eresia. Darwin, superando questa teoria, propose
quella della selezione naturale, che fu usata come un ulteriore modo per distinguere le razze su
basi biologiche. I bianchi, vincenti, si evolvevano e andavano verso la perfezione; i più deboli
poteva estinguersi, essere ridotti in schiavitù o assimilarsi. Il secondo destino, secondo Albion
Small, era predetto ai neri, l’ultimo ai cinesi e ai popoli dell’Est. A voler velocizzare la selezione
naturale fu l’eugenia, che consisteva nello sbarazzarsi di coloro che erano considerati inferiori (es.
l’olocausto, la schiavitù) e nella riproduzione di persone dai geni superiori. In ogni caso, come ha
affermato Clinton nel 1990, in termini genetici, tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla
razza, sono uguali per oltre il 99.9%, ma la notizia dell’uguaglianza fu presto messa da parte da
altre argomentazioni. Il giornalista scientifico Nicholas Wade sosteneva che c’è una componente
genetica nel comportamento sociale umano: la connessione tra comportamento e biologia è la
culla del razzismo biologico, in quanto porta alla supposizione che la biologia di certe razze
produca tratti comportamentali superiori. Ma non esiste un’eredità razziale, bensì un’eredità
etnica, lo spiega la ricercatrice Camara Jones: gli individui dello stesso gruppo etnico nati in
determinate aree geografiche condividono in genere lo stesso profilo genetico, possiamo quindi
parlare di popolazioni.
I fautori della singola razza puntano il dito contro coloro che si definiscono neri, in quanto vogliono
mettere fine alla classificazione e all’identificazione delle persone attraverso la razza. All’apparenza,
ciò sembra ammirevole, però la nostra umanità si è strutturata in modi concreti attorno al
razzismo, quindi prescindere dall’esistenza delle razze in un mondo razzista è un atteggiamento
conservatore e dannoso quanto prescindere dall’esistenza delle classi in un mondo capitalista:
permette alle razze e alle classi che governano di continuare a governare. Gli assimilazionisti
credono in un mito postrazziale: se si smette di parlare della razza, questa sparirà, senza rendersi
conto che, facendo così, non si potrebbe identificare l’ingiustizia razziale, se non sapremo
identificare le politiche razziste, non sapremo contrastarle. Finiremmo quindi in un mondo di
ingiustizie che nessuno sarebbe in grado di vedere e di contrastare. Essere antirazzisti significa
riconoscere la realtà dell’uguaglianza biologica, l’inesistenza di un sangue bianco o nero, così come
delle naturali prestanze fisiche e anche riconoscere la realtà pregna del miraggio razziale, che
rende il colore della pelle più significativo dell’individualità di una persona.

CAPITOLO 5: Etnia
Il sistema della giustizia penale americano era colpevole di molti sbagli, come aver rimesso in
libertà i poliziotti bianchi che avevano picchiato Rodney King nel 1991 e il commerciante coreano
che aveva ucciso la quindicenne Latasha Harlins nello stesso anno. Ma il verdetto di O. J. Simpson
(accusato di aver ucciso l’ex moglie) non ha impedito alla giustizia di commettere altri errori nel
caso dei corpi neri: gli agenti del dipartimento di polizia cittadino di Brooklyn avevano pestato
selvaggiamente un immigrato trentenne di Haiti, Abner Louima, e gli agenti di New York avevano
scaricato quarantuno pallottole nel corpo di Amadou Diallo, un immigrato della Guinea
(disarmato). Non importava se le persone di colore fossero venute al mondo negli Stati Uniti o
altrove, perché alla violenza razzista non faceva differenza.
A fare differenze, però, erano i compagni afroamericani di Kendi. Il più tartassato di tutti era
Kwame, popolare, bello e atletico, ma la sua etnia ghanese aveva la meglio su tutto. Si facevano
continuamente battute su di lui, come se lui fosse Akeem e gli altri Darryl, un odioso personaggio
della commedia romantica Il principe cerca moglie. È proprio in questa commedia che vengono
fatte battute razziste come “E voi a cosa giocate in Africa? A caccia alla scimmia?”, erano battute
razziste scaturite dalla tratta degli schiavi. Quando i neri facevano battute che disumanizzavano i
rami della diaspora africana, acconsentivano a riportare in vita quella storia orrenda nelle loro
risate. Il razzismo etnico è il copione del mercante di schiavi redivivo.
Le origini del razzismo etnico si possono rintracciare nella legge della domanda e dell'offerta di
prodotti umani vigenti nel commercio di schiavi. Schiavisti diversi preferivano gruppi etnici africani
diversi, persuasi che dessero schiavi migliori, e gli schiavi migliori erano considerati gli africani
migliori. Alcuni proprietari di piantagioni francesi pensavano che i congolesi fossero neri magnifici
poiché fatti per servire. Altri francesi concordavano con gli spagnoli nel ritenere prigionieri della
Senegambia gli schiavi migliori. Ma la maggior parte dei proprietari terrieri delle Americhe
considerava i gruppi etnici della Costa d'oro, l'attuale Ghana, i migliori e i più fedeli tra i loro
schiavi. Negli anni ‘40 del Settecento, i prigionieri della Costa d'oro erano venduti al doppio dei
prigionieri dell’Angola, forse il basso valore di questi ultimi era dovuto all'offerta eccessiva: la tratta
degli angolesi superava quantitativamente quella di qualsiasi altro gruppo africano. Da parte dei
piantatori c'erano delle spiegazioni per il loro razzismo etnico, per esempio, la Costa d'oro e la
Popa sono delle zone aride, quindi i neri sono obbligati a coltivare la terra per sopravvivere e sono
abituati al lavoro; i neri dell'Angola arrivano da altre parti dell'Africa in cui tutto cresce
spontaneamente, quindi non sono abituati a lavorare e vivono nell’ozio. Anche Kendi e i suoi amici
hanno seguito il copione del razzismo etnico, ma dietro le loro risate c'era probabilmente della
rabbia verso gli africani continentali: i capi africani si facevano la guerra l’un l’altro e catturavano la
propria gente per vendersela. L'idea che i capi africani vendessero la loro gente è un ricordo
anacronistico, che sovrappone le nostre attuali idee sulla razza ad un passato etnico. La creazione
della razza da parte degli intellettuali europei tra il XV e il XVIII secolo, se ha fatto confluire diversi
gruppi etnici in razze monolitiche, non ha necessariamente cambiato il modo in cui le persone si
vedevano, gli abitanti dell'Africa non hanno improvvisamente visto i vari gruppi etnici presenti
intorno a loro come unico popolo o la stessa razza. Gli africani coinvolti nella tratta degli schiavi
non credevano di vendere la propria gente vendevano in genere persone tanto diverse da loro
quanto gli europei in attesa sulla costa. All'epoca della tratta degli schiavi, le persone comuni
nell'Africa occidentale si identificavano in termini etnici. Ci è voluto molto tempo forse alla fine del
XX secolo perché l'invenzione della razza calasse la sua cappa sul mondo intero.
Per tutti gli anni Novanta, il numero di immigrati di colore negli Stati Uniti è cresciuto grazie
all’effetto combinatorio dell’Immigration and Nationality Act (1965), del Refugee Act (1980) e
dell’Immigration Act (1990). Tra il 1980 e il 2000, il numero degli immigranti ispanici è aumentato
da 4,2 milioni a 14,1 milioni. Nel 2015 gli immigrati neri ammontavano all’8,7% della popolazione
americana, una percentuale triplicata rispetto al 1980. Da bambino nato nei primi anni 80, Kendi
aveva assistito a questo aumento di popolazione: molti neri erano diffidenti rispetto a questo
brusco incremento del mondo nero, ma non i genitori dell'autore. Una coppia haitiana con tre figli
maschi viveva di fronte alla loro casa, e Kendi era diventato amico del figlio più piccolo e del
cugino. Nonostante Gil e Cliff gli fossero molto affezionati, i genitori di Gill non lo erano, in quanto
c'era un certo distacco, forse lo tenevano a distanza poiché era un afroamericano in un momento
in cui gli immigrati haitiani sentivano il settarismo afroamericano. Gli immigrati caraibici tendono a
classificare gli afroamericani come i pigri, privi di ambizioni e scortesi; gli afroamericani tendevano
invece a classificare gli immigrati caraibici come egoisti, sprovvisti di coscienza razziale e servili nei
confronti dei bianchi.
Le leggi sull'immigrazione approvate tra gli anni Sessanta e Novanta avevano lo scopo di
soppiantare i vecchi provvedimenti, che limitavano l'immigrazione non bianca negli Stati Uniti. Il
Chinese Exclusion Act del 1882 era stato ulteriormente potenziato nel 1917 definendo una più
ampia Asiatic Barred Zone. L’Emergency Quota Act (1921) e l’Immigration Act (1924) limitarono
severamente l'immigrazione dall'Africa e dall’Europa orientale e meridionale, e in sostanza
bandirono l'immigrazione asiatica fino al 1965. Il presidente Calvin Coolidge firmò la legge nel
1924, sostenendo che l’America resti americana, infatti permise l’immigrazione dall’Europa
nordorientale (Scandinavia, Germania, isole britanniche): per americana, intendeva bianca. Ciò è
accaduto anche oggi sotto l’amministrazione di Trump, dove il senatore Jeff Sessions portò avanti
politiche contro gli immigrati ispanici, arabi e neri. Lo stesso Trump ha affermato “Dovremmo avere
più gente da posti come la Norvegia”, con lo scopo di rendere l’America di nuovo bianca. A
prescindere da dove venissero queste persone, tutti gli immigrati di colore erano razzializzati come
neri: tutti i gruppi etnici, finiti sotto lo sguardo del potere, diventano razzializzati. Nel corso della
storia, il potere razzista ha prodotto idee razziste riguardo i gruppi etnici razzializzati entro la sua
sfera coloniale, la storia degli Stati Uniti offre una sfilza di rapporti di potere etnici intrarazziali: gli
anglosassoni discriminano i cattolici irlandesi e gli ebrei; gli immigrati cubani sono privilegiati
rispetto agli immigrati messicani; la minoranza modello comprende gli asiatici dell'est ma esclude i
musulmani provenienti dall'asia meridionale. La classificazione di gruppi etnici razzializzati entro le
singole razze crea una gerarchia etnico-razziale, una scala di razzismo etnico all'interno del più
ampio schema del razzismo. Si pratica razzismo etnico quando si esprime un’idea razzista su un
gruppo etnico o si appoggia una politica razzista nei confronti di un gruppo etnico. Il razzismo
etnico non punta il dito contro le politiche razziste, bensì contro gli individui stessi, accusati di
essere il motivo della disuguaglianza tra i gruppi. Quando gli immigrati ghanesi negli Stati Uniti si
uniscono ai bianchi nel dire che gli afroamericani sono pigri, riciclano le idee razziste degli
americani bianchi sugli afroamericani.
Il volto del razzismo etnico si svela attraverso una domanda ostinata: “da dove vieni?”. Kendi si è
spesso sentito rivolgere questa domanda, in quanto il razzismo etnico presume che lui (professore
universitario e scrittore affermato) non possa essere un afroamericano. “Da dove vieni veramente?
Da dove vengono i tuoi genitori?”, il discorso continua sempre, a meno che non si risponda “Sono
un discendente di africani giunti negli Stati Uniti come schiavi”, in quel caso finisce. Chi pone la
domanda si rassegna al fatto che Kendi sia un afroamericano, e può anche considerarlo come un
“afroamericano superiore”, non pigro e fiacco come gli altri. L’assurdità del razzismo etnico è
universale.
Essere antirazzisti significa considerare i gruppi etnici nazionali e transnazionali uguali nonostante
le differenze, contrastare le politiche razziste che affliggono questi gruppi razzializzati e riconoscere
che la disuguaglianza è dovuta proprio a queste politiche, e non agli individui.
Quando gli studi hanno cominciato a mostrare che il reddito familiare medio degli afroamericani
era molto più basso di quello dei neri nati all'estero e che gli afroamericani avevano tassi di povertà
e disoccupazione molto più alti, vari commentatori si sono chiesti perché gli immigrati neri se la
passassero meglio dei nati neri in America, e si sono detti che gli immigrati neri sono molto più
motivati, laboriosi e intraprendenti dei nativi neri. Il confronto degli immigrati neri con gli
afroamericani nasconde le disuguaglianze razziali tra immigrati neri e immigrati non neri: a dispetto
delle ricerche che mostrano come negli Stati Uniti gli immigrati neri sono il gruppo di migranti più
istruito, essi guadagnano stipendi più bassi degli immigrati non neri con una formazione simile, e
hanno il tasso di disoccupazione più alto di qualsiasi altro gruppo di migranti. Un razzista etnico si
chiede “perché gli immigrati neri se la passano meglio degli afroamericani?”; un antirazzista etnico
chiede “perché gli immigrati neri non se la passano bene come gli altri gruppi di migranti?”. Il
motivo per cui gli immigrati neri hanno un livello di istruzione e prospettive economiche migliori
degli afroamericani non è la superiorità delle loro etnie transnazionali, bensì nel vantaggio
migratorio: i singoli migranti sono straordinariamente ingegnosi, non perché siano nigeriani o
cubani o giapponesi ma perché sono immigrati.

