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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA

Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata (FISSPA)

Corso di Laurea Magistrale in Psicologia Sociale, del Lavoro e della Comunicazione

Tesi di Laurea Magistrale

Il Linguaggio della Diversità e dell’Inclusione


(Language of Diversity and Inclusion)

Relatrice
Prof.ssa Lea Ferrari

Laureanda
Alessia Piazzini
Matricola 1233486

Anno Accademico 2020/2021


I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo
Wittgenstein, 1954

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Sommario

INTRODUZIONE ......................................................................................................................... 5

CAPITOLO PRIMO: la storia del linguaggio della disabilità e dell’inclusione .......................... 8


1.1 Uno sguardo al passato e al presente ................................................................................... 8
1.2 La classificazione delle menomazioni............................................................................... 13
1.2.1 I modelli ICD e ICIDH............................................................................................... 14
1.2.2 Il modello ICF ............................................................................................................ 17
1.2.2.1 I limiti e i vantaggi dell’ICF .................................................................................... 18
1.2.3 La Support Intensity Scale.......................................................................................... 20
1.3 I modelli della disabilità ................................................................................................... 22
1.3.1 Il modello medico e il modello sociale ...................................................................... 22
1.3.2 Dagli inizi del Novecento al 1970 .............................................................................. 25
1.3.3 Il Capability Approach ............................................................................................... 28
1.4 Evoluzione dei diritti delle persone con disabilità ............................................................ 32
1.4.1 Lo spazio della disabilità e i diritti umani .................................................................. 40

CAPITOLO SECONDO: la diversità e il suo linguaggio in una revisione della letteratura....... 44


2.1 Introduzione ...................................................................................................................... 44
2.1.1 Il razionale .................................................................................................................. 44
2.1.2 Gli obiettivi ................................................................................................................ 45
2.2 I materiali e il metodo ....................................................................................................... 46
2.2.1 Le strategie di ricerca ................................................................................................. 48
2.3 I risultati ............................................................................................................................ 51
2.3.1 I criteri di selezione utilizzati nella ricerca ................................................................ 51
2.3.2 Gli scopi ..................................................................................................................... 57
2.3.3 Le metodologie........................................................................................................... 61
2.3.4 I risultati ..................................................................................................................... 72

CAPITOLO TERZO: le conclusioni ........................................................................................... 81


3.1 Le discussioni, i limiti e le implicazioni........................................................................ 81
CAPITOLO QUARTO: le parole e i loro significati .................................................................. 95
4.1 Le parole della diversità .................................................................................................... 95
4.2 Disabile, diversamente abile, handicap ............................................................................. 96
4.3 Inserimento, integrazione e inclusione ............................................................................ 100
4.4 Unicità, reciprocità, complessità e condivisione ............................................................. 102
4.5 Il potere delle parole e i mass-media ............................................................................... 105
4.5.1. Il linguaggio nelle campagne elettorali ................................................................... 106

CONCLUSIONE....................................................................................................................... 111

RINGRAZIAMENTI ................................................................................................................ 114

BIBLIOGRAFIA....................................................................................................................... 116

SITOGRAFIA ........................................................................................................................... 129

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INTRODUZIONE

Il presente elaborato di Tesi di Laurea Magistrale nasce dalla mia curiosità e dalla

necessità di avere delle risposte ad alcuni interrogativi sul linguaggio della diversità. Il

linguaggio, formato da un insieme di segni vocali, costituisce il più importante sistema

dotato di significati all’interno di una società (Marotta & Monaco, 2016, p. 45). Tali segni

rappresentano un sistema di comunicazione che permette di veicolare informazioni,

opinioni, prospettive e valori. Il linguaggio, infatti, non è uno strumento puramente

informativo ma anche e soprattutto performativo, che è in grado di produrre soggettività.

Esso ha la capacità di creare la realtà e plasmare il nostro pensiero diventando una lente

attraverso la quale esploriamo il mondo e attribuiamo un significato a ciò che ci circonda

(Abbatecola, 2016, p. 139). Il linguaggio si intreccia nel tessuto dello spazio e del tempo

e, attraverso le sue varie forme, scritta, orale, grafica e sonora, simboleggia la realtà

sociale e rappresenta gli elementi tangibili e immateriali della nostra cultura.

Talvolta, come ci suggeriscono Ruspini e Perra (2016) il linguaggio può essere letto come

una realtà reificata, in quanto, essendo assimilato e condiviso all’interno di una cultura,

rischia di essere percepito come qualcosa di dato e immutabile. Ciò diventa problematico

quando, attraverso l’uso della lingua, si mostrano e riproducono i confini e le analogie,

ma soprattutto le differenze tra i soggetti, rafforzando le disuguaglianze e descrivendo le

realtà sociali come immanenti e immutabili.

È proprio da tale preoccupazione che si sviluppa e si articola il presente lavoro; il

linguaggio, infatti, può costruire ponti e legami ma, allo stesso tempo, vi è il rischio che

possa edificare distanze e barriere.

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Il testo si focalizza sul linguaggio della diversità, con un particolare occhio di riguardo

nei confronti della disabilità.

In particolare, nel Capitolo Primo si presentano la storia del linguaggio della disabilità e

dell’inclusione. La descrizione della storia della disabilità è necessaria per comprendere

gli errori, le retrocessioni, i progressi che si sono susseguiti nel corso del tempo nei

confronti delle persone con disabilità. Sono esposti, inoltre, i principali modelli di

classificazione delle menomazioni quali il modello dell’International Classification

Diseases (ICD), il modello dell’International Classification of Impairment, Disabilities

and Handicaps (ICIDH) e il modello dell’International Classification of Functioning,

Disability and Healt (ICF) e alcuni modelli proposti a partire dagli inizi del Novecento,

passando per le studiose e gli studiosi Montessori (1909), Goldfarb (1947), Klaber (1969),

Deno (1970) e Sen con il Capability Approach degli anni Ottanta. Il Capitolo Primo si

chiude, infine, con una presentazione dell’evoluzione dei diritti delle persone con

disabilità e con l’emanazione da parte dell’ONU della Convenzione internazionale sui

diritti delle persone con disabilità (CRPD) del 2006.

Il Capitolo Secondo propone una revisione della letteratura sulla diversità e il suo

linguaggio, con l’obiettivo di approfondire la relazione tra il comportamento e il

linguaggio e l’impatto che quest’ultimo ha sulle percezioni individuali, con un particolare

occhio di riguardo nei confronti delle parole della disabilità. Vi saranno anche dei cenni

al linguaggio di genere. La revisione della letteratura si focalizza su otto articoli

selezionati in cinque Database differenti ed è stata condotta attraverso il metodo

PRISMA, una linea guida a supporto della stesura di revisioni sistematiche e di metanalisi

con l’obiettivo di migliorare e facilitare la stesura del lavoro, auspicando ad una

presentazione esaustiva, lineare e trasparente della ricerca. A seguito di una descrizione

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del razionale, degli obiettivi, delle strategie di ricerca e i criteri di selezione della revisione

il Capitolo Secondo espone gli scopi, le metodologie e i risultati degli articoli selezionati.

Nel Capitolo Terzo si prosegue con una discussione dei risultati ottenuti dalla revisione

della letteratura, inserendo le criticità, i punti di forza e le implicazioni derivanti dagli

articoli selezionati.

Infine, nel Capitolo Quarto si propone una descrizione di alcuni termini specifici come:

disabile, diversamente abile, handicap, inserimento, integrazione, inclusione,

promuovendo e incoraggiando un utilizzo maggiore di espressioni come unicità,

reciprocità, complessità e condivisione. Si conclude, infine, con una riflessione sulla

relazione tra i mass-media e il loro linguaggio e di come alcuni termini utilizzati nei

discorsi delle campagne elettorali possano influenzare o meno le scelte degli elettori.

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CAPITOLO PRIMO: la storia del linguaggio della disabilità e

dell’inclusione

1.1 Uno sguardo al passato e al presente

La disabilità è radicata nella storia dell’essere umano sin dalle sue origini. I pregiudizi,

le pratiche sociali e gli stereotipi sono mutati in funzione del periodo storico e del contesto

socioculturale.

È solamente analizzando e ripercorrendo la storia della disabilità che è possibile

comprendere quanto il percorso sia stato impervio e ricco di difficoltà. Diversi sono stati

i modelli di trattamento, le interpretazioni e le spiegazioni proposte: ciò contribuisce a

non dimenticare gli errori, le retrocessioni e i progressi che hanno portato, ad oggi, a

riconoscere alle persone con disabilità gli stessi diritti che sono garantiti a tutti.

Sin dalla comparsa delle prime forme di vita sulla terra, le probabilità di sopravvivenza

erano particolarmente associate all’abilità degli esseri viventi di difendersi e proteggere

il proprio gruppo di appartenenza.

La presenza di persone con malformazioni non poteva che comportare allontanamenti,

emarginazioni e addirittura la soppressione dei membri più deboli (Soresi, 2016, p. 19).

Ne è una testimonianza la città di Sparta: secondo quanto narrato dal celebre Plutarco,

nonostante l’assetto democratico della polis, i bambini nati con delle malformazioni

venivano abbandonati sul Monte Taigeto. Ad oggi, la veridicità di tale usanza è messa in

discussione, tuttavia, è noto come a Sparta i diritti politici fossero un privilegio destinato

alle sole persone con livelli adeguati di abilità produttive; coloro che avevano delle

menomazioni o malformazioni erano esclusi dalla vita politica e dalla società. Ad

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alimentare questa visione poco inclusiva della diversità ha contribuito il mito della forma,

dell’armonia e della bellezza radicato nella cultura e nei costumi dell’Antica Grecia.

L’integrità fisica e psichica, infatti, erano considerati segni della grazia divina. Al

contrario, le menomazioni e le malformazioni erano interpretate come un segnale di

punizione e, per tale motivo, non tollerate dalla società.

Coerentemente a questa linea di pensiero, il filosofo Aristotele sosteneva la necessità di

una legge che impedisse di allevare i figli deformi. Allo stesso modo, secondo Platone

l’incarico della medicina e della giustizia era quello di curare solamente coloro che erano

sani nello spirito e nel corpo: “Quanto a quelli che non lo siano, i medici lasceranno

morire chi è fisicamente malato”. (Platone, a cura di G. Lozza, 1990, p. 409).

Nonostante la visione della società greca, la disabilità non è sempre stata vista come

motivo di esclusione e di emarginazione: ne è un esempio la cultura latina. Come ci

ricorda Soresi (2016, p. 20), nell’antica Roma alle persone non vedenti, ad esempio, erano

associate delle abilità di premonizione e, per questo motivo, spesso ci si rivolgeva loro in

caso di necessità per avere consigli.

Per molti secoli, tuttavia, ha prevalso l’idea di una divinità in grado di definire le sorti

dell’uomo e che esprime la propria volontà di espiazione delle colpe attraverso

l’assegnazione di una menomazione o di una disabilità; pertanto, la potenza divina era

artefice del destino dell’uomo e concretizzava le proprie decisioni e punizioni attraverso

la disabilità. Con la diffusione del Cristianesimo questa prospettiva ha trovato particolare

riscontro: vi era la credenza che le nascite con menomazioni evidenti fossero dovute a

donne che avevano avuto rapporti sessuali con il demonio e che dovevano essere punite.

È evidente come, in questo periodo storico, la diversità sia temuta e, accanto alla

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diffusione di principi di solidarietà e pietà tipici del cristianesimo, anche figure di spicco

come Papa Gregorio Magno dichiararono che “un’anima sana non troverà albergo in una

dimora malata” rimarcando il fatto che coloro che nascono con una menomazione portino

con sé il segno divino di un’anima con delle colpe da espiare. Proseguendo lungo un

percorso temporale, nel Medioevo si scontrano due visioni opposte; da un lato si sviluppa

l’obbligo della generosità e della carità nei confronti dei malati e delle persone con

disabilità, dall’altro si assiste a raccapriccianti forme di repressione e tortura.

È grazie al movimento culturale sorto in Europa nel Settecento che ci fu un marcato

progresso della morale e della sensibilità intellettuale. La luce portata dall’illuminismo è

stata in grado di rischiarare la mente dell’uomo, spesso offuscata dall’ignoranza e dalla

superstizione promuovendo l’utilizzo della ragione, del pensiero critico e della scienza. Il

dibattito sulla disabilità è stato ripreso in chiave moderna con l’enciclopedismo, efficace

strumento di divulgazione delle idee incoraggiate e sostenute dall’illuminismo, sviluppato

dagli studiosi d’Alembert e Diderot. Quest’ultimo, infatti, ha relativizzato il concetto di

normalità e ha sostenuto con fermezza la sua avversità nei confronti della concezione

allora dominante dello sviluppo morale e dell’intelligenza, subordinati dal contesto

sociale, culturale, educativo e fisico. Lo studioso è stato promotore di un pensiero

innovativo e inedito affermando che la pluralità e l’eterogeneità sono caratteristiche che

stanno alla base dell’organizzazione naturale, mettendo in discussione il concetto stesso

di normalità.

L’avanzamento e il progresso intellettuale perseguito dall’illuminismo furono presto

frenati dagli anni della rivoluzione industriale. Il passaggio da un sistema economico di

tipo agricolo e commerciale a uno industriale e la conseguente enfasi sul mito della

produttività hanno portato a considerare la non idoneità al lavoro e l’invalidità come dei

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limiti. In particolar modo, come sottolineato da Soresi (2016, p. 22), ciò ha contribuito a

creare una netta linea di demarcazione tra la popolazione in grado di apportare benessere

e ricchezza comune e quanti, a causa di menomazioni e problemi di natura fisica, non

sono in grado di apportare benefici alla società. È in questi anni che inizia a diffondersi

l’idea e la necessità di costruire degli spazi appositamente dedicati alle persone con

menomazioni, come gli orfanotrofi, i manicomi e gli ospedali. Tali strutture sono

l’esplicazione e la concretizzazione del fatto che le persone con disabilità sono “malate”

e in quanto tali curate secondo modalità specifiche.

La concezione che si è fatta strada durante il periodo della rivoluzione industriale (1760-

1840) si è amplificata e rafforzata con il darwinismo sociale nel XIX secolo. La teoria del

darwinismo sociale si sviluppa intorno al 1870 e, traendo fondamento dalle leggi naturali

postulate da Charles Darwin, sostiene che, anche all’interno della società umana, vi è una

lotta per la sopravvivenza e una selezione del più adatto. Coerentemente con questa linea

di pensiero, pertanto, ogni variazione e modifica nell’uomo si conserva e si mantiene solo

se utile alla sopravvivenza del più adatto o alla selezione.

L’antropologo francese Lévi-Strauss ritiene che il darwinismo sociale sia il basamento

del razzismo e, riferendosi alla corrente di pensiero del XIX secolo, afferma che

“arrogandosi il diritto di separare radicalmente l’umanità dall’animalità, accordando

all’una ciò che toglieva all’altra, innescava un circolo maledetto, e che la medesima

frontiera sarebbe servita costantemente a porre distanze fra gli stessi uomini e a

rivendicare, a favore delle minoranze sempre più ristrette, il privilegio di umanità” (Lévi-

Strauss, 1958, pp. 371-372).

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La competizione come presupposto per la sopravvivenza e un sistema incentrato sulla

meritocrazia conduce i “meno efficienti” della media all’esclusione dal processo

produttivo e all’emarginazione, lasciando il posto agli “efficienti”. Il social-darwinismo

e l’antropologia razziale sono i precursori dell’eugenetica, una disciplina che si pone

l’obiettivo di promuovere le qualità di una determinata razza sfruttando le leggi

dell’ereditarietà genetica. L’eugenetica diffusasi inizialmente nei paesi anglosassoni,

come affermato da Schianchi (2012), trova la sua massima espressione nel nostro Paese

durante il periodo fascista. Infatti, tra il 1926 e il 1928 vennero rinchiusi più di

cinquantamila persone con malattie mentali, al fine di prevenire la propagazione di

degenerazioni e infermità mentali.

Sulla stessa linea di pensiero, le Leggi di Norimberga, promulgate il 15 settembre 1935

dal regime nazista, stabiliscono la sterilizzazione di interi gruppi di popolazioni ritenute

inferiori, di persone con disabilità fisica e mentale, sordi e ciechi. Sull’onda dello sdegno

per la ferocia e gli orrori commessi durante la Seconda guerra mondiale, si manifesta il

desiderio e la necessità di stabilire dei diritti umani inalienabili. La Dichiarazione

universale dei diritti umani, adottata nel 1948 dall’Assemblea generale delle Nazioni

Unite, afferma nel preambolo che «il disconoscimento ed il disprezzo dei diritti umani

hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità», e, per questo

motivo, è necessario che «i diritti umani siano protetti da norme giuridiche, se si vuole

evitare che l’uomo sia costretto a ricorrere, come ultima istanza, alla ribellione contro la

tirannia e l’oppressione». (Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, 1948, p. 1).

Inizia una nuova pagina di storia impegnata sul fronte dell’inserimento, dell’integrazione

e dell’inclusione che porterà, nel 1978, alla legge n. 180 detta “Legge Basaglia”, la quale

norma il ricovero coatto in psichiatria e decreta la chiusura definitiva dei manicomi in

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Italia. Si tratta di un passo importante che apre una strada a una psichiatria di comunità

con un particolare occhio di riguardo nei confronti di coloro che in precedenza erano

emarginati in strutture ospedaliere.

1.2 La classificazione delle menomazioni

Il linguaggio esprime la cultura di una società, ed è indicativo degli atteggiamenti che al

suo interno si assumono rispetto a specifici problemi, e quindi anche rispetto alle

disabilità (Buono & Zagaria, 2003, pp. 121-141). È necessario utilizzare linguaggi nuovi,

coerenti ai bisogni delle persone e realmente in grado di cogliere e comprendere la

complessità e le difficoltà dell’uomo. In quest’ottica, la disabilità è una condizione che

deriva e si genera dall’ambiente sociale e non deve essere intesa come difficoltà riferita

al singolo individuo. Questa consapevolezza è stata raggiunta anche grazie a linguaggi

standardizzati e condivisi, applicati in diversi contesti, non solo di tipo clinico-sanitario

ma anche all’interno dei settori scolastici e lavorativi.

Tale percorso ha avuto inizio a partire dalla metà degli anni Settanta quando

l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha deciso di allegare all’International

Classification Diseases (ICD) una appendice dedicata interamente alle conseguenze

provocate da una condizione di malattia; intorno agli anni Ottanta nasce il modello

dell’International Classification of Impairment, Disabilities and Handicaps (ICIDH) a

cui seguirà, nel 2001 il modello dell’International Classification of Functioning,

Disability and Healt (ICF).

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1.2.1 I modelli ICD e ICIDH

L’ICD considera in modo del tutto lineare e sequenziale le relazioni tra l’eziologia, la

patologia e la manifestazione clinica. La linearità e la freddezza di questo modello,

tuttavia, sono emerse dopo poco tempo: la sequenza era ritenuta poco esaustiva

soprattutto in virtù del fatto che i pazienti che usufruivano del servizio sanitario erano

interessati a conoscere la diagnosi e l’eziologia della patologia ma, in primo luogo,

volevano essere al corrente delle conseguenze e dell’impatto che la loro condizione

avrebbe avuto sulle loro vite.

Per questo motivo, con l’obiettivo di colmare le lacune e le mancanze del modello

precedente, nel 1980 l’OMS propone la prima edizione dell’International Classification

of Impairment, Disabilities and Handicaps (ICIDH). Con l’ICIDH vi è un particolare

occhio di riguardo nei confronti delle conseguenze delle malattie. Inoltre, per la prima

volta, viene proposta una definizione del concetto di impairment (la menomazione), di

disability (la disabilità) e di handicap (lo svantaggio). La menomazione rappresenta

l’esteriorizzazione di una condizione patologica che si manifesta con un disturbo a livello

di un organo. Ad esempio, la perdita di un arto, anomalie dei tessuti o altre parti del corpo

e delle funzioni mentali.

La disabilità viene definita dall’OMS come “qualsiasi restrizione o carenza (conseguente

a una menomazione) della capacità di svolgere un’attività nel modo o nei limiti ritenuti

normali per un essere umano” (Soresi, 2016, p. 43). Applicando la definizione dell’OMS,

quindi, la disabilità rappresenta non tanto la condizione oggettiva e clinica dell’individuo,

quanto la reazione del soggetto da un punto di vista psicologico e comportamentale nei

confronti della propria quotidianità. È quindi uno scostamento rispetto all’esecuzione di

compiti, gesti e comportamenti che sarebbero generalmente attesi. La disabilità, pertanto,

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può originarsi a partire dalle conseguenze di una menomazione oppure dalla reazione

dell’individuo a seguito della menomazione stessa. Infine, l’handicap è una condizione

di svantaggio che non permette di rivestire le proprie funzioni in funzione del sesso,

dell’età e di fattori di tipo socioculturale. È il significato attribuito a una situazione

rispetto a un parametro di riferimento definito “normale”. Il tentativo di fornire una

definizione al concetto di menomazione, disabilità e handicap ha l’obiettivo di limitare

un utilizzo scorretto dei termini e di evitare potenziali confusioni e sovrapposizioni.

Lo strumento dell’ICIDH rappresenta un sistema di classificazione delle conseguenze

delle malattie e delle menomazioni che, nonostante l’importante lavoro di

sistematizzazione, la forza concettuale e la significativa apertura delle tesi psicosociali,

non ha trovato un largo uso e, specialmente in Italia, è stato poco utilizzato se non del

tutto ignorato (Soresi, 1998, citato in Buono & Zagaria, 2003, p. 123). Le definizioni

proposte sono portatrici di idee e prospettive inedite che, se fossero state colte, avrebbero

stimolato una visione più completa e rispettosa della complessità umana. In particolar

modo, il concetto di disabilità, essendo la socializzazione di una menomazione, considera

l’impatto a livello soggettivo portato dall’impairment, suggerendo l’importanza che la

percezione del singolo ha di sé stesso all’interno del contesto in cui è immerso. Inoltre, è

interessante sottolineare come i contesti in cui si interfacciano le persone con disabilità,

spesso, sono caratterizzati da regole e aspettative generalizzate e competitive e,

nonostante questi si dichiarino esplicitamente aperti nei confronti dell’integrazione e

dell’inclusione, non sono in grado di considerare le differenze interindividuali. Tuttavia,

questa prospettiva è piuttosto limitata: ciascun individuo, al variare del contesto, può

mostrare delle abilità e allo stesso tempo delle difficoltà, senza essere necessariamente

definito “disabile”.

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Pertanto, le disabilità di un individuo si modificano in funzione delle richieste, dei

compiti e delle aspettative e possono creare o meno una condizione di svantaggio. La

sequenza caratterizzata dalla malattia, dalla menomazione e dalla disabilità ha portato a

una serie di riflessioni e di problematiche sia a livello operativo che concettuale. Una

carenza riscontrata riguarda la poca importanza attribuita al contesto ambientale e sociale;

a ciò si aggiungono le numerose riforme in ambito sanitario verificatesi alla fine del

millennio e i mutamenti culturali come le spinte verso l’integrazione: il modello ICIDH

non è completo.

A fronte dei limiti dell’ICIDH, nel 1997 l’OMS ne propone una revisione che verrà

nominata ICIDH-2 nonché la Classificazione Internazionale del Funzionamento e delle

Disabilità. Con l’ICIDH-2 si sostituiscono i termini “menomazione”, “disabilità” e

“handicap” con termini considerati maggiormente neutri. Questa modifica ha l’intento di

creare una classificazione che coinvolga sia gli aspetti positivi che negativi senza

concentrarsi, come si verificava con l’ICIDH, su quest’ultimi. In questo modo la

disabilità assume un volto inedito e innovativo; è un fenomeno complesso che, in quanto

tale, necessità il coinvolgimento di molteplici dimensioni e aspetti dell’individuo come i

fattori ambientali e sociali, le funzioni individuali, i limiti e le restrizioni alla

partecipazione sociale. Le dimensioni dell’ICIDH-2 sono: funzioni e struttura del corpo

(corrispondenti alle menomazioni nel modello precedente), la partecipazione (l’handicap

dell’ICIDH) e l’attività (in precedenza disabilità). Le nuove denominazioni potrebbero

apparentemente sembrare un cambiamento superfluo; in realtà si tratta di un cambio di

paradigma che, attraverso l’importante ruolo del linguaggio, vuole cercare di modificare

l’idea e la concezione della diversità e, in particolar modo, della disabilità. L’attività

indica qualsiasi azione compiuta da un individuo indipendentemente dalla sua

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complessità. La partecipazione riguarda l’interazione tra le attività, la menomazione e i

fattori contestuali. È bene considerare che le tre dimensioni proposte dal modello ICIDH-

2 sono influenzate da fattori ambientali (sociali e fisici) e da fattori personali (correlati

alle caratteristiche proprie dell’individuo e alla sua personalità). Dunque, le dimensioni

del modello presentato si influenzano tra loro e sono in forte interazione dinamica.

