Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Le idee antirazziste si basano sulla verità che i gruppi razziali, pur con tutte le loro
differenze, sono uguali
Le idee assimilazioniste si fondano sulla convinzione che alcuni gruppi razziali siano
inferiori, dal punto di vista culturale o del comportamento (gruppo temporaneamente
inferiore)
Le idee segregazioniste derivano dalla credenza che le razze siano geneticamente distinte
ed esista una gerarchia fissa, quindi credono che un gruppo sia permanentemente inferiore
(secondo l’illuminista David Hume, non c’è stata una nazione civilizzata che non fosse
bianca, e quindi reputa i bianchi superiori a tutti gli altri)
Quindi possiamo dire che le politiche e i programmi assimilazionisti puntano a promuovere lo
sviluppo a civilizzare e a integrare un gruppo razziale (ciò non significa promuovere la loro ascesa
sociale); i segregazionisti puntano a segregare, schiavizzare, incarcerare, deportare e uccidere,
perché per loro non esiste lo sviluppo; gli antirazzisti puntano a ridurre le disuguaglianze razziali a
creare pari opportunità. I bianchi, in genere, hanno propugnato politiche assimilazionista e
segregazioniste, mentre i neri politiche antirazziste e assimilazionista: questo dualismo ha generato
una conflittualità interiore tra orgoglio nero e voglia di essere bianchi. Il corpo bianco definisce il
corpo dell'America. Il corpo bianco segrega il corpo nero del corpo dell'America. Il corpo bianco
istruisce il corpo nero affinché si assimili al corpo dell’America. Il corpo bianco e respinge il fatto
che il corpo nero si assimila al corpo dell’America e la storia la coscienza sono nuovamente in
conflitto. Ma c’è un modo per liberarsi: essere antirazzisti significa emanciparsi dalla conflittualità
interiore e avere la meglio sulla coscienza assimilazionista e segregazionista. Il corpo bianco non si
presenterà più come corpo americano; il corpo nero non tenterà più di essere il corpo americano,
sapendo che un’entità come il corpo americano non esiste, esistono soltanto corpi americani
realizzati dal potere.
CAPITOLO 3: Il potere
Nel Queens Village c’erano diverse scuole elementari pubbliche, dove i newyorkesi neri che
avevano i mezzi per farlo separavano i loro bambini dai bambini neri dei quartieri più poveri, così
come i newyorkesi bianchi separavano i loro bambini dai bambini neri. La conflittualità interiore dei
bianchi faceva sì che non si risparmiasse sulle spese per la casa pur di mandare i loro figli in scuole
pubbliche bianche, lontani da scuole e bambini presumibilmente cattivi. La conflittualità interiore
dei genitori neri faceva sì che non si risparmiasse sulle spese per le scuole private pur di tenere i
propri bambini lontani dalle scuole pubbliche e dagli stessi bambini.
Nella Grace Lutheran School, la composizione razziale della popolazione scolastica era di
maggioranza nera, nonostante ci fosse solo un’insegnante di colore. Era stato proprio l’autore a
chiedere alla maestra se fosse l’unica nera, questo perché Kendi stava leggendo biografie di leader
neri e, a sette anni, aveva già iniziato ad avvertire sul suo corpo nero il razzismo. La razza, infatti, è
una costruzione così potente da consumare anche un bambino, ma, nonostante ciò, la razza è un
miraggio: ciò che le persone vedono in se stesse e negli altri (che esista o no) ha significato e si
manifesta in idee, azioni e politiche, anche se ciò che vedono è un’illusione.
Kendi si è sempre identificato come nero, perché le idee, la storia e la cultura di queste persone
hanno rappresentato la razza e le hanno dato un peso. Nonostante le sofferenze, l’autore ha
sempre lottato per contrastare il razzismo. Non solo si vede politicamente e storicamente come
nero, ma anche un alleato degli ispanici, asiatici, mediorientali e nativi americani, come un
membro del Sud globale, e di tutti coloro che sono umiliati per la loro disabilità, identità sessuale,
corporazione, etc. Vedersi nero significa percepirsi storicamente e politicamente antirazzista. Uno
dei paradossi dell’antirazzismo è doversi identificare dal punto di vista razziale per identificare i
privilegi razziali e il pericolo che comporta trovarsi nei panni di una persona non bianca. L’avere più
o meno privilegi ci fa comprendere che la razza è una struttura di potere: ispanici, asiatici, africani,
europei, indigeni e mediorientali – nel contesto americano – sono identità di potere che si
posizionano su una gerarchia, al cui apice si trovano ovviamente gli americani bianchi. Il
personaggio inaugurale del potere razzista è il principe Enrico il Navigatore che, attraverso lo
sfruttamento di africani, creò le prime politiche schiaviste transatlantiche. Il secondo nome di
Kendi era proprio Henry, come il trisavolo del padre ridotto in schiavitù, quando l’autore apprese la
storia di Enrico il Navigatore, decise che questo nome doveva sparire: ora il suo secondo nome è
Xani, che significa pace, ciò che era stato sottratto all’Africa. La sua politica consisteva nel rendere
gli africani schiavi, per poi portarli in Portogallo.
