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PAURA E ATTRAZIONE

DELLA PATOLOGIA MENTALE


di Sara Brazzali

____________________________________________________
effataopgre.wordpress.com – effata.opg.re@gmail.com
Alma Mater Studiorum – Università degli Studi di Bologna

FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA

CORSO DI LAUREA IN SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE PUBBLICA E


SOCIALE

PAURA E ATTRAZIONE DELLA PATOLOGIA


MENTALE:
le reazioni della società di fronte ai crimini
commessi in assenza di capacità d’intendere e
volere

TESI DI LAUREA IN PSICOLOGIA E COMUNICAZIONE SOCIALE

Relatore: Prof. Presentata da:


ROBERTA LORENZETTI SARA BRAZZALI

Correlatore: Prof.
DANIELE DONATI

Sessione III

Anno Accademico 2009-2010


INDICE

INTRODUZIONE .................................................................................... 3

CAPITOLO 1 ........................................................................................... 9
IL MODELLO BIOMEDICO: LA PATOLOGIA MENTALE
COME DISTURBO CERTIFICABILE TRAMITE TECNICHE
DIAGNOSTICHE .................................................................................... 9
1.1 La nascita di una politica della vita .......................................................... 9
1.2 Sanità e follia: un’analisi in continua evoluzione .................................. 15
1.3 Genetica e psicofarmacologia ................................................................. 22

CAPITOLO 2 ......................................................................................... 31
NEUROSCIENZE E DIRITTO............................................................. 31
2.1 Scienza e diritto: rapporto asimmetrico ma ineludibile ......................... 31
2.2 Capacità d’intendere e volere e disturbi della personalità ..................... 35
2.3 Un passo indietro: il concetto di imputabilità ........................................ 41
2.4 La valutazione della capacità di agire nei pazienti affetti da
demenza ......................................................................................................... 44

CAPITOLO 3 ......................................................................................... 47
LA PERCEZIONE SOCIALE DEL DISAGIO MENTALE E DEI
“FOLLI REI” .......................................................................................... 47
3.1 Le rappresentazioni sociali ..................................................................... 47
3.2 Categorizzazione sociale, stereotipi e pregiudizi ................................... 49
3.3 Lo stigma in Goffman ............................................................................. 56
3.4 Contatto sociale e modificazione del pregiudizio .................................. 59
3.5 Le rappresentazioni sociali della malattia mentale: teorie implicite
di personalità e identikit della follia nelle società complesse ...................... 61
3.6 Mass media: canali di diffusione dello stigma del “folle reo” .............. 68

1
CAPITOLO 4 ......................................................................................... 79
L’OSPEDALE PSICHIATRICO GIUDIZIARIO ................................ 79
4.1 La realtà dell’OPG: anacronismo di un’istituzione totale ..................... 79
4.2 Da manicomio criminale a OPG e (forse) oltre: evoluzione di
un’istituzione attraverso leggi, scandali e prospettive future ...................... 94
4.3 Il caso: l’OPG di Reggio Emilia ........................................................... 115
4.4 Verso un’alternativa possibile: il caso di Casa Zacchera ................... 120

CAPITOLO 5 ....................................................................................... 127


VOCI OLTRE IL MURO: UNA REALTA’ TOCCATA CON
MANO – TESTIMONIANZA DIRETTA DALL’OPG DI
REGGIO EMILIA ................................................................................ 127
5.1 Le voci da dentro................................................................................... 130

CAPITOLO 6 ....................................................................................... 141


MEZZI DI COMUNICAZIONE ALTERNATIVI: MOSTRARE
L’ALTRA FACCIA DELLA REALTA’ ............................................ 141
6.1 Giornalismi del sociale: i giornalini interni agli OPG ......................... 142
6.1.1 La storia di Nabuc .................................................................................. 145
6.1.2 nuovoEffatà ............................................................................................. 148
6.2 Psicoradio: la radio della mente............................................................ 150

CONCLUSIONI ................................................................................... 153

BIBLIOGRAFIA .................................................................................. 159

RINGRAZIAMENTI ........................................................................... 167

2
INTRODUZIONE

L’idea di questo lavoro nasce dal desiderio di andare ad analizzare le diverse e


contrastanti reazioni della società nei confronti della patologia mentale e dei
crimini commessi senza capacità d’intendere e di volere. Esistono infatti
molteplici luoghi comuni attorno a questo concetto di assenza di imputabilità del
soggetto: spesso, ad esempio, si tende a considerare privilegiate le persone che,
dopo aver commesso un reato, vengono ritenute, appunto, incapaci d’intendere e
volere e ottengono in tal modo una riduzione della pena o un proscioglimento.
Sono molti gli stereotipi alla base dei pregiudizi che portano a pensare che questo
sia per l’imputato un privilegio ma, il più delle volte, chi si pronuncia
dall’esterno in questa direzione non conosce davvero la realtà, le cause che hanno
portato a commettere un reato e le conseguenze a cui tali soggetti vanno incontro.
La maggioranza delle persone ignora infatti l’esistenza degli Ospedali
psichiatrici giudiziari, ex manicomi criminali ancora in uso poiché non toccati
dalla famosa legge Basaglia del 1978, qui presentati in quanto massima
espressione delle reazioni della società di fronte al “folle reo”.
La pressione dei mezzi di comunicazione di massa gioca un ruolo fondamentale
nella costruzione degli stereotipi che ruotano intorno al “matto” che commette un
reato: l’opinione pubblica è infatti largamente influenzata dai resoconti
quotidiani delle televisioni e della stampa, dall’informazione spettacolarizzata e
sensazionalistica che parla solo di “mostri” e di assassinii, soffermandosi sugli
atti di violenza in sé, sugli aspetti più scabrosi e di forte impatto emotivo volti ad
attirare la curiosità del pubblico senza approfondire le problematiche alla base
degli avvenimenti accaduti. Tutto ciò porta inevitabilmente sempre di più a
credere che malattia mentale significhi sempre violenza e pericolo da cui
guardarsi e che sia necessario tenere in vita istituzioni penitenziarie in cui
rinchiudere i protagonisti di queste tragedie, e non solo, in nome della sicurezza.
In un’epoca e in una società come quelle in cui viviamo, in cui la psiche non è
più vista come un profondo spazio psicologico interiore e quindi misterioso,
come si pensava nei primi sessant’anni del XX secolo, ma il cervello è

3
considerato un organo alla stessa stregua di tutto il resto del corpo e, come tale,
potenzialmente curabile da eventuali malattie, ci si chiede come possano ancora
esistere mentalità, meccanismi, istituzioni, comportamenti tanto anacronistici
quanto inaccettabili.
Sulla base di questo interrogativo si è cercato di analizzare i diversi aspetti della
percezione sociale della malattia mentale, nonché di andare ad esplorare realtà di
cui i più ignorano l’esistenza ed il funzionamento.
Prima di tutto si è considerato doveroso partire da un quadro generale per quanto
riguarda il pensiero scientifico odierno e il concetto di patologia mentale dal
punto di vista del modello biomedico. La politica vitale del nostro secolo vuole
che corpo e mente siano diventati un’unità olistica integrata: gli esseri umani si
sono, in questa visione, trasformati in individui somatici a tutti gli effetti, i nostri
pensieri, emozioni, comportamenti, vale a dire la nostra mente, sono associati al
corpo stesso e ad un suo particolare organo che è il cervello. Anche la malattia
mentale oggi è vista come un disturbo certificabile tramite tecniche diagnostiche:
il dizionario statistico dei disturbi mentali, in continua evoluzione, riporta infatti
più di trecentocinquanta differenti tipi di sindromi. Lo sguardo psichiatrico è
passato da molare a molecolare e si riconosce perciò una nuova immagine del
cervello: quella delle neuroscienze contemporanee.
Il capitolo primo di questo elaborato presenta la visione odierna dal punto di vista
del modello biomedico, facendo una panoramica sulla nascita di tale politica
della vita e sull’analisi dal punto di vista scientifico di “sanità” e “follia”, per poi
passare ad esporre le differenti opinioni e correnti di pensiero in termini di
delicati temi quali la genetica e la psicofarmacologia nel campo della malattia
mentale.
Il secondo capitolo tratta il complicato ed ineludibile rapporto tra neuroscienze e
diritto nel campo della valutazione della capacità di intendere e di volere di un
soggetto che commette reato. Viene quindi presentato il concetto di imputabilità
del reo analizzando gli articoli del Codice Penale che diminuiscono o escludono
l’imputabilità del soggetto. Infine si espongono brevemente alcuni principi con
cui valutare la capacità di agire nei soggetti affetti da demenza.

4
Il terzo capitolo entra più profondamente nel vivo dell’argomento di cui si vuole
trattare in questo elaborato analizzando la percezione sociale del disagio mentale
e dei cosiddetti “folli rei”. Si presenta dapprima la nozione di rappresentazione
sociale elaborata da Serge Moscovici come oggetto di studio privilegiato della
psicologia sociale riguardante la serie di concetti e spiegazioni che nascono nella
vita quotidiana per dar vita alla comunicazione interpersonale dando corpo alle
idee. Si passa poi all’analisi dei concetti di categoria e categorizzazione sociale
in rapporto al nostro modo di porci di fronte al disagio mentale e alla
conseguente nascita di stereotipi e pregiudizi; si delinea inoltre la nozione di
stigma elaborata da Erving Goffman. Dopo una breve esposizione del concetto di
contatto sociale come possibile elemento di modifica del pregiudizio, si vanno a
trattare le teorie implicite di personalità osservando come non sia possibile
delineare un identikit generico del malato mentale. Infine, si propone in questo
capitolo un’analisi dei messaggi veicolati dai mass media, canali di diffusione
dello stigma che pesa sulla figura del “folle reo”.
Il quarto capitolo presenta quella che può considerarsi la massima espressione
delle reazioni della società di fronte ai crimini commessi da soggetti non
imputabili: l’Ospedale psichiatrico giudiziario. Dopo aver chiarito che cos’è un
O.P.G., si passa a delineare i concetti fondamentali di pericolosità sociale e
misura di sicurezza attorno ai quali ruota tutto il funzionamento di questa
istituzione totale. Si procede poi a inscrivere questa istituzione all’interno di un
quadro storico che parte dalle prime discussioni sul problema dei “folli criminali”
in Italia, passando per la nascita dei manicomi criminali poi trasformatisi in
O.P.G., fino ad arrivare alla situazione attuale attraverso le leggi che ne hanno
regolamentato i meccanismi e gli scandali che hanno portato alle riforme.
Si passa poi ad esporre un caso pratico, quello dell’OPG di Reggio Emilia nel
suo stato attuale. Infine, si osserva come non sia impossibile pensare ad
alternative valide ed auspicabili mostrando il caso concreto della comunità di
Casa Zacchera a Sadurano (FC), una residenza psichiatrica di tipo socio-
riabilitativo che rappresenta un primo squarcio nella realtà dell’OPG.

5
Il quinto capitolo, seppur privo di vere e proprie nozioni teoriche, rappresenta
una parte profondamente significativa di questo lavoro, poiché si tratta di una
testimonianza diretta dall’OPG di Reggio Emilia, frutto di un’esperienza vissuta
in prima persona da chi scrive e riportata fedelmente in questa sede. Come
sostiene infatti D.S. Dall’Aquila in un’inchiesta sui manicomi giudiziari, “nessun
discorso teorico che riguarda la vita di milioni di persone è possibile senza la
conoscenza diretta delle istituzioni che in qualche modo si contestano”.1
Il sesto ed ultimo capitolo presenta alcuni diversi mezzi di comunicazione
alternativi ai media tradizionali, due prodotti giornalistici ed uno radiofonico,
volti a mostrare la realtà della malattia psichiatrica e degli Ospedali psichiatrici
giudiziari in un modo differente e meno spettacolare, ma sicuramente più
realistico e sincero, con lo scopo di far conoscere, fare informazione e combattere
gli stereotipi.
Attraverso tale indagine si vuole mostrare come la paura della patologia mentale
sia frutto di false credenze e costruzioni fomentate, quando non addirittura
prodotte, dai mezzi di comunicazione di massa che spingono il pubblico alla
curiosità morbosa piuttosto che all’effettiva conoscenza dei fatti. Sulla paura e
sulla voglia di sicurezza sono state montate campagne e create convinzioni che
portano tutt’oggi a pensare che sia necessario rinchiudere malati psichiatrici che
commettono un reato, spesso minore e non contro la persona, a causa delle
problematiche originate da una patologia. Si vuole qui dimostrare che l’esistenza
di istituzioni totali, luoghi di pena a tutti gli effetti in cui non esistono diritti, sono
soltanto controproducenti. Si vuole inoltre mostrare come sia effettivamente
possibile, anche partendo dal piccolo, dare vita a realtà alternative migliori, più
utili e più civili. Non si può infatti pensare di cambiare nel grande se prima non si
cambia nel piccolo.
In ultima istanza, si vuole in questa sede dare esempio di una comunicazione
alternativa volta a fare informazione in modo più limpido e reale riguardo ad un
mondo lasciato ai margini della società. E per questo, l’informazione sociale “dal

1
Dell’Aquila D.S., Se non t’importa il colore degli occhi. Inchiesta sui manicomi giudiziari,
Filema edizioni, Napoli, 2009, p.10.
6
basso” rappresenta ciò che può avere un forte impatto nelle moderne democrazie
favorendo un più ampio riconoscimento dei diritti umani traducendo in
informazione principi astratti come l’uguaglianza dei cittadini, trasformandoli in
azioni concrete e progetti visibili.

7
8
CAPITOLO 1

IL MODELLO BIOMEDICO: LA PATOLOGIA MENTALE COME


DISTURBO CERTIFICABILE TRAMITE TECNICHE
DIAGNOSTICHE

1.1 La nascita di una politica della vita


Alla fine del XX secolo molti predissero che “noi” stavamo entrando in un
“secolo biotecnologico”, un’era di nuove straordinarie ma inquietanti possibilità
mediche.2 Le linee di pensiero scaturite da tali prospettive furono le più svariate:
alcuni pensarono ad un’era di meravigliose ma terrificanti manipolazioni
genetiche, altri sognarono la sconfitta della mortalità, altri ancora pensarono che i
nuovi farmaci psichiatrici avrebbero consentito di modificare a nostro piacimento
umore, desideri e intelligenza. Queste previsioni generarono reazioni diverse,
dall’estremo della fiducia cieca nelle nuove tecnologie alla paura dei rischi
impliciti nel trattare la vita umana come infinitamente malleabile.
In molti paesi gli sviluppi biomedici hanno dato luogo a dibattiti a cui hanno
partecipato politici, responsabili delle authority, teologi, filosofi, scienziati,
investitori privati, università e altri; i governi hanno emanato leggi per limitare
alcuni degli sviluppi della ricerca, molti di essi hanno istituito comitati e
commissioni per valutare quali confini tracciare tra ciò che è permesso, ciò che
va regolato e ciò che è proibito all’interno di un campo così delicato. E’ spuntata
così una disciplina completamente nuova come la bioetica – e si sta sviluppando
il campo della neuroetica – per arbitrare simili questioni.3
Nikolas Rose, nel suo libro La politica della vita, cerca di analizzare questa
“forma di vita emergente” fatta da tanti tasselli quali le speranze, i timori, le
visioni del futuro, le valutazioni e i giudizi che riguardano la natura umana e le
nuove possibilità.

2
Rose N., La politica della vita, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2008, pp. 3-14
3
Ibidem.
9
La politica riguardante la vitalità della popolazione ha effettuato nei secoli un
percorso articolato in diverse tappe che, a rischio di semplificare, si potrebbero
tracciare come segue: tra il XVIII e il XIX secolo si trattava di politica della
sanità, una politica incentrata cioè su tassi di natalità e mortalità, malattie ed
epidemie, vigilanza su acqua, fognature, derrate alimentari, cimiteri e sulle
condizioni vitali degli individui agglomerati nelle grandi e nelle piccole città.
Nella prima metà del XX secolo, tale interesse per la salute e la qualità della
popolazione si coniugò con una particolare visione circa i fattori ereditari della
struttura biologica e le conseguenze della riproduzione nelle diverse
sottopopolazioni; ciò indusse gli uomini politici di tanti paesi a intervenire sulla
qualità della popolazione, spesso in modo coercitivo o con strumenti omicidi, in
nome del futuro e della razza. Ma la politica vitale del nostro secolo sembra
alquanto diversa. Essa non si situa infatti tra salute e malattia e non è focalizzata
sulla eliminazione della patologia per proteggere il destino del paese. Piuttosto, si
occupa delle nostre crescenti capacità di controllare, gestire, progettare,
riplasmare e modulare le stesse capacità vitali degli esseri umani in quanto
creature viventi.4 E’ una politica della “vita stessa”.
Al di là dei mutamenti riguardanti la riorganizzazione dei poteri dello stato (con
la devoluzione di molte responsabilità relative alla gestione della salute a
organismi di controllo largamente autonomi quali, ad esempio, le commissioni
bioetiche, gli enti privati, le cliniche e le società operanti in campo
biotecnologico ecc. che hanno conferito anche all’individuo una crescente
responsabilità nella gestione dei propri affari), forse, la novità della biopolitica
contemporanea scaturisce dalla percezione che stiamo vivendo una crescita
qualitativa nella capacità di manipolare la nostra vitalità, il nostro metabolismo, i
nostri organi, il nostro cervello. Le conoscenze e le tecniche biomediche, pur
molto differenti tra loro, hanno una cosa in comune: la comprensione della vita
umana a livello molecolare. Oggi, infatti, è a livello molecolare che la vita umana
viene compresa, è a livello molecolare che i suoi processi possono essere

4
Ibidem.
10
anatomizzati, ed è a livello molecolare che la vita può essere modificata.5 A
questo livello, così sembra, non c’è nulla di mistico o di incomprensibile
riguardo alla nostra vitalità, in linea di principio tutto pare essere intelligibile.

Man mano che gli esseri umani prendono a viversi in modo nuovo come
creature biologiche, come sé biologici, la loro esistenza vitale sempre più va
configurandosi come oggetto privilegiato del governo, come obiettivo di
inedite forme di autorità e di sapere specialistico, sempre più diventa un
campo di conoscenza ad alto investimento emotivo, un territorio in
espansione per lo sfruttamento bioeconomico, un principio organizzatore
dell’etica, la posta di una politica vitale molecolare.6

Oggi, la percezione del Sé risulta avere, come elemento fondamentale, il rapporto


con il corpo; ciò comporta un inevitabile passaggio socio-culturale dalla
patogenesi alla salutogenesi nella concezione del rapporto tra sé e il proprio
corpo e tra sé e chi si occupa, a vario titolo, di salute e corporeità. In tale
passaggio è diventata indispensabile e imprescindibile la riappropriazione della
responsabilità integrale della propria salute e del proprio benessere, si ha perciò
un ampliamento del concetto corpo/mente: non più entità separate, bensì unità
olistica integrata.
Autori come N. Rose e R. Esposito parlano di un nuovo modo di pensare al corpo
che a sua volta determina il modo in cui pensiamo e concettualizziamo ciò che
riteniamo Vita e le sue relative implicazioni sociali. Il Corpo non è più soltanto il
corpo fisico, ma si ha una progressiva acquisizione della consapevolezza degli
altri corpi – energetico, spirituale, etereo… – che compongono la nostra identità
e sui quali possiamo agire a vari livelli.
La scienza diffusa, le rappresentazioni mediatiche e molti pensatori appartenenti
a diverse discipline indicano tutti questo momento storico come un momento di
violenta rottura all’apice di un cambiamento epocale, ma l’idea di N. Rose è
differente: egli ritiene infatti che, insieme al cambiamento, esistano anche linee

5
Ibidem.
6
Ibidem.
11
di continuità con il passato. Nel nostro presente biologico, psichico, vitale in
quanto esseri umani non è inscritto un solo futuro, viviamo bensì al centro di
storie multiple: da ciò deriva un rafforzamento delle nostre capacità di intervenire
nel presente al fine di determinare almeno in parte quel futuro in cui desideriamo
vivere. Non ci troviamo in un momento unico nello sviluppo di una storia
unilineare ma, come è stato per il nostro presente, il nostro futuro emergerà
dall’intersezione di un certo numero di sentieri contingenti che genereranno, nel
loro stesso intreccio, qualcosa di nuovo: un ventaglio di strade che possono
condurre a diversi futuri possibili.
E’ una caratteristica degli esseri umani cercare di modificare e migliorare se
stessi. Naturalmente, in ciascun momento storico, lo fanno secondo le
conoscenze e le credenze sul tipo di creatura che sono. Più o meno nei primi
sessant’anni del XX secolo, gli esseri umani – almeno nelle democrazie liberali
avanzate dell’Occidente – giunsero a vedersi come abitati da un profondo spazio
psicologico interiore. Essi si valutarono e lavorarono su se stessi sulla base di
questa convinzione, sviluppando anche un linguaggio psicologico di auto
descrizione (è facile sentire parlare di ansia, depressione, traumi, di essere
estroversi o introversi ecc.), test psicologici di intelligenza e di personalità in
svariati ambiti (esercito, ambito di orientamento professionale…), facendo
proliferare psicoterapie e sfruttando le tecniche psicologiche nel marketing.

Nel corso del secolo passato, però, noi esseri umani siamo diventati
individui somatici, persone che sempre più si concepiscono, parlano di sé e
agiscono su di sé – e sugli altri – come esseri plasmati dalla biologia. Questa
somatizzazione comincia a estendersi alla maniera in cui interpretiamo le
variazioni dei nostri pensieri, emozioni e comportamenti, vale a dire alla
nostra mente. Mentre i nostri desideri, umori e insoddisfazioni potevano in
precedenza essere inscritti in uno spazio psicologico, essi vengono ora
associati al corpo stesso, o a un suo particolare organo – il cervello. Il quale

12
è anch’esso concepito secondo un particolare registro. In modi significativi
siamo diventati, io credo, dei “sé neurochimici”.7

Durante la seconda metà del XX secolo, la psichiatria ha gradualmente tracciato


la mappa delle basi neurali e neurochimiche dell’attività mentale umana; il
decennio cruciale è quello che si situa tra la metà degli anni Ottanta e la metà
degli anni Novanta. Fu qui che si giunse ad attribuire basi somatiche alla
psicopatologia. Le osservazioni cliniche sull’efficacia del trattamento dei pazienti
con rimedi biologici, insieme alle scoperte psicofarmacologiche degli anni
Cinquanta

non solo ci hanno fornito un’immagine completamente nuova del cervello


con cui confrontarci, ma hanno anche permesso una più completa
comprensione dei profondi mutamenti strutturali e funzionali del cervello
che accompagnano la malattia psichiatrica.8

“Funzionale” era un termine solitamente usato per descrivere una sindrome non
legata a patologie cerebrali (disturbi delle funzioni psicologiche o della struttura
organica); oggi tuttavia, sembra che tale termine debba essere utilizzato in una
nuova accezione: “funzionale” non è più solo appendice di “psicologico”, ma è
utilizzato per designare un disturbo fisiologico. Allo stato attuale delle
conoscenze, la distinzione tra “organico” e “funzionale” si dissolve, spogliata del
suo dualismo cartesiano.9
Oggi, nuove verità su noi stessi ci vengono rivelate non dalla filosofia, ma dalla
ricerca; articoli scientifici riportano i risultati di esperimenti clinici, ricerche
neurologiche e sperimentazioni su animali condotti in laboratori, ospedali,
cliniche. Gli stessi articoli parlano di entità caratteristiche: cervelli, composti
chimici cerebrali, funzioni cerebrali, farmaci, sistemi modello sperimentali,
tecniche investigative, diagnosi, soggetti umani, tecnologie di verità.

7
Rose N., La politica della vita, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2008, cap.7
8
Trimble M. R., Biological Psichiatry, Second edition, John Wiley and Sons, 1996
9
Rose N., La politica della vita, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2008, cap. 7
13
Vi sono cervelli psichiatrici immaginati come “organi” corporei alla stessa
stregua del corpo – con le loro regioni e componenti (corteccia, gangli, lobi…),
cui si aggiungono sistemi corporei associati.
Vi sono sostanze la cui composizione chimica può essere messa per iscritto o
rappresentata in un diagramma che, mentre fino a poco tempo fa erano trattate
come entità ipotetiche di dubbia esistenza, oggi si sono trasformate in fatti.
Vi sono funzioni cerebrali, un tempo anch’esse ipotesi, che adesso sono entità e
processi generalmente riconosciuti.
Ci sono i farmaci, ovvero i composti chimici artificiali con struttura molecolare
nota, che si ritiene riproducano o imitino alcune delle sostanze naturali.
C’è il lavoro dei ricercatori, eseguito sulla base di sistemi modello sperimentali
come cervelli umani, colture di cellule in vitro, modelli animali.
Vi sono specifiche tecniche investigative: campioni biochimici di fluidi corporei,
elettroencefalogrammi, tecniche di visualizzazione mediante traccianti
radioattivi, tecniche di imaging che mostrano l’attività cerebrale in termini di
flussi sanguigni o di utilizzazione di energia, sperimentazioni su pazienti
mediante test e scale.
Vi sono le diagnosi, modalità apparentemente categoriche di definire i disturbi
emotivi, cognitivi, dell’umore e della volontà, che fanno sì che si selezioni e si
differenzi per gruppi.
Vi sono soggetti umani che a volte si sono resi partecipi tramite l’assunzione di
farmaci, la scansione del cervello, la donazione di tessuti dopo la morte, o che si
sono invocati come potenziali beneficiari del progresso. Indipendentemente da
come vivano il loro malessere, questi soggetti devono essere fatti rientrare in un
quadro stabile, impresa che viene realizzata grazie alla loro identificazione con
una delle diagnosi standard definite nel Diagnostic and Statistical Manual for
Mental Disorder10 (DSM) dell’American Psychiatric Association. Essi risultano

10
Il DSM, in italiano Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, è il dizionario
statistico dei disturbi mentali di matrice americana, ed è stato pubblicato in cinque edizioni allo
scopo di rendere quanto più possibile omogenei e aggiornati i criteri diagnostici in psichiatria. Il
manuale che riporta la classificazione dei disturbi mentali nei paesi europei è l’I.C.D. – 10.
14
così l’incarnazione di sindromi particolari e distinte, che spiegano sintomi e
comportamenti a ciascuno dei quali risponde almeno una specifica patologia.
Infine, ci sono le tecnologie di verità di ordine metodologico che definiscono e
delimitano il modo in cui nella psichiatria si possono produrre scoperte che
prevedano una dimensione di conferma o falsificazione, di verità ed errore, che
reggano sul piano empirico.11

Lo spazio psicologico profondo che si era aperto nel XX secolo si è


appiattito. In questa nuova concezione dell’identità personale, la psichiatria
non distingue più fra disturbi organici e funzionali. Non si occupa più della
mente o della psiche. La mente è semplicemente l’attività del cervello, e la
patologia mentale è semplicemente la conseguenza comportamentale di un
errore o un’anomalia identificabile, e potenzialmente correggibile, di
qualcuno degli elementi ora considerati aspetti del cervello organico. Si
tratta di un cambiamento nell’ontologia umana – nel tipo di persone che
riteniamo di essere. Un cambiamento che implica una nuova maniera di
vedere, giudicare e agire di fronte alla normalità e all’anormalità umane.
Esso ci consente di essere governati in nuovi modi. E ci consente di
governarci in modo diverso. 12

1.2 Sanità e follia: un’analisi in continua evoluzione


David Rosenhan, nel suo studio del 1973 On being sane in insane places, si pone
un interrogativo: se la sanità e la follia esistono, come le si può riconoscere?
Come può lo psichiatra essere certo che il paziente sia affetto da un disturbo
mentale, e come può riconoscere il tipo di disturbo?13
Nell’Ottocento, si era data risposta a questa domanda tramite la vista, attraverso i
manicomi riformati che davano agli internati una nuova forma di visibilità.
Furono molti i tentativi di classificare i malati in base al loro aspetto, rilevante tra

11
Rose N., La politica della vita, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2008, cap. 7
12
Ibidem.
13
Rosenhan D. L., On being sane in insane places in “Science”, 179, gennaio 1973, pp. 250 e
sgg. (Trad. It. In Forti L. (a cura di), L’altra pazzia, Feltrinelli, Milano, 1975)
15
tutti quello sviluppato dallo psichiatra francese Esquirol che, nel suo atlante del
1838, accompagnò ciascuna categoria diagnostica ad un’immagine e alla
descrizione di un caso tipico focalizzata sull’aspetto fisico e sull’atteggiamento
corporeo dell’individuo affetto.
Come ha mostrato Sander Gilman nella sua analisi Seeing the insane, questo tipo
di rappresentazione legava l’immagine del folle alla sua biografia e mostrava le
varie forme della follia in termini di postura, gestualità, colore della pelle.14
La medicina clinica nacque nel XIX secolo. Lo sguardo penetrò il corpo (grazie
allo stetoscopio, in vita e alla dissezione del cadavere, in morte), mettendo in
relazione i sintomi visibili in superficie con la localizzazione organica e le lesioni
presenti all’interno. Diagnosticare una malattia significava interpretare i sintomi
in termini di cattivo funzionamento degli organi interni. Questo nuovo modo di
vedere era contenuto negli atlanti anatomici: era il corpo stesso a essere diventato
malato. Come scrisse M.Foucault:

Lo sguardo penetra nello spazio che si è assegnato il tempo di percorrere…


Nell’esperienza anatomo-clinica, l’occhio si dispiega… a mano a mano che
penetra all’interno del corpo, avanza tra i suoi volumi, ne delimita o ne fa
sorgere le masse, discende nelle sue profondità. La malattia non è più un
fascio di caratteri disseminati qui e là alla superficie del corpo e connessi gli
uni gli altri per mezzo di concomitanze e di successioni statisticamente
osservabili… è piuttosto il corpo stesso mentre diventa malato.15

Lo sguardo della medicina mentale del XIX secolo cercò dunque di raggiungere
questa profondità, ma fallì nell’intento rimanendo focalizzato sulla superficie del
corpo: l’immagine visiva restò infatti centrale per la pratica di individuazione
della patologia.
Ad aprire l’interiorità del corpo del paziente alla conoscenza medica,
emarginando l’osservazione a favore dell’interpretazione, furono, in maniere

14
Gilman S. Seeing the insane, John Wiley and Sons, 1982
15
Foucault M. Histoire de la Folie à l’age classique, Gallimard, Paris 1972; (trad. it. La follia,
l’assenza di opera, in Storia della follia nell’età classica, 1998, pp. 148-149)
16
differenti, Kraepelin e Freud. In queste due figure emblematiche della modernità
psichiatrica si manifestò, difatti, un distacco dallo sguardo. Per Kraepelin la
funzione diagnostica delle illustrazioni viene soppiantata dalla storia dei casi
(cronologia della sintomatologia, eziologia, prognosi), che assume un’importanza
centrale. In Freud, invece, l’occhio lascia spazio all’orecchio: nella psicanalisi, e
in tutta la serie di psicoterapie che le si affiancano, è la voce del paziente ad
essere la strada verso l’inconscio. Viene così posto in essere un nuovo oggetto: la
mente (quale spazio psicologico, deposito della biografia e dell’esperienza,
origine dei pensieri, delle credenze, degli stati d’animo e dei desideri).
David Armstrong affermò che la mente veniva mostrata allo sguardo attraverso le
parole.

Mentre nel vecchio sistema il corpo del paziente doveva essere reso
leggibile dall’interrogazione del medico, nel nuovo sistema il corpo
produceva la sua propria verità, che non richiedeva leggibilità bensì
incoraggiamento. Il paziente doveva parlare, confessare, rivelare; la malattia
si spostava da ciò che era visibile a ciò che veniva ascoltato.16

Si apre in questo modo uno spazio psichico, lo spazio interiore dell’individuo,


che diventa l’oggetto privilegiato dello sguardo psichiatrico. Tale spazio non può
essere visto, poiché contiene residui di relazioni familiari, umane, sociali e
collettive, ma può essere interpretato dagli analisti e immaginato da artisti e
poeti.
Per tutta la prima metà del XX secolo e fino agli anni Sessanta fu
l’interpretazione dello spazio psichico interno al paziente a delimitare la sfera
della psichiatria. Come sostiene N. Rose, negli anni Cinquanta e Sessanta molte
difficoltà furono causate dall’incapacità di dimostrare l’esistenza dei corrispettivi
organici delle proprie diagnosi.

16
Rose N., La politica della vita, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2008, p.306
17
Il problema emerse nelle aule di giustizia intorno alla questione della
responsabilità criminale: gli psichiatri sovente scoprivano che le loro
diagnosi di follia non erano in grado di soddisfare i criteri legali di prova e
testimonianza. […]
Al culmine della polemica, nell’antipsichiatria degli anni Settanta, le
diagnosi psichiatriche vennero considerate degli “errori categoriali”, che
trasformavano illegittimamente la differenza, la rottura e la devianza in
malattia.17

Nonostante le innumerevoli dissezoni di cervelli di ricoverati manicomiali


deceduti, infatti, gli psichiatri del XIX secolo non furono in grado di trovare
anomalie nel cervello che fossero in relazione con anomalie del pensiero, del
comportamento, dell’umore, della volontà.
La neuroanatomia vide sviluppi più proficui con l’estensione dei risultati
sperimentali dagli animali agli esseri umani: fu in questo processo che il cervello
iniziò a rivelarsi come un organo con funzioni localizzate in particolari regioni.
Fin dal 1891, Burkhardt tentò di calmare i pazienti in preda ad allucinazioni
distruggendo le strisce di corteccia cerebrale che si riteneva controllassero le
funzioni sensoriali e motorie; negli anni Trenta, Egas Moniz sviluppò la tecnica
della lobotomia sugli esseri umani (questa era già stata in parte sperimentata sulle
scimmie da Jacobsen); negli stati Uniti, Walter Freeman e James Watts
adottarono questi metodi inventando una tecnica per penetrare nel cervello
attraverso le orbite oculari. Verso il 1948, in tutto il mondo circa 20000 pazienti
avevano già subito un’operazione di lobotomia.18
Ovviamente tali pratiche sono, al giorno d’oggi, a ragione, altamente
controverse, tant’è che la maggioranza di coloro che le ricevettero riportarono
danni irreparabili alle funzioni mentali. Tuttavia, è evidente come questi sviluppi
fossero connessi a un nuovo modo di considerare il cervello, cioè come un
organo differenziato, attraversato da percorsi neurali localizzati, con specifiche
funzioni mentali suscettibili di intervento locale.

17
Ibidem. p.307
18
Rose N., La politica della vita, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2008, cap. 7, p. 308 sgg.
18
Nonostante, grazie ai microscopi elettronici inventati negli anni Trenta, fosse
possibile visualizzare i tessuti cerebrali ad alta risoluzione nell’autopsia, per
“vedere la follia” in un cervello vivo si dovettero attendere gli sviluppi
tecnologici della seconda metà del XX secolo: invenzioni quali la tomografia
computerizzata (TC) negli anni Sessanta, la tomografia a emissione di positroni
(PET) e l’imaging a risonanza magnetica (MRI) a partire dagli anni Ottanta e,
infine, l’imaging a risonanza magnetica funzionale (fMRI), è oggi possibile
visualizzare il cervello umano vivo e osservare la sua attività in tempo reale. Di
conseguenza, sembra, potremmo essere in grado di avvalerci di simili immagini
dell’attività cerebrale nelle diverse aree per operare distinzioni oggettive tra
funzionamento normale e patologico. Ovviamente, la realtà è molto più
complessa: le scansioni cerebrali, infatti, producono dati digitali che vengono
trasformati in immagini pixel per pixel e costruiscono una rappresentazione
standard dello spazio cerebrale, producendo così questi simulacri del “vero
cervello”.19 In ogni caso la verosimiglianza di questa maniera di visualizzare la
mente non ha avuto solo un valore retorico o clinico, bensì anche epistemologico:
il cervello vivente così visualizzato è apparso semplicemente come un altro
organo del corpo, da schiudere allo sguardo del medico.
All’inizio del XXI secolo, immagini digitali che mostrano l’attività del cervello
hanno potuto così convincere diversi pazienti, ad esempio affetti da depressione e
convinti di dover essere discriminati o etichettati per questo motivo, che la loro è
una malattia reale al pari di tante altre patologie comunemente accettate, e che
come tale necessita di essere curata. Anche il desiderio è diventato uno stato del
cervello con una forma visiva: per esempio, la necessità ossessivo-compulsiva
dei dipendenti da cocaina adesso è visibile grazie alla PET.

Le basi biologiche della malattia mentale sono ora dimostrabili: nessuno


può ragionevolmente osservare la frenetica attività localizzata del cervello
di una persona in preda a qualche ossessione, o la tenue luminescenza di un
cervello depresso, e dubitare ancora che queste siano sindromi fisiche,

19
Ibidem.
19
piuttosto che qualche ineffabile malattia dell’anima. Analogamente, è ora
possibile localizzare e osservare i meccanismi della rabbia, della violenza e
della percezione distorta e anche individuare i segni fisici di caratteristiche
complesse della mente quali la gentilezza, l’umorismo, la spietatezza, la
socievolezza, l’altruismo, l’amore materno e l’autoconsapevolezza.20

Quando la mente sembra visibile all’interno del cervello, lo spazio fra persona e
organi si azzera: la mente è ciò che il cervello fa. Tale annullamento della
distanza tra il comportamento e le sue basi organiche caratterizza anche il nuovo
sguardo diagnostico della psichiatria, caratterizzato da un sempre più minuzioso
sezionamento del disturbo mentale.
Il primo DSM, pubblicato nel 1952, concepiva le malattie mentali come reazioni
della personalità a fattori psicologici, sociali e biologici. Il DSM II, del 1968, era
di centotrentaquattro pagine e conteneva centottanta categorie inquadrate nel
linguaggio interpretativo della psicanalisi. La terza edizione, pubblicata nel 1980,
sfiorava le cinquecento pagine. La versione rivista del 1987 conteneva
duecentonovantadue categorie, ciascuna definita da un criterio oggettivo
“visibile”. La quarta edizione, pubblicata nel 1994, arriva a ottocentottantasei
pagine e classifica trecentocinquanta differenti sindromi.
La quarta edizione avverte che all’interno di qualsiasi gruppo diagnostico gli
individui sono eterogenei, e che le categorie vanno intese solamente come un
aiuto per il giudizio clinico. Essa però propone un’idea di specificità della
diagnosi legata a una concezione di specificità della malattia sottostante. Le
ampie categorie dell’inizio del XX secolo – depressione, schizofrenia, nevrosi –
non sono più adeguate.21 Ora le patologie vengono analizzate su scala differente:
lo sguardo psichiatrico passa da molare a molecolare, e dietro questa
classificazione molecolare delle malattie sta un’altra immagine del cervello:
quella delle neuroscienze contemporanee, della psicofarmacologia. Inizialmente
si pensò che la trasmissione da un nervo all’altro fosse elettrica, negli anni

20
Carter R., Mapping the mind, Berkeley, Los Angeles, London: University of California Press,
1998, p. 6
21
Rose N., La politica della vita, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2008, cap. 7
20
Cinquanta e Sessanta, però, questo processo venne riconosciuto come chimico
poiché coinvolgeva piccole molecole dette neurotrasmettitori: questa nuova
immagine era intrinsecamente legata alla ricerca sui farmaci psichiatrici.
I farmaci psichiatrici “moderni”, che iniziarono a essere sviluppati a partire dagli
anni Cinquanta, si riteneva avessero effetti mirati sull’umore, sul pensiero o sul
comportamento a causa della loro azione specifica sul cervello. Come sostiene
Healy, “per la prima volta era stato gettato un ponte fra il comportamento e la
neurochimica”. Lungo quel ponte doveva passare un sempre più intenso traffico
fra la clinica, il laboratorio e l’industria. Ciascuna varietà di disturbo viene presto
attribuita ad un’anomalia in un particolare sistema di neurotrasmissione, e la
ricerca cercò di isolare i composti la cui specifica struttura molecolare
permettesse di modificare o riparare tale problema.
Verso l’inizio degli anni Novanta, i processi molecolari erano ormai
sufficientemente ammessi per essere rappresentati in simulazioni visive secondo
convenzioni standard. Le migliori fra queste, ad esempio Essential
Psycopharmacology di Stephen Stahl, sono dense di immagini che, simulando i
processi neuronali, evidenziano le diverse patologie.22Nell’iconografia di Stahl, a
ogni neurotrasmettitore è assegnata una diversa icona e ogni recettore è
rappresentato con un’icona correlata al cui interno il neurotrasmettitore si
inserisce. Simili immagini sembrano rappresentare il normale stato di
funzionamento del cervello e la specificità molecolare dei vari tipi di disturbi.
Una volta illustrate in questo modo, le patologie possono essere illustrate
visivamente come variazioni dello stato “normale”.
E’ in questi termini che l’azione dei farmaci psichiatrici viene oggi immaginata:
nei termini della loro capacità di bloccare una particolare pompa di ricaptazione,
o di legarsi a un particolare tipo di recettore. Ed è in questi termini che tali
farmaci vengono inventati, sperimentati, commercializzati e prescritti.
Questo stile di pensiero è allo stesso tempo farmacologico e commerciale. Le
prove di una reale specificità dei farmaci sono in realtà estremamente deboli: vi
sono, infatti, numerose prove che i cosiddetti “farmaci specifici” abbiano in

22
Ibidem.
21
realtà un ampio spettro d’azione, e che la pretesa specificità nasca sovente dalle
forme di valutazione utilizzate o dalla liquidazione di alcuni fenomeni come
“effetti collaterali”.
Le più recenti scoperte nel campo della genetica hanno avuto pesanti
conseguenze per quanto riguarda la psichiatria.

