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Fenomeni e oggetto
Due modi generali per definire un nesso tra il proprio oggetto e gli avvenimenti mondani
sono: normativo, assume che sia la conoscenza scientifica alla base del sistema professionale
a prescrivere quali fenomeni la domanda sociale può proporre al sistema professionale stesso.
Opera in tutte quelle situazioni in cui il senso comune è sottoposto ai vincoli derivanti da
conoscenze scientifiche consolidate e socialmente legittimate; l’altro modo è l’ astrazione,
ovvero l’elaborazione teorica di modelli interpretativi sovra-ordinati. La psicologia non può
che seguire l’astrazione come modalità di rapporto tra il sapere scientifico su cui si fonda e la
pluralità dei contenuti della domanda sociale. Non ha il potere per imporre il proprio sistema
di conoscenza al senso comune, di conseguenza non può che riconoscere ed accettare
l’autonomia dei significati del senso comune. Conseguentemente, deve riconoscere ed
accettare l’autonomia dei significati di senso comune nei termini dei quali la società rivolge
alla funzione psicologica aspettative e desideri più svariati. È opportuno quindi sviluppare
una distinzione tra oggetto e fenomeno. Il fenomeno è la parte del mondo così come resa
pertinente ed interpretata dal senso comune. Mentre l’oggetto è la modellizzazione del
fenomeno nei termini della teoria generale psicologica. È l’oggetto a costituire il target
dell’intervento psicologico e dato che esso è l’interpretazione del fenomeno, opera anche
come il nesso tra il fondamento scientifico della funzione professionale e il contenuto della
richiesta (che si riferisce al fenomeno). L’oggetto costituisce l’astrazione guidata
teoricamente del fenomeno. E’ più specifico ed al contempo più generale del fenomeno: più
specifico perché riguarda un solo aspetto del fenomeno, quello reso pertinente dalla teoria;
più generale in quanto rappresenta una classe generalizzata di fenomeni, accomunati
indipendentemente dal loro contenuto empirico dalla loro qualità di essere istanziazioni dello
stesso costrutto teorico.
Il compito di costruire teorie generali sembra sia lasciato ad altri domini scientifici, in primo
luogo le neuroscienze. Da questo punto di vista, l’intervento psicologico costituisce
un’opportunità di sviluppo per la teoria psicologica, nella misura in cui rende evidente la
necessità di modelli generali astratti capaci di interpretare la caleidoscopica geografia della
domanda sociale. L’intervento rappresenta il contesto entro cui i modelli generali astratti
possono essere sottoposti a validazione, nei termini della loro capacità di offrire
interpretazioni dei fenomeni proposti dalla domanda sociale, utili a fondare l’azione
professionale.
La psicologia come scienza dei processi di significazione
L’approccio semiotico si discosta dalla visione del senso comune, che assume i significati
come entità statiche, invarianti, proprietà fisse e discrete che si applicano agli oggetti
rappresentati. È necessario centrare l’analisi dei processi psicologici sull’attività
interpretativa degli attori, processo entro e per mezzo del quale il significato viene co-
costruito, piuttosto che meramente applicato. Il socio-costruttivismo ha messo in discussione
la visione dei significati come entità fisse dell’universo simbolico dicendo che non
preesistono allo scambio sociale e comunicativo ma sono costruiti e continuamente ridefiniti
attraverso ed in funzione di tale scambio. I significati sono un prodotto contingente delle
negoziazioni intersoggettive. Tali negoziazioni sono esse stesse atti sociali, orientati e
organizzati da intenti pragmatici e retorici di regolazione dello scambio sociale. Alcune
caratteristiche del significato sono:
La committenza
3. Il come: l’idea di come tale criticità richiede di essere affrontata. Da tale idea
deriva il riconoscimento della necessità di ricorrere ad un determinato tipo di risorsa
professionale.
La committenza è anche una teoria sull’organizzazione del servizio e su ciò che deve essere
inteso come suo esito positivo. In ragione della committenza, il cliente definirà il proprio
investimento di risorse utili a creare le condizioni organizzative e simboliche richieste dal
processo di erogazione/ fruizione del servizio. La committenza è un reticolo di significati
interconnessi che possono essere ricondotti alle seguenti aree:
- Modalità di relazione con l’esperto (la committenza media il modo con cui il
cliente entra in relazione con il consulente: il livello e la forma dell’investimento nei
confronti del lavoro di quest’ultimo, le informazioni che considera sensato fornirgli, il
tipo di lavoro di analisi che è disposto a sostenere. Penserà quindi ad una certa
organizzazione di lavoro e nulla o quasi verrà detto su altri aspetti, in quanto ritenuti non
pertinenti. In definitiva la teoria del problema che sostanzia la committenza non solo
definisce le attese nei confronti della consulenza, ma configura anche le regole del gioco
organizzanti il rapporto di lavoro tra committenza e consulenza.
Domanda
Le considerazioni proposte sopra evidenziano come rivolgersi al consulente non sia soltanto
una decisione che il cliente prende in ragione di una certa interpretazione della propria
condizione (committenza) costruita sulla base di una simbolizzazione affettiva (domanda), al
contempo è un modo di istanziare tale costruzione semiotica. La richiesta è un atto tramite cui
un certo mondo di significato viene riprodotto e mantenuto in vita, quindi inverato. Non c’è
necessità di interpretare questo atto, né in chiave intenzionale e funzionale, né come oggetto
di negoziazione. La domanda è una costruzione affettiva, vale a dire il risultato di un livello
di funzionamento mentale inconscio. La domanda è una forma di coazione a ripetere, ma il
cliente non ripete il proprio mondo affettivo per un fine (l’inconscio non ha scopi), ma perché
non c’è altro che può fare. La ripetitività la coglie l’osservatore esterno, in quanto in grado di
proiettare la ridondanza osservata su uno sfondo di potenziale variabilità. L’agito della
domanda è un automatismo e in quanto tale non risponde a nessuna funzione, non serve a
raggiungere nessuno scopo. Il mondo di significato in cui consiste la domanda viene sempre e
comunque esercitato e viene tanto più esercitato quanto è maggiore la variabilità ambientale
che richiede di essere assimilata. Di conseguenza, la criticità affettiva non è un evento che
mette in crisi la costruzione affettiva, ma che la alimenta.
La domanda si offre come l’agito della continua riproduzione dello scenario oggettuale che
rende viva l’esperienza.
La simbolizzazione affettiva (in quanto espressione del modo di essere inconscio della mente)
è intrinsecamente incapace del test di realtà, vale a dire di apprendimento, delle possibilità di
utilizzare i riscontri di realtà. Uno scenario affettivo in fallimento non smette di funzionare, al
contrario funziona in modo sempre più disancorato dalla realtà. La criticità di uno scenario
affettivo (Carli,1987: fallimento della collusione) non va inteso come interruzione della
dinamica di funzionamento. Uno scenario affettivo in fallimento non smette di funzionare,
ma funziona in modo sempre più disancorato dalla realtà. Il fallimento è negli occhi
dell’osservatore che da fuori riconosce che tale scenario non sostiene più l’adattamento.
La riproduzione intersoggettiva dello scenario affettivo come processo di compartecipazione
La riproduzione di uno scenario affettivo non passa attraverso la negoziazione tra gli attori in
campo: il cliente non propone al consulente di aderire al proprio mondo di significati e il
consulente non ha da decidere se accettare o meno. La riproduzione si realizza nel momento
in cui lo scenario simbolico affettivo agito funziona come parametro di canonicità, come
orizzonte di senso e condizione di interpretabilità, dunque regolatore dello scambio
intersoggettivo tra cliente e consulente. Quando due o più persone usano un determinato
mondo di significati come organizzatore del loro scambio ritrovandosi in esso immersi, quel
mondo viene esperito con qualità di esistenza. Lo scenario affettivo non viene condiviso, non
è il risultato di una stipula, semplicemente chi agisce una domanda considera come universale
il proprio mondo di significato, ma ciò non vuol dire che chiede che siano condivise le
proprie opinioni e i propri ragionamenti. Per esempio, due persone che litigano condividono
entrambe lo scenario affettivo che li orienta a comportarsi in maniera ostile reciprocamente,
sono iscritte nello stesso desiderio. La condivisione intersoggettiva di uno scenario affettivo è
dunque faccenda diversa dalla condivisione di un’idea o di un’opinione. È co-afferenza ad un
presupposto, ad una comune matrice di significati, all’interno della quale poi le persone si
collocano anche molto diversamente. Uno scenario affettivo può entrare in fallimento, ma ciò
non significa che lo scenario esaurisce il proprio funzionamento, quanto piuttosto che si
disancora dalla realtà. Il fallimento riguarda dunque la capacità dello scenario affettivo di
sostenere l’adattamento dell’attore. Uno scenario affettivo alle prese con i riscontri
dell’ambiente non si modifica ma procede inerzialmente nella sua dinamica: l’attore non può
che persistere nell’identificazione con il proprio modello affettivo, malgrado le criticità cui,
cosi facendo, va incontro. Anzi, maggiore è la criticità, maggiore sarà l’investimento
desiderante ed allucinatorio sullo scenario affettivo, sulla sua capacità di assimilare la
variabilità ambientale, dunque di preservare la continuità della matrice identitaria. In ciò sta il
carattere autoreferenziale dei significati affettivi: non si autocorreggono sulla base dei
riscontri critici.
È illusorio pensare che una volta esposto a una dimostrazione di come le cose dovrebbero
essere fatte perché siano efficaci, funzionali ed adeguate, lo scenario affettivo cambi. La
soggettività e gli scenari affettivi sono dinamiche autoreferenziali, portare ad autoriprodursi.
E la loro autoreferenzialità non si ferma nemmeno davanti alla possibilità dell’annientamento.
La domanda come dinamica transferale
La funzione del transfert: su questo aspetto si possono seguire due linee di ragionamento
complementari. Si può richiamare quanto già detto in precedenza sulla funzione desiderante
della domanda. In questa prospettiva, il transfert è la modalità attraverso cui si ricrea nella
relazione con il consulente quella condizione di equilibrio emozionale tra cultura e contesto
entrata in crisi nell’organizzazione. Un tentativo portatore di un’opportunità di sviluppo,
perché è su questa base che l’attore produce l’atto di rivolgersi al consulente. Da un altro
punto di vista, si può vedere il transfert l’ovvia espressione di un principio generale che
possiamo definire così: il pensiero ha un funzionamento vincolato. Entro un contesto sociale
e/o organizzativo, le persone condividono una cultura. Già riconoscere la propria cultura è
impresa difficile, rielaborarla ancora di più, ma afferire a due culture diverse è impossibile.
Ci sono situazioni di transizione in cui le culture tendono ad essere compresenti, ma anche in
questi casi vi è una cultura che tiene insieme. Quindi è vero che ognuno di noi può essere
parte di più culture contemporaneamente, in ragione dei contesti sociali ed organizzativi di
cui è partecipe, ma in ogni circostanza uno sarà il contesto pregnante. Se lo riconduciamo al
discorso sul transfert, ci aiuta a comprendere come l’attore che diventa cliente non può che
interpretare e costruire la relazione con il consulente nei termini del modello culturale di cui
dispone, perché non ne ha altri. In questo senso il transfert è la conseguenza necessaria dei
vincoli in cui si muove il pensiero.
La legge dell’incompetenza della committenza
La richiesta è quindi per sua natura bivalente: da un lato è il riflesso del modo con cui il
cliente persegue il proprio sviluppo ma dall’altro la sua incompetenza mina la possibilità di
un intervento efficace. In altri termini significa che la richiesta, per come si pone, genera le
condizioni del proprio insuccesso. Il paradosso sta dunque in questo: nel carattere bivalente
della domanda, che è insieme risorsa (perché esprime l’investimento che il cliente fa sul
consulente) e vincolo (perché per definizione porta con sé il fallimento della cultura
organizzativa del cliente, che rischia inevitabilmente di contagiare anche l’intervento) per
l’intervento. La bivalenza della richiesta è un problema centrale per la teoria dell’intervento e
due sono i modi possibili per affrontarla: la si evita prescrivendo al cliente le regole del gioco
fondanti l’intervento, ciò si basa sul potere del sistema professionale; in alternativa c’è lo
sviluppo della committenza, per cui si dedica una parte dell’intervento a promuovere la
competenza della committenza, per costruire un contesto di intervento funzionale agli scopi
dello stesso. L’intervento fondato sulla prescrizione del consulente risulta inutilizzabile in
situazioni in cui l’obiettivo dell’intervento è l’elaborazione dei modelli culturali del cliente,
lo sviluppo della sua competenza decisionale. Non è possibile un intervento che abbia come
scopo lo sviluppo della competenza del cliente e che si realizza bypassando la sua
competenza. Lo sviluppo della committenza è difficile perché si muove tra due fuochi: non
assecondare l’incompetenza del cliente per come si esprime attraverso la committenza e la
necessità di accogliere e valorizzare la committenza in ragione della domanda che veicola,
perché è attraverso questa che il cliente si rivolge al consulente e soprattutto perché in essa
sta il suo desiderio, dunque lo spazio e le condizioni dell’incontro possibile.
Carli usa il termine analisi in senso psicodinamico, come operazione volta a rendere
pensabile un processo di simbolizzazione affettiva. Ci concentreremo su due aspetti:
specificare il concetto di domanda e precisare il concetto di analisi.
LA FUNZIONE DI ANALISI
La definiamo l’interpretazione da parte del consulente dello scenario affettivo che orienta la
committenza del cliente. Gli aspetti principali di tale definizione sono che essa implica
concepire la richiesta come agito dello scenario affettivo. La scelta del cliente di rivolgersi al
consulente così come il contenuto e le modalità della sua richiesta, sono concepiti come il
significante comportamentale, l’espressione sul piano della prassi, del modello culturale del
cliente. L’analisi della domanda considera dunque la committenza come il precipitato del
processo di simbolizzazione che il cliente opera per costruire emozionalmente la relazione
con il consulente. In ogni atto convivono due dimensioni della comunicazione: semantico-
referenziale da un lato e atto che si presta ad essere interpretato come espressione agita della
simbolizzazione affettiva della relazione dall’altro. Analizzare la domanda consiste nel
trattare la committenza in termini simbolici e non semantico-referenziali, quindi per il
modello culturale che veicola, per come simbolizza la relazione di consulenza, piuttosto che
in ragione del suo contenuto referenziale. Il presupposto dell’analisi della domanda è che la
criticità dell’attore è connessa allo scenario affettivo cui afferisce e tende a riprodurre; e ciò
comporta un vincolo ed insieme un’opportunità. Il vincolo: la descrizione che il cliente
propone della situazione è prodotta all’interno dello scenario affettivo e subisce quindi lo
stesso deficit di competenza del modello in crisi. La rappresentazione del contesto del cliente
veicolata dalla committenza non va trattata in ragione della sua valenza referenziale, ma
come un ulteriore sintomo della crisi. Ciò non significa negare valore al discorso del cliente
ma non assumerlo come un dato ma in quanto significante del processo costruttivo di
significazione affettiva. L’opportunità: il modello affettivo agito dalla committenza è una
riproduzione del modello che organizza la relazione tra cliente e mondo. L’analisi della
domanda, nel momento in cui rileva il modello affettivo della committenza, produce una
conoscenza del sistema cliente, del suo mondo di significati.
La prima funzione è di tipo diagnostico, attraverso l’analisi della domanda, il consulente può
accedere ad una conoscenza del contesto cliente, dunque può formulare ipotesi psicologiche
sulla sua criticità senza dover dipendere dalla descrizione che il cliente propone del proprio
mondo. Si parla di dipendenza per due motivi: la descrizione è per definizione problematica,
ma soprattutto perché se il consulente assumesse come un dato di fatto tali rappresentazioni,
si ritroverebbe nell’impossibilità di analizzarle nella loro proprietà di espressione sintomatica
del modello culturale in crisi. La seconda funzione è di tipo organizzativo. L’incompetenza
della committenza sembra lasciare poco spazio all’intervento. Se la committenza è per
definizione incompetente, allora non dovrebbe essere possibile la strutturazione di un
intervento efficace: il consulente sarà contagiato dallo stesso fallimento che è chiamato a
contrastare. Un modo per fronteggiare l’incompetenza del committente è usare in chiave
normativa la posizione di ruolo del consulente. Il consulente prescrive le condizioni e gli
obiettivi della prestazione, motivando e legittimando questa sua posizione nei confronti del
cliente con la competenza specifica che possiede rispetto all’ordine di questioni per le quali è
stato chiamato in causa. È questo il caso delle prestazioni specialistiche. Un altro modo è
quello dell’accondiscendenza: agganciare il cliente per poi proporgli una riformulazione della
committenza. Quindi si tratta di accettare il piano di rapporto, gli obiettivi, perfino le
operazioni richieste e desiderate dal cliente, anche quando se ne riconosce la criticità rispetto
all’efficacia della consulenza, riservandosi di introdurre i correttivi opportuni una volta
consolidata la relazione consulenziale. Entrambe strategie efficaci nel garantire un intervento
efficace. Tuttavia, non risolvono il problema dell’incompetenza della committenza,
procurandosi il modo di evitarne gli effetti critici vincolanti. L’analisi della domanda nel
momento in cui permette al cliente di ri-conoscere il suo modello culturale, dunque di
cogliere le connessioni tra il problema, crisi del modello culturale e forma della committenza,
favorisce un processo di sviluppo della competenza della committenza che produce come
risultato la costruzione di un setting di lavoro maggiormente adeguato alla situazione del
cliente e al suo progetto. La terza funzione è quella di intervento. Nel momento in cui
l’analisi della domanda favorisce una rivisitazione ed una rielaborazione del modello
culturale fondante la committenza, questo sviluppo non solo permette di costruire un setting
di lavoro adeguato, ma è di per sè stesso un incremento di competenza del cliente, che questi
potrà generalizzare entro il proprio ambiente. Una committenza competente non rappresenta
un presupposto della consulenza ma l’esito – non necessariamente conclusivo – del suo
esercizio.
Osservazioni conclusive
In primo luogo, l’atto della richiesta va visto non solo come la conseguenza funzionale delle
premesse normative che lo fondano. Esso è anche l’esercizio performativo di tali premesse:
l’azione attraverso la quale le premesse affettive su cui essa si fonda vengono mantenute vive
nel milieu culturale. In secondo luogo, il rilievo sia teorico che metodologico dell’analisi del
processo psicosociale che sostanzia la richiesta di servizio professionale psicologico. Dal
punto di vista teorico, come osservato, la richiesta è inscritta entro e configurata dai
significati affettivi generalizzati costitutivi del sistema culturale cui il cliente è parte.
L’analisi della richiesta è il modo attraverso il quale è possibile analizzare l’organizzazione
dinamica del senso comune, vale a dire la sua capacità normativa di attivare e canalizzare i
processi di significazione. Da un punto di vista metodologico, la richiesta è il modo agito
attraverso il quale le premesse normative latenti del cliente vengono riprodotte. In definitiva,
lo psicologo che non tiene in conto la valenza performativa della richiesta diventa uno
strumento del desiderio del cliente, piuttosto che una risorsa al servizio dell’analisi di tale
desiderio.
CAPITOLO 3: OBIETTIVO E SCOPO DELL’INTERVENTO PSICOLOGICO
L’obiettivo dell’intervento
Per definire lo sviluppo della significazione facciamo alcune premesse. In primo luogo, si
consideri un soggetto impegnato a perseguire un progetto attraverso un sistema di atti tra loro
interconnessi (per progetto si intende qualsiasi investimento che il soggetto fa alla ricerca di
un determinato beneficio. In secondo luogo, il progetto contiene in sé il proprio criterio di
felicità, ovvero un parametro canonico in rapporto al quale gli eventi si rendono valutabili
nella loro desiderabilità rispetto al progetto. In terzo luogo, posto uno stato/regione di felicità
del progetto, gli atti prodotti risultano più o meno capaci di
raggiungere/conservare/avvicinare tale regione; la funzionalità degli atti consiste in tale
capacità. In quarto luogo, la funzionalità del sistema di atti dipende dalla loro coerenza con le
condizioni ambientali entro le quali l’attore persegue il proprio progetto. In quinto luogo, il
livello di coerenza dipende dal significato nei termini del quale l’ambiente viene mappato:
quanto più il sistema di significato in grado di rilevare la variabilità pertinente dell’ambiente,
tanto più l’attore sarà in grado di avvicinare/raggiungere/conservare la regione di felicità del
proprio progetto. Lo sviluppo della significazione consiste nell’incremento della capacità del
significato di mappare la variabilità pertinente dell’ambiente. Lo sviluppo riguarda la
significazione, non il significato. Vale a dire la capacità della significazione di differenziarsi
in modo da riconoscere, pertinentizzare e valorizzare la variabilità ambientale. Il che significa
che lo sviluppo della significazione non consiste nel cambiamento del contenuto del sistema
di significato, quanto nella sua capacità globale di aumentare i gradi di libertà nei termini dei
quali l’esperienza viene interpretata. Lo sviluppo consiste nella capacità semiopoietica, vale a
dire nella capacità di generare innovazione di significato, tale in quanto capace di mappare la
variabilità pertinente. L’intervento non intende far cambiare visione al cliente ma si propone
di rendere il cliente più capace di cogliere elementi della realtà e usarli per riorganizzare il
proprio mondo soggettivo. La mappa è il sistema di significato in rapporto al quale l’attore
organizza i propri movimenti (il proprio progetto) entro i vincoli e sulla base delle risorse del
territorio (l’ambiente del progetto). La mappa è una costruzione rappresentazionale del
territorio consistente nella pertinentizzazione di alcune componenti della variabilità di
quest’ultimo. La mappa è tanto più efficace quanto più rende pertinenti gli elementi di
variabilità – e solo questi – che permettono all’attore di orientarsi secondo il proprio progetto.
I sistemi di significato sono attivi su una pluralità di livelli ciascuno dotato di un determinato
grado di generalizzazione e astrazione. Le premesse di senso ipergeneralizzate che
abbracciano l’intero mondo esperienziale del soggetto. Le premesse di senso
ipergeneralizzate non corrispondono a contenuti riferibili a questo o quell’oggetto di
esperienza, al contrario si prestano ad essere intese come forme del corpo, dotate di valenza
affettiva e qualificanti l’intero campo di esperienza. In quanto tali costituiscono il
fondamento di senso dei livelli di significato più specifici. In secondo luogo, quanto più i
significati sono generalizzati, tanto più essi operano come forme di pertinentizzazione, vale a
dire come modo per segmentare il campo di esperienza e dunque far emergere certi contenuti
di esperienza rispetto ad altri. Le premesse di senso generalizzate ci portano a vedere alcuni
aspetti dell’esperienza piuttosto che altri, da questo punto di vista hanno funzione costitutiva
dell’esperienza piuttosto che meramente connotativa (svolta da significati più specifici). Le
persone non hanno premesse di senso, sono le premesse di senso nei termini delle quali
vedono il mondo. Allo stesso tempo, le premesse di senso operano in modo latente,
difficilmente riconoscibile. Noi facciamo esperienza degli oggetti come dati, non ci è
possibile rilevare i processi interpretativi basilari che operano a monte di tale esperienza.
L’utilità della funzione professionale. Elementi per una teoria dell’outcome
Output e outcome
Il tema dell’outcome solleva il problema della normatività della psicologia come scienza e
funzione professionale. L’outcome è un aspetto intimamente connesso al carattere
professionale della prassi- il fatto stesso che ci sia un cliente implica che l’agire professionale
debba avere un outcome, quindi essere di utilità per qualcuno. All’interno dell’atteggiamento
normativo è comunque possibile operare una distinzione tra diversi approcci: da un lato, in un
certo numero di casi la logica normativa è interpretata secondo quello che si potrebbe definire
un approccio forte. E’ questa la posizione di coloro per i quali lo scopo della prassi
professionale è definito direttamente dall’interno della scienza psicologica. La psicologia
positiva è il prototipo di tale posizione. Concetti quali dialogicità, benessere, empatia, sono
usati spesso in modo da implicare una visione similmente normativa, vale a dire l’idea della
scienza psicologia come portatrice della definizione di un certo stato di fatti come
desiderabile/necessario/meritevole di essere perseguito. Dall’altro lato, la logica normativa si
presta ad essere interpretata secondo quello che possiamo definire un approccio debole, che
consiste nell’associare i costrutti scientifici a determinati stati dei fatti definiti
normativamente sul piano culturale. Il costrutto psicologico è trattato come l’explanans dello
stato dei fatti. Per esempio il bullismo: la sua indesiderabilità non è il contenuto di una teoria
psicologica ma una norma socio-culturale, la psicologia per contrastarlo identifica e opera su
uno o più costrutti psicologici che si sono mostrati in grado di mediare/moderare l’incidenza
del bullismo. Nel caso della prassi professionale psicologica la logica normativa, sia in
versione forte che debole, non è perseguibile, o perlomeno non si offre come la via maestra;
per tre motivi:
Il carattere non normativo della psicologia non le impedisce di definire un nesso funzionale
tra output e outcome; tale nesso può essere definito solo a livello sistemico, a livello cioè del
sistema socio-culturale nel suo complesso, piuttosto che al livello locale del singolo utente
della prestazione professionale. Questo perché è solo al livello sistemico che diventa
possibile individuare in termini probabilistici il valore culturale di un determinato
stato/processo psicologico. Si può affermare che, dato un determinato milieu socio-culturale,
l’output psicologico consistente nell’incremento della capacità di innovazione semiotica ci si
può attendere costituisca una risorsa adattiva.