1.2.2 Il modello ICF

La bozza proposta dell’ICIDH verrà di fatto riconfermata e ampliata nel 2001 attraverso

l’International Classification of Functioning, Disability and Health (ICF). Grazie all’ICF

si assiste ad un importante passaggio concettuale e ideologico: per la prima volta i disturbi

di tipo cognitivo e mentale vengono messi sullo stesso piano rispetto alle patologie fisiche

in quanto legati da un unico grande costrutto ovvero il concetto di salute. È un

cambiamento di considerevole entità che attribuisce un nuovo volto alle malattie e ai

disturbi mentali sino ad allora posti in secondo piano. La salute è un concetto ampio e

complesso che coinvolge tanto la mente quanto il corpo.

Pur traendo il suo fondamento dall’ICIDH, l’ICF non si basa sulle conseguenze lasciate

dalle malattie quanto piuttosto sulle varie componenti legate al concetto di salute. Questo

cambiamento non è irrilevante poiché, con l’avvento dell’ICF, non si ha più un focus

sull’impatto negativo lasciato dalla patologia e sulla relazione lineare tra la malattia, la

menomazione e la disabilità; l’attenzione è rivolta all’insostenibilità di una relazione

causale tra le dimensioni sopracitate e che non consideri anche l’importanza del contesto.

Inoltre, la relazione non è più di tipo causale e quindi monodirezionale, ma bidirezionale.

Le relazioni complesse si influenzano a vicenda e sono in continua interazione tra loro.

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Le quattro dimensioni implicate per il raggiungimento di una condizione di benessere

secondo l’ICF sono: la dimensione del corpo, la dimensione delle attività, la dimensione

della partecipazione e i fattori contestuali, personali e ambientali.

La dimensione del corpo comprende, a sua volta, le funzioni corporee e la struttura

corporea. Le prime riguardano il funzionamento del sistema nervoso centrale e del

cervello secondo un approccio di tipo fisiologico, psicologico e corporeo; la seconda

include l’adeguatezza e la completezza delle componenti anatomiche. La dimensione

delle attività si riferisce agli atteggiamenti e ai comportamenti messi in atto dall’individuo

con l’obiettivo di portare a termine determinate azioni e compiti. La partecipazione si

riferisce al livello di coinvolgimento di una persona nelle situazioni di vita in relazione

alla sua salute, alle condizioni e alle funzioni corporee, alle attività che è in grado di

svolgere e ai fattori contestuali che le sono proprie (Soresi, 2016, p. 47). Infine, i fattori

contestuali intesi in senso lato coinvolgono diverse dimensioni come l’ambiente sociale

e fisico ma anche i valori dell’individuo e i suoi atteggiamenti.

1.2.2.1 I limiti e i vantaggi dell’ICF

Differenti sono i limiti mossi nei confronti del modello ICF. Lo studioso Barnes (2012,

p. 14) individua due fattori che mostrano delle criticità per una effettiva applicazione del

ICF. In primo luogo, una carenza è rappresentata dall’utilizzo di criteri normativi che

sono direttamente ancorati ad una impostazione di tipo medico. In secondo luogo, pur

apprezzando lo studioso il cambiamento rispetto ai modelli precedenti (ICD del 1975 e

ICIDH del 1980), egli sostiene ci sia una sfocata definizione del ruolo dell’ambiente e

della strutturazione sociale.

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Altre criticità sono state individuate da Ciambrone (2020, pp. 127-157) il quale afferma

che a fronte dell’applicazione del modello, diversi sono gli aspetti dell’ICF, non di

secondaria importanza, che non sono ancora stati chiariti e definiti. Talvolta, le figure

professionali che applicano tale modello come, ad esempio, il personale sanitario, sono

costrette ad attuare delle azioni intuitive sulla base della propria esperienza. Ne è un

esempio l’assenza di una classificazione dei “fattori personali” e la mancata associazione

a dei valori normativi standard che siano verificati. Inoltre, la suddivisione in quattro

dimensioni prefissate (il corpo, le attività, la partecipazione e i fattori contestuali) secondo

l’autore porta ad un eccessivo irrigidimento e a limitare la visione e l’intuizione di chi sta

esaminando la situazione. Ciambrone (2020, p. 130) sostiene che le dimensioni tendano

a rendere artefatta la percezione di un fenomeno e di conseguenza la percezione

dell’individuo stesso. Infine, lo studioso (2020, ibidem) riferisce che l’aspetto più

preoccupante dell’ICF consiste nella caratteristica stessa dell’approccio, il quale

contempla solo ciò che è manifesto, l’aspetto fenomenologico, eliminando dalle proprie

considerazioni l’aspetto eziologico.

Tuttavia, il modello ICF contiene anche una serie di vantaggi, consentendo di andare oltre

le classificazioni e le categorizzazioni dell’ICD e dell’ICIDH. L’ICF parte dal

presupposto che la disabilità faccia parte dell’esistenza dell’uomo, suggerendo un

approccio di tipo multi-prospettico e multidimensionale. In quest’ottica la disabilità non

è più riferita ad un gruppo di minoranza la cui condizione pone fine allo stato di salute.

Interessante è l’applicazione universale del modello ICF. Spesso si ritiene erroneamente

che l’ICF riguardi soltanto le persone con disabilità; in realtà, esso riguarda tutti. Gli stati

di salute e quelli ad essa correlati, associati a tutte le condizioni di salute possono trovare

la loro descrizione nell’ICF (OMS, 2001, p. 18). L’universalità del modello costituisce

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un vantaggio che consente di unificare il funzionamento umano senza attuare delle

categorizzazioni.

Il modello ICF, inoltre, fornisce una base scientifica atta alla comprensione e allo studio

delle condizioni e delle conseguenze implicate nel concetto di salute, rendendo possibile

un confronto tra le analisi e i dati raccolti in differenti discipline, periodi e Paesi. Infine,

consente di definire un linguaggio comune circa la salute finalizzato a migliorare la

comunicazione tra il personale sanitario, le persone che si occupano di ricerca e i cittadini

stessi.

1.2.3 La Support Intensity Scale

L’identificazione e la definizione di una malformazione non può essere sufficiente per

descrivere il tipo di supporto necessario e l’impatto che questa avrà sulla qualità della

vita. Per questo motivo, l’ICF consiglia durante la fase di valutazione dell’individuo di

riflettere in modo concreto sulla quantità e tipologia di supporto necessarie per affrontare

in modo soddisfacente la propria quotidianità. Nel 2004 un gruppo di studiosi delegati

dall’American Association on Mental Retardation ha creato la Support Intensity Scale

(SIS). La SIS è una scala multidimensionale che mira a offrire un aiuto ai servizi

territoriali in merito al supporto necessario per una efficiente presa in carico

dell’individuo. Il concetto di “supporto” inteso nella Support Intensity Scale è stato

esplicitato da Thompson e collaboratori come “l’insieme delle risorse e delle strategie che

promuovono l’interesse e il benessere delle persone e che hanno come conseguenza una

maggiore indipendenza personale e produttività, una maggiore partecipazione all’interno

20
di una società interdipendente, una integrazione più profonda all’interno della comunità

e/o una maggiore qualità di vita” (Thompson et al., 2002, pp. 390-405).

Per garantire la sua funzione, seguendo quanto proposto da Thompson, la SIS si compone

di tre differenti sezioni. Una prima sezione è dedicata alla Scala dei bisogni di sostegno;

essa è pragmatica e concreta, concentrandosi su aspetti come le attività domestiche, il

lavoro, la salvaguardia della salute. La seconda sezione riguarda la Scala supplementare

di protezione e tutela legale; essa si impegna a garantire i propri diritti, la gestione del

denaro e a fornire aiuto dal punto di vista legale. Infine, l’ultima sezione è la Scala dei

bisogni di sostegno non ordinari di tipo medico e comportamentale. Proprio per la sua

natura pragmatica, nella SIS è consigliato indicare anche la frequenza e la durata del

supporto che l’individuo necessita.

In conclusione, passando in rassegna i diversi modelli proposti a partire dagli inizi degli

anni Ottanta, si assiste a uno slittamento dell’oggetto di riferimento: in precedenza il focus

era sul rilevamento e sulla definizione della persona in base al deficit e agli aspetti

negativi che derivavano dalla sua condizione; con la revisione del ’97 si utilizzano termini

maggiormente neutri che sottolineano l’importanza attribuita a ciascun individuo

indipendentemente dalle sue difficoltà e in funzione al contesto di appartenenza. L’ICF

si impegna ad andare oltre la visione marcatamente medica della disabilità incentrata

sull’individuo, proponendone una sociale che considera una complessa rete di interazioni

e di condizioni scaturite dall’ambiente sociale e dal contesto. Ciò consegue che per

risolvere le questioni relative alla disabilità sia di vitale importanza attuare interventi che

includano la società, promuovendo una piena inclusione delle persone con disabilità in

tutti i contesti e ambiti della vita sociale.

21
1.3 I modelli della disabilità

Differenti sono i modelli che si sono susseguiti nel corso del tempo e che hanno portato

all’attuale concezione della disabilità. In questo paragrafo saranno descritti il modello

medico, ancorato alla patologia e alla dimensione prettamente clinica dell’individuo, e il

modello sociale, che considera la disabilità come “una restrizione delle attività praticate

a causa di una organizzazione sociale che non considera adeguatamente le persone che

hanno impedimenti fisici e che di fatto esclude dalla partecipazione sociale (Soresi, 2016,

p. 30). A partire da tale distinzione, alcuni studiosi (Montessori, 1909; Goldfarb, 1947;

Klaber, 1969; Deno, 1970; Sen, 1980) hanno proposto delle teorie, degli approcci e

condotto degli studi che analizzano il tema della disabilità da diversi punti di vista.

1.3.1 Il modello medico e il modello sociale

Nel modello medico la disabilità è una questione legata a una condizione di tipo fisico.

Esso considera le difficoltà incontrate dagli individui durante la loro quotidianità come

una conseguenza dovuta ad una mancanza di tipo organico. La disabilità, pertanto, è una

limitazione, uno svantaggio a livello personale che si manifesta a seguito di una

menomazione. L’ottica è di tipo unidirezionale, infatti, l’individuo esperisce un disturbo

a livello fisico che, se non curato adeguatamente, porta ad una condizione di disabilità.

Dunque, il modello sostiene che la disabilità sia in grado di ridurre la qualità di vita

dell’individuo e, grazie all’intervento medico, vi sia un tentativo di gestire e migliorare

la condizione della persona.

Sebbene sia comprovato, dal punto di vista antropologico, che la risposta della società

alle persone con menomazioni, o con problemi di salute di lungo periodo, cambi

22
considerevolmente a seconda del tempo, della cultura e dei luoghi, il modello medico è

stato il punto di vista che ha dominato la società occidentale almeno dal tardo diciottesimo

secolo (Hunt, 1966, p. 146).

Ancora oggi, diversi sono i segni lasciati dal modello medico: alcuni termini permangono

all’interno delle strutture ospedaliere. Ne è un esempio la richiesta da parte del personale

sanitario di trattare “la lesione spinale”. In questo caso vi è una depersonalizzazione del

paziente che è ridotto a un oggetto e, in particolar modo, alla sua patologia.

L'approccio medico individualistico alla disabilità è comunemente associato

all’International Classification of Impairment, Disability and Handicap (ICIDH), (vd.

paragrafo 1.2.1) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Barnes, 2008, p. 88).

Differente è la prospettiva adottata nel modello sociale. Come ci suggerisce Barnes (2008,

p. 90), nella seconda metà del XX secolo venne proposta una reinterpretazione

sociopolitica del fenomeno della disabilità, comunemente definita come “modello sociale

della disabilità”. Originariamente ideato dagli attivisti con disabilità in Gran Bretagna,

questo approccio deriva dalle esperienze di vita dirette delle persone con menomazioni

nella società occidentale. Il modello sociale sposta il problema dalla menomazione e

dall’individuo alle barriere sociali, che non permettono una degna partecipazione nella

società alle persone con disabilità. La responsabilità è traslata dall’individuo alla società.

In quest’ottica la disabilità non può essere percepita solo come un problema a livello

corporeo e biologico. Bensì si articola e varia in funzione delle limitazioni poste dalla

società che spesso non è in grado di prendere in carico in modo adeguato le persone con

delle menomazioni da un punto di vista fisico o mentale, impedendone la partecipazione

sociale. La disabilità non riguarda solamente il singolo individuo ma la considerazione e

23
il coinvolgimento che la società ha nei confronti della menomazione. È bene considerare

che il modello sociale non si pone in una prospettiva di assoluta superiorità verso il

modello medico e gli interventi riabilitativi (Shakespeare & Watson, 2002, p.14). A tal

proposito, alcuni studiosi affermano che il modello sociale non intende sottovalutare

l’opportunità e l’irrinunciabilità di interventi sanitari educativi a misura di persona, ma

vuole denunciarne le finalità in quanto essi rimangono tesi, in ogni caso, all’inserimento

in una realtà sociale pensata e costruita ispirandosi a visioni standardizzate di efficienza

(ibidem). Da questa riflessione emerge come il modello medico vada ripensato integrando

anche il punto di vista sociale, cercando un nuovo equilibrio e punto di incontro tra le due

correnti di pensiero.

Per raggiungere questo intento, il modello biopsicosociale si propone come “una strategia

di approccio alla persona, che attribuisce il risultato della malattia, così come della salute,

all’interazione intricata e variabile di fattori biologici (genetici, biochimici ecc.), fattori

psicologici (umore, personalità, comportamento ecc.) e fattori sociali (cultura, familiari,

socioeconomici)” (Santrock, 2007). Il modello biopsicosociale è adottato anche dall’ICF

(vd. paragrafo 1.2.2) il quale “oltre a mettere in relazione gli indici prettamente sanitari

con quelli sociali e psicologici ascrivibili, da un lato, alle caratteristiche degli ambienti di

vita e, dall’altro, alle condizioni personali, indica, al contempo, diversi e multipli focus

che devono essere considerati quanto si ritiene opportuno farsi carico e proporre adeguati

percorsi curativi e riabilitativi” (Soresi, 2016, p. 48).

Seguendo la linea di pensiero del modello sociale, è importante focalizzare ed enfatizzare

l’individuo piuttosto che la sua menomazione e, per fare ciò, il linguaggio può rivelarsi

un importante strumento.

24
Il person-first language, infatti, pone la persona in primo piano e la descrive per ciò che

ha, non per ciò che è (Snow, 2016, p. 2). Un esempio di person-first language è

l’espressione “persona con disabilità”. Tale tipologia di linguaggio intende non scindere

la disabilità dalla persona, quanto piuttosto pensare alla disabilità come un tratto e una

caratteristica dell’essere umano. Il person-first language è oggi consigliato dall’American

Psychological Association (APA) per riferirsi alle persone con disabilità sia nella

comunicazione verbale che nella produzione scritta. Tuttavia, molteplici sono le critiche

mosse verso il person-first language, affermando che “implica sottilmente che ci sia

qualcosa di negativo nella disabilità e che l’utilizzo della locuzione “con disabilità”

dissoci inutilmente la persona dalla disabilità” (Dunn & Andrews, 2015, p. 257).

In alternativa al person-first language si sviluppa un modello, nominato modello di

minoranza (identity-first language), che delinea la disabilità in termini neutrali e come

una naturale caratteristica dell’essere umano. Un esempio di identity-first language è

l’espressione “persona disabile”.

Il modello di minoranza postula che, come le caratteristiche demografiche, sulla razza o

l’orientamento sessuale, anche la disabilità dovrebbe essere valutata e celebrata come una

parte dell’identità dell’uomo (Andrews et al. citato in Dunn & Andrews, 2015, p. 259). Il

dibattito circa l’utilizzo del person-first language e l’identity-first language è ancora

aperto. Nel Capitolo Secondo si propone uno studio (Gernsbacher, 2017, pp. 859-861)

incentrato sull’utilizzo di queste due tipologie di linguaggio nel contesto scolastico.

1.3.2 Dagli inizi del Novecento al 1970

Nel presente paragrafo si descrivono i modelli e gli studi elaborati da Montessori

(1909), Goldfarb (1947), Klaber (1969) e Deno (1970) sul tema della disabilità.

25
Maria Montessori, educatrice, pedagogista e filosofa, fu la prima a comprovare che

“anche i bambini con gravi forme di disabilità intellettiva (che ai suoi tempi venivano

considerati non educabili), potevano conseguire importanti risultati nella lettura, scrittura

e nelle abilità manuali” (Soresi, 2016, p. 25). Il metodo Montessori pone in rilievo la

stimolazione delle abilità cognitive dei bambini con disabilità sottolineando come la

cognizione e la disabilità possano essere due concetti conciliabili tra loro e non in antitesi.

Il suo pensiero innovativo è stato un primo passo verso l’inclusione sociale nel contesto

scolastico che subirà, purtroppo, un arresto durante gli scontri della Seconda Guerra

Mondiale.

Nel periodo postbellico, iniziarono le prime riflessioni circa la reclusione forzata e, in

particolar modo, gli effetti dell’istituzionalizzazione sugli individui. A tal proposito, lo

studioso Goldfarb nel 1947 rilevò una marcata differenza tra i bambini cresciuti in

famiglie adottive e quelli che avevano passato la loro infanzia in un istituto: questi ultimi

avevano sviluppato una maggiore quantità di comportamenti devianti, un linguaggio più

povero e, infine, le loro prestazioni nei test di tipo psicologico erano inferiori. A fronte di

questi risultati, gli studi proseguirono incentrandosi sulle cause e sul perché i bambini

istituzionalizzati avessero dei comportamenti, un linguaggio e, in generale, dei risultati

meno brillanti rispetto ai bambini adottati. Le prime risposte arrivano grazie a Thompson

nel 1977: lo studioso rileva un percentuale piuttosto esigua di tempo che gli operatori

dedicavano all’educazione degli ospiti dell’istituto. Si stima che solamente l’1.9% del

proprio orario lavorativo era dedicato alla crescita, allo sviluppo e all’educazione dei

bambini.

Un’attenta analisi degli istituti fu condotta da Klaber (1969, pp. 124-135) il quale mise a

confronto sei differenti strutture che ospitavano bambini in età scolare, concentrandosi

26
sul livello di autonomia concesso loro durante la permanenza. L’autonomia veniva poi

accostata a comportamenti gioiosi e di felicità manifestati dagli ospiti come, ad esempio,

un sorriso. I risultati mostrano che i bambini appartenenti agli istituti promotori di

autonomia sono più felici. Inoltre, una maggiore passività correlava con comportamenti

di tipo autistico.

Un modello nato verso la fine del Novecento è quello descritto da Deno (1970). La

struttura ideologica che sta alla base di tale modello sostiene e promuove l’accettazione

delle persone con disabilità, incoraggiando a una maggiore consapevolezza verso le

situazioni di difficoltà e aspirando a una vera e sincera interazione. Deno (1970) propone

il modello a cascata: esso si compone di sette differenti livelli di inserimento dello

studente a seconda della propria condizione. Il primo livello, quello meno “invasivo”

prevede la frequenza delle classi comuni da parte di bambini “eccezionali”, con o senza

l’aiuto di supporti (Deno, 1970, pp. 229-237). È il livello più inclusivo e coinvolge gli

studenti con disabilità all’interno delle classi regolari. Nel secondo livello è previsto un

supporto dello studente con disabilità all’interno della classe comune. Il terzo livello

inserisce alcuni interventi di tipo specializzato in un luogo differente rispetto alla classe

comune. Il quarto livello, invece, si caratterizza per la frequenza di una classe separata a

tempo pieno; solo in alcuni casi definiti, a seconda delle competenze raggiunte, è possibile

avere un contesto di interazione con i coetanei all’interno della classe comune. Il quinto

livello, concretamente realizzatosi negli anni Settanta, consiste nella frequenza di classi

speciali inserite nelle scuole pubbliche. Nel sesto livello gli studenti con disabilità

frequentano le lezioni in scuole separate e create ad hoc per i coetanei con le loro stesse

condizioni. Infine, il settimo ed ultimo livello colloca lo studente all’interno di strutture

specifiche come l’ospedale, le case di cura o gli istituti. Come è possibile desumere dalla

27
descrizione esposta, i livelli di inserimento proposti sono articolati secondo una

prospettiva a cascata: dal livello meno restrittivo e più inclusivo sino

all’ospedalizzazione. Il passaggio da un livello ad un altro avviene solamente a seguito di

una attenta discussione e dettagliata analisi del singolo caso, cercando di promuovere i

contesti più inclusivi.

Contemporaneamente al modello di Deno nel 1970, iniziarono a farsi strada alcuni

movimenti sociali e politici volti a favorire la deistituzionalizzazione. Numerose erano le

critiche verso le reclusioni forzate e totali. Alcuni studiosi, infatti, proposero degli spunti

importanti come, ad esempio, un cambiamento della modalità e dell’approccio di

intervento nei confronti delle persone con malattie mentali. A Goffman (1961) va il

merito di aver ideato la psichiatria moderna, muovendosi per portare a termine le

restrizioni totali. Sulla scia di questa linea di pensiero Basaglia denuncia

l’istituzionalizzazione sostenendo che era stata creata con il solo intento di separare le

persone sane da quelle malate. La sua idea venne in seguito concretizzata con la legge n.

180 del 1978, la legge Basaglia, che portò alla chiusura definitiva dei manicomi nel

contesto italiano, a normare il ricovero coatto in psichiatria e diede inizio a una nuova

pagina di storia attenta all’inclusione a all’integrazione delle persone con disabilità.

La legge Basaglia può essere un primo passo che segna il passaggio da un modello

prettamente di tipo medico della disabilità a un modello sociale (vd. paragrafo 1.3.1).

1.3.3 Il Capability Approach

Un interessante modello proposto negli Ottanta permette di aprire una serie di

considerazioni sull’importanza della multidisciplinarietà e del mettere in discussione le

28
proprie convinzioni, con l’obiettivo di creare una nuova verità e un nuovo sapere, grazie

al confronto con sé stessi, con gli altri e con le altre discipline.

Questo passaggio è necessario per creare nuovi significati, più profondi e al passo con i

tempi. Tale prospettiva trova seguito grazie al contributo proposto dall’economista,

filosofo e accademico Amartya Sen: il capability approach. Il capability approach, pur

avendo una natura di tipo economico, è stato in grado di influenzare significativamente

la visione del benessere, proponendo degli spunti interessanti per progettare interventi di

inclusione e concentrandosi su una equa ed etica ripartizione delle risorse. Anche

l’Organizzazione mondiale della sanità si trova concorde con il punto di vista

dell’economista, promuovendo la necessità di un cambiamento sostanziale nei servizi

assistenziali. In primo luogo, l’individuo che riceve aiuto, di qualsiasi natura, non deve e

non può essere considerato come un recettore passivo ma come attore e agente attivo che

è in grado di definire le proprie priorità, bisogni e obiettivi. Per raggiungere tale intento

Sen suggerisce di valorizzare le capabilities e i funzionamenti degli individui; è su questi

due costrutti che si articola il modello del capability approach.

In particolar modo, i funzionamenti sono le realizzazioni che le persone si auto-

attribuiscono come, ad esempio, gli esiti conseguiti a livello intellettivo, nella salute, dal

punto di vista fisico e, in generale, in tutti i contesti con cui l’individuo si interfaccia. In

Sen, pertanto, i funzionamenti non si riferiscono unicamente a ciò che gli individui fanno,

ma anche a ciò che sono, e rappresentano, nel loro insieme e nella loro natura

essenzialmente dinamica, ciò che ogni individuo ritiene degno di fare o di essere (Soresi,

2016, p. 32).