1.3 Genetica e psicofarmacologia


Nel XIX secolo, le tesi sull’ereditarietà della patologia mentale seguivano tutte le
stesse linee guida. Una predisposizione ereditaria o una debolezza di costituzione
venivano tramutate in patologie manifeste da una causa scatenante – la perdita
del patrimonio, il consumo eccessivo di alcool, la masturbazione, e così via. Le
malattie mentali venivano inserite fra le molte manifestazioni di una costituzione
ereditaria tarata, la cui trasmissione di generazione in generazione poteva essere
visualizzata in un prospetto genealogico che mostrava “il plasma germinale
difettoso scorrere attraverso le generazioni”.23
Nel pensiero biologico contemporaneo, però, non vi è una singola diatesi
ereditaria, o una costituzione che posso essere sana o degenerata. Tutti siamo
portatori di vulnerabilità genetiche a diverse malattie, vulnerabilità che sono
piccole, distinte, molecolari. Questo è lo sguardo della suscettibilità, concetto che
racchiude in esso una visione proiettata in avanti: tentare di plasmare il futuro
vitale modificando il presente vitale.
Dire che una persona è suscettibile a una sindrome, quale il disturbo bipolare o la
schizofrenia, non significa semplicemente affermare, come in passato, che egli è
a rischio per la sua storia familiare o perché studi epidemiologici di popolazioni
lo collocano in una categoria a rischio. Né significa affermare che ha “il gene
per” quella sindrome. Oggi si ritiene che le mutazioni associate a una maggiore
suscettibilità possano essere individuate in loci precisi della sequenza di basi dei
geni che controllano la sintesi delle proteine coinvolte nella produzione e nel

23
Ibidem.
22
trasporto di neurotrasmettitori, recettori, enzimi, membrane cellulari o dei canali
ionici che regolano l’attività dei neuroni.24
Secondo lo stile di pensiero della genomica psichiatrica e della genomica
comportamentale contemporanee, ci troviamo in un’era postgenomica di
suscettibilità poligenetiche in cui, sembra, si aprono le porte alla fabbricazione di
precisione di molecole terapeutiche destinate a bersagliare esattamente quella
certa anomalia molecolare, proprio in quegli individui nei quali è stata riscontrata
la presenza di quel certo polimorfismo.
Nei primi anni del XXI secolo non è certo mancato l’ottimismo di
neuroscienziati, ricercatori psichiatrici e società biotech: il sogno è diagnosticare
attraverso il cervello piuttosto che attraverso sintomi visibili, cambiamenti vitali
o il decorso della malattia.
Di conseguenza, non stupisce che le società commerciali stiano già investendo in
un futuro nel quale le diagnosi andranno veramente dritte al cervello. In nome
della prevenzione delle malattie, così sperano alcuni, gli individui presintomatici
saranno sottoposti a test per la suscettibilità a determinate sindromi psichiatriche
e anche per la loro probabilità di risposta a certi prodotti; verranno loro
somministrati i farmaci su basi preventive, e quindi si useranno le scansioni
cerebrali per vedere se essi siano veramente adatti a curare la loro sindrome
individuale.25
Ma, che si tratti di scansioni cerebrali o di test genetici, tutti i percorsi attraverso
il cervello sembrano condurre all’uso di psicofarmaci.
Ad oggi, i disturbi mentali costituiscono, infatti, un’opportunità fondamentale per
la creazione di profitto privato e per la crescita dell’economia. In effetti, il
profitto ottenibile dalle promesse di cure efficaci è diventato un criterio primario
nel definire ciò che è importante nella conoscenza dei disturbi mentali. Nel corso
degli ultimi vent’anni, nelle società industriali avanzate dell’Europa e del
Nordamerica, la psicofarmacologia si è ricavata una ragguardevole fetta di
mercato.

24
Ibidem.
25
Ibidem.
23
Negli anni dal 1990 al 2000, il mercato psichiatrico ha visto aumentare il
suo valore di oltre il 200 per cento in Sudamerica, del 137 per cento in
Pakistan, del 50 per cento in Giappone, del 126 per cento in Europa e di un
incredibile 638 per cento negli Stati Uniti. Alla fine del decennio, negli Stati
Uniti le vendite di farmaci psichiatrici su prescrizione medica ammontavano
a poco meno di diciannove miliardi di dollari – quasi il 18 per cento di un
mercato farmaceutico complessivo di centosette miliardi di dollari, mentre
la quota di mercato in Giappone, pari a 1,36 miliardi di dollari, costituiva
meno del 3 per cento di un mercato farmaceutico che nel complesso era di
49,1 miliardi di dollari. La crescita e le dosi effettive di medicinali
psichiatrici prescritte tra il 1990 e il 2000 è meno marcata, con gli Stati
Uniti che mostrano un aumento del 70,1 per cento, l’Europa del 26,9 per
cento, il Giappone del 30,9 per cento, il Sudafrica del 13,1 per cento e il
Pakistan del 33,4 per cento. Sia in Gran Bretagna sia negli Stati Uniti, una
delle aree fondamentali di tale crescita è stata quella degli antidepressivi
SSRI26 di nuovo tipo, aumentati del 200 per cento nel decennio considerato,
parallelamente a una, seppur lieve, diminuzione delle prescrizioni di
ansiolitici. Un altro elemento, che ha suscitato molte controversie, è stato
l’aumento delle prescrizioni di psicostimolanti, in particolare Ritalin
(metilfenidato) e l’Adderal (dexamfetamina), per la cura della sindrome da
deficit d’attenzione e iperattività nei bambini. Dalla metà degli anni Ottanta
fino alla fine del XX secolo, vi è stata una notevole crescita nella diagnosi di
tale sindrome e nell’uso di questi farmaci. Il fenomeno è stato più marcato
negli Stati Uniti, dove i tassi di prescrizione sono aumentati di otto volte nel
decennio 1990-2000. Aumenti simili, anche se minori, si sono potuti notare
in paesi quali l’Australia, la Nuova Zelanda, Israele e la Gran Bretagna.27

26
L'acronimo SSRI (selective serotonin reuptake inhibitors) sta a indicare l'insieme di
molecole farmaceutiche che rientrano nell'ambito degli inibitori selettivi della ricaptazione
della serotonina, ovvero dei cosiddetti antidepressivi non triciclici. Tali farmaci vengono
utilizzati di norma in psichiatria per la terapia di patologie quali il disturbo ossessivo-
compulsivo o la depressione maggiore in quanto, impedendo la normale ricaptazione ed
eliminazione fisiologica della serotonina, sono in grado di contrastare l'eventuale deficit di
questo neurotrasmettitore, riequilibrando, dal punto di vista strettamente organico, i disturbi
generati dalla sua eventuale carenza.
27
Rose N., La politica della vita, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2008, cap. 7
24
C’è chi pensa che questi aumenti riguardino un’accresciuta medicalizzazione, ad
esempio dei bambini, e chi invece ritiene che essi siano preoccupanti perché
indicherebbero una maggior presenza della malattia. Molte fra le critiche iniziali
all’uso dei farmaci psichiatrici sostenevano che essi venissero utilizzati come una
sorta di “manganello chimico” mirato a pacificare e normalizzare in un quadro di
strategia di controllo. Oggi, tali farmaci si presentano non come modo per
normalizzare il deviante, quanto piuttosto come mezzo volto a correggere le
anomalie, a regolare l’individuo aiutandolo a ristabilire e mantenere la sua
capacità affrontare la vita quotidiana. E’ però indiscutibile che gli psicofarmaci
siano utilizzati, oggi come in passato, in ogni genere di situazione e istituzione
coercitiva per normalizzare il comportamento e per gestire gli internati. Allo
stesso modo, non vi è dubbio che essi rientrino nelle strategie di controllo dei
pazienti affidati all’assistenza sociosanitaria. In tali situazioni, chi assume tali
farmaci lo fa spesso perché esplicitamente o implicitamente obbligato.
Al di là di tali pratiche di gestione autoritaria del comportamento, N. Rose parla
di “economia politica della speranza” per indicare la concezione oggi dominante
del ruolo dei farmaci:

All’individuo in procinto di diventare un sé neurochimico, questi farmaci


promettono di aiutarlo, in collaborazione col medico e la molecola, a
scoprire il tipo di intervento in grado di interagire precisamente con
l’anomalia molecolare che è alla base dei suoi problemi e danneggia la sua
vita: al fine di restituire il sé alla sua vita, a se stesso.28

Ovviamente questo orientamento di tipo biomedico non è l’unico esistente:


esistono infatti differenti forme di attivismo in riferimento alla psichiatria e agli
psicofarmaci. Mentre alcuni psichiatri sostengono che “l’individuazione dei geni
coinvolti nei disturbi comportamentali darà un grande contributo al
miglioramento della percezione collettiva e della tolleranza”, vi sono gruppi che,
pur sostenendo la ricerca biomedica, rifiutano gli attuali argomenti della genetica

28
Ibidem.
25
e della neurochimica o, ancora, rigettano completamente il “modello malattia”.
La lunga storia dell’antipsichiatria, ad esempio, si fonda sull’assunto per cui le
spiegazioni dei problemi di salute mentale in termini di disturbi del cervello, e le
interpretazioni che attribuivano un ruolo significativo alla genetica nell’eziologia
di tali problemi, non fossero soltanto epistemologicamente e ontologicamente
sospette, ma fossero anche legate a strategie di governo spersonalizzanti,
indifferenti, umilianti e repressive nei confronti delle persone afflitte da problemi
di salute mentale. Diverse critiche sono state rivolte al modello biomedico
rimproverandone i tratti di essenzialismo, riduzionismo e individualismo. Gli
odierni eredi dell’antipsichiatria hanno lanciato un attacco su molti fronti contro
la validità delle ricerche basate sul “modello biomedico” dei problemi di salute
mentale, contro la reale efficacia dei farmaci psichiatrici e contro l’onestà delle
società farmaceutiche che li sviluppano, li testano, li commercializzano. In un
momento critico, nel dicembre del 1998 Loren R. Mosher, una delle figure
fondamentali nello sviluppo di terapie comunitarie e non farmacologiche per la
salute mentale, che all’epoca lavorava presso il National institute of Mental
Health, si dimise dall’American Psychiatic Association, con una lettera in cui
criticava l’Apa di aver stretto un’ampia alleanza con la Nami e gli psichiatri di
essere diventati “i tirapiedi della promozione delle case farmaceutiche”. Mosher
sosteneva che

Non cerchiamo più di capire le persone nella loro interezza e nel loro
contesto sociale - piuttosto stiamo a riallineare i neurotrasmettitori dei nostri
pazienti. Il problema è che è molto difficile avere un rapporto di relazione
con un neurotrasmettitore - qualsiasi sia la sua configurazione. Così, la
nostra acuta Organizzazione ci fornisce spiegazioni, basate sulla sua
concezione neurobiologica di fondo, che ci tengono distanti da quei
conglomerati di molecole che siamo arrivati a definire come pazienti.
Promuoviamo il largo uso e ci perdoniamo l'abuso di sostanze chimiche
tossiche nonostante sappiamo che producono seri effetti di lungo periodo -
discinesia tardiva, demenza tardiva e preoccupanti sindromi di
astinenza. […]

26
“Malattia mentale a base biologica" è certamente conveniente per i familiari
e ugualmente per i medici. Non c'è nessuna assicurazione di garanzia
contro errori, non responsabilità personale. Siamo stati tutti presi senza
colpa in una turba di patologia cerebrale di cui nessuno, eccetto il DNA, è
responsabile. 29

Molte critiche ai servizi psichiatrici prendevano spunto dalle posizioni di David


Haley, secondo il quale le case farmaceutiche tacevano sui risultati sperimentali
negativi al fine di ottenere l’autorizzazione per alcuni importanti farmaci
psichiatrici SSRI, ignoravano o nascondevano le prove del fatto che talvolta tali
farmaci producevano gravi effetti indesiderati che aumentavano il rischio di
suicidio e omicidio e che, in alcuni casi, si era creata una scellerata alleanza fra le
industrie farmaceutiche, i dipartimenti universitari dipendenti dalle sovvenzioni e
i ricercatori psichiatrici teoricamente indipendenti, i quali nei fatti avevano un
interesse finanziario nei composti chimici che stavano valutando.30 Altri attivisti
sostenevano che le case farmaceutiche sottovalutavano la problematicità del
sospendere l’assunzione dei loro prodotti diventando così colpevoli di creare
dipendenze su larga scala. Altri ancora sostenevano che molto spesso i farmaci,
dichiarati efficaci dalle società farmaceutiche, fossero in realtà dei placebo.
C’era, inoltre, chi criticava le case di cura private sostenendo che, prima della
diffusione dei manicomi pubblici, esse producessero ciò che veniva definito
“commercio della follia”, nel quale il profitto era generato dall’internamento, il
che portava a ogni genere di corruzione.
Massimo Cozza, psichiatra e coordinatore della Consulta nazionale per la salute
mentale del nostro Paese, sostiene che l’individuazione delle anomalie genetiche
come causa dei disturbi psichici sia un concetto fortemente correlato allo stigma
nei confronti del cosiddetto folle.31 Il problema della saluta mentale è visto, da

29
http://www.asiamente.it/Lettera%20di%20Dimissioni%20dalla%20American%20Psychiatric
%20Association%20(Associazione%20degli%20Psichiatri%20Americani).htm consultato il
10.01.2011
30
Rose N., La politica della vita, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2008, cap. 7
31
Cozza M., Linee di salute mentale in Cozza M., Fiorillo G., Il nostro folle quotidiano,
Manifestolibri srl, Roma, 2002
27
questo come da altri autori, come un problema di rapporti sociali. Essi affermano
l’importanza fondamentale della relazione nella promozione e salvaguardia della
salute mentale, importanza sempre più attestata, anche in campo scientifico,
“nonostante le massicce campagne che vorrebbero ridurla a un fatto puramente
biomedico o addirittura a un fatto di geni”32.
Nel novembre del 2000, a due passi da Montecitorio, si svolse una grande
manifestazione nazionale per la riaffermazione degli impegni presi dallo Stato in
materia. Tale manifestazione fu organizzata dalla Consulta nazionale per la salute
mentale e registrò la partecipazione numerosa e intensa di operatori, forze
politiche, amministratori, ma soprattutto di utenti e familiari. Gli stati d’animo di
quella manifestazione erano dolore, denuncia, senso d’impotenza, però anche
voglia di lottare e di cambiare le cose.

Si capì in quell’occasione che, ancora una volta, la salute mentale non


poteva essere lasciata agli specialisti. Da tutta Italia veniva espresso un
grido di dolore per come i malati mentali subivano ancora discriminazioni e
trattamenti inumani: a partire dalla contenzione come pratica consueta nei
reparti ospedalieri, all’elettroshock, all’uso arbitrario di terapie
farmacologiche, ma anche alla sordità di alcune istituzioni ed Enti Locali
che ritengono di aver fatto il proprio dovere accontentandosi di
provvedimenti di piccola portata, più di facciata che reali, a favore del
disagio mentale. La questione allora deve ri-diventare, com’è stato per molti
anni, una questione di civiltà e, quindi, di cultura.33

E’ tuttavia è innegabile che, con gli anni Novanta, si sia verificato un


cambiamento profondo nel pensiero e nella pratica di tanti psichiatri.

Non importa che ci fossero poche prove sicure per collegare le variazioni
del funzionamento dei neurotrasmettitori ai sintomi della depressione o di
qualsiasi altro disturbo psichiatrico nel cervello vivo di pazienti non

32
Cozza M., Fiorillo G., Il nostro folle quotidiano, Manifestolibri srl, Roma, 2002
33
Ibidem.
28
sottoposti a cure, per quanto molti ricercatori stiano tentando di ottenere tali
prove e di tanto in tanto alcuni articoli annuncino che sono state trovate. E
non importa che la maggior parte dei nuovi farmaci intelligenti non si più
efficace dei loro predecessori sporchi nei confronti della depressione grave
o moderata: essi sono preferiti perché si ritiene che siano più sicuri e
abbiano meno “effetti indesiderati”.

Secondo N. Rose “ha preso ormai forma una certa mentalità, e una sempre più
grande fetta di psichiatri trova difficile scostarsene”. In questo stile di pensiero,
la spiegazione di qualsiasi patologia mentale deve “passare attraverso il cervello
e la sua neurochimica”34. Oggi si ritiene infatti, secondo questo autore, che la
diagnosi risulti più accurata quando riesce a collegare i sintomi con anomalie in
uno o più elementi quali neuroni, sinapsi, enzimi eccetera. E anche la
fabbricazione e l’azione dei farmaci psichiatrici sono concepite in questi termini.

Non che gli effetti biografici siano esclusi, ma la biografia – stress familiare,
abusi sessuali – ha effetto attraverso il suo impatto sul cervello. L’ambiente
gioca la sua parte, ma disoccupazione, povertà e simili producono effetti
solamente in quanto vanno a incidere su questo cervello. Le esperienze – per
esempio gli abusi di sostanze o i traumi – giocano la loro parte ma, ancora
una volta, attraverso il loro impatto su questo cervello neurochimico.35

Non si può inoltre non ammettere che la psichiatria sia oggi diventata uno
straordinario e lucroso mercato per l’industria farmaceutica. Soltanto le grandi
case farmaceutiche possono infatti permettersi, ad oggi, il capitale di rischio
richiesto per sperimentare e far autorizzare un qualunque nuovo farmaco
psichiatrico. Dato che la psichiatria contemporanea è in gran parte frutto degli
sviluppi avvenuti in campo psicofarmacologico, ciò significa che le decisioni
commerciali plasmano profondamente gli schemi del pensiero psichiatrico. A
tale proposito, Paul Rabinow sostiene che

34
Rose N., La politica della vita, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2008, p.342
35
Rose N., La politica della vita, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2008, cap. 7
29
La ricerca della verità non è più sufficiente a mobilitare la produzione di
conoscenza psichiatrica, la salute – o piuttosto il profitto ottenuto
promettendo salute – è ormai la principale forza motrice nello stabilire ciò
che è importante per la salute del malato mentale.36

Dice N. Rose che “individuare questo nuovo complesso medico-industriale e


segnalare il suo potere non significa di per sé criticarlo”37 poiché, in una
situazione tale per cui soltanto un investimento di capitale su larga scala è in
grado di produrre nuovi agenti terapeutici, simili connessioni di salute e
redditività potrebbero risultare l’unica condizione per la creazione di farmaci
efficaci.
Rose sostiene infatti che “un senso neurochimico di noi stessi si stia sempre più
sovrapponendo ad altre, più vecchie concezioni del sé e vi si faccia appello in
particolari contesti e situazioni, con conseguenze significative”.38Gli stessi
individui stanno infatti iniziando, secondo l’autore, a ricodificare cambiamenti
dell’umore, desideri, emozioni e pensieri in termini di funzionamento della loro
chimica cerebrale e ad agire su se stessi in base a tale visione. Concepire il
mondo in questo modo vuol dire immaginare che il disturbo risieda nel cervello e
nel suo funzionamento e significa perciò considerare i farmaci psichiatrici come
una prima linea di intervento, non soltanto per alleviare i sintomi, ma per
regolare e gestire queste anomalie neurochimiche. Rose conclude dicendo che

è certamente importante criticare l’uso di questi farmaci come agenti di


controllo, e mettere in evidenza le loro false promesse, i loro effetti
collaterali e le loro logiche bioeconomiche. E’ però altrettanto importante
essere consapevoli della vasta portata del cambiamento in virtù del quale i
farmaci stanno divenendo fondamentali per il modo di governare la nostra
condotta, da parte di noi stessi e degli altri.39

36
Rabinow P., Essays on the anthropology of reason, Princeton University Press, 1996
37
Rose N., La politica della vita, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2008, cap. 7
38
Ibidem.
39
Ibidem.
30
31
CAPITOLO 2

NEUROSCIENZE E DIRITTO

“E’ un malato di mente.


Per la legge quello che dice non conta nulla.
Perché è lui a non contare nulla.”

Da “L’uomo di vetro” di S. Incerti

2.1 Scienza e diritto: rapporto asimmetrico ma ineludibile


Le moderne neuroscienze cognitive rappresentano l’espressione di una visione
complessiva della natura umana che, in quanto tale, è destinata ad investire fin
dalle fondamenta l’architettura concettuale del sapere giuridico, costringendolo
comunque ad un profondo e inevitabile ripensamento. Già molti indizi, per
esempio nel campo della bioetica e dei diritti dell’uomo, annunciano la fine di
un’epoca, e l’alba di una nuova, dove i saperi scientifici e giuridici saranno
chiamati, entrambi, ad accogliere temi e problemi di inaudita complessità, per la
cui soluzione non sarà più possibile procedere separatamente.40
Il termine neuroscienze indica un gruppo di discipline scientifiche tra loro assai
eterogenee, ma che condividono un fondamentale programma comune: quello di
comprendere come il cervello renda possibili i fenomeni mentali ed i
comportamenti umani, anche quelli più complessi e tradizionalmente considerati
inaccessibili all’indagine scientifica. Non più – come si diceva fino a pochi anni
fa – la comprensione dei rapporti fra cervello e mente, ma lo studio di come la
mente emerga dal suo substrato biologico, il cervello appunto.
Il riferimento di tutte le neuroscienze è il cervello, la cui struttura e
funzionamento vengono ovviamente indagati con i metodi propri delle scienze
naturali. La neuropsicologia classica si situa all’origine delle moderne
neuroscienze. Il risultato dell’incontro tra discipline psicologiche e neuroscienze

40
Bianchi A., Neuroscienze e diritto: spiegare di più per comprendere meglio in Bianchi A.,
Gulotta G., Sartori G. (a cura di), Manuale di neuroscienze forensi, Giuffrè editore, Milano,
2009, introduzione.
32
è detto neuroscienze cognitive ed è caratterizzato da un percorso logico che
consiste nel risalire all’indietro dall’esperienza fenomenica e dal comportamento
verso componenti elementari misurabili, chiamati endofenotipi, e da questi ai
rispettivi correlati neurobiologici (anatomici, fisiologici, biochimici ecc.), ed
infine ai determinanti genetici, esplorandone a fondo i meccanismi di
funzionamento molecolare. Oltre che al cervello e ai geni, molta importanza
viene pure attribuita all’evoluzione, cioè ai processi regolatori che presiedono
all’emergere e sopravvivere delle specie viventi. Le neuroscienze conferiscono
poi molta importanza ai fattori culturali, educativi ed ambientali che sono
all’opera nel modellare e rendere unica la storia individuale di ciascuno.
Nonostante l’interesse per lo studio del cervello sia molto più vecchio delle
moderne neuroscienze, fino a pochi anni fa i fenomeni mentali – soprattutto
quelli maggiormente legati all’esperienza soggettiva, cioè quelli vissuti in prima
persona – continuavano a essere considerati come entità accessibili alla sola
indagine introspettiva. In quest’ottica, la conoscenza del substrato biologico dei
processi mentali era considerata superflua se non addirittura inopportuna. I
comportamenti umani erano considerati come il risultato di complesse interazioni
sociali e, come tali, comprensibili soltanto alla luce delle molteplici influenze
ambientali e contestuali.
Malgrado gli sforzi della comunità scientifica, questo modello continua ad
esercitare una silenziosa influenza su molti uomini di legge.41 E’ abbastanza
singolare, per esempio, che le neuroscienze vengano accusate di annientare la
nozione di responsabilità personale solo per il fatto di svelare la natura
biologicamente condizionata dell’azione. Mentre il contributo dei
condizionamenti ambientali viene pacificamente accettato, quello dei fattori
propriamente biologici, per non parlare di quelli genetici, viene solitamente
considerato con sospetto e comunque circoscritto alla presenza di eventuali

41
Gulotta G., Dal giusto processo al processo giusto, psicologicamente parlando in L. De
Cataldo Neuburger (a cura di), La prova scientifica nel processo penale, Cedam, Padova, 2007,
pp. 525 – 549
33
impedimenti di natura patologica, da considerare come l’eccezione e di certo non
valevoli come regola.42
Il fatto è che, mentre fino a pochi anni fa lo studio del cervello poteva essere
considerato un sapere settoriale e circoscritto alla patologia, si assiste oggi ad uno
spettacolare estendersi dell’approccio neuroscientifico alla comprensione di
come gli esseri umani pensano, prendono decisioni ed agiscono non solo in
condizioni patologiche ma nel normale svolgimento delle loro attività.
Non c’è oramai aspetto della personalità – da quello economico a quello etico,
estetico, perfino religioso – che non sia già, in un modo o nell’altro, entrato nel
campo d’indagine nelle moderne neuroscienze: si tratta di un movimento inerente
allo sviluppo stesso del pensiero scientifico contemporaneo.43
Anche il rapporto tra scienza e diritto diventa perciò ineludibile.
La genetica comportamentale, la sociobiologia, la psicologia evoluzionistica, la
neurochimica e anche le neuroscienze cognitive evoluzionistiche hanno segnalato
sperimentalmente – ciascuno dal suo punto di vista – delle correlazioni tra
organismo e comportamento che fino a ieri erano sconosciute.
Siamo alle soglie di un nuovo paradigma scientifico. Si parla addirittura di
rivoluzione neuroscientifica. D’altronde, è previsto che nella versione del DSM –
V, programmata per il 2013, vengano introdotte le neuroscienze tra i parametri
per definire i disturbi psicopatologici.
E’ praticamente accettato dal mondo del diritto che un trauma cranico (che
attiene al cervello), per esempio causato da un incidente stradale, possa mutare
componenti psichiche e comportamentali.44
Per questi motivi il nuovo paradigma ha fomentato un dibattito concernente il
libero arbitrio e il determinismo quali precondizioni che giustificano, negano o
limitano la responsabilità morale e penale.

42
Bianchi A., Neuroscienze e diritto: spiegare di più per comprendere meglio in Bianchi A.,
Gulotta G., Sartori G. (a cura di), Manuale di neuroscienze forensi, Giuffrè editore, Milano,
2009, introduzione.
43
Ibidem.
44
Bianchi A., Gulotta G., Sartori G., Manuale di neuroscienze forensi, Giuffrè editore, Milano,
2009
34
Resta però il fatto, come sostiene G. Gulotta, che il discorso scientifico e quello
giudiziario sono asimmetrici.45

La scienza cerca di stabilire come stanno le cose utilizzando le metodologie


più adatte alla ricerca. Il mondo giudiziario persegue degli ideali di giustizia
attraverso regole ferree indicate dalla procedura penale. Detto in altro modo,
la scienza si pone delle questioni che il mondo forense non considera, e la
legge pone alla scienza delle questioni cui essa non è in grado di rispondere.
Quando lo scienziato si chiede se l’inconscio attenga solo alla sfera
cognitiva o anche a quella motivazionale, l’importanza di questa distinzione
sembra sfuggire alle necessità forensi. D’altronde, chiedere a un
neuropsicologo se una persona ha un “vizio di mente”, come vuole il codice
penale, significa porre una domanda alla quale egli non sa rispondere. […]
C’è da aspettarsi che, almeno per qualche tempo, di fronte a un’ipotesi
basata biologicamente, scientificamente più forte ma meno informativa
sull’individuo, ed un’ipotesi psicologica che è più informativa sulla persona
ma meno forte scientificamente, il mondo forense sceglierà la seconda.46

Ciò, al contrario di quanto accade solitamente. L’autore continua illustrando


come una ricerca del 200847 abbia evidenziato che una spiegazione di fenomeni
psicologici appaia ai non addetti ai lavori più credibile se interpretata con
parametri neuropsicologici, anche irrilevanti. Gulotta, pur delineando la concreta
applicabilità del paradigma delle neuroscienze a svariati aspetti del mondo
forense, ammonisce così a restare cauti rispetto a un generico “neoriduzionismo”
e a guardarsi quindi da quella sorta di “neuro amanti” che prevedono il
comportamento sulla base di pochi dati neuropsichici.48

45
Gulotta G., La responsabilità penale nell’era delle neuroscienze in Bianchi A., Gulotta G.,
Sartori G. (a cura di), Manuale di neuroscienze forensi, Giuffrè editore, Milano, 2009
46
Ibidem.
47
Weisberg D.S., Keil F.C., Goodstein J., Rawson E., & Gray J.R., “The seductive allure of
neuroscience explanation” in Journal of cognitive neuroscience, 20 (3), 2008, pp. 470 – 477
48
Gulotta G., La responsabilità penale nell’era delle neuroscienze in Bianchi A., Gulotta G.,
Sartori G. (a cura di), Manuale di neuroscienze forensi, Giuffrè editore, Milano, 2009
35
2.2 Capacità d’intendere e volere e disturbi della personalità
La legge è, nella sua essenza, un sistema di regole e di istituzioni che le società –
raggiunto un certo grado di sviluppo civile – si danno allo scopo di guidare
l’azione dei propri membri verso obiettivi riconosciuti come desiderabili. In
quanto tale, la legge condivide alcune sue caratteristiche con altri sistemi di guida
dell’azione, come la religione, la moralità e il costume. A differenza di questi
ultimi, tuttavia, la legge è creata e fatta rispettare dallo Stato.49

Per poter realizzare efficacemente la propria missione fondamentale, la


legge necessita di alcuni postulati – di natura eminentemente pratica ed
operativa – circa la persona umana ed il suo funzionamento.
Il concetto giuridico di persona assume che il soggetto umano debba essere
considerato un agente razionale, capace di scegliere autonomamente sulla
base delle proprie credenze, desideri ed intenzioni. La legge lo guida
mostrandogli i limiti e le conseguenze delle diverse azioni possibili, lo
punisce se sceglie di comportarsi in modo sbagliato, ed altresì lo protegge
qualora il suo comportamento non possieda più (o non possieda ancora) i
requisiti minimi per poter essere considerato razionale, autodeterminato e
quindi responsabile.50

Il codice penale, in sostanza, dichiara non punibile chi non è capace di intendere
e di volere al momento del fatto. Il codice porta a ritenere che la ragione
principale per cui una persona può essere incapace di intendere e di volere sia un
vizio totale di mente oppure un vizio parziale di mente, determinato da una
infermità.51
Il compito di stabilire se il comportamento del soggetto in esame possieda o
meno i requisiti per essere considerato razionale e libero – ciò che in ultima

49
Morse S., New neurosciences, old problems, In Garland B. (Ed.), Neurosciences and Law:
Brain, Mind and the scales of justice, Diana Press, New York, 2004.
50
Bianchi A., Neuroscienze e diritto: spiegare di più per comprendere meglio in Bianchi A.,
Gulotta G., Sartori G. (a cura di), Manuale di neuroscienze forensi, Giuffrè editore, Milano,
2009, introduzione.
51
Gulotta G, Capacità d’intendere e volere e disturbi della personalità in Chiavario M., Nuove
tecnologie e processo penale – Giustizia e scienza: saperi diversi a confronto, G. Giappichelli
Editore, Torino, 2006
36
analisi corrisponde alla nozione giuridica di capacità di intendere e di volere –
spetta esclusivamente, negli ordinamenti giuridici moderni, al giudice: nessun
apporto scientifico, per quanto solidamente fondato su evidenze oggettive – potrà
mai sostituirsi né minimamente intaccare questa prerogativa squisitamente
ermeneutica del giudice.
Nel concreto esercizio della giustizia, nonostante l’apporto via via crescente delle
scienze ausiliarie, il confine epistemologico tra compito scientifico e compito
giuridico non si è spostato di un millimetro: dica la scienza tutto quello che può e
che deve essere detto affinché il giudice possa vagliare in profondità il
comportamento e la personalità dell’agente, ma sia ben chiaro che il giudizio su
quest’ultimo – comportamento e personalità dell’agente – spetta all’interprete, e
non allo scienziato.52
Con il progressivo erodersi e franare dei rigidi confini tra malattia e normalità –
processo reso inarrestabile dalle moderne neuroscienze, ma già annunciato
dall’indagine psicanalitica – neppure la tradizionale scappatoia nosografica
(consistente nel circoscrivere l’ambito di competenza delle scienze alle sole
condizioni patologiche) potrà a lungo continuare. Basti pensare al controverso
tema dei disturbi di personalità (pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione, Sentenza 8 marzo 2005, n. 9163), sempre in bilico tra malattia e
descrizione del carattere, oppure al venir meno della rigida dicotomia tra
incapacità e capacità di agire, sostituita da un approccio (legge 9 gennaio 2004,
n.6) che riconosce un continuum ininterrotto tra la piena autonomia decisionale e
la completa incapacità di provvedere ai propri interessi.

E tuttavia, nel caso delle scienze della psiche, si poteva pur sempre parlare
di conflitti d’interpretazione, o al massimo di conflitti di competenze,
comunque confinati entro il contratto di adesione alle regole del discorso
giuridico.

52
Bianchi A., Neuroscienze e diritto: spiegare di più per comprendere meglio in Bianchi A.,
Gulotta G., Sartori G. (a cura di), Manuale di neuroscienze forensi, Giuffrè editore, Milano,
2009, introduzione.
37
Al contrario, ciò che le neuroscienze sembrano mettere radicalmente in
questione è proprio il fondamento del discorso giuridico. Pretendere di
assimilare tout court la soggettività umana agli altri oggetti d’indagine
scientifica, svelare o decostruire i concetti – libertà, coscienza,
intenzionalità, responsabilità – con cui una tradizione millenaria aveva
finora espresso, ma anche protetto, la differenza tra uomo e natura: tutto
questo davvero rappresenta una sfida radicale.53

Per quanto riguarda la sentenza 9163/2005, le Sezioni Unite Penali hanno


stabilito che

i "disturbi della personalità", come quelli da nevrosi e psicopatie, possono


costituire causa idonea ad escludere o grandemente scemare, in via
autonoma e specifica, la capacità di intendere e di volere del soggetto agente
ai fini degli articoli 88 e 89 c.p., sempre che siano di consistenza, intensità,
rilevanza e gravità tali da concretamente incidere sulla stessa; per converso,
non assumono rilievo ai fini della imputabilità le altre "anomalie
caratteriali" o gli "stati emotivi e passionali", che non rivestano i suddetti
connotati di incisività sulla capacità di autodeterminazione del soggetto
agente; è inoltre necessario che tra il disturbo mentale ed il fatto di reato
sussista un nesso eziologico, che consenta di ritenere il secondo causalmente
determinato dal primo.54

Secondo Fornari, il senso di questa pronuncia, importante e pluriarticolata, è


assai restrittivo: non è assolutamente vero che le Sezioni Unite hanno, per spirito
di buonismo, aperto la porta della non imputabilità ai disturbi di personalità come
tali, bensì hanno specificato che i disturbi di personalità rilevano a fini forensi
solo quando integrano gli estremi di una vera e propria psicosi. Più volte i
giudici riprendono questo concetto, più volte ribadiscono questo principio e
parlano di qualche cosa che è grave, è intenso, è rilevante, e non di disturbi di

53
Ibidem.
54
Cass. Pen. 9136/2005
38
personalità tout court.55 Alla base del principio stabilito dalle Sezioni Unite sta il
concetto di c.d. “funzionamento mentale”: il disturbo di personalità non
acquisisce rilevanza giuridica nel senso di categoria diagnostica generale; però
anche al disturbo di personalità può essere riconosciuta la natura di infermità
giuridicamente rilevante, purché esso abbia inciso significativamente sul
funzionamento dei meccanismi intellettivi e volitivi del soggetto.
E’ come se si precisasse che al giudice non interessa tanto conoscere la diagnosi
clinica della persona in questione, quanto ricostruire come ha funzionato
mentalmente quel soggetto, autore o vittima di reato, in riferimento all’atto
commesso o subito. Quindi, la condizione di infermità non comprende più solo
l’aspetto categoriale, la diagnosi, l’accertamento della patologia da cui è affetta
quella persona (diagnosi dalla quale, peraltro, non si può prescindere: il
“contenitore” clinico deve essere comunque costruito), ma deve anche prevedere
un approccio di tipo dinamico-funzionale. Quindi occorre passare dal “che cosa
ha” al “chi è” quella persona; in questo modo la diagnosi categoriale e quella
funzionale diventano due aspetti complementari del processo diagnostico e
valutativo; in particolare, solo così si può arrivare, passo dopo passo, ad accertare
se un disturbo di personalità sia o meno grave.56
Nei due manuali statistici più utilizzati per formulare la diagnosi psichiatrica, il
D.S.M.-IV di matrice americana e l’I.C.D.-10 nei Paesi europei, la categoria dei
Disturbi Gravi di Personalità non è contemplata; tuttavia, nel secondo gruppo di
disturbi di personalità, si ritrova il disturbo borderline di personalità.

Il disturbo borderline rappresenta per la psichiatria moderna un contenitore


spesso generico, aspecifico e omnicomprensivo; nella storia, gli psichiatri
hanno costruito analoghi contenitori: la monomania, la pazzia morale,
l’isteria e infine il borderline. In realtà, sotto il profilo della classificazione
dei disturbi di personalità, il termine borderline, più che un disturbo,
individua un funzionamento di personalità. Il disturbo borderline è

55
Fornari U., Una sentenza “storica” e il suo inquadramento in Chiavario M., Nuove tecnologie
e processo penale – Giustizia e scienza: saperi diversi a confronto, G. Giappichelli Editore,
Torino, 2006.
56
Ibidem.
39
caratterizzato sì dagli indicatori specificati in modo chiaro nel D.S.M.-IV e
nell’I.C.D.-10; tuttavia, accanto al disturbo, esiste l’organizzazione o
funzionamento borderline.
La presenza o meno di questo tipo di funzionamento permette di porre una
distinzione importante tra un disturbo di personalità “lieve” e un disturbo di
personalità “grave”, indipendentemente dalla diagnosi fatta. In altre parole,
la gravità dei disturbi di personalità, non deriva dalla classe, dalla diagnosi,
ma dal fatto che esista o meno un funzionamento borderline all’interno di
quella diagnosi di disturbo di personalità. Questo aspetto è fondamentale:
quando il disturbo di personalità funziona in maniera borderline, quello è un
disturbo “grave” di personalità; quando non funziona in maniera borderline,
si tratta di un disturbo di personalità “semplice”.57

Il disturbo di personalità è un disturbo che deve comparire nell’adolescenza o


nella prima giovinezza e deve essere connotato da tratti comportamentali
pervasivi, deve cioè compromettere in maniera evidente, notevole, rilevante le
abilità sociali e affettivo-relazionali del soggetto. A livello psicodinamico, i
disturbi di personalità sono caratterizzati, al di là della declinazione
comportamentale, da un’immagine di sé stabile e da un funzionamento dell’Io
unitario: in altre parole, l’Io, in presenza di disturbi di personalità, non perde mai
la sua unitarietà. In questo tipo di disturbi, non si rilevano comportamenti
autodistruttivi, né significativi sbalzi d’umore o stati di rabbia immotivata che,
invece, caratterizzano i gravi disturbi di personalità.
I disturbi gravi di personalità, invece, sono caratterizzati da un funzionamento
borderline con delle costanti, dei tratti, cioè, che connotano i disturbi di
personalità e si ripropongono come caratterizzanti il disturbo stesso,
perpetuandosi nel tempo, tanto da dare luogo a uno “stile borderline”. Tali
indicatori, tali costanti, sono fondamentalmente i seguenti: esplosione di rabbia
immotivata e repentina, intensa disforia, instabilità nei rapporti interpersonali.
Senza questi tre fondamentali indicatori non è possibile formulare una diagnosi
di disturbo borderline. Si possono inoltre verificare episodi di acuzie in cui sono

57
Ibidem.
40
alterati il sentimento o l’esame di realtà: in cui questi momenti, il disturbo grave
di personalità arriva ad identificarsi con uno scompenso psicotico o
parapsicotico.
Il punto cruciale del problema, secondo U. Fornari, diviene dunque quello di
diagnosticare l’eventuale funzionamento psicotico della persona che si sta
esaminando. Questa operazione, fondamentale nell’attività clinica in tema di
accertamento della presenza di un disturbo psicotico, risulta altrettanto cruciale
nella individuazione di un disturbo grave di personalità.
Ma, mentre il clinico si occupa del disturbo grave di personalità nei suoi aspetti
diagnostici categoriali e funzionali, lo psichiatra forense deve aver riguardo non
tanto alla persistenza e al ripetersi degli episodi, quanto alla presenza degli
indicatori di acuzie, di rottura, di scompenso nello specifico momento in cui
l’atto è stato posto in essere, cioè il significato di malattia, o meglio, di infermità
dell’atto. 58
G. Gulotta si sofferma invece su un brano importante della sentenza: «tali
disturbi della personalità rientrano nella categoria delle psicopatie, ben distinta,
come è noto, da quella delle psicosi, queste ultime considerate anche dalla
giurisprudenza di questa Corte» per sottolineare come le Sezioni Unite, con la
sentenza in oggetto, abbiano aperto la porta ai disturbi della personalità come
aspetti rilevanti nell’individuare la presenza in capo al reo di un vizio di mente.
G. Gulotta ritiene però che, al di là dell’importanza da attribuirsi al DSM, per
risolvere il problema dell’imputabilità sia anzitutto necessario chiedersi –
partendo proprio dal codice penale che prevede come debba considerarsi
imputabile chi possieda la capacità di intendere e di volere al momento del fatto
– che cosa significhi intendere e cosa significhi volere, sapendo che venendo a
mancare una qualsiasi delle funzioni proprie del primo o del secondo, il soggetto
non potrà considerarsi imputabile.
Il punto fondamentale per tale autore è, infatti,

58
Ibidem.
41
che deve essere possibile far risalire la realizzazione del fatto all’ambito
della facoltà di controllo e di scelta del soggetto. La volontà umana si
definirebbe infatti libera soltanto nella misura in cui il soggetto non
soccomba passivamente agli impulsi psicologici che lo spingono ad agire in
un determinato modo, ma riesca ad esercitare poteri di inibizione e di
controllo idonei a consentirgli scelte consapevoli e motivi antagonistici.59

L’intendere è «la capacità di comprendere gli elementi salienti delle situazioni,


comprendere il significato delle proprie intenzioni, comprendere le conseguenze
delle proprie azioni»; il volere è «la capacità di pianificare le proprie azioni,
intenzionando, tenuto conto della situazione, rischio e opportunità, adeguare le
proprie azioni alle proprie intenzioni, controllare le proprie azioni
cognitivamente e durante il loro svolgimento».
A prescindere dal tipo di disturbo individuato, la via da percorrere sarà dunque
quella di ricercare, volta a volta, in quale modo il disturbo in questione possa
incidere sulla capacità di intendere o su quella di volere.60

2.3 Un passo indietro: il concetto di imputabilità


L'imputabilità è una condizione personale del reo e costituisce, a prescindere
dalle diverse interpretazioni dottrinali esistenti sul suo rapporto con la
colpevolezza, il presupposto per l'applicazione della pena all'autore del fatto.
L'imputabilità del reo sussiste allorché, al momento della commissione del fatto,
egli possieda: la capacità di intendere, cioè di rendersi conto della realtà e delle
sue azioni, e la capacità di volere, intesa come potere di controllo dei propri
stimoli e impulsi ad agire.
Non esiste, peraltro, perfetta coincidenza tra la capacità naturale e l'imputabilità
in quanto quest'ultima sussiste anche ove l'incapacità naturale sia stata
volontariamente o colposamente determinata dall'autore del fatto.