Tabet: La pelle giusta


Paola Tabet è un’antropologa italiana. Sulla base di una ricerca che ha condotto tra gli studenti di
alcune scuole italiane, elementari e medie, ha scritto “La pelle giusta”, un saggio in cui analizza il
funzionamento del pensiero razzista tra i giovani italiani. Durante un seminario di etnologia tenuto
dalla studiosa presso l’Università di Siena nel 1989-90, dato che la maggior parte degli studenti che
parteciparono erano insegnanti delle elementari e si mostrarono totalmente impreparati nel
discutere termini come “razza”, “etnia”, “indigeno” e “primitivo”, nacque l’idea di condurre una
ricerca sul pensiero razzista così come viene interiorizzato da alunni delle scuole elementari e
medie, e dunque da bambini tra i 7 e i 13 anni, sottoponendoli a dei temi sull’argomento, tra cui il
più diffuso aveva come traccia “Se i miei genitori fossero neri”. Nello stesso periodo, Tabet ha poi
svolto alcune interviste a giovani tra i 16 e i 30 di lingua italiana sulla loro esperienza come oggetti
di razzismo. Prima di illustrare la sua ricerca, Tabet premette che, prima di essere un’ideologia e
una teoria, il razzismo è un rapporto sociale. Il discorso razzista non è stato prodotto all’improvviso,
con l’arrivo degli immigrati in Italia, ma si è formato ben prima. Esso è un sistema di lunga
costruzione, capace di evolversi e di mutare col tempo, che ha origine in una storia non
immaginaria ma assolutamente reale, a partire dall’invasione dell’America, dell’Asia, dell’Africa e
dell’Oceania da parte delle potenze europee. È il frutto di precisi rapporti storici ed economici, la
schiavitù e il colonialismo, che aveva il compito di interpretare e legittimare. La legittimazione dei
rapporti coloniali e schiavistici passa attraverso molteplici discussioni che, tra 700 e 800, portarono
all’elaborazione di una teoria delle differenze sociali come differenze naturali, cui non
contribuirono solo naturalisti e antropologi fisici, ma anche e soprattutto filosofi, linguisti e
sociologi. L’idea della razza tratta le differenze tra i gruppi umani come qualcosa di naturale,
gerarchizzandoli in base a presunte caratteristiche endogene, come se i gruppi fossero diversi per
essenza e non perché sono costituiti come tali da una relazione di potere economico-sociale. In
questo processo storico, l’Italia ha avuto un ruolo sia sul piano intellettuale (si pensi a Cesare
Lombroso), che su quello politico, con gli interventi coloniali in Africa. Riguardo al colonialismo
italiano viene però creato un mito: esso è stato diverso dagli altri, più umano a tollerante. Così ci si
dimentica che, anche se la potenza coloniale italiana non era paragonabile a quella inglese o
francese, in Africa orientale l’Italia c’è stata per più di mezzo secolo e in Libia per oltre 30 anni. La
politica di segregazione razziale imposta dall’Italia fascista viene quasi ignorata, così come le azioni
compiute nelle guerre di Libia e di Etiopia, come l’uso dei gas fosgene e iprite, i massacri ripetuti, le
deportazioni di massa in Cirenaica e i campi di concentramento che radunavano l’intera
popolazione. Nonostante le richieste presentate dall’Etiopia al tribunale di Norimberga nel 1946, i
responsabili di questi crimini di guerra, Rodolfo Graziani e Pietro Badoglio, non sono mai stati
processati, così come gli altri responsabili dei genocidi compiuti in Africa dagli italiani. Una
rimozione parallela e altrettanto grave colpisce in generale il razzismo come ideologia, diffuso nei
più svariati tipi di testi della nostra tradizione. Non è che negli altri Paesi non si siano costruiti dei
miti, ma nella cultura e nella sinistra italiana sembra sia mancato quel processo collettivo di
rielaborazione e revisione critica che eventi come la guerra in Algeria o in Vietnam hanno
provocato tra gli intellettuali e nell’opinione pubblica di altri Paesi. Il razzismo rimane attivo come
sistema di pensiero in generale e struttura i rapporti sociali con determinate parti della
popolazione, che siano i meridionali che emigrano al nord o i nomadi. All’inizio degli anni ‘80 il
razzismo nei riguardi degli stranieri provenienti da Paesi extraeuropei era ignorato dalla
consapevolezza comune, e non faceva notizia. Anche fatti gravi di razzismo esplicito non vengono
letti in questa chiave, persino il noto razzismo verso quelli che emigravano dal sud al nord Italia o
verso i sardi in Toscana. Il razzismo verso gli immigrati extraeuropei ha cominciato a fare notizia
dalla fine del 1987, ma viene ancora percepito come un fatto estremo, riguardane pochi individui
violenti, e non come qualcosa di insito nella società nel suo complesso. Dall’inizio degli anni ‘80, le
condizioni di vita degli italiani sono migliorate. Non c’è più la disponibilità a svolgere certi lavori o a
farli in determinate condizioni, e quindi si creano le condizioni per una potenziale domanda di
lavoratori disponibili a svolgere tali compiti. Si è passati, dunque, dall’esportazione di forza lavoro
italiana all’importazione di forza lavoro straniera e il razzismo è diventato di nuovo quello che era
stato nei riguardi degli “altri” sul territorio coloniale o degli immigrati meridionali al nord negli anni
del “miracolo economico”: uno strumento di organizzazione dei rapporti di potere, di creazione e
classificazione di categorie sociali, e di divisione della forza lavoro. “L’importante è che i neri non
pretendano lo stesso dei bianchi”, e infatti la maggioranza dei lavoratori immigrati ha salari al di
sotto dei livelli contrattuali e molti sono occupati in condizioni di grande precarietà. La normativa
sull’immigrazione si assicura che essi siano soggetti deboli, in concerto con la pratica sociale. Ciò
che caratterizza, ai tempi in cui Tabet ha scritto questo saggio e oggi, il fenomeno
dell’immigrazione è una condizione di minori diritti e minori opportunità rispetto agli italiani. Così,
si sono rimessi in moto “sia i meccanismi del razzismo istituzionale, sia quelli del razzismo
quotidiano”. Il discorso prodotto dalle élite, in particolare dai media, alimenta la disinformazione e
diffonde l’immagine di una falsa omogeneità del gruppo “immigrato”, disconoscendo che
l’emigrazione contemporanea, a differenza di quella del passato, e comporta in maniera rilevante
da individui ad alto livello di scolarizzazione, a volte anche laureati. Non mostrando la varietà di
situazioni lavorative in cui sono impiegati gli immigrati, diverse secondo le provenienze nazionali e
le regioni d’Italia, si cancellano le differenze non solo di occupazione, ma anche di nazionalità, di
religione, di esperienza e di cultura. E vengono cancellate le donne, tant’è che l’immagine di
immigrato comunemente diffusa è quella di un ambulante maschio africano e analfabeta di
religione musulmana. Tornando alla ricerca, a prescindere dalla traccia del tema, i compiti svolti
presentavano delle rappresentazioni di base nel complesso assai omogenee. Non apparivano
rilevanti differenziazioni né tra le regioni, né tra quartieri diversi, né in base alla tradizione politica
dell’area di provenienza. Una variabile importante, piuttosto, era data dall’età e dal percorso
scolastico dei bambini. Questa omogeneità suggerisce che queste idee non fossero nate al
momento del tema in classe, ma che fossero già tenacemente impresse nell’ambiente circostante.
L’obiettivo della sua ricerca, precisa Tabet, è un’analisi qualitativa: il problema non era sapere
quanti bambini si potevano considerare razzisti, ma con quali modalità particolari si manifestava
una visione razzista a quell’età e come eventualmente trovava espressione nei materiali raccolti.
Ciò che Tabet nota subito è la prevalenza negli elaborati di un sentimento di paura totale, espresso
in frasi come “Se i miei genitori fossero neri, avrei paura per sempre”. La paura del diverso a volte
viene trattata come un fatto naturale, come una reazione istintiva, ma in realtà la paura è stata
imposta e costruita socialmente. Recenti studi di psicologia cognitiva confermano che i bambini
imparano la categorizzazione razziale dal linguaggio, e non dalla percezione visiva. “I bambini
piccoli all’inizio non vedono la razza, la odono: il concetto di razza in essi, e negli adulti del resto,
non è dunque legato all’esperienza visiva. La percezione visiva, si può dire, deriva dall’idea di razza
e non viceversa”. La possibilità di stabilire chi appartiene alle categorie razziali è un fatto di potere.
Nella Germania nazista, ad esempio, le leggi di Norimberga del 1935 per la “protezione del
sangue” che proibivano i matrimoni tra tedeschi e ebrei, furono precedute da delle discussioni sui
criteri che stabilivano la nozione di ebreo. Gli “ebrei a tutti gli effetti”, esclusi dalla cittadinanza,
includevano anche i “mezzi-ebrei” che avevano un coniuge ebreo o che professavano la fede
ebraica. Gli altri “mezzi-ebrei”, invece, erano considerati cittadini tedeschi, ma se in seguito
avessero sposato una persona definita ebrea sarebbero stati riclassificati come ebrei.
Analogamente, all’epoca della segregazione razziale negli USA, i singoli stati federali potevano
stabilire con definizioni legali chi era “negro”, “indiano”, “giallo” e via dicendo. In Sudafrica, durante
l’apartheid, venivano considerati non bianchi i cinesi, ma non i giapponesi. Il processo di creazione
della differenza è dunque un processo sociale e politico di costruzione di differenze di potere. Non
ha niente di naturale, dal momento che è il gruppo dominante a decidere arbitrariamente la
collocazione sociale di persone e gruppi, stabilendo chi è diverso ed educando la percezione visiva.
In base a questi schemi, la paura e la differenza vengono impiantate nei bambini, a volte attraverso
esperienze penose di negazione dell’umanità altrui. I bambini non fanno che rispecchiare, con le
specifiche connotazioni connesse all’età, la paura ossessiva presente nell’immaginario comune.
Sempre negli elaborati dei bambini, al sentimento della paura generalmente segue quello dello
“schifo”: “Se i miei genitori fossero neri e io bianco sarebbe disgustoso stare vicino a loro… Quando
tornerei a casa li caccerei, perché puzzano”. Lo schifo è un sentimento tipico di molti rapporti
sociali, in particolare di rapporti tra gruppi caratterizzati da diseguaglianze di potere economico e
politico. Esso è un sentimento costruito culturalmente, anzi forse è l’unico tra i sentimenti di base
che è stato totalmente trasformato nella condizione umana. I bambini, ad esempio, attraverso la
lunga pressione per far loro apprendere le norme dell’igiene, interiorizzano queste regole e
passano dall’attrazione per le feci e le secrezioni nasali, verso cui inizialmente non provano
disgusto, allo schifo nei loro confronti. Il disgusto si diffonde per condizionamento sociale e per
apprendimento. Esso crea distanza, poiché viene mobilitato per difendere la persona dalla
vicinanza di un oggetto repellente. Tra gruppi sociali, viene così costruita una barriera di
discriminazione che mantiene saldamente i limiti tra gruppi, stabilendo il confine tra l’“umanità” e
la “non-umanità”. Gli altri che hanno abitudini diverse si comportano “come animali”, o addirittura
“sono animali”. Questa degradazione e disumanizzazione dell’altro facilita e giustifica qualsiasi
azione contro di esso: “reazione tipica verso l’animale che disgusta è schiacciarlo”. Qualcuno
potrebbe pensare che questi sentimenti potrebbero derivare anche da una reazione di angoscia
provocata dall’idea di un improvviso cambiamento dei genitori, ma non è così. In alcune scuole,
infatti, è stata proposta anche la traccia “Se i miei genitori fossero americani”, a cui i bambini
hanno reagito con molta meno angoscia. Anzi, la loro reazione era spesso entusiasta. Se c’è una
preoccupazione, esse sembra scaturire dall’idea della perdita del luogo abituale e degli amici, ma
non si esprime in sentimenti di paura o di disgusto rispetto alle figure dei nuovi genitori. Quando si
tratta dei genitori neri, la reazione dei bambini non segue un percorso casuale, ma percorsi noti e
largamente praticati nell’ideologia della nostra società, in cui gli stereotipi sulla razza sono
largamente diffusi. Innanzitutto, i neri dei temi si trovano o in Africa o in Italia. Ma l’Africa dei temi
non è la vera Africa. Essa appare come una situazione di natura e non di cultura, come un paradiso
ecologico dove il bambino immagina di poter vivere come Tarzan. Queste avventure, però, sono
accompagnate anche da un certo ribrezzo nei confronti della “primitività” degli abitanti. Se i gruppi
umani che attualmente vivono di caccia si contano sulle dita di una mano, per i bambini questo è lo
stato di tutte le popolazioni africane. Gli africani cacciano, pescano o semplicemente oziano, e la
sera ballano cose come “la danza della pioggia e del sole”. Essi non conoscono la tessitura, perché
si vestono con “vestiti fatti di pelle di animale o di paglia”. Non hanno le docce e i lavandini, e
quindi non si lavano mai. Salvo rare eccezioni, le città non esistono, e al posto delle case ci sono
capanne, palafitte e caverne. A questa situazione di gravissima arretratezza, fame e sporcizia si
accompagnano poi altri flagelli: “La droga c’è anche nella nostra città, ma in Africa ce n’è molta di
più”; “Al telegiornale ho visto che passavano degli elicotteri italiani e americani a buttare dal cielo il
mangiare agli africani; avevano paura di atterrare perché avevano tutti malattie contagiose”.
Questa idea dell’Africa si riscontra in tutti i tipi di temi. Alla rappresentazione dell’Africa come un
paradiso ecologico e primitivo, si accompagna la contrapposizione della povertà, dell’arretratezza e
dell’ignoranza degli africani al nostro benessere, alla nostra modernità e alla nostra civiltà. Si
costruisce un rapporto paternalistico in cui il bianco è il soggetto assoluto, l’eroe civilizzatore.
Praticamente, si tratta dell’immaginario coloniale, riproposto continuamente da film e fumetti, di
un’Africa senza storia. Ai bambini manca la minima informazione sulle diverse culture dell’Africa e
sui Paesi africani contemporanei. La colpa di questa disinformazione va attribuita anche alla scuola,
a partire dai libri di testo fino alle rappresentazioni condivise dagli insegnanti. Anche quando sono
in Italia, gli africani sono sporchi, primitivi, ignoranti ed eventualmente portatori di malattie. Gli
“immigrati” sono sempre visti come miserabili e delinquenti, violenti anche nei confronti dei propri
figli. Ovviamente, di questa visione complessiva non sono responsabili i bambini, ma quel lavoro di
produzione e di diffusione ideologica svolto in primo luogo dai media. Con l’immigrazione di forza
lavoro, il razzismo, come già nel caso degli emigrati dal meridione, diviene un fatto strutturale
legato ai rapporti di potere interni alla nostra società, che la produzione del discorso sugli
immigrati dai parte dei media sostiene e rafforza. Questo lavoro si esplica essenzialmente in tre
processi: enfatizzazione del fatto criminale o deviante; rappresentazione miserabilista delle
condizioni di vita degli immigrati; cancellazione della loro vita quotidiana. La sottovalutazione degli
aspetti ordinari della vita degli immigrati (il lavoro, le relazioni sociali, i rapporti familiari e le forme
di integrazione) favorisce la sopravvalutazione degli aspetti straordinari (devianza e criminalità),
trasformando gli immigrati in un problema di polizia o di tipo assistenziale. In molti temi c’è la
consapevolezza della difficoltà degli immigrati a trovare lavoro: “Tutte quelle persone che
prendono in giro i negri, li sottopagano e fanno altre cose, fanno male perché i negri devono
mangiare come noi”; “Ieri, uscendo dalla palestra ho visto tanti neri sul giardino che tornavano da
lavoro. Io mi chiesi forse lavorano perché li avranno costretti ad accettare una paga più bassa”. In
parte ciò corrisponde a una situazione reale, perché la maggior parte dei lavoratori immigrati
percepisce un salario al di sotto di quello contrattuale e molti svolgono mansioni al di sotto delle
loro qualifiche, con evidente spreco di risorse umane. Molti bambini quindi percepiscono queste
cose, ma anche quando si mostrano pieni di compassione o solidarietà si percepisce comunque il
disprezzo e la paura degli altri. La contrapposizione tra “noi” e “i neri” continua a prevalere e
sembra quasi incolmabile. Altra cosa interessante è che nei temi dei ragazzi i “negri” e i
“marocchini” sono spesso intercambiabili e non provengono solo dall’Africa. A volte provengono
dal Brasile, dai Balcani o dall’Iraq, e negli anni del miracolo economico venivano anche dal Sud
dell’Italia. Questo evidenzia ancora di più l’arbitrarietà nella categorizzazione delle differenze. Negli
USA, ad esempio, adesso gli italiani sono bianchi, ma all’inizio del 900 la maggioranza degli
americani lo negava. In alcuni temi i bambini hanno rifiutato direttamente l’idea di avere dei
genitori neri, o hanno cercato delle maniere per evitarli o eliminarli.
• Soluzioni di denegazione (qui si riscontra benissimo la negazione simbolica dell’umanità
dell’altro, e quindi del suo diritto all’esistenza): – i miei genitori non sono neri e non è possibile che
lo siano in nessuna ipotesi; – i miei genitori non sono neri, hanno solo fatto finta di esserlo per
farmi uno scherzo; – ho solo sognato che i miei genitori fossero neri; – i miei genitori sono solo
temporaneamente neri, per via di una malattia inspiegabile, un maleficio, un incidente, ma
verranno guariti e ritorneranno bianchi; – i miei genitori sono neri perché mi hanno
temporaneamente adottato, ma solo per uno o due anni, per poi farmi tornare dai genitori bianchi;
– i miei genitori sono neri ma faccio finta che siano bianchi.
• Soluzioni violente (qui il rifiuto assume toni più volenti, con la fuga o azioni sempre più
drastiche): – scappo via, abbandonando i genitori neri, per andare lontano o per andare dai nonni,
supposti bianchi; – caccio i genitori neri di casa; – li nascondo; – li faccio diventare bianchi lavandoli
o tingendoli con vernice o latte caldo; – li uccido, li decapito, li faccio massacrare dai carabinieri o
me ne sbarazzo attraverso un finto incidente. In alcuni rari casi i bambini non si sono immaginati
bianchi, ma anch’essi neri, forse perché vedevano come intollerabile la differenza che altrimenti ci
sarebbe stata in famiglia. In questa situazione, per evitare la discriminazione da parte dei bianchi, o
si trasformano tutti in neri o si torna in Africa. Oppure ci si finge bianchi, ci si tinge. Anche in questo
caso a volte i genitori muoiono, ma non il bambino, che per adozione rientra nel mondo bianco. È
chiaro quindi il rifiuto: i genitori non possono e non devono essere neri. Inoltre i ragazzi, specie
quelli i più grandi, assumono in proprio la posizione paternalistica che è stata loro trasmessa da
innumerevoli immagini e discorsi: quella di civilizzatori. Con un rovesciamento dei ruoli, il ragazzo
diventa l’adulto che deve insegnare ai genitori e agli altri adulti neri a comportarsi educatamente.
In questi temi i ragazzi credono di mostrarsi benevoli e non razzisti, manifestando un
atteggiamento meno violento e a volte affettuoso, ma finiscono comunque per negare ogni dignità,
autonomia ed esperienza adulti a questi genitori immaginari. I ruoli non vengono scambiati nel
caso dei genitori americani, da cui i bambini devono imparare e ricevere i valori della ricchezza e
del consumismo, e non vengono scambiati neanche nel caso in cui i genitori siano neri e ricchi. Con
la ricchezza, sembra che il nero non sia più tale. Queste diverse considerazioni sui genitori neri
mostrano l’influenza di due posizioni che hanno una lunga storia: una fondata sulla differenza
biologica, che porta alla negazione totale di un universo comune e all’apartheid, e l’altra, tipica di
alcune attività missionarie, che ammette una perfettibilità attraverso l’assimilazione e la
soppressione culturale. Due modi di organizzare i rapporti di potere tra gruppi sociali. La forma
narrativa e la forma descrittiva, che sono tra le forme più diffuse di componimento scolastico alle
elementari, sono abbastanza rare nei temi sui genitori neri. Piuttosto, prevale la forma
dell’argomentazione, in cui si espongono le ragioni che giustifichino la propria posizione di disagio
e rifiuto. Questa scelta è la prova e la misura della distanza, della quasi impossibilità di pensare
l’ipotesi proposta dalla traccia. Secondo Tabet, l’argomentazione manifesta disagio anche quando
appaiono affermazioni positive, con cui i bambini spiegano perché “accetterebbero” i genitori neri,
perché “bisogna” amarli. In questo mondo amorevole, infatti c’è sempre un modo diviso in due
gruppi contrapposti, i bianchi e i neri. A volte viene spiegato che i neri non hanno scelto di essere
così, che non è “colpa” loro, che per qualche ragione è stato Dio a volerlo. Che non bisogna
guardare l’esterno (cosa che non si dice mai di qualcosa che si ritiene bello), perché anche se
hanno la pelle nera, in fondo “hanno l’anima bianca come noi”. I testi caratterizzati da una
presenza un po’ più accentuata del discorso retorico e dall’impostazione di matrice cattolica, dove
sono espressi anche un’incerta solidarietà e un senso di pena, sono più frequenti nelle regioni
meridionali. Nei temi dei ragazzi del Sud, il nome di Dio ricorre con più frequenza, in frasi come
“siamo tutti figli di Dio” e “Dio ci ha creati uguali”. La dissociazione si manifesta, infine, attraverso
spie linguistiche inconsapevoli. Ad esempio, quando si parla dei genitori bianchi si usa il “noi”.
Quando si parla dei genitori neri, l’insieme viene indicato con “io e loro”. Viene usato il “noi” che
includa i genitori neri quando il bambino immagina di essere nero anche lui, in un’assoluta
minoranza di temi. L’unità del gruppo-razza prevale così sull’unità della famiglia.