Gomes Eanes de Zurara fu il primo biografo del principe Enrico e divenne il primo inventore della
razza e artefice di idee razziste. Nel 1453, Zurara terminò la sua Cronaca della scoperta e della
conquista della Guinea, il primo libro europeo sull’Africa. Uno dei racconti di Zurara faceva
riferimento alla prima grande asta di schiavi del principe Enrico a Lagos nel 1444. Nonostante
alcuni prigionieri fossero bianchi e “piacevoli da guardare”, e altri erano neri e “brutti”, Zurara li
fuse in un unico gruppo di persone che meritavano di essere ridotte in schiavitù. Il cronista non
definì i neri una razza, in quanto questo fenomeno esisteva ma non gli era ancora stato dato un
nome: il primo a farlo fu il poeta francese Jacques de Brézé nel 1481 in un poema sulla caccia. Nel
1606, Jean Nicot, nel Trésor de la langue française, definì la razza come discendenza, di
conseguenza, si poteva dire che un uomo o un animale fossero di cattiva o di buona razza. Quindi,
fin dall’inizio, inventare razze equivaleva a inventare gerarchie razziali. Proprio per questo Zurara
raggruppò tutti i popoli dell’Africa in una sola razza: per creare una gerarchia e un’idea razzista. Poi
riempi questa razza di qualità negative (l’essere perduti, l’essere bestie non ragionevoli) per
giustificare la missione evangelica del principe Enrico agli occhi del mondo. Quando arrivarono
nelle Americhe, nel XV secolo, i colonizzatori spagnoli e portoghesi fecero un'unica razza dei diversi
popoli indigeni definendoli indiani, o, in Brasile, negros da terra. Zurara inventò le caratteristiche
razziali per convincere il mondo che il principe Enrico non commerciava in schiavi per denaro bensì
per salvare anime. In Africa erano arrivati i “liberatori”. In re Alfonso accumulava più capitali dalla
vendita degli schiavi africani agli stranieri che da tutte le tasse riscosse nell'intero Regno: la razza
era servita al suo scopo.
L’avvocato spagnolo Alonso de Zuazo, nel 1510, contrappose la razza animalesca dei neri, forti e
adatti al lavoro, a quella dei nativi, talmente deboli da poter svolgere solo compiti poco
impegnativi. Queste due costruzioni razziste normalizzavano la crescente importazione di schiavi
africani, presumibilmente forti, e l’ininterrotto genocidio degli indiani d'America,
presumibilmente deboli.
Le altre razze sono state radicalmente inventate e differenziate dal XVIII secolo. A partire dal 1735,
Carlo Linneo fissò la gerarchia razziale del genere umano nel Systema Naturae, dove assegnò ad
ogni razza delle caratteristiche (nessuna era neutra, perché il potere razzista le ha create per uno
scopo ben preciso). Linneo collocò all’apice della gerarchia l’homo sapiens europaeus, mettendo
insieme i tratti più elevati (vigoroso, governato dalla legge); poi riunì i tratti razziali intermedi
dell’homo sapiens asiaticus (malinconico, sprezzante, dominato dall’opinione); l’homo sapiens
americanus (scontroso, governato dalla consuetudine); al fondo della gerarchia, l’homo sapiens
afer (apatico, pigro, noncurante, governo dal capriccio).
Kendi, dalla collana Junior Black Americans of Achievement, aveva imparato che le idee razziste
generano politiche razziste e che il problema di fondo del razzismo sono l’ignoranza e l’odio.
Quindi, dietro le politiche razziste ci sono sempre stati forti interessi personali, economici, politici e
culturali. Sono state poi prodotte idee razziste per giustificare queste politiche, così da reindirizzare
il biasimo per le ingiustizie razziali del loro tempo dalle politiche alle persone.