59
Gulotta G, Capacità d’intendere e volere e disturbi della personalità in Chiavario M., Nuove
tecnologie e processo penale – Giustizia e scienza: saperi diversi a confronto, G. Giappichelli
Editore, Torino, 2006
60
Ibidem.
42
Diverse sono le teorie che hanno tentato di individuare il fondamento
dell'imputabilità nell'ambito del sistema penale.
Secondo la teoria del libero arbitrio, considerando la natura retributiva della
pena, il soggetto incapace di intendere la realtà e di autonomi processi volitivi, a
cagione di determinate situazioni personali non sarebbe assoggettabile a pena in
quanto non rimproverabile.
Secondo la teoria dell'intimidazione, l'imputabilità sarebbe presupposto per
l'applicazione della pena in quanto, in difetto di capacità di intendere e volere, il
soggetto non subirebbe la coazione psicologica della pena che si rivelerebbe,
pertanto, del tutto inefficace.
Secondo la teoria positiva, invece, la distinzione tra imputabili e non imputabili
non avrebbe senso in quanto tutto il sistema sanzionatorio penale sarebbe
incentrato non sulla responsabilità individuale ma sulla responsabilità sociale,
sicché, di fronte a fatti che mettano in pericolo o ledano interessi che la società
ritiene meritevoli di tutela, la società stessa reagisce, a seconda delle condizioni
personali del reo, con misure di "sicurezza" in senso ampio di diversa natura
(pene per i soggetti dotati di capacità di intendere e di volere, misure di sicurezza
per i soggetti che ne siano privi).61
Il codice penale stabilisce agli articoli da 88 a 98, alcuni casi in cui l'imputabilità
è esclusa o diminuita. Si tratta di minore età, infermità di mente, sordomutismo,
ubriachezza e azione di stupefacenti, quindi di cause di natura fisiologica,
patologica e tossica.
Secondo la giurisprudenza, in ogni caso, onde dichiarare il proscioglimento
dell'imputato in quanto non imputabile, è necessario verificare che sussistano i
presupposti materiali e di colpevolezza del reato.
Per quanto riguarda la minore età, per espressa previsione dell'art. 97 «non è
imputabile chi al momento in cui ha commesso il fatto non aveva compiuto
quattordici anni». Il legislatore ha dunque fissato una volta per tutte una
presunzione iuris et de iure di imputabilità del minore degli anni 14, il quale
tuttavia, se giudicato socialmente pericoloso, può essere sottoposto alla misura di

61
http://www.diritto-penale.it/l-imputabilita.htm consultato il 18.01.2011
43
sicurezza del ricovero in un riformatorio giudiziario o quella della libertà
vigilata.
Nel caso dei minori ricompresi tra gli anni 14 e gli anni 18 l'imputabilità va
giudicata caso per caso, in concreto ed in relazione al fatto commesso. Il giudice
dovrà dunque appurare la concreta capacità di intendere e di volere del minore
degli anni 18 al momento in cui ha commesso il fatto. In caso di mancanza di tale
capacità il minore non è punibile. Nel diverso caso in cui il minore degli anni 18
è capace di intendere e di volere al momento della commissione del fatto viene
considerato punibile, ma la pena è diminuita, si parla allora di semimputabilità.
Riguardo all’'infermità di mente, ai fini della imputabilità il codice penale
distingue il vizio totale di mente e il vizio parziale di mente.
Il vizio totale di mente si ha, ai sensi dell'art. 88, allorché colui che ha commesso
il fatto «era per infermità in tale stato di mente da escludere la capacità di
intendere e di volere». La conseguenza è la non punibilità dell'agente. In tal caso
però il giudice potrà disporre la misura di sicurezza dell'ospedale psichiatrico
giudiziario, ma solo ove accerti in concreto gli estremi della pericolosità sociale.
Il vizio parziale di mente si ha, in base all'art. 89, allorché colui che ha commesso
il fatto «era per infermità in tale stato di mente da scemare grandemente senza
escludere la capacità di intendere e di volere». In tal caso il soggetto risponderà
egualmente del reato commesso, ma la pena è diminuita.
In caso di sordomutismo, sancisce l'art. 96 che «non è imputabile il sordomuto
che, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva per causa della sua
infermità, la capacità di intendere e di volere». Anche in tal caso, come già per
l'infermità di mente, qualora il sordomutismo non escluda, ma limiti grandemente
la capacità di intendere e di volere, la punibilità non è esclusa e la pena è
diminuita.
L'ubriachezza può essere definita come una alterazione temporanea e reversibile
dei processi cognitivi e volitivi di un soggetto in seguito alla ingestione di
sostanze alcoliche. Il codice penale, in relazione all'imputabilità, distingue
l’ubriachezza accidentale o fortuita, l’ubriachezza volontaria o colposa, ovvero
preordinata, l’ubriachezza abituale e la cronica intossicazione.

44
In caso di ubriachezza che deriva da caso fortuito o forza maggiore, l’art. 91
recita che «non e’ imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non
aveva la capacità d’intendere o di volere, a cagione di piena ubriachezza derivata
da caso fortuito o da forza maggiore. Se l’ubriachezza non era piena, ma era
tuttavia tale da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità di intendere o
di volere, la pena è diminuita».
L'ubriachezza volontaria o colposa è così trattata dal codice penale:
«L’ubriachezza non derivata da caso fortuito o da forza maggiore non esclude ne’
diminuisce l’imputabilità. Se l’ubriachezza era preordinata al fine di commettere
il reato, o di prepararsi una scusa, la pena e’ aumentata».
L’art. 93, relativo ai fatti commessi sotto effetto di sostanze stupefacenti, recita
che «le disposizioni dei due articoli precedenti si applicano anche quando il
fatto e’ stato commesso sotto l’azione di sostanze stupefacenti».
Per quanto concerne l’ubriachezza abituale, l’art. 94 sancisce che «quando il
reato e’ commesso in stato di ubriachezza, e questa e’ abituale, la pena e’
aumentata. Agli effetti della legge penale, e’ considerato ubriaco abituale chi
e’dedito all’uso di bevande alcooliche e in stato frequente di ubriachezza.
L’aggravamento di pena stabilito nella prima parte di questo articolo si applica
anche quando il reato e’ commesso sotto l’azione di sostanze stupefacenti da chi
e’ dedito all’uso di tali sostanze».
L’art. 95, infine, parla di cronica intossicazione da alcool o sostanze stupefacenti
stabilendo che «Per i fatti commessi in stato di cronica intossicazione prodotta da
alcool ovvero da sostanze stupefacenti, si applicano le disposizioni contenute
negli articoli 88 e 89».
Per quanto concerne gli stati emotivi e passionale, il codice penale sancisce,
all’art. 90 che essi «non escludono né diminuiscono l’imputabilità».

2.4 La valutazione della capacità di agire nei pazienti affetti da demenza


Per demenza si intende genericamente una condizione di disfunzione cronica e
progressiva delle funzioni cerebrali che porta a un declino delle facoltà cognitive
della persona. Nella definizione generica di “demenza” rientrano diverse

45
malattie, alcune classificabili come demenze primarie, come la malattia di
Alzheimer, la demenza con i corpi di Lewy, la demenza frontotemporale, e altre
invece definite secondarie, in quanto conseguenza di altre condizioni, come ad
esempio la demenza da AIDS.62
Nella gestione dei pazienti affetti da demenza un problema che sempre si pone è
quello della valutazione della loro capacità di agire, o capacità naturale. Essa
viene definita dai giuristi come la capacità di decidere o di compiere azioni che
possono avere un rilievo giuridico per la persona stessa o per gli altri.63
Il legislatore, quando elabora norme sulla capacità, è mosso dall’intento di voler
proteggere sia l’autonomia del cittadino, cui è riconosciuto il diritto di decidere
per se stesso anche qualora prenda decisioni che appaiono alla maggior parte
degli altri contrarie ai suoi interessi, sia la sua protezione rispetto ai danni che
possono derivargli da decisioni assunte quando egli non sia più in grado di
esercitare la propria autonomia.
Esclusi i casi in cui la capacità di agire è chiaramente assente (come nel caso di
pazienti in coma), la regola che si desume dal contesto giuridico vuole che la
capacità di agire dei malati venga presunta fino a prova contraria. Il dovere di
provare un’eventuale incapacità ricade sul medico, il quale dovrà procedere a una
valutazione formale; l’incapacità va perciò dimostrata volta per volta.
Grisso e Appelbaum, due studiosi americani, hanno lavorato a lungo su questo
problema arrivando a stilare alcuni principi fondamentali relativi all’incapacità: il
primo di essi è che “l’incapacità per definizione è correlata con uno stato mentale
alterato ma non si identifica con esso”.64 Ciò sta a significare che, al contrario di
ciò che si credeva in passato, non può bastare la semplice diagnosi di malattia
mentale per affermare l’incapacità del soggetto. Numerosi studi clinici hanno
infatti confermato che circa il 50 per cento di malati mentali in fase acuta
ricoverati in reparti psichiatrici sono in grado, ad esempio, di dare il proprio
62
http://www.epicentro.iss.it/problemi/demenza/demenza.asp consultato il 21.01.2011
63
Defanti C.A., Martina A., Sacco L., La valutazione della capacità di agire nei pazienti con
demenza, in Bianchi A., Gulotta G., Sartori G. (a cura di), Manuale di neuroscienze forensi,
Giuffrè editore, Milano, 2009, p.383
64
Appelbaum P.S., Grisso T., Il consenso alle cure: guida alla valutazione per medici e altri
operatori sanitari, edizione italiana e presentazione a cura di U. Fornari, Centro Scientifico
Editore, Torino, 2000
46
consenso informato al trattamento. La malattia mentale o la demenza
rappresentano perciò fattori di rischio per l’incapacità, ma non la comportano
inevitabilmente.65
Il secondo principio recita che “l’incapacità si correla a uno o più deficit
funzionali”.
Il terzo principio sostiene che “l’incapacità deve essere correlata alle richieste
della situazione in cui il paziente si trova”. Mentre in passato i giuristi tendevano
a considerare l’incapacità come una caratteristica dell’individuo a prescindere
dalle richieste della situazione che ha di fronte, oggi si considera la capacità
sempre come relativa al compito che la persona ha di fronte.
Per il quarto principio, l’incapacità va correlata alle conseguenze della decisione.
Infine, per il quinto principio, la capacità può variare nel tempo, sia in
decrescendo che in crescendo, e ciò può avvenire in tempi lunghi, ma anche in
tempi brevi o brevissimi.

65
Defanti C.A., Martina A., Sacco L., La valutazione della capacità di agire nei pazienti con
demenza, in Bianchi A., Gulotta G., Sartori G. (a cura di), Manuale di neuroscienze forensi,
Giuffrè editore, Milano, 2009, p.385 sgg.
47
CAPITOLO 3

LA PERCEZIONE SOCIALE DEL DISAGIO MENTALE E DEI


“FOLLI REI”

3.1 Le rappresentazioni sociali


Si deve a Serge Moscovici l’elaborazione della nozione di rappresentazione
sociale come oggetto di studio privilegiato della psicologia sociale. Secondo
questo autore, la psicologia sociale rappresenta una manifestazione del pensiero
scientifico e, quindi, quando studia il sistema cognitivo, essa postula che
l’individuo normale reagisce ai fenomeni, alle persone e agli eventi nello stesso
modo in cui reagiscono gli scienziati e, inoltre, la comprensione consiste
nell’elaborazione delle informazioni.

In altre parole, noi percepiamo il mondo, quale esso è, e tutte le nostre


percezioni, idee ed attribuzioni sono delle risposte a degli stimoli
provenienti dall’ambiente fisico o quasi-fisico in cui viviamo. Ciò che ci
distingue è il bisogno di valutare persone, animali ed oggetti correttamente
per poter capire interamente la realtà […] E tuttavia mi sembra che alcuni
fatti comuni contraddicano questi due postulati:
a) In primo luogo, l’osservazione, che ci è familiare, che non siamo
consapevoli di alcune delle cose più ovvie, che non riusciamo a vedere
quello che sta proprio di fronte a noi. E’ come se la nostra vista o
percezione si fosse alterata cosicché una certa classe di persone, o per la
loro età – per esempio, gli anziani per i giovani e i giovani per gli
anziani – o per la loro razza – per es., i negri per alcuni bianchi –
diventano invisibili quando, a tutti gli effetti, “ci guardano dritto negli
occhi”. […]
Questa invisibilità non è dovuta ad alcuna mancanza di informazioni
provenienti dall’occhio, ma solo ad una frammentazione preesistente
della realtà […]

48
b) In secondo luogo, possiamo osservare spesso che alcuni fatti che
davamo per scontati, che erano basilari per la nostra comprensione e per
il nostro comportamento, tutto ad un tratto si rivelano essere delle pure
illusioni. […] Noi distinguiamo l’apparenza dalla realtà delle cose, ma
facciamo questa distinzione precisamente perché siamo in grado di
passare dall’apparenza alla realtà per mezzo di una nozione o
un’immagine.
c) In terzo luogo, le nostre reazioni agli eventi, le risposte agli stimoli sono
rapportate ad una certa definizione, comune a tutti i membri della
comunità cui apparteniamo. 66

In ciascuno di questi casi, spiega Moscovici, possiamo osservare che


intervengono delle rappresentazioni che ci guidano verso ciò che è visibile e a cui
dobbiamo rispondere, oppure che collegano l’apparenza con la realtà o, ancora,
che definiscono tale realtà. Per quanto riguarda la realtà quindi queste
rappresentazioni sono tutto ciò di cui disponiamo.
Possiamo perciò riassumere dicendo, sempre con le parole di Moscovici, che con
l’espressione rappresentazione sociale intendiamo una serie di concetti, asserti e
spiegazioni che nascono nella vita di tutti i giorni nel corso delle comunicazioni
interpersonali. Tali rappresentazioni sono, nella nostra società, l’equivalente dei
miti e delle credenze nelle società tradizionali; possono essere addirittura
considerate la versione contemporanea del senso comune.67
Esse sono elementi essenziali della cultura “data”, nella quale ognuno di noi si
trova ad essere inserito, e che vengono condivise da un gruppo ampio e spesso
ben strutturato di persone – nazione, o classe sociale ad esempio.
Secondo Moscovici, una delle funzioni principali delle rappresentazioni sociali è
dunque quella di dare corpo alle idee che circolano nella società,
concretizzandole nelle esperienze delle persone e permettendo quindi una
comunicazione comprensibile.

66
Moscovici S., Il fenomeno delle rappresentazioni sociali, in Farr M., Moscovici S. (a cura di),
Rappresentazioni sociali, Società editrice Il Mulino, Bologna, 1989, p. 24
67
Moscovici, La psychanalise, son image et son public, Presses Universitaires da France, Paris,
1961 (2^ ed. 1976)
49
Per dirla con le parole di Paola Villano, ricercatrice in psicologia sociale, le
rappresentazioni sociali sono dei sistemi di valori e di idee con una logica e un
linguaggio a priori.68 Esse sono utili per la scoperta e l’organizzazione della
realtà e svolgono una duplice funzione: da una parte, creano un ordine per
permettere alle persone di orientarsi nel loro mondo sociale e materiale, dando
loro la possibilità di dominarlo; dall’altra, rendono possibile la comunicazione tra
i membri di una comunità, fornendo loro un linguaggio utile per lo scambio
reciproco.
Lo studio delle rappresentazioni sociali e l’analisi delle sue dinamiche è
importante per comprendere come il contenuto di una teoria, una conoscenza
scientifica o un problema rilevante si trasforma in un oggetto sociale e come la
mente umana opera per catturare e fare proprie nuove informazioni.69

3.2 Categorizzazione sociale, stereotipi e pregiudizi


Le nostre reazioni di fronte al disagio psichico ed il nostro modo di porci di
fronte alla malattia mentale sono condizionati dalla categorizzazione sociale e
dalle sue implicazioni nella formazione dei concetti attraverso i quali ci
rappresentiamo alle altre persone e dagli stereotipi che portano alla formazione
del pregiudizio.

Oggi in psicologia il temine categoria viene impiegato per definire le


strutture ed i processi cognitivi grazie ai quali le informazioni
percettive sono organizzate in rappresentazioni mentali ordinate. In
tale accezione, le categorie non vengono più concettualizzate come
rigide e immutabili, ma sono considerate strutture mentali in continua
evoluzione.70

68
Villano P., Quando i clienti sono dei matti: le rappresentazioni sociali dei negozianti in Nicoli
M.A., Zani B., Mal di psiche, Carocci editore, Roma, 1998, p. 159
69
Ibidem.
70
Cocco E. E, Processi cognitivi e dinamiche sociali in Nicoli M.A., Zani B., Mal di psiche,
Carocci editore, Roma, 1998, p. 33
50
La categorizzazione è dunque un processo mentale che consiste nel riordinare le
informazioni percettive con lo scopo di acquisire una efficace rappresentazione
del mondo fisico e sociale. Questa funzione cognitiva non opera soltanto al
servizio del piacere di conoscere, ma costituisce una sorta di guida per l’azione:

le informazioni ambientali vengono raggruppate sulla base di criteri che le


rendono simili o equivalenti in rapporto a scopi, azioni o atteggiamenti della
persona che percepisce. La funzione principale della categorizzazione
consiste quindi in un ruolo strumentale di sistematizzazione dell’ambiente
finalizzata all’azione.71

Secondo Cocco E.E., il raggruppamento delle informazioni in categorie comporta


l’accentuazione delle somiglianze tra oggetti che sono raggruppati nella stessa
categoria, fenomeno chiamato assimilazione intracategoriale, e l’accentuazione
delle differenze tra oggetti assegnati a categorie diverse, detta contrasto
intercategoriale.
Inoltre, la categorizzazione consente il pensiero astratto e la comunicazione
intersoggettiva del pensiero, mentre l’esperienza percettiva libera da identità
categoriali risulta essere incomunicabile e destinata a rimanere un’esperienza
privata. Infatti, è solo l’atto della categorizzazione a consentire l’ancoraggio di
esperienze personali del soggetto a strutture linguistiche comuni agli altri uomini.
In questo modo le esperienze che sono categorizzabili acquistano un particolare
valore per il soggetto, in quanto gli permettono di condividere una realtà
comune.72
E’ stato ampiamente dimostrato come gli oggetti percepiti non siano già presenti,
come realtà di fatto, nell’ambiente circostante, ma vengano “costruiti” attraverso
un processo di sintesi delle informazioni. Tale processo implica l’amplificazione
di alcuni aspetti dell’ambiente e la trascuratezza di altri. Le culture producono
codici interpretativi tramite i quali i membri di una data comunità “leggono” gli
input ambientali; il consenso sociale diffonde e sostiene tali codici

71
Ibidem.
72
Ibidem. p. 34
51
omogeneizzando le coscienze: così percepita e interpretata la realtà diviene, per i
membri di una determinata società, una realtà condivisa.
Poiché nelle società complesse una stessa persona assume più ruoli, è possibile
categorizzarla in molti modi a seconda della sua appartenenza a questo o ad un
altro gruppo sociale. Le categorie sociali avrebbero dunque una natura dinamica
in virtù del fatto che è importante considerare una persona in un modo o in un
altro a seconda delle necessità del momento e del ruolo che essa occupa in quella
data situazione. Nonostante ciò, in alcune condizioni, anche categorie sociali che
sono fortemente alterabili possono essere indebitamente assimilate alle categorie
naturali e diventare così centrali per la classificazione delle persone.
Caratteristiche di per sé arbitrarie e casuali diventano la base per inferire una
sostanza sottostante dalla quale vengono desunti attributi che di fatto non
esistono; categorie sociali costruite su convenzioni vengono così trattate come
fossero oggetti naturali, dati.
Ma le differenze che sono alla base delle categorizzazioni fra piccoli gruppi non
sono arbitrarie quando questi piccoli gruppi fanno parte di gruppi sociali più
estesi ed esistono pressioni culturali generate dalle divisioni sociali interne al
modo di produzione di una data formazione sociale. In tal caso le differenze
arbitrarie sono scelte e sostenute sulla base della pressione di agenti esterni al
piccolo gruppo73. Solo in questo modo è sensato evidenziare la natura dinamica
delle categorie sociali ed il variare dei criteri che le definiscono. Cocco, a questo
proposito, porta l’esempio delle circostanze, non casuali, che sovradeterminano
le variazioni nella categorizzazione sociale del gruppo “ebrei” durante il corso
della storia:

Questa categoria venne assimilata al polo degli “artefatti” durante il primo


periodo dell’era cristiana, quando essere ebreo consisteva nell’adesione
spontanea a una religione; venne invece assimilata al polo “oggetti naturali”

73
Ibidem., p. 41 sgg.
52
durante il periodo nazista, quando l’ebraismo divenne questione di razza,
alla quale si apparteneva a prescindere dalle pratiche religiose.74

Quando si realizza l’assimilazione delle categorie sociali al polo degli “oggetti


naturali”, gli attributi superficiali vengono associati ad una gamma di attributi
sottostanti (essenze), di cui diventano segni rivelatori, o stigmi. Da alcune
caratteristiche esteriori di un soggetto si desume che in lui sia presente una
qualità sottostante che lo accomuna ad altre persone in una categoria. Sulla base
di questa appartenenza gli vengono poi attribuite caratteristiche che sono
considerate proprie alla categoria stessa. Gli stigmi, mentre rafforzano l’idea che
esista un’essenza, non specificano immediatamente la natura di tale essenza,
poiché questo compito è delegato agli “esperti”. Per quanto riguarda i casi
ambigui, infatti, la decisione circa la loro collocazione nella corretta categoria
richiede l’intervento di un esperto.

Le categorie cliniche di tipo psichiatrico costituiscono un buon esempio di


come vengono postulate le “essenze” sottostanti a categorie sociali. Per
esempio diagnosticare una persona come “ritardato mentale” induce a
credere che vi sia un’essenza che rende omogenei tutti i ritardi mentali
nonostante gli ampi margini di variabilità per sintomi, storie cliniche,
eziologie e prognosi. Questa variabilità smentisce l’esistenza di
un’“essenza”, ma tale idea persiste, ed il comportamento degli “esperti”, che
agiscono come se tale “essenza” fosse reale (su di essa si basa il loro
privilegio sociale), non fa che rendere più credibile questa menzogna.75

Infine, ultima conseguenza del pensare per essenze consiste nel ritenere che un
oggetto, poiché possiede una sola essenza, non possa fare parte di più di una
categoria ma che esista una sorta di mutua esclusività tra categorie. Gli oggetti
sociali, al contrario, fanno sempre parte di più categorie contemporaneamente,
perciò quando si assume che le categorie sociali sono simili a quelle naturali, le

74
Ibidem.
75
Ibidem.
53
appartenenze incrociate vengono troncate, poiché emerge una sola appartenenza
dominante, definita dall’essenza. Le categorie divengono allora mutualmente
esclusive.
Uno dei prerequisiti essenziali per la riduzione del pregiudizio e per la
prevenzione dei contrasti tra gruppi sociali consiste proprio nella presa di
coscienza della pluralità delle appartenenze categoriali di ciascun individuo.
Come sostiene Cocco,

il reticolo delle appartenenze multiple di ogni soggetto a più gruppi sociali è


il collante che permette un certo grado di coesione all’interno di società
complesse ed altamente differenziate. Questa coesione è assicurata dalla
percezione che le persone hanno di trovare elementi che per alcuni aspetti
assimilano la propria identità sociale a quella dell’altro: ciò può realizzarsi
solo qualora venga anche garantita, sotto altri aspetti e su piani diversi, una
sufficiente differenziazione che preservi dalla messa in discussione le
specificità positive che una persona avverte in sé quando si confronta con
gli altri. Quando queste specificità vengono in qualche modo messe in
discussione dalla presenza dell’altro l’identità è in pericolo e le
categorizzazioni si irrigidiscono per preservarla.76

Per quanto riguarda lo stereotipo, questo termine, se viene utilizzato per


descrivere la psicologia individuale, è spesso carico di connotazioni negative. Si
considera infatti “stereotipato” un modo di pensare rigido, ripetitivo, che applica
in modo monotono le medesime categorie per rappresentare il reale senza tenere
conto della sua varietà e mutevolezza. Vari studi hanno dimostrato la
connessione tra l’attivazione di questi processi e l’emissione di giudizi errati,
cioè di pregiudizi, su eventi e persone.
La stereotipia è stata dunque considerata una sorta di anomalia del pensiero e del
ragionamento riguardante la realtà sociale e, in quanto tale, “un fenomeno dagli
esiti negativi, capace di produrre solo conoscenze ed inferenze indebite”, come
sostiene Cocco. Questo autore definisce il pensiero stereotipico come una specie

76
Ibidem.
54
di scorciatoia del pensiero, cioè uno dei tanti modi utilizzati quotidianamente
dall’intelligenza umana per estrarre velocemente dalla vastità di informazioni
disponibile le conclusioni più valide per una rappresentazione del mondo esterno
sufficientemente utile. Infatti, nonostante gli esseri umani siano dotati della
capacità di ragionare secondo i principi della logica formale, procedere secondo
tali principi è molto costoso e il cervello umano fatica ad elaborare le
informazioni in senso astratto.
Il pensiero stereotipico non è perciò un modo di procedere patologico, bensì un
normale processo cognitivo consistente nella semplificazione di una realtà
estremamente complessa.
Secondo Cocco, la più esauriente definizione del concetto di stereotipo lo delinea
come un tipo particolare di rappresentazione mentale che connette categorie ad
attributi e giudizi di valore.77
Katz e Braly, invece, definiscono stereotipo “quell’insieme di tratti che viene più
spesso attribuito ad un certo gruppo sociale”78. A questi due autori va il merito
della più famosa ricerca degli anni Trenta e Quaranta in tema di stereotipi, ricerca
che diventerà un punto di riferimento fondamentale per tutte le successive, le
quali mutueranno dall’impostazione di Katz e Brely sia la tecnica d’indagine che
l’analogia stereotipo-pregiudizio. Questi due ricercatori fornirono ai soggetti una
lista di 84 attributi di personalità e di comportamento, chiedendo di indicare quali
erano ritenuti caratteristici di determinati gruppi nazionali, etnici, religiosi. Da
questo studio essi trassero due importanti conclusioni: la prima è legata alla
scoperta che le rappresentazioni stereotipiche possedute dai soggetti sono
sorprendentemente simili alle immagini fornite dai mezzi di comunicazione di
massa dell’epoca. Sono quindi questi strumenti a contribuire alla diffusione ed
alla omologazione degli stereotipi.
La seconda si lega al fatto che gli stereotipi sono complessi organizzati di
elementi di diversa natura: risposte emotive, credenze e valutazioni sulle

77
Cocco E. E, Processi cognitivi e dinamiche sociali in Nicoli M.A., Zani B., Mal di psiche,
Carocci editore, Roma, 1998, p. 44
78
Katz D., Braly K., “Racial Stereotypes in One Under College Students”, in Journal of
Abnormal and Social Psychology, 28, 1933, pp. 280 - 290
55
caratteristiche dei gruppi sono associate tra loro. Lo stereotipo non è solo un
insieme di attribuzioni emesse nei confronti di certi gruppi di persone, ma
diventa una struttura valutativa con forti implicazioni per il rifiuto o
l’accettazione del gruppo.79
Considerare gli stereotipi come strutture cognitive equivale ad assimilarli al
concetto di schema includendoli così in quelle strutture che influenzano i
processi di elaborazione delle informazioni in fase di codifica, rievocazione,
inferenza ed output comportamentale. Sotto questo profilo lo stereotipo è
considerato “una struttura cognitiva contenente la conoscenza, le credenze e le
aspettative del soggetto percipiente verso un certo gruppo sociale”.80 Sapere che
una persona fa parte di una certa categoria cui sono associate certe caratteristiche
e certe credenze influenza il modo in cui l’osservatore elabora le informazioni
che riguardano quella persona.
Come già detto, la categorizzazione consiste nel raggruppamento di oggetti sulla
base delle loro caratteristiche più salienti. L’uso di categorie influenza poi i
processi di attenzione facendo in modo che nella percezione di un oggetto o
persona ne vengano sottolineati alcuni aspetti e trascurati altri al fine di poterlo
meglio inserire in una classe. La categorizzazione è allora alla base del processo
di formazione degli stereotipi in quanto spinge ad una lettura degli stimoli
secondo semplificazioni concettuali prefissate.81
Categorizzare le persone come membri del proprio gruppo (ingroup), ossia di un
gruppo in cui lo stesso osservatore finisce per collocarsi, o come membri esterni
al gruppo (outgroup), si traduce in favoritismo verso l’ingroup ed in
discriminazione verso l’outgroup con conseguenze rilevanti sulla strutturazione
delle categorie riferite a questi gruppi. E’ infatti frequente ed immediato il
costituirsi di rappresentazioni stereotipiche positive del proprio gruppo, valutato
appunto positivamente, in contrapposizione al gruppo degli altri, valutato

79
Ibidem.
80
Hamilton D.L., Trolier T.K., Stereotypes and Steretyping: An Overview of the Cognitive
Approach, in Dovidio J.F., Gaertner S.L., Prejudice, Discrimination and Racism, Academic
press, New York, 1986.
81
Cocco E. E, Processi cognitivi e dinamiche sociali in Nicoli M.A., Zani B., Mal di psiche,
Carocci editore, Roma, 1998, p. 53
56
negativamente. Secondo Tajfel, questo effetto sarebbe legato ai processi di
costituzione e di mantenimento dell’identità sociale del soggetto, definita come
“quella parte della concezione del sé di un individuo che gli deriva dalla
consapevolezza di essere membro di un gruppo sociale”82 L’identità sociale
deriva quindi dal senso di appartenenza ad un gruppo, e tanto più forte sarà la
percezione della propria appartenenza, tanto più risulterà rinforzato il senso di
identità sociale del soggetto. Poiché però la caratterizzazione di un gruppo è
definita sempre per mezzo del confronto con altri gruppi, il soggetto sarà portato
a sostenere il proprio senso di identità attraverso la svalutazione di tutto ciò che è
esterno al gruppo di appartenenza.
I processi di categorizzazione non sono quindi deputati solo alla rappresentazione
del mondo sociale, ma costituiscono anche una base importantissima per
l’autoidentificazione della persona, cioè per la sua consapevolezza di essere
collocata in un punto specifico di tale mondo. E’ proprio in virtù di questo che la
categorizzazione è all’origine della formazione di stereotipi.

3.3 Lo stigma in Goffman


Per stigmatizzazione si intende il fenomeno sociale che attribuisce una
connotazione negativa a un membro (o a un gruppo) della comunità in modo da
declassarlo a un livello inferiore. Oggetto di studio della sociologia e
dell'antropologia a partire dagli anni Sessanta, la stigmatizzazione è uno
strumento utilizzato dalla comunità per identificare i soggetti devianti.
Il principale teorico della stigmatizzazione è Erving Goffman, sociologo
canadese il quale, appunto, definisce l’attributo che rende l’individuo diverso
dagli altri stigma “soprattutto quando produce profondo discredito”. Talvolta tale
attributo viene anche definito una mancanza, un handicap, una limitazione.
Goffman definisce tre differenti tipi di stigma:

82
Tajfel H., Psicologia sociale e processi sociali, 1976, in Palmonari A. (a cura di), Processi
simbolici e dinamiche sociali, Il Mulino, Bologna, 1985.
57
Al primo posto stanno le deformazioni fisiche; al secondo gli aspetti
criticabili del carattere che vengono percepiti come mancanza di volontà,
passioni sfrenate o innaturali, credenze malefiche e dogmatiche, disonestà.
Tali aspetti sono dedotti, per esempio, dalla conoscenza di malattie mentali,
condanne penali, uso abituale di stupefacenti, alcolismo, omosessualità,
disoccupazione, tentativi di suicidio e comportamento politico radicale.
Infine ci sono gli stigmi tribali della razza, della nazione, della religione, che
possono essere trasmessi di generazione in generazione e contaminare in
egual misura tutti i membri di una famiglia83.

Per definizione, spiega Goffman, crediamo naturalmente che la persona con uno
stigma non sia proprio umana. Partendo da questa premessa, pratichiamo diversi
tipi di discriminazioni a causa delle quali le riduciamo efficacemente, anche se
spesso inconsciamente, le possibilità di vita. Mettiamo difatti in piedi una vera e
propria teoria dello stigma volta a spiegare l’inferiorità dell’individuo e ci
preoccupiamo di definire il pericolo che egli rappresenta.
Facendo un passo indietro, è doveroso ricordare il presupposto, già trattato,
secondo il quale è la società a definire quali debbano essere i parametri per
individuare le categorie entro cui collocare gli individui appartenenti alla società
stessa; ogni individuo è giudicato in base alla propria identità o al proprio status
sociale, il che sta appunto ad indicare un’identità attribuitagli dagli altri membri
della comunità tramite criteri che permettono la definizione sociale
dell’individuo collocandolo all’interno di categorie prestabilite.
Chiunque sia immerso in una società è infatti, come abbiamo visto,
costantemente alle prese con una grande mole di informazioni che devono essere
organizzate per poter interagire in modo efficace con i propri simili. Il modo in
cui reagiamo di fronte ad eventi sociali – quali per esempio l’incontro con la
malattia mentale – dipende da ciò che questi eventi rappresentano per noi, cioè
dall’idea che ci siamo fatti del malato di mente e del nostro modo di rapportarci a
questa condizione umana. “In tal senso le situazioni in cui si svolgono le nostre

83
Goffman E., Stigma. L’identità negata, Ombre corte, Verona, 2003, p. 15
58
interazioni sono molto importanti, ma lo sono ancora di più i processi psicologici
che regolano il costituirsi delle rappresentazioni che ci costruiamo sulle altre
persone”.84
Secondo Goffman, ogniqualvolta ci troviamo ad incontrare un individuo a noi
estraneo, siamo portati a stabilirne in anticipo la categoria di appartenenza,
tenendo ben presenti le caratteristiche che egli deve possedere per appartenere ad
essa. Nel caso in cui egli non possegga tali caratteristiche, o ne possegga di
“meno desiderabili”, saremo portati a considerarlo diverso da noi e dagli altri,
quindi a discriminarlo.
Partendo da tali stigmi sociali, gli individui mettono in atto meccanismi di
esclusione all’interno della società che mettono in discussione la piena
partecipazione sociale degli individui stigmatizzati. E’ doveroso evidenziare che
lo stigma è una costruzione sociale e non un attributo proprio dell’individuo il
quale si trova però a dover affrontare la sua situazione di escluso, attribuitagli
dagli altri, a causa della propria diversità considerata non desiderabile.
Questa condizione di emarginazione porta sovente l’individuo stigmatizzato a
privarsi di una vita normale: accade infatti frequentemente che egli si chiuda in
se stesso nel timore di dover far fronte alle reazioni delle persone cosiddette
“normali” nei suoi confronti. Inoltre, dal momento in cui i membri “normali”
della società collocano l’individuo stigmatizzato in una determinata categoria, ad
esempio quella dei malati mentali, si aspettano da lui un certo comportamento
che rappresenti un modello condiviso rispettando, nella quotidianità, le norme
caratteristiche previste per la sua specifica categoria di appartenenza. Dice infatti
Goffman che il problema dello stigma nasce “là dove ci si aspetta che chi fa parte
di una data categoria non debba soltanto appoggiare una norma particolare ma
anche applicarla”.85
Nelle situazioni in cui le persone “normali” si trovano a condividere momenti
che prevedono la compresenza con una persona stigmatizzata, succede che esse
non riescano a relazionarsi con quest’ultima in maniera spontanea; accade di

84
Nicoli M.A., Zani B., Mal di psiche, Carocci editore, Roma, 1998, p. 31
85
Goffman E., Stigma. L’identità negata, Ombre corte, Verona, 2003, p. 16
59
frequente che lo stesso stigmatizzato si trovi in imbarazzo riguardo alla propria
condizione, avendo sviluppato delle insicurezze nei confronti delle persone
“normali” e soprattutto nei confronti delle considerazioni che queste ultime
hanno sviluppato riguardo allo stigma. In tal modo, spiega Goffman, s’insinua
nello stigmatizzato la sensazione di non sapere cosa gli altri pensino “davvero” di
lui.
Gli stigmatizzati vengono infatti fortemente condizionati dall’idea e dalla visione
che gli altri hanno dello stigma e finiscono perciò mettere in discussione il
proprio status, riflettendo tali insicurezze su una molteplicità di interazioni
sociali.
Secondo Goffman, chi vive uno stigma evidente agli occhi degli “altri” finisce
così per percepire la compagnia di persone “normali” come invasiva per la
propria intimità, trovandosi in queste situazioni esposto alla curiosità e al
giudizio altrui. Per questo motivo, oltre a reagire spesso chiudendosi in se stesso,
l’individuo stigmatizzato tenderà a preferire la compagnia di persone che
condividono le tesse condizioni e lo stesso stigma conoscendone le conseguenze
e i disagi.

3.4 Contatto sociale e modificazione del pregiudizio


Si può chiamare ipotesi del contatto l’idea molto diffusa secondo la quale
l’interazione tra due persone appartenenti a gruppi sociali diversi può ridurre il
pregiudizio reciproco, attenuando anche il conflitto tra i gruppi a cui queste
persone appartengono. Tale ipotesi trae le sue origini nel Movimento delle
relazioni umane, movimento sorto negli Stati Uniti tra la fine degli anni Quaranta
e l’inizio degli anni Cinquanta mosso dalla repulsione che molti americani
provarono nei confronti di nazismo e antisemitismo. Il movimento lavorò infatti
per combattere i pregiudizi razziali, religiosi ed etnici tra i gruppi e adottò l’idea
che il pregiudizio, problema dovuto all’ignoranza, andasse combattuto con
l’educazione, l’informazione e contatti interrazziali, cioè cercando di cambiare
prima gli atteggiamenti per giungere successivamente a modificare i
comportamenti.

60
In realtà le cose non si presentano così semplicemente, poiché, come è stato
visto, il pregiudizio è una componente della normale cognizione umana e
l’educazione non è di per sé sufficiente ad eliminare lo stereotipo; inoltre
esistono parecchie variabili che influenzano le situazioni specifiche di contatto e
gli effetti del contatto cambiano a seconda della presenza o meno di questi
fattori.

Se si vuole impostare una efficace politica preventiva è importante


conoscere quali sono gli assetti contestuali che fungono da detonatori o da
inibitori del pregiudizio: molti studi infatti concordano nel ritenere che la
configurazione ambientale di un determinato quartiere, ed il tipo di
dinamiche sociali che in esso si svolgono, sono molto efficaci nel
predisporre le persone verso atteggiamenti più o meno tolleranti. Il fatto che
le persone manifestino atteggiamenti intolleranti dipende più dall’ambiente
in cui vivono e dalle loro relazioni sociali che dal carattere o da altre
disposizioni personali.86

Esistono diverse prospettive e differenti unità di analisi utili a studiare il contatto,


tra queste la prospettiva psicosociale predilige lo studio degli incontri tra
individui e piccoli gruppi inseriti nel contesto della loro appartenenza
psicologico-simbolica a gruppi sociali più estesi. All’interno di tale prospettiva
viene dato ampio risalto alle componenti soggettive dell’incontro sociale, che si
esprimono sotto forma di attribuzioni specifiche e significati simbolici. In un
certo senso gli individui ed i gruppi interagiscono di più sulla base della
rappresentazione che si sono costruiti dell’altro, piuttosto che rispondere alla
consistenza “oggettiva” dei suoi comportamenti.