Tabet: La rappresentazione dell’altro – li chiamavano extracomunitari


“I neri sono chiamati extracomunitari, ciò significa che gli uomini di colore diverso vanno a vivere
in un’altra nazione in cerca di un lavoro, che però non gli viene dato perché sono di un colore
diverso”.
“Se fossi nera, avrei paura di non avere un lavoro da grande e di vivere in un quartiere poco serio”
In Italia, i neri vengono rappresentati come primitivi, poveri e ignoranti, questo perché l’Africa non
è solo un concetto geografico ma anche sociale, quindi, indipendentemente dalla parte dell’Africa
da cui vengono queste persone, i neri – secondo gli italiani - portano con sé questi attributi. Inoltre,
a causa della produzione e del riciclaggio di stereotipi dovuti ai media, i neri vengono considerati
come malvagi e criminali: si dice che spaccino, rubino e uccidano le persone, persino i loro
bambini (“se avessi dei genitori neri, vivrei nella paura che mi ucciderebbero o
abbandonerebbero”). La nascita di questi stereotipi è, però, avvolta nel mistero di un’immaginaria
Africa preistorica, dove regna la condizione di miseria e di povertà, che sembra essere decisa
dall’alto: “Io mi chiedo perché Cristo li abbia creati poveri, ma se ha deciso così, lui sa cosa fare”. In
questo modo, la miseria non appare come il prodotto di rapporti sociali sbilanciati, bensì come
qualcosa di intrinseco del gruppo/razza, quindi un carattere costitutivo di tutti i neri. Per i bambini
(e anche molti adulti) il colore nero diventa la spiegazione e la causa del rapporto sociale, del
rifiuto e dello sfruttamento, quindi colore e povertà sono una sorta di punizione di Dio (non
considerano quindi lo sfruttamento, l’egemonia politico-economica dell’Occidente, la storia
coloniale). Quindi si giustifica un rapporto di oppressione con una colpa verso l’ordine divino.
“La specie più diffusa di extracomunitari sono i vu cumprà, che percorrono molti chilometri per
vendere soltanto un portafogli”: il lavoro di ambulante o di lavavetri, così come la richiesta di
elemosina, sembrano essere gli unici lavori per i neri. Questa rappresentazione miserabilista dei
neri, largamente diffusa dai media, tende a cancellare la loro vita quotidiana di lavoro e di
relazione, e ciò ha una grande influenza sui bambini. Gli stereotipi toccano ogni aspetto della
quotidianità, “i neri vivono in una topaia/cantina/catapecchie senza acqua e luce/in scatole, etc.”
Lo stereotipo arriva allo svilimento profondo della persona, vista come vicina alla bestialità nel
frugare nell’immondizia in cerca di cibo e sporca ne corpo come i luoghi che abita. Avere dei
genitori neri è visto come una catastrofe: “Non avrei più amici, vivrei nella carestia e nei debiti,
nessuno ci vorrebbe bene e non avrei più nulla”, ne derivano fame, malattia, sporcizia, lamento e
umiliazione “eravamo entrati a far parte del Terzo Mondo”.
La totale assenza di luce di molti temi mostra il potere disumanizzante di queste rappresentazioni.
È il condensato di ciò che i bambini hanno assorbito in famiglia e fuori, dai vari canali di
comunicazione. Questi stereotipi causano ansia, distacco e rifiuto. Anche la propaganda sulla fame
del mondo alimenta l’idea di povertà: “Preferisco essere come ora, se fossi nera non avremmo due
macchine e cose belle”, c’è un’idea di benessere illusoria ma anche un senso imperialistico di
essere padroni del mondo “è più bello essere bianchi perché possiamo andare dappertutto senza
problemi”. Le piccole cose della quotidianità – la televisione, il divano, le partite, zaini, astucci,
uscite – sono costitutive dell’identità e della vita quotidiana dei bambini, questo continuo
confronto sull’avere rappresenta, per loro, la differenza tra i bianchi e i neri.