Un certo output può avere differenti livelli di utilità così come di coerenza con il sistema di
valori egemone entro il contesto socio-culturale in cui viene perseguito. Ciò in ragione di tre
fattori: lo stesso output può alimentare una pluralità di forme di esperienza e di azione entro
lo stesso milieu socio-culturale, come conseguenza della specifica posizione che il cliente
mantiene entro tale mondo. In secondo luogo, lo stesso output acquisisce differenti forme in
ragione delle differenti condizioni mondane attraverso le quali è implementato. Infine, tali
forme acquistano senso in ragione del sistema normativo di valori e credenze che caratterizza
il contesto culturale in gioco. L’intervento psicologico va assimilato a quella serie di
interventi che portano allo sviluppo di competenze metodologiche, in quanto tali non
identificabili con specifici pattern di azione. Le considerazioni proposte portano ad una
riflessione generale: l’impossibilità di considerare la prassi professionale psicologica in
termini applicativi, vale a dire come uso di procedure e tecniche dotate di un significato
funzionale invariante ed in quanto tali implementate nei vari domini applicativi senza la
necessità di considerare la dinamica di campo caratterizzante il funzionamento idiosincratico
di ciascuno di tali domini. Di contro, si rende necessario concepire la definizione del valore
della prassi professionale come una funzione strategica che richiede di essere implementata
nella fase iniziale dell’intervento così come monitorata e rimodellata lungo tutto il suo
sviluppo. Tale funzione costituisce la componente dell’intervento consistente nella
progettazione di servizio, vale a dire la componente dedicata alla definizione del significato
della funzione professionale nei termini del servizio in cui essa si traduce per il cliente.
CAPITOLO 4: IL CAMBIAMENTO PSICOLOGICO
Due aspetti importanti: la questione della fenomenologia del cambiamento (a quale contenuto
di esperienza può essere fatto corrispondere) e il problema del meccanismo del cambiamento.
- Modifica del pattern comportamentale: riguarda le situazioni in cui alle prese con
degli eventi si cambia la modalità di rispondere, passando da un pattern di tipo A ad uno di
tipo B. il pattern comportamentale è generale ed astratto: esso si riferisce ad eventi che sono
simili non sul piano fattuale, ma per il loro significato, per il valore psicologico per il
soggetto. In questo senso il pattern comportamentale si presta ad essere inteso come una
forma di apprendimento consistente nella generalizzazione della regolazione della risposta a
situazioni nuove. Dunque, l’apprendimento in gioco è una modifica della soggettività, senza
che tuttavia sia richiesta una forma di riflessività, di riconoscimento della soggettività in
cambiamento. La modificazione del pattern comportamentale consiste nello stabilirsi di
un’abitudine.
Lo spazio semiotico:
I significati sono rappresentabili come probabilità di transizione tra segni, ciascuno dei quali
identificato da un punto di uno spazio iperdimensionale, lo spazio semiotico: minore la
distanza tra due punti, maggiore la probabilità di associazione tra i due segni corrispondenti.
La distanza tra due punti non è univoca, si compone di un fascio di distanze locali, ciascuna
indicativa di una certa dimensione dello spazio semiotico. Ogni soggetto è portatore di uno
spazio caratterizzato da una certa distribuzione di punti-segni, dunque di una certa
propensione dei segni ad associarsi reciprocamente, così da definire certi percorsi di senso
piuttosto che altri. Da un punto di vista complementare, ogni spazio è caratterizzato da una
certa dimensionalità. Spazio semiotico monodimensionale: è uno spazio nei termini del quale
la persona mapperà gli stati del mondo in quanto consistenti nella variabilità AB. La
dimensionalità dello spazio semiotico si costruisce lungo il percorso ontogenetico in ragione
di 3 classi di fattori: a) la dotazione di variabilità degli stati interni, b) la quantità di variabilità
ambientale cui la persona è esposta, c) la ridondanza di tale variabilità, in ragione della quale
quest’ultima si presta ad essere accoppiata agli stati interni, così da renderli il modo di
mappare gli stati ambientali.
Assunto= Articolazione in due fasi. In un primo momento il dialogo clinico funge da limite al
sistema di assunti del paziente in quanto la prima fase dello scambio clinico si configura
come un processo fondamentalmente decostruttivo, in cui il dialogo terapeutico funge da
limite esterno all’attività regolativa dei significati sovraordinati del paziente. L’indebolimento
dei significati apre ad un secondo momento, di tipo costruttivo, caratterizzato
dall’elaborazione di nuovi assunti da parte del paziente. Le due fasi non sono totalmente
separabili.
Metodo di analisi del processo clinico coerente con il TSSM: Discourse Flow Analysis
(DFA).
- Le analisi dei casi evidenziano come alle due fasi corrispondano pattern di
funzionamento del processo clinico differenti.
Il modello della meccanica del cambiamento serve allo scopo di elaborare una teoria unificata
del cambiamento psicologico, grazie alla quale le diverse forme di sviluppo della
significazione possano ad un tempo: a) essere interpretate nella loro radice unitaria, in
ragione di un’unica dinamica; b) essere differenziate in ragione della variazione di un qualche
parametro di tale dinamica.
Circa il primo punto, sembra possibile ricondurre le diverse forme fenomenologiche del
cambiamento al meccanismo sopra descritto.
Il concetto di setting è legato alla teoria psicoanalitica ed è così definito: l’insieme delle
condizioni che organizzano e configurano la situazione di lavoro tra analista e analizzando.
Vediamo come si sono consolidate due idee di fondo:
In primo luogo, si è riconosciuto il carattere attivo del setting. La concezione iniziale, che può
essere fatta risalire a Freud era che il setting non solo non contasse ma ostacolasse la terapia,
per questo si credeva che il paziente dovesse confrontarsi con un analista “specchio”, la
concezione attuale invece vede nel setting un principio interno al processo psicoanalitico,
almeno da due punti di vista: da un lato ci si è resi conto di come le condizioni che
intervengono nella relazione analitica organizzano ed orientano ciò che accade all’interno
della relazione e questo non avviene solo con gli aspetti macroscopici: ogni elemento di
contesto può esercitare un effetto sul processo terapeutico. Un concetto che diventa
comprensibile se si entra nell’ottica dell’essere inconscio della mente. Dall’altro, il setting
viene a sua volta visto come uno degli “oggetti” che mediano la relazione clinica: un
contenuto dello scambio tra i partecipanti al processo: clinico e cliente. È riconosciuto che la
posizione agita nei confronti del setting rappresenta una delle fondamentali modalità di
comunicazione attive entro la relazione analitica (es. un cliente che arriva in ritardo).
La teoria dell’intervento sollecita una reinterpretazione del setting (visto come l’insieme delle
condizioni materiali ed immateriali che permettono l’esercizio dell’intervento, quindi luogo,
orario, regole dello scambio, ecc.) intende con setting il modello teorico nei termini del quale
lo psicologo costruisce l’oggetto dell’intervento, vale a dire opera l’interpretazione
modellistica del fenomeno cui la richiesta di riferisce. Secondo tale visione il setting è il
continuo processo ermeneutico di costruzione di un modello di mondo fondato teoricamente,
entro il quale il professionista possa muoversi coerentemente con gli strumenti euristici che la
conoscenza scientifica gli mette a disposizione. La specificità della concezione dinamica ed
ermeneutica del setting consiste in ciò: il setting definisce il dominio di autonomia della
funzione professionale dal senso comune. I clienti propongono i propri specifici,
idiosincratici ed allo stesso tempo culturalmente orientati, modi di attribuire rilevanza ai
pezzi di realtà sui quali chiede allo psicologo di focalizzarsi. L’interpretazione astratta di tali
pezzi di realtà operata tramite la mediazione del setting, vale a dire la loro trasformazione
modellistica nell’oggetto psicologico, genera una peculiare posizione del professionista
rispetto al fenomeno proposto dal cliente; una posizione che mette il professionista in una
condizione di parziale autonomia dal potere normativo del senso comune. L’emergere
dinamico del setting costituisce l’esercizio di una forma di estraneità: il riprodursi della
presenza di un’alterità portatrice di un diverso sguardo sul senso dell0esperienza. Nel modo
qui inteso il setting non è la condizione dell’intervento quanto il suo esercizio come pratica
dell’estraneità.
Due aspetti meritano di essere messi in evidenza: in primo luogo, il cliente trova nel modo di
prefigurare il setting un potente mezzo di espressione del proprio mondo di significato, in
ultima istanza del proprio desiderio: la proposta di adesione rivolta al consulente. Il cliente,
nel momento in cui immagina e propone le proprie regole del gioco, in base alle quali
organizzare il rapporto con il consulente e la sua prestazione, sta proponendo sul piano
simbolico anche il desiderio che il consulente entri nel mondo di significato che tale
prefigurazione esprime. Questa dinamica del desiderio è un’importante risorsa, perché
permette al consulente di cogliere il significato profondo che caratterizza la domanda e
dall’altro, lo spessore emozionale della proposta del cliente è la ragione che rende difficile la
ridefinizione della committenza. Qui si inserisce il secondo punto: la proposta di setting che il
cliente avanza è per definizione non coerente con l’esigenza dell’intervento: le esigenze
dell’intervento rimandano ad un setting che sarebbe assurdo aspettarsi che il cliente abbia già
in mente al momento di riformulare la domanda. In ogni intervento, nella sua fase iniziale,
che con Carli definiamo istituente, si pone per il cliente e il consulente il compito di
configurare il setting ottimale per il raggiungimento degli obiettivi, dove configurare il
setting significa concordare un’interpretazione della situazione che ha motivato la
committenza, una strategia di intervento, obiettivi sui quali il consulente assume
responsabilità, le modalità di intervento, le condizioni organizzative dell’intervento, gli
indicatori e le modalità di verifica. Tutti questi aspetti sostanziano l’alleanza terapeutica o
alleanza di lavoro: un’area di rapporto tra cliente e psicologo elaborata negozialmente ed
operante convenzionalmente come criterio di realtà per lo sviluppo dell’intervento.
Due modelli di uscita dalla crisi del progetto del cliente, ognuno dei quali si può far
ricondurre ad una logica della funzione professionale psicologica:
1. Il cliente può pensare che la propria crisi sia conseguenza di un’inefficacia locale:
riguardi cioè uno specifico aspetto della propria esperienza. Su questa base può richiedere
l’intervento di un consulente cui demanda la gestione dell’aspetto in crisi;
2. Il cliente può pensare che la propria crisi derivi da una condizione problematica
globale, che investe in modo generalizzato la sua progettualità. In questo caso si appoggerà al
consulente per essere aiutato a rivedere il proprio modo di interpretare l’esperienza/la propria
progettualità nel suo complesso.
- Obiettivo di stato -> individuazione di uno stato terminale configurato come esito di
un processo di trasformazione. Si configura come un modello normativo di riferimento. La
situazione di crisi viene ad essere definita in termini di scarto dalla normalità. La nozione di
malattia ed il modello medico si propongono paradigmatici del modello in questione, che è
stato definito ortopedico, perché fa perno sul recupero dello scarto dalla normalità;
- Obiettivo metodologico -> nell’intervento integrativo la funzione del consulente non è
di risolvere la criticità per conto del cliente, ma di sostenere e rafforzare l’incremento di
competenza che il cliente si impegna a realizzare per prendersi carico della crisi. Norman
parla di conferimento di capacità. Il consulente non può prevedere gli effetti terminali che il
suo intervento avrà sulla crisi, perché la gestione di questa situazione compete al cliente. La
funzione del consulente è di attivare un processo di analisi ed elaborazione che permetta al
cliente di revisionare e sviluppare il modello simbolico ed organizzativo che fonda la sua
competenza e capacità progettuale. Questo obiettivo è definito metodologico perchè non si
basa sulla pre-definizione del risultato atteso, ma si configura in termini processuali come
incremento di competenza del cliente. L’incremento di competenza non si definisce rispetto
ad un sistema di riferimento posto fuori dal cliente, quindi il consulente non ha un proprio
modello di competenza verso il quale spingere il cliente, l’incremento di competenza si
definisce in termini differenziali tra un prima un dopo: come sviluppo della capacità del
cliente di perseguire la sua progettualità. Il consulente offre modelli di competenza e
strumenti di analisi e riflessione, in definitiva un metodo e non ha idea di come il cliente
affronterà o dovrebbe affrontare il proprio problema. Sarà il cliente ad organizzare, nella
propria autonomia, la strategia di uscita dalla crisi. Un obiettivo metodologico si potrebbe
dire che è tanto più raggiunto, quanto maggiore è l’imprevedibilità degli approdi cui
perviene. Il consulente integrativo non ha una propria idea sull’approdo del percorso di
sviluppo di competenze del cliente, ma può ricostruirlo post hoc, come riconoscimento delle
implicazioni associate allo sviluppo del cliente.
Cliente, utente
I due modelli di funzione professionale rimandano a due concezioni diverse del fruitore.
Riserviamo il termine utente al modello di fruitore della funzione sostitutiva e cliente al
modello di fruitore della funzione integrativa. Quindi utente è il fruitore che è portatore di un
bisogno la cui soddisfazione è affidata sostitutivamente al consulente; il cliente è il fruitore
portatore di una richiesta di potenziamento della propria capacità progettuale. Nell’ottica
proposta utente e cliente sono forme del setting, ovvero categorie interpretative costitutive di
specifici scenari di intervento. L’utente è portatore di bisogni, di una condizione di vuoto, di
scarto dal modello normativo che richiede di essere soddisfatta, eliminata. Il cliente entra in
rapporto col servizio in ragione di propri scopi e concepisce il servizio stesso come una
risorsa per potenziare la propria capacità di scopo.
CAPITOLO 6
Tesi secondo cui l’intervento psicologico implica sul piano del metodo un approccio
idiografico; tesi che discende da due linee di ragionamento connesse: critica della logica
applicativa e interpretazione di tale approccio in termini di modellizzazione abdutiva della
contingenza degli eventi.
Nella misura in cui si riconosce la natura di campo dei fenomeni psicologici, tale strategia è
un modo per evitare il punto critico centrale rappresentato dal carattere contingente dei
processi psicologici. Si fa esperienza non della dinamica invariante ma del fenomeno
psicologico, quindi il valore psicologico di un’occorrenza varia in ragione del campo in cui
essa occorre. Il significato psicologico delle occorrenze è anch’esso contingente al campo. In
questo riconoscimento consiste il principio di indessicalità dei fenomeni psicologici, il quale
pone un vincolo contestuale all’applicabilità della logica applicativa entro il dominio dei
fenomeni psicologici: il fatto che una certa occorrenza non ha un significato invariante,
implica che essa non si presta ad essere compresa nei termini della sua appartenenza alla
classe. Tale impossibilità ha due rilevanti conseguenze:
1. le classi che raccolgono occorrenze fenomenicamente simili vanno intese come aventi
un valore descrittivo ma non esplicativo (collezionano ma per significati psicologici
differenti);
2. la psicologia dovrebbe definire classi configurate in ragione dei processi psicologici,
ciò significa che nella misura in cui si voglia definire una classe come rappresentativa
di un determinato processo psicologico, tale classe potrebbe collezionare occorrenze
anche molto diverse tra loro, riferibili ad una molteplicità di differenti classi di senso
comune.
Si è così portati a concludere che la logica applicativa non possa essere applicata nel caso dei
fenomeni psicologici, per la fondamentale ragione che in tale dominio fenomenico non è
possibile assumere il carattere di identità tra classe ed esemplare, poichè l’attribuzione
dell’occorrenza ad una certa classe soggiace al principio di indessicalità. Smedslund: la
ricerca psicologica è pseudoempirica, nel senso che considera erroneamente le relazioni tra le
occorrenze psicologiche in termini di causa-effetto, piuttosto che in quanto relazioni
linguistiche, cioè di tipo semiotico. La ricerca psicologica ha in molti casi il valore
epistemico di rendere pertinente/esplicita una certa area di significato già presente entro il
modello culturale; la psicologia opera come un descrittore dei legami culturali impliciti in cui
consiste il senso comune. Una buona alleanza di lavoro tra psicoterapeuta e cliente è un
fattore di successo per la psicoterapia. Tuttavia, una volta che si considera che nella
definizione stessa di psicoterapia è implicato il suo carattere di attività sociale orientata a
perseguire uno scopo, allora l’atteggiamento collaborativo dei partecipanti diventa chiaro che
non possa essere visto come parte del concetto stesso di psicoterapia, perciò parlare di
psicoterapia implica già alleanza terapeutica; laddove non c’è, per definizione non vi è
psicoterapia.
La conoscenza idiografica concerne il particolare, singolo evento, nella sua unicità. Lo stesso
fatto di riconoscere un’occorrenza richiede di connetterla ad una classe: affermare che
qualcosa è unica implica l’adozione di un criterio, dunque un processo di generalizzazione. Il
contesto scientifico contemporaneo è diverso e spinge per una diversa interpretazione, che
permetta di evitare le trappole concettuali nell’equazione unicità= singolarità. La nozione di
campo e l’idea dei processi come instanziazioni locali contingenti alle condizioni di campo
permettono di concettualizzare la nozione di unicità in termini di contingenza. Un fenomeno
è unico non per il suo essere l’esemplare di una classe di numerosità 1; il fenomeno è unico
nel senso che la sua occorrenza è locale: un evento instantaneo non replicabile nei termini del
quale un certo processo instanzia la dinamica di campo. Domanda: di quale dinamica di
campo questa occorrenza è indice?
La prassi professionale richiede di essere considerata in termini abduttivi per tre motivi
complementari:
Nel momento in cui si riconosce che i fenomeni psicologici sono un campo, non si può usare
la logica applicativa come intervento, perché il valore psicologico di qualcosa varia in base al
campo. Anche gli atti, i sentimenti, ecc.. sono contingenti al campo (PRINCIPIO DI
INDESSICALITA’, in base al quale se un atto ha un significato che varia, allora non si può
comprendere in base alla sua classe). Tutti i fenomeni appartenenti ad una classe sono solo
descrivibili come simili. La psicologia dovrebbe configurare classi in base ai processi
psicologici, ma in questo modo si racchiuderebbero insieme cose che per senso comune non
c’entrano niente tra loro. Quindi non si può usare la logica applicativa. La psicoterapia non è
tale senza alleanza terapeutica. Storicamente l’approccio idiografico è stato associato al
carattere unico dell’azione, ma anche dicendo che qualcosa è unico, lo generalizziamo in
qualche modo, quindi unicità e generalizzazione non si autoescludono.
CAPITOLO 7: IL SERVIZIO ALLE PERSONE
Il modello medico
Nella misura in cui la mente si concepisce in quanto riflesso di una struttura universale,
autonoma rispetto al mondo esterno, si può assumere la psicopatologia come effetto di un
qualche difetto del normale funzionamento di questa struttura ma nel momento in cui si
riconosce la struttura contestuale della mente, tutto si complica, poiché la visione contestuale
implica un’ontologia processuale per cui la mente è situata, non possiede propria struttura
trascendentale, prende forma in ragione e in funzione dei processi di significazione entro cui
opera. Di conseguenza, non è possibile separare la mente dalle dinamiche semiotiche del
contesto in cui opera.
In sintesi: non esiste psiche altra ed indipendente dal modello antropologico, vale a dire dal
canone di umanità assunto a norma entro un determinato contesto storico-culturale. Se viene
meno la trascendentalità, viene meno anche la possibilità di ancorarsi ad una forma di
normalità, in rapporto alla quale possono essere identificate le deviazioni.
Ideologia e trascendentalità
La visione contestualista della mente non nega che alcune modalità di funzionamento mentale
siano associate a maggiori potenzialità di adattamento ma critica l’interpretazione di tale
associazione, vale a dire l’assunto secondo cui il potenziale maggiore di adattamento dipenda
da una normalità psicologica. La psicologia finisce per assumere la funzione simbolica e
scientifica di decretare ciò che è normale, ma per fare ciò paga un prezzo elevato: è costretta
a contrabbandare come normalità psicologica il canone socio-culturale e perde così la parola
perchè si presta come voce oracolare dell’ideologia. Vaillant individua alcune caratteristiche
come definitorie della salute mentale, ma queste caratteristiche si associano a condizioni di
successo sociale e realizzazione personale. Wakefield riconosce che la capacità adattiva del
funzionamento mentale non è ad esso intrinseca ma dipendente dal contesto e ritiene che tale
riconoscimento non debba portare a negare che i disturbi mentali siano entità esistenti,
propone invece di considerarli come disfunzionalità dannose. L’articolazione in due
componenti (malfunzionamento e dannosità) permette di evitare l’ingenua universalizzazione
e naturalizzazione psicologica del canone sociale. La dannosità varia in funzione del contesto,
in ragione dei canoni valoriali che definiscono localmente le condizioni di adattamento. E’
proprio il riconoscimento della contingenza al contesto che rende necessario fare riferimento
al concetto di disfunzione, il quale implica logicamente quella di modello/normalità. La
proposta dell’autore richiede come pre-condizione di assumere la disfunzione come una
realtà autonoma ed indipendente dalle sue conseguenze mondane. La psicopatologia in
quanto patologia implica necessariamente il riferimento ad un modello di normalità,
riferimento che può realizzarsi o alla Vaillant (naturalizzando il canone sociale) o alla
Wakefield (postulando una struttura trascendentale e negando quindi il carattere contestuale
della mente).
La reificazione dello scarto
1. Mentre sul piano descrittivo la categoria psicopatologica mappa un certo stato dei
fatti, quando interpretata normativamente acquista il significato di scarto cioè di
deviazione dalla normalità attesa;
2. Lo scarto acquista valenza ontologica e viene interpretato come effetto di una causa
da ricercare e al contempo come causa dei problemi denunciati dalla persona.
Si pone la questione di quale modalità alternativa possa essere utilizzata per connettere la
richiesta rivolta allo psicologo e l’intervento. Quella che viene considerata una forma
subclinica (condizione esistenziale critica che non si manifesta in termini così sistematici ed
intensi da giustificare il ricorso ad una categoria psicopatologica, ma che comunque è una
forma di malessere soggettivo) può operare da modello per l’intervento clinico rivolto anche
alle forme conclamate di psicopatologia. la forma subclinica, per definizione, non permette di
fondare l’intervento sull’assimilazione di outcome e output, conseguentemente lo psicologo
alle prese con tale situazione di committenza non può che spostare il focus dallo scarto
nosografico al progetto del fruitore.
La visione contestualista critica due assunti: 1. l’idea per cui il gradiente di adattamento di
una certa modalità di relazione con il mondo rifletta la maggiore/minore distanza da un
modello ideale di normalità psicologica; 2. l’idea per cui c’è una relazione invariante tra un
determinato pattern di funzionamento mentale e la sua manifestazione fenomenica e
fenomenologica piuttosto che una relazione contingente e situata. I parametri costitutivi
dell’ipotesi di servizio sono: il progetto del fruitore in rapporto al quale si definisce la criticità
che alimenta la richiesta; il modello di adattamento; il pattern di funzionamento mentale; la
funzione di utilità dell’intervento. La visione dell’intervento psicologico rivolto agli individui
in chiave di servizio consiste nel definire in maniera situata, specifica per il singolo fruitore,
il nesso tra i parametri sopra richiamati.
IL PROGETTO
Il progetto del cliente segmenta uno specifico campo dinamico di scambio evolutivo tra la
persona e l’ambiente. Una volta definito tale perimetro, diventa possibile riconoscere e
analizzare il modello di adattamento della persona, ossia il modo con cui interpreta il proprio
progetto entro le contingenze in cui di dispiega. Modello di adattamento= modello che
almeno fino ad un certo punto ha alimentato modalità di rapporto col mondo con le quali la
persona si è identificata indipendentemente dai costi che tale identificazione ha comportato,
ci si rivolge allo psicologo in quanto si afferma l’inaccettabilità attuale di tali costi. La
disfunzionalità del modello non è una caratteristica del modello bensì una funzione di
variazioni delle condizioni di contesto (nuovi compiti, vincoli).
LA FUNZIONE DI UTILITÀ’
Ripercorriamo il percorso di costruzione del servizio che ha caratterizzato l’esempio sul libro:
Tecnicalità:
I sistemi di relazione primaria (famiglia, clan, reti di appartenenza) sono interpretabili come
una forma di logica centrata sull’agente, caratterizzata dalla pertinentizzazione dello scambio
intersoggettivo prossimale. In altri casi il nucleo dell’azione è attribuito all’ideologia. Una
modalità prototipica di inveramento della logica entrata sull’agire è data dalla tecnicalità,
ovvero la forma del modello centrato sull’agire che concepisce il processo produttivo in
termini di articolazione di procedure operative, definite nei termini di uno specifico dominio
tecnico. Un dominio tecnico operativo può essere concepito in termini di appaiamento - una
data operazione (T) è associata in termini invarianti ad un dato input (I), in modo da
massimizzare l’output atteso (O), quest’ultimo dotato di un certo valore (V) per l’utente
generico. Dato I allora T porta ad O associato a V per qualsiasi utente. Il successo della
tecnicalità sta nella possibilità che tutto vada come previsto, cioè che le transizioni attese tra
l’input, le operazioni eseguite, l’output e la sua interpretazione in termini valoriali lavorino in
modo invariante, seguendo il modello normativo prescritto dalla tecnica stessa.
Dagli anni ‘80 le politiche di sviluppo hanno seguito due fondamentali traiettorie: da una lato,
una linea d’azione tesa alla promozione di comportamenti, dall’altro, una strategia volta al
potenziamento delle strutture. Insoddisfazione circa i risultati che tali politiche hanno
consentito di raggiungere. Le ragioni di tale insoddisfazione possono essere ricondotte, da
una parte, all’assunto circa la natura razionale del comportamento degli attori sociali,
dall’altro, all’idea che il cambiamento sociale sia funzione delle risorse che vengono immesse
e/o si attivano con le politiche di sviluppo. Una concezione che non nega la materialità dei
comportamenti delle strutture, delle risorse e delle norme, ma la interpreta come il precipitato
di dinamiche simboliche socialmente condivise. Interpretare lo sviluppo e la sua
pianificazione quali fenomeni di significato è un’interpretazione proposta per le ricadute che
può avere sul piano dell’intervento.
Sviluppo e risorse
Lo sviluppo delle politiche di sviluppo non richiede solo un potenziamento o
un’innovazione dei modelli tecnici, ma anche un lavoro di analisi concettuale delle
categorie fondanti la logica della pianificazione. Secondo questa linea di ragionamento
innovare non significa necessariamente trovare soluzioni nuove ai problemi dati, ma
anche trasformare il modello del problema.
La progettazione dell’intervento
Il concetto di format
E’ una struttura semantica che fa da scenario all’azione professionale e che definisce a) le
posizioni e i modelli di ruolo; b) il quadro spazio-temporale; c) le forme organizzative dello
scambio; d) la finalizzazione dello scambio, dunque il senso che la qualifica. E’ lo scenario
socio-simbolico entro cui e per il mezzo del quale si dispiega la dinamica socio-organizzativa
dell’intervento (x approfondire: pag 241, 242, 243).
La verifica dell’intervento
E’ un aspetto strategico, costituisce il momento di valorizzazione della funzione
professionale, dunque il vettore dello sviluppo della committenza nei confronti del sistema
professionale, così come del singolo consulente. Il discorso sula verifica implica affrontare
una serie di aspetti tra loro connessi: le funzioni, le dimensioni, gli oggetti e i tempi di tale
operazione.
Le funzioni della verifica:
Distinzione di quattro differenti logiche:
- verifica (in senso stretto) -> analisi degli esiti raggiunti dall’intervento in ragione delle
ipotesi di esito atteso che l’intervento ha assunto a monte della propria realizzazione;
- valutazione -> connessa con la valenza di servizio dell’intervento, è legata e si
realizza in rapporto al cliente. Con la valutazione il cliente esprime un giudizio circa
l’utilità/appropriatezza e il senso che l’intervento ha per il fruitore; VERIFICA E
VALUTAZIONE sono solo parzialmente connesse tra loro. La valutazione è un
giudizio di tipo organizzativo-strategico, mentre la verifica è un’analisi di tipo
tecnico;
- riesame -> funzione in un certo senso intermedia tra verifica e valutazione. Lo scopo è
rivedere, alla luce ed attraverso i risultati raggiunti, l’impianto metodologico
dell’intervento, nei suoi aspetti tecnici, metodologici e strategici;
- validazione -> il suo scopo è fondare e legittimare sul piano scientifico la teoria di
riferimento. Assume l’intervento e il suo esito come mezzi per lo sviluppo teorico-
metodologico del corpus scientifico. Un esito positivo della validazione funzionerà da
prova a supporto del modello teorico.
Il set
Le operazioni che si possono rendere necessarie in un intervento sono molteplici. Diventa
importante avere un repertorio di criteri utili a predisporre i set adeguati in ragione delle
diverse tipologie di esigenze funzionali che lo psicologo incontra nel corso della consulenza.
In questa sede con set si intende l’insieme delle regole del gioco che definiscono
l’organizzazione dell’intervento e il suo governo; in definitiva il chi, il dove, il come, il
quando ed il perché dell’intervento.
Modelli di set
Tre fondamentali modelli/funzioni del set:
- sospensione dell’azione
- negoziazione
- applicazione
Con Carli si considera il set di sospensione dell’azione quel dispositivo di lavoro volto ad
interrompere l’agito istituito dei modelli di significato, al fine di sottoporli ad analisi. Il set di
sospensione dell’azione è quello più di altri connesso alla funzione psicodinamica dell’analisi
e del pensare emozioni. La premessa di questo tipo di set è l’ipotesi metodologica secondo la
quale la riflessione sui modelli categoriali permette il loro sviluppo, che si traduce in un
potenziamento delle possibilità discorsive a disposizione degli attori, dunque della loro
capacità di perseguire il proprio progetto. Il set di negoziazione è una configurazione di
lavoro pensata per permettere ai modelli categoriali di essere dispiegati a partire dal
riconoscimento della pluralità dei punti di vista in campo. Questa configurazione genera la
possibilità di processi socio-cognitivi di tipo conflittuale che, da un lato, favoriscono
l’emergenza di nuove configurazioni di significato, dall’altro, l’apertura e l’accomodamento
delle matrici categoriali di cui sono portatori gli attori. Il set applicativo è un ambito di lavoro
che si fonda sui modelli consolidati. A differenza del set negoziale però, presuppone la
salienza di uno spazio di consensualità, dunque una condizione di uniformità dei punti di
vista in gioco. Questo assetto entra in gioco tutte le volte che si tratta di utilizzare i modelli
categoriali attivi entro lo spazio dialogico di consulenza in quanto premessa funzionale dello
scambio comunicativo. Le configurazioni ora richiamae vanno considerate modalità di
funzionamento della relazione di consulenza e possono alternarsi durante il processo di
intervento.
Dinamica di committenza
Abbiamo evidenziato il carattere bidimensionale dell’intervento. Le condizioni organizzative
che fondano e mediano la relazione consulenziale tendono a variare ed al contempo esercitare
un ruolo attivo entro l’intervento. Da qui la necessità di integrare l’azione professionale con
una funzione volta a governare la dimensione organizzativa dell’intervento. Un ruolo chiave
entro la dimensione organizzativa è giocato dalla committenza: dipende dalla committenza il
valore investito sull’intervento e il valore dato ai risultati. L’intervento implica tre processi:
relazione tra cliente e consulente, relazione tra organizzazione e consulente, rapporto tra
cliente e la sua organizzazione. Prendiamo in considerazione il nesso organizzazione-
consulente. In questo caso la committenza può essere intesa come la funzione di traduzione
dell’organizzazione, che riformula le finalità di sviluppo della struttura in un linguaggio
fondante il rapporto con la consulenza. La committenza rappresenta da questo punto di vista
il mediatore tra due universi culturali: la cultura della struttura di cui è espressione e la
cultura del sistema professionale. La decisione di chiamare in gioco il consulente implica una
funzione di traduzione, capace di definire una sorta di linguaggio d’interfaccia tra
l’esperienza (cultura) di chi sperimenta la criticità ed il sistema professionale.
Per quanto riguarda il nesso organizzazione-cliente, la mediazione della committenza ha
implicazioni di ordine strategico in quanto è tale mediazione che qualifica il senso che
l’intervento ha per i clienti, ovvero il significato che gli attori danno alla partecipazione
all’intervento.
Per quanto riguarda invece il nesso consulente-cliente, è utile riconoscere come la
committenza eserciti una funzione di mediazione tanto indiretta quanto diretta. La
committenza agisce indirettamente, in quanto la dinamica di rapporto tra committenza e
partecipanti all’intervento tende ad essere replicata transferalmente entro il rapporto con il
consulente. La committenza interviene, tuttavia, anche direttamente entro la relazione tra
consulente e cliente attraverso l’immagine che essa veicola circa il significato dell’intervento
e del ruolo in esso giocato tanto dal consulente che dal cliente. Tale forma di committenza
influenzerà pesantemente il lavoro di consulenza, condizionando il posizionamento dei
clienti. Una committenza adempitiva sarà evidentemente meno disponibile a trattare gli
eventi critici che occorrono entro l’intervento in termini esplorativi, come fonte di
informazione, tenderà piuttosto a considerarli come errori. È ovvio che maggiore sia
l’investimento della committenza, maggiori saranno le risorse organizzative che verranno
messe a disposizione del consulente. La committenza è un fattore strategico dell’intervento. Il
suo sviluppo in termini di competenza è allo stesso tempo obiettivo, condizione e metodo
dell’azione psicologica. La funzione dello sviluppo della committenza non si esaurisce nella
fase iniziale, istituente, dell’intervento. La committenza, infatti, non è una proprietà statica
degli attori che la veicolano: è un sistema di significato ad alta valenza pragmatica che evolve
lungo l’intervento, in parte seguendo una propria dinamica interna, in parte come
conseguenza dell’intervento stesso. È opportuno quindi prevedere già in fase di progettazione
dell’intervento dei momenti di monitoraggio della committenza. Questo dispositivo ha infatti
duplice utilità: da un lato, implica sollecitare l’assunzione competente della funzione di
committenza entro l’intervento; dall’altro attribuire e rendere evidente come l’intervento non
si riduca alla sola dimensione operativa ma implichi anche la dimensione di governo del
processo.
La regola dell’elastico
L’intervento è una dinamica sociale conflittuale. Essa mette in campo due diversi universi
simbolici per definizione differenziati, dunque destinati ad entrare in rapporto dialettico nel
momento in cui convergono a dare significato al contesto consulenziale ed alla prassi che in
esso si sviluppano. Lo psicologo non può limitarsi né ad assumere il punto di vista del
sistema cliente, né a richiedere al sistema cliente di accettare il proprio linguaggio. La
funzione psicologica non possiede il fondamento di legittimazione valoriale e istituzionale
che caratterizza altre professioni, soprattutto, la funzione psicologica non può limitarsi ad
utilizzare i modelli simbolici del cliente, in quanto il suo prodotto in ultima istanza è di
contribuire a svilupparli. Lo psicologo non può operare con il cliente, né malgrado il cliente.
Per uscire da questa antinomia, lo psicologo costruisce spazi dialogici di tipo dialettico:
ambiti simbolici ed organizzativi, costruiti consensualmente, dunque con il concorso dei
punti di vista in gioco, al contempo non identificabili con nessuno di essi. Questo spazio con
Paniccia lo definiamo di estraneità, ovvero uno spazio simbolico dove coesistono
dialetticamente identità deassolutizzante e diversità denemicalizzate. Sul piano operativo si
definisce la regola dell’elastico. In breve, si tratta per lo psicologo di collocare la propria
proposta al limite del punto di vista dell’interlocutore, comunque al di qua del suo punto di
rottura. Accettare ed utilizzare la valenza conflittuale dell’interlocuzione di consulenza,
tuttavia mantenendosi all’interno della capacità del cliente di sostenere/trattare il conflitto.
Tendere l’elastico al massimo fino al punto oltre il quale si romperebbe. In questo modo lo
psicologo si colloca al limite del punto di vista del cliente per sollecitare le risorse semiotiche
marginali del sistema cliente; in altri termini, stressa il sistema senza intensificare a tal punto
il conflitto semiotico da rendere non utilizzabili le risorse emarginali stesse.
Come si fa ad individuare il punto di equilibrio?
Ci sono alcuni criteri: in primo luogo, è utile comprendere il sistema di significato che
sostanzia il punto di vista del cliente, in modo da riconoscere le potenzialità di sviluppo e
limiti. In secondo luogo, è utile chiedersi sistematicamente quali siano gli assunti che l’altro
deve far propri per entrare in rapporto con il nostro punto di vista e con quanto esso implica
in termini di premesse da assumere. In terzo luogo, torna utile pensare alla ricerca di un punto
di equilibrio come ad un’operazione per prove ed errori, che va avanti per tentativi, esercitati
in un ambito ristretto. Lindbloom propone una procedura per fasi successive che descrive il
processo di scelta come risultato di confronti ricorsivi su aree limitate del processo. Ciò
implica riconoscere che l’accordo si basa sul calcolo delle alternative tra un sistema ridotto e
semplificato di scelte e l’accordo investe i mezzi ma anche gli obiettivi. In terzo luogo, è
importante per lo psicologo prestare attenzione ai segnali deboli che il cliente produce entro
l’intervento. Il punto non è evitare rotture, ma esplorare le potenzialità del sistema culturale
del cliente.
CAPITOLO 12: MODALITà OPERATIVE DELL’INTERVENTO
L’intervento psicologico si focalizza sui processi di significazione. Bisogna differenziare, tra
gli strumenti usati dallo psicologo, le operazioni che si rivolgono alle strutture simboliche da
quelli che si interessano ai contenuti simbolici. In questo secondo caso, quello che conta sono
i contenuti dei discorsi e dei pensieri: le affermazioni, gli atteggiamenti, le prese di posizione,
i valori e le decisioni assunte, ecc. La seconda distinzione riguarda l’obiettivo dell’intervento;
da questo punto di vista possiamo distinguere, da un lato, le operazioni psicologiche volte a
promuovere lo sviluppo/revisione degli assetti culturali dati, dall’altro le operazioni volte a
consolidare/potenziare la riproduzione degli assetti culturali dati.
Precisazione
La precisazione è volta ad approfondire e/o circostanziare il significato di una determinata
produzione simbolica del punto di vista di chi lo ha proposto (operazione di potenziamento
che opera sul significato). La precisazione è un’operazione prettamente semantica, che si
concentra sul contenuto del discorso. Le persone attribuiscono coerenza e chiarezza alle
proprie affermazioni per il fatto stesso di concepirle come espressione del proprio pensiero.
Una richiesta di precisazione equivale a chiedere alla persona di non affidarsi unicamente alla
percezione soggettiva di coerenza, ma di farsi carico di argomentare le proprie affermazioni
entro il contesto comunicativo condiviso. Le modalità per operare una precisazione sono
svariate, alcune indirette.
Trasmissione
È l’operazione per mezzo della quale lo psicologo sollecita l’assimilazione da parte del
cliente di un contenuto rappresentazionale (operazione di potenziamento che opera sul
significato). Presuppone la compatibilità culturale tra i contenuti proposti e il contesto
culturale/categoriale che li assume. La trasmissione in genere mette in gioco informazioni e
contenuti di conoscenza a valenza normativa, la fonte di legittimità dei significati trasmessi è
l’autorità scientifico-professionale del consulente. La trasmissione quindi si regge sulla
competenza riconosciuta del tecnico che impone come prescrittivi i propri prodotti.
Attivazione
È l’operazione volta a riorganizzare il sistema di conoscenza del cliente attraverso la proposta
di contenuti rappresentazionali in grado di riorganizzare cognitivamente il punto di vista di
quest’ultimo. Si distingue dalla trasmissione perché non si propone di riorganizzare il punto
di vista del cliente. Mira invece alla messa in movimento del sistema di conoscenze: a
rendere saliente qualcosa che è già presente. Una forma di attivazione è la pertinentizzazione
e la periferizzazione o la sollecitazione (è un’operazione di revisione/sviluppo che opera sui
contenuti).
Dialettizzazione
È l’operazione volta a relativizzare/sottoporre al vaglio critico alcuni contenuti proposti dal
cliente. È una modalità conflittuale che va usata con cautela (è un’operazione di
revisione/sviluppo che opera sui contenuti). La dialettizzazione è una funzione irrinunciabile
dell’intervento perché aiuta a fondare su basi di progetto l’investimento della consulenza,
l’alternativa è una committenza fondata su dimensioni collusive. Vincola il proprio operato
all’uso della funzionalità, coerenza, non adesione e riferimento contingente.
Esplicitazione
Operazione di potenziamento che opera sulle strutture. L’evidenziazione dell’implicito è
l’operazione volta a rintracciare la base di conoscenza condivisa che fonda la
comprensione/scambio discorsivo.
Strutturazione
Operazione di revisione/sviluppo che opera sulle strutture. La strutturazione è quella modalità
operativa che mira a definire condizioni ambientali utili a favorire determinati posizionamenti
discorsivi degli attori, determinate versioni della mente. L’azione interpretativa può essere
intesa come una forma di strutturazione.
Interpretazione
Operazione di revisione/sviluppo che opera sulle strutture.