86
Cocco E. E, Processi cognitivi e dinamiche sociali in Nicoli M.A., Zani B., Mal di psiche,
Carocci editore, Roma, 1998, p. 65
61
3.5 Le rappresentazioni sociali della malattia mentale: teorie implicite di
personalità e identikit della follia nelle società complesse

“Dietro ogni scemo c’è un villaggio”


F. De Andrè

Il panorama emergente delle ricerche che psicologi e psichiatri sociali hanno


condotto allo scopo di rilevare opinioni, atteggiamenti e reazioni sociali del
pubblico e degli operatori professionali del settore riguardo alla malattia mentale,
nel contesto delle cosiddette società complesse, è stato, fin dagli inizi, molto
controverso e lo è tuttora, in bilico tra fermenti innovativi e spinte retroattive
riguardo alle trasformazioni della pratica psichiatrica.
La malattia mentale è, difatti, una realtà difficile da definire non solo per l’uomo
comune, ma anche per gli addetti ai lavori. Si direbbe che la caratteristica più
certa, la sua unica possibilità di definizione consista proprio, come sostiene
Carmencita Serino, nel suo “carattere scuro e inaccessibile, nell’inadeguatezza
delle categorie di cui disponiamo per comprenderla”.87
Allo stesso tempo però essa è una realtà limitrofa, quotidianamente presente,
molto più vicina di quanto forse vorremmo e di quanto sappiamo accettare.
In questa sua oscurità e in questa sua contiguità risiede forse un aspetto
essenziale del problema che essa rappresenta nella nostra società.

Nell’ambito di una cultura che considera come un valore irrinunciabile la


razionalità, e che in questo senso cerca il suo fondamento nella
comprensione “scientifica” e nel controllo tecnico degli eventi, la malattia
mentale rappresenta una contraddizione insanabile. Non stupisce quindi che
la malattia mentale sia l’oggetto e il bersaglio di una vasta produzione
collettiva di rappresentazioni, “teorie” più o meno implicite, un terreno

87
Serino C., Processi di spiegazione e teorie implicite della personalità: elementi di un
approccio socio-cognitivo al problema della malattia mentale, in Bellelli G., L’altra malattia,
Liguori editore, Napoli, 1994, p.151
62
privilegiato per l’attivazione di processi come quelli di inferenza,
88
attribuzione, categorizzazione.

Questi processi rappresentano infatti, come già è stato visto in precedenza, un


momento fondamentale della complessa e variegata attività cognitiva che
permette agli individui di orientarsi nella realtà e di regolare le proprie azioni in
funzione di determinati contesti e di specifici interlocutori. Una larga parte della
ricerca in psicologia sociale cognitiva è infatti dedicata all’analisi di tali processi
e consente di mettere a fuoco le modalità attraverso cui le persone spiegano gli
eventi in cui sono coinvolte, interpretano la realtà che le circonda, attribuiscono
un significato al comportamento proprio e altrui. Anche solo il fatto di includere
un oggetto in una categoria implica un lavoro cognitivo di questo tipo.
L’attribuzione di certe caratteristiche personali agli individui resta uno sviluppo
assai complesso, che non sarebbe immaginabile senza far riferimento ad una
rappresentazione più globale della persona che ci sta di fronte e della persona in
generale, “di ciò che l’uomo è e di ciò che dovrebbe essere”.89 Le nostre
inferenze ed interpretazioni della realtà circostante non sono difatti indipendenti
dalla nostra cultura, dall’insieme delle nostre interazioni, dal contesto storico-
sociale in cui viviamo.

Le attribuzioni disposizionali, l’individuazione di tratti personali stabili


sottostanti ai comportamenti variabili sono dunque anche l’espressione di
specifiche concezioni degli individui e del loro “funzionamento”. Più o
meno implicitamente, più o meno consapevolmente, noi ci riferiamo in
questi casi ad una “teoria della personalità”: non ci limitiamo cioè ad
inferire una caratteristica personale a partire da un comportamento
osservato, ma facciamo riferimento ad un sistema organizzato di tratti
interdipendenti fra loro, ad una specifica tipologia, in base a cui – ad

88
Ibidem.
89
Serino C., Processi di spiegazione e teorie implicite della personalità: elementi di un
approccio socio-cognitivo al problema della malattia mentale, in Bellelli G., L’altra malattia,
Liguori editore, Napoli, 1994, p.163
63
esempio – una persona sarà probabilmente percepita come “fantasiosa” e
“astratta”, ma molto più difficilmente come “fantasiosa” e “concreta”.90

Lo studio delle teorie implicite di personalità si riferisce appunto al fatto che da


un punto di vista cognitivo i vari tratti di personalità appaiono fortemente
correlati tra loro.
La psicologia sociale si è interessata all’organizzazione di tali tratti e all’analisi
dei criteri in base ai quali essi appaiono articolati tra loro in strutture coerenti,
dando luogo a specifiche tipologie. L’analisi psicosociale delle teorie implicite
della personalità nasce dalla constatazione che la struttura della personalità si
trova molto di più nella testa di chi giudica che nella persona da giudicare. Ciò
significa che queste assunzioni ingenue circa la personalità risultano essere molto
più flessibili e ambigue rispetto alle tassonomie “scientifiche” le quali,
nonostante la loro diffusione, rivelano oggi molte debolezze.
Sottolinea Serino91 come alcune importanti ricerche (Rosenhan, 1975; Barson e
Marz, 1979; Langer e Abelson, 1974) si siano focalizzate sulle impressioni che si
formano a proposito delle persone in contesti particolari, come le strutture
psichiatriche. Questi studi sembrano mostrare un dato generale abbastanza
costante, e cioè che in ambito clinico psichiatrico si osserva un’assoluta e non
sempre giustificata prevalenza delle attribuzioni disposizionali e, in questo senso,
un impiego massiccio dei tratti di personalità come criterio di classificazione e di
valutazione delle persone. Anche se questa tendenza non dovrebbe essere
considerata sistematicamente un “errore”, è indubbio che in questo tipo di
contesti essa può implicare una serie di conseguenze, anche indesiderate, e può in
ogni caso contribuire largamente alla stessa definizione di quell’insieme di
manifestazioni e di realtà che chiamiamo malattia mentale.
La difficoltà a individuare univocamente l’immagine sociale della follia riflette
già la discussa erosione di un modello unico di riferimento prodotto

90
Ibidem.
91
Serino C., Processi di spiegazione e teorie implicite della personalità: elementi di un
approccio socio-cognitivo al problema della malattia mentale, in Bellelli G., L’altra malattia,
Liguori editore, Napoli, 1994, p.168

64
dall’emergere di diverse ipotesi interpretative del disagio psichico ed il relativo
prodursi di una rete di atteggiamenti e opinioni spesso in contrasto tra loro. In
assenza di una univoca definizione dell’oggetto “malattia mentale”, si riscontra
in letteratura una diffusa difficoltà di ordine teorico metodologico nella
definizione degli strumenti di indagine. Anche i più recenti sforzi di definire i
criteri standard per la diagnosi di “disturbo mentale” – come il DSM, di cui
abbiamo trattato in precedenza – non superano le difficoltà intrinseche a una
scelta epistemologica di tipo classificatorio e nosografico, per quanto dalla
definizione di disturbo, centrata sulle conseguenze soggettive e sociali dello
stesso piuttosto che sull’eziologia, si arrivi a suggerire un modello valutativo
multiassiale (psico-bio-sociale) del disturbo stesso.92
Nel tentativo di rintracciare delle costanti riferite all’identità sociale di soggetti e
gruppi, i ricercatori hanno a lungo indagato circa le relazioni tra i sistemi
rappresentazionali espressi nei confronti della malattia mentale e il complesso
gioco delle variabili differenziali. Sono molte le ricerche psico-sociali che
indagano l’incidenza di fattori quali età, sesso, livello d’istruzione, familiarità
con la psichiatria, status socio-economico, contesti ecc.
La sociologia e la psichiatria sociale e di comunità compiono sforzi simili con lo
scopo di individuare i contesti di produzione della malattia mentale, contribuendo
così a tracciare una sorta di identikit del malato mentale.
La sociologia delle malattie mentali include vaste tematiche di interesse
sociologico più generale, come ad esempio gli stili di vita, gli effetti sociali
prodotti dallo status, le ideologie ecc. Esistono, ad esempio, un’ampia letteratura
e un itinerario di ricerca pluridecennale che attribuiscono il numero più elevato di
malati di mente alle zone con il maggior indice di conflittualità, di isolamento
sociale tipico dei contesti urbani rispetto ai modelli solidaristici e personalizzati
delle realtà rurali, ma i risultati sono spesso contraddittori.
Alla ricerca di un possibile identikit del malato mentale, la letteratura, assai
discorde per quanto riguarda la collocazione spazio-geografica, lo è altrettanto

92
De Rosa A.S., La società e il malato mentale: opinioni, atteggiamenti, stigmatizzazioni e
pregiudizi, in in Bellelli G., L’altra malattia, Liguori editore, Napoli, 1994, p.43
65
per quel che concerne l’intreccio dei fattori di occupazione e stratificazione
sociale. I risultati degli studi più salienti in merito mettevano in luce l’aumento
delle malattie mentali nelle classi più svantaggiate, una diversa distribuzione
delle stesse in rapporto alla stratificazione sociale per effetto del genere di vita, la
prevalenza di prolungati trattamenti psicoterapeutici riservati ai soggetti di classe
agiata, contro le terapie organiche somministrate ai soggetti di classi inferiori, per
lo più estranei a qualunque terapia.
Ma anche questi risultati non si dimostrano generalizzabili. In genere infatti,
spiega De Rosa, l’indice di morbilità ricavato dal numero di ricoveri ospedalieri
si è rilevato fuorviante e inoltre in molti casi il dato strutturale della posizione
sociale veniva sfocato nella sua salienza dal peso più rilevante della
organizzazione emotiva della famiglia (divorzi, abbandoni ecc.).
Dunque, è sempre più complicato tracciare un identikit del malato mentale, se
non ci si concede alle certezze classificatorie della psichiatria dei primi del
‘900.93
Si potrebbero citare ancora moltissime ricerche condotte isolando una variabile,
come ad esempio quelle condotte puntando l’attenzione sul fattore religioso, o
sull’appartenenza nazionale, ma, continua De Rosa

la quantità degli studi, in questo caso, non è garante di un accumulo di senso


per la ricerca e per il progredire del sapere. In che misura il malato mentale
sia bianco o nero, musulmano o cattolico, di classe sociale deprivata o
agiata, uomo o donna, operaio o intellettuale…è dato controverso quanto
inutile perché prodotto da un obiettivo impossibile, oltre che infondato:
quello di stabilire un identikit del malato mentale.94

Questa consapevolezza si è andata affacciando tra i ricercatori che, appunto,


hanno dedicato studi non più alla malattia mentale, bensì alla sua costruzione
istituzionale. Si assiste così, come spiega De Rosa, al passaggio dalla

93
De Rosa A.S., La società e il malato mentale: opinioni, atteggiamenti, stigmatizzazioni e
pregiudizi, in in Bellelli G., L’altra malattia, Liguori editore, Napoli, 1994, p.67 sgg.
94
Ibidem.
66
“epidemiologia” della malattia a quella dei servizi”, caratterizzata dalla perdita di
centralità del concetto di malattia come variabile indipendente e dato nosografico
astorico, a favore di un approccio che ne studia la oggettivazione nei vari
percorsi istituzionali, ed indaga sui “servizi” come luogo d’incontro tra domanda
e risposta, tra utenza e operatori.95
Per quanto concerne le ricerche sugli atteggiamenti verso il malato e la malattia
mentale, è possibile individuare fin dalle ricerche avviate negli anni Quaranta un
doppio orientamento della letteratura: l’uno che si può ricondurre alle tesi di
Allen (1943)96 secondo cui gli atteggiamenti della popolazione verso i malati
mentali sarebbero connotati negativamente e stigmatizzanti; l’altro esposto in un
articolo di Ramsey e Seipp (1948)97 che concludeva a favore di una crescente
tendenza a valutare il malato mentale in termini più umanitari, soprattutto in
relazione al livello d’istruzione più elevato.
Da allora, un gran numero di ricerche sono state elaborate allo scopo di
individuare l’incidenza del fattore “informativo” ed esperienziale sull’evoluzione
degli atteggiamenti, confermando l’uno o l’altro dei due orientamenti.
Se, come fu visto, il grado di informazione non era da considerarsi un fattore
direttamente correlato al tipo di atteggiamenti adottati nei confronti
dell’ammalato mentale, né così rilevante in una prospettiva generale di modifica
della risposta sociale alla malattia mentale, si trattava di esplorare in altre
direzioni.
Tra le variabili assunte come significative di differenze individuali e presunte
essere in relazione con gli atteggiamenti espressi nei confronti del malato e della
malattia mentale spiccano l’autoritarismo e il dogmatismo. Alcune ricerche
avevano infatti riscontrato che le persone meno autoritarie erano più umane verso
i malati mentali che non le persone altamente autoritarie.
Molte altre ricerche furono condotte attorno alle cinque dimensioni di
atteggiamento risultate salienti nelle opinioni sulla malattia mentale espresse dal
95
Ibidem.
96
Allen L., “A study of community attitudes toward mental hygiene”, in Mental Hygiene, 27,
1943, pp. 248-254
97
Ramsey G.V. & Seipp M., “Attitudes and opinions concerning mental illness” in Psychiatric
Quarterly, 22 (3), pp. 428-444
67
personale di due grossi ospedali psichiatrici: autoritarismo, benevolenza,
ideologia dell’igiene mentale, restrittività sociale, eziologia interpersonale.
Si potrebbe anche in questo caso continuare molto a lungo nel citare rapporti di
ricerca, ma ci si deve accontentare di alcune esemplificazioni scelte come
illustrative delle tendenze di uno specifico filone di ricerca.
Va però detto che la stessa prospettiva teorica sugli stereotipi è mutata. Come è
stato visto, la tradizionale concezione negativa dello stereotipo come esito di
processi mentali basati su generalizzazioni scorrette, esagerate e rigide al servizio
di atteggiamenti discriminanti che salvaguardano l’integrità del sé e del proprio
gruppo viene depolarizzata dal significato di “anomalia” del pensiero, dato che i
processi di attenzione selettiva su caratteristiche salienti estreme e inattese
vengono considerati parte integrante dell’economia organizzativa delle funzioni
percettive e cognitive. Nel quadro delle interpretazioni cognitiviste infatti, gli
stereotipi possono essere considerati, in quanto rappresentazioni, come il risultato
di processi di categorizzazione degli individui, sulla base dell’attribuzione di
particolari caratteristiche.
Anche nella letteratura sugli atteggiamenti verso il malato e la malattia mentale,
spiega De Rosa, si assiste intorno agli anni Settanta e nei decenni successivi
all’affermarsi e articolarsi di una modellistica teorica di orientamento
cognitivista.98 Questo tipo di letteratura è sostanzialmente meno interessata a
rilevare se gli atteggiamenti in questione siano polarizzati positivamente o
negativamente ed esprimano una tendenza alla stabilità o al cambiamento, mentre
è più orientata allo studio dei processi di attribuzione causale che si manifestano
a partire da schemi stereotipici e del ruolo degli stereotipi nella codifica, deposito
o recupero delle informazioni inerenti ai tratti e comportamenti del malato
mentale, come target stereotipico. De Rosa continua sostenendo che si è assistito
ad una sorta di slittamento di attenzione dai contenuti delle credenze
stereotipiche ai processi che le organizzano a al loro ruolo di regolatori socio-
cognitivi dell’interazione sociale nei diversi contesti situazionali.

98
De Rosa A.S., La società e il malato mentale: opinioni, atteggiamenti, stigmatizzazioni e
pregiudizi, in in Bellelli G., L’altra malattia, Liguori editore, Napoli, 1994, p.80
68
3.6 Mass media: canali di diffusione dello stigma del “folle-reo”

Chiedi un autografo all’assassino


Guarda il colpevole da vicino
E approfitta finché resta dov’è
Toccagli la gamba, fagli una domanda
Cattiva
Spietata
Samuele Bersani
“Cattiva”

Per spiegare la genesi del pregiudizio, gli studiosi hanno richiamato l’attenzione
su diversi meccanismi. Le modalità con cui si acquisisce un pregiudizio possono
essere diverse e vengono sinteticamente individuate in: apprendimento per
associazione (cioè si impara a temere ed evitare persone associate a fatti e
situazioni spiacevoli); apprendimento per imitazione (specifiche norme di
comportamento discriminatorio sono effetto di comportamento emulativo
sviluppato, ad esempio, nell’ambito familiare, o scolastico ecc.); trasmissione
diretta del pregiudizio (ossia la trasmissione di valutazioni che connotano
affettivamente le informazioni, spesso attraverso comportamenti non verbali, per
esposizione precoce a fonti che non si mettono in discussione, come ad esempio i
genitori); apprendimento per identificazione (acquisizione diretta, molto spesso
inconsapevole, di atteggiamenti e valori percepiti rilevanti nelle persone oggetto
di identificazione nel processo di socializzazione).
Banissoni sostiene che

Sia nel bambino sia nell’adulto, le varie modalità di acquisizione si


intrecciano e si modificano, in funzione dell’età, delle caratteristiche
personali, del contesto socio-familiare. Il pregiudizio non viene acquisito in
modo esclusivo per associazione, o per imitazione, o per identificazione, e/o
per trasmissione diretta, ma c’è una continua attività integrativa e
organizzativa, sulla base di tali meccanismi. Comunque, sempre vanno
rilevati, da un lato, il bisogno di fare propri i valori, le norme, gli

69
atteggiamenti del gruppo di appartenenza e/o di riferimento, d’altro lato il
bisogno di conformarsi ad una certa immagine di sé e di sé nei rapporti con
gli altri (identità sociale). La diffusione degli stereotipi sociali, la pressione
dei mezzi di comunicazione di massa giocano un ruolo centrale in quanto
permettono di soddisfare tali bisogni.99

Secondo Scheff100 è attraverso i resoconti della stampa quotidiana, colmi di


pregiudizi nei confronti della malattia mentale, che “il lettore è libero di inferire
impunemente che assassinii, rapimenti ed altri atti di violenza si manifestano
molto più di frequente tra coloro che sono stati malati di mente che nella
popolazione in genere”. In realtà è stato dimostrato che, tra i primi, i crimini
violenti (come ogni altro delitto) presentano un’incidenza molto più bassa che nel
resto della popolazione. Ma il quadro che la pratica giornalistica propone al
pubblico non è questo. I giornali hanno stabilito un rapporto ineluttabile tra
malattia mentale e violenza, e forse, e ciò è importante, questo legame sta anche
a significare l’incurabilità di questi disordini; si associano, cioè, a quelli che sono
stati malati di mente, con gli imprevedibili atti di violenza. Sembra paradossale,
per Scheff, che “il progresso delle tecniche di comunicazione abbia creato un tale
stato di fatto per cui probabilmente il processo di stereotipizzazione diventerà
sempre più forte”.
Già Rabkin si era inserito criticamente nel dibattito sulla pericolosità
dell’ammalato mentale denunciando il vizio di rilevazione dei dati delle indagini
che enfatizzano il numero dei pazienti che incorrono in arresto per
comportamento criminale, senza confrontare correttamente i dati relativi ai
pazienti che, già prima del ricovero, erano incorsi in arresti. I risultati della
ricerca di Rabkin attestano che

Mentre il numero dei pazienti con condanne precedenti è aumentato nel


tempo, i pazienti senza precedenti penali non incorrono in crimini con

99
Banissoni M., Psicologia sociale e pregiudizio, Teoria e ricerca, Bulzoni, Roma, 1986, p. 23-
24
100
Scheff T.J., Being mentally ill. A sociological theory, Aldine pubbl., Chicago, 1966 (trad. It.
Per infermità mentale, Milano, Feltrinelli, 1974)
70
maggiore frequenza rispetto alla popolazione generale, pur se esposti a
maggior rischio di arresto in virtù del loro stigma.101

Esiste un’ampia letteratura di ricerche psico-sociali attestanti il ruolo dei mass


media nella costruzione dell’immagine pubblica della follia e nel filtro delle
informazioni trasmesse alla gente.
Spiega De Rosa come lo studio classico di Nunnally (1961) abbia sottolineato,
diventando un punto di riferimento obbligato in questo campo d’indagine, come
l’opinione pubblica si costituisca come soluzione di un compromesso tra le
opinioni degli “esperti”, orientate ad una minore stereotipia, e le opinioni diffuse
dai mezzi d’informazione, improntate ad una massima stereotipia. Il messaggio
che infatti spesso i mezzi d’informazione veicolano riguardano il “matto” come
“diverso” dalle persone “normali” per il suo aspetto e modo di agire, per la
mancanza di forza di volontà, per l’incapacità di fuga da pensieri morbosi, per la
sua esigenza di sostegno e di guida, per la sua scarse recuperabilità e per tutta
quella serie di cause esterne e organiche che agiscono sulla sua personalità.
Nunnally, attraverso un questionario da lui elaborato, vide che l’informazione del
pubblico sulla malattia mentale non era ben strutturata e definita e rilevò,
appunto, come “persone vecchie e giovani, con basso e alto livello culturale, tutte
considerano il malato mentale come relativamente pericoloso, sporco, non
prevedibile e insignificante” 102
Anche diversi autori di scuole europee hanno manifestato le loro perplessità
riguardo al ruolo dei mass media nell’evoluzione della rappresentazione sociale
della follia tra il grande pubblico. Per quanto si parli di mutamento dinamico di
costumi e di mentalità, la realtà che emerge dalle ricerche ribadisce una
rappresentazione sociale della follia sostanzialmente ancorata ai vecchi
pregiudizi popolari. Il malato di mente continua perciò ad essere guardato con
paura e disgusto, come un individuo “diverso”. Dice Bastide che “la pazzia,

101
Rabkin J.G., “Criminal behaviour of discharged mental patients: a critical appraisal of the
researche”, in Psychological Bulletin, 1, 1979, pp. 1-28
102
Nunnally J., Popular conception of mental health: their developments and change, Holt
Rinehart & Winston, New York, 1961
71
come il cancro, rievoca per il popolo un brutto male che si cerca di
nascondere”.103
Sottolinea Fiorillo104 come non si possa certo rimproverare ai quotidiani di non
occuparsi abbastanza del “male di vivere”. Quando si parla di sofferenza psichica
o di malattia mentale, il termine follia, e ancor più pazzia, accusa il peso di un
lungo logorio e di una certa genericità, oltre che il riverbero dello stesso stigma
che proietta sul mondo. Follia equivale a caos, a incontrollabile, e porta con sé i
segni del fallimento di chi sulla follia produce discorsi, definizioni e pratiche di
contenimento.
Così, continua Fiorillo, entrano a far parte, prima del linguaggio scientifico e poi
di quello comune, termini più “tecnici” che sembrano indicare malesseri
specifici, ma soprattutto che hanno il fascino dell’attualità, comunicano una
maggiore competenza. Sono termini specialistici, e quindi in sintonia con lo
spirito del nostro tempo, hanno potenza di richiamo e di convincimento.

Talvolta è il linguaggio a costruire la cosa. Non funziona da mediatore


simbolico fra le cose e i soggetti, ma si sostituisce alle cose nell’anima del
soggetto e si afferma per la sua potenza evocativa, in casi più rari anche solo
per il suono che aderisce al sentire soggettivo indipendentemente dal
significato o “contenuto” del termine stesso. Così accade spesso che quello
che noi crediamo un concetto sia un termine, una parola che ciascuno
riempie di contenuto a modo suo. […]
Nel discorso sulla follia la chiarezza è quasi irraggiungibile, perché la follia
stessa è sovvertitrice di ogni discorso, ma quest’ultimo si è preso
storicamente la rivincita riducendola a malattia mentale, sezionandola,
classificandone i fenomeni e ricomponendoli in sindromi. In questo modo la
genericità è esorcizzata, e il gioco del linguaggio può ricominciare. Ma le
difficoltà rimangono.105

103
Bastide R., Sociologie des maladies mentales, Flammarion, Paris, 1950 (trad. it. Sociologia
delle malattie mentali, Firenze, la nuova Italia, 1981, pp.230-231)
104
Fiorillo G.P., Indagine e riflessioni, in Cozza M., Fiorillo G.P., Il nostro folle quotidiano,
Manifestolibri srl, Roma, 2002, pp.77-78
105
Ibidem.
72
Seguire la cronaca offre svariati spunti di riflessione: con cadenza quasi
settimanale possiamo infatti vedere un “depresso”, o un “ansioso”, o uno che
“soffriva di malattie mentali” o, ancora, uno che “era in cura presso i servizi
psichiatrici territoriali” o che “era stato ricoverato il mese scorso nella clinica
psichiatrica del capoluogo” ecc. macchiarsi di fatti di sangue.
I depressi che uccidono hanno sempre una specifica appartenenza nazionale, una
luminescenza o una oscurità sociale, un reddito, uno stato civile, dei possibili
precedenti o “avvisaglie”. Hanno conoscenti che raccontano. E’ su queste
proprietà che solitamente viene costruito l’articolo di cronaca.

Se il folle che uccide è un emigrato tutti paventavano che da un giorno


all’altro potesse accadere, se è uno svizzero la cosa risulta inspiegabile, se il
gesto è seguito dal suicidio vanno cercate le cause recondite di tanto
malessere, altrimenti la questione principale è se persone simili sono degne
della libertà. Il pendolo oscilla fra mostro e “caso umano” e tutti si partecipa
al rituale collettivo di rinfrancamento.106

Spesso le cronache parlano di esplosioni di violenza immotivata mentre sovente i


motivi sono troppi per poterli individuare tutti, classificare e ordinare secondo
una gerarchia di determinanti.
Davanti a molti casi di tipo diverso che vengono accomunati sotto il termine
“depressione” o altra malattia mentale, spesso ciò che davvero li accomuna non è
la depressione, ma la violenza. Una violenza che, pur essendo molto visibile nel
momento in cui esplode tragicamente, lo è meno quando ci attraversa tutti nella
nostra vita quotidiana e ci costringe a conviverci, in qualche modo. Le storie di
queste persone sono fatte frequentemente di lunghe sofferenze, incomprensioni,
indifferenza o attenzioni troppo ossessive, spesso di povertà, di ignoranza, di
emigrazione. Se si seguono le cronache al di là del momento in cui il fatto desta
scalpore, quando non fa più notizia ed è perciò relegato in piccoli trafiletti, si
scoprono molti indizi di umanità lacerata dietro quegli atti eclatanti.

106
Fiorillo G.P., Indagine e riflessioni, in Cozza M., Fiorillo G.P., Il nostro folle quotidiano,
Manifestolibri srl, Roma, 2002, p. 114
73
L’analisi degli articoli riguardanti i reati commessi da persone con disturbi
psichici non lascia purtroppo alcun dubbio: nel terzo millennio il cosiddetto folle
è considerato pericoloso ed imprevedibile, alimentando lo stigma nei suoi
confronti e le conseguenti discriminazioni.
Quando i quotidiani trattano di salute mentale con titoli ad effetto, i contenuti
degli articoli sono centrati nella maggioranza dei casi sul cosiddetto “raptus di
follia”, che può riguardare una persona da tutti ritenuta normale fino al momento
in cui improvvisamente e senza alcun apparente motivo sarebbe impazzita. Se
poi il reato è commesso da una persona già seguita per i suoi precedenti
psicopatologici si avvalora sempre di più il concetto di pericolosità, associandolo
a quelli di inguaribilità, con la consequenziale richiesta di istituzioni dove si
possa “rinchiudere e curare”.
Pochi articoli approfondiscono le vere storie di queste persone e dove viene fatto
nella maggior parte dei casi emergono problematiche relazionali, familiari e
sociali che hanno condizionato lo stato psicologico della persona e che possono
in parte spiegare il reato commesso.
Il recente manuale operativo per la riduzione dello stigma e della discriminazione
Schizofrenia e cittadinanza della Associazione Mondiale di Psichiatria afferma
testualmente: “la percezione pubblica, sostenuta dai media, che la malattia
mentale sia strettamente correlata alla violenza non è convalidata da alcuna
evidenza scientifica”.107
Nel manuale si evidenzia come da un recente studio – parte del Progetto degli
indicatori culturali della Anneberg School for Communications che ha analizzato
circa 20.000 dialoghi svolti all’interno di 1.371 programmi televisivi compresi
cartoni animati e soap opera sulle principali reti televisive – risulta come “i
personaggi valutati più negativamente, i cattivi, sono proprio i malati di
mente”.108 Inoltre il 70% dei personaggi etichettati come malati mentali venivano
descritti come violenti.

107
Casacchia M., Pioli R., Rossi G. (a cura di), World Psichiatric Association, Schizofrenia e
cittadinananza, Manuale operativo per la riduzione dello stigma e della discriminazione,
Pensiero Scientifico Editore, 2001
108
Ibidem.
74
E’ il messaggio che continuiamo a leggere sui nostri quotidiani e a vedere in
televisione: servizi e articoli con un impatto sensazionalistico che si soffermano
sugli atti di violenza senza affrontare le problematiche correlate ai disturbi e
rafforzando in milioni di italiani, attraverso immagini emotivamente intense, il
concetto di pericolosità.
E l’impatto emotivo suscitato può creare una distorsione cognitiva per la quale si
è portati a scambiare l’intensità con la frequenza e a credere quindi che il malato
di mente sia sempre, o spesso, violento.
Se rimangono pochi gli articoli che affrontano la “normalità” della follia rimane
impressa solo la pericolosità e le conseguenze di questa disinformazione sono
drammatiche.
I cittadini non accettano che una persona con disturbi psichici viva nel proprio
condominio o che si aprano strutture per malati di mente nel proprio quartiere, i
datori di lavoro evitano di assumere queste persone, la famiglia si sente
allontanata e colpevolizzata, le assicurazioni sanitarie praticamente non coprono i
disturbi psichici. Infine, la persona stessa può, come abbiamo visto, cadere nel
meccanismo dello stigma autoescludendosi dalla società.
Questo quando nei paesi industrializzati è stata scientificamente dimostrata
l’associazione tra isolamento sociale ed esito infausto del disturbo, e la minore
necessità di ricovero per le persone che hanno reti sociali complesse.
A questo proposito Benedetto Saraceno, psichiatra direttore del Dipartimento
Salute Mentale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) a Ginevra, sul
Corriere Salute del Corriere della sera dell’11 novembre 2001 afferma che “la
paura della discriminazione sul lavoro e sull’avanzamento di carriera
professionale porta a nascondere la malattia, o a non volerla ammettere. Anche in
paesi come l’Italia”.
Un altro concetto che spesso ritroviamo negli articoli dei quotidiani e che, come
abbiamo visto, risulta essere fortemente correlato allo stigma, è legato
all’individuazione delle anomalie genetiche come causa dei disturbi psichici.

75
Mette in luce Cozza109 come la notizia della scoperta riguardante la sequenza del
genoma umano, comunicata dalla Celera Genomics nel 2001, abbia riportato
all’attenzione dell’opinione pubblica la questione legata all’ereditarietà della
schizofrenia, con tutte le conseguenti implicazioni di natura scientifica ed etica.
Diversi studi epidemiologici hanno concluso, d’accordo con la comunità
scientifica internazionale, che l’ereditarietà rappresenta solo uno dei fattori di
rischio che influiscono sulla nascita della schizofrenia. Insieme all’aspetto genico
sono infatti stati studiati e riconosciuti altri fattori, anche di maggiore
importanza, legati agli aspetti psicologici e sociali. Lo stesso DSM – IV afferma
“benché molti dati suggeriscono l’importanza dei fattori genetici nell’eziologia
della schizofrenia, l’esistenza di un tasso consistente di discordanza nei gemelli
monozigoti indica anche l’importanza di fattori ambientali”.
Anche il Manuale di Psichiatria francese di Henry Ey, Bernard P., Brisset Ch.
Conferma che “la ricerca sui gemelli, pilastro della teoria ereditaria, dimostra
insieme la forza della predisposizione e il suo limite, perché, nei gemelli veri, la
concordanza non arriva che al 40-50 %, al massimo al 75%”.
Nel rapporto sulla Salute Mentale 2001, pubblicato nell’ottobre 2001 dall’OMS,
si afferma che la malattia mentale dipende da una combinazione tra i diversi
fattori genetici, biologici, psicologici, sociali e culturali. Pertanto si può
senz’altro affermare che la storia familiare, il contesto sociale, e le altre variabili
ambientali giocano un ruolo importante nella genesi della schizofrenia e nella
conseguente scelta degli approcci terapeutici. 110
Il messaggio che invece è arrivato, e continua ad arrivare, attraverso i più
autorevoli quotidiani nelle case degli italiani ed in particolare in quelle dove
vivono i pazienti psichiatrici gravi, è centrato sul determinismo genetico della
schizofrenia, peraltro escluso dagli stessi ricercatori che conducono le ricerche
sul genoma.
Il desiderio di creare la notizia che la schizofrenia fosse causata dai geni, spiega
Cozza, aveva portato i mezzi d’informazione a distorcere la realtà scientifica

109
Cozza M., Linee di salute mentale, in Cozza M., Fiorillo G.P., Il nostro folle quotidiano,
Manifestolibri srl, Roma, 2002, p. 131
110
Ibidem.
76
riconosciuta, poiché il codice genetico è solo uno dei fattori predisponenti alla
schizofrenia.
Ma l’allarme è giustificato ancora oggi poiché ancora oggi si parla, ad esempio,
di “geni guerrieri” (o geni della violenza) associati alle baby gang111 o di “geni
associati alla schizofrenia e al comportamento suicida”.112
Scrive Barberi:

Sull'utilità, e la validità, di queste ricerche la comunità scientifica discute da


tempo, ma un risultato l'hanno senz'altro raggiunto: i geni del
comportamento hanno ottenuto una visibilità mediatica senza precedenti. È
un tipo di scienza che evidentemente ha una buona dose di appeal: non a
caso c'è chi li ha chiamati «geni strappa-applausi», proprio per la facilità con
cui i quotidiani riescono a trasformare la loro scoperta in titoli a nove
colonne. Il segreto del successo? Avere un contenuto scientifico abbastanza
semplice e comprensibile a tutti e implicazioni filosofiche e sociali
accattivanti.113

Il risultato concreto di tali meccanismi riguardanti casi simili a questi non è


soltanto una semplice “forzatura” giornalistica, ma rischia di provocare danni
irreparabili in molte famiglie: è infatti probabile, come sostiene Cozza, che alla
lettura di questo genere di notizie il primo pensiero dei familiari, e degli stessi
pazienti, sia l’incurabilità della malattia, almeno fino a quando non verrà scoperta
una precisa terapia genica. Le conseguenze più gravi sono perciò un minore
investimento in trattamenti psicologici, sociali e psicofarmacologici che invece,
va detto, negli ultimi anni hanno portato a risultati terapeutici sempre più
soddisfacenti.
111
Pagliaro P., “Baby gang: la violenza è dovuta ad un “gene guerriero””
inhttp://www.medicinalive.com/medicina-tradizionale/ricerca-e-sperimentazione/baby-gang-
violenza-gene-guerriero/ , 9 giugno 2009
112
“Immune system genes linked to personality traits, mental illness and suicidal
behaviour” in http://www.news-medical.net/news/20110208/Immune-system-genes-linked-
to-personality-traits-mental-illness-and-suicidal-behaviour.aspx, University of Gothenburg, 8
febbraio 2011
113
Barberi M., “Genetica e comportamento” in
http://lescienze.espresso.repubblica.it/articolo/Genetica_e_comportamento/1316126, 29 ottobre
2007
77
L’idea errata che non si possa guarire conduce infatti alla “perdita di speranza,
alla disperazione, all’abbandono, alla trascuratezza e al burn-out dei familiari”114
Se analizzassimo con spirito critico le “clamorose scoperte” e gli stessi articoli
che sembrano trasmettere messaggi di certezza, ci renderemmo probabilmente
conto che si tratta di risultati parziali, limitati, di ipotesi che rinviano sempre a
ricerche successive.
A proposito di queste generalizzazioni e di questi messaggi fuorvianti, Cozza si
esprime in questi termini:

Si tratta di un percorso eticamente, scientificamente e socialmente


estremamente rischioso, che si sta sempre di più diffondendo nella nostra
società, bisognosa di una comunicazione rassicurante e razionale, e che da
semplice ipotesi sembra ormai configurarsi come realtà dogmatica.115

114
Casacchia M., Pioli R., Rossi G. (a cura di), World Psichiatric Association, Schizofrenia e
cittadinananza, Manuale operativo per la riduzione dello stigma e della discriminazione,
Pensiero Scientifico Editore, 2001
115
Cozza M., Linee di salute mentale, in Cozza M., Fiorillo G.P., Il nostro folle quotidiano,
Manifestolibri srl, Roma, 2002, p.136
78
79
CAPITOLO 4

L’OSPEDALE PSICHIATRICO GIUDIZIARIO

Il fiume impetuoso è detto violento,


ma il letto che lo serra
nessuno lo chiama violento.
Bertolt Brecht

4.1 La realtà dell’O.P.G.: anacronismo di un’istituzione totale

Un’istituzione totale può essere definita come il luogo di residenza e di


lavoro di gruppi di persone che – tagliate fuori dalla società per un
considerevole periodo di tempo – si trovano a dividere una situazione
comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e
formalmente amministrato.116

Gli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG) e i meccanismi di internamento e di


reclusione che li alimentano rappresentano uno dei fenomeni più longevi e allo
stesso tempo più nascosti della nostra società. In questi luoghi, terra di mezzo tra
il carcere e l’ospedale, sono rinchiusi i “malati di mente autori di reato”, i “folli
criminali” che nel nostro immaginario sono i cattivi, i pazzi pericolosi che
nessuno di noi vorrebbe mai incontrare. Quelli che, in base al nostro codice
penale, sono condannati non ad una pena certa, ma ad una misura di sicurezza
prorogabile. Questo meccanismo della proroga, spesso replicato all’infinito, o al
finito della morte, determina paradossali e indeterminate reclusioni.
Sopravvissuti alle riforme, sia quelle tentate che quelle riuscite, agli sforzi
dell’antipsichiatria e alla critica delle istituzioni totali, gli OPG rappresentano

116
Goffman E., Asylums. Le istituzioni totali: meccanismi della esclusione e della violenza,
Einaudi, Torino, 1961
80
una realtà che, contemporaneamente, “evoca il passato e guarda al presente”.117 Il
passato è infatti visibile nei letti di contenzione, nelle sbarre e nelle celle che
rinchiudono persone con un disagio mentale, nel fondamento custodiale che
determina queste vite. Ma è visibile anche il presente, poiché “il meccanismo che
fa incrociare il discorso medico con quello penale, la contiguità tra forme di
disciplina e quelle del controllo, si inserisce a pieno titolo nell’ideologia
securitaria di questa parte del secolo”.118
Ma che cos’è esattamente l’OPG e come funziona?