Zoletto Davide: Straniero in classe – Una pedagogia all’ospitalità


Quando un insegnante si trova di fronte ad un allievo straniero, ogni suo atteggiamento è
inevitabilmente influenzato da una serie di presupposti di cui non ci si può liberare
completamente, ma di cui si deve essere consapevoli. Quando si dice che un alunno appartiene ad
un’altra cultura, le idee di cultura, alterità e appartenenza possono essere aperte, sfumate o
rigide. Inoltre, il termine ambiguo e abusato “integrazione” può essere un percorso che valorizza le
differenze e unisce, ma anche un percorso che condanna l’altro ad assimilarsi a noi senza intaccare
i nostri privilegi. Inoltre, per educazione interculturale, non si intende aggiungere qualche
“contenuto esotico”, bensì reinventare in chiave planetaria in modo da fare scuola.
“Straniero in classe” non riguarda solo l’allievo che viene da un altro paese, ma anche l’insegnante
che si sente spaesato e stranito, poiché vede messi in discussione molti dei pregiudizi su cui si basa
il suo metodo usuale.

CAPITOLO 1: Che ci faccio qui? – Accoglienza


Il primo incontro tra un insegnante e un alunno straniero viene visto come una terra di frontiera.
Per capire come mai la scuola multiculturale diventi una terra di frontiera, dobbiamo modificare la
concezione che abbiamo di questo termine: per frontiera, si intende spesso una linea che separa in
modo rigido due paesi, ma andando oltre la terminologia geografica e politica, la frontiera può
anche separare due culture, due condizioni sociali, due epoche e due religioni diverse. In questo
senso, la scuola è una linea netta tra chi va a scuola e chi no (oppure chi abbandona o chi ne esce
con le stesse condizioni di marginalità con cui vi è entrato). Esistono degli studi, i border studies,
volti a trasformare l’idea di linea di confine in terra di frontiera, ovvero un’area ampia difficile da
definire, non solo perché separa, ma anche perché collega. Rispetto ad una linea di confine si deve
restare da una parte o dall’altra, invece, rispetto ad una terra di frontiera ci si trova nel mezzo.
Provando ad applicare questa teoria alla scuola, gli stranieri che si presentano agli incontri di prima
accoglienza entrano in una terra di frontiera che deve farli filtrare in certe modalità e a certe
condizioni nella nostra società; qui, gli insegnanti fungono da doganieri che presidiano una
frontiera attraverso cui gli stranieri passeranno. Gli stranieri si trovano continuamente fuori e
dentro la nostra società. Fuori poiché stranieri da orientare, alfabetizzare ed integrare. Dentro
poiché immigrati regolari, forse futuri cittadini, intanto studenti o lavoratori. In questo modo, lo
straniero insegna agli insegnanti a cambiare il modo di guardare la scuola e la società a cui
appartengono: lavorando in una terra di frontiera, imparano a percepire come siano viste le loro
culture e le loro identità da fuori, nonostante si trovino dentro la scuola e la società, di cui
condividono gli spazi, le regole e i valori.

L’insegnante e la sua mappa


Nelle scuole come terre di frontiera, gli incontri di prima accoglienza fungono da dogana in cui
sono poste diverse domande: “Come si chiama? Quando è nato? Lavorate? Quale lingua parla il
bambino con voi?”. L’obiettivo degli insegnanti è duplice:

 Dare ai futuri allievi e ai genitori una prima idea sul sistema scolastico italiano e di quella
specifica scuola
 Farsi una prima idea del futuro allievo e della sua famiglia per preparare le successive fasi
della prima conoscenza e dell’inserimento, e giungere così al momento in cui decidere e
definire i modi e i tempi del suo percorso formativo
Fra gli stranieri, qualcuno accetta lo stile del colloquio e si adatta al ruolo, altri soffrono la banalità
e il tono delle domande e hanno a cuore altro, qualcosa sulla scuola, sui figli o su loro stessi, per
esempio se possono continuare a svolgere il loro lavoro: il professore. “Insegnava? Che studi ha
fatto? Non so se è possibile avere l’equipollenza”: questo termine è difficile da comprendere, ci si
trova in una situazione di empasse, in quanto l’insegnante dà per scontati certi termini, dai più
banali (scuola primaria/scuola elementare, scuola media, esame di maturità, etc.) ai più complicati
(alfabetizzazione, equipollenza, etc.). Durante un colloquio di accoglienza, un insegnante non si
chiede mai “Cosa ci faccio qui?”, perché per lui il colloquio è qualcosa di naturale, come se si stesse
affidando ciecamente ad una mappa che lo aiuta ad orientarsi. La mappa, però, non rappresenta
un territorio, bensì una sua proiezione, più o meno fedele, che non deve essere confusa con la
realtà che rappresenta. È così anche per l’insegnante accogliente: l’insieme di abitudini e di
certezze a cui si affida per orientarsi a scuola non andrebbe mai confuso con la realtà di un
incontro di accoglienza. Per di più, la mappa non riproduce i vari aspetti del colloquio con lo stesso
grado di definizione, alcuni aspetti sono designati più chiaramente, perché ne si ha una conoscenza
esplicita (come il protocollo di accoglienza), altri sono riportati in modo più incerto, vago, in quanto
ne si ha una vaga conoscenza, è il caso degli stereotipi sugli stranieri e sulle culture. Il colloquio,
quindi, risulta essere una proiezione, in quanto vi sono mancanze, ingenuità e approssimazioni.
Per quanto sia incoerente, la mappa assume agli occhi dell’insegnanti e degli altri membri della
società un’apparenza di coerenza, omogeneità e chiarezza. Quell’apparenza poi si concretizza in
azioni così degne di fiducia che permettono all’insegnante di raggiungere il miglior risultato col
minimo sforzo. Così, l’apparenza diviene una procedura quasi automatica a cui ci si affida
inconsapevolmente.
Il disorientamento dello straniero
Gli insegnanti risultano essere i dominatori di un territorio con i quali non esiste, almeno
inizialmente, la comunicazione, questa avverrà in seguito in qualche momento in un momento
poco formale o in classe. Proprio per questo, il genitore perde tutte le speranze nel porre
domande, e quindi finisce per tacere, disorientato. Il genitore, dallo sguardo perplesso, smette di
chiedere, con la speranza di capire meglio successivamente, trovandosi però solo dinnanzi a delle
scatole cinesi. Il genitore appare quindi passivo nei confronti dell’insegnante: in realtà, anche lui
cerca di organizzare quell’incontro in base alla propria mappa. Il genitore potrebbe avere idee
precostruite sulla scuola, sulle istituzioni, sui colloqui, quindi non è detto che un genitore straniero
che tace durante un colloquio non abbia idea di cosa stia succedendo: sulla sua mappa, il colloquio
potrebbe essere un interrogatorio in cui è meglio tacere (altri non si presentano proprio perché
vedono la scuola come lo spazio tra alunno e insegnante, in cui la presenza del genitore sarebbe
un’indebita intromissione). Il genitore straniero, quindi, si rende conto che non può continuare ad
usare la sua mappa, ma è anche difficile passare così repentinamente all’altra. Innanzitutto, per
poter usare una mappa servono dei punti di riferimento: l’insegnante li possiede in quanto ha un
ruolo nella società e fa parte di un determinato gruppo sociale, lo straniero è privo di status,
manca di qualsiasi punto di riferimento, non sa qual è il suo ruolo e quindi non può orientarsi
rispetto alla mappa. Inoltre, le varie parti delle mappa non sono coerenti, e acquistano una certa
unità solo per i membri del gruppo di appartenenza: ciò che all’insegnante appare e serve come
una mappa coerente, al genitore straniero appare come un’accozzaglia di linee quasi prive di
senso. Gli stranieri, quindi, devono usare l’insegnante come esempio e come punto di riferimento
per iniziare a muoversi, quindi l’insegnante funge e deve fungere da avamposto.
Se l’insegnante, con una sola occhiata riesce a captare la situazione, lo straniero si sente
disorientato, e finisce per trovare non un rifugio protetto ma un campo di avventure: lo straniero,
di fronte a questo labirinto, non smette di muoversi, ma lo fa insicuro, a tentoni.

Sia qua che là


Spesso, l’insegnante pensa “Il solito spaesamento di chi è appena arrivato”, e risulta quindi essere
accogliente di nome ma non di fatto, perché non riuscire ad accogliere completamente lo
straniero. Può succedere che anche un insegnante si trovi in una situazione di spaesamento, per
esempio, qualcosa di normale come un’aula insegnanti o un colloquio con dei genitori stranieri
pare qualcosa di insolito e privo di senso, lo sguardo si sdoppia contemporaneamente in un “qui” e
in un “là” e, avendo considerato sempre il “qui”, ci si sente straniti, fuori posto. Michel de Certeau
ha descritto questa situazione come l’essere un estraneo a casa propria, un selvaggio in mezzo alla
cultura ordinaria, sperduto nella complessità di ciò che si dà comunemente per inteso e per
scontato. L’insegnante si sente spaesato perché è dentro al proprio territorio e al proprio tempo,
ma li percepisce in modo diverso, è in questo senso che l’insegnante, per essere più accogliente,
deve imparare ad essere uno straniero in classe. Ovviamente, se l’insegnante si trovasse
costantemente in uno stato di estraniamento, si avrebbero delle accoglienze fatte di estraniamenti
che non porterebbero a nulla, anzi, sarebbero impossibili: l’insegnante finirebbe per non credere
allo straniero e a se stesso. Per diventare stranieri in classe, sia il genitore che l’insegnante devono
oscillare tra il “qui” e il “là”. Accade insomma che entrambi si trovino a un tempo sia di qua che di
là del confine, come in una terra di frontiera. Quindi, per essere accoglienti, occorre stare nel
mezzo.