CAPITOLO 4: Biologia
Stipare le nostre singole esperienze con singoli individui in scompartimenti razziali contrassegnati
dal colore è un sistema di classificazione razzista. Si cerca di celare gli individui dietro ad una
dicitura genetica: “ha agito così perché è bianca”, “è così perché è asiatico”, etc. Questa
generalizzazione è ovviamente pericolosa, perché il comportamento del singolo non rappresenta il
comportamento di un’intera comunità. Un antirazzista, invece, ricorda gli individui in quanto tali.
“Ha agito così perché è razzista”, dovremmo dire.
Kendi parla delle microaggressioni che avvengono in ambienti come la scuola, in particolare,
quando l’insegnante ignorava le mani non bianche e rimproverava i neri per cose che non avevano
fatto. Chester Pierce (psichiatra) usò questo termine per descrivere gli abusi razzisti, verbali o non,
che i bianchi infliggono ai neri ogni giorno: se un nero si siede accanto a noi, controlliamo che non
ci rubi nulla; in autobus, il posto vicino ad un nero resta vuoto; la polizia è più possibile che fermi
per strada un nero. Presumono che i neri non siano brillanti e pongono loro domande che
riguardano l’intera razza. Pierce, che aveva subito ciò, aveva considerato tali offese individuali
come microaggressioni per distinguerle dalle macroaggressioni operata dalla violenza e dalle
politiche razziste. Oggi, questo termine è molto diffuso, ma l’autore preferisce non utilizzarlo, in
quanto queste offese quotidiane non hanno nulla di “micro”, anzi, sono di vitale importanza, per
questo Kendi utilizza il termine abuso: questa parole descrive accuratamente l’azione e i suoi effetti
sulle persone (angoscia, rabbia, ansia, preoccupazione, suicidio).
L’autore racconta poi la sua reazione al comportamento della docente: dopo aver portato gli alunni
alla messa settimanale, l’insegnante chiama gli alunni per andare via, ma Kendi non si smuove. Se
fosse stato un bambino bianco, la maestra gli avrebbe chiesto se qualcosa non andasse, ma, in
quanto bambino nero, aveva attribuito la sua resistenza al suo essere nero, classificandola come
cattivo comportamento, e non come angoscia. Dagli insegnanti razzisti, i bambini neri che si
comportano male non ottengono giustificazioni ed empatia, bensì ordini, punizioni e “niente
scuse”, come se fossero degli adulti. Il bambino nero è maltrattato come un adulto, e l’adulto nero
è maltrattato come un bambino. Kendi, però, voleva difendere il suo essere nero, che era anche
l’essere nero dell’altra bambina (vedeva nei suoi capelli crespi i suoi capelli afro, nelle sue labbra
spesse le sue labbra, nel suo naso largo il suo naso, il suo parlare): erano uguali per lui. Invece, i
bianchi gli sembravano tutti diversi. Gli adulti ci hanno insegnato che queste differenze implicano
diverse forme di umanità (razzismo biologico): i razzisti biologi, che sono segregazionisti,
sostengono che le razze presentino differenze significative a livello biologico e che tali differenze
creino una gerarchia di valori. Anche Kendi è cresciuto con la consapevolezza di questa differenza,
senza però credere alla gerarchia. Ciò porta a delle convinzioni razziste (anche inconsapevoli),
come “i neri hanno più capacità fisiche che naturali”, “i neri eccellono nel jazz, nel rap e nel
basket”, “le donne nere hanno il sedere grande e gli uomini neri il pene grosso”. Anche nella Bibbia
si trovano differenze biologiche: Cam, il figlio di Noè, aveva visto suo padre nudo, ubriaco e
addormentato; al risveglio, Noè scopre ciò e maledice suo figlio, dicendo “Benedetto il Signore.
Canaan sia suo schiavo”: Dio volle che il figlio di Cam e tutti i suoi discendenti fossero così neri e
ripugnanti da costituire una rappresentazione indelebile della disubbidienza per tutto il mondo. La
Bibbia, fraintesa, aveva creato questa distinzione biologica razzista.