L’OPG è la struttura detentivo-medica che sino alla riforma penitenziaria


del 1975 era chiamata “manicomio criminale”. Ha funzione di custodia
degli internati (per la difesa sociale) e contemporaneamente di cura e
trattamento (per il reinserimento nella società). Esso è parte integrante del
sistema penitenziario e si basa sulla norma giuridica secondo cui
l’imputabilità di un soggetto, autore di reato, è subordinata alla sua capacità
di intendere e volere.119

Il ricovero in OPG è trattato dall’articolo 222 del codice penale il quale recita:

“Nel caso di proscioglimento per infermità psichica, ovvero per


intossicazione cronica da alcool o da sostanze stupefacenti, ovvero per
sordomutismo, è sempre ordinato il ricovero dell'imputato in un manicomio
giudiziario per un tempo non inferiore a due anni; salvo che si tratti di
contravvenzioni o di delitti colposi o di altri delitti per i quali la legge
stabilisce la pena pecuniaria o la reclusione per un tempo non superiore nel
massimo a due anni, nei quali casi la sentenza di proscioglimento è
comunicata all'Autorità di pubblica sicurezza. La durata minima del
ricovero nel manicomio giudiziario è di dieci anni, se per il fatto commesso
la legge stabilisce la pena di morte120 o l'ergastolo, ovvero di cinque se per il

117
Dell’Aquila D.S., Se non t’importa il colore degli occhi. Inchiesta sui manicomi giudiziari,
Filema edizioni, Napoli, 2009, p.7
118
Ibidem.
119
www.equalpegaso.net
120
La pena di morte è stata soppressa e sostituita con l’ergastolo.
81
fatto commesso la legge stabilisce la pena della reclusione per un tempo non
inferiore nel minimo a dieci anni. Nel caso in cui la persona ricoverata in un
manicomio giudiziario debba scontare una pena restrittiva della libertà
personale, l'esecuzione di questa è differita fino a che perduri il ricovero nel
manicomio. Le disposizioni di questo articolo si applicano anche ai minori
degli anni quattordici o maggiori dei quattordici e minori dei diciotto,
prosciolti per ragione di età, quando abbiano commesso un fatto preveduto
dalla legge come reato, trovandosi in alcuna delle condizioni indicate nella
prima parte dell'articolo stesso.”121

I pazienti degli OPG, persone a cui vengono diagnosticate patologie psichiatriche


e tutte autrici di reato, hanno posizioni giuridiche differenti. In primo luogo vi
sono internati prosciolti per infermità mentale (art. 89 e segg. c.p.), ossia ritenuti,
da una sentenza e da una conseguente perizia medica, incapaci di intendere e di
volere al momento del fatto, quindi sottoposti al ricovero in OPG in quanto
socialmente pericolosi (art. 222 c.p.); in questi casi la misura di sicurezza
detentiva è revocabile entro un periodo minimo di 2-5-10 anni a seconda del
reato, ma può anche essere prorogata.
Vi sono inoltre internati con infermità mentale sopravvenuta per i quali sia stato
ordinato l’internamento in OPG o in casa di cura e custodia (CCC) (art. 212 c.p.),
internati provvisori imputati, in qualsiasi grado di giudizio, sottoposti alla misura
di sicurezza provvisoria in OPG, in considerazione della presunta pericolosità
sociale ed in attesa di un giudizio definitivo (art. 206 c.p, art. 312 c.p.p.),
internati con vizio parziale di mente, dichiarati socialmente pericolosi ed
assegnati alla CCC, eventualmente in aggiunta alla pena detentiva, previo
accertamento della pericolosità sociale (art. 219 c.p.), detenuti minorati psichici
(art. 111 D.P.R. 230/2000, Nuovo regolamento di esecuzione dell’ordinamento

121
Art. 222 Codice Penale. La sentenza della Corte Costituzionale n.139 del 1982 ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale del primo comma nella parte in cui il provvedimento di
internamento nel manicomio giudiziario non sia subordinato all’accertamento della persistente
pericolosità sociale. Con sentenza del 2003, la n. 253 ha invece dichiarato l’illegittimità “nella
parte in cui non consente al giudice, nei casi ivi previsti, di adottare, in luogo del ricovero in
Opg, una diversa misura di sicurezza, prevista dalla legge, idonea ad assicurare adeguate cure
dell’infermo di mente e a far fronte alla sua pericolosità sociale.
82
penitenziario), detenuti condannati in cui l’infermità di mente sia sopravvenuta
durante l’esecuzione della pena (art. 148 c.p.), detenuti dei quali deve essere
accertata l’infermità psichica, per un periodo non superiore a 30 giorni (“in
osservazione”) (art. 112 c.2 D.P.R. 230/2000 – Nuovo regolamento di esecuzione
dell’ordinamento penitenziario).122
Nel caso del proscioglimento, questo è in realtà quindi una condanna,
riesaminabile entro 2-5-10 anni.
E’ infatti nel nome stesso, “ospedale psichiatrico giudiziario”, che si nasconde
l’inganno ed è proprio da qui che bisogna partire. L’idea di ospedale dovrebbe
rimandare ad un luogo di cura, in realtà, in questo contesto, la parola rimanda
all’uso classico che del termine si fa alla nascita del potere manicomiale.
L’ospedale guarisce in quanto “panottico”123, per dirlo con Foucault, in quanto
nulla sfugge allo sguardo di chi, disciplinando, con la sola stessa
regolamentazione delle vite guarisce imponendo al folle un principio di realtà. Si
definisce psichiatrico perché è una perizia psichiatrica (la quale sancisce il non
essere penalmente responsabile), a sottrarre il reo dall’imputabilità, ma,
paradossalmente, non dalla punizione. Giudiziario perché l’ultima parola spetta
ad un giudice, quella che condanna e quella che, forse, un giorno libera.
Ad oggi sono sei gli OPG attivi in Italia124 e si trovano ad Aversa (CE),
Barcellona Pozzo di Gotto (ME), Castiglione delle Stiviere (MN), Montelupo
Fiorentino (FI), Napoli e Reggio Emilia. Queste strutture contano in totale più di
1.350 internati di cui circa la metà si trova rinchiuso per aver commesso reati
contro la proprietà, e non contro la persona.
Le due riforme che hanno riguardato il sistema penitenziario e quello psichiatrico
non hanno inciso su questo sistema. Nel 1975, infatti, la legge 354, che riforma
radicalmente il sistema penitenziario italiano, apporta ai manicomi giudiziari

122
Ministero della Giustizia,
http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_normativa_1596_ulterioriallegati_ulterioreallegato_1_alleg
.pdf
123
Foucault M., Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino, 1973
124
Sembrava che l’OPG di Napoli dovesse chiudere alla fine del 2010 in seguito ad una visita
ministeriale che lo ha ritenuto inadatto, dal 2008 gli internati dell’ex ospedale psichiatrico
Sant’Eframo sono ospitati nel carcere civile di Secondigliano in condizioni giudicate pessime
dall’Associazione Antigone.
83
un’unica modifica nominativa, introducendo il nome attuale “Ospedale
psichiatrico giudiziario”. L’altra grande riforma, la legge 180 del 1978 o Legge
Basaglia125, non ha interessato i manicomi giudiziari, ma è intervenuta
unicamente sul sistema psichiatrico “civile”.
Trascorso perciò il tempo delle riforma, delle lotte antipsichiatriche e della critica
alle istituzioni totali, gli OPG, qua e là appena scalfiti dalle sentenze della Corte
Costituzionale, sono sopravvissuti indenni. Alle vite prigioniere, recluse, che
hanno attraversato questi anni, di quegli sforzi, di quelle lotte, non è giunto
nemmeno l’eco.126
Per comprendere appieno questo fenomeno è però necessario capire veramente
cos’è una misura di sicurezza e cosa determina i meccanismi di internamento.
Nel manicomio giudiziario due elementi determinano l’ingresso, la permanenza e
l’uscita degli internati: l’incapacità e la pericolosità sociale. E gli strumenti, del
giudice e dello psichiatra, sono la perizia psichiatrica e la misura di sicurezza.
Tutto ruota attorno a questi fattori fondamentali.
Esiste un legame diretto tra le misure di sicurezza e il concetto di pericolosità
sociale. “Le prime superano i limiti che il diritto pone a se stesso, le garanzie
previste nel processo penale e la certezza della pena.”127
Quali sono le dinamiche che, nel nostro Paese, portano una persona a fare
ingresso in un Ospedale psichiatrico giudiziario?

125
La Legge 180/1978 è una nota e importante legge quadro che impose la chiusura dei
manicomi e regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio, istituendo i servizi di igiene
mentale pubblici. Fu una vera e propria rivoluzione culturale e medica, basata sulle nuove (e più
"umane") concezioni psichiatriche, promosse e sperimentate in Italia da Franco Basaglia. La
legge 180 demandò l'attuazione alle Regioni, le quali legiferarono in maniera eterogenea,
producendo risultati diversificati nel territorio. Nel 1978 solo nel 55% delle province italiane vi
era un ospedale psichiatrico pubblico, mentre nel resto del paese ci si avvaleva di strutture
private (18%) o delle strutture di altre province (27%).
Di fatto solo dopo il 1994, con il Progetto Obiettivo e la razionalizzazione delle strutture di
assistenza psichiatrica da attivare a livello nazionale, si completò la chiusura effettiva dei
manicomi in Italia.
Nonostante critiche e proposte di revisione, la legge 180 è ancora la legge quadro che regola
l'assistenza psichiatrica in Italia.
126
Dell’Aquila D.S., Se non t’importa il colore degli occhi. Inchiesta sui manicomi giudiziari,
Filema edizioni, Napoli, 2009, p.14 e sgg.
127
Ibidem.
84
Il codice penale italiano (codice Rocco) è da questo punto di vista uno strumento
di difesa sociale di grande efficacia.
Il presupposto da cui partire è il concetto di imputabilità, già trattato nel secondo
capitolo: l’articolo 85 sancisce, come abbiamo visto, che non può essere punito
chi nel momento in cui ha commesso reato non era imputabile, cioè “non era
capace di intendere e volere”. Per volere dell’articolo 88 non è quindi imputabile
chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di
mente da escludere la capacità di intendere e volere. Oltre ad accertare l’esistenza
del vizio di mente, che può essere parziale o totale, il giudice deve, per decidere
in merito all’imputabilità, valutare anche la pericolosità sociale del soggetto.
Spiega D.S. Dell’Aquila, presidente dell’Associazione Antigone Campania:

Se il giudice accerta il vizio totale di mente e la pericolosità sociale,


l’imputato viene “prosciolto” ed internato in un ospedale psichiatrico
giudiziario. Se invece fosse accertato il vizio totale di mente, ma non la
pericolosità sociale, in questo caso l’imputato sarebbe semplicemente
prosciolto e il caso archiviato. L’accertamento di un vizio parziale e della
pericolosità sociale comporta la riduzione della pena di un terzo, ma al
termine della pena segue l’applicazione della misura di sicurezza e
l’internamento in una casa di Cura e Custodia (che è semplicemente un altro
nome con cui si definisce l’ospedale psichiatrico giudiziario).
L’accertamento del vizio parziale, in assenza di pericolosità sociale,
determina solo la diminuzione della pena.128

Se la persona che soffre di una qualche patologia psichiatrica ha commesso reato


ed è considerata socialmente pericolosa, per il codice penale italiano occorre una
sanzione che assolva a due esigenze: la prima di non configurarsi tecnicamente
come una vera e propria pena, poiché va rispettato il principio della non
imputabilità, la seconda che consenta comunque di impedire al “reo folle” di
tornare alla vita pubblica. Ed è qui, nel rapporto tra disagio sociale e mentale e

128
Ibidem.
85
diritto penale, che subentra il problema delle misure di sicurezza. Scrive L.
Ferrajoli, importante giurista e accademico italiano:

Dalle pene le misure di sicurezza si distinguono per il loro diverso


presupposto: che non è tanto, o non solo e comunque non sempre, la
commissione di un reato, bensì la qualificazione della persona come
“pericolosa socialmente” per la probabilità che commetta qualche reato
futuro. Sotto questo aspetto le misure di sicurezza, benché applicate dal
giudice sono nella sostanza delle misure di difesa sociale, assai più simili
alle misure di prevenzione che alle pene […]129

In sostanza il “folle reo” incapace d’intendere e volere non è punibile, ma può


essere sottoposto ad una misura di sicurezza che non è altro che una pena che
però è rinnovabile. Contrariamente al senso comune, il “proscioglimento” non è
assenza di condanna, anzi. Questa è la prima contraddizione: due-cinque-dieci
anni di internamento che il codice penale definisce, teneramente, “ricovero”. Un
ricovero molto particolare, poiché si tratta di un periodo da trascorrere in
manicomio che non è determinato dai tempi della cura, bensì dai tempi previsti
dalla condanna. Il giudice affida allo psichiatra l’autore del reato, ma in questo
affidamento è evidente che la cura contiene in sé la pena. “Non è il medico a
stabilire i tempi di permanenza, non la perizia, ma la sentenza del giudice”.130
I pazienti, non colpevoli perché infermi, sono comunque ristretti e
contemporaneamente curati in carceri mascherate da ospedali, regolate da
Ordinamenti Penitenziari che solo la eventuale sensibilità di Magistrati di
Sorveglianza, direttori ed operatori potrebbe adattare alle loro condizioni di
salute mentale e fisica.
Il livello di vita che ne deriva è nella maggioranza dei casi affliggente e
inevitabilmente caratterizzato da forti tensioni, mentre serenità e tranquillità

129
Ferrajoli L., Diritto e ragione, Teoria del garantismo penale, Laterza, Roma-Bari, 1989, p.
811
130
Dell’Aquila D.S., Se non t’importa il colore degli occhi. Inchiesta sui manicomi giudiziari,
Filema edizioni, Napoli, 2009, p.18
86
dovrebbero essere fondamentali in una struttura con questa tipologia di
ricoverati.
Molti internati non hanno consapevolezza di quanto è loro successo né
dell’esperienza che si trovano a vivere nell’OPG. Tra quelli che sono consapevoli
del proprio reato, la maggior parte non sa comunque darsene motivo ed è
schiacciata da rimorsi che vengono soffocati generando spesso in essi gravi
patologie che incoraggiano giudizi sommari e ulteriori esclusioni dal vivere
sociale.
Al termine della misura di sicurezza vi è una valutazione della sussistenza della
pericolosità sociale, che non è data solo dalle condizioni di salute dell’internato,
ma da ben altre considerazioni. E qui comincia il meccanismo della proroga, in
gergo stecca, che determina anche l’internamento a vita.
Nello specifico, l’articolo 207 c.p. prevede che le misure di sicurezza “non
possono essere revocate se le persone ad esse sottoposte non hanno cessato di
essere socialmente pericolose”. La revoca non può essere ordinata se non è
decorso un tempo corrispondente alla durata minima stabilita dalla legge.
Quando questo periodo minimo trascorre, in base a quanto sancisce l’articolo 208
spetta al giudice prendere “in esame le condizioni della persona che vi è
sottoposta, per stabilire se essa è ancora socialmente pericolosa”. Se la persona
risulta essere ancora pericolosa, il giudice fissa un nuovo termine per un esame
ulteriore in base al comma 2 dello stesso articolo, proroga cioè la misura di
sicurezza. La misura ha perciò un tempo minimo, ma non ha un tempo massimo.
Come si valuta giuridicamente la pericolosità sociale?
Il codice penale risponde a questa domanda con l’articolo 203 il quale recita “agli
effetti della legge penale, è socialmente pericolosa la persona, anche se non
imputabile o non punibile […], quando è probabile che commetta nuovi reati.
[…] La qualità di persona socialmente pericolosa si desume dalle circostanze
indicate nell’articolo 133”. Tale articolo, “Gravità del reato: valutazione degli
effetti della pena”, stabilisce quali siano i limiti del potere discrezionale del
giudice per desumere la gravità del reato. Nell’ordine la gravità va desunta: 1)
dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall'oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni

87
altra modalità dell'azione; 2) dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla
persona offesa dal reato; 3) dalla intensità del dolo o dal grado della colpa. Il
giudice deve tener conto, altresì, della capacità a delinquere del colpevole,
desunta: 1. dai motivi a delinquere e dal carattere del reo; 2. dai precedenti penali
e giudiziari e, in genere, dalla condotta e dalla vita del reo, antecedenti al reato;
3. dalla condotta contemporanea o susseguente al reato; 4. dalle condizioni di
vita individuale, familiare e sociale del reo.
Ciò che maggiormente colpisce in questo articolo è il fatto che il giudice, oltre a
valutare aspetti quali la gravità del danno o l’intensità del dolo, debba anche
valutare la persona stessa, il carattere, i precedenti e la condotta di vita prima e
dopo il reato, le condizioni di vita individuali, familiari e sociali. Ma se il metodo
per determinare la pericolosità sociale è questo, dal punto di vista puramente
giuridico è evidente che una qualsiasi persona che abbia commesso un reato in
condizioni di disagio mentale e di povertà o abbandono possa essere definibile,
giuridicamente parlando, socialmente pericolosa e subire perciò una proroga
della misura di sicurezza.
Come scrive Foucault:

Tutta la penalità del secolo XIX diventa un controllo che non pone in
dubbio se ciò che fanno gli individui è d’accordo o no con la legge, ma che
interviene piuttosto al livello di ciò che possono fare, sono capaci di fare,
sono disposti a fare, sono sul punto di fare. […]
La grande lezione della criminologia e della penalità della fine del secolo
XIX fu la concezione scandalosa in termini di teoria penale, di pericolosità.
La nozione di pericolosità significa che l’individuo deve essere considerato
dalla società al livello delle sue possibilità e non dei suoi atti, non al livello
delle infrazioni effettive ad una legge anche effettiva, ma delle possibilità di
comportamento che esse rappresentano.131

Vi sono poi, come già abbiamo accennato, altre vie che conducono all’ingresso
nel manicomio giudiziario. Una di queste è quella prevista dall’articolo 148 c.p. e
131
Foucault M., La verità e le forme giuridiche, La città del sole, Napoli, 2007, p. 109
88
riguarda persone già condannate alle quali sopraggiunge l’infermità mentale
dopo la condanna e si manifesta durante la detenzione. Un’altra ragione
d’ingresso si ha nel caso in cui la persona, ritenuta anche parzialmente capace
d’intendere e di volere, viene condannata ad una pena al termine della quale si
applica, come pena accessoria, la misura di sicurezza. Una ulteriore ipotesi è data
dall’applicazione in misura provvisoria delle misure di sicurezza. Infine vi è il
caso in cui il detenuto manifesti problemi di natura psichiatrica durante la
reclusione e venga perciò tenuto per un periodo in OPG sotto osservazione. Al
termine di questo periodo, in base alla perizia e al giudizio del giudice, si
valuterà la sua salute mentale e, di conseguenza, se trasferirlo in OPG o se
rimandarlo in carcere. Solitamente la maggioranza degli osservandi, trascorsi i
trenta giorni voluti dalla legge, rientra nei reparti psichiatrici delle carceri di
provenienza. In questi casi il manicomio giudiziario serve soltanto a compensare
e gestire gli stati di crisi più acuta.
Questo impianto normativo, parzialmente modificato da alcune sentenze della
Corte costituzionale che non hanno inciso sui processi di internamento, ha
costruito più strade per l’internamento in OPG.

In parte il sistema delle misure di sicurezza previsto dal codice Rocco è


stato attenuato dalla legge Gozzini (663/86) e dalla Corte costituzionale. La
presunzione della pericolosità sociale (prevista dall’articolo 204 del codice
penale), connessa a certi tipi di reati o all’infermità mentale, è stata
abrogata. Formalmente, quindi, il rapporto diretto tra malattia mentale e
pericolosità sociale non è più diretto, ma va accertato ogni volta. La legge
Gozzini ha abolito quindi la presunzione di pericolosità ed ha attribuito al
magistrato di sorveglianza “l’applicazione, esecuzione, trasformazione o
revoca, anche anticipata, delle misure di sicurezza nonché al riesame della
pericolosità ai sensi del primo e secondo comma dell’art. 208 c.p.” […]

89
L’applicazione della misura di sicurezza definitiva e la valutazione della
pericolosità sociale nella fase di esecuzione della pena spetta dunque al
magistrato di sorveglianza.132

Le fasi che si possono individuare sono due: la prima è quella del processo
penale in cui intervengono più giudici (pubblico ministero, giudice di merito,
magistrato di sorveglianza), la seconda, quella dell’esecuzione vera e propria, in
cui la competenza spetta esclusivamente al magistrato di sorveglianza. E’
singolare che, mentre nella fase di giudizio il parere prevalente è quello dello
psichiatra che effettua la perizia, nella fase di esecuzione pesi soltanto la
decisione del magistrato di sorveglianza il quale non è vincolato dalla perizia
psichiatrica nello stabilire la libertà o la reclusione dell’internato.
Per quanto riguarda la perizia, essa è il momento in cui lo psichiatra prevale sul
giudice. La perizia determina l’esito della sentenza di proscioglimento e
influenza la decisione del magistrato di sorveglianza; può essere inoltre utilizzata
nel corso del processo per valutare la capacità d’intendere e volere, ma non si
può invece procedere a perizie per valutare l’abitualità del reato, la tendenza a
delinquere, il carattere e la personalità dell’imputato e le sue qualità psichiche
indipendenti da cause patologiche. Si tratta anche qui di una modifica apportata
della legge Gozzini accolta nel nuovo codice di procedura penale all’articolo
220, comma 2. Ciò che però non può essere preso in esame al momento del
giudizio, ossia, appunto, le qualità indipendenti da cause patologiche, “può essere
invece contenuto nella perizia e nell’indagine in base alla quale il magistrato di
sorveglianza valuta la proroga della misura di sicurezza”.133
La perizia nel processo mira a valutare tre cose: l’imputabilità, la pericolosità
sociale, la capacità di una valida partecipazione al processo. Nella prassi si tratta
di un quesito standard che il giudice formula al perito.
Una considerazione che va fatta, come sottolinea Dell’Aquila, è che “al momento
della perizia lo psichiatra non incontra un paziente, ma un reo, che è definito dal

132
Dell’Aquila D.S., Se non t’importa il colore degli occhi. Inchiesta sui manicomi giudiziari,
Filema edizioni, Napoli, 2009, p.24 e sgg.
133
Ibidem.
90
delitto commesso prima ancora che lo psichiatra possa procedere ad una
definizione delle condizioni mentali periziando.”134 Anche in una forma narrativa
più scientifica il giudizio morale sul delitto commesso, la presa di distanza dal
colpevole, le parole utilizzate per narrare gli avvenimenti sono tutt’altro che
neutre. In alcuni casi “l’orrore del delitto raccontato supera le barriere […] per
irrompere nella trama”.135
La perizia durante la fase processuale è redatta dallo psichiatra sulla base dei fatti
narrati nei rapporti di polizia e solo sulla base di uno o due incontri diretti con
l’oggetto/soggetto della perizia.
Molto spesso è questa prima diagnosi a determinare il proscioglimento e ad
accompagnare quindi l’ingresso dell’internato in OPG, occorre poi molto tempo
prima che essa sia verificata e approfondita.
In ogni caso, “la perizia è ciò che permette di passare dal giudizio sull’atto
commesso, al giudizio su sul modo di essere dell’individuo che quell’atto ha
commesso. Trasforma l’individuo nell’oggetto di una tecnica che lo pone nel
piano indefinito del diritto e della medicina.”136.
Scrive Foucault:

I magistrati, i giurati, hanno di fronte non più un soggetto giuridico, ma un


oggetto: l’oggetto di una tecnologia e di un sapere di riparazione, di
riadattamento, di reinserimento, di correzione. In breve la perizia ha per
funzione di doppiare l’autore, il responsabile o non responsabile del crimine
con un soggetto delinquente che sarà l’oggetto di una tecnologia
specifica.137

134
Ibidem.,
135
Angelini F., Boverini S., Majorana M., Verde A., Il delitto non sa scrivere. La perizia
psichiatrica tra realtà e fiction, Derive Approdi, Roma, 2006, p.45
136
Dell’Aquila D.S., Se non t’importa il colore degli occhi. Inchiesta sui manicomi giudiziari,
Filema edizioni, Napoli, 2009, p.28
137
Foucault M., Gli anormali – Corso al Collège de France (1974-1975), a cura di Marchetti V.,
Salomoni A., Campi del sapere, Feltrinelli, 2000, p. 30
91
Naturalmente, chi nella perizia non ha voce è il periziato: “la perizia trova in lui,
nel suo gesto, la propria ragion d’essere, parla di lui ma non parla per lui”.138
La perizia non prevede che ci si chieda quale possa essere una terapia adatta al
paziente, ma si interroga soltanto sul livello di pericolosità sociale di tale
paziente.
In questa fase si ha una sorta di rovesciamento di ruoli tra psichiatra e giudice: lo
psichiatra giudica, infatti, un imputato, mentre il giudice valuta la permanenza
dell’internato in manicomio, e la sua è la valutazione finale.
E’ opportuno chiarire, in questa sede, quali siano le premesse giuridiche in base
alle quali si varca l’ingresso di un manicomio giudiziario. In generale, l’opinione
pubblica e i media si interessano a questi luoghi soltanto per i casi “celebri”, per i
grossi scandali di omicidi particolarmente violenti, stragi familiari, drammi della
follia tra le mura domestiche e così via. Certo, questa rappresenta una parte
esistente e significativa delle storie di internamento, ma entrare in OPG è molto
più comune e semplice di quanto si possa immaginare, anche per quanto riguarda
le storie meno gravi e quindi meno note o ignorate.
Il libro di D.S. Dell’Aquila, Se non ti importa il colore degli occhi, riporta la
vicenda realmente accaduta a Bruno, un ragazzo disabile di Napoli: una storia
come tante altre simili139.

Siamo nel 2000, Bruno ruba, in uno stand di una mostra, una cassetta di
utensili e un telefono cellulare. Poi si allontana tranquillamente e viene
fermato senza problemi dai vigilantes della mostra che non hanno problemi
a fermare un ragazzo di grossa corporatura, ma con l’animo di un bambino
di 10 anni. Non è la prima volta che Bruno ruba. Appena due anni prima era
stato fermato per aver rubato dal banco di un supermarket un pacchetto di
caramelle. In quel caso era stato condotto in carcere. Ora invece, come si
può leggere nel lancio di agenzia dell’Ansa, è fortunato perché “per fortuna
è rimasto in cella solo due giorni per poi essere trasferito nell’ospedale
psichiatrico giudiziario, una struttura che ospita detenuti, ancorché affetti da
138
Ibidem, p.104
139
Dell’Aquila D.S., Se non t’importa il colore degli occhi. Inchiesta sui manicomi giudiziari,
Filema edizioni, Napoli, 2009, p.29-30
92
patologie mentali, che hanno compiuto reati di una tale gravità da renderli
pericolosi per gli altri. Un giudizio che evidentemente riguarda anche il
ladro di caramelle e di utensili, Bruno O. che è stato ritenuto dal gip Isabella
Iaselli “non imputabile ma comunque socialmente pericoloso”140.

Così come l’ingresso, anche la libertà e il termine della misura di sicurezza sono
determinati dalla fine della pericolosità sociale, e ad incidere su questa decisione
subentrano diverse considerazioni: se ad esempio l’internato non ha famiglia, non
ha casa, non ha lavoro, non ha una struttura che lo ospita…dove va? Tanto vale
che rimanga dentro.
Le ragioni che possono prolungare la permanenza sembrano assurde, ma sono
anche queste. Gli elementi da valutare, infatti, sono principalmente due: le
condizioni interne, cioè l’analisi psichiatrica dell’internato e la presenza di una
sintomatologia psicotica, e le condizioni esterne che sono puramente logistiche,
ossia legate alla disponibilità di una opportunità di sistemazione alternativa.
Il fatto che ancora oggi, come un tempo, la libertà dipenda da una disponibilità
all’esterno, è in preoccupante continuità con la storia di centinaia di persone
internate per volontà o indisponibilità delle proprie famiglie.
Ma, come sostiene Dell’Aquila, “non sarebbe corretto attribuire alle famiglie una
responsabilità pubblica. Gli internati sono cittadini e pazienti psichiatrici.
Avrebbero diritto all’assistenza da parte del sistema sanitario nazionale che ha
l’obbligo giuridico di presa in carico.”141
Purtroppo in questi casi l’obbligo è formale, mentre nella pratica avviene che le
Asl neghino la disponibilità di strutture di accoglienza psichiatrica, ad ese,pio per
mancanza di fondi, e quindi rifiutino la presa in carico. E senza questa
disponibilità si è socialmente pericolosi.
Un parere medico favorevole che attesti l’assenza della pericolosità sociale e
l’utilità di un inserimento in comunità, al giudice può non bastare: se le Asl non
hanno posti liberi presso le loro comunità, la proroga si impone inevitabilmente.

140
Ansa, lancio di agenzia del 3 ottobre 2000
141
Dell’Aquila D.S., Se non t’importa il colore degli occhi. Inchiesta sui manicomi giudiziari,
Filema edizioni, Napoli, 2009, p.31
93
Sono infiniti i casi in cui pazienti si ritrovano a vivere la permanenza in OPG
come una condizione di “limbo”, in attesa, malgrado la teorica cessazione della
misura di sicurezza, perché non esiste una rete di assistenza esterna o una
persona che se ne prenda cura. Inoltre, più il tempo trascorre, più è difficile
garantire l’inserimento in una comunità.
Questo sistema della proroga della misura di sicurezza si può ripetere fino ad
assicurare ad un internato una permanenza a vita in OPG. Lo chiamano
“ergastolo bianco”, ed è la terribile condizione di chi, giudicato dalle perizie
psichiatriche non più pericoloso socialmente, ma incapace di gestirsi
autonomamente una volta uscito, continua la permanenza in istituto per anni e
anni, quasi come stesse scontando una condanna a vita, in seguito
all’impossibilità di trovare un parente o un’istituzione che se ne faccia carico: si
tratta di una condizione deprimente, sicuramente peggiore dello stesso ergastolo,
poiché fa nascere nei pazienti attese interminabili e speranze vane che continuano
ad essere deluse. Mentre "un ergastolo è fine pena mai, un ergastolo bianco è:
fine pena X".142
Questo meccanismo è anche all’origine del problema del sovraffollamento che
pesa sugli OPG, i quali ospitano tutti circa il doppio degli internati rispetto alla
capienza massima.
Oltre la metà degli internati vede ogni anno prorogarsi la propria misura di
sicurezza. Tra gli anni 2000-2004 ci sono state, complessivamente, 3.387
proroghe143, di cui 593 nel 2000, 707 nel 2001, 748 nel 2002, 651 nel 2003, 688
nel 2004: un dato in crescita che non consente ulteriori osservazioni. Questi dati
evidenziano come il problema delle proroghe non sia limitato a pochi casi
eclatanti (come quello famoso di Vito De Rosa, internato per 51 anni144), ma
interessi la maggior parte degli internati.

142
Chianelli G., “Ergastolo bianco: la vita all’OPG di Aversa” in
http://napoli.repubblica.it/dettaglio/Ergastolo-bianco-la-vita-allOpg-di-Aversa/1424708, 18
febbraio 2008
143
Dell’Aquila D.S., “Giustizia: gli Opg, ultimi manicomi; 1.500 persone rinchiuse perché
vittime della malasanità”, Il Manifesto, 18 luglio 2010
144
Maranta F., Vito il recluso, Sensibili alle foglie, Roma, 2005
94
Con questo sistema può poi accadere che, paradossalmente, l’autore di reati gravi
possa scontare una detenzione molto più breve rispetto a chi, per esempio, è
dentro per il reato di oltraggio a pubblico ufficiale.
Ciò che emerge da tutti questi aspetti, dunque, è un enorme ritardo del sistema
legislativo italiano, rispetto ad una realtà che deve per forza essere ripensata in
funzione della sensibilità di oggi al tema della malattia mentale.

“Se, infatti i manicomi sono stati chiusi trent’anni fa (legge 180/1978), pare
oggi importante riflettere sull’opportunità di una riforma che si concentri sui
pazienti - presenti e futuri - degli Ospedali psichiatrici giudiziari, visto che
fino ad ora non si è pervenuti alla stesura di provvedimenti legislativi ad
hoc.”145

4.2 Da manicomio criminale a O.P.G. e (forse) oltre: evoluzione di


un’istituzione attraverso leggi, scandali e prospettive future
Con le parole sotto riportate, Cesare Lombroso, fondatore della scuola di
Antropologia criminale e convinto assertore del determinismo biologico e
costituzionale della delinquenza, nelle adunanze del 1872 al Reale Istituto
Lombardo di Scienze e Lettere, affrontava la questione del delinquente folle ed
apriva un dibattito che, qualche anno dopo, avrebbe condotto alla creazione del
manicomio criminale, un’istituzione in grado di risolvere, secondo i suoi
promotori, la complicata questione della destinazione dei “delinquenti-folli”,
categoria di difficile gestione nelle carceri, ma che non trovava soluzione
adeguata neppure nei manicomi civili:

“Si può discutere a lungo da un lato e dall’altro sulla teoria della pena, ma in
un punto ormai tutti convergono: che fra i delinquenti e quelli creduti tali,
ve n’ha molti che, o sono, o furono alienati, per cui la prigione è

145
www.equalpegaso.net
95
un’ingiustizia, la libertà un pericolo, e a cui mal si provvede da noi con
mezze misure, che violano ad un tempo la morale e la sicurezza”.146

Il primo istituto ad accogliere folli criminali, ancor prima che venissero istituiti
appositi manicomi, fu l’Asilo di Bedlam, in Inghilterra, “dove nel 1876 venne
aperto un comparto speciale, che spianò la strada al progetto del manicomio
criminale come stabilimento destinato unicamente al ricovero dei rei folli”.147
L’esempio inglese, il primo a disciplinare con la legge la materia dei delinquenti
folli, fu quindi indicato da Lombroso che condivideva sia l’analisi del folle reo
contenuta nella legge inglese, sia i rimedi attuati per evitare che questo tipo di
delinquente subisse lo stesso trattamento del delinquente comune.
In Italia il problema della destinazione dei soggetti responsabili di reati e
riconosciuti infermi di mente si pose a livello nazionale, come tutto il resto delle
leggi penali, con l’avvenuta unificazione del Regno.
Con l’emanazione del Codice Penale sardo, entrato in vigore nel 1859, il Regno
d’Italia affronta per la prima volta il problema dei folli criminali, distinguendo
come principali destinatari dei manicomi giudiziari due categorie soggetti
(prosciolti e delinquenti folli), ma non prevedendo appositi istituti per accoglierli.
In sintesi, il Codice Penale sardo riconosceva la non imputabilità per l’imputato
che aveva commesso il reato in stato di assoluta pazzia; nel caso in cui invece lo
stato di pazzia non fosse sufficiente a giustificare l’azione, allora il codice
prevedeva la condanna dell’imputato.
L’esigenza di istituire anche in Italia appositi istituti di cura e custodia dei
delinquenti folli diventa un punto nevralgico dell’antropologia criminale, la quale
individua nelle cause di delinquenza innanzitutto uno stato patologico; il crimine
è dunque una malattia e in quanto tale la cura deve essere affidata alla medicina.

146
Bonanno G., “Da Ferraro a Lombroso e viceversa” in L’incompatibile – periodico di critica
all’istituzione psichiatrica, in
http://www.incompatibile.altervista.org/sostanze_psicoattive/da_ferraro_a_lombroso_e_vicever
sa.pdf consultato il 06.02.2011
147
Borzachiello A., Alle origini del manicomio criminale, in Giorgini G., Pugliese G., Mi firmo
per tutti – Dai manicomi criminali agli ospedali psichiatrici giudiziari: un’inchiesta e una
proposta, Datanews, Roma, 1997, p.71
96
Nel 1874, infatti, Gaspare Virgilio, medico primario del manicomio civile di
Aversa, scriveva:

Potendo la tendenza a delinquere essere nient’altro che uno stato morboso


(il che ci studieremo a dimostrare) è di fatti dovuto in gran parte alla
medicina l’applicarvi i rimedi, qualora sia in grado di apprezzare la natura
delle cause.148

Se l’individuo delinquente è quindi portatore di uno stato morboso, affetto da


tutti quei caratteri fisici, intellettuali, morali che caratterizzano una “deviazione
morbosa del tipo umano”, sosteneva Virgilio, allora ciò consente, nell’ottica
degli alienisti, di stabilire un legame tra i delinquenti e i folli, i quali “vanno
ritenuti quale una degradazione morbosa della specie.”149
Stabiliti i punti di contatto tra delinquente e folle, si pose il problema di
differenziare le due categorie, al fine di stabilire il rimedio per i danni arrecati
alla società dai soggetti che vi appartenevano. Si inserì così il problema della
responsabilità nei condannati e nei folli.
Virgilio, pur ammettendo una differenza tra condannati e folli in termini di
responsabilità, in pratica sosteneva che tale differenza non fosse rilevante ai fini
della difesa sociale e che fosse perciò necessario assicurare la pubblica sicurezza
rinchiudendo il folle omicida in manicomio perché rispondesse dei propri atti.
L’individuazione di un diverso livello di responsabilità tra delinquenti e folli,
quindi, non esimeva la società dal prendere provvedimenti contro di essi:

Lo scopo è unico: la guarentigia e la sicurezza della società; ed in


ambo i casi l’effetto del rimedio su gl’individui che lo debbono
risentire è sempre lo stesso, cioè la perdita dell’individuale libertà.150

148
Virgilio G., “Saggio di ricerche sulla natura morbosa del delitto e delle sue analogie colle
malattie mentali. Osservazioni raccolte nella Casa dei condannati invalidi e nel manicomio
muliebre di Aversa pel dott. G. Virglio”, in Rivista di discipline carcerarie, anno IV, 1874,
p.382
149
Ibidem p. 384
150
Ibidem. P. 385
97
E’ evidente che, partendo dal presupposto che sia la delinquenza che la follia
siano stati morbosi dell’individuo e che entrambi disturbano l’equilibrio sociale,
“contro i mali apportati da organismi guasti, l’esigenza primaria è la difesa
sociale; pertanto, il carcere per i delinquenti e il manicomio per i folli sono da
ritenersi la giusta medicina per la cura di affezioni patologiche”.151 Nell’ottica di
Virgilio, e di molti esponenti della Scuola di Antropologia criminale, l’attività di
profilassi criminale si sarebbe potuta estendere a tutti quei soggetti portatori di
anomalie fisiche, per i quali era possibile presumere con rilevante certezza lo
stato morboso di delinquenza e follia.
I dati sulle presenze di detenuti alienati nelle carceri fecero invocare a Virgilio,
nell’ottica allora imperante, la necessità di istituire i manicomi criminali per quei
soggetti bisognosi di assistenza particolare, liberando i manicomi dalle presenze
che portavano disordini e dai soggetti che lasciavano incerti i medici riguardo
alla loro “degenerazione morale”.152
Il dibattito vide schierati i principali sostenitori dell’antropologia criminale che,
oltre a studiare l’origine e le cause della delinquenza e della follia morale, si pose
come scienza in grado di fornire una visione globale della realtà sociale,
soprattutto di quella meridionale.
All’indomani dell’Unità d’Italia, infatti, le misere condizioni delle popolazioni
del Sud fecero sì che esse sembrassero incarnare, nei volti e nei corpi segnati
dalla povertà, la conferma degli studi degli antropologi criminali i quali
sostenevano, Lombroso e i suoi seguaci in testa, il pregiudizio di inferiorità delle
genti dell’Italia meridionale.
Naturalmente non mancarono le voci di autorevoli meridionalisti che si opposero
vigorosamente a tali posizioni razziste travestite da dignità scientifica. Essi
contestarono duramente le tesi degli antropologi criminali positivisti spiegando
l’arretratezza del Sud con ragioni storiche e sociali.

151
Borzachiello A., Alle origini del manicomio criminale, in Giorgini G., Pugliese G., Mi firmo
per tutti – Dai manicomi criminali agli ospedali psichiatrici giudiziari: un’inchiesta e una
proposta, Datanews, Roma, 1997, p. 74
152
Tamassia A., “La pazzia nei criminali italiani”, in Rivista carceraria, anno IV, 1874.
98
Le razze meridionali, tuttavia, incarnavano, nella visione positivista, il tipo
biologico ideale da classificare come inferiore e predisposto alla follia e alla
delinquenza. La presunta prova, sostenuta da Lombroso, che il cranio di un
delinquente calabrese presentasse una “fossetta anomala” e quindi portasse
scritto il suo destino, spinse ad estendere tali convinzioni.
Si impose così l’ordine alle popolazioni meridionali, tenute per secoli nella
miseria. Carceri e manicomi diventarono serbatoi di individui indesiderati,
stigmatizzati come razze inferiori, segnati nel corpo dall’emarginazione, dalla
fame e dalla povertà: questi segni del corpo, effetti delle loro condizioni,
diventarono causa di ulteriore ghettizzazione ed esclusione sociale.

La gamma di comportamenti classificati come delitti, o comunque


espressione di alienazione mentale, così classificati nelle varie categorie di
follia che la scienza nosografica ottocentesca aveva prodotto, venne estesa a
tutti quei movimenti di opposizione all’ordine costituito, come il
brigantaggio, l’anarchia, il movimento socialista ecc., i fenomeni che
vennero considerati come manifestazioni di turbe mentali, cui venivano
inflitte sanzioni punitive di particolare durezza, tanto severe che famosi
“ospiti” delle case di pena spesso passavano, dopo un certo periodo di
detenzione, ai manicomi criminali perché “impazziti in carcere”.153

L’intenso dibattito apertosi con l’Antropologia criminale aveva evidenziato


l’urgenza di mettere mano al più presto a un progetto legislativo che autorizzasse,
anche in Italia, l’apertura dei manicomi criminali. Gli antropologi criminali
individuarono infatti in questi istituti la soluzione ottimale al problema della
delinquenza e lo strumento per attuare la difesa sociale.
Nel 1876, con un semplice atto amministrativo, si inaugurò la Sezione per
maniaci presso l’antica casa penale per invalidi di Aversa, per sopperire al ritardo
legislativo in materia di istituzione di manicomi per delinquenti folli. Tale

153
Borzachiello A., Alle origini del manicomio criminale, in Giorgini G., Pugliese G., Mi firmo
per tutti – Dai manicomi criminali agli ospedali psichiatrici giudiziari: un’inchiesta e una
proposta, Datanews, Roma, 1997, p.77
99
sezione, la cui direzione fu affidata proprio a Virgilio, rappresentò il primo
nucleo di quegli istituti che qualche anno dopo saranno denominati manicomi
criminali, sperimentando così quegli “stabilimenti speciali per condannati
incorreggibili”. Nel 1903 Lombroso definirà tale istituto “un manicomio
criminale che potrebbe chiamarsi un’immensa latrina”.154
La scelta di anticipare l’apertura della sezione per folli rei con un atto
amministrativo, con un cospicuo anticipo rispetto all’atto ufficiale che
sopraggiunse nel 1889, fu dettata dalla necessità: l’Amministrazione della
giustizia infatti non trovava spazio nei manicomi comuni per i “delinquenti
impazziti”.
Nel 1877, un anno dopo l’apertura della sezione di Aversa, il dibattito sui
manicomi criminali si spostò in Parlamento.
L’iter parlamentare si rivelò più difficile del previsto: nonostante i diversi disegni
di legge presentati infatti, l’imminenza del varo del nuovo codice penale fece
rinviare la discussione della questione in tale sede.
Nel frattempo, dopo alcuni congressi della Società Freniatrica Italiana, tenutisi ad
Aversa (1878) e a Reggio Emilia (1881), durante i quali venne sollecitata
l’istituzione dei manicomi criminali, fu approntato un apposito disegno di legge,
che sarà presentato nell’aprile del 1884.
Appariva intanto evidente che la sezione di Aversa non era in grado di sopperire
alle esigenze di contenere i “pazzi criminali” di tutto il Regno, inoltre il trasporto
dei detenuti risultava alquanto scomodo e dispendioso.
Si scelse così di adibire a manicomio criminale un’antica Villa Medicea situata a
Montelupo Fiorentino, a 25 chilometri da Firenze, a poca distanza dalla ferrovia
e abbastanza isolata da non arrecare disturbo agli abitanti del territorio. Il nuovo
manicomio criminale di Montelupo Fiorentino fu così inaugurato il 12 giugno
1886.
Fu il Codice Zanardelli del 1889 ad affrontare sistematicamente il tema
dell’imputabilità penale, presupposto logico per introdurre l’istituto del
manicomio criminale per gli autori di reato infermi o seminfermi di mente.