CAPITOLO 2: L’altro sotto esame – Prima conoscenza


Un problema di ordine scolastico
Dopo gli incontri di prima conoscenza, volti a raccogliere quante più informazioni possibili
sull’allievo per il suo inserimento nella classe, il minore straniero diventa alunno. Durante questa
fase, vengono utilizzati degli strumenti per comprendere aspetti specifici dell’alunno, come le
competenze non verbali, le conoscenze e competenze della lingua materna e della lingua
italiana, e il grado di conoscenza dell’alfabeto latino maiuscolo, minuscolo, stampatello e corsivo.
Inoltre, esistono griglie per l’osservazione del comportamento, che aiutano l’insegnante ad
inquadrare l’alunno sul piano cognitivo, affettivo, sociale e relazionale. Questi strumenti, però,
portano con sé un problema: ci aiutano a conoscere l’altro o a costruirlo? La questione diventa
cruciale ogni volta che abbiamo a che fare con qualcuno diverso da noi. Conoscere l’altro significa
riconoscere che l’altro ha delle caratteristiche proprie che possiamo scoprire; costruire l’altro
significa che quelle caratteristiche non appartengono a chi abbiamo davanti, bensì dal modo in cui
noi lo percepiamo, costruendo quindi una sua immagine inesistente. Nella quotidianità dei
rapporti con gli allievi stranieri, la conoscenza e la costruzione dell’altro si confondono
inevitabilmente. Per esempio: se una ragazza marocchina che viene dalla campagna si scrive ad un
corso di italiano, è molto probabile che conosca meglio il francese parlato, e quindi scrivere alla
lavagna sarebbe inutile in quanto non capirebbe l’alfabeto latino (il contrario avverrebbe se venisse
dalla città, dove prevale il francese scritto). D’altra parte, il percorso di prima conoscenza è intriso
di stereotipi: l’insegnante vede la ragazza marocchina come oggetto del marito, rinchiusa in casa e
senza alcun diritto, ci vogliono settimane affinché l’insegnante cambi idea. La visione occidentale
prevale anche quando la prima conoscenza sembra smentire certi stereotipi: alla stessa scuola si
iscrivono tre donne turche che dicono di essere musulmane, immediatamente scatta l’immaginario
occidentale di “integraliste, antimoderne, ignare dei propri diritti”. Il fatto che queste donne parlino
italiano, abbiano una scolarità alta e siano consapevole dei propri diritti è incredibile per
l’insegnante, come se non esistessero altri modi di essere musulmani se non secondo gli stereotipi
occidentali. Edward Said ha definito orientalismo l’insieme di stereotipi sull’Oriente e sull’Islam,
che sono anche i fondamenti su cui si costruisce gran parte dei saperi che gli occidentali ritengono
di detenere. Un sociologo algerino, Abdelmalek Sayad, ha mostrato come lo stesso tipo di
rappresentazioni attraversino concretamente la grande famiglia delle scienze dell’immigrazione: si
parla sempre di scienze dell’immigrazione e degli immigrati, quindi di saperi costruiti della società
d’immigrazione, ma non si parla mai di emigrazione. Anche a scuola la prima conoscenza è sempre
conoscenza degli allievi in quanto immigrati, mai in quanto emigranti. L’allievo non viene visto
come la sua storia, bensì come un problema da risolvere, da regolare. Le informazioni che gli
insegnanti ricavano servono più alla scuola che all’alunno stesso, in quanto sono utilizzate per
evitare pericoli e un qualsiasi perturbamento della routine. Le stesse griglie di osservazione
vengono considerate efficaci quando servono a ricomporre il disordine prodotto dalla visibile
diversità dei nuovi allievi.
Prove d’accesso
Francisco e sua madre, partiti dall’Ecuador, prima di arrivare in Italia erano stati un anno in Florida,
uno in Germania e dei mesi in Svizzera, portando il ragazzo a cambiare continuamente scuola. In
Italia, decide di iscriverlo all’istituto tecnico contro la volontà degli insegnanti, che preferirebbero
iscriverlo ad un istituto professionale un anno indietro la sua classe. Dal punto di vista linguistico, la
prima conoscenza di Francisco rispecchia la sua storia migratoria e scolastica recente, per alcuni
colleghi, sarebbe dislessico poiché sbaglia tutte le doppie e confonde le b e la v, ma si tratta
probabilmente di interferenze con lo spagnolo, e anche il suo inglese viene reputato molto debole,
di fatto è stato esposto a quattro lingue diverse nel corso di poco tempo. La vicenda di Francisco si
sottrae alla normalità della vita scolastica, sia per le peculiarità del suo percorso migratorio, sia
perché la madre rifiuta di accettare l’autorità della scuola. Alla fine, dopo essersi iscritto, viene
bocciato, è di due anni indietro e inizia a lavorare. Questa storia ci fa capire il turbamento che
provano gli insegnanti davanti all’arrivo di uno straniero e come questi tentino di governare il
disordine prodotto, così da condurre il ragazzo ad una norma. Questo riferimento al governare ci
rimanda alla nozione di governamentalità di Michel Foucault: l’insieme dei saperi e tecniche
attraverso cui, a partire dal XVIII secolo, si è esercitato il potere sulla popolazione degli Stati
moderni. Fino ad allora, il potere era detenuto dalla sovranità diretta di un principe o di uno Stato
su un determinato territorio e i suoi abitanti; dal Settecento, il potere assume forme diverse, come
l’economia, la salute pubblica, la sicurezza e la pedagogia. Questi saperi e queste tecniche si
esercitano in luoghi e istruzioni specifiche a cui lo Stato si limita a fornire organizzazione e
articolazione (ospedali, luoghi di lavoro, scuole, etc.). I governamentality studies riprendono
questa chiave di lettura per analizzare le modalità con cui la condotta degli individui viene
orientata e controllata nelle società contemporanee. Secondo Foucault, una delle pratiche
principali della governamentalità scolastica è l’esame. Questa pratica contribuirebbe a governare la
vita scolastica degli allievi mediante tre meccanismi diversi ma collegati:
1. Rendere visibile l’allievo
2. Documentare la sua specificità
3. Fare di ogni allievo un caso
In primo luogo, le prove d’accesso rendono visibile la diversità dell’allievo straniero. Senza prima
accoglienza, un alunno straniero come Francisco sarebbe stato iscritto alla classe richiesta per poi
scomparire, magari in fondo alla classe, per gran parte dell’anno. In passato, in epoche di esplicita
segregazione scolastica, l’ordine scolastico veniva salvaguardato proprio sottraendo gli allievi
stranieri alla vista (mandato in scuole/classi speciali o proprio fuori dalla scuola). Oggi, nell’epoca
multiculturale, l’ordine viene mantenuto imponendo a tutti gli allievi un principio di visibilità
obbligatoria, cioè identificando i nuovi arrivati e le loro competenze. Gli allievi stranieri vengono
identificati come tali per evitare di sfuggire al controllo degli insegnanti.
In secondo luogo, insieme alle prove di accesso si comincia a costruire un sistema di
documentazione che ne riporti, custodisca e comunichi i risultati: un archivio minuzioso che si
costituisce per ogni neoarrivato, e che poi si arricchisce in tutti i momenti della vita scolastica. Che
sia il registro, il fascicolo personale o il portfolio di lingue, la scuola registra l’alunno straniero così
che possa essere sempre osservato. Questo materiale può, per esempio, essere usato da un’altra
scuola in caso di trasferimento.
Infine, le prove d’accesso iniziano a trasformare ogni singolo arrivato in un caso, ovvero un oggetto
di conoscenza su cui il potere dell’insegnante può esercitare una presa. Ignorando i vissuti dei
singoli, gli insegnanti trasformano gli individui in oggetti da inquadrare, gestire e magari
correggere, poiché spillati alla loro singolarità.

Un reticolo livellatore
Le informazioni raccolte su un allievo straniero non possono mai essere separate dal modo e dal
contesto in cui vengono raccolte. Dal punto di vista del modo, se dopo aver raccolto delle
informazioni non le si usano per costruire un rapporto, ciò non serve a granché. All’interno di un
colloquio servono tatto, discrezione e sensibilità. Dal punto di vista del contesto, è importante
rendersi conto che la prima conoscenza non avviene nel nulla, bensì fa parte di un processo più
ampio definito da Certeau come un reticolo di razionalità livellatrici: il tentativo dell’insegnante di
rilevare i bisogni di apprendimento dello straniero è legato ad altre pratiche che portano l’allievo
straniero a adattarsi alla società in cui è arrivato. Un esempio di questo reticolo è offerto
dall’antropologa Aihwa Ong, che ha studiato il sistema del welfare californiano, volto ad accogliere
i rifugiati. Molte governamentalità, come la scuola, i servizi sanitari, il tribunale, etc., hanno lo
scopo di plasmare i figli dei rifugiati in buoni cittadini americani. Lo stesso vale anche per la prima
conoscenza scolastica: le etichettature e i disciplinamenti cercano di livellare le differenze degli
stranieri, così che interiorizzino le norme standard e diventare buoni cittadini della comunità
scolastica, sociale e nazionale di approdo.
È interessante notare come anche gli insegnanti, i mediatori culturali e linguistici e gli operatori
interculturali restino imbrigliati in questo reticolo livellatore, in quanto consapevoli di essere
prigionieri dei processi regolatori della scuola quanto tanto lo sono i loro allievi. Spesso, di fronte
ad un allievo straniero, gli insegnanti provano ciò che sentono gli insegnanti di sostegno: la loro
professionalità dipende dalla meticolosità con cui compilano le schede di ingresso e i fascicoli dei
futuri allievi (meticolosità che ha a che fare con la routine e la burocrazia, non con la precisione e
l’attendibilità). Criticare questi materiali, però, significherebbe mettersi in una posizione
superficiale e ingenua: la prima conoscenza e le prove di ingresso servono, ma andrebbero
diversificate e rese più precise; ingenua perché da questo reticolo non si può uscire. Infatti, l’invito
dei governamentality studies non è di smettere di usare questi materiale, bensì cercare di capire i
modi in cui si resiste all’azione livellatrice del reticolo. Si tratta insomma di scoprire quali modi di
fare costituiscano la contropartita per gli alunni e per gli insegnanti delle tecniche silenziose che
assicurano l’ordine della scuola.

Tattiche, non strategie


Quando un allievo o un’allieva stranieri entrano a perturbare l’ordine di una scuola, scattano le
procedure formali con cui gli insegnanti tentano di inquadrarli, diffidando anche dell’identità, della
storia e dell’esperienza dell’alunno straniero. Tuttavia, negli incontri di prima conoscenza scolastica
esistono anche casi di situazioni più informali che possono sovvertire alcuni aspetti dell’ordine
scolastico, creando spazi in cui diventa possibile incontrare le persone nella loro irriducibile
singolarità. Un contributo importante è dato dalle pause e dagli intervalli, in cui si può imparare a
conoscere l’altro. Francisco, durante il laboratorio di italiano L2, aveva conosciuto un signore
iraniano, e parlando con lui aveva cominciato a parlare con tutti gli altri, avendo così uno scambio
interculturale. Così facendo, tra l’altro, era uscito fuori che fosse un amante del basso elettrico e
della musica punk, cosa che non sarebbe mai stata rilevata negli incontri (e che non avrebbero mai
chiesto). Sta di fatto che la scuola organizzava corsi di musica di cui Francisco era ignaro: lì, non era
più l’allievo straniero, ma principalmente un bassista. Questo espediente informale, che Certeau
descrive come tattiche (in quanto hanno qualcosa di clandestino, di straforo), non può diventare
metodo o strategia, altrimenti sarebbe un ingranaggio del reticolo livellatore da cui liberarsi. A
scuola, queste tattiche non possono essere previste, poiché si insinuano in modo frammentari nel
reticolo delle razionalità livellatrici. Ognuna di essere dipende da circostanze diverse, imprevedibili,
che l’insegnante deve cogliere al volo. Come diceva Certeau, l’insegnante deve giocare
continuamente con gli eventi per trasformarli in occasioni.