29
Per “capacità” si intende, invece, il potenziale dell’individuo ovvero l’abilità nell’essere

o fare ciò che si intende e desidera effettivamente essere. Il concetto di capability,

pertanto, ci aiuta ad andare oltre alcune ideologie e limiti che riguardano la disabilità,

spostando l’attenzione dalla menomazione e dall’invalidità al garantire pari opportunità

indipendentemente dalla propria condizione. Secondo Sen la libertà che l’individuo si

concede nel fare le proprie scelte è intesa in modo positivo e non ha a che vedere con la

concezione negativa e passiva a cui spesso si fa riferimento pensando a persone con

disabilità. Sen introduce il concetto di “libertà” per riuscire a cogliere l’importanza delle

libertà individuali, sia per la persona che per la struttura stessa delle disposizioni sociali

(Terzi, 2013, p. 28). Inoltre, il successo di una società può essere valutato, adottando la

prospettiva di Sen, secondo la sostanziale libertà di cui i membri della società godono.

Mentre la combinazione dei funzionamenti effettivi di una persona rispecchia la sua

riuscita ideale, l’insieme delle capacità rappresenta invece la sua libertà di riuscire, ovvero

le combinazioni alternative di funzionamenti fra cui essa può scegliere (Sen 1999; trad.

it. 2000, p. 80). Il modello di Sen non si limita ai concetti di funzionamento e di capacità:

coinvolge anche il costrutto dell’agency. L’agency è l’abilità nel far accadere le cose e

essere autori di sé stessi intervenendo sulla realtà, secondo una prospettiva in cui

l’individuo è agente causale di se stesso. Ciascun individuo dovrebbe essere posto nelle

condizioni per esercitare la propria agency, il controllo e avere potere verso i contesti in

cui è immerso.

Non è possibile definire in modo univoco una classifica in ordine di importanza relativa

alle capacità e ai funzionamenti da prediligere. Sen stesso afferma che essi variano in

funzione del contesto di riferimento e a seconda del singolo caso. Tuttavia, ci sono alcuni

30
fattori che sono essenziali per poter condurre un’esistenza accettabile come: la capacità

di mobilità, partecipare ed essere inclusi nella società, essere nutriti, la salute.

Alla base del pensiero e del modello elaborato da Sen vi è la necessità di riconoscere la

diversità e l’eterogeneità come caratteristiche inscindibili e fondanti dell’essenza umana.

È solamente a partire da tale consapevolezza che sarà possibile garantire degli standard

di qualità di vita adeguati alle caratteristiche di ognuno.

Pertanto, il Capability Approach permette di focalizzare l’attenzione sull’aspetto

relazionale della disabilità, che deriva quindi dalla relazione e dal mutuo influenzarsi di

fattori personali e sociali, e sull’importanza che l’assetto sociale ha nel limitare o

incentivare i funzionamenti dell’individuo.

Sen non ha specificato né alcuna lista di capabilities rilevanti, né a quale livello si

dovrebbero garantire agli individui. Sen ha lasciato questo aspetto del suo pensiero

intenzionalmente indeterminato, e al contempo ha difeso forme di democrazia

deliberativa per il processo di scelta delle capabilities rilevanti (Terzi, 2013, p. 49).

Tuttavia, alcuni dei concetti espressi dall’economista indiano sono stati ripresi, analizzati,

sviscerati e approfonditi da altri studiosi. Sulla stessa linea di pensiero di Sen, la filosofa

Martha Nussbaum propone alcune dimensioni fondamentali per una vita degna di essere

vissuta. Tra le diverse capacità fondamentali per il funzionamento umano si ricordano: la

vita e la salute fisica, l’integrità fisica, la capacità di usare a pieno i propri sensi, avere

legami, provare emozioni, essere capaci di ridere, di soffrire, provare gratitudine, rabbia

ed esercitare un controllo sul proprio ambiente come difendere la libertà di parola.

31
Al fine di promuovere e potenziare al meglio le capacità e i funzionamenti delle persone,

quindi, i servizi sociosanitari devono essere progettati tenendo in considerazione le

differenze e le unicità di ognuno, garantendo un corretto standard di qualità di vita.

1.4 Evoluzione dei diritti delle persone con disabilità

La disabilità è stata spesso associata alla salute e alle politiche di welfare; tuttavia, a

partire dalla Convenzione dell’ONU del 2006 si è delineata una nuova prospettiva, volta

a garantire un trattamento di pari opportunità tra gli individui e un pieno esercizio dei

diritti e delle libertà fondamentali, cercando di eliminare le possibili barriere che

impediscono il raggiungimento di tale obiettivo. Si tratta di un cambiamento di paradigma

che trae il suo fondamento dal fatto che a ciascun individuo, indipendentemente dalla sua

condizione, spettano dei diritti. Ad oggi, l’attenzione non è rivolta verso il riconoscimento

dei diritti alle persone con disabilità ma alla concreta applicazione e attuazione dei diritti

umani. È quindi importante promulgare delle normative che tutelino e garantiscano dei

diritti e degli obblighi nei confronti della disabilità ma, allo stesso tempo, i cambiamenti

legislativi devono essere seguiti da una concezione culturale e sociale che sia coerente

con quanto proposto. La disabilità, secondo un approccio di tipo sociale, infatti, non è più

una questione che riguarda esclusivamente la condizione fisica e clinica dell’individuo:

essa deve orientarsi alla rimozione degli ostacoli fisici, sociali e culturali che non

permettono una piena partecipazione dell’individuo a tutti gli aspetti della quotidianità e

a un coinvolgimento all’interno della società.

Per giungere all’attuale consapevolezza in termini di diritti umani, è stato necessario

passare attraverso differenti modelli che si sono susseguiti nel corso degli anni. Ciascuno

32
è fortemente ancorato alla cultura dominante, ai valori, al contesto sociale e all’approccio

scientifico di un particolare periodo storico. La concezione più antica è di tipo morale: la

disabilità è associata a una colpa da espiare, la volontà del divino di manifestare il proprio

disappunto e, di conseguenza, far soffrire il peccatore. Il modello medico, come affermato

in precedenza, è strettamente legato alla condizione fisica, clinica e biologica

dell’individuo. Ogni mancanza deriva da una limitazione che coinvolge la dimensione

corporea. A seguito del modello medico si sviluppa negli anni Settanta il modello sociale,

incentrato sul rapporto tra il soggetto e l’ambiente. Inoltre, partendo dalla constatazione

che sia il modello medico che quello sociale hanno delle componenti che non possono

non essere considerate, si propone il modello bio-psico-sociale. Infine, una delle più

recenti letture della disabilità, fondata sui costrutti dell’agency, delle capabilities e dei

funzionamenti, adotta una visione di tipo egualitario della disabilità: si tratta del

Capability Approach di Sen.

Ciascuno dei modelli presentati ha contribuito a creare una nuova consapevolezza e una

nuova sensibilità nei confronti della disabilità che si è ufficialmente concretizzata con

l’emanazione da parte dell’ONU della Convenzione internazionale sui diritti delle

persone con disabilità (CRPD) nel 2006. Il testo è entrato ufficialmente in vigore a partire

dal 2008 e approvato dal Paese italiano nel 2009. Il segretario generale delle Nazioni

Unite, allora Kofi Annan, dichiarò che la Convenzione internazionale sui diritti delle

persone con disabilità (CRPD) è uno strumento volto a tutelare i diritti di oltre 650 milioni

di persone che hanno una disabilità e ha delle precise e definite finalità di tipo sociale e

politico.

È interessante notare come la CRPD non fornisce una definizione del termine disabilità:

la considera come un concetto che varia in continuazione, dettato dal delicato rapporto

33
tra le persone con delle menomazioni e le barriere poste dall’ambiente e dai

comportamenti adottati dalla società. La disabilità è quindi fluida, dinamica e in continua

evoluzione e dipende dal mutuo influenzarsi di diverse componenti che ne modificano

l’assetto.

Ogni Paese, inoltre, a seconda del contesto culturale, economico e sociale, ha una

differente percezione dei diritti umani delle persone con disabilità, una differente

consapevolezza circa il livello di discriminazione e l’attuazione di una effettiva

condizione di pari opportunità. È per questo motivo che non è possibile fornire una

definizione statica e univoca del termine. L’articolo 1 della Convenzione, infatti, riguardo

alle persone con disabilità afferma che sono “coloro che presentano durature

menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che in interazione con barriere di

diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società

su base di uguaglianza con gli altri” (ONU, 2007, p. 8).

Prosegue, poi, nel secondo articolo approfondendo il tema della discriminazione nei

confronti di persone con disabilità “si intende qualsivoglia distinzione, esclusione o

restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l’effetto di pregiudicare o

annullare il riconoscimento, il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli

altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico,

sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo. Essa include ogni forma di

discriminazione, compreso il rifiuto di un accomodamento ragionevole” (ONU, 2007, p.

9).

Nel terzo articolo della Convenzione sono esplicitati i diritti che devono essere garantiti

anche alle persone con disabilità come, ad esempio, il rispetto per la dignità intrinseca,

34
l’autonomia e l’indipendenza, il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della persona,

il rispetto della privacy e la parità di opportunità.

Per poter garantire un pieno rispetto e l’attuazione di tali diritti, la Convenzione istituisce

una serie di meccanismi di controllo. In particolar modo, nell’articolo 34 ci si riferisce ad

un Comitato che si deve riunire con una sessione ordinaria una volta all’anno nella città

di Ginevra con l’obiettivo di controllare e monitorare l’effettiva attuazione della CRPD

da parte degli Stati che vi aderiscono. Ciascun Paese membro, durante la riunione, deve

esporre le proprie iniziative atte a garantire i diritti descritti nella Convenzione alle

persone con disabilità. Il Comitato esprime in seguito il proprio parere attraverso delle

osservazioni conclusive. La CRPD assegna delle nuove responsabilità sia agli Stati che

vi aderiscono che ai cittadini, al fine di garantire un pieno ed effettivo rispetto dei diritti

umani.

Si rinnova profondamente la tutela dei diritti nel campo delle convenzioni internazionali:

la responsabilità degli Stati si allarga non solo al rispetto dei diritti della persona, ma

include anche la responsabilità sulle condizioni che producono disabilità. Non si tratta

solo di garantire il rispetto formale dei diritti, ma di rimuovere ostacoli, barriere e

discriminazioni che impediscono ad un miliardo di persone di partecipare le decisioni che

le riguardano, godendo dei loro diritti e delle libertà fondamentali (Terzi, 2013, p. 23).

Griffo (2007) afferma che da cittadini invisibili le persone con disabilità grazie alla

Convenzione diventano finalmente persone titolari di diritti umani; da approcci basati

sulle politiche dell’assistenza e della sanità si passa alla rivendicazione di politiche

inclusive e di mainstreaming, dall’essere considerati oggetti di decisioni prese da altri a

diventare soggetti consapevoli che vogliono decidere della propria vita.

35
Inoltre, grazie alla Convenzione è stato possibile rimuovere la tendenza presente in alcuni

testi normativi a definire e riconoscere alcuni individui in base a delle etichette, come se

appartenessero a una condizione giuridica a sé stante (ad esempio: gli “invalidi” o i “non

autosufficienti”). Questi termini sono stati aboliti. Si aspira pertanto a un salto concettuale

che mira a interpretare la disabilità come una condizione che fa parte dell’essere umano

e, per questo motivo, la Convenzione si propone di andare oltre una visione frammentata

dei servizi e che etichetta i bisogni, promuovendo una prospettiva aperta alle necessità di

ognuno indipendentemente dalla propria condizione.

Tra i diversi meriti che vanno riconosciuti alla Convenzione ONU sui diritti delle persone

con disabilità vi è la particolare attenzione posta nei confronti della soggettività e dei

diritti delle donne con disabilità, a cui sono stati destinati diversi riferimenti. Diversi sono

i pregiudizi che ancora oggi investono le donne con disabilità, esse sono discriminate sia

in quanto appartenenti al genere femminile, sia in quanto persone con una disabilità. Lo

spirito adottato dalla Convenzione è quello di cercare sensibilizzare e lottare contro i

numerosi pregiudizi. In particolar modo, i Feminist Disability Studies sono un

interessante filone di riflessione volto a contrastare il riduzionismo biologico, il

culturalismo radicale inteso come una esagerata e compiaciuta ostentazione della cultura

dominante, permettendo di riconoscere gli elementi che uniscono e accomunano gli

individui.

Il Feminist Disability Studies (FDS) è una disciplina di studio nata intorno alla metà degli

anni Ottanta con l’obiettivo di aprire tavoli di riflessione sul pensiero femminista e, al

contempo, sui Disability Studies (DS) con un approccio di tipo sociale. Sia il pensiero

femminista che i Disability Studies sono accusati per aver negato alle donne di far valere

le proprie idee e sentire la propria voce. A ciò ha conseguito l’emarginazione delle donne

36
con disabilità all’interno della vita sociale e a una assenza di pari opportunità nel campo

dell’istruzione. Diverse sono le ipotesi che hanno cercato di spiegare perché il movimento

femminista ad essere insensibile e noncurante nei confronti delle necessità delle donne

con disabilità: tra le più accreditate vi è il pensiero che la donna con disabilità, in

generale, evoca un’idea di passività, di cura e dipendenza che, secondo lo spirito

femminista rappresentano una minaccia per le battaglie portate avanti dalle femministe,

le quali combattono per emancipare la donna da un ruolo prettamente domestico verso la

ricerca di un empowerment e dell’autonomia. Come afferma Begum (1992, p. 73),

percependo le donne disabili come se fossero bambine, abbandonate e perseguitate, le

femministe non disabili le hanno separate dalla sorellanza, nel tentativo di far progredire

un’icona femminile più forte, competente e seducente.

A fronte di ciò, pertanto, è possibile affermare che le stesse femministe perseguendo gli

ideali di razionalità, forza, rigore e autonomia hanno involontariamente accentuato lo

stereotipo patriarcale. È interessante notare come i FDS, pur ammettendo diverse

sfumature di pensiero all’interno della stessa corrente, abbiamo come filo conduttore la

premessa che la disabilità sia una differenza con un significato che si manifesta anche,

ma e soprattutto non si esaurisce solo, nelle relazioni sociopolitiche. Grazie a questa

consapevolezza, pertanto, il corpo non costituito dalla sola dimensione biologica, né dalla

pura costruzione sociale, senza rischiare di incorrere in beceri riduzionismi o nell’estremo

naturalismo da una parte e nell’estrema essenza costruttivista dall’altra.

È un passo in avanti che consente di andare oltre il dualismo nature-nurture, la scissione

tra l’oggettività e la soggettività, proponendo un punto di incontro che è concretamente

al servizio delle persone con disabilità.

37
La Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità cerca di sviscerare il tema

della valorizzazione delle differenze secondo il processo chiamato da Bobbio (1990) di

“specificazione”. Se da un lato i tradizionali documenti hanno cercato di porre l’accento

sulle somiglianze e su ciò che accomuna gli individui in quanto appartenenti ad una unica

specie, la Convenzione adotta un’ottica di valorizzazione delle differenze e di pluralismo.

Il dibattito tra eguaglianza e differenza è ancora oggi caldo e non può essere superato e

risolto se non considerando la complementarità delle due dimensioni implicate.

La Convenzione, quindi riflette sul fatto che la soggettività disabile non può che portare

al riconoscimento della titolarità dei diritti e, conseguentemente, anche ad un impegno

istituzionale che ne consenta il concreto esercizio, così da garantire il godimento di una

cittadinanza piena ed inclusiva ad individui che sono riconosciuti avere pari dignità

rispetto agli altri, in ragione e non a dispetto delle proprie differenze (Bernardini, 2011,

pp. 385-402). Nonostante l’importanza a livello simbolico della Convenzione sia

insindacabile, è fondamentale assicurare una effettiva applicazione dei diritti espressi.

Facendo un particolare riferimento alle donne con disabilità, è necessario promuovere

delle campagne di sensibilizzazione, ad esempio, attraverso degli studi che forniscano dei

dati aggiornati e validi circa questo fenomeno.

Spostandosi, invece, su un piano specifico all’interno della normativa italiana, in materia

di parità e non discriminazione, la disabilità è definita a partire dal concetto di handicap,

senza dare alcun rilievo all’importanza dell’ambiente. In particolar modo, il decreto

legislativo n. 216 del 2003 che disciplina la parità di trattamento nell’occupazione e nelle

condizioni di lavoro, non offre una definizione specifica del termine “disabilità”; si

menzionano solamente le “persone portatrici di handicap” e, per avere una delucidazione

in merito a tale termine è necessario interpellare l’articolo 3 della Legge quadro n.

38
104/1992 che definisce la persona handicappata come “colui che presenta una minoranza

fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di

apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa tale da determinare un processo

di svantaggio sociale o di emarginazione”. Il fatto stesso che, all’interno di un testo

legislativo compaia il termine “handicappato” apre una serie di riflessioni. La legge

dovrebbe incentivare a un cambiamento di prospettiva e a una visione più inclusiva nei

confronti delle persone con disabilità; utilizzare termini non appropriati e denigratori

rallenta il pieno raggiungimento della condizione di parità. Inoltre, riferendosi a “persone

portatrici di handicap” si adotta un approccio di tipo strettamente medico e clinico,

tralasciando l’importanza dell’ambiente e del contesto, che si focalizza sulla mancanza e

su ciò che la persona non è in grado di fare piuttosto che sulle sue abilità e risorse.

Pertanto, essendo in questo caso la legge italiana meno rigorosa rispetto a quanto stabilito

dalla Comunità europea è stato avviato un procedimento di infrazione nei confronti del

nostro Paese. Durante la sentenza del 4 luglio 2013 l’Italia è stata condannata per non

aver adottato delle misure idonee a contrastare le discriminazioni sulla disabilità.

In conclusione, a partire dagli anni Settanta la normativa italiana ha utilizzato per riferirsi

alle persone con disabilità dei termini obsoleti come ciechi, disabili o sordi. Alcuni

termini etichettano e sovrappongono la persona alla disabilità senza coinvolgere il

contesto, altri, invece, con una visione diagnostica e riduzionista fanno coincidere la

condizione clinica alla disabilità. Il tentativo di fondare un nuovo approccio basato sui

diritti umani non sembra trovare un effettivo risvolto nella prassi e nelle politiche italiane.

I passi in avanti e le innovazioni proposti sia a livello legislativo dalla Convenzione ONU

sui diritti delle persone con disabilità che dal modello ICF hanno trovato diversi ostacoli,

soprattutto a causa del pregnante modello medico che influenza a livello concettuale e

39
pragmatico la disabilità non considerandola come la risultante della complessa relazione

tra la società, l’individuo, l’accesso ai servizi, il lavoro, l’istruzione e altri fattori che sono

cruciali per garantire pari opportunità.

1.4.1 Lo spazio della disabilità e i diritti umani

Negli anni Settanta grazie a una svolta culturale si assiste a una rivalutazione dello spazio

all’interno della società e a una attenta analisi degli aspetti spaziali, i quali sono generatori

di disuguaglianze sociali. Questi nuovi orientamenti hanno dato origine a diverse correnti

disciplinari, tra cui la geografia dei disabili che analizza la dimensione socio-spaziale

della disabilità, mostrando come lo spazio può creare disuguaglianze e oppressioni

(Golledge, 1993, pp. 63-85).

Pertanto, adottando tale prospettiva, lo spazio non è inteso come una semplice area in cui

ha luogo la vita degli esseri umani, ma assume una funzione cruciale all’interno delle

costruzioni sociali. Il risultato dell’interazione tra lo spazio e la società prende il nome di

spazio sociale. In particolar modo, ad ogni organizzazione dello spazio è associata una

ben precisa disposizione della società. Seguendo tale ragionamento, allora, è possibile

affermare che all’esclusione spaziale si presuppone anche una esclusione di tipo sociale.

Lo Stato, inteso come organizzazione giuridica di un popolo, ha la responsabilità di

garantire ed assicurare il pieno rispetto dei diritti di tutti i cittadini, ivi comprese le

persone con disabilità ed è implicato nell’adozione di specifiche misure atte ad evitare

qualsiasi forma di discriminazione. Per perseguire tale obiettivo è necessario intervenire

anche nello spazio, al fine di garantire il diritto fondamentale dell’accessibilità. È grazie

a una analisi dello spazio che è possibile comprendere le dinamiche sociali. Negli anni

40
Settanta, infatti, si sviluppa la geografia dei disabili. La disciplina è focalizzata sulla

dinamica relazione tra l’ambiente e le persone con disabilità, rendendo evidente come lo

spazio sia in grado di essere determinante nei rapporti sociali. Lo spazio è autore di

inclusione ma, se non ben gestito, anche di discriminazione diventando causa stessa di

disabilità.

Lo spazio sociale cui si fa riferimento è quello approfondito dal geografo francese Michel

Lussault che, nella sua opera “L’homme spatial”, il quale esamina la stretta relazione tra

spazio e società, mostrando come le due entità s’influenzano a vicenda e come lo spazio

non è semplicemente un riflesso passivo delle tendenze sociali e culturali, ma un

partecipante attivo costitutivo e rappresentante della società (Lussault, 2007, citato in

Terzi, 2013, p. 135). È per mezzo dello spazio che la società, secondo un’ottica

prettamente di tipo sociale, rende una persona con una menomazione una persona con

disabilità. Ciò accade in quanto non è concessa a quest’ultima la partecipazione alla vita

sociale e non sono garantiti gli stessi diritti e opportunità. È in quest’ottica che lo spazio

è attore di inclusione e, allo stesso tempo, di discriminazione: a seconda dell’accessibilità

sono escluse o meno determinate persone. Per far sì che l’ambiente e i luoghi fisici della

società non siano implicati in atti di discriminazione è necessario attuare delle

progettazioni e degli interventi pensati ad hoc;

essendo la società a rendere disabile è essa che deve adattarsi alle persone e non il

contrario (Lettieri, 2013, p. 133).

Coerentemente con quanto espresso, gli Stati membri che hanno firmato nel dicembre del

2006 la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità si impegnano a garantire un

effettivo e pieno godimento dei diritti. In particolar modo, in riferimento all’articolo 9

della Convenzione circa l’ambiente e lo spazio si afferma che “gli Stati devono

41
impegnarsi a prendere misure appropriate per assicurare alle persone con disabilità, su

base di uguaglianza con gli altri, l’accesso all’ambiente fisico, ai trasporti,

all’informazione e alla comunicazione” (Art. 9 Convenzione sui diritti delle persone con

disabilità, p. 15). La Convenzione definisce la disabilità come l’intersezione tra le

persone con una menomazione e le barriere sociali e fisiche che violano i diritti e le libertà

fondamentali. A fronte di ciò, è possibile affermare come uno spazio accessibile sia,

pertanto, un fondamento imprescindibile di una società che ambisce a una piena

uguaglianza dei cittadini.

La non accessibilità rappresenta una minaccia per i principi di libertà democratica e di

uguaglianza per i cittadini disabili (Hahn, 1986, pp. 273-288).

Secondo quanto proposto dal dizionario geografico di Levy e Lussault lo è spazio è

definito come “una delle dimensioni della società, corrispondente a un insieme di

relazioni, stabilite dalla distanza, tra le diverse realtà” (Levy & Lussault, 2003, p. 325).

La società non è quindi pensabile senza la dimensione dello spazio. Lo spazio impregna

le nostre vite, è costruito sulla base delle nostre esigenze. Non si tratta di un mero riflesso

della società: esso ha un ruolo di primaria importanza nella sua organizzazione, sino ad

affermare che le differenze presenti all’interno dello spazio urbano sono in grado di creare

delle differenze a livello sociale. Per mezzo della socializzazione si origina lo spazio

geografico; man mano che si sviluppa la società, lo spazio crea la sua forma, plasmandosi

grazie all’azione concreta e diretta dell’uomo ma anche grazie alle tecniche sociali come

la scienza e la cultura.

Non si può pensare a uno spazio senza alcun aspetto sociale, così com’è impensabile una

società senza spazio, poiché mancherebbe la sua parte materiale. Esso rappresenta la parte

42
visibile della società, è grazie alla spazialità delle cose che essa diventa visibile (Lettieri,

2013, p. 133).

In conclusione, tra i vari intenti dei Disability Studies vi è quello di mettere in luce

l’importanza dello spazio all’interno della società, adottando una prospettiva che consenta

una trasformazione di tipo spaziale e sociale per consentire una concreta attuazione dei

diritti umani. Sia l’Unione Europea che l’ONU hanno più volte sottolineato la necessità

di creare dei contesti e degli spazi fisici e sociali che siano il più possibile inclusivi.

Occorre un cambio di paradigma a livello del comportamento della società, la quale

talvolta considera le persone con disabilità come un gruppo di minoranza che necessita

di protezione e tolleranza e non come individui da rispettare in quanto tali.

43
CAPITOLO SECONDO: la diversità e il suo linguaggio in una

revisione della letteratura

2.1 Introduzione

2.1.1 Il razionale

Il linguaggio rappresenta un importante sistema dotato di significato all’interno di una

società. I suoni che lo compongono, infatti, non sono solo un mero strumento di

comunicazione, ma anche un mezzo in grado di trasmettere valori, idee, opinioni. Peter

Berger e Brigitte Berger hanno definito il linguaggio come “l’istituzione sociale per

eccellenza, nella misura in cui esso si impone come modello regolatore per la condotta

individuale, sulla quale si fondano anche le istituzioni” (1975, citato in Marotta &

Monaco, 2016, p. 45). In questa prospettiva, il linguaggio è in grado di creare la realtà,

modellare le gerarchie e, allo stesso tempo “plasmare il nostro pensiero diventando la

lente attraverso la quale osserviamo il mondo e attribuiamo significato a ciò che ci

circonda” (Abbatecola, 2016, p. 139).

Il linguaggio, in quanto veicolo di valori e idee, assume un ruolo cruciale nel determinare

la modalità con cui le persone percepiscono e vivono la diversità in tutte le sue forme,

l’inclusione verso l’altro e gli stereotipi. Vista l’importanza che il linguaggio assume

all’interno della quotidianità di ogni individuo e i risvolti pratici che riveste, è doveroso

approfondire la relazione tra il linguaggio e il comportamento e l’impatto che

quest’ultimo ha sulle percezioni individuali con un particolare occhio di riguardo nei

confronti del linguaggio della disabilità. Pertanto, il tipo di linguaggio influenza la

44
percezione sulla disabilità? Quale è il linguaggio più appropriato? Vi saranno anche dei

cenni al linguaggio di genere.

2.1.2 Gli obiettivi

La seguente revisione ha l’obiettivo di sintetizzare i risultati di alcuni studi presenti in

letteratura che hanno cercato di indagare se il linguaggio sia in grado o meno di

influenzare la percezione che l’individuo ha nei confronti della diversità, focalizzandosi

sulla disabilità. Diviene necessario, prima di procedere, fare una premessa. Gli articoli

proposti nella presente revisione della letteratura riguardano e coinvolgono la diversità

sotto diversi aspetti, con un focus particolare sul tema della diversità. È importante e si

consiglia di intendere la diversità come un concetto composto da un aggregato di pluralità,

partendo dal presupposto che ogni individuo è unico e irripetibile in quanto tale e che “la

considerazione della complessità e unicità degli altri attenua l’uso di stereotipi e

generalizzazioni nella formulazione dei giudizi sociali” (Prati & Rubini, 2015, p. 22).

Tra gli anni ’60 e ’80 del secolo scorso, infatti, si sono sviluppate le ricerche sull’analisi

dei precursori cognitivi delle discriminazioni intergruppi, dimostrando che la semplice

distinzione noi (ingroup) vs. loro (outgroup), anche casuale, introduce una norma

comportamentale che porta a favorire il gruppo di appartenenza a scapito del gruppo di

confronto (Tajfel et al., 1971; Tajfel & Turner, 1979).

I giudizi sugli altri tendono ad essere ancorati su categorizzazioni sociali dicotomiche che

generano una differenziazione tra noi e loro. Questa modalità socio-cognitiva può

favorire la discriminazione intergruppi ed avere effetti visibili nella vita quotidiana (Prati

& Rubini, 2015, p. 13).

45
2.2 I materiali e il metodo

La seguente revisione della letteratura è stata condotta seguendo il PRISMA Statement.

Il PRISMA Statement, acronimo di Preferred Reporting Items for Systematic reviews and

Meta-Analyses, è una linea guida a supporto della stesura di revisioni sistematiche e di

metanalisi. Il suo obiettivo è migliorare e facilitare la stesura del lavoro, auspicando ad

una presentazione esaustiva, lineare e trasparente della ricerca. Il PRISMA Statement si

compone di una checklist di 27 item e di un diagramma di flusso di 4 step che descrive le

fasi del processo: identificazione, screening, eleggibilità ed inclusione (Moher et al.,

2015). È, inoltre, incluso un documento di spiegazione ed elaborazione con esempi e

delucidazioni di reporting riferiti a ciascun item. Le evidenze di studi osservazionali

suggeriscono come l’uso del PRISMA Statement sia associato a un reporting più

completo di revisioni sistematiche (Leclercq et al., 2019, p. 48). Ad oggi, circa 174 riviste

nel settore delle scienze della salute approvano il PRISMA Statement per la segnalazione

di revisioni sistematiche e metanalisi pubblicate nelle loro collezioni.

La ricerca del materiale è stata volta attraverso una revisione di alcuni articoli pubblicati

sino al 1 luglio 2021. Gli articoli pubblicati sono stati identificati grazie a differenti motori

di ricerca. In particolar modo sono stati utilizzati: PubMed, Psychinfo, Google Scholar,

Web of Science e ScienceDirect.

PubMed è un motore di ricerca di letteratura scientifica biomedica che raccoglie dati dal

1949 ad oggi. È prodotto dal National Center for Biotechnology Information (NCBI)

presso la National Library of Medicine. PubMed vanta oltre 24 milioni di riferimenti

bibliografici grazie ai 5300 periodici di riferimento da cui attinge. Le stringhe che sono

state inserite nel motore di ricerca sono “Language of disabilita”, “Language of diversity”

46
e “Disability /and language /and impact or influence on disability”: non è stato trovato

nessun articolo coerente e appropriato rispetto alla domanda di ricerca. In particolare, su

un totale di 428 risultati, sono stati scartati i titoli non idonei e letti circa 50 abstract.

Il secondo motore di ricerca preso in considerazione è Psychinfo. È stato possibile

accedere al database attraverso il log-in istituzionale con le credenziali personali

dell’Università degli Studi di Padova. Psychinfo è una banca dati di abstract relativa alla

letteratura psicologica prodotta dall’Associazione Americana di Psicologia (APA).

Psychinfo ha una copertura temporale che va dal 1887 ad oggi e comprende oltre 2.540

titoli di riviste sottoposte a revisione paritaria (il 78% del contenuto complessivo), capitoli

di libri (l’11% del database) e interi libri (circa il 4%). Le stringe che sono state inserite

nel motore di ricerca sono “Language of disability”, “Language of diversity” e “Impact

language of disability”. Anche in questo caso non stati trovati articoli utili ai fini della

ricerca. In particolare, su un totale di 379 risultati, sono stati scartati i titoli non idonei e

letti circa 20 abstract.

Il terzo motore di ricerca è Google Scholar. Si tratta di un motore di ricerca nato nel 2004

e fruibile liberamente. Esso contiene sommari, revisioni, testi della letteratura accademica

relativi a tutti i settori della ricerca scientifica e tecnologica. In questo caso, inserendo le

stesse stringhe indicate in precedenza, sono stati selezionati 4 articoli, a partire da 1267

risultati dalla ricerca ed eseguendo una operazione di de-duplicazione con 1097 risultati,

sono stati letti circa 70 abstract.

Il motore di ricerca Web of Science racchiude l’accesso a più database

contemporaneamente, permettendo una approfondita esplorazione in svariate discipline

accademiche e scientifiche come, ad esempio, le scienze, le scienze sociali, le discipline

47
umanistiche e le arti. Il servizio offerto ha una copertura multidisciplinare che va dal 1900

ad oggi e, nel 2017, Web of Science comprendeva ben 12.000 riviste ad alto impatto e

oltre 160.000 atti di conferenze. Grazie all’ampio materiale proposto da Web of Science,

inserendo le parole chiave citate precedentemente, sono stati trovati 617 risultati ed

eseguendo una operazione di de-duplicazione sono stati ridotti a 573. Dopo aver letto

circa 50 abstract, è stato possibile selezionare 4 articoli. La deduplicazione è una metodica

di gestione di quantità elevate di dati che consente di ridurre le informazioni ridondanti

senza compromettere la fedeltà o l’integrità dei dati. Tale processo si è rivelato

particolarmente utile con Web of Science, considerando l’ingente mole di articoli che

contiene il motore di ricerca. L’acceso avviene grazie al log-in istituzionale per mezzo

delle credenziali personali.

Infine, l’ultimo database fruito è ScienceDirect. Il sito Web nasce nel 1997 e, tramite la

registrazione, consente l’accesso a un ampio database bibliografico relativo a

pubblicazioni scientifiche e nel campo medico. Propone circa 18 milioni di contenuti da

4.000 riviste accademiche e 34.000 e-book. Anche in questo caso non stati trovati articoli

utili ai fini della ricerca, a seguito di 342 risultati e 30 abstract consultati.

2.2.1 Le strategie di ricerca

Gli articoli sono stati selezionati in base ai seguenti criteri di inclusione.

In primo luogo, la lingua. Sono stati infatti inclusi, oltre alla lingua italiana, articoli in

lingua inglese. Il secondo criterio di inclusione è lo scopo. Gli articoli sono stati

selezionati in base alla loro pertinenza con l’obiettivo della ricerca. Il terzo criterio di

inclusione riguarda il metodo. Gli articoli inclusi sono di tipo sperimentale. In particolare,

48
per poter essere inclusi, gli articoli dovevano essere coerenti con l’obiettivo della ricerca

e, pertanto, riguardare la relazione tra la diversità e il suo linguaggio a partire da una

struttura di tipo empirico. Sono stati esclusi tutti gli articoli che riguardavano, ad esempio,

le disabilità linguistiche, lo sviluppo del linguaggio in tutte le fasce d’età, il linguaggio

del corpo e i disturbi dell’apprendimento riscontrati dagli studenti come la discalculia e

la dislessia.

È stato, tuttavia, inserito un articolo non sperimentale in quanto ritenuto coerente con la

domanda di ricerca e in grado di apportare un contributo significativo al lavoro. Tale

articolo (Gernsbacher, 2017), infatti, pur non avendo una struttura di tipo empirico,

arricchisce la ricerca grazie agli interessanti spunti teorici proposti.

Tra i criteri di esclusione, non sono stati ammessi studi di tipo prettamente teorico o di

analisi temporale della storia della diversità. Numerosi sono gli articoli che inquadrano e

riprendono il tema della diversità, tuttavia, senza analizzare il fenomeno da un punto di

vista scientifico. Tali articoli sono stati esclusi. È infine stato escluso il materiale

antecedente all’anno 2000. Tale scelta ambisce ad avere delle informazioni il quanto più

possibile aggiornate. Inoltre, dovrebbe garantire o quanto meno aumentare la probabilità

di utilizzo di software e strumenti recenti per l’analisi dei dati. Infine, sono stati esclusi

tutti gli articoli non appartenenti alla categoria “Psychology area”, ad eccezione per

Psychinfo. La tabella 1 mostra le strategie di ricerca in relazione alle rispettive banche

dati.

49
Banca dati Strategia di ricerca Articoli
identificati

(ALL (language or languages) AND


ALL= (disability or disabilities))
PubMed ALL (language or languages) AND ALL= 0
(disability or disabilities))
ALL (impact) AND (language or languages) AND
ALL= (disability or disabilities

TX (language or languages) AND TX (disability or


disabilities))
Psychinfo TX (language or languages) AND TX (disability or 0
disabilities))
TX (impact) AND TX (language or languages)
AND TX (disability or disabilities

“language or languages of disability or disabilities”


Google Scholar “language or languages of diversity or diversities” 4
“Impact language or languages of disability or
disabilities”

(ALL (language or languages) AND


ALL= (disability or disabilities))
Web of Science ALL (language or languages) AND ALL= 0
(disability or disabilities))
ALL (impact) AND (language or languages) AND
ALL= (disability or disabilities

(ALL (language or languages) AND


ALL= (disability or disabilities))
ScienceDirect ALL (language or languages) AND ALL= 4
(disability or disabilities))
ALL (impact) AND (language or languages) AND
ALL= (disability or disabilities

Tabella 1: Strategie di ricerca in relazione alle banche dati

50
2.3 I risultati

2.3.1 I criteri di selezione utilizzati nella ricerca

Di seguito si presenta la procedura di selezione dell’articolo.

La prima fase è dedicata all’identificazione. In particolare, sono stati selezionati gli

articoli ricavati dai database sulla base delle stringhe “Language of disability”,

“Language of diversity” e “Impact language of disability”.

In secondo luogo, durante la fase di screening è stato escluso il materiale non compatibile

con il tema della ricerca. Per questa fase è stato analizzato il titolo e successivamente

l’abstract. Nel caso in cui sia il titolo che l’abstract mostravano una coerenza con

l’argomento di studio, si è proceduto con la lettura integrale del testo.

La terza ed ultima fase è focalizzata sull’eleggibilità. Alcuni articoli, come specificato nei

criteri di esclusione, sono stati scartati in quanto caratterizzati da una esposizione teorica.

Sono stati pertanto inclusi 8 articoli.

Si presentano ora gli 8 articoli selezionati:

1. “Does Language Type Affect Perceptions of Disability Images? An Experimental

Study” pubblicato nel 2020 e scritto da Stuart B. Kamenetsky e Adam S.

Sadowski.

2. “Language of disability as a factor of discrimination of persons with disabilities”

pubblicato nel 2015 e scritto da Filip Miric.

3. “To be able, or disable, that is the question: A critical discussion on how language

affect the stigma and self-determination in people with parability” pubblicato nel

51
2020 e scritto da S. Bentolhoda Mousavi, Dusica Lecic-Tosevski, Hassan Khalili

e S. Zeinab Mousavi.

4. “Editorial Perspective: The use of person-first language in scholarly writing may

accentuate stigma” pubblicato nel 2017 e scritto da Morton Ann Gernsbacher.

5. “Exploring Issues Relating to Disability Cultural Competence Among Practicing

Physicians” pubblicato nel 2019 e scritto da Nicole Agaronnik, Eric G. Campbell,

Julie Ressalam e Lisa I. Iezzoni.

6. “College Students’ Perceptions of Gender-Inclusive Language Use Predict

Attitudes Toward Transgender and Gender Nonconforming Individuals”

pubblicato nel 2019 e scritto da Alison J. Patev, Chelsie E. Dunn, Kristina B.

Hood e Jessica M. Barber.

7. “Gender Interferences: Grammatical features and their impact on the

representation of gender in bilinguals” pubblicato nel 2013 e scritto da Sayaka

Sato e Pascal M. Gygax.

8. “Towards Inclusive Language: Exploring student-led approaches to talking about

disability-related study needs” pubblicato nel 2019 e scritto da Lister Kathrine,

McPherson Elaine, Coughlan Tim, Gallen Anne-Marie e Pearson Victoria.

52
PubMed n = 428 Psychinfo n = 379 Google Scholar n = 1267

Web of Science n = 617 ScienceDirect n = 342


Identificazione

Articoli dopo la rimozione di 214 duplicati n = 2819

Articoli identificati attraverso la ricerca n = 3033

Articoli sottoposti a screening n = 220 Articoli esclusi n = 212


Screening

Articoli eleggibili per la review n = 38


Eleggibilità

Articoli non inclusi perché di impostazione teorica e non


riguardanti la relazione linguaggio-atteggiamento n = 30

Ulteriori articoli individuati attraverso la


revisione delle referenze bibliografiche n = 0
Inclusione

Articoli inclusi nella review n = 8

Figura 2: Diagramma di flusso del processo di selezione degli articoli

53
n° Autori e anno di Popolazione/campione Metodi e strumenti utilizzati Risultati rilevanti
pubblicazione
1 Kamenetsky, 204 studenti e studentesse: 44 Questionario: Il defiant self-naming evoca
Sadowski, (2020) uomini, 160 donne tra i 16 e i 24 identification maggiori emozioni positive,
anni. Campionamento non emotions identificazione, percezione di
statistico willingness to help capacità e propensione
willingness to include all’inclusione. Il linguaggio
perceptions of capabilities negativo evoca le percezioni più
perceptions of right negative
2 Miric (2015) 20 partecipanti: 11 uomini, 9 Questionario con 13 domande (8 a I risultati mostrano uno scarso
donne. 15 partecipanti con risposta chiusa, 5 domande aperte) riconoscimento dei diritti delle
disabilità. Campionamento non su: persone con disabilità e la
statistico. posizione delle persone con percezione della rilevanza del
disabilità nella società, termini più linguaggio nel trasmettere
adatti per definire la disabilità, discriminazione e disparità sociale.
contesti con percezione più Inoltre, sulla base delle risposte
negativa della disabilità, fornite i contesti percepiti come
percezione provvedimenti penali maggiormente discriminanti sono:
nel linguaggio discriminatorio l’ambiente lavorativo, scolastico e
sanitario
3 Mousavi et al. (2020) / Revisione narrativa sui modelli Gli autori suggeriscono che il
della disabilità e sull’influenza del termine “disabilità” aumenta la
linguaggio negli individui stigmatizzazione. Sulla base della
revisione propongono di sostituire
l’espressione “disabilità” con
“parabilità”

54
4 Gernsbacher (2017) / Revisione della letteratura: Web of L’utilizzo del person-first language
Science, PubMed, Google Scholar, nei testi scolastici potrebbe
Google NGram aumentare la stigmatizzazione
verso le persone con disabilità
5 Agaronnik (2019) 20 medici del Massachusetts Analisi qualitativa del linguaggio I partecipanti utilizzano un
General Hospital dei reparti di: con intervista non strutturata di 40 linguaggio culturalmente
reumatologia, neurologia, minuti. competente nei confronti della
ginecologia, medicina interna e disabilità, tuttavia, alcune
ortopedia espressioni sono datate, offensive e
ancorate al modello medico
6 Patev (2019) Studio 1: 308 partecipanti, età Questionario (Survey Website Le persone con un atteggiamento
media 18.75 (SD=1.25). 66% Qualtrics): definizione di TGNC, negativo verso gli individui TGNC
donne, 31% uomini, 2% non si attitude toward TGNC individual, percepiscono maggiore difficoltà
identifica in un genere, 1% political ideology, gender- nell’utilizzo del linguaggio di
preferisce non rispondere. inclusive language use, genere inclusivo
Studio 2: 186 partecipanti, età acqaintance with TGNC
media 20.12 (SD=2.24). 68% individual, perceptions of barriers
donne, 29% uomini, 3% non si to using gender-inclusive language.
identifica in un genere
7 Sato, Gygax (2013) 61 partecipanti di lingua francese, C-test (language proficiency) e Le persone bilingue costruiscono
età media 22 anni, (44 donne e 17 compito delle rappresentazioni mentali di
uomini) Sensibility Judgment Task genere associate alla lingua del
66 partecipanti di lingua inglese, compito in cui sono coinvolte,
età media 21 anni, (50 donne, 11 sostituendo le loro
uomini) rappresentazioni al variare della
lingua considerata
8 Lister et al. (2019) 15 studenti e studentesse della Metodologia qualitativa: focus Non è possibile identificare
Open University in Gran Bretagna group (12 sessioni) e workshop. un’unica preferenza linguistica
Linguaggio analizzato con il sulla disabilità: dipende dal
programma NVivo.

55
contesto in cui avviene la
comunicazione
SD: Standard Deviation
TGNC: Transgender e transgender non conforming

Tabella 2: Risultati rilevanti dei singoli studi

56
2.3.2 Gli scopi

Lo studio di Kamenetsky e Sadowski (2020, pp.82) esamina l’impatto creato dal tipo di

linguaggio utilizzato in alcune immagini didascaliche raffiguranti persone con disabilità.

In particolar modo, lo scopo del presente studio è comprendere sperimentalmente se la

tipologia di linguaggio applicata nelle didascalie delle immagini è in grado di determinare

una risposta emotiva, la disponibilità all’aiuto e all’inclusione, le capacità percepite,

l’identificazione e la percezione di uguali diritti nei confronti della persona con disabilità

raffigurata nell’immagine. Inoltre, lo studio vuole indagare se il genere dell’osservatore

e il tipo di disabilità e il genere della persona presente nella fotografia interagiscono tra

loro producendo delle sensazioni positive o negative.

Nello studio di Miric (2015, pp. 115) è stato condotto uno studio sugli atteggiamenti di

un campione di utenti del social network Facebook circa il linguaggio della disabilità e

della discriminazione utilizzato nei confronti delle persone con disabilità. Gli obiettivi

dello studio sono: determinare la misura con cui gli utenti del social network Facebook

riconoscono la lingua come mezzo di discriminazione, indagare la loro percezione circa

la relazione tra il linguaggio sulle persone con disabilità e il processo di vittimizzazione

e, infine, valutare la capacità degli utenti nell’individuare una lesione del principio di

uguaglianza attraverso un uso scorretto del linguaggio della disabilità.

L’articolo di Mousavi et al. (2020, pp. 424-430) esamina, attraverso una discussione

critica, come il linguaggio sia in grado di influire sulla stigmatizzazione e

sull’autodeterminazione delle persone con disabilità. La revisione narrativa del

professore del dipartimento di psichiatria dell’Università di Tehran pone l’accento su

come le etichette e, più in generale, il linguaggio colpiscano la formazione dell’identità

dell’individuo con disabilità, suggerendo un nuovo approccio di de-stigmatizzazione.

57
L’articolo di Gernsbacher (2017, pp. 859) è incentrato sul person-first language utilizzato

durante l’età scolare. Tale tipo di linguaggio è caratterizzato da una struttura lessicale in

cui il nome riferito ad una persona precede la frase attribuita alla disabilità. Esempi di

person-first language sono: persona con disabilità, persona con disabilità intellettiva,

adulto con dislessia, bambino con disturbo dello spettro autistico. Grazie a questo

linguaggio la persona è posta in primo piano rispetto alla disabilità ed è descritta per ciò

che ha piuttosto che per ciò che è. L’autore si chiede se il person-first language sia

utilizzato più frequentemente per riferirsi ai bambini con disabilità rispetto ai bambini

senza disabilità.

L’analisi qualitativa condotta da Agaronnik et al. (2019, pp. 403) indaga i problemi legati

alle competenze culturali nell’ambito della disabilità mostrate in un gruppo di medici. Lo

scopo del lavoro è analizzare ed esplorare a livello qualitativo come un gruppo di medici

definisce la disabilità e come il loro linguaggio e i loro atteggiamenti si collocano rispetto

alle attuali nozioni di competenza culturale della disabilità. L’articolo nasce a seguito di

alcune perplessità evidenziate in un precedente lavoro dell’Agency for Healthcare

Research and Quality (2016). In particolar modo, in concomitanza alla carenza di studi

relativi alla percezione e all’utilizzo di un linguaggio appropriato, non ancorato a un

modello prettamente medico e culturalmente competente dei medici durante l’interazione

con persone con disabilità, sono state evidenziate una serie di preoccupazioni da parte di

persone con disabilità sulla qualità delle cure ricevute. Il razionale dello studio, pertanto,

si origina dal desiderio di colmare tale lacuna nella letteratura e indagare quanto

manifestato dai pazienti di alcune strutture sanitarie.

Lo studio sperimentale di Patev et al. (2019, p. 335) è incentrato sul linguaggio di genere.

Esso ambisce a dimostrare la relazione tra la percezione del linguaggio inclusivo di genere

58
e gli atteggiamenti che gli individui hanno nei confronti delle persone transgender e

gender nonconforming (TGNC). In particolare, le domande di ricerca poste dagli studiosi

americani sono: gli studenti che frequentano il college come percepiscono l’uso del

linguaggio inclusivo di genere (gender-inclusive language)? Quale è l’idea degli studenti

circa il linguaggio inclusivo di genere in relazione ai loro atteggiamenti con gli individui

transgender e gender nonconforming?

Lo studio sperimentale di Sato e Gygax (2013, p. 14), anch’esso focalizzato sul

linguaggio di genere, si domanda se le persone bilingue percepiscono il linguaggio di

genere differentemente in funzione della lingua nativa o della seconda lingua. Possedere

più di una lingua, infatti, potrebbe influenzare la comprensione di alcune informazioni e

il significato con cui costruiamo le rappresentazioni mentali del mondo. Il linguaggio di

genere e la lingua utilizzata, quindi, possono influenzare le idee e gli stereotipi delle

persone?

Le ipotesi postulate nel presente studio sono tre.

La prima ipotesi si ancora su una premessa che trova fondamento nello studio di Gygax

et al. (2008, p. 143). Lo studio citato mostra che la comprensione che l’individuo ha di

uno specifico pattern, può cambiare se si considera un conversatore di una lingua con una

“grammatica di genere” piuttosto che un conversatore con una “lingua senza distinzione

di genere”. È necessario, infatti, identificare due grandi categorie di lingue. Nelle lingue

senza una distinzione di genere (come, ad esempio, la lingua inglese) le informazioni

associate al genere sono concettualmente e semanticamente incorporate e non esiste una

evidente differenziazione a livello grammaticale tra i generi. Il termine teacher, ad

esempio, può riferirsi sia a un uomo che ad una donna. Nel caso della lingua inglese,

59
pertanto, il lettore attribuisce il genere alla frase letta in funzione della sua conoscenza

della realtà e in funzione degli stereotipi. Differente è la situazione per le lingue con una

“grammatica di genere” come il francese o l’italiano. Il termine maestro, ad esempio, è

univocamente riferito ad un individuo di genere maschile. In queste lingue le parole sono

morfologicamente distinte in base al genere e, i nomi inanimati, come ad esempio il

termine “sedia”, sono arbitrariamente categorizzati in un genere piuttosto che in un altro.

Tale premessa è stata necessaria per poter comprendere la prima ipotesi dello studio. Lo

studio confronta la comprensione di un gruppo di studenti madrelingua francesi (L1) e un

gruppo di studenti madrelingua inglesi (L1). Nel primo caso, l’inglese è la seconda lingua

(L2), mentre per gli inglesi la lingua non nativa è il francese (L2). La prima ipotesi postula

che ci sarà una dominante rappresentazione della realtà rispetto al genere maschile per gli

studenti di lingua francese e, coerentemente con le caratteristiche della lingua stessa, una

rappresentazione in linea con gli stereotipi di genere per gli studenti di lingua inglese.

Con la seconda ipotesi ci si aspetta che, considerando la seconda lingua di ciascun

individuo (la lingua inglese per i francesi e la lingua francese per gli inglesi) vi sia una

inversione delle rappresentazioni per ciascun partecipante.

Infine, nella terza ipotesi si prevede che l’inversione della rappresentazione della realtà

sia modulata dall’efficienza e dal livello di conoscenza della lingua non nativa.

L’articolo di Lister et al. (2019, p. 1444) ha lo scopo di esplorare l’approccio e il

linguaggio prediletto dagli studenti con disabilità nel discutere le necessità e i bisogni

legati alla disabilità. Spesso gli studenti con disabilità riportano di non sentirsi a proprio

agio nelle definizioni e negli appellativi utilizzati per riferirsi alla loro condizione

all’interno dei servizi accademici. Talvolta, si sentono patologizzati e definiti con termini

60
che non sentono propri. Questo studio si pone l’obiettivo di ascoltare e indagare le

necessità e le preferenze del linguaggio espresse dagli studenti con disabilità al fine di

promuovere un linguaggio inclusivo all’interno del contesto accademico.

2.3.3 Le metodologie

In tutti gli 8 articoli proposti, viene analizzata la relazione tra la diversità e il suo

linguaggio con un particolare focus sul tema della disabilità. Infatti, 6 articoli riguardano

l’impatto del linguaggio sulla percezione della disabilità e 2 articoli analizzano il rapporto

tra la percezione del genere e il linguaggio di genere.

I metodi degli studi descritti sono molteplici consentendo di ampliare le prospettive per

analizzare il fenomeno oggetto di studio. Tale complessità è, pertanto, una preziosa

risorsa per poter osservare da diversi punti di vista la relazione tra il linguaggio e la

percezione che ne deriva dalla sua applicazione nella diversità.

Inoltre, alcuni degli studi descritti hanno previsto delle ricompense ai soggetti

partecipanti; in alcuni casi attraverso dei crediti universitari o una implementazione del

punteggio finale dell’esame, in altri casi con una somma di denaro definita e specificata

prima della partecipazione allo studio stesso.

Nello studio di Kamenetsky e Sadowski (2020, pp. 83-86) hanno partecipato 204 studenti

del primo anno di psicologia:160 ragazze e 44 ragazzi con un’età compresa tra i 16 e i 24

anni. A ciascun soggetto partecipante sono state mostrate 18 differenti immagini

raffiguranti persone con disabilità. Le variabili implicate nelle immagini sono: il genere

(9 immagini raffigurano persone di genere femminile e 9 immagini persone di genere

maschile), il tipo di disabilità (6 immagini raffiguranti persone con disabilità fisica, 6

61
immagini raffiguranti persone con disabilità uditiva e 6 immagini raffiguranti persone

con disabilità visiva) e la tipologia di linguaggio della didascalia (6 differenti tipologie).

Le didascalie possono adottare un linguaggio “person-first naming” come, ad esempio, i

termini “persona con disabilità”; questo linguaggio cerca di superare la possibilità che la

disabilità della persona riceva più attenzioni rispetto all’individuo stesso. Una seconda

tipologia di didascalia è l’”apologetic naming”: è una strategia di denominazione positiva

con una connotazione positiva, ad esempio, diversamente abile. Tale approccio parte dal

presupposto che ciascun individuo sia unico e diverso e che ognuno possieda dei punti di

forza e di criticità. Sia il person-first naming che l’apologetic naming sono un linguaggio

positivo e rispettoso nei confronti della disabilità. Le didascalie, in seguito, possono

essere disability-first naming, categorizzando le persone in base alla loro disabilità, ad

esempio “il sordo”. L’impairment naming si focalizza sulla menomazione, sul “deficit” e

su ciò che dovrebbe essere “aggiustato”. Ne è un esempio i termini “invalidità visiva”.

Tale approccio restituisce un’immagine negativa della disabilità ed è basato sul modello

medico. La didascalia con il negative naming utilizza termini offensivi i quali, spesso,

portano a stereotipi negativi e all’esclusione delle persone con disabilità nei contesti della

quotidianità. Infine, il defiant-self naming utilizza in modo ironico e incoraggiante termini

offensivi, ad esempio la frase “sono un super-invalido, un supereroe Paralimpico”, oppure

“Siccome non posso vederti, non ti giudico superficialmente. Ti giudico in base a cosa

vedo dentro di te”.

I partecipanti hanno risposto ad un questionario di 19 item. Le risposte erano mirate a

valutare sei differenti costrutti ed erano espresse con una scala da 1 (per niente) a 7

(moltissimo). I sei costrutti indagati sono: l’identificazione, le emozioni (gioia, tristezza,

rabbia, disgusto, paura, disprezzo, senso di colpa, stupore), la disponibilità all’aiuto, la

62
disponibilità all’inclusione, la percezione di capacità (abilità nel fare amicizia, nel

prendersi cura di se stessi, capacità di sposarsi o essere assunti) e la percezione dei diritti.

Ad esempio, una domanda sull’emozione della gioia è: “in che misura ti senti felice

quando guardi questa persona”. Le risposte, come precedentemente espresso, possono

variare da 1 (per niente) a 7 (moltissimo).

La figura 1 (fig. 1) rappresenta un esempio di immagine mostrata ai partecipanti. In

particolar modo, in questo caso, le variabili in gioco sono: genere maschile, linguaggio

“disability first”, disabilità di tipo motorio.

Figura 1. Disability Image Portraying Pity: Photograph of the Artist Adam Reynolds by

David Hevey (vedi: http://www.the-ndaca.org)

63
Lo studio di Miric (2015, pp. 115-116) coinvolge un campione di 20 soggetti, 11 uomini

e 9 donne. I partecipanti hanno volontariamente partecipato a un sondaggio online

pubblicato a inizio 2015 sul social network Facebook. In particolar modo, il sondaggio è

stato divulgato su alcuni gruppi online dedicati alle persone con disabilità ed era infatti

destinato ad utenti del social network con disabilità (15); tuttavia, anche persone senza

disabilità potevano partecipare allo studio rispondendo al questionario (5).

La partecipazione allo studio è anonima e volontaria e, dopo aver indicato il sesso, l’età

e il proprio livello di istruzione è possibile iniziare a rispondere alle 13 domande del

questionario; 8 a risposta chiusa e 5 a risposta aperta. Le domande sono volte a

comprendere la percezione delle persone con disabilità relativamente a diversi aspetti. Di

seguito alcune domande poste ai soggetti partecipanti nello studio di Miric (2015, p. 120):

1. Come valuteresti la posizione delle persone con disabilità nella società?

2. In che misura il modo in cui le persone con disabilità sono etichettate influisce

sulla loro posizione sociale?

3. Quale termine, secondo te, è più adatto per identificare le persone con qualche

tipo di disabilità?

4. Pensi che l'uso di termini inadeguati possa vittimizzazione le persone con

disabilità?

5. Una etichetta inadeguata delle persone con disabilità può costituire un atto

denunciabile penalmente e una violazione del principio di uguaglianza?

6. In quali sfere del contesto sociale si percepisce maggiormente una classificazione

negativa delle persone con disabilità?

64
La revisione narrativa proposta da Mousavi et al. (2020, pp. 424-430) propone una

riflessione sull’evoluzione dei modelli che nel corso del tempo hanno descritto la

disabilità e una discussione su come il linguaggio sia in grado di influenzare lo stigma

e l’autodeterminazione nelle persone con una disabilità.

La stigmatizzazione è un processo di attribuzione di etichette in cui le persone sono

percepite differentemente e dipinte in modo tale da farle sentire respinte e sole

(Goffman, 2009, citato in Mousavi et al., 2020, p. 424). Coloro che sono stigmatizzati

sono ritenuti con delle caratteristiche differenti rispetto agli altri. Secondo la teoria

dell’identità sociale di Tajfel e Turner degli anni Settanta gli individui tendono ad

accrescere la propria identità sociale posizionandosi all’interno di determinate

categorie sociali. Gli stereotipi stigmatizzanti si alimentano con la categorizzazione

del proprio gruppo (ingroup) come superiore rispetto all’altro gruppo (outgroup);

quest’ultimo è ritenuto di un livello inferiore. Il linguaggio e il modo con cui le

persone comunicano sono in grado di influenzare stereotipi e pregiudizi. In

particolare, il modo in cui gli individui esprimono le proprie aspettative agli altri

influenza la percezione che gli studenti hanno delle proprie abilità. In uno studio di

Lòpez (2017, pp. 193-212) i comportamenti e i pensieri di alcune maestre erano

associati ai risultati degli studenti. Secondo Mousavi, (2020), nonostante non sia

ancora stato esplorato in relazione a studenti e studentesse e bambini e bambine

chiamati con il termine “disabile”, ciò potrebbe influenzare il comportamento del

corpo docente e le loro aspettative nei confronti degli alunni. Le persone comunicano

i propri valori, aspettative e credenze attraverso il linguaggio, il quale gioca un ruolo

di vitale importanza nella formazione dell’identità dell’individuo. Per questo motivo,

la scelta del linguaggio ha un impatto sulla strada e sulle scelte che le persone

65
intraprendono durante la loro vita. Come afferma Skutnabb-Kangas (1996, pp. 124-

140) il linguaggio è centrale per vedere, interpretare, capire e cambiare il mondo, e,

pertanto, nella sua creazione. Partendo da tale consapevolezza e dalla revisione della

letteratura presente nell’articolo, il professore dell’Università di Tehran Mousavi

propone un termine che, secondo il punto di vista dell’autore stesso, potrebbe portare

a una de-stigmatizzazione delle persone con disabilità. Tale termine verrà specificato

e approfondito nella sezione dedicata ai risultati del presente lavoro.

Nell’articolo di Gernsbacher (2017, pp. 859-861) si tratta l’uso del person-first

language all’interno del contesto scolastico. L’autore propone una analisi multipla di

risorse corroborate scientificamente come: Web of Science, PubMed, Google Scholar

e Google NGram books per comprendere se il person-first language nella

composizione scritta può accentuare lo stigma. In questo caso, la metodologia

consiste nell’analisi del materiale scientifico della letteratura con il fine di rispondere

al quesito dello studioso.

L’analisi condotta da Agaronnik et al. (2020, p. 405) coinvolge 20 medici del

Massachusetts, 10 uomini e 10 donne, afferenti a 5 specialità diverse: medicina

generale, reumatologia, neurologia, ginecologia e ortopedia. Tali medici sono spesso

in contatto durante la loro attività lavorativa con persone con disabilità. L’analisi

consiste in una intervista non strutturata condotta telefonicamente sulla cura e

gestione delle persone con disabilità. L’ipotesi postula che determinati fattori

influenzano le esperienze ospedaliere dei pazienti con disabilità. I fattori implicati

sono: le caratteristiche personali e professionali del medico, il luogo e l’ambiente di

degenza, le caratteristiche personali e professionali del personale coinvolto, i fattori

politici come l’assicurazione sanitaria e l’ambiente sociale. Il protocollo di studio è

66
stato designato per captare la prospettiva dei medici circa la disabilità.

Indipendentemente dall’argomento, trattato sono state analizzate tutte le informazioni

che apportano dati sul linguaggio e sul comportamento dei medici verso le persone

con disabilità. Di seguito, alcuni esempi di domande proposte:

“Cosa ti viene in mente quando senti i termini “persona con disabilità?”

“Come definiresti la disabilità?”

L’intervista dura circa 40 minuti ed è stata trascritta da un programma di audio-

registrazione. L’analisi, inoltre, risponde ai criteri del Consolidated Criteria for

Reporting Qualitative Research (COREQ). Per non estrapolare dall’intervista

contenuti errati, è stata implementata una tipologia di analisi qualitativa descrittiva:

l’analisi dei contenuti. Grazie alla trascrizione delle interviste, un team di lavoro si è

riunito per analizzare e suddividere in categorie i termini espressi dai medici.

Lo studio di Patev et al. (2019, pp. 336-339) coinvolge due campioni. Il primo di 308

studenti universitari con un’età media di 18.75 anni e con il 66% di donne, 31%

uomini, il 2% non si identifica e l’1% non si è espresso. Il secondo campione è di 186

studenti universitari con una media di 20.12 anni di cui il 68% è di donne, il 29% di

uomini e il restante 3% non si identifica in un genere. La scelta del campione è mirata:

gli studenti universitari, infatti, sono maggiormente esposti ai problemi di giustizia

sociale, incluse le questioni degli individui transgender e gender nonconforming

(TGNC). I due campioni derivano dalla necessità di creare due studi diversi che d’ora

in poi saranno chiamati rispettivamente studio 1 e studio 2.

Prima di completare l’intervista a risposte chiuse sono fornite ai partecipanti le

definizioni di cisgender, transgender, uomo transgender e donna transgender.

67
Cisgender è un individuo la cui identità di genere coincide con l’aspettativa

convenzionale del suo sesso. Transgender è un individuo la cui identità di genere

differisce dall’aspettativa convenzionale rispetto al suo sesso. Un uomo transgender

è un individuo che nasce nel corpo di una donna ma che si identifica e vive come un

uomo. L’opposto per la donna transgender.

Successivamente, viene chiesto agli studenti, attraverso delle domande chiuse, se

hanno conoscenze TGNC, con che frequenza parlano un linguaggio di genere

inclusivo nella quotidianità, l’ideologia politica, l’atteggiamento nei confronti di

persone transgender e la percezione soggettiva di barriere nell’utilizzo del linguaggio

inclusivo di genere. In particolare, le affermazioni implicate nella percezione di

barriere nell’uso del linguaggio di genere sono:

1. Mi risulta difficile applicare il linguaggio di genere inclusivo

2. Il linguaggio di genere inclusivo danneggia i miei discorsi e i miei scritti

3. Quando sono sotto pressione ho difficoltà nell’applicare il linguaggio di genere

inclusivo

4. Sarebbe più semplice esprimermi con il linguaggio di genere inclusivo se ci

fossero delle semplici regole su come e quando usarlo

5. Le persone vicino a me generalmente non utilizzano un linguaggio di genere

inclusivo.

Ciascuna delle affermazioni esposte è valutata su una scala da -4 (sono molto in

disaccordo) a +4 (sono molto d’accordo).

68
I primi tre item, infine, sono stati raggruppati nella categoria “difficoltà di utilizzo”. Una

volta completate le domande gli studenti hanno avuto un dettagliato rapporto sullo studio

appena svolto.

Allo studio di Sato e Gygax (2013, pp. 14-19) hanno preso parte 60 studenti e studentesse

francesi nativi dell’Università di Friburgo di cui 44 ragazze e 16 ragazzi e 61 studenti e

studentesse inglesi nativi dell’Università del Sussex di cui 50 ragazze e 11 ragazzi.

Il design dello studio prevede che al candidato siano presentate due coppie di frasi. Nella

prima parte della frase vi è un soggetto con un ruolo stereotipico femminile (ad esempio

l’assistente sociale), o un ruolo stereotipico maschile (il chirurgo) e uno ruolo neutro

(musicista) nella forma plurale maschile francese e nella forma plurale maschile inglese.

È bene specificare che la forma maschile plurale francese, come nella lingua italiana, può

essere intesa sia in modo generico (insieme di uomini e donne) oppure come prettamente

maschile (un insieme di soli uomini).

Esempio di frase con soggetto neutro in un ruolo stereotipico: “The social workers were

walking through the station”.

La prima proposizione viene seguita da una seconda proposizione facendo esplicitamente

riferimento a un gruppo di uomini piuttosto che a un gruppo di donne alludendo alla prima

proposizione.

Esempio di frase con soggetto femminile esplicitato: “At the end of the day the majority

of the women seemed to want to go home”.

Esempio di frase con soggetto maschile esplicitato: “At the end of the day the majority of

the men seemed to want to go home”.

69
Quindi, unendo la prima e la seconda proposizione, la frase potrà essere composta in uno

dei seguenti modi: “The social workers were walking through the station, at the end of

the day the majority of the women seemed to want to go home” oppure “The social

workers were walking through the station, at the end of the day the majority of the men

seemed to want to go home”.

La seconda parte di proposizione, che si riferisce esplicitamente a un gruppo di donne o

di uomini, può essere una conferma oppure essere incompatibile rispetto al ruolo

stereotipico di genere della prima proposizione. I generi neutri sono gli unici che vengono

interpretati in base al contesto della frase. Sono state create una serie di frasi stereotipate

e divise in due liste per ogni lingua, per un totale di 4 liste. Ciascun partecipante legge

solo le frasi della prima lista oppure solo della seconda lista. Per ogni lingua sono state

create 6 proposizioni con ruoli di genere stereotipici femminili, 6 proposizioni con ruoli

di genere stereotipi maschili e 6 proposizioni con ruoli neutri. Ciascun partecipante legge

la prima proposizione in francese e la seconda in inglese e, se in una lista un nome di

ruolo francese è seguito da una proposizione con un ruolo di tipo maschile, allora,

nell’altra lista la seconda proposizione avrà un ruolo femminile. Discorso analogo per la

lingua inglese. La creazione delle liste, nonostante possa sembrare confusionale, consente

di testare i partecipanti in entrambe le lingue senza presentare più di una volta lo stesso

soggetto e quindi non incorrere in ripetizioni. Metà dei partecipanti inizia la prova

leggendo la prima proposizione in lingua inglese e la seconda in lingua francese. L’altra

metà inizia la prova leggendo la prima proposizione in lingua francese e la seconda in

lingua inglese. Le condizioni che prevedono delle risposte negative sono:

70
1. L’incompatibilità tra la prima e la seconda proposizione. Ad esempio, “Nannies

were waiting on a bench, because of the cloudy weather one of the graphic

designers wore a raincoat”.

2. L’incompatibilità rispetto al ruolo di genere tra la prima e la seconda proposizione.

Ad esempio, “The flourists were waiting in the rain, since sunny weather was

forecast some of the men weren’t wearing a coat”.

3. L’incompatibilità semantica tra la prima e la seconda proposizione. Ad esempio

“The chambermaids were crossing the hall, due to the bad weather the majority

of the men wore a raincoat”.

Gli studenti hanno partecipato allo studio utilizzando un Computer, in cui

comparivano le varie proposizioni, connesso a due tasti: uno per esprimere il “sì”,

l’altro per il “no”. Per non creare un bias il tasto “sì” era sempre associato alla mano

dominante.

Agli studenti è chiesto, pertanto, di leggere le frasi sul monitor e giudicare se la

seconda proposizione sia il prolungamento della prima o meno. La risposta a questa

domanda indica la semplicità e facilità con cui la seconda proposizione è associata

alla rappresentazione mentale della prima.

Infine, lo studio di Lister et al. (2019, pp. 1444-1447) coinvolge 15 studenti e

studentesse della Open University in Gran Bretagna che hanno partecipato ad un

workshop finalizzato a discutere le problematiche riscontrate dagli studenti con

disabilità all’interno del contesto accademico. Il linguaggio è stato identificato come

un problema. Molti studenti riferiscono di non sentirsi a proprio agio con la parola

“disabile”. In primo luogo, è stato chiesto ai partecipanti di mostrare le varie tipologie

71
di linguaggio utilizzate dagli studenti con disabilità per discutere circa la propria

disabilità. In secondo luogo, grazie ad una intervista, sono state approfondite le

preferenze in termini di linguaggio manifestate da ciascun studente e il modello

teorico di riferimento più apprezzato.

2.3.4 I risultati

I risultati dello studio di Kamenetsky e Sadowski (2020, pp.86-93) non mostrano un

effetto significativo nell’interazione tra il genere della persona raffigurata nell’immagine

e il tipo di linguaggio. Allo stesso modo, non è stato trovato un effetto significativo tra il

genere dell’osservatore e il tipo di linguaggio. I risultati dell’ANOVA 6X3 (tipologia di

linguaggio e tipologia di disabilità) mostrano un effetto significativo del linguaggio in

tutte le emozioni ad eccezione della paura e del disprezzo. In particolare, il linguaggio

defiant-self naming ha registrato i livelli più alti di gioia e il linguaggio negative ha

registrato i livelli più alti di tristezza. Gli effetti del linguaggio nell’identificazione e la

disponibilità all’aiuto e all’inclusione sono risultati significativi. Il defiant self-naming,

rispetto alle altre tipologie di linguaggio ha registrato gli effetti più significativi. Sono

stati riscontrati degli effetti significativi del linguaggio anche nella percezione delle

capacità e nella percezione di uguali diritti. Nel dettaglio, il linguaggio defiant-self

naming ha registrato gli effetti più significativi nella “capacità di fare amicizia”; al

contempo, il linguaggio negative mostra la percezione più bassa delle capacità rispetto

alle altre tipologie di linguaggio. Non è stato trovato alcun effetto significativo tra la

tipologia di disabilità e l’emozione e la tipologia di disabilità e l’identificazione. Tuttavia,

è significativa la disponibilità all’aiuto e all’inclusione. La disabilità uditiva, infatti,

suscita una minore disponibilità all’aiuto rispetto alla disabilità fisica e visiva.

72
Significativo è anche l’effetto della tipologia di disabilità e la percezione di capacità e

uguali diritti. La disabilità uditiva suscita una maggiore percezione di capacità rispetto

alla disabilità fisica e visiva. Infine, l’interazione più significativa nella sfera della

percezione di uguali diritti è stata riscontrata nella disabilità uditiva.

I risultati dello studio di Miric (2015, pp. 121-123) si basano sulle risposte fornite dai

partecipanti nel questionario online. In particolare, alla domanda 1 “come valuteresti la

posizione delle persone con disabilità nella società?” 6 intervistati hanno risposto “molto

negativa”, 11 intervistati hanno risposto “negativa”, 2 intervistati hanno risposto “buona”

e 1 intervistato ha dichiarato di non avere alcuna posizione al riguardo. Alla domanda 2

“in che misura il modo in cui le persone con disabilità sono etichettate influisce sulla loro

posizione sociale?” 7 partecipanti ritengono che l’etichetta influisca nella posizione

sociale in modo molto incisivo, 6 in modo incisivo, 6 in modo parzialmente incisivo e 1

partecipante esprime di non avere una posizione in merito. Tra i termini emersi nella

domanda 3 “quale termine, secondo te, è più adatto per identificare le persone con qualche

tipo di disabilità?” emergono: disabile, persona con disabilità, persona che necessita di

un supporto. La domanda 4 “pensi che l'uso di termini inadeguati possa vittimizzazione

le persone con disabilità?” mira a determinare quale sia il ruolo del linguaggio nel

processo di vittimizzazione delle persone con disabilità. 9 intervistati ritengono che il

linguaggio rivesta un ruolo cruciale nella vittimizzazione, portando a un declino della

fiducia in sé stessi, 5 intervistati non hanno una propria idea e 6 non ritengono ci sia una

relazione tra il linguaggio e la vittimizzazione. Le risposte emerse dalla domanda 5 “una

etichetta inadeguata delle persone con disabilità può costituire un atto denunciabile

penalmente e una violazione del principio di uguaglianza?” mostrano che 15 partecipanti

riconoscono nel linguaggio inadeguato un atto denunciabile; 5 partecipanti non lo

73
considerano punibile. Infine, sulla base delle risposte alla domanda 6 “in quali sfere del

contesto sociale si percepisce maggiormente una classificazione negativa delle persone

con disabilità?” i partecipanti sostengono che i contesti scolastico, lavorativo e sanitario

sono quelli con una classificazione più negativa delle persone con disabilità.

Mousavi et al. (2020, p. 428) nella loro revisione narrativa sostengono che il termine

“disabilità” contribuisca a incrementare la stigmatizzazione. Considerando le evidenze

mostrate dalla letteratura, pertanto, gli autori suggeriscono un nuovo approccio di de-

stigmatizzazione. Esso ha luogo sostituendo il termine “disabilità” con uno meno

stigmatizzante. Il termine proposto è “parabilità”. Gli autori affermano che il prefisso

“para” potrebbe portare a dei risultati incoraggianti, riducendo la stigmatizzazione. Il

termine è apparso per la prima volta in riferimento al contesto paralimpico. Come

espresso nel Official Website of the Paralympic Movement (2012) la parola “paralimpico”

deriva dalla preposizione greca “para”, che significa “accanto”. Il concetto che si

vorrebbe trasmettere è la vicinanza tra le Olimpiadi e le Paraolimpiadi e di come le due

manifestazioni si influenzino a vicenda e camminino di pari passo.

I risultati dello studio di Gernsbacher (2017, pp. 859-860) mostrano che analizzando i

titoli di Web of Science, Google Scholar, gli abstract di PubMed e i libri di Google

NGram, il linguaggio person-first è utilizzato con una maggiore frequenza per riferirsi ai

bambini con una disabilità rispetto ai bambini senza disabilità. In particolare, 100 volte

in più sul motore di ricerca PubMed e NGram, 200 volte in più su Google Scholar e 700

volte in più su Web of Science. Inoltre, il person-first language è maggiormente implicato

in riferimento ai bambini con disabilità mentre l’identity-first language tra i bambini con

uno sviluppo tipico. Ad esempio, solamente l’11% degli abstract rilevati su PubMed

utilizza il linguaggio person-first sia per i bambini con disabilità che per quelli con uno

74
sviluppo tipico. Allo stesso modo, solamente il 10% utilizza il linguaggio identity-first

sia per i bambini disabili che per quelli con uno sviluppo tipico. Circa 8 abstract su 10

fanno uso del linguaggio person-first per nominare i bambini con disabilità e del

linguaggio identity-first per i bambini con sviluppo tipico. Infine, i risultati emersi grazie

ai motori di ricerca sopra citati mostrano che il linguaggio person-first è utilizzato più

frequentemente per riferirsi ai bambini con le disabilità più stigmatizzate, come l’autismo

o le disabilità intellettive.

I risultati dello studio di Agaronnik et al. (2020, pp. 405-408) hanno mostrato che la

maggior parte dei medici definisce la disabilità ancorandosi a concetti medici (modello

medico) piuttosto che a concetti che riconoscono l’influenza dei fattori sociali (modello

sociale). Ad esempio, il medico reumatologo definisce la disabilità in termini di

limitazioni: “La disabilità è un limite nelle attività della vita quotidiana”. Oppure, il

medico neurologo parla di “una limitazione di una abilità emotiva o fisica che non

permette alle persone di essere competitive nella società e in ogni aspetto della vita”. È

necessaria e onerosa una riflessione circa questa ultima definizione che verrà argomentata

durante le discussioni del presente lavoro. Per quanto riguarda le scelte linguistiche, è

bene sottolineare che quasi tutti i medici hanno utilizzato un linguaggio culturalmente

competente nei confronti della disabilità in alcuni tratti dell’intervista. Tuttavia, alcuni

partecipanti hanno applicato un linguaggio che non può essere considerato accettabile

come i termini “handicappato”, “destinato alla sedia a rotelle”, “affetto da” oppure

identificando la persona stessa con la propria disabilità, ad esempio “lo schizofrenico”. Il

terzo dominio indagato nello studio è il comportamento nei confronti delle persone con

disabilità. I temi affrontati sono: la difficoltà percepita dai medici nella gestione dei

pazienti con disabilità, le emozioni provate e la possibilità di fare inferenze e assunzioni

75
errate circa la disabilità. Per quanto riguarda il primo tema, i medici, in generale,

identificano nei pazienti con disabilità la necessità di disporre maggiori risorse, in

particolar modo nei pazienti con una malattia mentale. Il medico reumatologo afferma

che “gli specialisti non sono entusiasti soprattutto perché la visita impiegherà

probabilmente più tempo rispetto a quello preventivato”. Le emozioni ricavate dalle

interviste relative alla disabilità sono differenti. Alcuni parlano di “orribile schizofrenia”,

altri di “situazioni impressionanti” e, in generale, le emozioni suscitate non sono positive.

Infine, alcuni medici riconoscono degli errori nel loro operato. Il medico neurologo, ad

esempio, afferma di rivolgersi e comunicare spesso solamente con il caregiver piuttosto

che con il paziente coinvolto in prima persona.

Nello studio di Patev et al. (2019, pp. 339-344) sono state trovate delle correlazioni forti,

sia nello studio 1 che nello studio 2, tra le percezioni 1, 2 e 3. In particolare, si mostrano

di seguito la correlazione tra le percezioni 1 e 2 (r=0.641, n=308, p<0.001), la

correlazione tra le percezioni 1 e 3 (r=0.693, n=308, p<0.001) e la correlazione tra le

percezioni 2 e 3 (r=0.693, n=308, p<0.001).

Si presentano le correlazioni nello studio 2 tra le percezioni 1 e 2 (r=0.730, n=186,

p<0.0001), la correlazione tra le percezioni 1 e 3 (r=0.761, n=186, p<0.0001) e la

correlazione tra le percezioni 2 e 3 (r=0.747, n=186, p<0.0001).

Le percezioni sono rispettivamente: percezione 1 “mi risulta difficile applicare il

linguaggio di genere inclusivo”, percezione 2 “il linguaggio di genere inclusivo

danneggia i miei discorsi e i miei scritti” e percezione 3 “quando sono sotto pressione ho

difficoltà nell’applicare il linguaggio di genere inclusivo”. La conoscenza di persone che

si identificano nel transgender e gender nonconforming (TGNC) è significativamente

76
correlata con l’atteggiamento verso individui TGNC. Non sono state riscontrate, invece,

correlazioni significative tra il genere e la percezione del linguaggio inclusivo. In tutte le

regressioni gerarchiche condotte (3) l’atteggiamento verso individui TGNC è la variabile

predittiva, mentre le percezioni esaminate fungono da variabile outcome. I risultati della

prima regressione che analizza la difficoltà di utilizzo del linguaggio (scaturita

dall’intersezione delle percezioni 1, 2 e 3) e l’atteggiamento verso le persone TGNC

mostrano che gli individui con una ideologia politica conservatrice manifestano più

difficoltà nell’utilizzo di un linguaggio di genere inclusivo. Inoltre, la conoscenza di

qualcuno che si identifica in TGNC è significativamente relata con la difficoltà di utilizzo

del linguaggio. Infatti, maggiori sono gli atteggiamenti negativi e maggiore è la difficoltà

di utilizzo del linguaggio inclusivo di genere. Inoltre, i risultati mostrano che,

l’atteggiamento verso le persone TGNC aggiunto al potere predittivo dell’ideologia

politica, al linguaggio quotidiano, alla conoscenza di individui TGNC e agli atteggiamenti

negativi è in grado di predire un difficile utilizzo del linguaggio di genere inclusivo.

Questo scoperta suggerisce che gli atteggiamenti individuali verso le persone TGNC sono

collegati alle percezioni di difficoltà di utilizzo del linguaggio di genere inclusivo. I

risultati dello studio 2 replicano quelli dello studio 1. In una seconda regressione, la

percezione numero 4 “sarebbe più semplice esprimermi con il linguaggio di genere

inclusivo se ci fossero delle semplici regole su come e quando usarlo” non è relata

all’ideologia politica, il linguaggio quotidiano di genere e la conoscenza di persone che

si identificano in TGNC. Quando l’atteggiamento è aggiunto al modello, tali variabili

rimangono non significative. È significativo l’atteggiamento verso coloro che hanno

percezioni positive e sono d’accordo nel trovare delle regole comuni per usare il

linguaggio di genere inclusivo. Quanto esposto riguarda lo studio 1. Lo studio 2 conferma

77
i dati dello studio 1. L’unica differenza rilevata nello studio 2 è la non significatività della

relazione tra l’atteggiamento verso le persone TGNC e la percezione 4 “sarebbe più

semplice esprimermi con il linguaggio di genere inclusivo se ci fossero delle semplici

regole su come e quando usarlo”. L’ultima regressione dello studio considera la

percezione 5 “le persone vicino a me generalmente non utilizzano un linguaggio di genere

inclusivo” e l’atteggiamento verso le persone TGNC. Nello studio 1 e 2 l’unica relazione

significativa riguarda l’utilizzo del linguaggio comune e la percezione 5.

I risultati di Sato e Gygax (2013, pp. 19-26) sono stati condotti per mezzo di una analisi

ANOVA e mostrano che le persone bilingue costruiscono delle rappresentazioni mentali

di genere associate alla lingua del compito in cui sono coinvolte, sostituendo le loro

rappresentazioni al variare della lingua presa in considerazione. In particolar modo, nella

lingua francese, le rappresentazioni maschili sono dominanti mentre, nella lingua inglese,

probabilmente per la conformazione grammaticale stessa della lingua, le rappresentazioni

sono basate sugli stereotipi. Inoltre, i risultati mostrano anche che l’estensione con cui le

rappresentazioni si invertono dipende e varia in funzione del livello di conoscenza del

partecipante della lingua non nativa; un partecipante esperto nella lingua non nativa ha

una rappresentazione più simile alla lingua nativa, mentre un partecipante con una

conoscenza meno efficiente della lingua non nativa è influenzato maggiormente dalla

propria lingua nativa. In conclusione, le ipotesi 1 e 2 dello studio sono state confermate.

La prima ipotesi postulava una dominante rappresentazione della realtà rispetto al genere

maschile per gli studenti di lingua francese e, coerentemente con le caratteristiche della

lingua stessa, una rappresentazione in linea con gli stereotipi di genere per gli studenti di

lingua inglese.

78
Nella seconda ipotesi, considerando la seconda lingua di ciascun individuo (la lingua

inglese per i francesi e la lingua francese per gli inglesi) ci si aspettava una inversione

delle rappresentazioni per ciascun partecipante.

Infine, nella terza ipotesi si prevedeva che l’inversione della rappresentazione della realtà

fosse modulata dall’efficienza e dal livello di conoscenza della lingua non nativa.

Contrariamente alle aspettative degli studiosi, l’ipotesi numero 3 è stata smentita. Non

sono stati, infatti, trovati dei risultati significativi tra l’effetto dello stereotipo femminile

e il livello di conoscenza della lingua non nativa.

I risultati dello studio di Lister et al. (2019, pp. 1448-1451) mostrano che, circa il modello

linguistico privilegiato dagli studenti, non è possibile identificare una unica preferenza.

Infatti, secondo quanto rilevato dai partecipanti, la preferenza del linguaggio dipende dal

contesto in cui avviene la comunicazione. Ad esempio, riferendosi alle divulgazioni gli

studenti suggeriscono un linguaggio coerente con il modello medico. Mentre, nelle

informazioni relative alla regolazione dell’alloggio i partecipanti preferiscono un altro

tipo di linguaggio. Questo dimostra che non è possibile identificare un unico modello

linguistico per le comunicazioni istituzionali all’interno del contesto accademico. Per

quanto riguarda il linguaggio, il termine “studente disabile” raccoglie il numero più basso

di consensi. Ciò è in contraddizione e in contrasto con le linee guida portate avanti dalla

maggior parte degli istituti della Gran Bretagna che fanno uso di tale termine come prassi.

La preferenza manifestata dagli studenti riguarda l’utilizzo di frasi che non si riferiscono

direttamente alla disabilità come, ad esempio, “necessità supplementari allo studio”

oppure “condizioni che influiscono sullo studio”. È interessante notare come siano state

registrate delle differenze in funzione del genere e del tipo di disabilità. Infatti, gli uomini

e le persone con delle disabilità motorie non mostrano particolari problemi con il

79
linguaggio del contesto accademico e si trovano a loro agio anche con il termine

“disabilità” mentre le donne e le persone con difficoltà di apprendimento riferiscono di

sentirsi meno a proprio agio con il linguaggio utilizzato nel college.

80
CAPITOLO TERZO: le conclusioni

Nel Capitolo Secondo sono stati presentati 8 articoli descrivendone gli scopi, le

metodologie, le procedure e i risultati. Nel presente capitolo saranno proposti i loro limiti,

i punti di forza e le discussioni.

3.1 Le discussioni, i limiti e le implicazioni

Grazie allo studio di Kamenetsky e Sadowski (2020, pp. 94-97) è stato chiarito che i

riferimenti e i termini negativi nei confronti di persone con disabilità portano ad una

percezione più negativa delle stesse. Inoltre, rispetto a quello negativo, altre tipologie di

linguaggio suscitano una maggiore percezione delle capacità, una maggiore propensione

all’assunzione e minori emozioni negative verso le persone con disabilità. È interessante

notare come il linguaggio positivo come il person-first naming non sia associato

positivamente e in modo significativo ad una percezione più positiva delle persone con

disabilità. Il defiant-self naming è associato a una percezione più positiva delle persone

con disabilità, alla propensione all’inclusione e a una maggiore identificazione. Questo

risultato è in linea con le ipotesi iniziali e indica che il defiant-self naming incoraggia e

rafforza le persone con disabilità, promuovendo la loro autodeterminazione e sicurezza

(Kamenetsky & Sadowsky, 2020, p. 94). Pertanto, la migliore strategia di inclusione e

riduzione degli stereotipi negativi dovrebbe comprendere il linguaggio defiant-self

naming. È dovere della società, e quindi di ciascun cittadino, rimuovere il linguaggio

negativo al fine di incoraggiare e rafforzare le persone con una disabilità ad essere fieri

di ciò che sono. Tuttavia, osservando i risultati del presente studio, emerge che le

81
differenze tra tutte le percezioni riscontrate nei diversi linguaggi testati sono piuttosto

esigue. Purtroppo, è piuttosto difficile cambiare le percezioni e le idee nei confronti delle

persone con disabilità a partire dal linguaggio positivo. In letteratura diversi sono gli

studiosi che sostengono l’esistenza di una cultura della disabilità e una tendenza a

considerare una distinzione tra i suoi “membri” e “gli altri” allo stesso modo con cui si

percepiscono le differenze tra le persone di un altro gruppo religioso o razziale e se stessi

(Peters, 2000, p. 598).

Inoltre, lo stesso studio è stato riproposto da Kamentsky et al. (2016, pp. 1-21) con un

campione multiculturale. I risultati sono piuttosto simili e portano a pensare, di

conseguenza, che il ruolo del linguaggio e il suo impatto siano affini anche tra culture e

modi di pensare diversi. Per quanto concerne la relazione tra il linguaggio e il tipo di

disabilità (fisica, visiva e uditiva), le persone con una disabilità uditiva sono percepite

più abili e con meno necessità di supporto rispetto a quelle con una disabilità visiva. È

risaputo che, le percezioni stereotipate sono legate alla tipologia di disabilità che

l’individuo ha (Yuker, 1994). Questi stereotipi sono invalidanti e spesso non coincidono

con la realtà. Essi resistono al cambiamento nonostante i progressi legislativi, il

linguaggio e le politiche educative create appositamente per ridurre le idee infondate nate

dagli stereotipi. Infatti, considerando la tendenza ad assumere un lavoratore con

disabilità, è importante andare oltre gli stereotipi legati alla tipologia di disabilità ed è

necessario considerare diversi fattori come l’eziologia, la natura, la gravità della disabilità

in questione, la tipologia di lavoro richiesta e la disponibilità di strumenti tecnologici

forniti ai lavoratori per svolgere le varie attività richieste. Diversi sono i limiti riscontrati

nello studio di Kamenetsky (2020, p. 96). In primo luogo, le sei tipologie di didascalie

proposte hanno diversa lunghezza. Tuttavia, se i risultati variassero in funzione della

82
lunghezza della didascalia, sia il linguaggio person-first naming che il defiant-first

naming avrebbero dei risultati simili. I risultati, invece, mostrano un effetto significativo

solamente per il defiant-first naming. In secondo luogo, ciascuna immagine mostrata

nello studio raffigura una tipologia differente di supporto (sedia a rotelle, bastone per non

vedenti) e, a differenza della disabilità motoria, nel caso della disabilità uditiva e visiva

è negato il contatto visivo con l’osservatore. L’assenza di contatto visivo potrebbe aver

influenzato i risultati. Uno studio di Amalfitano e Kalt (1977, pp. 46-48) mostra che il

contatto visivo è una determinante positiva nell’assunzione lavorativa. Infine, le

implicazioni che derivano dallo studio di Kamenetsky (2020, p. 97) suggeriscono che

l’uso di un linguaggio positivo non induce a una società più inclusiva e con meno

stereotipi. Piuttosto, l’eliminazione di un linguaggio negativo può avere effetti positivi

sulla percezione delle persone con disabilità. Infatti, il linguaggio negativo è legato alle

emozioni negative, a una minore propensione all’assunzione e a una minore percezione

di capacità. È inoltre bene riflettere sul fatto che le relazioni emerse nello studio siano

piuttosto deboli; il fatto che associazioni di entità mondiale come l’American

Psychological Association sostengano l’importanza del person-first naming nonostante a

livello empirico non ciò non abbia un riscontro effettivo è alquanto singolare.

Lo studio di Miric (2015, pp. 111-126) mette in luce come la discriminazione nei

confronti delle persone con disabilità sia un problema che investe la società e che richiede

adeguate risposte sul piano linguistico, legale e scientifico. Si tratta di un problema

interdisciplinare che, per essere risolto, esige l’intervento e il lavoro di diversi esperti.

Tuttavia, non solamente gli esperti sono implicati nella riduzione della discriminazione

verso la disabilità. Ogni individuo, infatti, dovrebbe prestare particolare attenzione al

proprio linguaggio e ricercare in modo accurato i termini adeguati.

83
Le persone con disabilità spesso sono vittime di atti che violano il principio di

uguaglianza. Tuttavia, le conseguenze a livello penale sono piuttosto rare. La legge serba,

ad esempio, non condanna penalmente le discriminazioni in materia di disabilità. Definire

in modo specifico le forme di discriminazioni nell’ambito della disabilità e disporre di

una legge adeguata e più severa potrebbe contribuire a tutelare maggiormente le persone

con disabilità. Un limite dello studio è il campione considerato. Il questionario è stato

compilato da 20 partecipanti. Si tratta di un campione ristretto che non permette di poter

generalizzare i dati e i risultati ottenuti. Inoltre, la maggior parte dei partecipanti ha una

disabilità; ciò non consente di analizzare il punto di vista di coloro che spesso attuano

delle discriminazioni nei confronti delle persone con disabilità. Infine, la pubblicazione

del questionario su un gruppo Facebook ha eliminato una parte di popolazione che non è

solita utilizzare tale social network, in particolar modo le persone più anziane. Infatti,

solamente 1 partecipante ha più di 50 anni, non permettendo, pertanto, di cogliere il punto

di vista delle persone meno giovani. Lo studio di Miric (2020, p.123), in conclusione, è

uno spunto interessante per approfondire il tema del linguaggio della disabilità come

fattore di discriminazione verso le persone con disabilità. Si auspica, tuttavia, a nuove

analisi con un campione più ampio e che sia definito con delle caratteristiche omogenee.

La revisione narrativa di Mousavi et al. (2020, p. 428) suggerisce di utilizzare il termine

“parabilità” piuttosto che il termine “disabilità”, con il fine di ridurre gli stereotipi e la

stigmatizzazione. Tale termine è in linea con quanto portato avanti dal modello ICF (vd.

paragrafo 1.2.2) e propone di osservare la condizione delle persone con parabilità sotto

una nuova luce grazie a un cambio di paradigma che si focalizza non sulla “mancanza”

quanto sulla “variazione”. Tale approccio consiglia di concentrarsi sulle abilità e sulle

capacità piuttosto che sulla menomazione intesa come fattore che non consente di

84
esprimere il proprio potenziale. Modificare l’assetto corrente della disabilità potrebbe

pertanto aprire nuovi orizzonti e prospettive da contemplare. L’obiettivo del cambio di

paradigma descritto non è quello di ignorare le difficoltà che le persone incontrano nella

società e le necessità mediche e riabilitative; l’intento è non far prevalere un aspetto della

propria quotidianità rispetto ad un altro.

Nonostante la parola “disabilità” sia sempre meno accettata tra le persone con “parabilità”

e la società manifesti la necessità di cambiare termine, la mancanza di studi e spiegazioni

teoriche potrebbe essere una ragione per cui questi tentativi non hanno ancora oggi

ricevuto le attenzioni necessarie (Mousavi et al., 2020, pp. 428-429). Gli autori

sostengono, in conclusione, che i nomi trasmessi siano rilevanti nella definizione dei

valori. Ciò potrebbe essere una occasione per costruire un atteggiamento propositivo, di

inclusione e di parità. Il termine “disabilità”, tuttavia, contiene e trasmette una accezione

di negazione e di mancanza ed è ancorato a una prospettiva tradizionale basata

sull’assenza. Pertanto, è necessario passare a termini con un significato meno

stigmatizzante. Potrebbe essere interessante indagare le sensazioni e il punto di vista

sperimentato dagli atleti paralimpici in quanto definiti come “persone con parabilità”,

focalizzandosi sulla soddisfazione della vita e su come tale denominazione influisca sulla

formazione del concetto di sé. Un limite dello studio di Mousavi et al. (2020) potrebbe

risiedere nell’influenza soggettiva nel processo di selezione delle fonti selezionate e

presentate.

Nello studio di Gernsbacher (2017, pp. 859-861) si analizza come l’uso del person-first

language tra i testi scolastici possa accentuare lo stigma verso gli alunni con disabilità.

In particolare, attraverso un’analisi dei termini sulla disabilità comparsi sui testi scolastici

ricavati da alcuni database, l’autore mostra come il person-first language sia riferito

85
maggiormente ai bambini con disabilità rispetto a quelli con uno sviluppo tipico.

Tuttavia, uno degli obiettivi del person-first language dovrebbe essere quello di garantire

alle persone con disabilità lo stesso trattamento linguistico riservato a quelle con uno

sviluppo tipico.

Inoltre, in uno studio (Andrews et al., 2013, pp. 233-244) diversi studenti e studentesse

hanno affermato che il person-first language è incentrato su una eccessiva correzione al

punto tale da stigmatizzare ulteriormente la disabilità. Ponendo l’attenzione sull’”identità

pregiudicata” della persona, il person-first language potrebbe ottenere l’esatto opposto

rispetto al proprio intento, restituendo un senso di vergogna piuttosto che una vera e

sincera uguaglianza. Pertanto, “potrebbe rinforzare l’idea che sia “negativo” avere una

disabilità” (La Forge, 1991, pp. 1-24). Si ricorda che, come espresso anche in precedenza,

è contraddittorio il fatto che l’American Psychological Association promuova e sostenga

l’utilizzo del person-first language con l’intento di ridurre la stigmatizzazione, gli

stereotipi e i pregiudizi. Sulla base dei risultati ottenuti il person-first language sembra

stigmatizzare piuttosto che de-stigmatizzare le persone con disabilità e, in particolar

modo, i bambini con una disabilità dello sviluppo. Per cercare di ridurre tali bias

linguistici è importante che gli autori siano consapevoli e aggiornati circa le motivazioni

che supportano il person-first language. In conclusione, gli autori del presente articolo

suggeriscono un approccio identity-first language sia per le persone con disabilità che

per quelle senza disabilità. Alcuni studenti sostengono tale tipologia di linguaggio con il

fine di incrementare il benessere, l’autostima e la qualità di vita delle persone con

disabilità.

Alla luce dei risultati dello studio di Agaronnik et al. (2020, pp. 408-410), la maggior

parte dei partecipanti definisce la disabilità ancorandosi a concetti tipici del modello

86
medico. Pochi riconoscono gli effetti della stigmatizzazione e i limiti creati dalla società

applicando, pertanto, una riflessione tipica del modello sociale. Esemplificativo di questo

concetto è la definizione di disabilità fornita da un medico partecipante. Egli sostiene che

“la disabilità è una limitazione di una abilità emotiva o fisica che non permette alle

persone di essere competitive nella società e in ogni aspetto della vita”. Tale definizione

rappresenta il pregnante approccio medico e allo stesso tempo mostra come sia la società

stessa ad abilitare o disabilitare i membri che via fanno parte. Non è fondando la società

sui principi della competizione che si potrà raggiungere una piena ed effettiva parità e

inclusione.

Le competenze culturali della disabilità richiedono una comprensione e applicazione dei

precetti perseguiti dal modello sociale. Il linguaggio utilizzato dai medici partecipanti

spesso non è culturalmente competente e include termini quali “handicap”, “destinato alla

sedia a rotelle”, “affetto da”. “Handicap” necessità di una sostituzione con la parola

“disabilità”. Inoltre, “affetto da” implica sofferenza e compassione, mentre “destinato

alla sedia a rotelle” suggerisce un senso di dipendenza e confinamento; basterebbe

semplicemente riferirsi a un “utente su sedia a rotelle”. Anche il termine “ritardo mentale”

necessità di una sostituzione con la parola “disabilità intellettuale”. I risultati mostrano

anche che in alcune categorie di disabilità, in particolar modo quelle intellettuali, i

pazienti sono esclusi dalla comunicazione: spesso i medici affermano di rivolgersi

direttamente al caregiver, escludendo il paziente implicato in prima persona. I medici

assumono che i pazienti con una disabilità intellettuale non siano in grado di prendere

decisioni circa la propria salute. I limiti dello studio riguardano la generalizzazione dei

risultati. I partecipanti sono medici del Massachussetts, tuttavia, l’approccio e la cultura

della disabilità potrebbe variare in funzione della zona geografica considerata. Inoltre, il

87
campione di 20 partecipanti è esiguo e non permette di poter generalizzare i risultati

ottenuti. Un altro limite è rappresentato da una pregressa conoscenza di 4 partecipanti con

la persona che ha effettuato l’intervista, nonostante essi affermino di non avere più

contatti da diversi anni con la stessa. Tuttavia, tale bias non è particolarmente pregnante

in quanto i 4 partecipanti hanno fornito assunzioni errate circa la disabilità, escludendo

un eventuale suggerimento o aiuto da parte del collaboratore sperimentale. Malgrado i

limiti descritti, i risultati dello studio sono coerenti con quanto espresso dai pazienti con

disabilità che frequentano le strutture ospedaliere.

I metodi qualitativi e le interviste approfondite sono una metodologia efficace per

esplorare le scelte linguistiche e i comportamenti (Agaronnik et al., 2020, p. 410). Questo

studio ha permesso di identificare una serie di problemi correlati alle competenze culturali

della disabilità che coinvolgono le strutture sanitarie. I medici dovrebbero ascoltare

maggiormente i pazienti con disabilità ed eliminare il linguaggio arcaico e non

culturalmente competente; ciò potrebbe migliorare la qualità della vita, garantire la parità

dei diritti e avere delle cure che rispecchino le aspettative e le necessità delle persone con

disabilità.

Lo studio di Patev (2019, pp. 329-352) esplora la percezione del linguaggio di genere

inclusivo e l’atteggiamento nei confronti di persone transgender e transgender non-

conforming (TGNC) in un gruppo di studenti. In particolare, il sotto-studio 1 mostra una

relazione tra la percezione di barriere nell’utilizzo del linguaggio di genere inclusivo e

l’atteggiamento nei confronti di perone TGNC. Quindi, i partecipanti che hanno degli

atteggiamenti negativi verso le persone TGNC manifestano maggiori difficoltà

nell’utilizzare il linguaggio di genere inclusivo, credono sarebbe più semplice avere delle

regole per guidare il proprio linguaggio e, infine, non hanno conoscenti che applicano un

88
linguaggio di genere inclusivo. Il sotto-studio 2 conferma parzialmente quanto ricavato

dal sotto-studio 1. La difficoltà di utilizzo del linguaggio di genere inclusivo correla

negativamente con il comportamento verso coloro che si identificano come TGNC. È

bene sottolineare che il linguaggio, come ad esempio la lingua italiana è ancorata a una

cultura maschilista. Un gruppo di donne al cui interno è incluso un uomo viene etichettato

con termini maschili. Pertanto, è possibile che gli studenti non si identifichino in un

linguaggio di genere inclusivo semplicemente perché non ne conoscono le caratteristiche.

Inoltre, lo studio è stato condotto in una zona rurale del Sud della Virginia. Si tratta di

un’area geografica particolarmente conservatrice e, per tale motivo, è possibile che gli

studenti non abbiano avuto interazione e contatti con persone TGNC e di conseguenza

non abbiano mai applicato un linguaggio di genere inclusivo. Alla luce dei risultati

ottenuti la difficoltà di applicazione del linguaggio di genere inclusivo è connessa con i

comportamenti verso le persone TGNC. Infatti, individui con degli atteggiamenti negativi

saranno più propensi a sperimentare delle difficoltà nell’utilizzo di un linguaggio di

genere inclusivo. L’analisi è particolarmente importante perché trattasi del primo studio

che si occupa del linguaggio in relazione alle persone TGNC. Un limite dello studio

consiste nell’assenza di una definizione del linguaggio di genere inclusivo ai partecipanti

durante lo studio stesso; è possibile che alcuni partecipanti non siano a conoscenza del

termine e di come questo sia applicato nella quotidianità. Inoltre, non è specificato se per

linguaggio si intende la produzione scritta o l’espressione orale o entrambi. Non si tratta

di una questione secondaria. Infatti, durante la produzione scritta l’individuo ha maggior

tempo per riflettere su ciò che sta scrivendo, facendo delle scelte più appropriate. Questo

non accade per l’espressione orale, caratterizzata da una maggiore immediatezza e

rapidità. Un terzo limite riguarda l’utilizzo del linguaggio inclusivo nella quotidianità.

89
Infatti, tale fattore viene determinato in base a una autovalutazione fornita dagli studenti

che potrebbe non coincidere con la realtà oggettiva. Lo stesso limite può essere riscontrato

anche per l’autovalutazione dell’orientamento politico. Infine, entrambi i campioni dei

due sotto-studi utilizzano un campione di convenienza di studenti dell’area rurale del Sud

Virginia. Ciò comporta che gli studenti più giovani siano probabilmente più liberali e

abbiano comportamenti più positivi verso le persone TGNC rispetto a quelli più adulti. I

risultati dello studio potrebbero, quindi, essere diversi se condotti in un altro territorio con

delle credenze più liberali e meno tradizionaliste. Le implicazioni per le ricerche future

che emergono dallo studio di Patev et al. sono molteplici. In primo luogo, i risultati

necessitano di uno studio più approfondito della relazione tra il linguaggio e il

pregiudizio. Non è ancora chiaro se sia il pregiudizio ad influenzare il linguaggio o

viceversa o se siano implicati a vicenda. Infine, è importante comprendere al meglio le

percezioni del linguaggio inclusivo al fine di creare degli interventi che ne promuovano

l’utilizzo. Alcuni studiosi hanno dimostrato che l’uso del linguaggio di genere inclusivo

può essere incrementato (Koeser & Sczesny, 2014, pp. 548-560).

Lo studio di Sato e Gygax (2013, pp. 1-48) esplora il genere inteso a livello grammaticale

e gli stereotipi di genere nelle persone bilingue. Le lingue considerate, inglese e francese,

hanno due conformazioni grammaticali differenti: la prima utilizza un linguaggio con un

genere neutrale, mentre la seconda applica una grammatica con un genere definito e che

predilige il genere maschile. Nei risultati emerge che gli studenti nativi inglesi si

appoggiano alle informazioni stereotipiche per fare delle inferenze rispetto agli stereotipi

di genere, mentre gli studenti nativi francesi sono più inclini a inferire la forma maschile

nonostante le informazioni stereotipiche proposte. I risultati ottenuti sono in linea con

quanto emerso da studi precedenti (Gygax et al., 2008, pp. 143-151) mostrando che gli

90
indizi morfosintattici e la grammatica di genere sono in grado di influenzare il modo con

cui le inferenze di genere sono implicate nelle rappresentazioni del genere dei protagonisti

descritti nel testo.

Inoltre, i partecipanti inglesi mostrano una tendenza a una maggiore comprensione e

inferenza maschile nella lingua francese (L2), mentre, i partecipanti francesi mostrano un

declino della costruzione dominante maschile nella lingua inglese (L2) e una maggiore

fiducia negli stereotipi per fare inferenze. Pertanto, cambiando lingua varia anche il modo

con cui le persone rappresentano il genere e le sue inferenze; ciò avviene in funzione della

struttura e delle regole grammaticali della lingua (maggiori stereotipi per la lingua inglese

e maggiori inferenze di genere maschile per la lingua francese). L’inversione della

rappresentazione varia anche in funzione di altri fattori come: il livello di conoscenza

della lingua non nativa, l’età, la motivazione e l’ambiente. Gli studenti con un livello più

basso di inglese come seconda lingua hanno una maggiore tendenza verso le inferenze

maschili per gli stereotipi maschili e femminili; tuttavia, la preferenza per le inferenze di

genere maschile non è stata osservata tra gli stereotipi femminili negli studenti con un

livello elevato di conoscenza della lingua (piuttosto che il contrario). I risultati degli

studenti nativi inglesi non hanno prodotto alcun effetto, a differenza di quanto riscontrato

per gli studenti francesi. Un’ipotesi che spiega tale incongruenza e possibile limite

potrebbe essere dovuta al contesto multiculturale e multilinguistico degli studenti

francesi, i quali utilizzano spesso la lingua inglese durante la loro quotidianità. Ciò

potrebbe contribuire a dare un vantaggio agli studenti e alle studentesse francesi rispetto

agli studenti e alle studentesse di lingua inglese. Un punto di forza del presente studio

consiste nell’utilizzo del C-test per misurare il livello di efficienza nella seconda lingua.

Gli studiosi, infatti, hanno deciso di non affidarsi a misure self-report. Il test è una risorsa

91
altamente affidabile nella misurazione oggettiva del grado di efficienza di una lingua

(Eckes & Gotjahn, 2006, pp. 290-325; Grotjahn, Klein-Braley & Ratatz, 2002, pp. 93-

114; Klein-Braley & Raatz, 1984, pp. 134-146). Esso richiede ai partecipanti di inserire

negli spazi vuoti di un testo le lettere mancanti. Il numero di riempimenti corretti indica

il livello generale di efficacia del partecipante in una determinata lingua. In conclusione,

lo studio di Sato e Gygax non può essere considerato sufficiente per inferire la diretta

influenza della lingua sulle rappresentazioni cognitive; tuttavia, suggerisce che alcune

caratteristiche morfosintattiche possono enfatizzare alcuni aspetti linguistici, i quali, a

loro volta, influenzano le rappresentazioni mentali.

A seguiti dei risultati dello studio di Lister et al. (2019, pp. 1448-1450) è possibile

identificare dei limiti e dei punti di forza. In questo caso, l’implementazione di un

approccio di tipo prettamente esperienziale del progetto potrebbe risultare un limite alla

rigorosità e scientificità del progetto. Tuttavia, come affermato dagli autori, il confronto

emerso tra i partecipanti dello studio ha avuto un prezioso valore esperienziale che è stato

in grado di arricchire il bagaglio di ogni individuo coinvolto.

Le implicazioni del progetto sono particolarmente orientate a un risvolto di tipo pratico.

Gli studiosi hanno riflettuto su come trasformare quanto emerso a livello teorico in azioni

concrete. Per tale motivo, è stato identificato un gruppo di studenti, di insegnanti e di

responsabili amministrativi con l’obiettivo di applicare concretamente i risultati dello

studio. Secondo il gruppo la migliore strategia di propagazione consiste nella creazione

di una guida scritta, breve, immediata e che possa essere consultata grazie alla sua

praticità nei contesti lavorativi. La guida è stata in seguito disaminata con un workshop

composto da studenti con disabilità, i quali hanno annotato i punti di forza ed eventuali

modifiche e consigli. Il gruppo era composto da oltre 150 studenti; ciò è indice del

92
riconoscimento del ruolo cruciale che il linguaggio svolge all’interno del contesto

scolastico.

La guida, mostrata nella figura 2, comprende diversi concetti come, ad esempio: la

motivazione per la quale l’università utilizza le parole della diversità, l’importanza del

linguaggio e della terminologia per abbattere le barriere comunicative, l’importanza

dell’ascolto e alcuni consigli pratici su come iniziare una conversazione con studenti con

disabilità.

Figura 2. Guida pratica https://weblab.open.ac.uk/incstem/incstem-

data/uploads/2019/10/practioner-guidelines-FINAL.pdf

93
In conclusione, il progetto descritto sottolinea l’importanza del linguaggio utilizzato nei

confronti degli studenti con disabilità e, grazie ai risultati ottenuti, emerge una

complessità e una varietà delle modalità con cui gli studenti percepiscono se stessi, le

proprie necessità e ruoli. Un aspetto cruciale del progetto è l’approccio di partecipazione

adottato. Ciò, secondo gli autori, è un valore incalcolabile del progetto, il quale si è

rivelato un’esperienza positiva per la squadra di ricerca. Essere reclutati come esperti per

la stesura della guida pratica ha contribuito a sollevare dei problemi e delle perplessità

che, probabilmente, non sarebbero emersi attraverso una ricerca fine a se stessa.

94
CAPITOLO QUARTO: le parole e i loro significati

4.1 Le parole della diversità

Le parole possono essere muri o ponti. Possono creare distanza o aiutare la comprensione

dei problemi. Le stesse parole usate in contesti diversi possono essere appropriate,

confondere o addirittura offendere (Redattore Sociale, 2013, p. VII).

Comunicare implica possedere una consapevolezza e una precisione delle parole, del loro

peso e del loro significato. Le parole grossolane, vaghe, grezze, indelicate e incivili non

consentono di superare un’analisi superficiale dei fatti, di considerare quest’ultimi

all’interno di un contesto complesso e articolato, diventando uno strumento di

manipolazione e miseria sociale.

Abbiamo bisogno di parole, altre, che ci aiutino a rompere le barre della prigione mentale

nella quale la grossolanità e la superficialità ci rinchiudono, capaci di rimettere al centro

non solo l’essere umano, ma l’essere umano nella sua stretta relazione con altri esseri

umani, con altri esseri viventi, con le diverse forme di vita, per delineare nuove forme di

equità (ibidem). Ciascun individuo possiede un vocabolario di termini, ciascuno con un

valore personale, una frequenza, un’immagine. Infatti, le parole esprimono una parte della

propria identità, la propria storia e possono avere delle conseguenze sugli ascoltatori. A

causa dell’immagine che ciascun individuo disegna di se stesso a seconda del linguaggio

utilizzato e in base agli effetti che le parole creano verso gli altri, è auspicabile scegliere

con cura i termini del proprio linguaggio. Parlare in modo corretto e consapevole,

pertanto, è una azione di responsabilità; le parole utilizzate da ciascun cittadino sono

responsabili della formazione del linguaggio popolare, del linguaggio comune e, tanto più

95
grezzo e grossolano è il linguaggio narrato dal popolo, tanto minore sono i ragionamenti,

le inferenze e le riflessioni sulla propria quotidianità.

Un popolo rozzo può essere, ovviamente, più facilmente dominato se non altro perché per

poter partecipare attivamente alla vita pubblica e poterne “controllare” le decisioni, è

necessario possedere gli strumenti necessari per cogliere il significato di concetti

complessi, non aver perso la capacità e il gusto di indicare cose diverse con nomi diversi,

[…] riconoscere e rispettare le diseguaglianze che meritano di essere riconosciute e

rispettate (Virole, 2011).

Quindi, il linguaggio assume un ruolo cruciale per trasmettere valori e significati da non

sottovalutare. Le parole hanno un potere e descrizioni inaccurate possono perpetuare e

rinforzare stereotipi negativi e innalzare barriere (Soresi, 2020). L’unica modalità che

consente di limitare e provare a piegare la diffusione di termini errati è l’educazione.

Fornire degli strumenti adeguati che permettano di conoscere, sperimentare, imparare e

avere uno spirito critico nei confronti della realtà e della quotidianità. L’educazione è,

pertanto, la via da percorrere per imparare ad usare le parole correttamente e a ragionare,

imparando a gestire la complessità che caratterizza e impregna il mondo attuale.

4.2 Disabile, diversamente abile, handicap

Il termine “disabile” è un aggettivo anche se oggigiorno, non è percepito come tale.

Spesso è inteso come un sostantivo, rischiando di non considerare la persona in relazione

al contesto socioculturale in cui è inserita. Esso rappresenta un’evoluzione meno

stigmatizzante rispetto al termine “handicappato”, anche se mantiene una connotazione

negativa. Il prefisso dis, infatti, sottolinea una mancanza e toglie valore alla condizione

96
umana. Disabile, in linea generale, è un termine generico e accettabile che trova un

compromesso tra il pensiero comune e la realtà di chi vive questa condizione. La

definizione di “persone con disabilità” fornita dalla Convenzione dell’ONU sui diritti

delle persone con disabilità approvata nel 2006 (vd. Capitolo Primo, sezione 1.4) afferma

che: “per persone con disabilità si intendono coloro che presentano durature

menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che in interazione con barriere di

diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società

su base di uguaglianza con gli altri” (ONU, 2007, p. 8).

Confrontando i termini “persona con disabilità” e “disabili” è possibile affermare che la

prima denominazione è più corretta rispetto alla seconda: il focus sulla “persona” è neutro

e universale e non descrive un individuo in base a una caratteristica che rappresenta

solamente una parte della propria persona come, per esempio, la parola “sordo” per

riferirsi direttamente a un individuo. Il concetto di disabilità, infatti, secondo un

approccio di tipo sociale, ribadisce che è la relazione con l’ambiente e le barriere

comportamentali che creano esclusione e svantaggio sociale; le caratteristiche fisiche

della persona non sono implicate nel processo di esclusione. Inoltre, non ha senso parlare

di “normodotati”, definizione che contiene un giudizio fra chi può essere considerato

normale e chi no. La persona dotata di normalità non esiste perché il criterio di normalità

non è assoluto, ma relativo (Redattore Sociale, 2013, p. 3).

L’espressione “diversamente abile” è tra le più contestate e discusse nel campo della

disabilità: si tratta di un eufemismo, una espressione eccessivamente politically correct

che punta ad enfatizzare l’abilità piuttosto che la disabilità. L’espressione trova la sua

origine negli anni Ottanta per mano del Democratic National Committee, negli Stati Uniti.

In Italia la locuzione “diversamente abile” nasce da Claudio Imprudente, giornalista e

97
scrittore con disabilità. Secondo Imprudente l’espressione “è capace di cambiare

l’immagine comune della persona con disabilità e di scatenare a riguardo riflessioni e

dibattiti; nonostante questa parola contenga in sé una piccola ipocrisia, che tende a

mettere completamente in secondo piano il deficit, credo resti ancora fondamentale con

il sensi per cui è nata: una semplice provocazione che ci mette in grado di aprirci a

prospettive e reazioni ulteriori”. La provocazione non è stata accettata e ritenuta valida

da alcuni studiosi e istituzioni come il giornalista Bomprezzi o la BBC, i quali

considerano l’espressione ipocrita e buonista. Ciò che prevale è una connotazione

pietistica e solidaristica che intende la disabilità come un concetto collegato ad un’idea

di negatività. Spesso, per superare ciò, si tende ad utilizzare una comunicazione con valori

esageratamente positivi e carichi di eroismo. Il giornalista Bomprezzi, a tal proposito

afferma che “quando si arriva a ritenere che la disabilità sia quasi una terza abilità, cioè

una capacità speciale rispetto alla cosiddetta normalità, vuol dire che si deve ricorrere a

un artificio semantico per non registrare la realtà”. Pertanto, l’utilizzo di determinate

parole, come ad esempio “diversamente abile”, porta a percepire le persone con disabilità

con un maggiore distacco; si consiglia, pertanto, la locuzione “persona con disabilità”,

ormai accettata a livello internazionale e usata nella Convenzione dell’ONU.

Il termine “handicap” deriva dall’inglese hand in cap, un gioco d’azzardo della Gran

Bretagna del XVII secolo. Le regole consistono nell’introdurre la mano in un cappello e

prendere delle monete contenute nello stesso. Per questo motivo hand in cap, ovvero la

mano nel cappello. La parola handicap si diffonde, in seguito, nel contesto ippico;

l’handicap, infatti, era il supplemento di peso destinato al cavallo più forte per gareggiare

in una condizione di parità rispetto agli altri equini. Nel corso degli anni si è assistito ad

uno slittamento semantico e, ad oggi, secondo la definizione fornita da Treccani per

98
handicap si intende “lo svantaggio rappresentato da minorazioni di tipo motorio o

sensoriale o intellettivo o affettivo ai fini di un normale inserimento nella vita sociale in

tutte le sue manifestazioni”. L’handicap, pertanto, è una situazione e condizione di

svantaggio che trae la sua origine da un deficit. Spesso si tende a confondere l’handicap

con il deficit. Si tratta, in realtà, di due concetti differenti e non intercambiabili. Il primo

nasce e si sviluppa dal contesto, il secondo si riferisce alla persona e alla sua mancanza

(motoria, psichica o sensoriale). Il termine “deficit” deriva dal verbo latino deficere che

significa “mancare”, “essere carente”. A seguito di questo chiarimento, pertanto, il deficit

non indica la malattia, quanto piuttosto il danno a livello biologico arrecato dalla malattia

stessa. Si riportano le interessanti parole del giornalista Bomprezzi che gettano luce su

quanto descritto “Vi faccio un esempio: io che sono su una carrozzina, entro in un bar e

incontro all’entrata tre gradini. In questo caso il mio deficit resta invariato, mentre il mio

handicap aumenta. Se invece di fronte al bar trovo una rampa, il mio deficit resta sempre

uguale a differenza del mio handicap, che diminuisce. Ma c’è dell’altro. Quando entro

nel bar, tutti si girano a guardarmi con gli occhi pieni di curiosità. Anche in questo caso

il mio deficit resta invariato, ma ora vi chiedo: l’handicap di chi è? Solo di chi guarda,

che non sa come rapportarsi con me e il mio deficit. Tutto ciò apre una riflessione

interessante: il deficit è solo mio, l’handicap coinvolte tutto il contesto intorno a me”.

Al fine di evitare discriminazioni, l’OMS ha stabilito di sostituire il termine “handicap”

con “persona con disabilità”.

99
4.3 Inserimento, integrazione e inclusione

Le espressioni inserimento, integrazione e inclusione sono superficialmente definite come

intercambiabili; nonostante siano riconducibili alla tematica dell’esclusione sociale,

fanno riferimento a delle situazioni e a dei costrutti differenti.

Con il termine inserimento ci si riferisce ad un insieme di azioni che portano ad introdurre

un oggetto all’interno di un altro. L’inserimento non è provvisorio: chi si occupa

dell’inserimento, generalmente, ritiene che gli oggetti debbano rimanere dove sono stati

collocati, soprattutto in virtù del dispendio energetico richiesto. Nelle scienze sociali, in

particolare, considerando la presenza della preposizione semplice in, l’inserimento

riguarda contesti e ambienti più o meno circoscritti che provocano inevitabilmente

processi reciproci e diversi, più o meno soddisfacenti, di “accomodamento” e

ambientamento. È ciò che accade quando ci riferiamo all’inserimento di un individuo

nella società (Soresi, 2020, p. 24). Tra i sinonimi dell’inserimento vi sono le parole:

innestare, immettere, collocare. Per quanto concerne i contrari si può fare riferimento a:

rigettare, eliminare, non ammettere. Alcune possibili motivazioni che potrebbero indurre

a non accettare l’inserimento sono: la percezione di minacce da parte del gruppo estraneo

(outgroup) sia a livello oggettivo come l’appartenenza culturale o linguistica, che a livello

soggettivo come i vissuti o le insicurezze personali (Redattore Sociale, 2013, p.76).

Per integrazione si intende “il completamento di qualcosa, tramite l’aggiunta di elementi

mancanti ritenuti tuttavia necessari per poter registrare miglioramenti e funzionamenti

ottimali” (ibidem). L’integrazione nelle scienze sociali implica il miglioramento di un

sistema non ancora completo, riconoscendo l’esistenza di altri fattori ed elementi che

potrebbero contribuire a migliorare il sistema stesso. L’integrazione richiede, pertanto, la

percezione di un vantaggio, la condivisione, la reciprocità e il mettere in atto degli scambi;

100
essa propone il rispetto di accordi prestabiliti con l’obiettivo di raggiungere un bene

comune. Puntando ad eliminare l’esclusione e l’emarginazione nei contesti sociali e

lavorativi delle persone con disabilità, l’integrazione richiede delle operazioni preliminari

di analisi, diagnosi e di classificazione dei bisogni. Ciò rappresenta un’importante

opportunità per coloro che sono direttamente interessati e coinvolti nel processo di

integrazione e, allo stesso tempo, arricchisce i contesti rendendoli più integranti. Come

esposto, l’inserimento e l’integrazione sono due concetti in antitesi con l’emarginazione

e l’esclusione sociale. Entrambi si ispirano alle aspettative e alle caratteristiche del

contesto, pur mantenendo un certo occhio di riguardo nei confronti delle situazioni

svantaggiate. In particolare, l’inserimento e l’integrazione sono ancorati al paradigma

della normalizzazione, dell’adattamento e della supremazia assoluta della maggioranza.

Per normalizzazione si intende l’insieme delle operazioni attuate al fine di ripristinare una

situazione di pregressa normalità. Il rispetto dei confini è la misura utilizzata per rilevare

il livello di inserimento, mentre l’integrazione deriva dalla constatazione dei livelli di

normalizzazione; pertanto, è la misura della distanza tra le caratteristiche delle persone

integrate e quelle considerate come “normali”. L’inclusione non si limita all’inserimento

e all’integrazione, “è interessata soprattutto alle “condizioni”, alle caratteristiche degli

ambienti che dovrebbero essere in grado di consentire a tutti una partecipazione attiva e

un livello soddisfacente di vita” (Soresi, 2020, p. 33). Il contesto è una delle variabili

maggiormente implicate nell’inclusione e, un adeguato riconoscimento, trattamento e

rispetto delle differenze, stanno alla base di un contesto inclusivo. L’inclusione aspira a

un cambiamento dei contesti comuni e dei suoi criteri di valutazione, spesso impregnati

di pregiudizi e stereotipi.

101
Secondo Striano et al. (2017, p. 26) l’inclusione è il paradigma della collaborazione che

riconosce la rilevanza della piena partecipazione alla vita scolastica, e non solo, di tutti.

L’inclusione è ciò che avviene quanto ognuno sente di essere apprezzato e che la sua

partecipazione è gradita. La valutazione implicata nel processo di inclusione non è

giudicante e non si appella a delle operazioni di confronto e normalizzazione, essa vuole

riconoscere la libertà, l’unicità e l’originalità racchiuse in ciascun individuo. Includere

significa anche cercare di inibire la tendenza a ricorrere a giudizi, riduzionismi e

valutazioni superficiali, diminuendo i pregiudizi, gli stereotipi e le stime fuorvianti. È

necessario, inoltre, essere in grado di cambiare la propria prospettiva e adottare una

visione di tipo circolare; quest’ultima consente di intrecciare e comprendere a pieno la

storia di ogni persona.

L’inclusione enfatizza l’unicità di tutte le persone e di tutte le situazioni; è per natura

pluralista e, questo, non solo perché riconosce e rispetta tutte le culture, ma perché

afferma e valorizza l’eterogeneità anche all’interno di una medesima cultura invitando a

non rinchiudersi in proprie e presunte identità (Bonazzi, 2019, p. 92).

A differenza dell’inserimento e dell’integrazione descritti, in conclusione, l’inclusione

aspira ai valori dell’onestà, della fiducia, dei diritti universali, della sostenibilità, della

libertà, dell’uguaglianza, della solidarietà, dell’unicità.

4.4 Unicità, reciprocità, complessità e condivisione

Talvolta, i termini espressi nei confronti della disabilità sono scorretti e, in alcuni casi,

discriminanti e offensivi. Sarebbe opportuno diffondere e incoraggiare delle parole che

promuovano una sincera e concreta inclusione.

102
L’unicità costringe a pensare che ciascun individuo, in quanto tale, è irripetibile,

inconfrontabile e originale. Essere unici significa riconoscere l’inspiegabile e infondata

necessità di parlare di diversità. Spesso vi è la tendenza a categorizzare e confrontare.

Partendo dal presupposto che ciascuno sia unico, tuttavia, viene meno la necessità di

classificare e differenziare.

Se “salta” la possibilità del confronto, la necessità di individuare di volta in volta i diversi,

“salta” anche l’idea dell’esistenza di persone da inserire, da integrare, da ospitare, da

accogliere e si farà probabilmente più strada l’idea di contesti e ambienti comuni (Soresi,

2016, p. 370). Promuovere l’inclusione significa anche sostenere le ambizioni e i desideri

delle persone, compresa l’aspirazione ad essere unico e a non identificarsi in categorie ed

etichette. L’unicità, inoltre, non implica necessariamente un ideale di egocentrismo a cui

si potrebbe pensare in prima istanza: ciascun individuo, essendo l’uomo un animale

sociale, è immerso in un contesto che comprende anche altre persone. La storia di ognuno

include il confronto e l’inclusione dell’altro. Pertanto, parlare di unicità implica anche

occuparsi della qualità delle relazioni implicate nei vari contesti di vita.

Un’altra parola interessante è la “reciprocità”. L’etimologia del termine è avvincente:

reciprocità deriva dalla lingua latina “rectus-procus-cum”. Rectus significa “dietro”,

mentre procus significa “avanti”. Unendo le due espressioni il significato che emerge è

“ciò che va e che torna vicendevolmente, assieme”, trasmettendo l’idea di una relazione

tra due o più persone con uno scambio in cui a ciò che viene ricevuto corrisponde, allo

stesso tempo, a qualcosa di dato.

103
In assenza di reciprocità i rapporti sarebbero sottomessi al potere e alla dominanza, non

permettendo un pieno sviluppo del legame di interdipendenza che sta alla base

dell’inclusione.

La complessità è definita dall’Enciclopedia Treccani come “la caratteristica di un sistema,

concepito come un aggregato organico e strutturato di parti tra loro interagenti, in base

alla quale il comportamento globale del sistema non è immediatamente riconducibile a

quello dei singoli costituenti, dipendendo dal modo in cui essi interagiscono”. Tale

definizione suggerisce e invita a non cedere nella tentazione di basarsi su prospettive e

sguardi semplicistici. In particolare, applicando il concetto all’ambito della diversità, le

prospettive riduttive sono di intralcio nel trovare spiegazioni e soluzioni adeguate al

benessere degli individui. Non è sufficiente considerare i singoli elementi di un “sistema”;

è necessario andare oltre con l’obiettivo di comprendere le relazioni e le interazioni tra

gli elementi del sistema stesso. Cercare di cogliere la complessità significa adottare delle

prospettive ampie, collaborare e condividere le proprie conoscenze attraverso delle

visioni multiple e interdisciplinari. Secondo Zuppiroli (2014, p. 26), servono

professionisti capaci di andare oltre gli steccati della propria disciplina e saper ascoltare

linguaggi diversi con i quali l’infinita variabilità delle esperienze di vita si può presentare.

Infine, la condivisione suggerisce la comunione dei saperi, delle metodologie e dei

linguaggi per la cura e il bene del prossimo. Interessante è la condivisione di spazi, di

risorse e l’uso congiunto di alcuni beni. La condivisione non è un fenomeno secondario

e potrebbe avere dei risvolti anche sul piano economico, infatti, come afferma Giacomarra

(2014) essa potrebbe annullare il legame tradizionale esistente tra proprietà e utilizzo di

un prodotto. È noto come nelle società occidentali i prodotti vengano venduti a chi ne ha

bisogno e ha modo di utilizzarli: il fatto di condividerne uno fra diversi utenti ne riduce

104
la domanda e fa così diminuire il numero di persone intenzionate all’acquisto, ma lo stesso

fatto è in grado di offrire vantaggi sia sul piano economico che su quello ambientale […]

sino ad arrivare addirittura all’economia del dono che potrebbe svolgere un ruolo

importante nell’economia di mercato.

In conclusione, i termini “unicità”, “reciprocità”, “complessità” e “condivisione” sono dei

costrutti impegnativi, che richiedono tempo e risorse per essere attuati e rispettati;

tuttavia, rappresentano un punto cardine per creare una società aperta nei confronti della

diversa, che valorizzi l’eterogeneità, la pluralità e che rispetti l’unicità di ciascun

individuo.

4.5 Il potere delle parole e i mass-media

Lo sviluppo scientifico e il progresso tecnologico hanno portato a una cospicua diffusione

dei mezzi di comunicazione di massa. Con la locuzione “mass-media”, nonché i mezzi di

massa, si fa riferimento all’insieme dei mezzi di informazione e di divulgazione quali, ad

esempio, la radio, la televisione, internet e i social network utilizzati per diffondere

messaggi di diverso valore a un pubblico indifferenziato e vario. Tali mezzi di

comunicazione impregnano la società odierna e rivestono un ruolo cruciale nella

quotidianità di ciascun individuo; talvolta, tuttavia, aprono numerosi dibattiti circa la loro

funzione, gli effetti e le ricadute che possono avere sulle persone. Diversi sono gli studiosi

che hanno indagato il ruolo dei mass media e del suo linguaggio nell’informare,

nell’influenzare e conformare le scelte dell’utente, i suoi consumi e nel veicolare

messaggi di propaganda politica (Kuang, 2018, pp. 87-98). In particolare, l’abilità politica

dei leader politici è stata oggetto di analisi meticolose da parte di psicologi, linguisti,

studiosi politici e storici (Steffens & Haslam, 2013, p. 1).

105
Gli studiosi Steffens e Haslam (2013) e Lindgren (2014) hanno approfondito e indagato

il ruolo del linguaggio e il suo potere durante le campagne elettorali. In entrambi i casi il

linguaggio si è rivelato come uno strumento in grado di attirare l’attenzione e plasmare il

supporto dei cittadini. Tali studi verranno approfonditi nel seguente paragrafo.

4.5.1. Il linguaggio nelle campagne elettorali

Lo studio di Steffens e Haslam (2013) indaga l’importanza della parola “noi” durante le

campagne elettorali come fattore predittivo della vittoria nelle elezioni politiche. Tale

studio trae il suo fondamento dalla teoria dell’identità sociale di Tajfel e Turner (1979)

secondo la quale gli individui sono in grado di pensare non solamente in termini di identità

personale (io, me) ma anche in termini di una identità sociale (noi). Inoltre, quando le

persone percepiscono se stesse e gli altri come un’identità sociale condivisa, si creano le

basi per l’attuazione di comportamenti e condizionamenti di gruppo, tra cui la leadership.

Evidenze empiriche mostrano che l’espressione di una maggiore identità sociale da parte

dei leader (e quindi il grado con cui essi interiorizzano la collettività come una parte della

propria persona) è positivamente associata ad una reazione favorevole da parte degli

ascoltatori (Van Dick et al., 2007, pp. 133-150; Kraus et al., 2012, pp. 162-178; Wieseke

et al., 2009, pp. 123-145).

Lo studio di Steffens e Haslam (2013) analizza i discorsi della campagna elettorale dei

candidati alla carica di Primo Ministro dei due principali partiti di 43 elezioni australiane

a partire dall’indipendenza britannica del 1901 sino al 2010. Tali discorsi sono

generalmente discussi un mese prima dell’elezione e sono un evento chiave, ampiamente

riportato dai media, in cui i candidati leader presentano le proprie idee ai cittadini. Il

campione include 84 discorsi. Per ogni discorso sono stati distinti i candidati vincenti da

106
quelli perdenti in relazione all’utilizzo della prima persona singolare (io, me) e della

prima persona plurale (noi). L’analisi è stata condotta attraverso una regressione mirata

ad esaminare se il numero di volte che i candidati esprimono i pronomi personali “io”,

“me” e i pronomi collettivi sia o meno una variabile in grado di predire la vittoria alle

elezioni. I risultati non mostrano un effetto significativo relativo alla lunghezza del

discorso e all’utilizzo del pronome personale “io”. Risulta, tuttavia, un effetto

significativo nell’utilizzo del pronome collettivo “noi”. Come mostrato nella figura 3 (fig.

3) nell’80% delle elezioni i candidati vincenti utilizzano maggiormente nei loro discorsi

i pronomi collettivi rispetto ai candidati perdenti.

Figura 3: utilizzo dei pronomi collettivi dai candidati alla carica di Primo Ministro australiano
durante i discorsi della campagna elettorale in relazione al loro successo. doi:
10.1371/journal.pone.0077952.g001

107
In conclusione, sulla base dei risultati ottenuti nello studio di Steffens e Haslam (2013)

l’utilizzo da parte dei candidati nei discorsi di campagna elettorale dei pronomi collettivi,

ad esempio il termine “noi”, è un variabile significativa dell’efficacia e della vittoria del

candidato stesso. Il linguaggio e i termini utilizzati, pertanto, non sono fattori casuali o

secondari ma hanno effetto concreto.

Ciò implica che i leader che pensano ed agiscono in funzione della collettività siano

maggiormente in grado di ottenere supporto (Steffens & Haslam, 2013, p. 5). Tra i punti

di forza dello studio si evidenzia il numero piuttosto elevato di discorsi esaminati (84)

rispetto ad altre analisi che si sono concentrate su una selezione limitata di testi (ibidem).

Tuttavia, tra i limiti del presente studio si sottolinea come, nonostante la ricerca di

archivio consenta di avere a disposizione una copiosa quantità di dati, non è stato possibile

analizzare i processi psicologici sottostanti i discorsi stessi. Gli aspetti emotivi e

psicologici suscitati da alcune determinate parole durante le campagne elettorali saranno

mostrati nello studio presentato di seguito.

Lo studio di Lindgren (2014) indaga i meccanismi psicologici e l’impatto provocato da

parole vaghe e con una carica emotiva nell’interpretazione delle intenzioni dei candidati

durante la campagna elettorale. Nelle campagne elettorali, infatti, i politici spesso

utilizzano termini generici con una componente emotiva, quali, ad esempio, le espressioni

“libertà” o “uguaglianza”, per attirare l’attenzione e ottenere il supporto degli elettori. Per

parole vaghe e con una carica emotiva si intendono quei termini spesso associati a dei

valori, generalmente astratti e che possono essere applicati a diversi contesti. In tal caso,

l’ascoltatore interpreta le espressioni sulla base della propria esperienza (ad esempio

libertà, opportunità, uguaglianza). Le tre ipotesi postulate nello studio di Lindgren (2014)

108
sono: le parole vaghe e con una carica emotiva influenzano l’interpretazione delle

intenzioni politiche percepite dagli elettori rispetto a quanto esposto dai candidati; le

parole vaghe e con una carica emotiva possono influenzare la percezione che l’individuo

ha relativamente al fatto che un determinato pensiero sia di destra piuttosto che di sinistra;

infine, l’interpretazione degli elettori media gli effetti delle parole vaghe e con una carica

emotiva a seconda che la proposta politica sia gradita o meno dall’individuo. Il campione

dello studio coinvolge 320 partecipanti adulti reclutati nella stazione svedese di

Gothenburg, a quali è stato chiesto di rispondere a un questionario con alcune proposte

politiche di intervento sul sistema scolastico svedese. Il sistema scolastico è un argomento

dibattuto e particolarmente sentito durante la campagna elettorale svedese e ciò concorre

a rendere la richiesta realistica, nonostante la campagna fosse fittizia. Gli stimoli proposti

nel questionario possono essere di quattro differenti tipologie. Le prime tre tipologie

includono termini vaghi e con una carica emotiva: nel primo caso le parole sono associate

ad una ideologia politica di sinistra come, ad esempio, “responsabilità” o “equità”; nel

secondo caso le parole sono associate ad una ideologia politica di destra come, ad

esempio, i termini “libertà” o “individualismo”; nel terzo caso le parole vaghe ed emotive

non hanno alcun riferimento politico come, ad esempio “garantire giuste condizioni agli

studenti”. Il quarto ed ultimo caso funge da controllo e, per questo motivo, non comprende

parole vaghe e con una carica emotiva. A ciascun partecipante è assegnata casualmente

una delle quattro tipologie. Si specifica, inoltre, che i termini riferiti all’ideologia politica

di destra, neutra o di sinistra sono stati identificati e definiti in base ad un precedente

sondaggio. Non sono stati pertanto stabiliti arbitrariamente. I partecipanti, quindi, dopo

aver letto delle frasi sul sistema scolastico contenenti le differenti tipologie di parole

presentate, sono chiamati a fornire un’interpretazione delle intenzioni della campagna e

109
del candidato, indicare su una scala da 1 a 10 il grado di apprezzamento della proposta e

quanto ritengono da 1 a 10 che la proposta segua un’ideologia politica di destra piuttosto

che di sinistra. I risultati dello studio mostrano che l’inserimento di parole vaghe e con

una carica emotiva all’interno del testo della proposta elettorale influenza sia la

percezione che i partecipanti hanno dei termini in sé, sia l’interpretazione delle intenzioni

della proposta politica, confermando quanto postulato nella prima ipotesi.

I termini emotivi hanno un effetto esiguo o non hanno affatto alcun effetto diretto in base

all’apprezzamento o meno da parte dei partecipanti circa la proposta sul sistema

scolastico. In particolare, tra i partecipanti con una frase con un orientamento politico di

destra non è stato riscontrato un effetto significativo rispetto all’apprezzamento o meno

della proposta; mente, i partecipanti con una frase con termini di un orientamento politico

di sinistra mostrano un effetto significativo basso, confermando parzialmente la seconda

ipotesi. La terza ipotesi, che supportava un effetto diretto delle parole vaghe e con una

carica emotiva in base all’apprezzamento della proposta, non è stata confermata. Infatti,

l’interpretazione degli elettori mediata dagli effetti dei termini emotivi a seconda che la

proposta politica sia gradita o meno non mostra risultati significativi.

110
CONCLUSIONE

L’obiettivo del presente elaborato di tesi è volto a trovare delle risposte ad alcuni

interrogativi sulla disabilità e sul suo linguaggio; in particolare: il tipo di linguaggio

influenza la percezione sulla disabilità? Quale è il linguaggio più appropriato?

Il linguaggio, in quanto veicolo di valori e idee, assume un ruolo cruciale nel determinare

la modalità con cui le persone percepiscono e vivono la diversità in tutte le sue forme,

l’inclusione verso l’altro e gli stereotipi. Vista l’importanza che il linguaggio assume

all’interno della quotidianità di ogni individuo e i risvolti pratici che riveste, la revisione

della letteratura si propone di indagare la relazione tra il linguaggio e il comportamento e

l’impatto che quest’ultimo ha sulle percezioni individuali. A seguito di una presentazione

sulla storia della disabilità e sui modelli di interpretazione delle menomazioni che si sono

susseguiti nel corso del tempo, gli otto studi selezionati nella revisione della letteratura

hanno portato alla luce diversi risultati.

In primo luogo, è possibile notare come sia piuttosto difficile cambiare le percezioni e le

idee nei confronti delle persone con disabilità a partire dal linguaggio positivo. Piuttosto,

l’eliminazione di un linguaggio negativo può avere effetti più positivi sulla percezione

delle persone con disabilità. Inoltre, i risultati degli studi proposti mostrano come il

linguaggio person-first naming, caldamente consigliato da associazioni di rilievo

mondiale come l’American Psychological Association (APA), non sia associato

positivamente e in modo significativo ad una percezione più positiva delle persone con

disabilità. In aggiunta, secondo quanto emerso, il person-first language sembra

stigmatizzare piuttosto che de-stigmatizzare le persone con disabilità e, in particolar

modo, de-stigmatizza i bambini con una disabilità dello sviluppo.

111
In secondo luogo, la revisione mostra che i contesti percepiti come maggiormente

discriminanti sono l’ambiente lavorativo, l’ambiente scolastico e l’ambiente sanitario. Per

quanto concerne l’ambiente sanitario nonostante si adotti prevalentemente un linguaggio

culturalmente competente nei confronti della disabilità, alcune espressioni sono datate,

offensive e ancorate al modello medico.

Inoltre, a fronte di quanto ricavato dalla presente revisione non è stato possibile

identificare un’unica preferenza linguistica manifestata da persone con disabilità per

riferirsi alla disabilità stessa. Infatti, a seconda del contesto in cui avviene la

comunicazione si prediligono determinate espressioni.

In terzo luogo, spostando il focus sul linguaggio di genere emerge che le persone con un

atteggiamento negativo verso gli individui Transgender e Gender Non-Conforming

(TGNC) percepiscono maggiore difficoltà nell’utilizzo del linguaggio di genere

inclusivo. I limiti negli studi proposti riguardano prevalentemente il campione di

riferimento. Diversi studi necessitano di un campione più ampio e vario per consentire

una maggiore generalizzazione dei risultati ottenuti. Una raccomandazione per ulteriori

ricerche future, pertanto, potrebbe essere quella di prestare particolare attenzione alla

tipologia e ampiezza del campione e provare a condurre degli studi in Paesi con culture

differenti, di modo da indagare se ci siano differenze significative a seconda della cultura

dominante.

In conclusione, avendo il linguaggio un ruolo cruciale per trasmettere valori e significati

ed essendo le parole dotate di un potere in grado di perpetuare e rinforzare stereotipi

negativi e innalzare barriere (Soresi, 2020), si auspica a una promozione e a una

diffusione di un linguaggio positivo nei confronti della diversità: una risorsa e uno

112
strumento che consentirebbe di limitare e provare a piegare la diffusione di termini errati

è l’educazione. Essa dovrebbe mirare a fornire degli strumenti adeguati che permettano

di conoscere, sperimentare, imparare e avere uno spirito critico nei confronti della realtà

e della quotidianità. L’educazione è, pertanto, la via da percorrere per imparare ad usare

le parole correttamente e a ragionare, gestendo la complessità che caratterizza e impregna

la società attuale.

113
RINGRAZIAMENTI

Rivolgo un sincero ringraziamento alla Professoressa Lea Ferrari per la fiducia

accordatami, per gli interessanti spunti proposti e per il modo con cu ha saputo indicarmi

la retta via, con delicatezza, dedizione e professionalità.

Ringrazio gli studiosi che hanno accolto la richiesta di condivisione del loro sapere e dei

loro elaborati. In particolar modo, Dana Dunn, Professore e Direttore del Dipartimento di

Psicologia del Moravian College in Pennsylvania.

Vorrei ringraziare la mia famiglia che mi è sempre stata accanto e non mi ha mai fatto

mancare il suo sostegno durante gli anni accademici e non solo. Grazie per avermi

insegnato che la cultura è libertà e la strada da seguire per poter diventare chiunque si

voglia.

Ringrazio i nonni Sandro e Marisa, giovani e al passo con i tempi. Grazie per la vostra

freschezza, per il vostro affetto e per aver creduto in me. Grazie per le belle chiacchierate.

Ringrazio i parenti, in particolar modo, le zie per aver gioito dei miei traguardi come se

fossero vostri.

Grazie a Gabriele per la gioia che mi trasmetti, per supportarmi, per esserci e per la

pazienza che porti. Grazie anche alla sua famiglia, sempre pronta ad accogliermi a braccia

aperte.

Ringrazio il Gatto Aristotele, felino selvaggio ed indisponente, il cui sguardo giudicante

mi ha spronato a non fermarmi nei momenti più bui.

114
Ringrazio le mie compagne di squadra per le risate, per i momenti di spensieratezza

trascorsi e per quelli che ci attenderanno.

Un grazie anche alla coinquilina Sara, essenza di leggerezza. Grazie per aver condiviso

l’algido inverno patavino e per i commoventi gnocchi alla romana.

115
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