Ma anche la scienza può essere fraintesa. Dopo la scoperta di un popolo da parte di Colombo,
sorsero speculazioni sui nativi americani, e successivamente sugli africani discendenti da un
“Adamo differente”. Ma l’Europa cristiana considerava la poligenesi (la teoria che le razze fossero
specie separate frutto di creazioni diverse) un’eresia. Darwin, superando questa teoria, propose
quella della selezione naturale, che fu usata come un ulteriore modo per distinguere le razze su
basi biologiche. I bianchi, vincenti, si evolvevano e andavano verso la perfezione; i più deboli
poteva estinguersi, essere ridotti in schiavitù o assimilarsi. Il secondo destino, secondo Albion
Small, era predetto ai neri, l’ultimo ai cinesi e ai popoli dell’Est. A voler velocizzare la selezione
naturale fu l’eugenia, che consisteva nello sbarazzarsi di coloro che erano considerati inferiori (es.
l’olocausto, la schiavitù) e nella riproduzione di persone dai geni superiori. In ogni caso, come ha
affermato Clinton nel 1990, in termini genetici, tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla
razza, sono uguali per oltre il 99.9%, ma la notizia dell’uguaglianza fu presto messa da parte da
altre argomentazioni. Il giornalista scientifico Nicholas Wade sosteneva che c’è una componente
genetica nel comportamento sociale umano: la connessione tra comportamento e biologia è la
culla del razzismo biologico, in quanto porta alla supposizione che la biologia di certe razze
produca tratti comportamentali superiori. Ma non esiste un’eredità razziale, bensì un’eredità
etnica, lo spiega la ricercatrice Camara Jones: gli individui dello stesso gruppo etnico nati in
determinate aree geografiche condividono in genere lo stesso profilo genetico, possiamo quindi
parlare di popolazioni.
I fautori della singola razza puntano il dito contro coloro che si definiscono neri, in quanto vogliono
mettere fine alla classificazione e all’identificazione delle persone attraverso la razza. All’apparenza,
ciò sembra ammirevole, però la nostra umanità si è strutturata in modi concreti attorno al
razzismo, quindi prescindere dall’esistenza delle razze in un mondo razzista è un atteggiamento
conservatore e dannoso quanto prescindere dall’esistenza delle classi in un mondo capitalista:
permette alle razze e alle classi che governano di continuare a governare. Gli assimilazionisti
credono in un mito postrazziale: se si smette di parlare della razza, questa sparirà, senza rendersi
conto che, facendo così, non si potrebbe identificare l’ingiustizia razziale, se non sapremo
identificare le politiche razziste, non sapremo contrastarle. Finiremmo quindi in un mondo di
ingiustizie che nessuno sarebbe in grado di vedere e di contrastare. Essere antirazzisti significa
riconoscere la realtà dell’uguaglianza biologica, l’inesistenza di un sangue bianco o nero, così come
delle naturali prestanze fisiche e anche riconoscere la realtà pregna del miraggio razziale, che
rende il colore della pelle più significativo dell’individualità di una persona.
CAPITOLO 5: Etnia
Il sistema della giustizia penale americano era colpevole di molti sbagli, come aver rimesso in
libertà i poliziotti bianchi che avevano picchiato Rodney King nel 1991 e il commerciante coreano
che aveva ucciso la quindicenne Latasha Harlins nello stesso anno. Ma il verdetto di O. J. Simpson
(accusato di aver ucciso l’ex moglie) non ha impedito alla giustizia di commettere altri errori nel
caso dei corpi neri: gli agenti del dipartimento di polizia cittadino di Brooklyn avevano pestato
selvaggiamente un immigrato trentenne di Haiti, Abner Louima, e gli agenti di New York avevano
scaricato quarantuno pallottole nel corpo di Amadou Diallo, un immigrato della Guinea
(disarmato). Non importava se le persone di colore fossero venute al mondo negli Stati Uniti o
altrove, perché alla violenza razzista non faceva differenza.
A fare differenze, però, erano i compagni afroamericani di Kendi. Il più tartassato di tutti era
Kwame, popolare, bello e atletico, ma la sua etnia ghanese aveva la meglio su tutto. Si facevano
continuamente battute su di lui, come se lui fosse Akeem e gli altri Darryl, un odioso personaggio
della commedia romantica Il principe cerca moglie. È proprio in questa commedia che vengono
fatte battute razziste come “E voi a cosa giocate in Africa? A caccia alla scimmia?”, erano battute
razziste scaturite dalla tratta degli schiavi. Quando i neri facevano battute che disumanizzavano i
rami della diaspora africana, acconsentivano a riportare in vita quella storia orrenda nelle loro
risate. Il razzismo etnico è il copione del mercante di schiavi redivivo.