CAPITOLO 3: Reinventare la classe – Inserimento e metodi didattici


Integrato: separato
Grazie alla prima conoscenza, l’équipe di accoglienza della scuola può formulare la proposta più
adeguata di assegnazione ad una determinata classe e sezione. Questa proposta dovrebbe basarsi
su una molteplicità di aspetti. Se lo consideriamo alla luce delle politiche e pratiche Europee di
integrazione scolastica degli allievi stranieri, il fatto che il nuovo allievo venga inserito in una classe
composta anche da allievi italiani non è affatto scontato. Le politiche europee, infatti, oscillano
ancora tra un modello "integrato" come quello italiano e un modello "separato" come quello
tedesco, che prevede classi apposite per gli stranieri. Classi che possono essere definite "speciali",
nel bene e nel male. In realtà, ci si trova di fronte a una vasta gamma di soluzioni miste e
intermedie. L'organizzazione di percorsi più o meno integrati o separati dipende infatti da una serie
di variabili locali. Queste variabili vengono oltretutto amplificate dall'autonomia scolastica. La
maggior parte dei ricercatori è concorde nel ritenere l'approccio integrato il più adeguato a
promuovere l'integrazione fra allievi di provenienza di diversa. Tuttavia, il fatto che in Italia viga
ufficialmente un approccio di tipo integrato non deve far concludere che tutto vada bene. Infatti,
nell’ambito dell’integrazione scolastica degli stranieri, l’approccio integrato non è frutto di un
percorso di riflessione come è stato invece nel caso dell'integrazione scolastica delle persone in
situazione di handicap. Piuttosto è il frutto di una sostanziale impreparazione delle scuole italiane
che spesso subiscono e non scelgono l'approccio integrato. Questo fa sì che a volte le concrete
situazioni di difficoltà in cui si trovano gli insegnanti li portino a cercare e accettare situazioni che
re-introducono in modo più o meno velato un approccio di tipo separato. È per questo che i
protocolli di accoglienza più attenti battono sull'importanza di ripartire gli alunni nelle classi
evitando la costituzione di sezioni con predominanza di alunni stranieri e sottolineano quanto sia
decisivo fornire tempestivamente agli insegnanti di classe i dati raccolti durante la prima
conoscenza. Il momento critico per eccellenza è quello dell’inserimento del nuovo allievo nella
classe prescelta appunto troppe volte questo momento viene erroneamente ridotto ai soli
problemi linguistici e culturali. Di conseguenza, le iniziative che vengono prese per facilitare
l’inserimento sono di solito finalizzate soprattutto a due tipi di obiettivi:
1. Rispondere ai bisogni linguistici dei neo-alunni e insegnanti cioè l'equivoco tema dell’italiano
come L2.
2. Rompere l'apparente omogeneità culturale dei programmi e dei curricoli, contaminandola con le
presunte culture dei nuovi arrivati e l'altro tema dell’educazione interculturale. In un contesto in
cui l’integrazione viene subita e non scelta, l’inserimento in classe viene identificato con questi due
puri importanti questioni.
L'aspetto più pericoloso è che gli insegnanti deleghino spesso la gestione di queste due pretese
‘emergenze’ a figure esterne più o meno preparate consapevoli per quanto anche se sempre
motivati e appassionate: i cosiddetti mediatori. Non è un caso che i mediatori vengano spesso
definiti "linguistici" se sopperiscono ai bisogni linguistici di insegnanti e allievi, e “culturali” o
“interculturali” se vengono chiamati a contaminare con le loro "culture" i programmi scolastici.
Mediatrici come badanti
Proprio perché legate ai temi dell’intercultura e degli alunni stranieri, la figura del mediatore e la
pratica della mediazione possono essere un buon punto di partenza per affrontare il tema
dell'inserimento degli allievi stranieri. La figura del mediatore è oggetto di gruppi di studio.
Tuttavia, se analizziamo il modo in cui viene utilizzata di fatto, questa figura appare un condensato
di molti degli equivoci del multiculturalismo e un meccanismo per riprodurli e ampliarli. Il
problema è piuttosto il modo in cui la loro figura viene percepita e utilizzata a livello scolastico. I
mediatori dovrebbero essere stranieri, preferibilmente madrelingua, ancora meglio se inseriti con
posizioni di prestigio in una comunità o in un'associazione di stranieri presente sul territorio.
Questo perché si presume che dovrebbero essere portatori e testimoni di una cultura, lingua, dei
diritti e degli interessi di una comunità “etnica". Sulla base di questi presupposti, i mediatori
dovrebbero poter raccontare la loro cultura come un po' tutto ben definito (nel caso dei mediatori
culturali), o mediare fra due culture altrettanto ben definite come quella italiana e quella "altra"
(nel caso di quelli interculturali). Ma nei fatti riproducono lo stigma che vorrebbero ribaltare, lo
dimostra il fatto che sono sottopagati, lavorano in una situazione di flessibilità e precarietà totale e
con un turnover rapidissimo, perché nessuno accorda alla professionalità che si pretende da loro il
lusso di diventare anche un lavoro. Di conseguenza la maggior parte dei mediatori può mediare
solo quando non è di turno in fabbrica, quando ha un paio d'ore di libertà dal lavoro di badante.
Inoltre, i mediatori sono poi di fatto quasi sempre delle mediatrici. Il che evidenzia l’inevitabile e
pericolosissima questione ed esclusione di “razza”, classe e genere che si consuma nelle pratiche
delle mediazioni. Finiscono per essere ‘mediatrici come badanti’. Dunque, concentrarsi sulla figura
del mediatore come deus ex machina potrebbe risolvere, se ben preparato e "utilizzato", il delicato
problema dell'inserimento in classe, anche se si corre il rischio di escludere sia l’allievo straniero
che la mediatrice, sottolineando e stigmatizzando quella differenza che si voleva invece riconoscere
e valorizzare. L'impiego ingenuo di mediatori e mediatrici nasconde spesso non solo l'ansia di
un'integrazione subita e poco preparata, né solo un’enfasi troppo unilaterale su lingua e contenuti.
Rivela soprattutto una scarsa attenzione alle dinamiche micro-sociali della classe intesa come
“ordine dell'interazione”. Guardare alla classe come a un ordine dell'interazione significa guardarla
come insieme di relazioni. Pur essendo in classe un allievo straniero può sentirsi escluso dal
sistema classe ed essere percepito come tale anche dai compagni. La presenza del mediatore a
volte può accentuare questa percezione, perché evidenzia ciò che differenzia l’allievo straniero dai
compagni, e rischia di accrescere così la distanza che li separa, non a caso, molti (pre)adolescenti
rifiutano la presenza di un mediatore/mediatrice pur preparati e disponibili. Aggiungere qualche
contenuto “etnico” o corsi di L2 non modifica questo ordine, anzi, spesso lo rafforza. Si deve
lavorare invece sulla classe come microsistema sociale per inserire al meglio l’allievo straniero,
questo attraverso una reinvenzione della didattica di cui beneficiano tutti coloro che abitano in
classe. Ciò che serve è una rinnovata attenzione all’organizzazione didattica del sistema classe e
allo stesso tempo un supplemento di capacità critica ed autocritica:

 La prima per introdurre approcci didattici capaci di rendere l’organizzazione del sistema
classe più flessibile e ospitale
 La seconda per attrezzarsi contro gli stereotipi e le semplificazioni che ogni organizzazione
didattica può portare con sé
L'organizzazione didattica senza critica e autocritica diventa puro tecnicismo. La critica e
l'autocritica senza organizzazione didattica diventano mero parlarsi addosso. In entrambi i casi
rischiano solo di aumentare l'esclusione che vogliono combattere.

Un insegnante manager?
È fondamentale imparare a vedere la classe come un sistema sociale. Elizabeth Cohen ha svolto
diverse ricerche sugli ordini di status in classe, si tratta di ricerche che studiano aspetti diversi
strettamente correlati tra loro:

 Come in classe si producano e si conservino le differenze di status fra gli allievi


 Come esse vengano rafforzate da determinate modalità di organizzazione didattica e dalle
aspettative reciproche di insegnanti e compagni
 Quali conseguenze esse provochino sulla percezione di sé e degli altri, sulla socializzazione
e sull’apprendimento
Cohen parte da un’analisi delle differenze di cultura, di classe e di genere che sussistono tra gli
studenti (differenze che possono derivare dal loro background culturale, dalla loro esperienza e dai
mass media). Queste differenze in entrata si trasformano poi in differenze di performance rispetto
alle competenze richieste a scuola: si formano così, in classe, delle gerarchie in cui gli allievi si
assegnano l’un l’altro posizioni di maggior o minor prestigio prendendo come indicatore le stesse
performance. Cohen dimostra però che questi criteri extrascolastici non predominano
completamente l’ordine di status della classe, poiché interagiscono con tutte le variabili
intrascolastiche, come la popolarità tra le relazioni o i risultati scolastici. Cohen, quindi, sostiene
che bisogna innanzitutto intervenire sulle dinamiche interne, quindi sull’organizzazione e
sull’approccio didattico.
L’ordine tradizionale prevedere il maestro all’apice della gerarchia, lezioni frontali ed esami. Oggi,
invece, esistono laboratori di gruppo e il cooperative learning. Per un bambino straniero, è faticoso
essere inserito in una classe tradizionale, sarebbe invece migliore lavorare per piccoli gruppi.
Entrare in un’aula a “ferro di cavallo” (cattedra da un lato e i banchi di fronte) ha un duro impatto a
differenza di un’aula in cui la disposizione dei banchi riflette la predisposizione al lavoro di gruppo.
La disposizione a ferro di cavallo è più democratica, ma si è continuamente sottoposti al severo
sguardo del docente e dei compagni; invece, nei lavori di gruppo, questi sguardi sono meno
giudicanti e pesanti. Ovviamente non basta spostare i banchi per scardinare le differenze di status,
per questo, Cohen propone l’istruzione complessa: l’insegnante richiede delle competenze non
richieste dalla scuola tradizionale, in questo modo gli studenti sviluppano diverse abilità e possono
cooperare tra loro. In questo modo, ogni studente può scoprire in cosa è portato, che sia qualcosa
di scolasticamente riconosciuto o meno. Sulla base di questi presupposti, Cohen sviluppa proposte
e percorsi articolati e dettagliati che sembrano produrre classi eque e diversificate, anche sul piano
linguistico e culturale. Per attuare queste attività cooperative, però, l’insegnante deve cambiare
radicalmente il suo ruolo: non supervisiona più gli alunni, ma delega loro una parte della sua
autorità, gli allievi finiscono quindi per essere responsabili del coinvolgimento e
dell’apprendimento proprio e degli altri. In questo modo, l’insegnante cessa di essere il punto
focale della classe, per diventare un manager, nel senso che:

 Osserva il sistema sociale classe


 Progetta contesti, situazioni e percorsi che promuovano la collaborazione, il miglioramento
di status e l’apprendimento individuale e sociale di ogni studente
 Organizza e gestisce le attività programmate
 Facilita la collaborazione tra gli allievi senza intervenire in modo troppo diretto
 Valuta individualmente e collettivamente le performance

Non solo metodologo


Questa metodologia risulta essere tra le più utili nell’inserimento di un alunno straniero. In una
società multiculturale come la nostra, però, bisogna innanzitutto riconoscere e valorizzare le
differenze attraverso una loro migliore gestione ed organizzazione. All’interno di un’impresa, la
diversità è ricchezza, è una risorsa. L’insegnante deve rendere più maneggevoli le differenze
culturali attraverso una loro semplificazione. Non è un caso che molti corsi di comunicazione
interculturale prevedano almeno un modulo sulle regole implicite che costituirebbero gli schemi
comunicativi tipici di determinate culture e determinati allievi: posture e atti non verbali, modalità
di contatto fisico-visivo, distanze interpersonali, regole di apertura-chiusura delle conversazioni,
regole di contegno, etc. La conoscenza e la padronanza di questi schemi andrebbero a formare le
competenze interculturali che un insegnante-manager interculturale dovrebbe aver acquisito in
prima persona e dovrebbe far acquisire ai propri allievi. Il rischio è di finire in una burocratizzazione
da cui dovrebbe invece scappare: Paulo Freire ci fa notare che, a volte, i nuovi accorgimenti
metodologici volti a ridurre una discriminazione si basano proprio su dei pregiudizi, non può quindi
esistere un’educazione fatta di soli accorgimenti tecnici. Un buon insegnante-manager non deve
smettere di essere critico ed autocritico, non può smettere di riflettere e di far riflettere.