154
Lombroso C., Il momento attuale, Milano, 1903, p. 94
100
La situazione è ben fotografata dal suddetto codice penale, ed in particolare
dall’articolo 46: i condannati espiano la pena nel carcere, salva la possibilità di
essere inviati nel manicomio criminale, per essere lì assistiti e curati, ove siano
“impazziti nel carcere”. Essi vengono in ogni caso liberati, dal carcere o dal
manicomio criminale, al termine della condanna a loro inflitta; gli autori di reato
riconosciuti infermi di mente all’epoca della commissione del fatto di reato, e
pertanto prosciolti dall’accusa penale (folli-rei) vengono liberati. Peraltro, ove il
giudice “stimi pericolosa la liberazione” del folle-reo così prosciolto, l’autore del
reato viene assoggettato ai provvedimenti amministrativi di competenza: essi
consistono nel ricovero coattivo in un manicomio civile (e non, quindi in un
manicomio criminale), per una durata di tempo non preventivamente
determinata.
Nel frattempo, nel 1896 un terzo manicomio giudiziario entrò in funzione a
Reggio Emilia, ospitato in un vecchio convento del XVI-XVII secolo situato nel
centro storico della città. Questo fu prima adibito a carcere per condannati affetti
da vizio parziale di mente, quindi a manicomio giudiziario. Nel 1925 vennero
costruiti quattro padiglioni a un piano rialzato, disposti a quadrato, destinati a
Sezione per minorati psichici.
La sede del quarto manicomio giudiziario fu un antico convento di Napoli che,
dopo essere stato adibito dal 1865 a carcere giudiziario e dal 1920 a istituto
speciale per minorenni, divenne, con decreto ministeriale del 1 luglio 1923,
manicomio giudiziario S.Eframo.
Il manicomio giudiziario di Barcellona pozzo di Gotto, in provincia di Messina,
fu istituito con legge del 13 marzo 1907; l’inaugurazione avvenne il 6 maggio
1925, alla presenza del ministro Guardasigilli Alfredo Rocco, numerose autorità
e un vasto pubblico. “La cerimonia rappresentò una ghiotta occasione per
tributare onori al governo fascista che si autocompiaceva di promuovere
istituzioni che avrebbero concorso al miglioramento della razza italica”.155

155
Borzachiello A., Alle origini del manicomio criminale, in Giorgini G., Pugliese G., Mi firmo
per tutti – Dai manicomi criminali agli ospedali psichiatrici giudiziari: un’inchiesta e una
proposta, Datanews, Roma, 1997, p.84
101
Questa fu la situazione fino al 1930, ossia fino all’entrata in vigore del
successivo codice penale cosiddetto Rocco: sino al 1930, quindi, il soggetto che
ha commesso un reato e che viene prosciolto dall’accusa penale per essere stato
riconosciuto infermo di mente nel momento in cui lo commise, con il
provvedimento di proscioglimento esce comunque ed in ogni caso dalla
cognizione del giudice. In altre parole, il giudice penale non ha più alcuna
competenza su di lui e sulla sua vicenda. Questo soggetto ha infatti, con il
proscioglimento, esaurito del tutto il percorso all’interno del circuito penale: vi
aveva fatto ingresso in quanto accusato di un reato; ne viene definitivamente
espulso, poiché giudicato non imputabile e quindi non responsabile e non
punibile, in quanto affetto da patologia psichica nel momento in cui commise il
fatto di cui era stato accusato.
L’accusato prosciolto per infermità viene dunque liberato, oppure passa alla
competenza amministrativa di carattere civile.
Il Codice Rocco, emanato nel 1930 in pieno regime fascista, rappresentò una
svolta in senso totalitario di quei principi liberali affermatisi con il Codice
Zanardelli. Il codice del 1930, infatti, estende il principio della presunzione di
pericolosità (art. 222) ai soggetti non imputabili per infermità di mente, e
introduce le misure di sicurezza, tra cui la misura del manicomio giudiziario. Il
principio di pericolosità sociale legato al folle autore di reato è infine sancito
dalla legge.
Come abbiamo già visto, per la categoria degli infermi di mente il Codice Rocco,
tuttora in vigore, prevede obbligatoriamente e in via automatica la misura di
sicurezza del ricovero a tempo indeterminato in manicomio giudiziario, mentre
per i soggetti semi-infermi di mente è prevista l’assegnazione in casa di cura e
custodia. Misura che si affianca alla pena inflitta, anche se diminuita, in aggiunta
o in sostituzione a questa.
Col tempo il concetto di difesa sociale assunse una prospettiva più definita e il
sistema delle pene si configurò come bonifica sociale e profilassi criminale,
ovvero l’insieme degli interventi preventivi che lo Stato pratica per impedire le
infrazioni della norma penale.

102
Dino Grandi, ministro della Giustizia nel Governo Mussolini, fu autore di due
volumi dedicati alla questione carceraria, intitolati non a caso Bonifica umana
dove scriveva che “per il nuovo codice penale Mussoliniano” (codice Rocco del
1930, n.d.a.) la fase esecutiva della pena è messa “al centro dell’attività rivolta
alla lotta contro la delinquenza, onde impedire che gli stabilimenti di pena
divengano, come spesso avveniva, delle vere e proprie scuole di delitto”.156

Il concetto di bonifica, quindi, secondo l’ideologia fascista, va applicato in


una duplice direzione: da un lato si bonificano le zone paludose, infestate
dalla malaria, impiegando la mano d’opera dei reclusi che vengono inviati
nelle colonie penali, dall’altro il concetto di bonifica viene adattato alla
personalità del delinquente che, alla stregua di un pezzo di terra malsano da
strappare alle paludi, va curato e sanato attraverso un adeguato trattamento
carcerario. Pertanto, la fase dell’esecuzione della pena finisce per acquistare
un’importanza assoluta nell’opera di profilassi della criminalità.157

Per quanto riguarda il sesto ed ultimo istituto, si tratta di quello di Castiglione


delle Stiviere (Mantova). La sezione giudiziaria nacque in questo manicomio
civile nel 1939 a seguito di una convenzione stipulata, presso la procura generale
di Brescia, tra il Ministero di Grazia e Giustizia e l’Amministrazione degli Istituti
Ospedalieri di Castiglione delle Stiviere, da cui all’epoca dipendeva il
manicomio civile, per il ricovero di folli prosciolti. Nel giugno del 1943 la
convenzione scadeva, così il Ministero invitò la procura generale a rinnovare il
contratto, che venne firmato il 9 novembre 1943.
Attualmente la convenzione, rinnovata ogni due anni, è tra il Ministero della
Giustizia e l’Azienda Ospedaliera Carlo Poma (nata in ottemperanza alla Legge
di riordino del Servizio Sanitario Nazionale, la cosiddetta Riforma BIS,
promotrice della aziendalizzazione del Servizio Sanitario stesso). Per questo
motivo, la struttura ha un'organizzazione esclusivamente sanitaria in analogia con

156
Grandi D., Bonifica umana, Tip. Mantellate, Roma, 1940.
157
Borzachiello A., Alle origini del manicomio criminale, in Giorgini G., Pugliese G., Mi firmo
per tutti – Dai manicomi criminali agli ospedali psichiatrici giudiziari: un’inchiesta e una
proposta, Datanews, Roma, 1997, p.86
103
i Dipartimenti di Salute Mentale del Territorio, è perciò l’unico Istituto italiano
senza agenti di Polizia Penitenziaria; ad oggi, inoltre, questo è anche l’unico
OPG ad ospitare una sezione femminile.
Tornando all’iter legislativo dei manicomi giudiziari, l’impianto originario del
codice penale Rocco rimase invariato fino agli anni Settanta. Questo periodo fu
infatti caratterizzato da accesi dibattiti causati da scandali nel panorama
carcerario italiano.
Il primo scandalo scoppia ad Aversa, dove il 15 dicembre 1974 giunge, sulla
scrivania del pretore, un esposto-denuncia da parte di Aldo Paolo Trivini, ex
internato del manicomio giudiziario di Aversa. Nell’esposto si denuncia una
lunga serie di situazioni illegali perpetrate a danno degli internati, eccetto una
ristretta cerchia di privilegiati, ad opera dell’attuale direttore, il dott. Domenico
Ragozzino, e del personale di custodia. Si parla di ambienti malsani, sporchi e
maleodoranti, di cibo avariato, di mezzi di contenimento tra cui il famigerato
letto di contenzione. Già all’inizio del secolo, con il R.D. 16/8/1909 n. 615
“Disposizioni e regolamento sui manicomi e sugli alienati” si stabiliva che i
mezzi di coercizione degli infermi dovevano essere “aboliti o ridotti a casi
assolutamente eccezionali”; nel 1974, inoltre, il Ministero di Grazia e Giustizia
aveva emanato una circolare che invitava le direzioni a rimuovere i letti di
contenzione prescrivendoli solo in casi di “assoluta necessità”.
L’esposto-denuncia descrive le terribili condizioni di vita degli internati che non
rientrano nel giro dei “protetti” : essi girano sporchi e laceri e a piedi nudi, sono
costretti a dormire su materassi luridi e a mangiare “brodaglia con polpette
annerite”; le punture vengono fatte sempre con lo stesso ago e le guardie
umiliano e percuotono con bastoni ed altri oggetti i detenuti.158
Partono così un procedimento penale ed una parallela inchiesta affidata ad uno
psichiatra e ad un medico legale. Intanto, altre denunce si aggiungono alla prima
portando alla luce gravi illeciti che fanno emergere responsabilità, oltre che del
direttore e dei suoi collaboratori, anche del ministero, per omesso controllo sulla

158
Manacorda A. , Il Manicomio giudiziario: cultura psichiatrica e scienza giuridica, De
Donato, Bari, 1988
104
gestione dell’istituto. Il processo si celebrerà quattro anni dopo: Ragozzino sarà
condannato a cinque anni di reclusione oltre all’ammenda, all’interdizione dai
pubblici uffici e alla sospensione della professione medica per due anni; si
suiciderà nel novembre del 1978. Anche i suoi collaboratori saranno condannati a
due anni circa di reclusione. Il ministero della Giustizia dovrà risarcire i danni
alle parti civili.
Prima che partisse l’inchiesta sui fatti di Aversa, un altro scandalo ebbe luogo a
Napoli: una serie di lettere anonime denunciarono infatti il clima di illegalità
anche in questo manicomio giudiziario, diretto dal dott. Giacomo Rosapepe. Il
direttore avrebbe concesso privilegi a tre famosi internati concedendo loro lunghi
colloqui, visite vietate dalla legge, lunghe telefonate internazionali. Nonostante
alla fine del processo il dott. Rosapepe fosse stato assolto, ciò non gli impedì di
suicidarsi .
L’ultimo e più il famoso scandalo di quegli anni riguarda il caso del manicomio
giudiziario femminile di Pozzuoli (NA), il quale venne aperto nel 1955 e balzò
prepotentemente all’attenzione dell’opinione pubblica nel 1975, anno in cui, il 5
di gennaio, i giornali riportarono la notizia della morte di Antonia Bernardini,
una detenuta defunta all’Ospedale Cardarelli di Napoli il 31 dicembre 1974, dopo
quattro giorni di agonia, a seguito delle ferite riportate nell’incendio del
materasso sintetico del letto al quale era stata legata per almeno quattro giorni.
La notizia fece scalpore e accese un dibattito sulle condizioni di un’istituzione
che era in vita da ormai un secolo.
Antonia Bernardini era romana, aveva quarant’anni, era sposata e madre di una
figlia. Soffriva da tempo di disturbi mentali ed era stata classificata dagli
psichiatri dell’Ospedale Santa Maria della Pietà di Roma, dove era stata
ricoverata diverse volte, distimica recidivante: viveva infatti periodi in cui
appariva triste, svogliata, disinteressata o addirittura disperata. Durante un
periodo di grave malessere, la donna decise di recarsi a Reggio Emilia, dove
aveva già ricevuto altre cure. Fu alla Stazione Termini, durante la fila alla
biglietteria, che ebbe un semplice diverbio con un’anziana signora. Un giovane si
intromise nella discussione spintonando la Bernardini, la quale reagì con uno

105
schiaffo. Il caso volle che il giovane fosse un carabiniere in borghese e la donna
venne così arrestata all’istante e condotta all’Ospedale Psichiatrico Santa Maria
della Pietà, da cui approdò poi al manicomio giudiziario femminile di Pozzuoli
per essere sottoposta ad osservazione. Resterà qui, in attesa del processo, un anno
e due mesi, ma durante questa attesa il trattamento cui sarà sottoposta consisterà
essenzialmente nella contenzione: il letto su cui, legata, morirà.
Fu necessario il suddetto scandalo per sollevare le proteste della società civile e
dello stesso sottosegretario alla Sanità, Franco Foschi, che chiese la chiusura del
manicomio giudiziario di Pozzuoli.
Il processo si svolse due anni dopo, il 17 giugno del 1977, e portò alla condanna
a quattro anni di reclusione per direttore e vicedirettore, e a pene minori per tre
vigilatrici e una suora.
In questa circostanza, la sentenza cercò di affrontare anche il tema dell’uso del
letto di contenzione, presentando i mezzi di coercizione in genere come
“inumana e barbara forma di sopraffazione violenta della personalità
dell’individuo”, con un “valore terapeutico negativo” e determinante un
“aggravamento delle condizioni mentali del paziente coartato”.159
La sentenza d’Appello per i fatti di Pozzuoli però ignorò i contenuti di tale
norma, affermando invece la legittimità della coercizione dei pazienti psichiatrici
ed assolvendo così tutti gli imputati dalle accuse loro contestate, chi per
insufficienza di prove, chi con formula piena.
Il vivace dibattito critico sviluppatosi in Italia dal attorno al 1975, stimolato
anche dagli eventi tragici di quegli anni, sollecitò e in qualche modo “impose”
alcune modifiche nel sistema originario del codice Rocco. In tale dibattito si
fondevano due principali filoni critici: quello più evidente e di maggior presa
sull’opinione pubblica si riferiva alle gravi disfunzioni presenti da sempre nella
gestione concreta degli istituti, quello più analitico e con prospettive più di fondo
concerneva invece la funzione stessa dell’istituzione, e quindi le norme
giuridiche che regolavano questa funzione.

159
Borzachiello A., Alle origini del manicomio criminale, in Giorgini G., Pugliese G., Mi firmo
per tutti – Dai manicomi criminali agli ospedali psichiatrici giudiziari: un’inchiesta e una
proposta, Datanews, Roma, 1997, p.90
106
Fino a quell’epoca infatti i manicomi giudiziari erano gestiti, a parte alcune
eccezioni, in modo miserevole e vessatorio da un’amministrazione centrale
noncurante e da un potere medico piuttosto deprivato.
Per quanto riguarda i problemi di gestione, negli anni successivi il 1975 vi fu un
ricambio quasi completo del gruppo medico dirigente e si videro inoltre
l’ingresso di nuove figure professionali, oltre ad una più efficace politica di
stanziamento e di impiego delle risorse finanziarie e ad un vivo e fattivo interesse
culturale ed operativo della magistratura di sorveglianza, anch’essa in gran parte
rinnovata.
Tutto ciò, sostiene Manacorda, ha comportato che le disfunzioni del manicomio
giudiziario, lungi ovviamente dall’essere risolte, non sono più comunque così
massive e sistematicamente vessatorie come in passato.160
Per quanto riguarda invece il filone critico rispetto alle funzioni della istituzione,
a essere messo in discussione era l’impianto normativo del codice Rocco,
insieme alle sue radici filosofiche, etiche e politiche.
Con la legge di riforma penitenziaria n. 354 del 26 luglio 1975 (la cosiddetta
legge Gozzini), non si intervenne però sulla normativa riguardante il manicomio
giudiziario, che assunse soltanto la nuova denominazione di Ospedale
psichiatrico Giudiziario (OPG), anche se nel codice penale, agli articoli 215 e
222, viene ancora utilizzata la vecchia denominazione di manicomio giudiziario.
Questa fu anche l’epoca del grande dibattito culturale sul manicomio civile e
sulla psichiatria in generale, che sfocerà nella legge n.180 del 1978 (la legge
Basaglia, v. nota 125 p. 83). La complessiva riforma delle attività psichiatriche
pubbliche, di cui questa legge era portatrice, non poteva però scalfire la realtà dei
manicomi giudiziari che, in quanto istituti penitenziari, rimanevano purtroppo
sottratti dal circuito civile dell’assistenza sanitaria pubblica.
E’ da sottolineare che gran parte delle modifiche al codice penale che riguardano
tali problemi non furono adottate direttamente dal potere politico, il quale rimase
in questo campo distratto e inconcludente e finì per essere scavalcato da altri

160
Manacorda A., Il manicomio giudiziario. Aspetti di raffronto tra l’Italia e gli altri paesi
europei, in Giorgini G., Pugliese G., Mi firmo per tutti – Dai manicomi criminali agli ospedali
psichiatrici giudiziari: un’inchiesta e una proposta, Datanews, Roma, 1997, p.104
107
poteri istituzionali i quali, legittimamente, incisero sulle norme di epoca e
matrice fascista giudicandole non conformi alla Costituzione del 1948.
Nel 1974 infatti la Corte Costituzionale con sentenza n. 110 del 23 aprile
dichiarò l’illegittimità della norma in cui si assegnava al giudice esecutivo la
facoltà della revoca o della proroga della misura di sicurezza. La legge 354/75
attribuì tale facoltà alla sezione di sorveglianza per il distretto della Corte
d’Appello.
Parimenti, fu la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 139 del 27 luglio 1982, a
stabilire che la pericolosità sociale, che rimaneva “presunta per legge”, dovesse
essere verificata nella sua concreta sussistenza nel momento dell’applicazione
della misura di sicurezza. In tal modo si conferiva al giudice, seppur in modo
parziale, il dovere di valutare le situazioni caso per caso (dovere che il legislatore
fascista gli aveva volutamente tolto nel 1930).
Sotto la spinta di queste pronunce della Corte Costituzionale che, come è noto,
hanno il potere di modificare direttamente ed immediatamente la legge, o una
parte di essa, se non aderente alla Costituzione, il potere legislativo compì un
passo avanti stabilendo, all’articolo 31 della legge del 10 ottobre 1986 n. 663, di
modifica all’ordinamento penitenziario, che la qualità di persona socialmente
pericolosa del prosciolto per vizio di mente non era più presunta per legge, ma
era invece da valutarsi dal giudice caso per caso.161
La normativa italiana attuale riguardante l’OPG ed il meccanismo della misura di
sicurezza sono stati ampiamente analizzati nel paragrafo 4.1 di tale capitolo.
Non bisogna commettere l’errore di pensare che in tutti questi anni i manicomi
giudiziari non siano stati oggetto di critiche. Persino da parte della stessa
amministrazione penitenziaria e del Ministero di Giustizia vi era la
consapevolezza dei rischi e delle condizioni di queste strutture.
La tappa più recente in termini di normativa risale al marzo del 2008: dopo molti
annunci sono stati infatti conclusi i passaggi tecnici per l’atteso trasferimento al
Servizio sanitario nazionale delle funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle
risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in materia di sanità

161
Ibidem. p. 105
108
penitenziaria. Immediatamente equilibri che sembravano immodificabili sono
mutati.
E’ stato infatti approvato, nel marzo 2008, il Decreto del Presidente del Consiglio
dei Ministri concernente le modalità e i criteri per il trasferimento. L’atto regola
il passaggio voluto dalla legge finanziaria 2008 e dà attuazione al riordino della
medicina penitenziaria (d.lgs 22 giugno 1999, n.230). Con l’entrata in vigore di
tale Decreto, sono state trasferite alle Regioni tutte le funzioni sanitarie svolte dal
Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e dal Dipartimento di giustizia
minorile.
In particolare l’articolo 5 del Decreto trasferisce alle Regioni “le funzioni
sanitarie afferenti agli Opg ubicati nel territorio delle medesime, trasferendo
contestualmente attrezzature, arredi e beni strumentali alle aziende sanitarie
locali territorialmente competenti”. Si avvia un processo di riforma che, se non
interrotto, porta profonde novità nel sistema, ma anche molte incertezze.
Nonostante ciò, lo spirito della riforma è quello di riuscire ad arrivare ad un
progressivo, ed auspicabile, superamento di queste strutture.
In questa ottica, nel 2008 i Ministeri della Salute e della Giustizia hanno
approvato le “Linee di indirizzo per gli interventi negli Opg e nelle Case di Cura
e Custodia”162 che indicano i tempi e le fasi nelle quali si dovrebbe articolare il
processo di riforma. Nelle intenzioni si avvia un programma specifico di
interventi le cui azioni principali

Riguardano da un lato l’organizzazione degli interventi terapeutico


riabilitativi, dall’altro la previsione di specifiche indicazioni affinché il
passaggio di competenza delle funzioni sanitarie al Servizio Sanitario
Nazionale si modelli su un assetto organizzativo in grado di garantire una
corretta armonizzazione fra le misure sanitarie e le esigenze di sicurezza.163

Un programma connesso, negli indirizzi ministeriali, alla scelta di attivare


all’interno degli istituti penitenziari ordinari, sezioni organizzate o reparti

162
Benigni B., Sani dentro – Cronistoria di una riforma, Noema, Verona, 2008, p. 202
163
Ibidem.
109
destinati agli imputati e condannati, con infermità psichica sopravvenuta nel
corso della misura detentiva che non comporti l’applicazione provvisoria della
misura di sicurezza o l’ordine di ricovero in OPG o in CCC. Si vuole dunque un
doppio binario: sezioni psichiatriche apposite nelle carceri; Opg solo per i
condannati alla misura di sicurezza.
Il programma di interventi si fonda sul principio di territorialità, già parte
integrante dell’ordinamento penitenziario, il quale, all’articolo 42, stabilisce che
nei trasferimenti debba essere favorito il criterio di destinare i soggetti in istituti
prossimi alla residenza delle famiglie. Secondo le Linee di indirizzo,

per tutte queste ragioni, il principio di territorialità costituisce il fondamento


che motiva il decentramento degli Opg e rende possibile la differenziazione
nella esecuzione della misura di sicurezza, come del resto hanno sanzionato
le sentenze delle Corte Costituzionale che non legano l’applicazione della
misura di sicurezza in modo univoco ed esclusivo all’Opg.164

Secondo la prospettiva delle linee di indirizzo, nella prima fase, a passaggio di


competenze avvenuto, la responsabilità della gestione sanitaria degli Opg è
assunta interamente dalle Regioni in cui questi hanno sede. E’ a questo punto che

i Dipartimenti di salute mentale nel cui territorio di competenza insistono gli


Opg, in collaborazione con l’equipe responsabile della cura e del
trattamento dei ricoverati dell’istituto, provvedono alla stesura di un
programma operativo, che prevede: 1) dimettere gli internati che hanno
concluso la misura della sicurezza, con soluzioni concordate con le regioni
interessate, che devono prevedere forma di inclusione sociale adeguata,
coinvolgendo gli Enti locali di provenienza, le Aziende sanitarie interessate
e i sevizi sociali e sanitari delle realtà di origine o di destinazione dei
ricoverati da dimettere. 2) riportare nelle carceri di provenienza i ricoverati
in Opg per disturbi psichici sopravvenuti durante l’esecuzione della pena.
Questa azione è possibile solo dopo l’attivazione delle sezioni di cura e

164
Ibidem. p. 203
110
riabilitazione, all’interno delle carceri. 3) assicurare che i periziandi e gli
osservandi (ex art. 112 c. 1 e c. 2 D.P.R. 230/2000) siano assegnati nelle
carceri ordinarie, naturalmente in sedi appropriate.165

Obiettivo generale quello, quindi, di ridurre il numero di internati in OPG e di


aumentare perciò il rapporto tra operatori e internati.
In una seconda fase, a distanza di un anno, si prevede una prima distribuzione
degli attuali internati

in modo che ogni Opg, senza modificarne in modo sostanziale la capienza e


la consistenza, si configuri come la sede per ricoveri di internati delle
Regioni limitrofe, o comunque viciniori, in modo da stabilire
immediatamente rapporti di collaborazione preliminari per ulteriori fasi di
avvicinamento degli internati alle realtà geografiche di provenienza.166

Si punta così a creare una rete tra le Regioni dove ha sede l’Opg e le Regioni di
residenza degli internati per predisporre programmi di cura, riabilitazione e
reinserimento sociale degli internati. Questa seconda fase dovrebbe durare circa
due anni.
Nella terza fase si prevede la restituzione ad ogni regione degli internati in Opg
di provenienza dai propri territori e l’assunzione della responsabilità per la presa
in carico, “attraverso programmi terapeutici e riabilitativi da attuarsi all’interno
della struttura, anche in preparazione alla dimissione e all’inserimento nel
contesto sociale di appartenenza, dando così piena attuazione al disposto
dell’articolo 115 c. 1 D.P.R. 230/2000”.167
E’ evidente che questa fase è la più delicata ed è anche quella per la quale non vi
sono ancora obiettivi e tempi definiti. Le linee di indirizzo lasciano intravedere
uno scenario comunque diverso da regione a regione. Si legge infatti:

165
Ibidem.
166
Ibidem. p. 204
167
Ibidem. p. 205
111
le soluzioni possibili, compatibilmente con le risorse finanziarie, vanno
dalle strutture Opg con livelli diversificati di vigilanza, a strutture di
accoglienza e all’affido ai servizi psichiatrici e sociali territoriali, sempre e
comunque sotto la responsabilità assistenziale del Dipartimento di salute
mentale della Azienda sanitaria dove la struttura o il servizio è ubicato.168

Dovrebbe spettare alla Conferenza fra Stato e Regioni definire le tipologie


assistenziali e le forme della sicurezza, gli standard di organizzazione e i rapporti
di collaborazione.
Già comunque a partire dal 2008, nella fase transitoria, le persone affette da
disturbi psichici cui è applicata una misura di sicurezza avrebbero dovuto essere
destinate alle sedi più prossime alla residenza.
Si mira ad una regionalizzazione degli OPG e si chiede alle Asl sul cui territorio
essi sono presenti di istituire, nell’ambito del DSM, una struttura idonea avente
autonomia organizzativa che,

coordinata con gli altri servizi sanitari dell’Azienda sanitaria e con i servizi
sociali, deve avere funzioni di raccordo nei confronti delle Aziende sanitarie
(regionali ed extraregionali) di provenienza dei singoli internati ospitati
presso gli OPG, al fine di concordare ed attuare piani individualizzati di
trattamento per il reinserimento dei pazienti nel territorio entro i tempi
previsti dalla misura di sicurezza comminata a favorire la continuità
terapeutica.169

Si chiede alle Regioni dove sono presenti OPG di realizzare accordi, da rivedere
annualmente, con l’Amministrazione penitenziaria con i quali definire le
rispettive competenze nella gestione della struttura. In questi accordi vanno
stabiliti gli ambiti delle funzioni di sicurezza in base alle esigenze dei singoli
OPG e le modalità d’intervento in casi di necessità ed urgenza, con la

168
Ibidem.
169
Ibidem. p. 206
112
raccomandazione di istituire presidi di sicurezza e vigilanza, preferibilmente
perimetrali o esterni ai reparti.
Il programma di superamento graduale degli OPG impegna in primo luogo le
Regioni che devono farsi carico della parte relativa all’assistenza sanitaria e ai
processi di inclusione sociale da attivare. E’ doverosa quindi la creazione di un
gruppo di lavoro (sia all’interno di ogni Osservatorio regionale, che, a livello
nazionale, del Tavolo di consultazione permanente presso la Conferenza
Unificata fra lo Stato, le Regioni e le Province autonome e le Autonomie Locali,
previsto nelle Linee guida), per gli interventi del Servizio sanitario nazionale a
tutela della salute dei detenuti e degli internati negli istituti penitenziari, e dei
minorenni sottoposti a provvedimento penale per il monitoraggio del passaggio
di competenze della sanità penitenziaria al Servizio sanitario nazionale.
Questi sono quindi, ad oggi, alcuni dei presupposti teorici volti alla parziale
risoluzione di alcuni dei problemi dell’OPG.
A due anni di distanza, il 28 settembre 2010, a Reggio Emilia, viene promosso
dal Servizio sanitario regionale dell’Emilia Romagna, in occasione della quinta
Settimana della Salute Mentale, un convegno dal titolo “L’OPG e i suoi pazienti:
dal carcere alla comunità?” per “riflettere e discutere su ciò che è stato fatto e su
ciò che resta da fare e sulle condizioni attuali degli OPG in Italia”170. E’ centrale
nel dibattito l’intenzione teorica di indirizzare, forse utopicamente, ogni
intervento futuro verso la trasformazione dell’OPG da carcere a comunità
terapeutica: questo lo slogan iniziale. Ci si chiede infatti, in questo contesto,
come si possa fare salute mentale in un luogo che nasce per essere luogo di
pena.171
Da alcuni interventi emerge come il passaggio alle Asl sia stato positivo, ma
abbia fatto nascere alcune difficoltà nel dover fare riferimento a due differenti
direzioni (sanitaria e penitenziaria). Vengono inoltre sottolineati, in questa
occasione, alcuni problemi, non certo minori, di solito trascurati: uno di questi
riguarda gli internati a cui viene data una misura di sicurezza minima, cioè di due

170
http://www.ausl.re.it/Home/DocumentViewer.aspx?ID=1301&TIPODOC=COMUNICAZIO
NE consultato il 18.02.2011
171
Chi scrive ha partecipato al convegno prendendo direttamente gli appunti.
113
anni. Mentre per chi sconta una reclusione di dieci anni risulta possibile
predisporre un progetto di riabilitazione, nella quasi totalità dei casi di
internamenti brevi tali progetti non vengono nemmeno allestiti, e il risultato è che
il soggetto passi due anni che, nella pratica, non sono altro che due anni di
carcere. Una seconda e non meno grave questione riguarda gli internamenti di
persone che non appartengono alla Comunità Europea, quindi privi di riferimenti
sul territorio: per queste persone non esiste alcuna progettualità.
Queste ed altre importanti osservazioni fanno sì che l’attenzione inevitabilmente
si focalizzi sul paradosso, centrale e ancora attuale, alla base del non
funzionamento dell’istituzione dell’OPG: se il progetto riabilitativo sull’internato
non esiste, se non è mai stato sperimentato come questa persona si comporta in
contesti esterni meno contenitivi, come può essere possibile da parte del
magistrato valutare la cessazione della pericolosità sociale? Com’è possibile che
questa persona possa uscire?
Se i progetti di riabilitazione e reinserimento nella società delle persone internate
venissero realmente incentivati e finanziati, tutto il meccanismo girerebbe
perlomeno nella direzione giusta: innanzitutto, ad esempio, si risolverebbe,
magari in parte, il problema del sovraffollamento che attanaglia tutti gli OPG
italiani, poiché gli internati, una volta cessata la pericolosità sociale grazie al
percorso effettuato, potrebbero essere sistemati in una comunità esterna.
A questo punto proviamo a fotografare lo stato attuale degli OPG italiani
attraverso alcuni dati. I dati più recenti dicono che negli OPG italiani sono
presenti circa 1.365 (anche se pochi anni fa si parlava di 1.452) internati di cui un
centinaio sono donne. L’OPG con il più alto numero di internati è quello di
Reggio Emilia, con 303 internati in una capienza regolamentare di 132 posti.
Sono poi 262 le persone internate ad Aversa, 263 a Barcellona Pozzo di Gotto,
245 a Castiglione delle Stiviere ed erano 116 gli internati presenti a Napoli prima
della chiusura dell’istituto avvenuta pochi mesi fa. La capienza regolamentare
totale sarebbe di 1.003 posti. Naturalmente questo dato di evidente
sovraffollamento, come amano ripetere i quotidiani, non si deve semplicemente
limitare agli spazi disponibili, ma va messo in relazione più ampia con l’insieme

114
di servizi e risorse a disposizione di un internato. Le risorse disponibili, infatti,
così come il personale medico convenzionato, non variano in maniera
proporzionale ai presenti, né vi è una quota pro capite. Ciascun istituto dispone di
una propria quota di bilancio, indipendentemente dal numero di detenuti presenti,
o comunque relativamente poco elastica rispetto alle presenze. Le risorse
finanziarie per gestire un OPG oscillavano, nel 2004, tra i 3 ed i 7 milioni di
euro, questo senza considerare Castiglione delle Stiviere il quale, a causa delle
sue peculiarità, cioè l’essere affidato alla gestione “ordinaria” del Sistema
sanitario nazionale, impiega risorse che nel 2004 ammontavano a 12.344.448
euro. Per quanto riguarda gli altri OPG, queste ammontano per Reggio Emilia a
3.895.530,38 euro, per Aversa 5.346.039,21 euro, per Barcellona Pozzo di Gotto
6.538.803,61 euro, per Montelupo Fiorentino 3.730.351,34 euro e per Napoli
4.026.163 euro. E’ facile notare come la distribuzione delle risorse non sia affatto
proporzionata al numero di internati. Visti i numeri c’è da chiedersi di che tipo di
assistenza dispongano queste persone, in termini sia quantitativi che qualitativi.
Vedremo nel dettaglio un caso specifico, quello dell’OPG di Reggio Emilia, nel
prossimo paragrafo.
Altri convegni sono stati organizzati negli ultimi anni, spesso si è parlato, a
livello teorico, di superamento di queste istituzioni, di passaggio alla comunità
terapeutica, di progetti incentrati sulla riabilitazione (recente ad esempio il VI
Forum Nazionale Salute Mentale apertosi ad Aversa il 14 gennaio 2011).
Quello che resta da dire, intanto, è che l’esito appare sempre purtroppo
provvisorio, perché la storia dei manicomi non sembra poter avere ancora una
conclusione definitiva. Nel nostro Paese sono infatti attive e funzionanti diverse
istituzioni manicomiali, nelle quali sono rinchiusi sofferenti psichici, autori di
reato. Nonostante portino il nome di “ospedali”, questi luoghi non possono avere
nulla o quasi che sia simile alla cura, perché sono storicamente pensati per
un’altra funzione. Ciò malgrado il lavoro, spesso generoso oltre immaginazione,
di personale e volontari.
I manicomi giudiziari sono l’emblema di una riforma psichiatrica incompiuta e il
sistema dell’assistenza sanitaria funziona oggi in maniera incostante e non

115
omogenea: sono migliaia infatti le persone che soffrono di un disagio mentale,
ma solo a pochissime di loro è data la possibilità di usufruire di una reale
assistenza psichiatrica. Accanto ad alcune punte di eccellenza esistono ancora
cronicari civili per sofferenti psichici, luoghi che dovrebbero essere chiusi da
anni.
E’ evidente che se non si costruisce realmente un sistema sanitario in grado di
prendere in carico chi soffre di un disagio mentale, a maggior ragione sarà
difficile sperare di farsi carico di un’utenza problematica come il sofferente
psichico autore di reato. Ma nonostante la consapevolezza delle difficoltà, non si
può accettare che nel XXI secolo ci siano persone private della libertà personale
perché non vi è un sistema di welfare in grado di farsi carico dei bisogni e dei
diritti delle fasce più deboli. La povertà non può essere un requisito che riduce la
sfera dei diritti fondamentali. In questo senso, la riforma del 2008 che determina
il passaggio della sanità penitenziaria al sistema regionale si muove in questa
direzione, ma tale passaggio di competenze dal Ministero della Giustizia a quello
della Sanità non supera l’ambiguità di questi posti. Ad oggi, difatti, l’unico
effetto prodotto è che i direttori di OPG siano diventati due: uno, amministrativo,
responsabile della parte “carcere”, l’altro, sanitario, dipendente dalle Asl e
responsabile, appunto, della parte “sanitaria”. L’assetto strutturale e sostanziale
dei manicomi giudiziari è rimasto invariato.
Che futuro attende queste strutture?
In primo luogo sarebbe doveroso ripensare da capo il sistema delle misure di
sicurezza, operazione tutt’altro che semplice che dovrebbe essere inserita nella
riscrittura del nostro codice penale. In secondo luogo bisognerebbe aumentare le
risorse dedicate alla salute mentale e creare una rete di assistenza territoriale.
Sicuramente queste sono operazioni costose, ma il costo sociale di tenere in piedi
queste strutture è certamente più alto.

116
4.3 Il caso: l’O.P.G. di Reggio Emilia
L’Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia è situato in un’ala della
casa circondariale della città, dislocata in un’area extraurbana all’estrema
periferia. La struttura, un edificio costruito nel 1990 con materiali piuttosto
scadenti (presenta infatti, come riscontra anche il rapporto stilato
dall’Associazione Antigone172, infiltrazioni e segni di umidità), è composta di
sette sezioni dotate di celle di circa nove metri quadrati l’una (solitamente 3 x 3)
concepite per una, massimo due persone, ma che in molti casi finiscono per
ospitare anche tre persone: questa struttura nasce infatti con una capienza
massima di 130 posti, mentre contiene circa 300 pazienti.
Le celle appaiono piuttosto anguste, interamente occupate dal mobilio e dagli
effetti personali degli ospiti, sovente sporche. I bagni all’interno sono vecchi,
disagevoli e in cattivo stato di manutenzione, dotati solo di lavabo, wc e lava
piedi, con sola acqua fredda. Nel caso in cui la cella ospiti tre internati, due di
essi dormono in letti a castello, soluzione non esattamente idonea al tipo di
utenza della struttura. Pessime sono anche le condizioni dei locali doccia: le
ceramiche che rivestono le pareti appaiono sudice, il pavimento e le pareti
costantemente bagnate a causa dei forti problemi di condensa, dovuti alla totale
mancanza di areazione ed in cattivo stato di manutenzione generale.
Gli ospiti dell’OPG sono divisi in sezioni che portano nomi di costellazioni: la
sezione Fenice che ospita 53 internati, la sezione Pegaso che ne ospita 52,
Centauro con 57 ospiti, Andromeda con 55, Antares con 60, Orione che ospita
16 internati quasi tutti impegnati in attività lavorative all’interno dell’OPG.
Ciascuna sezione è dotata di un’infermeria, di una saletta di socialità piuttosto
spoglia, di una lavanderia dove gli internati possono lavare i propri indumenti e
di un locale doccia provvisto di quattro piatti doccia.
Vi è infine la sezione educativo-trattamentale Cassiopea, la quale è adibita allo
svolgimento di attività ludiche, educative e trattamentali. Essa è infatti dotata di
una piccola biblioteca affidata alle cure di un internato e all’apparenza ben

172
Rapporto on line in
http://www.associazioneantigone.it/osservatorio/rapportoonline/emilia/reggioemilia.htm
117
fornita e ordinata; di un’ampia sala polivalente con alcuni tavoli, sedie e
panchine, un bancone bar e un televisore; alcune piccole aule scolastiche; una
stanza adattata a cappella per la messa; un laboratorio di falegnameria e una
piccola cucina. Sempre attraverso questa sezione si accede al cortile del
passeggio, dove i soggetti senza particolari problematiche possono recarsi negli
orari previsti. Esiste, in un’altra ala dell’OPG, un cortile cui accedono gli ospiti
particolarmente problematici.
E’ giusto riconoscere all’OPG di Reggio Emilia un merito per l’esperimento di
apertura delle celle durante gli orari diurni. La sezione Antares è stata la prima in
cui tale esperimento è stato avviato, seguita nell’ottobre 2009 anche dalla sezione
Fenice. Il risultato si è rivelato positivo, l’amministrazione ha così deciso di
aprire anche la sezione Andromeda, ma non la sezione Centauro, dove vengono
ospitati anche i detenuti in osservazione psichiatrica provenienti da altri istituti
penitenziari. I reparti restano comunque chiusi rispetto all’esterno e gli agenti di
polizia penitenziaria si occupano solo della sicurezza perimetrale. All’interno
delle sezioni aperte operano solo il personale infermieristico e gli Operatori socio
sanitari.
Un altro elemento positivo da segnalare, come sottolinea l’Associazione
Antigone nel suo rapporto173, riguarda sicuramente l’assunzione di personale
medico-psichiatrico. All’interno della struttura operano adesso degli psichiatri di
ruolo, assunti dalla Ausl locale, mentre in precedenza operavano solo uno
psichiatra interno e due psichiatri esterni a convenzione (per sei ore settimanali) i
quali non potevano assicurare una presenza costante all’interno dell’istituto. Ciò
rende possibile, in particolare, una procedura di accettazione dei nuovi giunti che
prevedrebbe una visita psichiatrica immediata; dovrebbe inoltre facilitare il
monitoraggio sullo stato di salute degli internati.
Tra i punti critici va invece segnalato che in tale struttura, che dal 2007 opera
anche come Casa di cura e custodia, negli ultimi due anni sono aumentati
fortemente gli internati tossicodipendenti in CCC ed è sempre più raro il ricorso
alla misura non detentiva della libertà vigilata.

173
Ibidem
118
Le sale colloquio interne si trovano in una zona che l’OPG condivide con la casa
circondariale e che quest’ultima utilizza come magazzino: ciò, come sottolinea
l’Associazione Antigone174, rende l’area attraverso cui si accede alle sale
particolarmente sporca. La sala colloqui vera e propria è una grande stanza
spoglia, arredata solo con piccoli tavoli e sedie di plastica molto vicini gli uni
agli altri, sorvegliata a vista dagli agenti penitenziari che si trovano dietro la
parete di vetro che occupa un lato della stanza. Ben tenuta e arredata di recente
con mobili donati da un anonimo benefattore è invece la sala per i colloqui con i
bambini. In una zona attigua, sempre condivisa con la casa circondariale, sono
ubicati gli ambulatori odontoiatrico e radiologico. Anche in questo caso gli
ambienti appaiono squallidi e poco curati.
L’OPG ha infine a disposizione un’area verde all’interno della cinta muraria
dove effettuare i colloqui con i familiari. L’area si presenta piuttosto ampia e
ombreggiata. Sempre all’esterno si trovano una “area grigliate” dotata di forno,
barbecue, tavoli e panchine, un campo da calcio e un’area dedicata alla pet-
therapy.
Purtroppo però, da qualche anno a questa parte, le grigliate vengono raramente
permesse e, come evidenzia un recente articolo uscito su La Gazzetta di
Reggio175, “causa mancanza di fondi, a fine anno cesserà il progetto di pet
therapy”.
Il giorno 11 ottobre 2010 infatti, i consiglieri regionali di Sel G. Naldi e G. Meo
hanno visitato l’OPG riscontrando diversi nodi critici, oltre all’ormai noto
sovraffollamento. Prima di tutto la carenza di personale di servizio: operano
infatti soltanto una settantina di unità “a fronte di numero ottimale di personale di
servizio che dovrebbe essere di 211”; inoltre, “per gli internati è disponibile un
educatore e mezzo contro i sei previsti”.176 A ciò va ad aggiungersi l’imminente
cancellazione di alcune delle poche attività organizzate all’interno della struttura.

174
Ibidem.
175
Pigozzi L., “OPG sovraffollato e senza fondi” in La Gazzetta di Reggio, 12 ottobre 2010
176
Ibidem.
119
Oltre alla pet therapy, chiuderà anche il laboratorio di biciclette che “consentiva a
una decina di detenuti di rimanere attivi e occupare parte delle giornate”.177
Per quanto riguarda le restanti attività, oltre alla possibilità di frequentare la
scuola all’interno dell’istituto, sono attive alcune lezioni di stretching da parte
della Uisp, un corso di teatro settimanale e la redazione di un giornalino interno
bisettimanale, tutti della durata massima di due ore. Il corso di teatro e l’attività
di redazione del giornalino sono contemporanee: entrambe il sabato, nella stessa
fascia oraria che è anche quella dei colloqui con i famigliari: è evidente che in
questo modo la partecipazione alle attività risulta, per forza, scostante e limitata.
Le giornate in OPG sono scandite dagli orari: nelle “sezioni aperte” le celle
restano aperte tra le 08:00 e le 20:00 e gli ospiti della struttura hanno possibilità
di accedere all’area di passeggio in due fasce orarie: 09:00/11:00 e 13:00/15:30.
La socialità si svolge invece nelle apposite salette di sezione nelle fasce orarie
16:30/17:20 e 20:00/22:00. Le docce possono essere effettuate tra le 08:30 e le
12:00 o le 18:00 e le 19:00. Tra le 08:30 e le 11:30, nonché le 13:00 e le 15:15 è
aperto il reparto Cassiopea e alcuni ospiti possono accedervi anche se, negli
ultimi tempi, le attività ludiche o riabilitative sono molto scarse se non quasi
inesistenti: a parte il sabato, infatti, il resto dei giorni non sono quasi mai previste
attività.
I colloqui con i familiari si tengono dalle 9 alle 14 il mercoledì il venerdì e il
sabato per un massimo di due ore a colloquio. Gli avvocati possono invece
accedere al colloquio con gli internati dal lunedì al sabato dalle 9 alle 15.
I consiglieri dichiarano che c’è “una serie di cose che in passato avevano
funzionato anche molto bene che non sono più possibili: dal semplice uso di una
cucina comune in cui le persone potevano cucinare per loro e per altri per motivi
legati alla sicurezza, al laboratorio delle biciclette fino ad arrivare alla pet
therapy. L’Opg sarà ancora un po’ più povero di com’era.” E, ancora “Sono
emersi problemi che già si conoscevano come quello del sovraffollamento che è

177
Ibidem.
120
aumentato e rende la struttura totalmente inadeguata. Il personale non basta e
questo è il primo dei problemi.”178
Tutto ciò mostra una realtà alquanto differente da quella ordinata dalle Linee di
indirizzo del 2008.
Per quanto riguarda il delicato tema dell’utilizzo di mezzi di coercizione, i
consiglieri di Sel riscontrano che “sia diminuito sensibilmente l’utilizzo dei letti
di contenzione”; anche il rapporto dell’Associazione Antigone sottolinea come
questa pratica sia “adesso rigorosamente regolata da una circolare regionale
(Circolare n. 16 del 22.10.2009 del Servizio di Salute mentale, dipendenze
patologiche, salute nelle carceri), elaborata sulla base delle indicazioni effettuate
nelle loro raccomandazioni in tema di contenzione dal Gruppo di lavoro su
Emergenza-Urgenza nell’area salute mentale.”179
Secondo i dati della AUSL, vi sarebbe stata una diminuzione del 40%
dell’utilizzo di questa pratiche, dato questo che andrebbe calibrato con il
parallelo aumento esponenziale della popolazione ospitata in OPG. Continua il
rapporto di Antigone: “Originariamente l’OPG era dotato di 3 sale di
contenzione. Attualmente ne rimane solo una attiva, dotata di due letti di
contenzione cui si viene legati con le cinghie a “gancio” vecchio modello. […]
Le altre due camere di contenzione sarebbero adesso adibite ad altre funzioni:
quella nel reparto Fenice é stata smantellata e trasformata in una sala di socialità;
l’altra, nel reparto Pegaso, non sarebbe più utilizzata, anche se i due letti dotati di
cinghie come nell’altra sala sono ancora lì, pur se circondati da materiali di
deposito.”180

4.4 Verso un’alternativa possibile: il caso di Casa Zacchera


Gli Ospedali psichiatrici giudiziari sono ancora comunemente definiti con
l’arcaica espressione di manicomi criminali o giudiziari, nonostante la nuova
denominazione sia stata introdotta con la riforma penitenziaria del 1975.

178
Ibidem.
179
Rapporto on line, in
http://www.associazioneantigone.it/osservatorio/rapportoonline/emilia/reggioemilia.htm
180
Ibidem.
121
E’ trascorso più di un secolo da quando, nel 1872, venne istituita la prima
sezione per maniaci di Aversa. Da allora molte cose sono cambiate e il binomio
crimine-follia, tenacemente sostenuto dall’antropologia criminale e dagli alienisti
del secolo scorso, è stato respinto dai successivi sviluppi del sapere in campo
penale, psichiatrico e criminologico.
L’istituto del manicomio giudiziario si basa, come abbiamo visto, sulla norma
giuridica secondo cui l’imputabilità di un soggetto è subordinata alla sua capacità
d’intendere e volere. Questo principio, cui è subordinata l’esistenza di istituti
appositi destinati ad accogliere i cosiddetti prosciolti, non è stato oggetto, nel
corso degli anni, di alcun intervento legislativo che ne abbia modificato
l’impianto punitivo, prima ancora che terapeutico e curativo.
Il divario esistente tra il sistema carcerario, gli ospedali psichiatrici civili e i
manicomi giudiziari – con tutte le contraddizioni che caratterizzano l’esistenza di
queste tre tipologie di istituzioni totali – è ancor più accresciuto con
l’emanazione della legge Basaglia: è noto il difficile iter di questa legge che,
dopo aver suscitato tanto clamore, acceso speranze e scatenato opposizioni, ha
infine impiegato circa vent’anni per arrivare alla chiusura degli istituti
psichiatrici. L’interesse e l’allarme sul futuro dei malati di mente sono tornati alla
ribalta con la legge finanziaria del 1994181, che ha stabilito la chiusura definitiva
dei manicomi entro il 31 dicembre 1996.
All’interno di tutti questi dibattiti sulla chiusura dei manicomi, un ruolo del tutto
marginale è stato assegnato all’OPG il cui compito, in primo luogo, è quello di
custodire e poi di curare i prosciolti per vizio di mente e, punto non secondario,
ha spesso sostituito il manicomio per quei soggetti con problemi psichiatrici che
non trovano assistenza nelle strutture pubbliche e in seno alle proprie famiglie.
Nonostante ci siano stati interventi legislativi e proposte volte al superamento
degli OPG, ci si deve rendere purtroppo conto, non senza stupore, che ben poco è
stato fatto per promuovere il dibattito intorno al problema e, anche dove questo è
avvenuto, per ora siamo soltanto davanti ad un ventaglio di prospettive teoriche

181
Legge 23 dicembre 1994, n. 724
122
lasciate in sospeso, senza poter intravedere alcuna intenzione di concreta
realizzazione dei progetti ipotizzati.
La tutela del malato di mente che arriva a commettere un reato sembra essere
stato un tema escluso dalla questione complessa della chiusura degli istituti
psichiatrici: nel nostro paese funzionano ancora ben sei OPG, nonostante da più
parti si sia evidenziata l’inadeguatezza di questi istituti nella cura e nel recupero
dei soggetti che vi sono ricoverati.
Come ha sostenuto Giovanna Del Giudice, portavoce del VI Forum Nazionale
Salute Mentale del 14 gennaio 2011,

“lo scandalo degli OPG deve essere definitivamente cancellato. Occorre


chiudere i manicomi criminali e porre fine all’assurdità e alla violenza che si
consumano al loro interno. […] Bisogna ripartire dal paradigma dell’agire
terapeutico, delle culture alla base dell’imputabilità, del differente sguardo
sull’altro, della fine della medicina penitenziaria e della presa in carico da
parte del sistema sanitario regionale, dalla piena tutela della salute nelle
carceri. Malgrado nuovi strumenti legislativi che consentirebbero il
contrasto dell’internamento negli Opg, si assiste stranamente a un aumento
delle presenze, in numero stabile negli ultimi venti anni. Intanto si continua
a mettere strettamente in relazione la pericolosità sociale con la malattia
mentale”.182

Nonostante ci sia chi sostiene che superare gli OPG sia impossibile e che non si
possa trovare un equilibrio tra le paure della società ed i diritti del sofferente
psichico, esiste una realtà che sta dimostrando il contrario.
Si chiama Casa Zacchera ed è nata nel 2007 a Castrocaro, sulle colline di
Sadurano, da un’idea del consigliere comunale reggiano Gianluca Borghi:
formalmente è una residenza psichiatrica di tipo socio-riabilitativo inizialmente

182
“Superare gli Opg. Da Aversa tante voci contro l’assurdità dei manicomi criminali” in
http://www.dirittiglobali.it/index.php?view=article&catid=16:carcere-a-
giustizia&id=8885:superare-gli-opg-da-aversa-tante-voci-contro-lassurdita-dei-manicomi-
criminali&format=pdf&ml=2&mlt=yoo_explorer&tmpl=component. Fonte redattore Sociale
consultato il 22.02.2011
123
pensata per alleviare il sovraffollamento dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di
Reggio Emilia. Questa “casa gialla”, così è comunemente chiamata, ha però una
caratteristica particolare: è una struttura aperta, totalmente priva di sbarre e
cancelli. La prima di questo tipo. “Un esperimento assolutamente innovativo in
Italia”, come spiega il dott. L. Missiroli, responsabile medico psichiatra della
struttura.
“Ogni ospite – continua Missiroli – viene inserito nel progetto dopo un’adeguata
valutazione e su disposizione del magistrato di sorveglianza. In questo processo è
fondamentale il collegamento con il DSM referente relativo alla provenienza
territoriale. Con questo si costruisce un progetto di transito nella struttura in base
alle potenzialità della struttura stessa, incentrate sul riapprendimento delle
capacità relazionali e interpersonali, quindi sulla socialità. Per ognuno si attiva un
percorso verso l’uscita in collaborazione con i servizi territoriali mantenendo il
collegamento con l’OPG; in seguito ci sarà poi lo sganciamento dalla condizione
di internamento che aveva avuto interruzione nel passaggio a questa struttura di
transito”.183
Dei sedici ospiti (nel corso del tempo ne sono passati 27) alcuni svolgono delle
attività all’interno della casa, altri escono per andare a lavorare, il pranzo si
consuma presso il ristorante della struttura e la sera ciascuno rientra nella propria
camera. In tre anni e mezzo non ci sono stati problemi di alcun genere.184
Come spiega G. Gardelli, psicologo coordinatore della struttura, lo scopo di tale
esperimento è quello di “accelerare il percorso di reinserimento degli ospiti della
struttura, un percorso molto controllato poiché il rapporto utenti/operatori è alto e
si riescono a seguire gli ospiti durante tutti i momenti della giornata.” Se in tre
anni di tempo non ci sono mai stati problemi, continua Gardelli, è anche perché
“i rapporti vengono costruiti nel tempo”185

183
Intervista a Luigi Missiroli, psichiatra responsabile medico di Casa Zacchera, in
http://www.youtube.com/watch?v=Q5xp3CYGQOo, 2010 consultato il 22.02.2011
184
Fabbri F. in http://www.unacitta.it/newsite/photogallery.asp?id=34 consultato il 22.02.2011
185
Intervista a Giovanni Gardelli, psicologo coordinatore di Casa Zacchera, in
http://www.youtube.com/watch?v=UOXNolTy2t8, 2010, consultato il 22.02.2011
124
Un primo squarcio, dunque, in una realtà che sembra immodificabile come quella
dell’OPG; un esperimento che è rimasto segreto per due anni, una sorta di
prova”.
“Non ne abbiamo mai parlato - dice Gianluca Borghi - perché avevamo paura.
Abbiamo fatto una cosa importante: per la prima volta in Italia siamo riusciti ad
aprire una breccia nel manicomio giudiziario. Abbiamo liberato persone con
addosso un marchio pesantissimo: matto, galeotto, assassino… Pensavamo che
chi abita qui attorno si spaventasse e che la sua paura ci costringesse a riportare i
malati in una cella. Per fortuna ci siamo sbagliati”186.
Si pronunciano parole che sembravano dimenticate: sogno, solidarietà, utopia…
“La legge Basaglia - continua Gianluca Borghi - ha dimenticato gli ospedali
psichiatrici giudiziari. Lì si continua a vivere senza diritti, come nei manicomi di
un tempo. Avevamo un debito, con queste persone. Abbiamo cominciato a
pagarlo”.
Casa Zacchera non è stata scelta a caso. Qui, in località Sadurano, sorge da più
di vent'anni la comunità di un sacerdote, don Dario Ciani, che ha sempre accolto
i deboli e i disperati: tossicodipendenti, alcolisti, ex ospiti dei manicomi… Dalla
prima comunità sono nate le cooperative, vere e proprie imprese sociali.
“Noi gestiamo Casa Zacchera - raccontano il presidente Stefano Rambelli e
l'organizzatore Matteo Montanari - ma non vogliamo vivere sulle disgrazie delle
persone. Il nostro obiettivo è quello di fare tornare questi ospiti a casa loro. Con
un costo che è la metà di quello di un ospedale giudiziario, per 16 persone
mettiamo a disposizione venti operatori. Ogni settimana garantiamo 50 ore di
aiuto psicologico, 84 ore di infermeria, 25 di psichiatria… Non ci sono reti,
cancelli e sbarre, qui da noi, e ospitiamo anche chi ha commesso omicidi. La
nostra custodia è capacità relazionale, è assistenza sanitaria. In questi due anni e
mezzo non c'è stata nessuna fuga, non c'è stato nessun incidente”187.

186
Meletti J., “Niente sbarre per i detenuti matti: l’esperimento segreto dell’Emilia”, in La
Repubblica, 13 marzo 2010
187
Ibidem.
125
Alla base di tutto ciò, spiega Rambelli durante un’intervista188, c’è “la forte
volontà dell’Emilia Romagna di oltrepassare l’istituzione totale chiamata OPG”.
Gli ospiti “arrivano qui perché trovano una cooperativa dalle ottime capacità
tecniche che è solo una delle tante cooperative della provincia di Forlì-Cesena
che vantano eccellenze in psichiatria; un territorio, che è quello di Castrocaro,
dove i cittadini e le amministrazioni comunali, indipendentemente dal loro
orientamento politico, hanno sempre appoggiato progetti di eccellenza se ben
gestiti; le Forze dell’Ordine, Carabinieri e Polizia, che hanno sempre collaborato,
sia con Sadurano che con altre realtà, nella gestione di tutti coloro che avevano
misure restrittive della libertà e i nostri vicini di casa che da anni ci conoscono, ci
stimano e anche un po’ ci sopportano”.
E’ quindi possibile collaborare con queste realtà alternative, stando alle parole di
Rambelli, anche a partire dalle piccole cose di tutti i giorni.
Qualcuno sapeva di questa casa gialla. “Abbiamo avvertito - dicono Gianluca
Borghi e Giovanni Bissoni - il sindaco di Castrocaro, la giunta comunale e il
comandante dei carabinieri. Ma nemmeno il consiglio comunale era informato.
Proprio quando la casa stava per aprire, ci sono state le elezioni comunali e la
maggioranza è passata dal centro sinistra al centro destra. E qui c'è stata la
sorpresa: anche la nuova amministrazione si è comportata in modo splendido”.
Persino l'assessore al welfare e cultura, Francesco Billi della Lega Nord, dichiara
subito che “Alla Casa Zacchera hanno fatto la cosa giusta”. “Sapevamo bene che
lì c'erano gli ex ospiti Opg e abbiamo capito che almeno per un certo tempo c'era
bisogno di riservatezza. Il nostro parere? Noi siamo orgogliosi di avere qui una
comunità come quella. Sadurano la conosciamo da sempre. Don Dario Ciani, il
fondatore, è una grande persona che è riuscita a circondarsi di persone brave e
capaci”
In altri luoghi, sulla paura e sulla voglia di sicurezza sono state montate
campagne e fortune elettorali. “Noi stiamo con Sadurano - dice l'assessore -
perché non è un'enclave ma un luogo aperto a tutti. I ragazzi, gli uomini e le

188
Intervista a Stefano Rambelli, psicologo presidente di Sadurano Salus, in
http://www.youtube.com/watch?v=jQv7j8nNAdY&feature=related, 2010, consultato il
22.02.2011
126
donne che sono lì sono persone che cercano di uscire da un passato pesante.
Certo, oggi tutti sapranno che ci sono anche gli ex internati in manicomio
giudiziario, ma non credo che ci saranno problemi. Tutti noi, attorno a Sadurano,
abbiamo steso non un assurdo cordone sanitario ma un cordone di solidarietà.
Quando arrivano turisti, noi li mandiamo a Sadurano. Hanno un ristorante
biologico con i prodotti del territorio, organizzano concerti e spettacoli di
comici… È giusto che tanti vengano a contatto con questa comunità di gente
liberata”.
Dopo la colazione, tanti vanno al lavoro. Ci sono il caseificio, il ristorante, i
campi da calcetto... C'è chi va a lavorare fuori, in officina e dall'elettrauto. C'è
chi, appena arrivato, come un bimbo deve imparare a camminare in spazi liberi,
non una cella tre per tre con letti a castello. Un chilometro e mezzo per andare al
ristorante, assieme agli ospiti delle altre comunità e ai turisti.189 E da Castrocaro,
nella valle si vede il mare.

189
Meletti J., “Niente sbarre per i detenuti matti: l’esperimento segreto dell’Emilia”, in La
Repubblica, 13 marzo 2010
127
CAPITOLO 5

VOCI OLTRE IL MURO: UNA REALTA’ TOCCATA CON MANO

Testimonianza diretta dall’OPG di Reggio Emilia

Com’è possibile
camminare sui prati verdi e avere l’animo triste?
Essere immersi nel caldo del sole
mentre tutto intorno sorride
e avere l’angoscia nel cuore?
Lasciate a noi le nostre tristezze.
A noi che non possiamo andare nei prati
e non vediamo mai il sole.

“Com’è possibile?”
Ascanio Celestini
Da “La pecora nera”190

Questo capitolo nasce dal desiderio di portare fuori dalle mura dell’Ospedale
psichiatrico giudiziario la voce di chi vive in prima persona una situazione di
malattia mentale e di reclusione, con tutte le conseguenze che questa doppia
sventura comporta.
Si è trattato, nel precedente capitolo, il discorso relativo a queste istituzioni
anacronistiche e al loro assurdo funzionamento.
Si ritiene che questa parte dell’elaborato, per quanto priva di nozioni teoriche
vere e proprie, sia profondamente significativa in quanto rappresenta la
testimonianza concreta di una realtà di cui pochi parlano e che quasi nessuno
all’interno della società, a parte gli addetti ai lavori, conosce a fondo.
Come sostiene Dell’Aquila, “nessun discorso teorico che riguarda la vita di
milioni di persone è possibile senza la conoscenza diretta delle istituzioni che in
qualche modo si contestano.”191

190
Celestini A., La pecora nera, Einaudi, Torino, 2006
128
Prima di tutto ritengo opportuno spiegare come mi è stato possibile entrare in
contatto con le persone internate nell’OPG di Reggio Emilia: non è infatti affatto
semplice riuscire ad avere accesso ad un istituto penitenziario, poiché le norme
sull’ordinamento penitenziario sono molto rigide e l’iter per ottenere i permessi è
molto lungo.
Le visite effettuate all’interno dell’OPG, ed in particolare la visita del 19 febbraio
2011, durante la quale ho potuto trattare nello specifico le storie di vita
quotidiana degli e con internati, mi sono state possibili in virtù di
un’autorizzazione precedentemente richiesta e lungamente attesa, che consente a
tutti coloro i quali dimostrino di avere “concreto interesse per l’opera di
risocializzazione dei detenuti” di entrare periodicamente all’interno della
struttura, secondo le direttive e le limitazioni del magistrato di sorveglianza e del
direttore dell’OPG e seguendo un progetto preciso e predeterminato.
L’articolo che regolamenta tali autorizzazioni è l’art. 17 della Legge n. 354 del
1975, ossia “Partecipazione della comunità esterna all’azione rieducativa”, il
quale recita:

La finalità del reinserimento sociale dei condannati e degli internati deve


essere perseguita anche sollecitando ed organizzando la partecipazione di
privati e di istituzioni o associazioni pubbliche o private all'associazione
rieducativa. Sono ammessi a frequentare gli istituti penitenziari con
l'autorizzazione e secondo le direttive del magistrato di sorveglianza, su
parere favorevole del direttore, tutti coloro che avendo concreto interesse
per l'opera di risocializzazione dei detenuti dimostrino di potere utilmente
promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società
libera. Le persone indicate nel comma precedente operano sotto il controllo
del direttore.192

191
Dell’Aquila D.S., Se non t’importa il colore degli occhi. Inchiesta sui manicomi giudiziari,
Filema edizioni, Napoli, 2009, p.10
192
Art. 17 della legge n. 354 del 1975
129
In realtà le cose sono molto più complicate poiché, come si è visto nel capitolo
precedente, non è presente la reale intenzione di promuovere i contatti con
l’esterno, la risocializzazione degli internati e la riabilitazione.
Ciò che ha permesso a chi scrive di ottenere il tanto atteso articolo 17, è
un’attività di volontariato svolta all’interno, ossia il progetto di redazione di un
giornalino prodotto insieme con alcuni volontari e pazienti dell’OPG di Reggio
Emilia.
Tale attività ha luogo ogni due settimane per la durata di due ore (spesso molto
meno poichè i tempi d’ingresso sono lunghi e l’entrata stessa in OPG dei
volontari viene sovente ostacolata) ed assomiglia frequentemente ad una
chiacchierata tra volontari e persone che vivono tra le mura dell’OPG e hanno
voglia di svagarsi parlando con qualcuno che viene da “fuori”.
Sabato 19 febbraio 2011, dopo la lunga ed animata conversazione che vado a
trascrivere193, ho parlato ai membri della redazione del mio elaborato, spiegando
loro le mie intenzioni di fare uscire la loro voce e di rendere più tangibili i
contenuti che sono andata ad esporre in via teorica nel precedente capitolo.
Chi vive una situazione di reclusione nutre spesso il desiderio di comunicare con
l’esterno con ogni mezzo e di far conoscere la situazione al di fuori delle mura
(nella speranza di cambiare qualcosa); anche in questo caso, la mia intenzione è
stata accolta di buon grado.
Per ovvi motivi, i nomi dei partecipanti alla conversazione sono fittizi; ho inoltre
omesso i dettagli (nomi di luoghi, posti di lavoro, nomi di medici ed operatori)
che potessero far risalire a reali situazioni o a persone.
Non potendo portare con me registratori o simili, ho trascritto tutte le
conversazioni e ho scelto di riportarle tali e quali, anche nei casi in cui vi siano
repentini cambi di discorso o errori grammaticali, in modo da rendere la
sfumatura originale di ciò che è stato detto.

193
Riguardo alle mie intenzioni di trascrivere la chiacchierata in questo elaborato, ho preferito
chiedere il parere delle persone che hanno partecipato all’attività di redazione alla fine di tale
attività per non influenzare i contenuti delle idee esposte.
130
5.1 Le voci da dentro
E’ Sabato 19 febbraio 2011, sono le 13.30 e in OPG è programmato l’incontro
della redazione del giornalino. Come ogni volta raggiungiamo la guardiola
d’ingresso - siamo in tre volontari oggi, Davide, Gabriele ed io – e suoniamo il
campanello. L’agente ci osserva e non ci riconosce, sembra. Spieghiamo il
motivo per cui siamo lì, come ogni volta, un sabato ogni due settimane, da un
anno. L’agente cerca i nostri nomi in una lista, non li trova, telefona. Aspettiamo.
Passano i minuti e le telefonate e finalmente sembra che ci possano aprire il
cancello. Consegniamo i documenti in cambio del cartellino che porta scritta la
dicitura “visitatore”. Siamo nel piazzale della casa circondariale.
Ancora una guardiola, altri agenti, chiedono dove andiamo e perché, segnano i
nomi su un foglio, li cercano in un’altra lista. Non ci siete, ma cosa andate a fare?
Chiedono se abbiamo cellulari, chiavette, macchine fotografiche… No, va bene
andate. Si apre la porta.
Un corridoio, una porta blindata e poi un cortile vuoto e silenzioso, in comune
con il carcere: OPG e carcere sono nello stesso edificio di massima sicurezza, li
separano i muri.
Ecco le finestre dell’OPG, con gli asciugamani legati alle inferriate perché non ci
sono le tende.
Entriamo nell’edificio. Altri corridoi, altri campanelli, altre attese, altre pesanti
porte blindate. E’ più di un anno che veniamo qui, eppure ogni volta mi perdo,
ogni volta mi sembra tutto assurdo.
Dentro c’è molta umidità, sembra più freddo che fuori anche se è inverno, un
freddo che entra nelle ossa.
Raggiungiamo l’ultima guardiola e per la terza volta un agente segna su un foglio
i nostri nomi, chiede cosa veniamo a fare e dove andiamo.
“Piano zero, Cassiopea, per il giornalino”
“Ah già, quelli del giornalino, ora chiamo giù. Però fammi vedere cos’hai dentro
la borsa”. Apro la borsa e tiro fuori il quaderno, le biro, le chiavi della macchina.
Posso passare.

131
Si aprono altre due porte e scendiamo a Cassiopea, la sezione “educativo-
trattamentale”. Viene a prenderci un altro agente e ci sistema in una piccola
auletta scolastica con una cattedra e qualche sedia, poi chiama gli internati a cui è
stato dato il permesso di partecipare al giornalino. Dopo qualche minuto iniziano
ad arrivare i ragazzi e tutto è in discesa. Oggi siamo in tanti rispetto ad altri
giorni (spesso arrivano solo due o tre ragazzi), ci sono Gip, DS, L, R, Rock, C,
Max, M, Cat e Am. Qualcuno è rimasto in cella perché sta male, qualcun altro è
ai colloqui, che sono alla stessa ora.
Non c’è bisogno di introdurre argomenti per poter parlare della situazione
all’interno dell’OPG, basta un semplice “come state?” e tutto va avanti
spontaneamente, dalla prima risposta di Gip che salta su dicendo “Io non ce la
faccio più a stare qui” e lo fa con un tono apatico, come se stesse dicendo
semplicemente che è annoiato, come se la cosa non fosse grave come invece è
effettivamente.
Gip: “Di cosa parliamo oggi? Io non ho niente da dire, ho già detto tutto le altre
volte, non ho più niente da dire io…tanto cosa dico? Qui è sempre uguale…si
scende, si sale, si scende, si sale, si dorme, si mangia, di nuovo si scende e si
sale…si aspetta. Aspetti da una settimana all’altra che chiamino il tuo nome…”

Risponde DS dicendo che vuole raccontarci come sta nella sua sezione, la
Centauro194. Parla ad alta voce, è sdegnato.

DS: “Volete sapere come sto? La Centauro è l’unica sezione chiusa qui, io gli
OPG li ho visti tutti tranne Barcellona Pozzo di Gotto perché sono stato prima a
Castiglione poi ad Aversa, poi a Napoli Secondigliano e adesso sono qui, ma qui
è l’unico posto dove sto sempre chiuso nella mia cella. Dopo ti scrivo un elenco
con quello che non va alla Centauro, posso? Non fa bene star sempre chiuso. Qui
è già tanto se ci danno 3 ore e mezza d’aria, massimo 4. Ma questa è una casa di

194
Le sezioni a Reggio Emilia sono 7 e portano nomi di costellazioni. Come è stato visto nel
precedente capitolo, sono tutte sezioni aperte tranne la Centauro, dove si sta sempre chiusi in
cella.
132
cura e custodia, dovrebbe essere “cura” e invece qui si sta peggio che in carcere!
E per fortuna che adesso sono alla cella 2…”

L: “Io in Centauro son stato al “repartino”…ci sono 4 letti in Centauro che sono
per chi è in osservazione, in attesa di essere mandati in un reparto più
consono…io ero lì all’inizio. Oh ma i primi 4 mesi non capivo niente…neanche
di come funziona, per chieder le cose… Poi se alla Centauro sei alla 25, ciao…
(si riferisce alla cella n.25). Alla 25 sei l’ultimo in fondo a tutto il corridoio, se
hai bisogno chiami, chiami, sempre più forte e non viene mai nessuno.”

Interviene R: “In carcere si sta molto meglio.”

Non è la prima volta che emerge questo tema dai discorsi che facciamo qui.
Chiedo io: “Perché dite che in carcere si sta meglio?”

R: “Prima di tutto il cibo è più buono. Ma soprattutto qua è molto difficoltoso


rapportarsi con gli altri. Devi stare attento a quello che dici perché può essere
interpretato male. Il carcere è meglio per tante cose. Già a partire dal cibo, ti
dico. Sembrano sottigliezze, ma fanno la differenza se qui ci vivi. Io sono tre
anni che non bevo un caffè.195 E mi ricordo che in carcere al mattino portavano
un giorno the e un giorno caffè. Per me era una gioia quando c’era il caffè. Ma
qua ti trattano proprio da pazzo, in carcere ti trattano come una persona. Qua no.
In termini comuni si dice “pazzia”, ma in psichiatria non c’è un termine solo che
equivale a “pazzia”. Qui non ti prendono sul serio, qualsiasi cosa tu dica non
viene presa in considerazione.”

DS:”E’ vero, non ti prendono sul serio. Ma io sono borderline, mica


rincoglionito!” (ride)

L: “Se tu dici qualcosa a qualcuno passi da infame…”

195
In OPG il caffè è vietato perché eccitante. E’ possibile bere solo caffè decaffeinato.
133
Am: “Qui ti dicono sempre di non dimenticare dove sei, siamo in un manicomio,
non abbiamo il diritto di dire certe cose. Tutte le volte che apri la bocca qui devi
stare attento. Io lavoravo in cucina e ho dato un consiglio a uno su come tagliare i
cavolfiori. Questo si è offeso e si è messo a urlare, mi hanno fatto mandare via.
Hanno detto che sono pericoloso in cucina, questo qui è un reato. Devi stare
attento a come parli perché nella nostra situazione qualsiasi cosa può diventare
un reato.

R osserva la sua gamba destra che continua a tremare nervosamente, fa un cenno


con la testa verso di me e dice: “La vedi questa gamba? Sono i farmaci che mi
fanno fare così. Io i farmaci li dovrò prendere per tutta la vita…”

Gip: “Dicono che anche io li devo prendere, ma io non vorrei, io vorrei smettere.
Ma se non li prendi ti legano… A me mi han legato, qui a Reggio, mi hanno
anche picchiato. Due volte. Io ero fuori di testa, ero proprio…fuori e mi hanno
legato e poi preso a ceffoni…”

Io: “…e poi?”

Gip: “Eh, son stato legato tre giorni e tre notti, così…” (Si alza in piedi e mostra
la posizione in cui era legato al letto di contenzione, gambe e braccia appena
divaricate). “E poi ti sedano. Così diventi un agnello. Prima ti legano e ti
picchiano, io le ho prese. Poi ti sedano…ti punturano e ti spengono. Io non so più
fare le cose che sapevo fare prima di entrare qui… ero forte prima, guardami
adesso…non vedi tanti qui per il corridoio che non riescono a camminare, che
trascinano i piedi? Ti riducono così” (indica M., un uomo di 49 anni che oggi è
qui con noi, ma con la testa è quasi completamente assente. Trema e fa fatica a
parlare se interpellato, però sta lì e ascolta.) “Questo ragazzo qua prima non era
così, io me lo ricordo…e anche un altro, era combattente. Ci sono stati 60 morti
in 20 anni qui, l’han detto alla televisione l’altra sera”.

134
Davide: “Ma quindi tu se potessi decidere non prenderesti più i farmaci? Non
credi che ti aiutino?”

Gip: “No…non li vorrei più…l’ho letto il foglio con gli effetti collaterali, ce ne
sono troppi. Guardaci, queste sono le cure che ci danno…eravamo vivaci e
scattanti e ci riducono così…aiuteranno anche, non so, però non li vorrei.”

R: “Però fanno anche bene. A me hanno fatto bene. Io sono bipolare e a volte mi
sento proprio giù, mi è tutto pesante, mi pesa tutto… con i farmaci sono
più…sereno…io poi prendo solo Seroquel, Carbolitio…sono farmaci minerali,
non sono chimici, mi han detto… Qui comunque ci sono persone che non
usciranno mai più, hanno i neuroni andati per la malattia mentale.”

Cat: “Sì ma poi la gente non è guardata, chi non è autonomo è lasciato andare. E’
disumano, chi non riesce a mangiare da solo o a lavarsi, se c’è il compagno di
cella che lo aiuta bene, se no se è da solo o non aiutato è abbandonato a se
stesso...li vedi che si trascinano sporchi, mezzi nudi, che tremano… Nel mio
reparto (Fenice, n.d.a.) ci sono tre anziani che tremano e nessuno li aiuta, solo i
compagni di cella. E lo psichiatra viene meno di 2 volte a settimana, per tutti…le
regole sono ferree, ma poi non vanno a vedere se c’è un anziano che non riesce a
mangiare…”

Io: “E secondo voi è sensato che persone che, come dite, sono così malate stiano
in un posto come questo? Secondo voi non c’è possibilità di un’alternativa di
qualche tipo?

R: “Sì, c’è. Tipo Castiglione.196 Io non ci sono stato, ma mi han detto che li è
meglio…”

196
Si riferisce all’OPG di Castiglione delle Stiviere (MN)
135
DS: “Sì, lì si sta meglio!! A voglia! Lì si sta bene perché funziona tutto in altro
modo. Ci sono un sacco di attività, è stato superato il livello del “manicomio”,
qua è un manicomio… Là si può camminare, non ci sono gli agenti, solo
infermieri, non ci sono le celle, si può girare… Io qua sto in Centauro, è brutto, è
punitivo… Lì si usa tenere persone che hanno sbagliato, che hanno avuto
comportamenti sbagliati. E io non ho neanche reati pesanti. Una volta che a una
persona gli hai fatto fare un percorso di tot anni che hai deciso, non puoi fare
proroghe proroghe proroghe proroghe…se no ‘sti posti a cosa servono??
Dovrebbero servire a redimere e a curare. Io sono chiuso dentro una cella tutto il
giorno e non prendo più terapie, tanto quelle sono stabilizzatori, che è uguale ad
abbattitori. A cosa mi serve?? Se uno le sedi, lo sedi, lo sedi…a cosa serve? Qui
in OPG ci sono ancora farmaci tipo l’Aldol e il Moditen Depot…”

R: “E’ quello che prendo io, il Moditen Depot”

D: “Usano ancora i letti di contenzione… Cioè ma pensa a una persona che c’ha
il disagio mentale e non è capita da nessuno che si ritrova legata…la coercizione
non deve più essere usata. Ma se al posto delle camicie di forza usano delle
camicie psicofarmaceutiche…!”

R: “Sì, quello che prendo io è una camicia di forza chimica. Però a volte sto
meglio, prima facevo pensieri brutti e mi mettevo spesso a piangere, ero
ipocondriaco. Però c’è una cosa…io in tre anni qui non ho mai ottenuto un
permesso…e se chiedo perché non mi rispondono, stanno sul vago. Il 30 aprile
mio fratello si sposa, e io sarò qui.”

Gip: “A me hanno detto che è troppo presto, sono passati 19 mesi…vorrei che mi
facessero vedere almeno una volta all’anno mia moglie e i miei figli, dove
abito…è un inferno qui…”

136
Am: “Qui per i chiarimenti c’è la “domandina”: chiedo alla signoria vostra
di….per tutto c’è la domandina”

Cat: “io ne ho fatte 50 di domandine, tutte smarrite. Ogni volta che chiedo la
risposta è sempre che devo aspettare. Qui per tutto bisogna aspettare. Anche per
il detersivo: se vai a chiedere il detersivo fuori orario dai fastidio. Vedi, a partire
dalle piccolezze si arriva alle grandezze.”

Io, rivolgendomi a D: “E invece a Castiglione come funziona?”

DS: “A Castiglione c’è rapporto con l’esterno! Ci sono gli spazi per i colloqui,
che non sono una stanza…c’è una sala apposta e poi c’è il giardino, così anche
chi ti viene a trovare non deve subire tutte le perquisizioni, le attese…se no è
pesante anche per chi ti viene a trovare. E poi là ci sono da 4 a 6 ore di colloquio,
ma tutti i giorni!! Qua ce ne son poche, e poi al sabato è un casino!197…là
l’aspetto detentivo non esiste, cioè, non si vede. Ovviamente le cose sono
organizzate per orari, però non lo vedi l’aspetto detentivo…ci sono i cancelli con
dei tubi alti 5 metri con gli spunzoni però c’è uno spazio tra un palo e l’altro,
vedi fuori!198 Ed è proprio bello perché è in un bel posto. Poi c’è la palestra super
attrezzata, si dipinge, ci sono le attività… E’ il posto d’élite penitenziaria, ti dà
un certo agio! C’è anche il bar ben fornito, c’è la piscina…che vabeh non è una
piscina olimpionica, sarà alta un metro e 40 l’acqua così non ci affogano, però è
sempre una piscina. Uno se sta meglio in un posto secondo me riesce anche a
prendersi prima la libertà. Riesce a migliorare, qui no… Se io sono un
professionista (si riferisce a un medico, n.d.a.) e devo curare “Caio”, no? Se lo
chiamo una volta al mese come qua è ovvio che i tempi si allungano…Ma io
questo Caio lo devo curare! Qui son morte due persone in tre mesi. Scusa ma

197
Il giorno che è stato assegnato alle attività del giornalino e del teatro, le uniche due presenti
ad oggi oltre allo stretching, è lo stesso dei colloqui, alla stessa ora, per questo motivo molte
persone sono impossibilitate a partecipare. Per ora non sono previsti spostamenti di orari,
nonostante siano stati espressamente richiesti.
198
A Reggio Emilia la casa circondariale che ospita l’OPG è circondata da mura di cemento,
dall’interno non si vede il paesaggio circostante.
137
dove sta scritto che se uno è un povero disgraziato deve essere abbandonato a se
stesso? Siamo tutti uguali…
Perché un dottore deve farmi paura? Perché se non voglio la terapia devo sapere
che verrà una squadretta a prendermi e mi lega al letto, nudo, per farmi la
terapia? E’ una cosa punitiva.”

Gip: “E’ vero, sei nudo. Ti danno da bere e da mangiare loro perché tu sei legato,
ti fai le feci addosso…Mi venivano le mosce addosso a me, sulla faccia e non
potevo tirarle via”.

DS: “Dai, ma la legge del taglione non c’è più, l’hanno tolta!”

R: “Secondo loro se tu sei malato di mente non puoi decidere per te stesso,
neanche se sai che la terapia ti fa star male. In cella con me c’è una persona che è
dietro le sbarre da 23 anni. E’ una larva, è diventato una larva! Non è più capace
di fare niente, non si fa più neanche la barba da solo. Ti spengono pian piano. Ma
è una soluzione questa??!”

D: “Ah beh, sono narcolettici, mica caramelle!


Ma qui se stai acceso devi stare attento! A me dicono che sono logorroico e devo
stare attento. Paolo Bonolis allora è logorroico anche lui e urla anche, e tutti lì a
fargli l’applauso. Se io urlo è perché soffro. Per farti smettere ti mettono paura, ti
inculcano che chissà cosa ti fanno. Questi sono manicomi. Qua Basaglia se
sapesse si rigirerebbe nella tomba!” (ride sarcastico)

A questo punto chiediamo a tutti quali secondo loro sarebbero le possibili


alternative a riguardo. Non esitano a rispondere, tutti vogliono prendere la parola,
dobbiamo intervenire per chiedere di parlare uno alla volta.

R: “Intanto le persone che possono essere utili alla società dovrebbero essere
messe a fare qualcosa di utile. Ok, ci sono anche casi di persone che non

138
vogliono far niente, ma la maggior parte vorrebbe fare qualcosa, io li metterei a
lavorare”.

Rock: “Dovrebbero fare delle comunità lavorative così noi, invece che stare a
oziare tutto il giorno, potremmo impegnarci per produrre qualcosa di utile. Se
lavorassimo, sarebbe anche un modo per pagare quello che abbiamo fatto di male
e per reintegrarsi nella società. Qui viviamo una situazione statica, è un
ingranaggio che gira al contrario. Ci vorrebbe un modello di società più
promettente.”

C: “Sì e poi anche attività ricreative. Qui a parte voi che vabeh venite una volta
ogni due settimane e poi non si sa neanche dentro che ci siete, non lo sa
nessuno…non c’è nient’altro. Vabeh il teatro. Ma è alla stessa ora e poi non ci
possono andare tutti, e gli altri?”

Max: “Se non c’è niente da fare dormi tutto il giorno, ti vegetalizzi…a me per
esempio il teatro ha dato modo di superare certe barriere…è un gruppo che fa le
cose sul serio, devi metterci dell’impegno, dare qualcosa in cambio…e serve, ti
sprona a comportarti il meglio possibile.”

R: “Se vogliamo che la gente non si impicchi qua dentro bisogna dare degli
stimoli!! Farli attaccare a qualcosa…il teatro, il giornalino, la biblioteca…o
anche una tombola, qualcosa!! Il problema è che qua per qualsiasi attività
bisogna andare formalmente dall’educatore, fargli fare un progetto da presentare
alla De Filippo da firmare…”199

DS: “qui dovrebbe cambiare tutto. Intanto a partire dalle piccole cose, e a livello
umano. Io delle parole CCC e OPG prenderei la “O” di ospedale e la “C” di casa.
Qua ci sono condizioni disumane! Voi non potete neanche immaginare com’è…
Qua ci sono pressioni psicologiche, ma la gente che ha un disagio va aiutata! Io

199
Anna Paola di Filippo è la direttrice dell’OPG
139
vedo persone in sezione dove sto io che non hanno niente, che puzzano e tutto il
resto e per me non è corretto. Oh ma i soldi ci sono, le associazioni ci sono, così
non va bene…
E poi il rapporto con l’esterno…il rapporto tra noi e l’esterno deve essere
collegato dall’educatore che dovrebbe riuscire a far riprendere i rapporti con la
famiglia, coi servizi…tra interno e esterno. Ma qui di educatori ce ne sono due!
Ma come si fa?? L’OPG così è sofferenza nella sofferenza, le famiglie non ti
capiscono, nessuno ti aiuta e poi quando succede lo scandalo allora se ne
parla…L’hai visto il servizio alle Iene a ottobre? Il servizio su Aversa? Ecco io ci
son stato lì, stavo lì alla “staccata”, reparto 9 lo chiamano. Ma a parte Castiglione
‘sti OPG sono manicomi! Ma lo sai quanto costa un internato?? Vacci a vedere
su internet quando vai a casa.
Poi in carcere c’è il garante dei detenuti, qui è questo che manca. A noi non fa
riferimento nessuno.

R: “Io non ho più nessun diritto essendo internato.”

DS: (indica R. guardandomi, n.d.a.) “…Ma ti pare che una persona debba parlare
così?”

R: “Ci hanno rovinato. Anche se magari un giorno, speriamo, riusciremo a


uscire…cosa abbiamo noi? Sai il marchio che portiamo addosso?”

DS: “Come no?? Quando andrò in giro diranno: «Guarda quello…è quello che è
stato al manicomio giudiziario…!». Magari esco con una ragazza e questa
racconta al padre: «Papà, papà mi vedo con un ragazzo, è tanto dolce, tanto
carino, mi porta in giro, mi chiama zuccherino…» «Ma chi, quello? Ma è anche
stato al manicomio giudiziario!» E questa chi la rivede più? Pensi che ci esca
ancora con me? Altro che marchio che ci hanno messo!”

140
Si rivolge a me: “Io ho 31 anni. Non è che c’hai un’amica non impegnata che
abbia voglia di fare corrispondenza con me che sono qua dentro?”

Esito un attimo, non faccio in tempo a pensare cosa rispondere…

DS: “Ecco, lo vedi? Hai la faccia “da no”. Ma chi vuoi che mi voglia scrivere a
me che sto qua dentro! E poi non abbiamo il marchio… Vabeh, ciao!”

Se ne va. E io mi sento terribilmente in colpa.


DS ci lascia il famoso foglio con “quello che non va” nella sua sezione. Questo è
ciò che c’è scritto:

“CENTAURO:
• Letti di contenzione
• Non si può socializzare tranne che con il cellante
• Poche ore di ricreatività
• Ambiente degradante
• Bagni privi di acqua calda
• Letti malandati
• Mancanza di campanelli per avvertire urgenze nelle celle
• Bidet non funzionanti
• Garante dei detenuti che manca

DS – sono appena arrivato


ecco le cose che noto.”

141
CAPITOLO 6
MEZZI DI COMUNICAZIONE ALTERNATIVI: MOSTRARE
L’ALTRA FACCIA DELLA REALTA’

E’ stato visto nel capitolo 3.6 di tale elaborato (p. 68, “Mass media: canali di
diffusione dello stigma del folle reo”) come i mezzi di comunicazione di massa
tendano a costruire un’immagine stereotipata della “follia” veicolando
informazioni filtrate ed erronee - volte più a catturare l’attenzione del vasto
pubblico e a fare spettacolo attraverso immagini emotivamente intense piuttosto
che a fare informazione - che mostrano la figura del malato di mente come
pericolosa, diversa, da evitare. Questo modo sensazionalistico di trattare la salute
mentale e la reclusione con titoli ad effetto incentrando i contenuti degli articoli
sugli aspetti scabrosi della notizia e associando il reato al cosiddetto “raptus” non
dà spazio all’approfondimento delle storie e dei vissuti reali delle persone
coinvolte, né alle problematiche relazionali, familiari e sociali che possono in
parte dare spiegazione all’azione commessa. Tutto ciò non fa che avvalorare il
concetto di pericolosità associandolo a quello di inguaribilità, con la conseguente
convinzione dell’opinione pubblica che sia necessaria la presenza di istituzioni
totali dove rinchiudere le persone che minacciano la sicurezza della società.
Se rimangono pochi gli articoli che affrontano la normalità della malattia
mentale, gli effetti della discriminazione e dell’accrescimento dello stigma nella
nostra società portano a conseguenze drammatiche.
Per questo c’è sempre più bisogno di una comunicazione alternativa, “dal basso”,
che riscatti le fragilità dell’informazione tradizionale procedendo verso un
sistema di informazione più partecipato e accessibile da tutti.
Le diverse forme di informazione sociale, infatti, aprono “uno spiraglio su uno
dei mondi più chiusi e ignorati del tempo moderno”.200
In questo capitolo si vuole cercare di mostrare alcuni dei mezzi di comunicazione
che portano la voce dei protagonisti, come ad esempio le persone realmente
internate in OPG o chi è direttamente coinvolto nel tema della salute mentale.
200
Sarti M., Il giornalismo sociale, Carocci, Roma, 2007
142
6.1 Giornalismi del sociale: i giornalini interni agli OPG
L’istituzione penitenziaria è stata a lungo un luogo inaccessibile e pertanto
raffigurata attraverso la letteratura, che le permette di comunicare con l’esterno
attraverso di essa cercando di diventare quasi una “chiave” in grado di “aprire” le
porte degli istituti. La letteratura carceraria vanta illustri precedenti autobiografici
in Italia, quali i racconti di intellettuali come Silvio Pellico e Antonio Gramsci;
furono comunque sporadiche testimonianze della detenzione, anche perché
all’epoca il tasso di analfabetismo era altissimo. Tuttavia, prima dell’entrata in
vigore della Legge 26 Luglio 1975, n. 354 l’informazione nelle carceri era molto
carente e sottoposta sistematicamente a censura; solo successivamente le notizie
cominciano a girare più liberamente e a giungere da fonti diverse. Tra le attività
che si svolgono all’interno del carcere, infatti, una delle più tradizionali,
conosciute e diffuse, è la redazione dei giornali il cui obiettivo principale è
appunto quello di rompere l’isolamento tra “interno” ed “esterno”.
La prima rivista in Italia risale al 1948, viene scritta dal carcere di Porto Azzurro
(Isola d’Elba) e si chiama La Grande Promessa, ma per anni arriva solo nella
biblioteca dell’istituto rimanendo così un caso isolato e limitato all’interno del
carcere livornese.
L’organizzazione di redazioni permanenti all’interno degli Istituti penitenziari è
invece una conquista recente ed ha un importante sviluppo a partire dagli anni
novanta. In Italia, attualmente, i giornali carcerari sono 61. Si tratta di
pubblicazioni scritte in tutto o in parte all'interno di case di reclusione, case a
custodia attenuata e Ospedali psichiatrici giudiziari e per la maggioranza
sostenute da associazioni di volontariato. I mezzi e i fondi a disposizione delle
redazioni sono generalmente pochi e a risentire di queste limitazioni è dunque
soprattutto il grado di autonomia del lavoro giornalistico della redazione. Il
giornalismo carcerario, inoltre, molte volte è caratterizzato dalla inevitabile
mancanza di professionalità, almeno nelle prime fasi di realizzazione di un
giornale, e dalla precarietà, condizioni che ostacolano il raggiungimento di un
buon livello qualitativo dei prodotti realizzati e dei servizi offerti. La detenzione
comporta inevitabilmente ostacoli e limitazioni nello svolgimento dell’attività

143
giornalistica, tuttavia in molte carceri italiane sono già in atto esperienze
significative che richiedono solo di potersi sviluppare e consolidare, mentre in
altri Istituti può essere promossa la nascita di nuove realtà informative.
Durante il suo intervento al convegno Informazione e carcere. I giornali del
carcere e altro del dicembre 1999201, il Sottosegretario alla Giustizia Franco
Corleone individuò nei giornali carcerari i soggetti più indicati per svolgere delle
inchieste sulle condizioni di vita all’interno degli Istituti. La redazione di Ristretti
Orizzonti, giornale interno della Casa di reclusione di Padova e del Carcere
femminile della Giudecca, commentò così l’intervento:

Questo riconoscimento è molto importante per noi, ma allo stesso tempo


dobbiamo evidenziare quanto sia difficile occuparsi di temi scottanti che,
inevitabilmente, coinvolgono le responsabilità di tutte le componenti del
carcere, agenti, operatori “civili” e detenuti.
Ma anche l’attenzione delle istituzioni e dell’opinione pubblica verso il
carcere è spesso evanescente, perché legata a momenti particolari di
emotività seguiti da lunghi silenzi e dalla rimozione del problema. Altre
volte succede che singoli episodi negativi siano usati strumentalmente per
imbrigliare l’attività di chi è impegnato in progetti per il reinserimento dei
carcerati nella società, mentre il dibattito sui temi della devianza e del
recupero sociale dei condannati corre il rischio di esaurirsi in puro esercizio
dialettico, quando non è seguito da interventi concreti.202

Nonostante sia purtroppo drammaticamente vero che, il più delle volte,


l’attenzione della società, delle istituzioni e dell’opinione pubblica verso realtà di
malattia e di reclusione risulta evanescente e incostante, è tuttavia estremamente
importante il ruolo che questi prodotti giornalistici possono assumere nel
panorama multisfaccettato dell’informazione.
Per quanto riguarda la realtà degli OPG, le testate esistenti sono cinque:
201
Intervento al convegno "Informazione e carcere. I giornali del carcere e altro…" in
http://www.francocorleone.it/documenti/informazionecarcere.shtml, 4 dicembre 1999
202
“Manuale per un giornale” in
http://www.ristretti.it/areestudio/informazione/guide/redazione/index.htm consultato il
25.02.2011
144
• 33,3 periodico: OPG di Napoli
• La storia di Nabuc: OPG di Aversa
• nuovoEffatà: OPG di Reggio Emilia
• Spiragli: OPG di Montelupo Fiorentino
• Surge et Ambula: OPG di Castiglione delle Stiviere

Mentre per quanto concerne la stampa penitenziaria tradizionale possono essere


facilmente immaginabili gli scopi e gli obiettivi, i significati e le motivazioni
delle produzioni, pur diverse a seconda dell’istituto che le produce e dei soggetti
che danno loro voce ed espressione, esistono delle differenze tra Istituti
Penitenziari di pena e reclusione e Istituti a misura di sicurezza quali gli OPG,
non fosse altro che per le persone che li occupano, detenuti nel primo caso,
internati e “malati di mente” nel secondo. Scrive Massimiliano De Somma,
direttore della redazione de La Storia di Nabuc, giornale dall’OPG di Aversa:

Sembra un paradosso, ma la libertà di stampa, di espressione e di


comunicazione, almeno quelle, non possono essere tolte e negate a nessuno.
Ma questa “espressione”, forse, per coloro che sono “malati di mente” e
autori di reato, acquista un significato diverso.203

Fra le persone che vivono tra le mura di un OPG, molte sanno comunicare
attraverso le parole, e non solo, emozioni ed immagini uniche e inaspettate
rendendo permeabili i muri di un luogo considerato all’esterno come “contenitore
di follia” e di realtà spaventose.
Le esperienze dei giornalini negli OPG italiani sono molto diverse tra loro. In
questa sede ne analizzeremo due in particolare: La storia di Nabuc da Aversa e
nuovoEffatà da Reggio Emilia.
Forse non si potrà dire che i prodotti usciti da queste rudimentali redazioni siano
competitivi né professionali, e non aspirano ad esserlo, anche se da quando
Ryszard Kapuscinski, il più grande giornalista sociale scomparso nel gennaio del

203
De Somma in http://www.opgaversa.it/prefazione-3.html consultato il 25.02.2011
145
2007, disse che “il vero giornalismo è quello intenzionale, vale a dire quello che
si dà uno scopo e che mira a produrre una qualche forma di cambiamento”204, in
tanti hanno parlato della rinascita di un’informazione “dal basso”. L’aspetto
sociale dell’informazione è quasi sempre trascurato dal dibattito sul ruolo del
giornalismo, mentre in realtà l’influenza di queste cronache ha un forte impatto
sulla vita delle moderne democrazie e può favorire un più ampio riconoscimento
dei diritti umani. Si può pensare allora che tali produzioni facciano parte di quel
giornalismo sociale fatto di tante esperienze diverse tra loro accomunate da una
stessa idea di fondo: quella di tradurre nel mondo dell’informazione principi
astratti come cittadinanza attiva,sovranità popolare e uguaglianza dei cittadini,
trasformandoli in azioni concrete progetti visibili. D’altronde, per giornalismo
sociale si intende informazione attenta anche al benessere delle persone e delle
comunità in cui vivono.205 E per far questo certo non possono bastare solo i
giornalisti!

6.1.1 La Storia di Nabuc


“Non vi parleremo di cancelli, di follia o di sofferenza. Vogliamo non pensare al
perché siamo finiti qui e dimenticare le cure non fatte quando ancora eravamo in
tempo”206. Parlano gli internati dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario
“F.Saporito” di Aversa. La loro rivista si chiama La storia di Nabuc, in onore di
Nabucodonosor, il re di Babilonia impazzito per superbia, ma guarito sette anni
dopo. “L’abbiamo scelto come nostro Re, perché porti a voi la nostra voce:
abbiamo ancora poesia, fantasia e speranza da regalare a voi che ci leggete”.
Il giornale dell’OPG di Aversa viene distribuito per abbonamento e ha cadenza,
se tutto va bene, bimestrale. “Quando è nato, nel 1998, somigliava a tutte le altre
pubblicazioni provenienti da realtà analoghe dove a scrivere erano gli operatori, e
i contributi dei degenti venivano raccolti nei reparti”, racconta Massimiliano De
Somma, psicologo e volontario dal 1998, da quando ha fatto la sua tesi di laurea

204
Kapuscinski R., Il cinico non è adatto a questo mestiere, Feltrinelli, Roma, 2006
205
Sarti M., Il giornalismo sociale, Carocci, Roma, 2007.
206
Ibidem.
146
sull’OPG e poi vi ha svolto il tirocinio e ha cominciato a coordinare Nabuc
insieme a quattro altre volontarie psicologhe e a una quindicina di ricoverati.

La Storia di Nabuc , al momento della sua nascita, non voleva, forse, dare
una possibilità espressiva agli internati dell’Istituto che coattivamente li
ospita, ma permettere e favorire la conoscenza all’esterno e agli “altri” di un
mondo e di una realtà buia e paurosa, mostrando che la sua schizofrenia è
tutt’altro che pericolosa, spesso divertente, sicuramente pregna di significati
nascosti ed affascinanti. Voleva, e ci è riuscito, rendere permeabile quel
muro, limite invalicabile di quel contenitore di follia terrificante, seno
cattivo gonfio del male della società e suo capro espiatorio, permettendo a
pochi privilegiati di leggere il contenuto dell’anima di uomini “disadattati”,
attraverso la loro bizzarra espressività. L’obiettivo era dunque la
conoscenza; la comunicazione funzionava a senso unico; gli scopi progettati
per gli “altri”.207

Oggi invece le cose sono cambiate perché su Nabuc scrivono soltanto i degenti,
adoperando un codice espressivo assolutamente spontaneo e non limato.208

Nel tempo, La Storia di Nabuc ha trasformato i suoi obiettivi. Una diversa


presa di coscienza e nuove esigenze dei ricoverati partecipanti, lo hanno
trasformato in un’attività cosiddetta “terapeutico-trattamentale”. […] La
Storia di Nabuc dava nuova voce ed una più libera espressività soprattutto a
chi soffriva non tanto della propria malattia mentale quanto della propria
privazione di libertà e identità, ma anche ed in maniera congiunta, della
propria condizione di vita all’interno di questa istituzione totale e del
proprio stato fisico e psichico.209

Come spiega quindi De Somma, uno degli obiettivi che ora La Storia di Nabuc si
propone è la possibilità di comunicazione, da parte degli internati, della propria

207
Ibidem.
208
Patete A., “Nella gabbia dei re folli” in Rivista del Volontariato, gennaio 2003
209
De Somma in http://www.opgaversa.it/prefazione-3.html consultato il 25.02.2011
147
condizione, del proprio quotidiano, del proprio sentito e vissuto, ad esempio nel
vitto indecente o nell’uso e abuso della coercizione, trasmettendo all’esterno, non
più e non solo il contenuto della propria anima, ma la condizione del proprio
corpo. Una forma di comunicazione quindi volta anche al tentativo di far rivivere
al ricoverato recluso quel “qui e ora” negato negli atti e nei pensieri da una vita
sospesa fra il prima (la libertà scordata) e il dopo (la libertà sperata).

Gli obiettivi erano cambiati, la comunicazione non era più a senso unico.
Ora non c’era più “la conoscenza” al centro degli scopi della libertà di
stampa caratterizzante l’attività, ma finalmente “l’espressione”. Adesso non
più “l’altro”, “l’esterno”era il protagonista di questo lavoro, bensì il
ricoverato che, a questo punto, inizio ad avere difficoltà a definire “malato
di mente”.210

Il giornale accoglie perciò, “senza alcuna censura”, i racconti, le poesie, le


lamentele e gli sfoghi di tutti coloro che vivono in Istituto: in ogni reparto un
corrispondente locale raccoglie e traduce le varie esigenze e un pomeriggio a
settimana si riunisce il comitato di redazione, al quale partecipano gli stessi
internati e uno staff di psicologi e operatori sanitari.211
Le riunioni di redazione di Nabuc non servono però soltanto a progettare il
giornale, “costituiscono anche un gruppo di ascolto, perché nell’OPG manca
assolutamente lo spazio per parlare e per farsi ascoltare”, spiega De Somma.
Oltre a questo la partecipazione al giornale rappresenta anche un importante
momento di informazione, intesa sia come circolazione di notizie e di
informazioni all’interno, sia come comunicazione all’esterno. E alcuni dei servizi
pubblicati sono veramente interessanti per comprendere la realtà delle istituzioni
totali in generale e degli Ospedali psichiatrici giudiziari in particolare.
La storia di Nabuc possiede anche, all’interno del portale dell’Istituto
(www.opgaversa.it), alcune pagine web interamente dedicate giornale, da cui è
possibile sottoscrivere un abbonamento on line, oltre che consultare l’archivio

210
Ibidem.
211
Polchi V., “La storia di Nabuc, re pazzo che guarì” in L’Unità, 01 giugno 2002
148
con i vecchi articoli. L’essere riusciti a rendere Nabuc consultabile anche online,
e quindi fruibile ad un numero molto maggiore di lettori, è un traguardo
sicuramente importante.

Uno strumento interattivo come internet, nella cui rete La Storia di Nabuc è
entrato, lo ha trasformato in strumento della comunicazione binaria, grazie
alla quale il “mondo esterno” può ritrasmettere il proprio sentire, le proprie
emozioni, le paure o le solidarietà a coloro i quali, al di qua del muro e dello
schermo, accolgono non senza stupore e incredulità, quelle risposte che, nel
rispecchiarli, li fanno sentire vivi, esistenti e presenti nel “qui e ora”.212

6.1.2 nuovoEffatà
NuovoEffatà è, come riporta la dicitura sotto il titolo stesso, “organo di
informazione e strumento di dialogo dall’Ospedale psichiatrico giudiziario di
Reggio Emilia”. La sua caratteristica e il suo scopo più importante è quella di
dare voce a chi vive in OPG. La redazione infatti è composta interamente da
persone internate, supervisionate da alcuni volontari, tra cui chi scrive, giunti in
OPG a seguito di un corso di formazione al volontariato rivolto ai giovani, al
termine del quale è stato possibile ottenere il già citato “articolo 17” per iniziare
un progetto di “azione rieducativa” degli internati.
La parola nuovo sta ad indicare che la redazione è appunto nuova, formata da
persone diverse dalla precedente. Effatà era il nome originario del giornalino,
nato nel 1992 da un’idea del cappellano, don Daniele Simonazzi, che diede per la
prima volta un’opportunità di espressione a chi viveva dentro. Egli scelse come
titolo questa parola che significa “apriti”, infatti la prima versione del giornalino
riportava come sottotitolo una dicitura biblica: “Guardando il cielo, Gesù emise
un sospiro e disse: Effatà, apriti….”. La redazione “originale” di Effatà si era
però sciolta negli ultimi anni per molti motivi, dopo essere stata per lungo tempo
tenuta in vita da Roberto Raviola; dopo qualche anno di silenzio, ai volontari è
stato passato il testimone e si è deciso di mantenere nel titolo questa parola

212
De Somma in http://www.opgaversa.it/prefazione-3.html consultato il 25.02.2011
149
soprattutto perché il giornalino fosse riconosciuto dai lettori affezionati, ma
anche per mostrare che gli scopi della pubblicazione restano quelli di “aprire” in
un certo senso le porte dell’OPG per permettere una forma di comunicazione
sincera tra interno ed esterno. Non si deve però credere, a causa del titolo, che le
opinioni e i pensieri che vengono pubblicati sul giornalino siano “a senso unico”:
non si tratta di una pubblicazione di orientamento religioso, l’impostazione di
nuovoEffatà è laica ed è benaccetta e desiderata la collaborazione di tutti nella
produzione, senza nessuna distinzione di religione, razza, lingua, sesso, opinioni
politiche e condizioni personali e sociali. Il gruppo tiene particolarmente a
chiarire questo concetto.
La volontà è quella di dare la possibilità a tutti i ragazzi che vivono internati di
esprimere spontaneamente, liberamente e senza censura i loro pensieri dalla
profondità di una cella. Tutto parte da una chiacchierata in cui l’unico ruolo dei
volontari è quello di “accendere fiammelle” per far sì che nasca il desiderio di
comunicare qualcosa, di abbattere i muri per far uscire la voce di chi è stato
dimenticato dalla società. E’ totalmente assente il desiderio di stupire e di “fare
notizia”, ma questo risulta evidente sfogliando le pagine di nuovoEffatà e
leggendone gli articoli: non si vuole creare un prodotto autoreferenziale, il
giornalino esiste nella misura in cui rimane servizio. Esso non nasce con scopo
trattamentale né educativo, nonostante sia indiscutibile che la sua realizzazione
possa rappresentare un aiuto anche indiretto per coloro per i quali il tempo si
consuma solo dentro, ma anche per i volontari stessi, i quali hanno l’opportunità
di vivere rapporti umani straordinari e arricchenti; di diventare gruppo e
condividere il tempo e i pensieri senza nessun bisogno di fingere. E’ invece
presente, forte e chiara, la necessità di creare un ponte tra esterno e interno, di far
conoscere fuori ciò che succede dentro, di far aprire gli occhi su una realtà dai
più ignorata.
I contenuti sono i più vari poiché ognuno può pubblicare quello che vuole
(purché ovviamente gli articoli non contengano offese, insulti o simili, ma per
questo ci sono alcune regole che tutti rispettano di buon grado); così nel
giornalino si possono trovare poesie, disegni, lettere, articoli scientifici o rubriche

150
di cucina; c’è chi racconta la sua storia, le sue esperienze e sensazioni, chi spiega
la struttura dell’OPG a chi non la conosce, chi semplicemente esprime un
ringraziamento o anche una richiesta o una protesta, ad esempio criticando il
vitto, la coercizione o i meccanismi della “domandina”, chi desidera pubblicare
una preghiera o un pensiero rivolto a qualcuno, e c’è anche chi si sfoga e urla la
sua rabbia repressa. Così ogni numero diventa un modo per raccontare la vita di
persone a cui, altrimenti, la società non pensa, oltre che un mezzo per sentirsi
collegati con il mondo esterno: la collaborazione esterna è infatti benaccetta,
genitori, personale, volontari, educatori, lettori, persone che hanno esperienze da
raccontare possono tranquillamente partecipare.
Da circa un anno esiste anche un sito web (www.effataopgre.wordpress.com) da
cui è possibile scaricare gratuitamente il giornale, fare commenti, entrare in
contatto con i volontari, informarsi e interagire con questa realtà. NuovoEffatà è
un mezzo di comunicazione che porta fuori un mondo sconosciuto e i pensieri di
chi lo vive in prima persona e, contemporaneamente, porta dentro un pezzetto di
“esterno” che fa sentire un po’ più vivo e attivo chi fuori non ci va da tanto
tempo.

6.2 Psicoradio: la radio della mente


Dal marzo del 2006 a Bologna va in onda Psicoradio213, una radio realizzata da
pazienti con disturbi psichici insieme a esperti della comunicazione: è infatti
diretta da Cristina Lasagni (facoltà di Scienze della Comunicazione, Università di
Lugano) e coordinata da alcuni professionisti del settore ed è realizzata in
collaborazione con Arte e Salute Onlus e Azienda USL Bologna - Dipartimento
di salute mentale.
Nata come programma professionale formativo, ora ha uno spazio fisso su Radio
Popolare Network214, un'emittente indipendente imperniata su una cooperativa di
lavoratori e collaboratori.

213
www.psicoradio.it
214
www.radiopopolare.it
151
Un tempo la sede della radio era un ospedale psichiatrico, oggi è una vera e
propria redazione di giornalisti.
“Esistono anche altre esperienze simili che lavorano con la radiofonia – spiega
Cristina Lasagni215 – pazienti psichiatrici che fanno programmi radiofonici, per
esempio c’è in Argentina Radio La Colifata, a Buenos Aires, che è dentro al
manicomio. La differenza con Psicoradio è di impostazione. Queste altre radio
sono radio-testimonanza. Noi vogliamo fare informazione, non raccontare i
vissuti. Psicoradio è un lavoro di comunicazione, non è un gruppo di autoaiuto.
Il fatto di dover lavorare su un piano professionale - continua C. Lasagni –
permette un distanziamento: quello che diceva Calvino, che per vedere com’è
fatto un labirinto devi esserne fuori, secondo me qua funziona”.
Spiega Marco, un paziente che collabora con la redazione “Cerchiamo in tutti i
modi di far capire alla gente che non siamo gente pericolosa, che noi siamo qui
soprattutto per combattere gli stereotipi”.216
Psicoradio, grazie alla sua attività, ha vinto il Premio nazionale Città di sasso
Marconi, un riconoscimento molto importante.
Questa radio, come raccontano alcuni membri della redazione, è uno strumento
che forma e aiuta persone ai margini della società, è l’anima che diventa diritto di
parola, è un’emozione, è una redazione che esprime una visione altra del mondo
e dà a tanti la possibilità di rimettersi in gioco anche laddove non pensavano di
poter arrivare.

215
Intervista in http://www.youtube.com/watch?v=jI52_kvMTKk consultato il 26.02.2011
216
Ibidem.
152
153
CONCLUSIONI

Nel presente lavoro si è cercato di mettere in luce alcuni aspetti che, al giorno
d’oggi, caratterizzano le rappresentazioni sociali della malattia mentale e le
differenti reazioni della società di fronte ai crimini commessi in condizioni di
incapacità di intendere e di volere. Si è voluto partire da un quadro generale che
presentasse le attuali opinioni sul tema della malattia mentale in quanto patologia
potenzialmente certificabile: si è visto come il modello biomedico si è evoluto
nel corso degli anni fino ad arrivare a produrre scansioni e dati digitali che
mostrano il cervello come un organo da schiudere allo sguardo del medico,
attestando così l’esistenza di patologie mentali oggi riconosciute e
potenzialmente curabili. Si sono toccati i delicati temi della genetica e della
psicofarmacologia considerando i diversi punti di vista e le diverse correnti che
vi ruotano attorno: dalla fiducia sconfinata nello stile di pensiero biomedico
all’antipsichiatria, passando per orientamenti più moderati che sostengono la
ricerca medica pur rifiutando il riduzionismo scientifico.
Si è poi visto come le neuroscienze si rivelino oggi molto importanti nella
valutazione dell’imputabilità di soggetti autori di reato e come, perciò, si instauri
un rapporto imprescindibile tra esse e il diritto, nonostante sia però necessario
prendere in considerazione tutti i diversi aspetti informativi della complessità
dell’individuo, guardandosi da una valutazione del comportamento della persona
effettuata soltanto sulla base di pochi dati neuropsichici. Si è esposto il concetto
di imputabilità spiegando passo per passo, attraverso gli articoli del nostro codice
penale, quali sono le condizioni che limitano o annullano la capacità d’intendere
e volere nell’autore di reato.
Nel capitolo seguente, si è mostrato come, nella vita di tutti i giorni e nel corso
delle comunicazioni interpersonali, le persone costruiscano delle
rappresentazioni sociali equivalenti al cosiddetto “senso comune”, utili per
fornire un linguaggio di scambio comune oltre che per dare un ordine alla realtà
che ci circonda. Partendo da questo presupposto, si è visto come le nostre
reazioni di fronte al disagio psichico e il nostro modo di porci di fronte alla

154
malattia mentale siano condizionati dalla categorizzazione sociale e dagli
stereotipi che portano alla formazione del pregiudizio. Si è osservato inoltre
come le diverse culture producono codici interpretativi tramite i quali i membri
di una data comunità leggono gli input ambientali omogeneizzando le coscienze
e facendo sì che, in una determinata società, la realtà sia condivisa. Il pensiero
stereotipico, in quest’ottica, viene studiato come normale rappresentazione
mentale che connette categorie e attributi di valore. Si è così correlato il concetto
di stereotipo alla nozione di stigma elaborata da Goffman, osservando come la
società attui dei meccanismi d’esclusione a partire da attributi considerati
socialmente inadeguati, definiti appunto stigmi, e come questo processo influenzi
la vita e lo status sociale degli individui stigmatizzati. Si è successivamente
dimostrato, attraverso l’osservazione di alcune ricerche, come sia del tutto
infondato il tentativo di costruire una sorta di identikit generalizzato del “malato
mentale”. Infine, si è giunti ad attribuire ai mezzi di comunicazione di massa uno
dei maggiori ruoli di influenza dell’opinione pubblica e di costruzione di
pregiudizi e conseguenti timori nei confronti della follia. Si è infatti attestata
l’esistenza di un’ampia letteratura di ricerche psico-sociali asserenti questa
responsabilità dei mass media nel filtrare le informazioni trasmesse alla gente,
costruendo un’immagine pubblica erronea della malattia mentale e alimentando
così la convinzione che siano indispensabili istituzioni di pena volte a recludere i
malati autori di reato per un’esigenza di sicurezza.
Si è poi appunto descritta l’istituzione totale che più incarna la diretta e concreta
conseguenza della paura e del rifiuto della società nei confronti di queste
persone: l’Ospedale psichiatrico giudiziario. Si è infatti visto nel quarto capitolo,
analizzando la realtà dell’OPG in molti suoi aspetti, come questo sia tenuto in
vita da meccanismi paradossali e anacronistici: si è dimostrato, anche grazie ad
una testimonianza diretta, come non sia ancora del tutto scomparsa l’abitudine di
utilizzare la coercizione, mentre è quasi del tutto assente, da parte di chi detiene
il potere decisionale in merito a queste strutture, la volontà di sovvenzionare
progetti riabilitativi volti al recupero delle persone internate. In parole povere:
per poter fare uscire un internato, è necessario “sperimentare” il suo

155
comportamento in contesti esterni; tuttavia, i progetti che permettono di portare
fuori i pazienti dell’OPG per “testare” le loro condizioni all’esterno sono
pressoché inesistenti, gli educatori sono pochissimi – come il resto del personale
– e i fondi non ci sono o “spariscono”. Di conseguenza, queste strutture sono
sovraffollate, la popolazione internata aumenta, più della metà di queste persone
dovrebbe, per legge, essere fuori o, perlomeno, in una comunità di transito, ma
rimane dentro con continue stecche, cioè le proroghe della misura di sicurezza,
spesso fino a passare la vita da recluso perché non ci sono soldi per finanziare le
comunità e perché non è possibile sperimentare, come andrebbe fatto, la revoca
della sua pericolosità sociale. E’ evidente che questo meccanismo non funziona,
si è inoltre dimostrato, attraverso la presentazione di una realtà alternativa, che,
anche dal punto di vista puramente economico, questo resta un sistema
paradossale, poiché gli internati che non vengono fatti uscire devono essere
mantenuti dallo Stato per anni e arrivano così a costare di più che se fossero in un
luogo quale Casa Zacchera il quale, soprattutto, permetterebbe loro un
reinserimento nella società.
Nell’ultimo capitolo, infine, si è visto come alcuni mezzi di comunicazione
alternativa riescano a veicolare una conoscenza più realistica e non filtrata della
malattia mentale e di questi mondi lasciati ai margini della società, ignorati dai
più e spesso evitati anche da chi ne conosce l’esistenza. Uno degli scopi di questa
comunicazione alternativa è quello di aprire uno spiraglio nell’ignoranza di molti
per ricordare a chi è fuori, a chi è “normale”, che il rifiuto personale, collettivo e
politico di trattare temi così “fastidiosi” non cancella l’esistenza di persone che
nella loro vita, purtroppo, ne sono state toccate, con la speranza che questo
diminuisca gli stigmi e i pregiudizi aiutando la messa in pratica di principi astratti
come l’uguaglianza dei cittadini.
Si può dire che i punti toccati si vanno ad inserire in un quadro di reazioni
contrastanti nei confronti della patologia mentale: dall’attrazione alla paura.
L’attrazione dei medici e degli scienziati nel corso dei secoli, il desiderio di
penetrare nel cervello come negli altri organi del corpo, di tracciare una mappa
delle basi neurochimiche dell’attività mentale umana.

156
L’attrazione e la paura della psicofarmacologia: il desiderio di curare i disturbi
della mente con la chimica e lo scetticismo nei confronti delle logiche del
mercato.
La voglia di dare dimostrazione pratica, attraverso l’avanzare della scienza, di
determinate anomalie della mente in quanto attività cerebrale e il sogno dei
ricercatori psichiatrici di diagnosticare cambiamenti vitali direttamente attraverso
il cervello.
E, all’opposto, la paura di chi non conosce la malattia mentale, la negazione del
“diverso”, il rifiuto di ascoltare le esigenze reali di persone che sono sofferenti,
incomprese, l’uso della coercizione per “frenare la follia”, la reclusione come
esigenza di sicurezza.
E, ancora, le immagini veicolate dai mass media che parlano di “mostri” e di
delitti a cinque stelle fomentando il terrore, alimentando l’ignoranza ai fini di
fare spettacolo e, di nuovo, attrarre, incuriosire, stuzzicare il pubblico con il
dettaglio scabroso, l’immagine d’impatto, l’opinione dell’“esperto”, il siparietto
sul luogo della tragedia, l’emozione così forte da annientare la possibilità di
qualsiasi ragionamento”.217 E così, per l’ennesima una volta, “l’Italia può
cominciare a tremare, a insultare, a gridare. Quasi mai a capire.”218
L’interrogativo iniziale, purtroppo, rimane aperto: in un’epoca che si mostra per
molti versi avanzata e in questo contesto occidentale in cui ci si ritiene “civili”,
non si può non chiedersi cosa ci sia di civile in tutto questo; come possano
esistere ancora luoghi dimenticati da tutti destinati a persone malate, letti di
contenzione e meccanismi non funzionanti che abbandonano le persone più
sfortunate ad una morte senza diritti.
Non si è voluto in questa sede negare che le persone internate in queste strutture
soffrano di un disagio psichico anche grave o che siano autori di reato, non era
questo lo scopo. Ciò che si è tentato di fare è un’analisi delle diverse
sfaccettature che compongono la percezione che la società ha di chi, a causa di
un disagio mentale, arriva a commettere un reato e quali conseguenze portino, in

217
Bernardi L., A sangue caldo – criminalità, mass media e politica in Italia, Derive Approdi,
Roma, 2001, p. 171
218
Ibidem. p. 14
157
termini sia astratti che concreti. Si è voluto inoltre dimostrare che le alternative
alle istituzioni totali ci sono, o meglio, ci sarebbero: sarebbe possibile cambiare
le cose.
Pur non sapendo che futuro attenda chi subisce queste realtà, il desiderio di
parlarne è dato dalla convinzione che la condizione indispensabile per arrivare a
cambiare le idee e a chiudere e superare i manicomi sia impedire che il silenzio
prevalga sulla parola.

158
159
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166
167
RINGRAZIAMENTI

Al termine di questo percorso desidero ringraziare di cuore chi mi ha


accompagnato in questo viaggio:

Grazie ai docenti che mi hanno seguito, in particolare alla Professoressa Roberta


Lorenzetti per la disponibilità e la fiducia con cui ha accettato di sostenere questo
mio progetto di lavoro, grazie per i suggerimenti e per la sua tranquillità
contagiosa;

Grazie a Giovanna per i libri e la spontanea collaborazione, grazie a Davide per


avermi riordinato le idee con semplicità e per i preziosi consigli sempre pronti,
grazie a tutti i volontari “opigiani” Sari, Gabbo, Moni, Checco, Daniele e co.
perché questo percorso fatto insieme, in gruppo, è una cosa bellissima, grazie a
Francesco per le interessanti teorie e riflessioni sull’argomento trattato in questa
tesi e un grazie particolare a Roberto per aver fatto sì che tutto questo potesse
avere inizio nella mia vita;

Grazie di cuore a tutti i ragazzi della redazione di nuovoEffatà e non solo: Fillo,
Corrado, Gianpaolo, Mauro, Franz, Luca, Tommaso, Maurizio, Damiano,
Roberto, Corrado, Amid, Cesidio, Ruggero, Rocco, Massimo, Bruno, Franco,
Andrea, Giuseppe e a tutti gli altri, grazie per la compagnia speciale che ci
regalano ogni volta e per quello che, forse senza saperlo, sanno dare;

Grazie alla Mamma, paziente lettrice e correttrice di bozze, e al Papà, tipografo


improvvisato, per avermi sempre sostenuto, moralmente ed economicamente, e
per aver sempre creduto in me;

Grazie alla Terri per le pause piene di risate, per le chiacchiere mattutine, per il tè
delle 5 o delle 6 e per aver reso i giorni della tesi più leggeri con la sua vivacità;

Grazie a Bughi per i suoi “Ma ssè!”, per la sua presenza e per l’immensa
pazienza, per il rispetto con cui ha imparato ad accettare una parte di me che non
capiva e a sostenermi, grazie per il suo sdrammatizzare benevolmente ogni mio
momento di sconforto facendomi sempre tornare il sorriso;

Grazie a Daniela, Anna, Catia, Leti per l’ospitalità di cui ho sempre approfittato
con gioia, per i gruppi di studio “matto e disperatissimo” e per aver reso
meravigliosi e indimenticabili con la loro amicizia questi anni di università che,
purtroppo, sono volati, ma che ricorderò sempre con dolce nostalgia;

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Grazie alle mie amiche stupende Di e Sari che ci sono sempre, nei momenti più
belli e più brutti, e che non mi fanno sentire mai sola;

Grazie alla mia straordinaria Vero che incredibilmente è riuscita a sostenermi e a


starmi vicina anche dall’Australia rendendomi felice ogni volta che vedevo il suo
nome comparire in chat;

Grazie ai miei cari amici: alla dott.ssa Chiarina per la gentilezza, l’infinita
pazienza nell’ascoltarmi e per i cannellini, a Giò per l’affetto profondo, per le
chiacchiere e per il gelato, alla Cate per l’incoraggiamento, le risate e la
simpaticissima follia, alla Sous e alla Mary, professionali consulenti d’immagine.

Grazie a chiunque mi abbia in qualche modo aiutato o sostenuto nello


svolgimento di questo elaborato finale e durante questi anni.

Un ultimo pensiero, alla fine di questo lavoro e con mille speranze nel cuore per
il futuro, va a Daniele G. e a chi, come a lui, la vita è improvvisamente scivolata
dalle mani senza che nessuno riuscisse a fermarla in tempo.

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