Le origini del razzismo etnico si possono rintracciare nella legge della domanda e dell'offerta di
prodotti umani vigenti nel commercio di schiavi. Schiavisti diversi preferivano gruppi etnici africani
diversi, persuasi che dessero schiavi migliori, e gli schiavi migliori erano considerati gli africani
migliori. Alcuni proprietari di piantagioni francesi pensavano che i congolesi fossero neri magnifici
poiché fatti per servire. Altri francesi concordavano con gli spagnoli nel ritenere prigionieri della
Senegambia gli schiavi migliori. Ma la maggior parte dei proprietari terrieri delle Americhe
considerava i gruppi etnici della Costa d'oro, l'attuale Ghana, i migliori e i più fedeli tra i loro
schiavi. Negli anni ‘40 del Settecento, i prigionieri della Costa d'oro erano venduti al doppio dei
prigionieri dell’Angola, forse il basso valore di questi ultimi era dovuto all'offerta eccessiva: la tratta
degli angolesi superava quantitativamente quella di qualsiasi altro gruppo africano. Da parte dei
piantatori c'erano delle spiegazioni per il loro razzismo etnico, per esempio, la Costa d'oro e la
Popa sono delle zone aride, quindi i neri sono obbligati a coltivare la terra per sopravvivere e sono
abituati al lavoro; i neri dell'Angola arrivano da altre parti dell'Africa in cui tutto cresce
spontaneamente, quindi non sono abituati a lavorare e vivono nell’ozio. Anche Kendi e i suoi amici
hanno seguito il copione del razzismo etnico, ma dietro le loro risate c'era probabilmente della
rabbia verso gli africani continentali: i capi africani si facevano la guerra l’un l’altro e catturavano la
propria gente per vendersela. L'idea che i capi africani vendessero la loro gente è un ricordo
anacronistico, che sovrappone le nostre attuali idee sulla razza ad un passato etnico. La creazione
della razza da parte degli intellettuali europei tra il XV e il XVIII secolo, se ha fatto confluire diversi
gruppi etnici in razze monolitiche, non ha necessariamente cambiato il modo in cui le persone si
vedevano, gli abitanti dell'Africa non hanno improvvisamente visto i vari gruppi etnici presenti
intorno a loro come unico popolo o la stessa razza. Gli africani coinvolti nella tratta degli schiavi
non credevano di vendere la propria gente vendevano in genere persone tanto diverse da loro
quanto gli europei in attesa sulla costa. All'epoca della tratta degli schiavi, le persone comuni
nell'Africa occidentale si identificavano in termini etnici. Ci è voluto molto tempo forse alla fine del
XX secolo perché l'invenzione della razza calasse la sua cappa sul mondo intero.
Per tutti gli anni Novanta, il numero di immigrati di colore negli Stati Uniti è cresciuto grazie
all’effetto combinatorio dell’Immigration and Nationality Act (1965), del Refugee Act (1980) e
dell’Immigration Act (1990). Tra il 1980 e il 2000, il numero degli immigranti ispanici è aumentato
da 4,2 milioni a 14,1 milioni. Nel 2015 gli immigrati neri ammontavano all’8,7% della popolazione
americana, una percentuale triplicata rispetto al 1980. Da bambino nato nei primi anni 80, Kendi
aveva assistito a questo aumento di popolazione: molti neri erano diffidenti rispetto a questo
brusco incremento del mondo nero, ma non i genitori dell'autore. Una coppia haitiana con tre figli
maschi viveva di fronte alla loro casa, e Kendi era diventato amico del figlio più piccolo e del
cugino. Nonostante Gil e Cliff gli fossero molto affezionati, i genitori di Gill non lo erano, in quanto
c'era un certo distacco, forse lo tenevano a distanza poiché era un afroamericano in un momento
in cui gli immigrati haitiani sentivano il settarismo afroamericano. Gli immigrati caraibici tendono a
classificare gli afroamericani come i pigri, privi di ambizioni e scortesi; gli afroamericani tendevano
invece a classificare gli immigrati caraibici come egoisti, sprovvisti di coscienza razziale e servili nei
confronti dei bianchi.