CAPITOLO 4: In aula con Venerdì – Italiano L2


Un’impronta sulla sabbia
“Il problema è la lingua” è una frase che spesso testimonia la buona volontà e il senso di
frustrazione che molti insegnanti provano di fronte alle difficoltà che incontrano nel momento in
cui viene inserito un allievo straniero. In classe la non padronanza della lingua e i silenzi dei nuovi
arrivati costituiscono un segno forte dell’alterità dell’allievo straniero. Il bambino straniero, a
differenza di quello italiano, non può rientrare in un’idea stereotipata di alunno medio, in quanto
anche lui è diverso, ma di una diversità più visibile, in quanto non capisce l’italiano e non lo parla.
La si definisce come un’alterità rumorosa, che “richiede di essere riconosciuta”, come precisa
Michel de Certeau. Egli, inoltre, ci dice che il silenzio degli allievi stranieri è l’unico modo in cui essi
possono farsi sentire e, se ascoltiamo questo loro silenzio, possiamo sentire la loro difficoltà ad
adeguarsi a una scuola che impone un certo tipo di cultura, quella dei più forti. Il problema
dell’italiano come L2 non è in gioco soltanto una pur urgente questione glottodidattica, ma anche
l’inevitabile paradosso su cui deve fondarsi ogni educazione interculturale e ogni educazione tout
court: il paradosso del potere e della resistenza del potere che l’educatore e l’allievo esercitano
l’uno verso l’altro. L’autore esemplifica questo paradosso scegliendo un libro che costituisce
l’emblema della modernità, ovvero Robinson Crusoe, del quale prende un passaggio preciso:
quello in cui il protagonista, durante il suo progetto di colonizzazione, si imbatte nell’impronta di
un piede, l’impronta di un altro. Tale scoperta manda in pezzi le sue certezze che riponeva nelle
sue capacità di mettere in ordine il mondo. Questo racconto è esemplare del rapporto che ogni
sistema ordinato intrattiene con ciò che scompiglia il suo ordine. Scuola e classe sono come l’isola
su cui l’insegnante cerca di stabilire un ordine e l’inserimento di un allievo straniero è come
l’ombra che Robinson scopre sulla spiaggia. Quella impronta sulla sabbia rappresenta il silenzio del
nuovo arrivato per l’insegnante; ciò che ha lasciato la traccia non è là e non ha luogo, in quanto
Robinson non ha ancora incontrato Venerdì. Così l’insegnante in classe non interagisce con il nuovo
allievo, in quanto è come una presenza muta. Robinson smarrisce, insieme al controllo, il senso
della propria impresa, proprio come l’insegnante che, di fronte al silenzio, sprofonda nella
frustrazione e nella sensazione di impotenza. Sia Robinson che l’insegnante ritrovano il senso del
proprio lavoro quando ritrovano il controllo, egli torna ad essere padrone della situazione in classe
quando il nuovo arrivato cessa di essere solo una presenza/assenza rumorosamente silenziosa e
inizia ad essere “visibile”. Non perché parli (visto che ancora non ne è capace) ma perché alla prima
conoscenza, grazie all’accertamento delle competenze linguistiche ed extralinguistiche esce dal suo
spaesante anonimato per entrare finalmente nel raggio d’azione degli interventi didattici.
Gli insegnai come parlarmi…
Quando Robinson e Venerdì finalmente si incontrano, il protagonista inizia ad insegnare all’altro la
sua lingua madre, un po’ come se fosse un insegnante di seconda lingua “Poco dopo cominciai a
parlargli e a insegnarmi a parlarmi”. Così accade all’insegnante in classe però il docente, rispetto a
Robinson, è meno solo e può trovare moltissimi aiuti. Per seconda lingua (L2) si intende la lingua
che si apprende in un contesto dove le persone parlano quella lingua, a differenza della lingua
straniera (LS) che è la lingua imparata in un contesto dove essa non viene parlata, all’estero.
Sull’italiano come L2 ci sono molti strumenti e non mancano le opportunità di formazione e
autoformazione. Uno dei problemi dell’insegnanti e dell’allievo straniero è che la loro classe è fin
troppo abitata da proposte non sempre di qualità, contribuendo a far sì che il problema della
lingua sembri l’unico da affrontare. In realtà il problema vero è che gli insegnanti non sono ancora
abbastanza preparati su questo specifico problema ed è, ancora una volta, la conseguenza di una
integrazione subita e non scelta. Il punto di partenza è l’impostazione comunicativa, funzionale e
situata che è alla base della glottodidattica contemporanea e che trova un riscontro istituzionale
oltre che molte preziose indicazioni pratiche, nel Quadro comune Europeo di riferimento per le
lingue. L’approccio risale alle concezioni di Wittgenstein e Austin che concepivano la lingua alla
stregua di un gioco, si tratta di una impostazione che si basa sull’idea che sapere una lingua
significa saperla parlare, saperla usare e quindi saper giocare con i suoi giochi linguistici. Questa è
un’impostazione preziosa perché ci impedisce di pensare all’apprendimento delle lingue come
all’acquisizione di sistemi astratti di regole slegate da specifici contesti d’uso e allo stesso tempo,
però, ci obbliga a non abbassare mai la guardia. Imparare una lingua che si possa effettivamente
usare può significare due cose:
- Imparare una lingua e attraverso di essa prendere coscienza della realtà in cui si vive, del contesto
e dei modi in cui quella lingua si usa, per poter prendere in mano la propria situazione e cambiarla;
- Limitarsi ad apprendere un linguaggio settoriale che serve a svolgere un determinato lavoro
precludendo così ogni possibilità di emancipazione.
Il Quadro europeo presenta una serie di descrittori di competenze/capacità comunicative e
linguistiche graduate a seconda dei livelli e delle tipologie di azione comunicativa e tali descrittori
costituiscono una mappa di obiettivi fra cui operare scelte funzionali ai bisogni linguistici degli
allievi. Permettono, infatti, di individuare con precisione i bisogni linguistici e gli obiettivi di
insegnamento in termini di abilità linguistiche e comunicative verificabili al termine di un percorso
didattico.

La lingua del padrone


Nel quadro di riferimento, se ci fermiamo ad un livello A2, chiamato di sopravvivenza: lo straniero
comprende frasi ed espressioni usate frequentemente relative ad ambiti più di immediato accesso,
sa descrivere in termini semplici aspetti del suo background e argomenti legati a bisogni immediati.
Non sono pochi i corsi di italiano L2 in cui, complice il monte ore ridotto, ci si limita oggi ad
impostare un traballante A2. L’Unione Europea afferma che l’integrazione passa attraverso una
integrazione lavorativa, ma si rischia così che essa diventi un’integrazione più legata ad uno
sfruttamento che a una valorizzazione. Sempre in riferimento ai personaggi di Robinson Crusoe, se
è questo il modo in cui gli insegniamo a parlarci, Venerdì non potrà che diventare “la voce del
padrone”. È certo un’idea di integrazione che ripugna agli insegnanti di italiano come L2, ma non è
lontana dall’integrazione/assimilazione attraverso cui passano le prime generazioni di migranti. A
questo tipo di insegnamento dell’italiano L2 si contrappone una versione politicamente corretta di
coscientizzazione, che viene spesso definita empowerment. Spivak contrappone la “versione
Defoe” alla “versione Coetzee”, dove l’insegnante è una lei, che naufraga su un’sola dove abitano
Crusoe e Venerdì. A differenza di Robinson, Susan vuole conoscere davvero Venerdì ma questo non
può imparare a parlare perché gli è stata mozzata la lingua, sentendosi così un po’ impotente.
Anche l’insegnante vorrebbe liberare l’allievo straniero dalla sua situazione di esclusione ma, allo
stesso tempo, vorrebbe anche che l’allievo rimanesse diverso dagli allievi italiani, perché in quella
diversità l’insegnante intravede un’autenticità che gli allievi e insegnanti italiani sembrano aver
smarrito. Spesso il progetto dell’insegnante fallisce: l’allievo sembra imparare dai suoi compagni
italiani tutti i difetti della nostra cultura e sembra così perdere la propria verginità culturale, senza
emanciparsi. Il progetto emancipante dell’insegnante di italiano L2 si scontra con l’impossibilità di
dare voce all’allievo straniero in quanto tale e l’unico modo in cui l’altro può chiedere di essere
riconosciuto è attraverso il silenzio. L’insegnante deve, saper ascoltare e rispettare anche i silenzi
dell’alunno e non precipitarsi a colmarli solo con un pronto soccorso linguistico.
C2: padronanza?
Se leggiamo nell’incontro fra Robinson e Venerdì la metafora del rapporto fra chi insegna una
lingua come L2 e l’allievo straniero che la apprende, dovremmo ricavarne che la lingua insegnata
come L2 non può essere mai davvero ospitale verso chi l’apprende e rischierebbe di essere
condannata al rischio di essere solo la “lingua del padrone”. Non è il caso che l’obiettivo di un
percorso di apprendimento L2 sia quello di raggiungere il livello più elevato, C2, definito come
livello della “padronanza”, parola che sembra dare l’idea che si possa arrivare a controllare la
lingua. Certeau e Spivak ci invitano a diventare sempre più padroni, come insegnanti, delle
tecniche di glottodidattica e a non disconoscere che si padroneggia la propria madrelingua e a far
sì che anche gli altri arrivino a padroneggiarla. La loro provocazione è quella di cambiare la nostra
idea di “padronanza di una lingua” ed entrambi si rifanno alla filosofia di Jacques Derrida per cui
padroneggiare veramente la lingua significa non padroneggiarla mai del tutto. Provocazione che
sembra tanto lontana dalla realtà, ma che si rivela, invece, vicinissima all’esperienza
dell’insegnante: egli infatti si trova continuamente in situazioni in cui gli allievi gli pongono
domande su aspetti della lingua italiana che all’insegnante sembra di conoscere, ma sui cui non sa
dare subito una risposta. Se un insegnante vuole valorizzare tali situazioni, può iniziare un percorso
di ricerca insieme su quei piccoli grandi problemi linguistici e provare così insieme a scoprire le
regole di quei diversi giochi. L’insegnante che pensa di essere già padrone della propria lingua non
valorizzerà mai tali situazioni. La sua “finta” padronanza gli impedirà di aumentare la padronanza
dei suoi allievi; l’insegnante che, invece, accetta di non essere del tutto padrone riuscirà a
diventarne più padrone insieme a loro. L’insegnante di L2, che è un po’ come un padrone di casa,
accoglie gli allievi stranieri nella propria lingua e per insegnare bene la lingua di cui è padrone, per
portare gli altri a padroneggiarla, deve riscoprirsi a sua volta ospite in quella lingua e quindi non
del tutto padrone. E quando l’insegnante trasforma tale scoperta in un’opportunità, può fare
ricerca insieme agli allievi su di essa e dentro di essa. Si re-impara in un certo senso la lingua
insieme agli stranieri a cui la stiamo insegnando, non c’è più qualcuno che solo padroneggi e
qualcuno che non padroneggia affatto, tutti facciamo insieme in classe ricerca di una lingua.

CAPITOLO 5: Una cultura in base a venire… - Educazione interculturale


Monologo e dialogo tra sordi
Accolto e conosciuto l'allievo straniero, inserito nella classe e nella sezione più opportune, avviato
un percorso per affrontare i problemi specifici legati alla L2, resta tutto l'ambito di ciò che viene
ancora troppo spesso ed erroneamente scambiato per una materia a sé, aggiuntiva, o come
l'insieme dei saperi e delle tecniche che riguardano gli allievi stranieri. Cioè la cosiddetta
educazione interculturale. Punto fondamentale da cui partire è che l'educazione interculturale
riguarda sempre la scuola nel suo insieme, come istituzione e come comunità di tutti gli allievi, non
solo gli stranieri. Quest'ultima deve essere vista più in generale come un'occasione per decostruire
e ricostruire continuamente il modo in cui si fa educazione nei diversi contesti educativi, formali e
non. Dell'educazione interculturale fanno parte i metodi educativi e didattici, i rapporti fra la scuola
e le altre realtà del territorio, terzo grande aspetto che costituisce l'educazione interculturale,
ovvero i cosiddetti contenuti dei percorsi educativi. L'importanza dell’apprendere ad apprendere
ossia la dimensione metacognitiva dell’educazione ci porta a vedere i contenuti come l'occasione e
la palestra di ogni percorso di formazione e apprendimento. Nella maggior parte dei casi gli
insegnanti, quando parlano di contenuti, li pesano spaziando tra una molteplicità di concezioni
diverse. Quando si entra però nell'ambito dell'educazione interculturale questa varietà di punti di
vista tende a ricompattarsi, parlare di contenuti dell'intercultura significa di solito per l'insegnante
parlare di culture. Il più delle volte le culture in questione sono quelle degli altri, dal momento
che la nostra è considerata la cultura per antonomasia. Si parla di culture alte e basse, globali e
locali, nazionali e minoritarie, di Massa, d’élite o di nicchia. Addirittura, si parla di culture legate
alle differenze di età, di genere di lavoro eccetera. Molto dipende dall'idea di cultura da cui
l'insegnante parte. E qui la questione principale diventa quella del rapporto fra la molteplicità di
culture che entrano oggi nella scuola e la cosiddetta cultura generale di base che rimane a
fondamento di ogni progetto formativo. Prendiamo, per esempio, un tema classico dell'
educazione interculturale nella scuola dell'obbligo, cioè il gioco. Da un lato, nella progettazione di
loro percorsi educativi, gli insegnanti possono attingere a diversi patrimoni culturali, sia quelli più
lontani nello spazio e nel tempo come ad esempio il gioco in Brasile o il gioco nel Medioevo,
sia quelli più vicini a noi delle subculture giovanili di un paese a pochi chilometri di distanza.
Dall’altro lato, quegli stessi insegnanti devono puoi combinare tutta questa diversità con una serie
di valori, atteggiamenti, competenze e conoscenze che costituiscono quella cultura di base che
tutti gli allievi dovrebbero acquisire nel corso della loro esperienza scolastica ad esempio nel caso
dei giochi, valori come lealtà, impegno, competizione o collaborazione, da perseguire o cambiare
una regola, diritti dell'infanzia, diritto al gioco, differenza tra gioco e lavoro etc. Il pericolo, ogni
qualvolta si parla di una cultura generale o di base, è che essa assuma le sembianze e gli
effetti di un nuovo canone o di un nuovo curricolo basato su concetti di cultura e identità troppo
rigidi, che si traducono in appartenenze demarcate in modo troppo chiaro a vantaggio di
alcuni e a danno di altri. Il rischio è quello di reintrodurre ideali formativi elitari o comunque
monoculturali, basati su una concezione della formazione umanistica ingenua e
consapevolmente ignara delle vicende storiche e geografiche su cui si è costruita. I gruppi
minoritari hanno giustamente preteso che fossero riconosciute e valorizzate le culture altre.
E l'educazione interculturale ha fatto proprio questa richiesta, investendo sulle culture
popolari in prospettiva formativa. Anche questa strada implica però un possibile rischio cioè
quello di aggiungere i pezzi di culture altre, senza modificare la nostra concezione generale della
cultura. In questo modo non si fa altro che tenere fermi i vecchi modelli di cultura e
identità, limitandosi a inserire determinati contenuti etnici. Si ricorre per questo alle indicazioni dei
membri delle varie culture, ritenuti gli unici veramente competenti nel comprendere ed
esprimere la conoscenza e le esperienze pertinenti a quel particolare gruppo. Possiamo chiamare
un mediatore a mostrarci i giochi tipici dell'India invitare un nonno a insegnare ai bambini i
giochi di una volta. Ma corriamo il rischio di ribadire vecchi e nuovi stereotipi cioè i ragazzi
indiani giocano in modo diverso da noi, e i giochi di una volta erano noiosi, non vanno bene
per i bambini di oggi i cui riflessi sono allenati dai videogames e così via, inanellando molti luoghi
comuni, che evidenziano ciò che ci separa dagli altri e ci fa sentire migliori di loro. Marc
Augé ha detto che le culture sono come il legno fresco, non smettono mai di lavorare. Si tratta di
due rischi opposti e speculari che incombono su l'educazione interculturale a scuola e fuori dalla
scuola. A parole tutti auspicano il dialogo. Nei fatti si rischia di promuovere o il monologo
di un educazione interculturale ancora bloccata in un'unica idea ingenua di cultura generale,
o il dialogo tra sordi di tante culture altre altrettanto rigide e stereotipate di quella
monocultura che volevano contaminare.
Sul terreno degli allievi
L’insegnante che fa educazione interculturale non dovrebbe dare credito a un unico ideale di
cultura di base. Ma non dovrebbe nemmeno attingere a presunte culture altre che molte volte
esistono solo in qualche libro più o meno esotico, o sulla carta dei nostri progetti interculturali.
Piuttosto, nella sua pratica in classe, nello scegliere i contenuti, l’insegnante deve correre il rischio
di scendere sul terreno dei suoi allievi. Per spiegare ciò, possiamo partire da un altro tema trattato
nei percorsi di educazione interculturale: la salute. Uno degli allievi, per prepararsi ad un provino di
teatro, chiede se può leggere un passo delle Conferenze Brasiliane di Basaglia, psichiatra italiano
famoso per aver avviato il processo di chiusura degli ospedali psichiatrici e di
deistituzionalizzazione dei cosiddetti “folli”. D’altronde, si era parlato precedentemente del lessico
della salute. Basta una pagina per scatenare una discussione appassionata sugli allievi su ciò che
significhino sano e malato nei loro Paesi, il tutto intrecciato ai problemi concreti che hanno
incontrato relazionandosi qui, da stranieri, col sistema sanitario. Proprio per questo, l’insegnante
ritorna sul tema per delle delucidazioni e finisce per essere sullo stesso terreno degli allievi,
riuscendo a capire come la salute e la malattia sono interpretate nelle culture altrui, nel loro intero
sistema vita, senza avere una visione stereotipata su ciò. Non a caso, questa idea di cultura come
“intero sistema vita” era stata formulata da Raymond Williams negli anni Cinquanta, portando
anche all’esplorazione delle subculture giovani o di genere, gli stili del consumo, la musica
popolare, l’industria culturale, etc. Ma l’intento di Williams era anche pedagogico: voleva
abbandonare la cultura di stampo imperialistico, riguardante le élite imperiali e coloniali, per
introdurre una formazione che valorizzasse la cultura delle classi subalterni inglesi. Edward Said,
però, nota che questa visione era troppo eurocentrica, in quanto non prendeva in considerazione
gli interi sistema vita dei popoli asserviti al colonialismo, e propose quindi una riformulazione.
Scendere sul campo degli allievi significa seguire la linea Williams-Said: provare ad uscire da un
ideale di educazione interculturale che vede negli allievi qualcuno da ricondurre ad una cultura di
base sanitaria eurocentrica, scientifica e standardizzata. In questo caso, significa portare
l’educazione interculturale sul terreno storico e sociale in cui si incontrano i vissuti delle persone
concrete e non le nostre concezioni astratte delle culture. L’insegnante deve sempre lavorare con
le culture, che sono innanzitutto pratiche culturali che si concretizzano in vissuti, azioni,
comportamenti, immagini individuali e di gruppo. Le culture della salute e della malattia sono,
quindi, pratiche della salute e della malattia: come vedono e trattano se stessi e il proprio corpo
da sani e da malati, come vedono le autorità competenti, come seguono le prescrizioni e le
indicazioni, etc. Ciò, ovviamente, vale per ogni altro ambito e per qualsiasi persona. Ciascuna di
queste pratiche culturali sarà presa tra i concreti modi di vivere degli allievi, le comunità e le
formazioni sociali in cui essi vivono, e le loro pratiche di rappresentazione (il significato che danno
alla propria vita e a quella degli altri). Il lavoro dell’insegnante, quindi, deve restare
inestricabilmente legato ai contesti in cui queste pratiche culturali prendono forma, si trasmettono
e si modificano. Quindi l’educazione interculturale analizza criticamente questi contesti e la loro
trasformazione. Si tratta di analizzare con gli allievi in quali pratiche si concretizzino tutte queste
culture, di dimostrare come queste pratiche non siano qualcosa di statico ma di dinamico, e di
accompagnare e orientare questi cambiamenti. In questo senso, Lawrence Grossberg (esponente
studi culturali contemporanei) propone di penare l’educazione interculturale come una riforma
radicale dell’idea tradizione di educazione generale di base, che pretendeva fornire agli allievi
presunte conoscenze o abilità universali. Ovviamente ciò non è possibile, in quanto tali conoscenze
e abilità non esistono mai indipendentemente dai contesti in cui gli allievi vogliono effettivamente
intervenire. Quindi, l’educazione interculturale può riformare radicalmente la nostra idea di cultura
generale se rifiuta la presunzione di conoscere in anticipo il sapere, la lingua o le capacità
appropriate e diventa una pratica contestuale pronta a correre il rischio di stabilire connessioni,
tracciare linee, mappare articolazioni tra domini, discorsi e pratiche diversi per vedere quali di essi
potrà funzionare, sia dal punto di vista teorico che politico. Per esempio, nel rapporto madre-
neonato, in un’ottica tradizionale, si fornirebbero indicazioni universali che ogni madre dovrebbe
seguire, ma questo non è possibile: si deve invece indagare quale sia il contesto storico-sociale in
cui quelle donne diventeranno madri, quali culture della maternità si incontrino in questi contesti e
capire quale sia la combinazione di indicazioni più adatta. Da questo punto di vista, possiamo
vedere l’educazione interculturale come una sorta di pedagogia del rischio, in cui non si chiede agli
allievi di uniformarsi ad un certo ideale, bensì di essere consapevoli del loro coinvolgimento nel
mondo e nella produzione del loro futuro, e in cui non si dà per scontato il contesto di
appartenenza.

Solo zapping tra culture?


Tuttavia, per la sua attenzione al contesto, l’educazione interculturale non può concentrarsi
esclusivamente sui contesti micro in cui si fa educazione. Nella maggior parte degli stati
occidentali, i sistemi educativi sembrano sempre meno preoccupati alla formazione dei cittadini
nel senso tradizionale e umanistico del termine, ciò accade soprattutto a causa dell’enorme
priorità politica data dai governi ai problemi della formazione delle competenze e delle
performance economiche. La formazione delle competenze, infatti, diventa uno dei principali
obiettivi educativi dei governi perché viene ritenuta uno dei mezzi principali con cui mantenere o
raggiungere standard di vita elevati e perché promuove una certa inclusione o coesione sociale
attraverso l’impiegabilità dei futuri cittadini. La conseguenza di ciò è che l’importanza attribuita alle
competenze individuali di tipo imprenditoriale sembra superare spesso le preoccupazioni di tipo
umanistico o i valori culturali comunque intesi. Oggi, i sistemi educativi tendono a non produrre
più cittadini conformi all’ideale dell’umanesimo occidentale, quanto piuttosto individui addestrati
per manovrare in modo efficace nei mercati globali. Per essere un imprenditore libero e capace di
muoversi dove vuole, il cittadino deve essere una sorta di bricoleur, capace di assemblare e
riassemblare in modo flessibile tutte le risorse materiali e simboliche a disposizione. Il suo percorso
si basa, però, su nuove forme di educazione interculturale: subculture musicali, elettroniche,
etniche. Per essere efficaci in questo zapping interculturale, si deve saper cambiare continuamente
codici e linguaggi, si devono conoscere e padroneggiare. L’accesso a questi codici non è semplice e,
spesso, invece di padroneggiarli ne si diventa una vittima. Per esempio, ci sono persone che
vedono il lato circense del wrestling, altre che invece lo trasformano nell’unico linguaggio e
sistema di riferimento, l’unico con cui dare voce ai problemi. Mentre per alcuni l’intercultura
diventa una moda e uno status symbol, per altri (che non sono bravi a fare zapping) appare un
lusso e un marchio di fabbrica di pochi privilegiati, che rimangono ben lontani da certe realtà di
marginalità sociale e forse in parte responsabili di esse. Proprio quell’educazione interculturale
volta a combattere i modelli educativi tradizionali e ad essere più inclusiva finisce per trasformarsi
in un nuovo ideale di educazione elitaria (ed eventualmente per fallire).
La dimensione altra di casa nostra
La critica ai modelli tradizionali non significa che si possa fare a meno di un modello o di un ideale.
I modelli e gli ideali educativi non costituiscono solamente un recupero nostalgico o ideologico del
passato, devono essere anche un progetto alternativo del futuro. Lo stesso vale per l’idea di una
cultura generale, altrimenti un’educazione interculturale completamente priva di progetto è facile
preda di vecchi e nuovi progetti cultural-imperialistici. All’attenzione per i diversi contesti in cui si fa
educazione, l’insegnante deve allora affiancare sempre e comunque un progetto di futuro
alternativo e, con esso, una qualche idea di cultura generale o di base che possano orientare le
proprie pratiche educative. Solo che dovrà trattarsi di un progetto e di una culturale di base aperti,
che possano di volta in volta essere contestualizzati. Per esempio, per restare nel wrestling,
potrebbe essere il campo di partenza per analizzare il trinomio realtà/finzione/virtualità, quindi il
rapporto su cui si articola il linguaggio di una società dello spettacolo. In questo modo, l’insegnante
si radica a fondo sul terreno degli allievi e lavora insieme a loro ad un progetto di cultura di base
che sia non solo rivolto al passato ma soprattutto al futuro. Si dovrebbero avere quindi
un’educazione interculturale sempre situata e un’educazione interculturale sempre progettuale.
Tra il monologo di un'educazione solo eurocentrica che inventa nuove forme di colonialismo e il
dialogo fra sordi di tanti malintesi multiculturalismi che irrigidiscono artificiosamente le culture
impedendo ogni progetto comune, la strada rischiosa ma necessaria è quella di una cultura di base
avvenire che cerchi di rifiutare sia la semplice inclusione che la reciproca esclusione. Scegliendo
questa strada, non si tratterà più di rifiutare questa o quella forma di cultura di base, ma di
continuare a formarci insieme, insegnanti e studenti, attraverso di esse. L’educazione interculturale
come cultura di base a venire deve educarci incessantemente a ritrovare la dimensione altra di
casa nostra, così da sentirci stranieri in ciò che reputavamo familiare.

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