Le leggi sull'immigrazione approvate tra gli anni Sessanta e Novanta avevano lo scopo di
soppiantare i vecchi provvedimenti, che limitavano l'immigrazione non bianca negli Stati Uniti. Il
Chinese Exclusion Act del 1882 era stato ulteriormente potenziato nel 1917 definendo una più
ampia Asiatic Barred Zone. L’Emergency Quota Act (1921) e l’Immigration Act (1924) limitarono
severamente l'immigrazione dall'Africa e dall’Europa orientale e meridionale, e in sostanza
bandirono l'immigrazione asiatica fino al 1965. Il presidente Calvin Coolidge firmò la legge nel
1924, sostenendo che l’America resti americana, infatti permise l’immigrazione dall’Europa
nordorientale (Scandinavia, Germania, isole britanniche): per americana, intendeva bianca. Ciò è
accaduto anche oggi sotto l’amministrazione di Trump, dove il senatore Jeff Sessions portò avanti
politiche contro gli immigrati ispanici, arabi e neri. Lo stesso Trump ha affermato “Dovremmo avere
più gente da posti come la Norvegia”, con lo scopo di rendere l’America di nuovo bianca. A
prescindere da dove venissero queste persone, tutti gli immigrati di colore erano razzializzati come
neri: tutti i gruppi etnici, finiti sotto lo sguardo del potere, diventano razzializzati. Nel corso della
storia, il potere razzista ha prodotto idee razziste riguardo i gruppi etnici razzializzati entro la sua
sfera coloniale, la storia degli Stati Uniti offre una sfilza di rapporti di potere etnici intrarazziali: gli
anglosassoni discriminano i cattolici irlandesi e gli ebrei; gli immigrati cubani sono privilegiati
rispetto agli immigrati messicani; la minoranza modello comprende gli asiatici dell'est ma esclude i
musulmani provenienti dall'asia meridionale. La classificazione di gruppi etnici razzializzati entro le
singole razze crea una gerarchia etnico-razziale, una scala di razzismo etnico all'interno del più
ampio schema del razzismo. Si pratica razzismo etnico quando si esprime un’idea razzista su un
gruppo etnico o si appoggia una politica razzista nei confronti di un gruppo etnico. Il razzismo
etnico non punta il dito contro le politiche razziste, bensì contro gli individui stessi, accusati di
essere il motivo della disuguaglianza tra i gruppi. Quando gli immigrati ghanesi negli Stati Uniti si
uniscono ai bianchi nel dire che gli afroamericani sono pigri, riciclano le idee razziste degli
americani bianchi sugli afroamericani.
Il volto del razzismo etnico si svela attraverso una domanda ostinata: “da dove vieni?”. Kendi si è
spesso sentito rivolgere questa domanda, in quanto il razzismo etnico presume che lui (professore
universitario e scrittore affermato) non possa essere un afroamericano. “Da dove vieni veramente?
Da dove vengono i tuoi genitori?”, il discorso continua sempre, a meno che non si risponda “Sono
un discendente di africani giunti negli Stati Uniti come schiavi”, in quel caso finisce. Chi pone la
domanda si rassegna al fatto che Kendi sia un afroamericano, e può anche considerarlo come un
“afroamericano superiore”, non pigro e fiacco come gli altri. L’assurdità del razzismo etnico è
universale.
Essere antirazzisti significa considerare i gruppi etnici nazionali e transnazionali uguali nonostante
le differenze, contrastare le politiche razziste che affliggono questi gruppi razzializzati e riconoscere
che la disuguaglianza è dovuta proprio a queste politiche, e non agli individui.
Quando gli studi hanno cominciato a mostrare che il reddito familiare medio degli afroamericani
era molto più basso di quello dei neri nati all'estero e che gli afroamericani avevano tassi di povertà
e disoccupazione molto più alti, vari commentatori si sono chiesti perché gli immigrati neri se la
passassero meglio dei nati neri in America, e si sono detti che gli immigrati neri sono molto più
motivati, laboriosi e intraprendenti dei nativi neri. Il confronto degli immigrati neri con gli
afroamericani nasconde le disuguaglianze razziali tra immigrati neri e immigrati non neri: a dispetto
delle ricerche che mostrano come negli Stati Uniti gli immigrati neri sono il gruppo di migranti più
istruito, essi guadagnano stipendi più bassi degli immigrati non neri con una formazione simile, e
hanno il tasso di disoccupazione più alto di qualsiasi altro gruppo di migranti. Un razzista etnico si
chiede “perché gli immigrati neri se la passano meglio degli afroamericani?”; un antirazzista etnico
chiede “perché gli immigrati neri non se la passano bene come gli altri gruppi di migranti?”. Il
motivo per cui gli immigrati neri hanno un livello di istruzione e prospettive economiche migliori
degli afroamericani non è la superiorità delle loro etnie transnazionali, bensì nel vantaggio
migratorio: i singoli migranti sono straordinariamente ingegnosi, non perché siano nigeriani o
cubani o giapponesi ma perché sono immigrati.
Dare ai futuri allievi e ai genitori una prima idea sul sistema scolastico italiano e di quella
specifica scuola
Farsi una prima idea del futuro allievo e della sua famiglia per preparare le successive fasi
della prima conoscenza e dell’inserimento, e giungere così al momento in cui decidere e
definire i modi e i tempi del suo percorso formativo
Fra gli stranieri, qualcuno accetta lo stile del colloquio e si adatta al ruolo, altri soffrono la banalità
e il tono delle domande e hanno a cuore altro, qualcosa sulla scuola, sui figli o su loro stessi, per
esempio se possono continuare a svolgere il loro lavoro: il professore. “Insegnava? Che studi ha
fatto? Non so se è possibile avere l’equipollenza”: questo termine è difficile da comprendere, ci si
trova in una situazione di empasse, in quanto l’insegnante dà per scontati certi termini, dai più
banali (scuola primaria/scuola elementare, scuola media, esame di maturità, etc.) ai più complicati
(alfabetizzazione, equipollenza, etc.). Durante un colloquio di accoglienza, un insegnante non si
chiede mai “Cosa ci faccio qui?”, perché per lui il colloquio è qualcosa di naturale, come se si stesse
affidando ciecamente ad una mappa che lo aiuta ad orientarsi. La mappa, però, non rappresenta
un territorio, bensì una sua proiezione, più o meno fedele, che non deve essere confusa con la
realtà che rappresenta. È così anche per l’insegnante accogliente: l’insieme di abitudini e di
certezze a cui si affida per orientarsi a scuola non andrebbe mai confuso con la realtà di un
incontro di accoglienza. Per di più, la mappa non riproduce i vari aspetti del colloquio con lo stesso
grado di definizione, alcuni aspetti sono designati più chiaramente, perché ne si ha una conoscenza
esplicita (come il protocollo di accoglienza), altri sono riportati in modo più incerto, vago, in quanto
ne si ha una vaga conoscenza, è il caso degli stereotipi sugli stranieri e sulle culture. Il colloquio,
quindi, risulta essere una proiezione, in quanto vi sono mancanze, ingenuità e approssimazioni.
Per quanto sia incoerente, la mappa assume agli occhi dell’insegnanti e degli altri membri della
società un’apparenza di coerenza, omogeneità e chiarezza. Quell’apparenza poi si concretizza in
azioni così degne di fiducia che permettono all’insegnante di raggiungere il miglior risultato col
minimo sforzo. Così, l’apparenza diviene una procedura quasi automatica a cui ci si affida
inconsapevolmente.
Il disorientamento dello straniero
Gli insegnanti risultano essere i dominatori di un territorio con i quali non esiste, almeno
inizialmente, la comunicazione, questa avverrà in seguito in qualche momento in un momento
poco formale o in classe. Proprio per questo, il genitore perde tutte le speranze nel porre
domande, e quindi finisce per tacere, disorientato. Il genitore, dallo sguardo perplesso, smette di
chiedere, con la speranza di capire meglio successivamente, trovandosi però solo dinnanzi a delle
scatole cinesi. Il genitore appare quindi passivo nei confronti dell’insegnante: in realtà, anche lui
cerca di organizzare quell’incontro in base alla propria mappa. Il genitore potrebbe avere idee
precostruite sulla scuola, sulle istituzioni, sui colloqui, quindi non è detto che un genitore straniero
che tace durante un colloquio non abbia idea di cosa stia succedendo: sulla sua mappa, il colloquio
potrebbe essere un interrogatorio in cui è meglio tacere (altri non si presentano proprio perché
vedono la scuola come lo spazio tra alunno e insegnante, in cui la presenza del genitore sarebbe
un’indebita intromissione). Il genitore straniero, quindi, si rende conto che non può continuare ad
usare la sua mappa, ma è anche difficile passare così repentinamente all’altra. Innanzitutto, per
poter usare una mappa servono dei punti di riferimento: l’insegnante li possiede in quanto ha un
ruolo nella società e fa parte di un determinato gruppo sociale, lo straniero è privo di status,
manca di qualsiasi punto di riferimento, non sa qual è il suo ruolo e quindi non può orientarsi
rispetto alla mappa. Inoltre, le varie parti delle mappa non sono coerenti, e acquistano una certa
unità solo per i membri del gruppo di appartenenza: ciò che all’insegnante appare e serve come
una mappa coerente, al genitore straniero appare come un’accozzaglia di linee quasi prive di
senso. Gli stranieri, quindi, devono usare l’insegnante come esempio e come punto di riferimento
per iniziare a muoversi, quindi l’insegnante funge e deve fungere da avamposto.
Se l’insegnante, con una sola occhiata riesce a captare la situazione, lo straniero si sente
disorientato, e finisce per trovare non un rifugio protetto ma un campo di avventure: lo straniero,
di fronte a questo labirinto, non smette di muoversi, ma lo fa insicuro, a tentoni.
Un reticolo livellatore
Le informazioni raccolte su un allievo straniero non possono mai essere separate dal modo e dal
contesto in cui vengono raccolte. Dal punto di vista del modo, se dopo aver raccolto delle
informazioni non le si usano per costruire un rapporto, ciò non serve a granché. All’interno di un
colloquio servono tatto, discrezione e sensibilità. Dal punto di vista del contesto, è importante
rendersi conto che la prima conoscenza non avviene nel nulla, bensì fa parte di un processo più
ampio definito da Certeau come un reticolo di razionalità livellatrici: il tentativo dell’insegnante di
rilevare i bisogni di apprendimento dello straniero è legato ad altre pratiche che portano l’allievo
straniero a adattarsi alla società in cui è arrivato. Un esempio di questo reticolo è offerto
dall’antropologa Aihwa Ong, che ha studiato il sistema del welfare californiano, volto ad accogliere
i rifugiati. Molte governamentalità, come la scuola, i servizi sanitari, il tribunale, etc., hanno lo
scopo di plasmare i figli dei rifugiati in buoni cittadini americani. Lo stesso vale anche per la prima
conoscenza scolastica: le etichettature e i disciplinamenti cercano di livellare le differenze degli
stranieri, così che interiorizzino le norme standard e diventare buoni cittadini della comunità
scolastica, sociale e nazionale di approdo.
È interessante notare come anche gli insegnanti, i mediatori culturali e linguistici e gli operatori
interculturali restino imbrigliati in questo reticolo livellatore, in quanto consapevoli di essere
prigionieri dei processi regolatori della scuola quanto tanto lo sono i loro allievi. Spesso, di fronte
ad un allievo straniero, gli insegnanti provano ciò che sentono gli insegnanti di sostegno: la loro
professionalità dipende dalla meticolosità con cui compilano le schede di ingresso e i fascicoli dei
futuri allievi (meticolosità che ha a che fare con la routine e la burocrazia, non con la precisione e
l’attendibilità). Criticare questi materiali, però, significherebbe mettersi in una posizione
superficiale e ingenua: la prima conoscenza e le prove di ingresso servono, ma andrebbero
diversificate e rese più precise; ingenua perché da questo reticolo non si può uscire. Infatti, l’invito
dei governamentality studies non è di smettere di usare questi materiale, bensì cercare di capire i
modi in cui si resiste all’azione livellatrice del reticolo. Si tratta insomma di scoprire quali modi di
fare costituiscano la contropartita per gli alunni e per gli insegnanti delle tecniche silenziose che
assicurano l’ordine della scuola.
La prima per introdurre approcci didattici capaci di rendere l’organizzazione del sistema
classe più flessibile e ospitale
La seconda per attrezzarsi contro gli stereotipi e le semplificazioni che ogni organizzazione
didattica può portare con sé
L'organizzazione didattica senza critica e autocritica diventa puro tecnicismo. La critica e
l'autocritica senza organizzazione didattica diventano mero parlarsi addosso. In entrambi i casi
rischiano solo di aumentare l'esclusione che vogliono combattere.
Un insegnante manager?
È fondamentale imparare a vedere la classe come un sistema sociale. Elizabeth Cohen ha svolto
diverse ricerche sugli ordini di status in classe, si tratta di ricerche che studiano aspetti diversi
strettamente correlati tra loro: