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Spinoza, l. Vinciguerra

Filosofia della storia (Università di Bologna)

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Introduzione

Converrebbe parlare di rimozione di un pensiero che in tutti i modi si è cercato di far tacere. Il secolo dei lumi lo confonderà con
l’ateismo, il fatalismo, il materialismo, nel migliore dei casi con una forma di dogmatismo, di deismo o di panteismo. Spinoza sapeva
di scrivere per un tempo che non era esattamente il suo. Se si vuol dare credito a Deleuze che diceva che non si diventa, ma ci si
scopre spinozisti, chi intende veramente non dovrebbe trovarvi nulla che in qualche modo non sapeva già.

Capitolo 1

La via e il metodo

Un cartesiano?

Quando S morì nel 1677, la sua fama era già sparsa per l’Europa. Sono due le opere che la diffondano oltre i confini Olandesi,
“Principi della filosofia di Cartesio” e “Trattato teologico-politico”. La prima delle due fu l’unica opera pubblica con il nome proprio di
S, la seconda, per esempio, aveva sulla copertina solo le iniziali. PPC rappresentano un raro esempio nella storia della filosofia di
come un filosofo si prenda cura di esporre in modo sintetico il pensiero di un altro filosofo con l’intento di restituire fedelmente la
dottrina salvandone il più possibile la coerenza, la consistenza e i contributi di verità che da essa si può trattare, e non per
confutarla. Questa opera è un preludio al lavoro di interpretazione delle Sacre Scritture da parte di S, questione spiegata nel settimo
capitolo del TTP.

Qui appare enunciata chiaramente la differenza tra filosofia di Spinoza e quella di Descartes e il superamento che la filosofia del
primo ha ormai compiuto rispetto all’impostazione cartesiana. Con queste affermazioni l’autore della Prefazione, Lodewijk Meijer,
sollecita implicitamente l’attenzione e la curiosità per il contenuto autentico della filosofia di Spinoza, secondo l’intenzione che il
trattato su Descartes si proponeva, stando alle dichiarazioni dello stesso Spinoza a Oldenburg, nella lettera del luglio 1663.
Avviandosi ad assumere piena autonomia filosofica nei confronti dell’autore a cui doveva più di chiunque altro, Spinoza matura
infatti il desiderio di segnare pubblicamente il suo distacco da Descartes e, al tempo stesso, offrire al grande maestro un segno di
omaggio e di riconoscimento. «L’omaggio reso al chiarissimo francese è a doppio taglio. Proponendosi di spiegare Cartesio
attraverso il solo Cartesio, da un lato [Spinoza] contribuiva a valorizzarne e a promuoverne la filosofia, dall’altro ne preparava la
critica, premessa per il suo superamento» (Vinciguerra). I Principi della filosofia di Descartes pongono il problema del significato
storico-filosofico della matrice cartesiana dello spinozismo. Per alcuni pensatori e interpreti – primo fra tutti Leibniz – il pensiero di
Spinoza non è che la conseguenza logica ed estrema della filosofia cartesiana, con la quale condivide il meccanicismo e
l’antifinalismo, uniti a una forte spinta in direzione dell’ateismo.

Se i Principi non ci avvicinano alla dottrina di S, questa ci indica l’approccio, ovvero la più accurata e concisa interpretazione, alcune
volte spiega meglio i concetti, altre volte porta argomenti e dimostrazioni che D non portò, fino al punto di creare l’impressione che
capì D meglio di lui stesso. Questo meticoloso lavoro attiro l’attenzione di tanti studiosi, tra i quali anche Borch. Degna di nota è
anche l’introduzione ai Principi, dove sono esposte in poche pagine l’essenziale delle Meditazioni. La prefazione non fa mistero di
quanto poco l’autore ne condivida le opinioni. Le differenze sono annunciate da subito. Non si accoglie la dottrina secondo la quale
la volontà sarebbe distinta dall’intelletto, né la teoria che affermare e negare sia altra cosa dalle idee medesime, e che la volontà
sia libera. Mentre D dice che la mente umana sia materia assolutamente pensante, S la concepisce come rigorosamente
determinata da idee che seguono leggi della natura pensante di cui la mente umana è solo una parte. Proprio sui principi si
separano i due autori. Proponendosi di spiegare D attraverso il solo D, da un lato contribuiva a valorizzare e a promuoverne la sua
filosofia, dall’altro, ne preparava la critica, premessa per il suo superamento. Più in generale, i Principi pongono il problema del
significato storico filosofico della matrice cartesiana dello spinozismo. Per alcuni, come Leibniz, il pensiero di S non sarebbe altro che
la logica ed estrema conseguenza della filosofia cartesiana con cui condivide il meccanicismo, l’antifinalismo nonché l’ateismo. Per
altri, come Deleuze, sarebbe caratterizzato da un forte anticartesianesimo. Rispettivamente, i primi partono dalla lettura di D per
comprende le differenze con S, e viceversa i secondi. Ma questo non significa che S detesti D, anzi pensa che le sue opere siano
propedeutiche alle sue, inoltre adotta il linguaggio usato da D.

La crisi

Il rapporto con D può considerarsi risolto e superato alla comparsa dei Principi. Si è dibattuto invece di più sulla collocazione
temporale del “Trattato sull’emendazione dell’intelletto” e sulle ragioni della sua incompiutezza. Le questioni filologiche si sono
complicate con la comparsa del “Breve trattato”. Si è voluto leggere il TIE come un’introduzione all’Etica, ma oggi si tende a rivedere
questo giudizio e a retrodatarne la redazione al periodo della scomunica o addirittura poco prima, per fare introduzione al breve
trattato. Per contenuto TIE viene di solito considerato come il discorso sul metodo di S.

Il pensiero di S può essere accolto dall’racconto contenuto nell’OP. Si riconoscono vari riferimenti alla letteratura classica, come
Ecclesiaste, Ethica nicomachea per quanto riguarda la natura dei beni, stoicismo romano nonché espressioni mediate da Bacone e
da Cartesio. Il racconto si iscrive nella tradizione protrettica e costituisce l’unico racconto autobiografico di tutta l’opera. Non si
narra qui di un ingegnoso sperimento mentale, come nelle Meditazioni di D, ma l’esperienza di una profonda crisi intellettuale ed
esistenziale, la domanda filosofica nasce dalla richiesta di vera felicità, e a breve si rende conto della relatività del bene e del male in

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base ai turbamenti dell’animo. La conoscenza, per lo meno all’inizio, fa aumentare la tristezza tanto più che essa di per sé sembra
incapace di produrre una reale modificazione etica. Se inclinazione alla malinconia e tendenza al pessimismo sono il rischio insito in
ogni seria meditazione fondata sull’esperienza, è comprensibile che molti rinuncino a perseguire la via intrapresa.

Spinoza narra in un primo tempo di aver esitato tra il ricercare una cosa ancora incerta e il rischio di perdere cose certe, confessa i
ripetuti insuccessi nel pervenire a una nuova realtà senza cambiare regime di vita, poiché i ripetuti insuccessi nel pervenire a una
nuova realtà senza cambiare regime di vita, poiché piaceri, ricchezze distraggono la mente. Vedendo che i beni comunemente
perseguiti fanno da ostacolo alla nuova vita, si vede costretto a ricercare ciò che è più utile a partire dalla natura stessa dei beni.
Dapprima considerati come certi, questi appaiono ora incerti per natura, mentre il vero bene si svela incerto solo rispetto alla
possibilità di essere raggiunto, i beni incerti divengono ora mali certi. Benché il progresso e la chiarezza conseguita dalla riflessione
non permettano di liberarsi totalmente dalla servitù verso i falsi beni, da essa si trae il beneficio di essere distolti dal potere che
esercitano su di noi, ovviamente gradualmente. La riflessione non mette tra parentesi il vissuto, si fa più profonda con l’intensificarsi
delle passioni messe in gioco. Vengono sperimentate diverse strategie e soluzioni, dapprima di compromesso, poi più radicali, per
arrivare infine alla modificazione del punto di vista su ciò che fa da ostacolo al desiderio di nuova vita. Tra l’inizio della crisi e la sua
soluzione si snoda un’impervia e tortuosa via, dove paradossalmente il pericolo di smarrirsi totalmente aumenta con l’approssimarsi
della meta. Siamo lontani dall’ingegnoso dubbio cartesiano, quanto dagli abili calcoli e scommesse pascaliani. In nessun momento
viene invocata una qualche libertà di scelta, che presieda alle decisioni dell’itinerante. Anzi, S ripete più volte d’essere stato
costretto dalla logica stessa del desiderio che in lui imperava. Per poter sperare vincere o avere una certa presa sugli affetti, non
basta sapere cosa siano bene e male per noi. Per sapere cosa possiamo e che cosa non possiamo sui nostri affetti è necessario
conoscere tanto la potenza quanto l’impotenza della nostra natura.

La prima domanda della filosofia non è quella scettica di Montaigne “che cosa so?”, né quella di D “di cosa posso essere certo?”, né
quella di Kant “cosa posso sapere?”. S pone vita buona come la questione prima del filosofare, diventando un erede della
eudemonistica e della sapienza antica, l’essenza nostra non è il puro pensare come D predica, è piuttosto desiderio. La vera filosofia,
quale realizzazione della vita buona, dipende perciò dalla possibilità di sciogliere quel nodo problematico che lega il desiderio di un
vero bene alla vera conoscenza della sua natura. Se bene e male, perfetto e imperfetto hanno senso solo relativamente ai nostri
affetti, il nostro desiderio e amore devono in qualche modo dipendere dalla natura della cosa desiderata e amata. Il sommo bene
dipenderà dall’esperienza e dalla conoscenza, dell’unione che la mente ha con l’intera natura.

Il segno della verità

S incontra un’antica difficoltà già sollevata da Platone, ovvero l’esigenza di un metodo, visto che per scoprirlo bisogna già avere un
metodo, e quest’ultimo di un altro per potersi garantire… come procedere? La soluzione che S dà fa intendere come porsi rispetto
alla questione dell’inizio della filosofia. Esso sta nel riconoscere la natura stessa dell’intelletto, la sua innata potenza di verità intesa
quale strumento e origine del vero. Non v’è qualcosa come la verità, il vero piuttosto appartiene all’essenza stessa dell’idea vera,
quale produzione dell’intelletto. Sarà proprio la condizione che S riconoscerà alla certezza della conoscenza profetica, di cui dir
appunto che essa non riposa sulla potenza dell’intelletto, ma sulla potenza dell’immaginazione, che per il suo carattere segnico non
implica certezza matematica. Mentre D, con l’ipotesi del malin genie, aveva disgiunto certezza e verità per pervenire, mediante il
dubbio iperbolico, all’indubitabilità, intesa quale carattere fondamentale di ogni certezza, per S la certezza emana dall’essenza
stessa dell’idea vera, per la certezza della verità non è necessario alcun altro segno che il possesso di un’idea vera , per cui il modo
con il quale sentiamo l’essenza formale dell’idea vera è la stessa certezza. Per sapere non c’è bisogno di sapere di sapere, perché
chi sa sa anche che sa. Rispetto a D il rapporto tra metodo e scienza è invertito, non v’è scienza perché vi è un metodo, ma a causa
dell’esistenza della scienza che è si da un metodo. Se la verità non fosse già data in qualche idea vera, non saremmo in grado né di
trovarla né di riconoscerla. Contrariamente a D, diventa impensabile per S dubitare delle verità matematiche, in quanto ogni dubbio
è tolto dalla natura stessa delle idee vere. Escludere ogni segno di verità al di fuori della verità stessa delle idee equivale così a dire
che la verità si manifesta da sé. Che la verità sia detta norma di sé stessa deve far riflettere circa la via da seguire per edificare il
sapere. La parola latina norma significa anche la squadra che con il filo a piombo, consente al muratore di erigere un edificio dalle
fondamenta. Al metodo non bastano le sole regole, che sono da sole insufficienti a garantire la rettitudine e la verità del sapere che
si vuole edificare, una norma è necessaria. Il metodo consisterà prima di tutto nell’intendere cosa sia l’idea vera, distinguendola
dalle restanti percezioni e investigandone la natura, al fine di conoscere la nostra capacità di intendere. Il metodo non può dunque
precedere la filosofia per condurvi, ma è sua parte integrante, che nell’Etica finirà con il coincidere con lo stesso ordine deduttivo
dell’esposizione matematica dei contenuti del sapere, la verità non richiede alcun segno. Ordinare tutte le verità a quella del cogito
per farne l’inizio e la norma assoluta della filosofia, come ha fatto D per S non è corretto, un’altra idea doveva essere posta a
principio della riflessione. Quale? Non un’idea vera qualunque, bensì quella dell’ente perfettissimo. Perché questa e non un’altra?
Perché perfettissimo sarà quel metodo che procederà riflessivamente a partire dall’idea vera dell’ente perfettissimo. Inoltre perché
la mente potrà trarre tutte le sue idee solo da quella che rappresenta l’origine e la fonte di tutte le altre. Da qui seguono le quattro
cose che il metodo deve poter garantire:

- Distinguere l’idea vera da tutte le restanti percezioni preservando la mente da esse


- Fornire le regole affinché le cose sconosciute siano percepite secondo tale norma
- Istituire un ordine per non essere affaticati da cose inutili

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- Una volta conosciuto questo metodo, esso sarà perfettissimo quando avremo l’idea dell’ente perfettissimo.

I paradossi del metodo

Emendare l’intelletto eqivale a liberarlo. L’obiezione che può sorgere è: dopo aver detto che un buon metodo è quello che mostra in
che modo la mente debba essere diretta secondo la norma di un’idea vera data, lo proviamo mediante un ragionamento, il che
sembra mostrare che ciò non è noto per sé, e si può domandare se ragioniamo bene. Non trovando quasi mai spontaneamente la
retta via, né potendo supplire in questo in Novum Organum di Bacone né le Meditazioni di C, è necessario che la mente venga
iniziata facendole intendere prima di tutto che per dimostrare la verità e il buon ragionamento non abbiamo bisogno di nessuno
strumento se non della stessa verità e del buon ragionamento. La seconda obiezione: perché si è proceduto con questo metodo
invece di partire subito dalla riflessione dell’ente perfettissimo? Dice Spinoza che si possono incontrare qua e là paradossi ma non li
ritiene tali da farci respingere come false le verità dimostrate; è anche necessario che è in balia dei pregiudizi; proprio perché
propedeutico tale metodo implica dei paradossi, che tuttavia potranno essere lasciati correre una volta levati gli ostacoli che ci
impediscono di capire come è necessario procedere. Nota Mignini al riguarda della problematicità del metodo: in un senso l’idea
dell’ente perfettissimo sembrerebbe porsi alla fine del processo di conoscenza sorretto dal metodo; in un altro, l’idea dell’ente
perfettissimo sembra invece costituire il necessario punto di partenza della filosofia e del metodo. È per questa ragione che il
trattato sul metodo è rimasto incompiuto? Oppure la costruzione della filosofia si è rivelata indispensabile per la costituzione dello
stesso metodo, anche nella sua formulazione più elementare? Quest’ultima sarebbe un ulteriore e più radicale ragione di
incompiutezza. Spinoza ribadisce che il vero metodo esiste e che consiste nella sola conoscenza del puro intelletto, della natura e
delle sue leggi. Non si può dire che Spinoza abbia lasciato una dottrina definitiva sul metodo.

Capitolo 2

Natura e origine dei pregiudizi

Sognare a occhi aperti

Ogni volta che parlerà dei pregiudizi Spinoza non solo gli denuncerà ma ne fornirà una spiegazione positiva. In particolare nella
prima parte nella prima appendice dell’Etica viene abbozzata una genealogia di tutti i pregiudizi a partire dalla loro causa prima,
completata poi nell’antropologia storica presentata dalla prefazione al Trattato teologico-politico. Quindi i pregiudizi nascono
perché gli uomini:

- Nascono ignari delle cause delle cose


- Ricercano il proprio utile
- Non ne sono consapevoli

Da questi derivano due pregiudizi fondamentali dai quali derivano tutti gli altri:

1) l’illusione di essere liberi


- perché sono consapevoli dei propri appetiti, ma neppure per sogno delle cause dalle quali sorgono. Ignoranza, appetito e
coscienza dell’appetito. La cupiditas è proprio queste ultime due. È naturale, non è un suo vizio né innato ne acquisito.
Liberarsi da quest’illusione è il prima passo. Si parte dalla causa prima, def 7. Come dimostra il carteggio con Boxel, il
problema principale è che solitamente si oppone la libertà alla necessità, invece, dice Spinoza, dovrebbe essere la
costrizione a essere il suo opposto. È esemplare anche l’esempio della pietra messa in moto da una causa esterna e poi, se
si attribuisse ad essa la proprietà di pensare sarebbe comunque ignara delle cause, avrebbe invece la consapevolezza del
impulso. La coscienza non ha nessuna efficacia sul desiderio e sulle passioni, di cui non fa che registrare le forze senza alcun
potere di modificarle. Da qui risulta che il criterio Cartesiano dell’evidenza non è sufficiente a garantire la bontà e la
veracità degli assunti della filosofia. Quelli che credono, pertanto, di parlare o di tacere, o di fare alcunché per libero
decreto della mente, sognano ad occhi aperti. Se però si dissolve ogni libero arbitrio nella cieca necessità, ovvero un
determinismo che non ammette alcun fine, si annulla ogni differenza tra peccato e virtù, tra consapevolezza e merito, tra
male e bene. Dal punto di vista teologico, gli uomini non avendo nessuna responsabilità sarà Dio stesso ad essere causa dei
mali.
2) il ragionamento finalista
- Il giudizio finalistico è un’espressione della vita sociale. Deriva anche dal compimento di tutte le azioni in vista di un fine,
che spesso è l’utile che appetiscono. L’inventato pregiudizio finalistico fa leva sulla relazione mezzo-fine applica alla natura
nel suo intero. I due pregiudizi concorrono entrambi alla antrpomorfizzazione delle forze della natura. Con l’introduzione
del culto e con l’istituzionalizzazione dei riti, il prae-judicium da semplice precomprensione, tende a fissarsi ed erigersi a
vera e propria super-stitio, ossia un’autorità sovrastante il giudizio che impedisce, fino a vietarlo, il libero esercizio della
ragione. La mente superstiziosa pone delle ragioni in cose di cui ignora l’uso. Stabilendo poi che i giudizi degli dei superano
di gran lunga l’umana capacità di comprendere, rinunciano cosi a sapere. Questi sigilli d’ignoranza che imposto al libero
esercizio dell’intelletto che fa reagire i filosofi, ci sono due ragioni concrete a) perché facendo dei fini la segreta ragione che
guida la catena degli eventi, il ragionamento finalistico inverte la comprensione causale; b) perché riponendola in ultimo
nell’imperscrutabile volontà di Dio, la ricerca delle cause naturali viene di fatto squalificata, e addirittura considerata con

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sospetto come tracotante sovversione dell’ordine divini da parte di chi osa sapere. Il finalismo o la credenza che tutto ciò
che avviene sia disposto a uso e consumo degli uomini è la causa essenziale della formazione di tutta una serie di nozioni
quali bene, male, ordine, confusione, caldo, freddo, bellezza e deformità. Da parte sua la credenza nella libertà generà
nozioni come lode, vituperio, peccato e merito.

La superstizione

I pregiudizi nascono dal fatto che gli uomini scambiano per realtà i loro desideri e immaginazioni. Da qui nascono le superstizioni
fino all’antropomorfismo della teologia. Due sono le condizioni della superstizione:

- Soggettiva; risiede nell’instabilità dell’animo umano e nell’immoderato amore per i beni incerti
- Oggettiva; risiede nel carattere aleatorio della fortuna a cui gli uomini sono soggetti.

La paura è la passione che porta alla superstizione. Nell’Etica c’è un stretto rapporto tra quest’affetto e la speranza, assieme sono
definiti come una gioia e come una tristezza. Se si aggiunge anche la meraviglia per un avvenimento insolito ecco sorgere il prodigio
a manifestare l’ira degli dei; quel medesimo prodigio che sarà un miracolo per i teologi. I presagi sono dunque un’illusione
necessaria, che non fa che perpetrare l’instabile equilibrio di un animo fluttuante. Questi quindi acquietano l’animo fluttuante ma
bisogna che siano sempre rinnovati perché l’esperienza smentisce abbastanza in fretta il loro effetto, e si hanno bisogno di nuove
superstizioni, cosi la superstizione è destinata a ripetersi senza fine. Nel TTP Spinoza si schiera contro la Chiesa e la religione perché
fanno uso della superstizione per addormentare il popolo e farlo servo dei loro bisogni, questi ultimi pensando invece che servono
Dio. I pregiudizi contro la ragione sono sempre nefasti, anche perché il suo oscuramento porta pregiudizio alla vera religio, che
Spinoza intente salvaguardare distinguendola dalla vana. Sempre il Trattato dimostrerà che né la religione né il sovrano hanno da
temere alcunche dal libero esercizio della ragione e dalla sua pubblica espressione, e, per quanto riguarda la vera fede, che essa
chiede di essere esercitata nella fiducia, e non nella paura.

Miracolo e scandalo

Sempre nel TTP ha un triplice obiettivo:

1) Dimostrare che nulla accade contro natura, ma che essa osserva sempre un ordine eterno, fisso e immutabile.
2) Dimostrare che i miracoli non fanno conoscere né l’essenza né l’esistenza e quindi neppure la provvidenza di Dio, ma che
esse sono meglio conosciute attraverso le leggi naturali;
3) che la stessa Scrittura, per decreti e voleri, ovvero per la provvidenza di Dio, non intende altro che lo stesso ordine della
natura.

In particolare viene attaccato il regime della doppia potenza che fa dell’onnipotenza divina una potenza sovrannaturale capace di
intervenire sulle potenze della natura e sospendere le regolarità. A Spinoza pare che l’origine della credenza in queste menzogne
risale ai primi Giudei, i quali narravano i loro miracoli per convincere i pagani del loro tempo.

1) Tutto ciò che Dio vuole o determina implica eterna necessità e verità. Leggi universali non sono che decreti stessi di Dio
derivanti dalla sua necessità e perfezione. L’identità in Dio di intelletto e volontà fa sì che non è possibile stabilire che Dio
faccia qualcosa contro le leggi di natura, questo equivale a dire che Dio agisce contro la sua stessa natura. Il miracolo viene
ricondotto alla sfera antropologica come opinione degli uomini.
2) a) se dell’esistenza di Dio non si ha un’idea chiara e distinta, essa si deve ricavare da nozioni la cui verità sia cosi ferma e
inconcussa da non potersi dare né concepire nessun’altra potenza in grado di mutarla. Se questi mutassero dubiteremo
della loro verità, e quindi anche della conclusione circa l’esistenza di Dio.
b) ammesso che per miracolo si intenda ciò che non si può spiegare per cause naturali, sia perché la sua causa non può
essere scoperta dall’intelletto umano, sia perché esso dipende dalla volontà di Dio, ne risulterà che il miracolo, che abbia o
meno cause naturali, resta un evento che supera l’umana comprensione. A rigore di logica da qualsiasi cosa assunta per
ipotesi come incomprensibile non è possibile dedurre alcunchè.

3) Anche se il miracolo sia possibile, concludere qualcosa non è lecito in quanto effetto limitato, il miracolo non può che
indicare una potenza limitata, si potrà concludere al massimo una causa di potenza maggiore ma non infita.

In conclusione il miracolo stesso, credendovi, porta all’ateismo. Viene cosi ribaltata l’accusa di ateismo che da più parti gli veniva
mossa. Questa accusa assieme alla denuncia dei pregiudizi dei teologi e alla difesa della libertà di filosofare che lo spinsero a scrivere
il TTP. In che cosa allora consiste lo scandalo di Spinoza? Lui denuncia e dimostra la vanità e l’inganno delle concezioni
antropomorfiche di Dio, e ancor più il loro uso e abuso politico, non rinuncia affatto al concetto e al nome di Dio, purché interpretati
correttamente. Il vero scandalo consiste piuttosto in questo: nell’aver affermato e dimostrato con certezza matematica che la mente
umana ha una conoscenza adeguata dell’essenza eterna ed infinita di Dio, con il proposito di liberarla dal peso ancestrale della
superstizione e dalla secolare tutela esercitata dalla teologia.

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Capitolo 3

La vera logica

- La differenza fondamentale rispetto alla matematica è che ciò di cui si intende trattare non sono meri enti di ragione come
lo sono le figure geometriche, che non hanno realtà al di fuori del loro modo di pensarle, ma la stessa realtà delle cose.
L’ambizione del filosofo coincide con quella del geometra, conoscere le cose nell’ordine dovuto con la medesima verità,
necessità e certezza con cui si possono con cui si possono conoscere le proprietà del triangolo o della sfera.

Il tempio della filosofia

Le definizioni iniziali vanno lette in senso nominale o piuttosto in senso reale? Mignini dice che prese di per sé e immediatamente,
sono definizioni nominali; ma lette alla luce dell’intero sistema sono concepite come reali. Tale duplicità può essere illustrata con la
definizione di un tempio che si voglia costruire: se ci si limita alla sola definizione, questa sarà nominale, ma se tale definizione viene
assunta in relazione al tempio costruito, sarà reale. Per quello che riguarda l’ordine e l’esposizione delle definizioni e dei teoremi,
anche se l’idea di avere di fronte un processo deduttivo dell’opera che si faccia immagine e somiglianza dell’ordinamento stesso
delle cose, derivante dalla loro causa prima: Dio, i suoi attributi, i modi infiniti immediati e mediati, e poi giù fino a quelli finiti, non è
comunque cosi chiaro da essere affermato. Spinoza avrà modo di dire che alla natura non va attribuita né bellezza né deformità, né
ordine né confusione, ciò è solo in relazione alla nostra immaginazione. Nella risposta agli amici sulla sua concezione della
definizione dice che ci sono due tipi di definizione: quella che serve a spiegare la cosa della quale si cerca soltanto l’essenza, e quella
che viene proposta per essere soltanto esaminata. La prima poiché ha un oggetto determinato, deve essere vera; mentre alla
seconda non si richiederà la verità. La buona definizione è quella che fa concepire, la cattiva quella che non lo consente. La
definizione che chiede di essere concepita è vera intrinsecamente, in virtù della natura dell’oggetto definito, esprime un’idea
adeguata, che è intrinsecamente vera perché produce l’essenza stessa di ciò che si propone di concepire, mostra come pensare la
cosa. La definizione che chiede di essere concepita è vera estrinsecamente, nella misura in cui conviene con il suo oggetto, e per
questo richiede di essere dimostrato. Le definizioni iniziali dell’Etica sono date per mostrare prima di tutto cosa vada concepito, e
soprattutto come la cosa vada concepita.

Le definizioni non hanno tutte lo stesso valore di verità, la stessa potenza. La definizione adeguata è quella che si distingue per
essere, oltre che vera, anche genetica. Il pensiero di Cartesio non rappresentava una risposta adeguata, ma comunque contiene una
verità, anche se parziale, da cui si può trarre importanti insegnamenti.

Pensare la sostanza

Si può dire che le prime proposizioni verificano le proprietà della definizione, confermando estrinsecamente, cioè
dimostrativamente, la verità intrinseca della definizione adeguata di Dio. Queste definizioni costituiscono gli strumenti logico-
concettuali, per lo più ripresi dalla tradizione metafisica e appositamente ridefiniti, mediante i quali si è guidati alla comprensione
genetica dell’essenza di Dio e, come vedremo, della sua necessaria esistenza. Spinoza propone qui di ripensare la definizione della
sostanza, su cui, da Aristotele a Cartesio, riposava tutta la storia della metafisica, attraverso una rigorosa caratterizzazione logico-
ontologica. Se per Spinoza Dio doveva essere chiamato sostanza perché riposa in se stesso e non ha bisogno che di sé per esistere, in
Cartesio sostanze sono anche quelle create, il pensiero, l’estensione, gli uomini, di cui il cogito era appunto il nocciolo duro su cui far
riposare la dottrina. Assumendo che la sostanza possa dirsi in due sensi, la metafisica cartesiana, malgrado il suo sforzo di liberarsi
dall’autorità della teologia, le riconosceva e assumeva implicitamente dei tratti come per esempio il dogma della creazione, senza
pensarne fino in fondo le implicazioni logiche e ontologiche. Incappava cosi nell’errore di credere che in natura vi siano più
sostanze, che una sostanza poteva produrre altre, e che ne potevano esistere di infinite e di finite. Contro questi pregiudizi, che
come si vede hanno radici profonde nel pensiero europeo, muovono i primi teoremi. Con le proposizioni 6, 7, 8 senza neanche aver
bisogno di dirlo, è tacitamente caduto in frantumi il modello creazionistico. Benché ciascun attributo vada, esattamente come la
sostanza, concepito per sé, e quindi come realmente distino dagli altri, questo tuttavia non costituisce di per sé sostanze diverse, ma
ciascuno esprime la realtà o essere della sostanza. Dio è ciò di cui non si può negare nessun attributo, proprio perché è
l’affermazione assolutamente positiva dei suoi infinti attributi. Di qualunque attributo è possibile negarne altri. Per aiutare a
concepire l’identità/differenza della sostanza e degli attributi si sono proposte varie analogie. Così von Hartmann paragonò la
sostanza alla luce e gli attributi ai vari colori dello spettro; Brunschvicg, immaginare gli attributi come diverse lingue ognuna delle
quale traduce integralmente un solo e medesimo pensiero, la sostanza. Comunque sia, gli infiniti attributi, benché realmente
distinti, non sono numerabili. Numerarli, infatti, vorrebbe dire ancora una volta rapportarli a un genere comune e quindi, sia pure
matematicamente, immaginarli, invece di concepirli come è richiesto. Se parimenti alla sostanza, ogni attributo deve concepirsi per
sé, diversamente dalla sostanza, non può dirsi esistere in sé.

Insistendo sulla natura essenzialmente espressiva degli attributi, Deleuze ha invece proposto di leggere la distinzione reale degli
attributi quale rielaborazione della distinzione formale in essere: l’essere si dice nello stesso senso di tutto quello che è, sia esso
finito o infinto, anche se secondo modalità diverse. Sul modello scotista, l’intelletto distinguerebbe obiettivamente in Dio diverse
quiddità o forme, che ne costituiscono realmente la natura.

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Degli infiniti attributi della sostanza, l’intelletto umano percepisce l’estensione e il pensiero come costituenti la sua infinita ed eterna
essenza. Concepibili ma non percepibili, pensabili ma non conoscibili, gli attributi che ci sono ignoti non rischiano di proiettare un
cono d’ombra sull’intelligibilità stessa dell’essenza di Dio? La conoscenza non esaustiva di tutti gli attributi di Dio non implica per
Spinoza alcuna incomprensibilità della sua essenza. Il pensiero infatti, essendo un attributo di Dio, esprime l’essenza di tutta la
sostanza non di una sua parte soltanto, gli attributi non noti all’intelletto umano non rendono la sostanza meno perfetta, ogni
attributo fa conoscere la sostanza nella sua interezza. Percezione- sembra indicare che la mente patisca dall’oggetto, concetto
sembra esprimere un’espressione della mente. In questo senso, mentre l’attributo è ciò che viene percepito dalla sostanza, da canto
suto la sostanza resta ancora da concepirsi in sé e per sé.

La potenza di Dio

Si ricorda che la definizione dell’intelletto era uno dei punti problematici del Trattato sull’emendazione dell’intelletto, tanto da
costituire per diversi interpreti una delle ragioni della sua incompiutezza. Va sottolineato che la critica spinoziana benché miri a
separarsene non si pone come esterna alla tradizione teologica, ma, procedendo dal suo interno, accetta di confrontarsi sul suo
stesso terreno che aveva fatto dell’onnipotenza il metro con cui misurare razionalmente. Ogni ricorso alla libera, sovrana e
imperscrutabile volontà, al potere di contraddire arbitrariamente le verità eterne, di compiere miracoli, o di cercare ex nihilo, con
cui si crede solitamente conferire a Dio il supremo grado di potenza, a un più attento esame lo rende di fatto irrimediabilmente
imperfetto, e pertanto impotente. Una volta acquisito, questo modo di pensare farà cadere ogni antropomorfismo, che intelletto e
volontà non appartengono alla natura di Dio, ovvero che questi non possono assolutamente concepirsi come suoi attributi.

I modi infiniti e finiti

La proposizione 16 della prima parte dell’Etica svolge una posizione centrale e da cerniera. Ma chi deduce? La logica stessa della
cosa che manifesta la sua potenza e di cui teorema è il riflesso intellettuale. L’intelletto non costituisce l’essenza di Dio, ma segue
necessariamente e immediatamente da un suo attributo quale primo effetto infinito ed eterno della sua potenza pensante, modo
infinito ed eterno del pensiero. I modi infiniti immediati seguono pertanto necessariamente dalla potenza assoluta di ognuno degli
infiniti attributi di Dio. L’intelletto è solo uno degli infiniti modi infiniti, anche se esso conosce eternamente in Dio le infinte cose che
Dio produce nei suoi infiniti attributi, ovvero nei suoi infinti modi.

Con i modi infiniti immediati e i modi infiniti mediati, si dispiegano anche tutti i modi finiti della sostanza, ovvero l’intera natura
naturata. La differenza tra natura naturans e natura naturata sta proprio in questi: mentre la prima esiste in virtù della propria
essenza, la seconda deve la sua esistenza ad altro che la propria essenza, e quindi risulta prodotta da Dio che è causa sia del loro
essere che del loro esistere e persistere nell’esistenza. Perplessi davanti a tanta astrazione, alcuni, come Schuller, non esitarono a
chiedergli esempi di cose non prodotte immediatamente da Dio e di quelle che sono prodotte mediante una modificazione infinita,
rispose quindi che gli esempi del primo genere sono: nel pensiero, l’intelletto assolutamente infinito; nell’estensione, il moto e la
quiete; del secondo genere: il volto di tutto l’universo, che pur variando in infiniti modi rimane tuttavia lo stesso. La precisazione è di
peso, Deus sive natura non sta a significare che Dio è l’universo. Il cosmo nella sua interezza, per quanto infinito ed eterno, non
costituisce infatti l’essenza stessa della sostanza, ne è un modo infinito mediato. Si può già dire che se il modo infinito immediato
dell’estensione sono il movimento e la quiete, ciò significa che l’intelletto infinito e il moto/riposo sono in realtà una medesima cosa,
talora espressa secondo l’attributo pensiero, talora secondo l’attributo estensione. Come dire che tutto quello che Dio pensa e
intende dei suoi modi, contemporaneamente lo muove secondo leggi eterne e immutabili.

(interpretazione del modo) Il modo non va considerato come un’unità a sé stante, indipendente o precedente i suoi rapporti, ma
piuttosto come nodo o complesso di nodi in connessione tra loro. La negazione con competono alla realtà delle cose, sono solo modi
di pensare, l’esito del confronto di cose. La privazione è nient’altro che l’assenza o la mancanza di qualche cosa. Vi è dunque
privazione quando viene negato un attributo di qualcosa che crediamo appartenere alla natura della cosa.

Non si passa dall’infinito al finito. Infinito e finito esistono insieme, l’uno nell’altro e non l’uno accanto all’altro, benché l’esistenza
determinata del secondo non sia derivabile dall’esistenza del primo. La causa che fa passare la cosa singolare all’esistenza e la
determina a operare in un certo modo, si è Dio, ma Dio in quanto modificato da un’altra cosa finita che ha una esistenza certa e
determinata; quest’ultima a sua volta è causata da Dio in quanto modificata da un’altra cosa finita avente anch’essa un’esistenza
certa e determinata; e così via all’infinito. L’esistenza del finito non è meno necessaria di quella dei modi infiniti. Il finito è in Dio da
sempre, quale sua proprietà. Come la volontà, sia essa finita o infinita, richiede una causa dalla quale sia determinata a esistere e a
operare. La sua essenza non può essere che modale. Dio opera per libera necessità, senza fine ne fini. Necessitarismo e
determinismo sono pertanto assoluti. Non è sensato per Spinoza chiedersi perché v’è questo piuttosto che quello? Dato che le cose
non hanno potuto essere prodotte da Dio in altro modo né con ordine diverso da come sono state prodotte. La possibilità stessa di
un altro implicherebbe un diverso decreto di Dio. Ma questo fatalmente ne modificherebbe l’essenza, contraddicendone la natura e
rendendola di fatto imperfetta, cioè impotente. La prima parte dell’Etica ha mostrato

- Cosa si debba intendere per potenza assoluta, e come dobbiamo concepirla


- Che a questa sola si addice il nome di Dio
- Che l’essenza non è altro che la sua stessa potenza, causa di tutte le cose.

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Capitolo 4

Ordine e connessione

L’oggetto della mente

La seconda parte dell’Etica muove verso quelle in grado di condurci come per mano alla conoscenza della mente umana e della sua
beatitudine suprema. Rivolti alla sfera strettamente umana, gli assiomi affermano invece che:

- L’uomo pensa
- Che non si danno affetti se non accompagnati dalle idee delle cose a loro relativi (mentre un’idea può darsi senza affetto)
- Che noi sentiamo che un certo corpo è affetto in molti modi e che non sentiamo né percepiamo nessuna cosa singola oltre i
corpi e i modi di pensare.

Homo cogitat è qui non più che un semplice assioma; non necessità alcuna dimostrazione. Né il fatto di pensare indica alcuna
esistenza necessaria dell’uomo, peraltro già esclusa dal primo assioma: l’essenza dell’uomo non implica necessaria esistenza, cioè,
secondo l’ordine della natura, può avvenire tanto che questo e quell’uomo esistano, quanto che non esistano. Lo sforzo delle prime
proposizioni è tutto volto a indagare la natura e l’origine della mente. Invece di parlare di intelletto divino o di modo infinito
immediato del pensiero, si parlerà ora di idea di Dio, per dimostrare che, oltre a essere infinita ed eterna, questa è anche unica, e
che tutte le idee, in quanto modi della natura pensante, hanno causa Dio in quanto considerato come cosa pensante e non in
quanto si esplica mediante altro attributo. Quindi, le idee tanto degli attributi di Dio, quanto delle cose singole non riconoscono
come causa efficiente gli stessi ideati, ossia le cose percepite, ma Dio stesso in quanto è cosa pensante. La potenza di pensare di Dio
è uguale alla sua potenza di agire, ovvero che Dio non agisce perché avrebbe prima conosciuto le cose, ma che queste seguono dalla
sua natura infinita cosi come oggettivamente seguono dall’idea che Dio ha di se stesso. Non c’è alcuna interazione tra diversi
attributi, ma in realtà non v’è neppure alcun parallelismo, ovvero nessuna separazione o distanza tra gli attributi, bensì medesimo
ordine e connessione in ciascuno di essi. Per Spinoza è ontologicamente impossibile che un corpo sia causa di un’idea e che un’idea
sia causa di un corpo.

La cosa di cui parla Spinoza è unica, unico è l’atto eterno e infinito con il quale i modi infiniti si distinguono in infiniti modi finiti. La
difficoltà sta perciò nel comprendere che tra infinito e finito non v’è passaggio, né derivazione, ma che il finito è eternamente
contenuto nell’infinito. La differenza tra immanentismo ed emanatismo sta qui. Si parla quindi di una doppia valenza dell’esistenza
delle cose singole, ovvero dell’esistenza determinata da altra cosa singola a esistere in un certo modo nella durata e dell’esistenza
delle cose in quanto sono Dio, ovvero della forza con la quale ciascuna persevera nell’esistere che segue dall’eterna necessità della
natura di Dio.

Le ricadute in termini antropologici di quest’inedita prospettiva sono incredibili. Non tanto perché se ne deduce che l’uomo non può
più dirsi sostanza, ma perché se la sua essenza è ora costituita da certe modificazioni degli attributi di Dio, la prima realtà dell’essere
della sua mente non potrà essere che un modo del pensiero, ovvero un’idea. E in particolare, un’idea di una cosa singola esistente in
atto. Ne segue perciò che “la mente umana è parte dell’intelletto di Dio. Perciò, quando diciamo che la mente umana percepisce
questo o quello, non diciamo altro se non che Dio, non in quanto è infinito, ma in quanto si esplica mediante la natura della mente
umana, ossia in quanto costituisce l’essenza della mente umana, ha questa o quella idea; e quando diciamo che Dio ha questo o
quella idea non soltanto in quanto costituisce la natura della mente umana, ma in quanto ha, insieme all’idea della mente umana,
anche l’idea di un’altra cosa, allora diciamo che la mente umana percepisce la cosa in parte, ossia inadeguatamente. L’oggetto
dell’idea che costituisce la mente umana è il corpo, ovvero un certo modo dell’estensione esistente in atto. La prima esperienza del
corpo non è l’esperienza del corpo che ci attribuiamo, ma segue, parimenti alla mente, l’iter di una progressiva e crescente
appropriazione e individuazione. Il soggetto non è la fonte dei propri pensieri, ma piuttosto il prodotto di certi e determinati
pensieri. Prima di avere un corpo noi siamo un corpo. Non v’è relazione della mente a se stessa, che non passi per la sua relazione al
corpo. L’unione modale dei due, proprio perché espressione dell’identità/differenza degli attributi costituenti l’unica sostanza,
esclude qualsiasi interazione tra corpo e mente. Esso sono due aspetti o espressioni di una sola e medesima cosa.

La mente dell’uomo altro non è che l’idea del corpo, vale anche per la totalità degli individui, che, sebbene secondo gradi diversi,
sono tutti animati. Il panpsichismo spinozista non è solo eco della tradizione rinascimentale riconducibile a Cusano, Bruno, Telesio e
Campanella; è soprattutto in perfetta linea con il suo monismo sinechista, dove ogni cosa è espressione modale di attributi che
costituiscono l’essenza di un’unica realtà univocamente determinata.

La natura dei corpi

Le menti in natura non differiscono tra loro sostanzialmente. Nessuna mente in natura è sostanza, neanche quella dell’intero
universo, modo infinito ed eterno. Tutte differiscono per gradi, anche se è da escludere che vi sia qualcosa come una scala degli
esseri, ontologicamente e assiologicamente ordinati, gradi come differenze di potenza. La potenza del corpo, e perciò della mente
che ne afferma l’esistenza. Le attitudini del corpo diventano cosi il metro con il quale misurare il grado di perfezione delle menti. Per
questa nomina del corpo tra le proposizioni 13 e 14 introduce Spinoza poche righe per parlare di prolegomeni, ovvero principi
generali che ogni finisca dovrebbe importare dall’ontologia per potersi fondare correttamente. Il primo lemma stabilisce che i corpi

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si distinguono non in ragione della sostanza, ma del movimento e della quiete, velocità e lentezza. La sua natura è definita
cineticamente.

Dice Vinciguerra: tutti i corpi si iscrivono nell’estensione in continuità gli uni con gli altri, dai più semplici fino al più complesso di
tutti, l’universo intero, anche chiamato facies totius universi, passando per tutti gli infiniti individui intermedi che lo compongono.
Emerge un trattamento poco prolisso per la natura dei corpora simplicissima e individuo totale, quest’ultimo risponde alla
definizione dell’individuum e al principio interno di unione e coesione delle parti, nonché di variazione infinita nell’immutabilità del
tutto. Dall’altra sembra sfuggirvi, in quanto non è dato concepire alcunché che possa esercitare una pressione esterna. Sappiamo
per certo che le parti dell’universo sono tra loro connesse e che si accordano con il loro tutto secondo leggi che ne regolano la
natura, ma ignoriamo in gran parte come, ovvero secondo quali leggi, queste siano connesse. La fisica debba comprendere una
cosmologia, l’infinitamente piccolo debba accordarsi con l’infinitamente grande, e che questa sia una condizione necessaria per
poter fondare un’antropologia – questo anche ci dice il trattato. Il corpo è un individuo complesso, formato da moltissimi individui di
diversa natura, anch’essi assai composti, tra i quali certi sono fluidi, alcuni molli, altri duri, che è affetto dai corpi esterni in moltissimi
modi e in moltissimi modi può muovere e disporre i corpi esterni, che per conservarsi, necessita di essere continuamente rigenerato
da altri corpi. Di tutti i postulati, il quinto è quello che consente di pensare la realtà effettuale dell’affezione, quelle che sono le reali
e concrete situazioni di vita degli individui.

Dice Vinciguerra: affezione riveste principalmente due sensi, affezioni che serve a definire il modo; affezione indica la modificazione
del corpo in relazione ad altri corpi, traccia. Su di essa viene costruita la nozione di immagine.

Le immagini delle cose

Si è pronti quindi a comprendere la natura della mente quale idea del corpo. Sappiamo della mente umana che:

- Essa riposa nell’intelletto divino come sua parte o modo, cioè idea
- Che nessuna mente possa essere considerata sostanza
- Che debba essere compresa in una prospettiva non antropocentrica, non soggettivistica e non transcendentalistica.

Essa è atta a percepire moltissime cose, e tanto più quanto più numerosi sono le disposizioni del suo corpo. Proprio perché unita al
corpo, la mente è complessa, composta da tante idee quante sono le idee delle parti che compongono l’individuo. L’immaginazione
è tutt’uno con la teoria della percezione. Dalle affezioni del corpo umano ne segue che, assieme alla natura del suo corpo, la mente
percepisce la natura di moltissimi corpi. Il solipsismo quindi è un’esperienza di pensiero che ha poco di filosofico per Spinoza. Il
sentire anche il più privato è accompagnato dalla percezione di altri corpi. Sentire e percepire sono i due profili esperienziali
dell’affezione, l’uno per cosi dire interno all’unione mente/corpo, l’altro esterno, rivolto ai corpi che l’affettano. La percezione risulta
polarizzata dalla natura del corpo affetto, le idee che abbiamo dei corpi esterni indicano più la costruzione del nostro corpo che la
loro natura, ma il loro modo di iscriversi nel corpo affetto è espressione soprattutto della natura di quest’ultimo. La morte del corpo
avviene se siamo affetti in modo tale da disfare la relazione cinetica che definisce l’unione delle sue parti, o l’assenza totale di
affezioni.

La teoria della traccia spiega come è possibile affermare la presenza o l’esistenza di cose che non sono più esistenti o presenti, cioè
di cose che, pur avendo lasciato traccia di sé nel corpo, non lo modificano più attualmente. Memoria, percezione e immaginazione
non differiscono essenzialmente. Non essendoci nessun nesso causale tra la mente che percepisce e il corpo esterno, Spinoza evita
di confondere l’idea e le tracce del corpo affetto con la figura del corpo esterno. La somiglianza quindi non va ricercata tra le
immagini e i corpi, ma tra le immagini. Questo non significa che le immagini delle cose siano infedeli. La mente in quanto immagina
non erra, erra in quanto considera l’immaginazione priva di un’altra idea che esclude l’esistenza di quelle cose che immagina a sé
presenti. In quanto idea, la mente afferma o conosce sempre qualche cosa.

L’idea della tabula rasa presente in Cartesio e ripresa poi da Locke, manca in Spinoza a priori per una diversa concezione della
mente. Da una parte la mente non è concepibile come qualcosa di puramente passivo, dall’altra, se si tolgono tutte le idee che la
compongono, di essa non rimane niente. Le menti sono delle idee stesse che Dio ha di noi, siamo noi a essere nel pensiero non il
pensiero in noi. La memoria non è che l’immaginazione medesima. La mente non è altro che un certo modo di connettere idee,
così come il corpo è un determinato modo di articolare le figure che ne esprimono la forma. La mente non può quindi essere un
oggetto sovrano che presiede alla propria attività pensante. Il concatenarsi di un’affezione corporea con un’altra ha il suo
equivalente mentale nella produzione di significati, il cui rinvio è questo stesso concatenamento nel pensiero di un’idea con un’altra.
Non è data invece alcuna interazione tra idee e affezioni corporee, in quanto l’essenza delle parole e delle immagini è costituita
soltanto da movimenti corporei, che non implicano il concetto del pensiero. La tracciabilità dei corpi, che è sullo sfondo della nostra
natura, guidano i fenomeni linguistici quali produzioni della potenza corporea dell’immaginazione. La produzione degli universali e
trascendentali sono anch’essi immagine comune che ogni singola immaginazione crea a partire dalle affezioni che ha avuto durante
la sua durata finita mediata. L’immaginazione non è riducibile al solo esercizio del linguaggio, ma investe ogni aspetto della
produzione di tracce di immagini e di segni. Spinoza non fa intervenire il tempo nella definizione della memoria. La memoria non
avviene nel tempo. La memoria presuppone la simultaneità di più affezioni nel corpo, e dato che la mente è per natura atta a

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percepire una pluralità di cose, sarà sufficiente che una di queste si ripresenti. Condizione della memoria è qualcosa che sia
tracciato. Il tempo è l’effetto della memoria.

L’incertezza o la fluttuazione circa l’esito di una certa concatenazione di eventi, ossia il conflitto tra due scenari di concatenazioni, è
dovuto proprio all’ignoranza delle cause. È questo in sostanza la condizione del nostro immaginare il tempo. Esso è in stretta
relazione con le nostre ipotesi circa quello che siamo in grado o meno di prevedere rispetto a quelli che sono i nostri desideri e le
nostre attese. Mentre è proprio della natura della ragione contemplare le cose come necessarie, dipende invece soltanto
dall’immaginazione considerarle come contingenti. Contingenza, temporalità e immaginazione sono così legate a doppio filo.
Riposano sull’ignoranza del determinismo di tutte le cause delle cose, e quindi della conoscenza molto inadeguata che abbiamo
della loro durata.

Le idee delle idee delle affezioni sono la percezione o la coscienza che la mente ha di sé, di cui facciamo l’esperienza quando per
esempio sappiamo di sapere qualcosa, seguono in Dio con la medesima necessità delle idee delle affezioni. Dio ne ha idea, non in
quanto è infinito, ma il quanto è anche affetto da un’altra idea di cosa singolare. Ciò risulta direttamente dalla natura non
sostanziale di ogni mente, le cui percezioni necessitano in Dio del concorso di idee di altre cose singolari oltre a quella della mente e
del corpo percipiente.

Ragione e intuizione

L’immaginazione è la mente stessa in quanto segue l’ordine e le concatenazioni delle pratiche corporee nella sua relazione ad altri
corpi. Spinoza dice che ogni idea, che è in noi assoluta, ossia adeguata e perfetta, è vera. Questo significa che Dio può costituire la
nostra mente in assoluto, cioè senza alcun altro legame con altre idee, ovvero senza essere affetto da altre idee simultaneamente
all’affezione della nostra mente, tutte le idee, per il loro stesso essere in Dio, mantengono sempre una relazione alla loro origine.
Questa relazione è intrinseca, senza relazione all’oggetto, a differenza della relazione che invece è estrinseca, e che tiene conto solo
della convenienza dell’idea con il suo ideato.

Si parla ora di idee adeguate. Diversamente dalle immagini comuni, le nozioni comuni sono idee di ciò che è comune a tutte le cose,
e che, essendo ugualmente nella parte e nel tutto, non costituiscono l’essenza di alcuna cosa singola. Di queste nozioni abbiamo
idee adeguate. La necessità dell’esistenza di nozioni comuni nella mente risiede nel fatto che l’uomo è lui stesso, in quanto corpo,
parte della natura e deve avere nozione di ciò che è sia nella parte che nel tutto. Le nozioni comuni vanno a costituire i fondamenti
della ragione su cui si basa la scienza.

Oltre all’immaginazione e alla ragione, si introduce l’intuizione. La scienza che ne deriva procede dall’idea adeguata dell’essenza
formale di certi attributi di Dio alla conoscenza adeguata dell’essenza delle cose. Se la ragione coglie solo proprietà comuni alle cose,
la scienza intuitiva si distingue proprio nel cogliere direttamente l’essenza delle cose singole. Solo il secondo e il terzo genere di
conoscenza danno luogo a idee che sono necessariamente vere e quindi anche alla certezza di possederle. La certezza è
intrinsecamente data con la validità con la verità dell’idea adeguata, che è perciò norma di sé, e di conseguenza di ciò che è falso.
Che cos’è la razio allora? È pensata come una vera e propria potenza della natura, e, nell’uomo, quale certa e determinata
espressione della sua naturale tendenza a conservarsi. Immaginazione, ragione e intuizione non sono, infatti, facoltà facenti capo a
istanze o principi diversi dalla mente. Essi sono generi di conoscenza, diversi modi di pensare, che le menti esercitando a seconda
del grado di perfezione della loro essenza. La mente umana è commisurata all’essenza eterna e infinita di Dio, ne ha perciò una
conoscenza perfetta e adeguata, in quanto ne è l’espressione stessa. L’errore che consiste nell’attribuire il nome di Dio a ciò che egli
non è rientra nella tendenza umana di non applicare in modo corretto i nomi alle cose. Volontà e intelletto non solo coincidono, ma
sono in realtà una sola e medesima cosa. Non indicano, infatti, altro che le volizioni stesse e le idee singole, ovvero l’affermazione
insita in ogni idea in quanto idea. Sospendere il giudizio significa accorgersi di non percepire adeguatamente la cosa. Che “la
volontà” si dica di tutte le idee significa che l’affermazione implicata in ognuno di esse è comune a tutte. Considerata astrattamente
l’affermazione potrà sembrare uguale in tutte le idee, ma in quanto la stessa affermazione è considerata come costituente l’essenza
dell’idea, sotto quest’aspetto, le singole affermazioni differiscono tra loro come le idee stesse. La singolarità dell’essenza di ogni idea
è ciò che sfugge all’universale. Spinoza nega in modo risoluto che ci sia bisogno di una potenza uguale di pensare per affermare che
è vero ciò che è vero e per affermare che è vero ciò che è falso.

Capitolo 5

La potenza degli affetti

La rivoluzione copernicana

Finche si considera la cosa in sé senza relazioni alle cause esterne, non potremo trovare in essa nulla che possa distruggerla. Cosi è
anche per la natura modale della mente/idea. Unita al corpo, la mente esprime diversi modi del pensare con diversa realtà o
perfezione in base al fatto che immagini, ragioni o intuisca. Nel primo caso patisce, perché è causa solo parziale di quanto
concepisce, nel secondo agisce perché è causa adeguata di quanto concepisce. Questo avviene quando esprime idee che sono in
Dio, in quanto Dio costituisce la sua stessa essenza senza il concorso di altre cose. Causa adeguata sarà quindi quella il cui effetto

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può essere percepito chiaramente e distintamente per mezzo di essa; inadeguata o parziale quella causa il cui effetto non può
essere inteso per mezzo di essa soltanto. Tanto più la mente avrà idee adeguate, tanto sarà attiva.

Conatus è l’essenza attuale di ogni cosa, ovvero il perseverare nel suo essere. In ogni cosa si oppone a tutto ciò che toglie distrugge
la sua esistenza, tant’è che se nulla venisse a contraddirla, essa continuerebbe a perseverare nel suo essere senza fine né scopo che
non sia quello del suo stesso perseverare. Per quanto importante sia ritenuto questo concetto da diversi studiosi, Spinoza lo ha
introdotto con una proposizione per non sostanzializzare il concetto, mentre esso è espressione di una realtà modale. Importante
concetto se applicato al suicidio, per Spinoza quini nessuno si suicida se non è vinto dalle cose esterne, quindi ricondotto a un
omicidio o propri esecutori per evitare un male peggiore. Alla potenza delle cause esterne va in ultima istanza misurato il conatus di
ciascun essere. Il suicidio non è quell’atto di sovrana libertà che poteva rappresentare per gli Stoici. In determinati casi per salvare la
propria natura paradossalmente si pensa di togliersi la vita. Tanto basta per capire che il che il conatus umano non si limita alla
semplice sopravvivenza, ma che si estende a tutti gli aspetti che fanno il valore o la potenza della vita umana.

La volontà non è libera facoltà, ma non è altro che conatus quando esso è riferito alla sola mente. Quando invece è riferito insieme
alla mente e al corpo, prende il nome di appetitus. Per inglobare nell’appetito la coscienza, si ricorre poi al termine cupiditas,
desiderio, che è quindi lo stesso appetito con la coscienza di sé. Di modo che il conatus, ovvero l’appetito o desiderio, costituisce la
vera essenza dell’uomo, diversamente da Cartesio che per lui l’uomo è cosa pensante. Per Spinoza il pensare è un certo aspetto
dell’appetito. Ne consegue un vero e proprio ribaltamento dei rapporti tra pensieri coscienti e appetito: non siamo spinti verso
qualcosa perché giudichiamo che sia buono; ma giudichiamo buono qualcosa perché siamo spinti verso di esso, lo vogliamo, lo
appetiamo e lo desideriamo.

Della definizione dell’affetto segue che se possiamo essere causa adeguata delle affezioni del corpo, dalle quali la potenza di agire
dello stesso corpo è aumentata o diminuita e simultaneamente le idee di queste affezioni, gli affetti saranno azioni, altrimenti
passioni. Viene così precisandosi il progetto da perseguire convertire le passioni in azioni, accrescendo la potenza di agire del nostro
corpo e della nostra mente, rinunciando all’idea che la mente possa esercitare alcuna modificazione sulle affezioni del corpo, dato
che tra mente e corpo non v’è alcuna interazione.

La scienza delle passioni

Diversamente da Cartesio, che pensava aver individuato sei affetti fondamentali meraviglia, amore, odio, desiderio, gioia, tristezza,
Spinoza riduce a tre i primi: desiderio, gioia, tristezza. Come sappiamo, il desiderio sarà definito la stessa essenza dell’uomo, in
quanto è concepita come determinata ad agire da una sua qualunque affezione data, dove per affezione dell’essenza umana si
intende qualsiasi stato della stessa essenza, sia innato che acquisito, sia che esso si concepisca mediante il solo attributo del
pensiero sia mediante il solo attributo dell’estensione, sia infine che si riferisca a entrambi simultaneamente. In quanto il desiderio è
determinazione ad agire, gli uomini vanno compresi alla luce delle loro azioni. Gioia e tristezza sono transizioni a una
minore/maggiore perfezione. Transizione è concepimento della potenza di agire aumenta o ridotta, in quanto venga intesa secondo
la sua stessa natura. La malinconia, in quanto la tristezza investe la totalità dell’uomo è l’affetto che più di ogni altro vada per
quanto possibile allontanato. La meraviglia, affettivamente neutra, è una distrazione. Tra lo stupito e lo stupido non corre in fondo
grande differenza. Pensare significa trarre idee da altre, concatenarle. Spinoza comunque riconosce alla meraviglia un ruolo
importante a creare degli universali, più si è soffermato a contemplare una cosa, più si consoliderà quel che si vede. Fluttuazione
dell’animo è quando una cosa produce la stessa potenza affettiva di gioia e tristezza. La fluttuazione, invece, è l’inquieta condizione
di un animo instabile, è il vero segno dell’impotenza umana.

L’immaginazione è essenziale nella produzione degli affetti, ciò contribuisce a spiegare anche la relativa indifferenza degli affetti al
tempo. Una è, e tale rimane, la natura umana, a variare sono l’intensità degli affetti, la violazione delle fluttuazioni, gli squilibri tra
certi affetti, nonché il modo in cui le passioni ci agitano e che impediscono o distraggono la mente. C’è anche la cosiddetta
imitazione degli affetti (che Aristotele vedeva all’opera nei bambini), che sorge quando una cosa che ci immaginiamo simile a noi
patisce qualche affetto, per ciò stesso siamo presi da un affetto simile (commiserazione, emulazione, benevolenza).

Gli affetti sono infiniti, la maggior parte non ha neppure un nome, bisogna sapere le principali. Non sono affetti l’adrmiratio,
l’ingratitudine, la clemenza. L’immaginazio che accompagna l’affetto, il regime di generale imitazione affettiva a cui sono soggetti gli
uomini sono il riflesso di un tessuto di relazioni, di cui ogni individuo è costituito quale nodo o complesso di nodi. Su questa base
passionale dovrà essere ripensata tutta la scienza politica.

Infine Spinoza aggiunge due proposizioni dove parla degli affetti che si riferiscono agli affetti in quanto attivi. La sproporzione tra
affetti passivi e affetti attivi è data dalla stessa via di liberazione che è molto stretta. Nelle forme attive del desiderio e della gioia, alla
conoscenza adeguata viene riconosciuto un valore affettivo. Tutte le azioni che seguono dagli affetti, che si riferiscono alla mente in
quanto intende, fanno capo alla fortezza: fermezza (conservare il proprio essere per il solo dettame della ragione), generosità
(desiderio per il solo dettame della ragione), è spinto ad aiutare gli altri uomini e a unirli a sé con un vincolo d’amicizia. Il primo
hanno di mira solo l’utilità dell’agente: temperanza, sobrietà, presenza d’animo nei pericoli. Al secondo quelle che tendono all’utilità
altrui: modestia, clemenza. La dimensione proto-politica contenuta nell’amicizia è espressione naturale dell’agire etico.

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Ascesi senza ascetismo

Compito della quarta pare, Della schiavitù umana, ossia delle forze degli affetti, la più lunga e articolata, sarà mostrare in due
momenti distinti l’impotenza della ragione sulle passioni, e poi soprattutto in cosa consista la sua potenza e la ricerca del vero utile.
Al progetto contribuisce un innovato modo di intendere ciò che è bene e ciò che è male, nonché una definizione originale della virtù.

Si era visto che le idee di bene e di male non sono altro che modi di pensare, ossia nozioni che formiamo confrontando le cose tra
loro ma che nulla ci dicono delle cose stesse. Adesso il bene è ciò che sappiamo con certezza di essere utile, che ci avvicina sempre
al modello di natura umana proposto; per male ciò che sappiamo con certezza impedirci di essere padroni di un certo bene; e per
più o meno grande perfezione, la più o meno grande vicinanza a questo modello, benchè la perfezione è la stessa realtà, cioè
l’essenza di una cosa in quanto esiste e agisce in un certo modo, senza alcuna considerazione per la sua durata.

L’impotenza e l’incostanza umana dipendono da condizioni sia ontologiche (essere parti della natura) che antropologiche (passivi e
passionali). La forza delle passioni va per questo definita dalla potenza della causa esterna paragonata alla nostra. Il regime
passionale segue una legge che non ammette eccezioni, quindi un affetto non può essere inibito né tolto se non per mezzo di un
affetto contrario e più forte dell’affetto da inibire. La conoscenza del vero di per sé non basta a modificare la forza che gli affetti
esercitano su di noi, è necessario conoscere tanto la nostra potenza quanto la nostra impotenza, di averle provate e vissute
entrambe. Dal loro confronto può nascere quel desiderio di vera filosofia. Saggio non è colui che è privo di passioni, o che si astiene
dal patire, ma colui che intraprende e persegue una via di potenziamento e di perfezionamento della propria natura.

Il fondamento della virtù, il primo e l’unico, non è altro che lo stesso conatus, dato che nessuno può essere spinto a conservare il
proprio essere a causa di un’altra cosa. La virtù come potenza non sarà dunque altro che agire secondo le leggi della propria natura,
perciò tanto più ciascuno ha cura di ricercare il proprio utile, tanto più è virtuoso e libero. In questo, la virtù, proprio perché
qualificata come un agire, può essere determinata solo da idee adeguate. Dato poi che lo sforzo stesso della ragione è di intendere,
e che la mente, in quanto ragiona, non giudica per sé utile se non ciò che conduce all’intellezione, ne deriva che sappiamo con
certezza immanente allo stesso atto di intendere, che è buono ciò che conduce realmente a intendere, e cattivo ciò che può
impedirci di intendere. L’oggetto supremo che essa può intendere è Dio.

Sappiamo che accomuna le cose una proprietà positiva della cosa. Spinoza ha di mira il senso profondo di ciò che conviene
massimamente a tutti gli uomini, e quindi anche ciò che li accomuna. In questa prospettiva, mentre sono soggetti alle passioni, essi
possono essere contrari gli uni agli altri, mentre sotto la guida della ragione, convengono necessariamente sempre e sono
massimamente utili gli uni agli altri. Il bene supremo di colui che segue la virtù non è un bene privato, ma un bene appunto comune,
di cui tutti possono godere senza discordia alcuna. Dalla stessa natura della ragione deriva che il bene supremo dell’uomo è comune
a tutti. L’essenza di ogni singolo uomo porta con sé ciò che è comune a tutti e rende anche concepibile qualcosa come il bene
comune ad ogni uomo. Da qui la di altre virtù proprie a colui che vive sotto la guida della ragione, e che sono forme di fermezza e
generosità: la pietà che è il desiderio di agire rettamente, nonché l’onestà che è il desiderio di legare a sé gli altri con amicizia.

Come può avvenire che uomini necessariamente soggetti a passioni incostanti e mutevoli, si rendano reciprocamente sicuri e
abbiano vicendevole fiducia? La risposta è contenuta in due leggi che presiedono alla logica deli affetti: nessun affetto può essere
inibito se non da un affetto più forte e contrario; ognuno si astiene dall’arrecare danno per il timore di un danno maggiore. A
Spinoza preme mostrare che non che solo nello Stato civile e non nello Stato di natura è lecito parlare di buono o cattivo per
consenso di tutti, dell’obbligo di obbedire ad altri, di peccato come disobbedienza perché nello Stato di natura tutto è di tutti.

La ragione dà accesso a ciò che è utile o buono per noi e che conviene quindi sviluppare. Sembra strano, ma è proprio in questo
contesto che viene riservata un’attenzione particolare alla cura del corpo. Cosicché tutto ciò che conserva il corpo, che lo dispone a
essere affetto in più modi e a renderlo atto a modificare diversamente i corpi esterni è buono, le arti, il cibo ponderato, il gioco, il
riso, tutto ciò che allontana la tristezza e la malinconia. Anche se Spinoza non parla di estetica, che fa parte dell’etica, in quanto le
scienze sono tutte pratiche che accrescono la libertà, promuovendo le potenze del corpo e della mente.

È importante capire che il piacere, l’amore e il desiderio, così come tute gli affetti che interessano solo certe parti del corpo e che più
di altre ne aumentano la potenza, possono essere eccessivi. L’allegria, che è la gioia che interessa tutte le parti del corpo in modo
uguale, non può avere eccesso, così come il desiderio che nasce dalla ragione.

Disprezzo di sé, superbia, vanagloria vengono presentate come distruttive. La vera gloria non è contraria alla ragione; anzi può
nascere da essa, in virtù proprio di ciò che è onesto, ossia di ciò che è lodato da coloro che sono guidati appunto dalla ragione.
L’acquietamento in sé è il massimo che possiamo sperare. Infatti, nessuno è spinto a conservare il proprio essere a causa di un
qualche fine, e poiché questo acquietamento è sempre più alimentato e rafforzato dalle lodi e, al contrario, sempre più turbato dal
biasimo, siamo guidati soprattutto dalla gloria e difficilmente possiamo sopportare una vita nell’infamia.

L’uomo libero, interpretando al massimo grado la virtù della fortezza, non odia nessuno, non prova ira, né sdegno né disprezzo verso
nessuno, non diviene superbo, evita tutto ciò che può arrecare tristezza, odio, discordia; e ciò con la stessa fermezza d’animo con la
quale sceglie di lottare per superarli, se le circostanze si prestano. Cerca per quanto può di evitare i benefici degli ignoranti, avendo
cura di non dar loro motivo di offesa. Agisce con lealtà, si sforza di vincere l’odio con l’amore. Considera che tutte le cose seguono

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dalla necessità della natura divina. Vuole condividere con gli altri il bene che desidera per sé. La vocazione sociale dell’uomo
virtuoso, poi, è confermata dall’ultimo teorema della quarta parte: non solo gli uomini liberi trovano un vero bene nell’amicizia, ma
sono più liberi nello Stato che nella solitudine. Il saggio spinoziano vive tra la gente.

La quinta parte dell’Etica si apre con una prefazione rimasta celebre per la sua critica alla morale stoica e cartesiana. Il problema è la
mancanza di un concetto chiaro dell’unione della mente e del corpo e un’idea falsa della libertà fanno credere alla possibilità di
un’interazione tra volontà e movimento, tra mente e corpo. Per queste ragioni, né gli Stoici né Cartesio seppero elaborare una
morale efficacemente percorribile.

Per quanto riguarda i rimedi, formalmente la via non si presenta diversamente da quella indicata dal precetto delfico conosci te
stesso, e consiste nella vera conoscenza stessa dei nostri affetti. Per una completa comprensione bisogna che ci sia una conoscenza
adeguata dei nostri affetti, a cui vengono addotte diverse tecniche di liberazione, queste hanno lo scopo di rendere il soggetto più
attivo e potente. Farsi un’idea adeguata di una passione promuove l’attività della mente, neutralizzando la carica patica dell’affetto.
L’affetto è costituito dall’affezione corporea e insieme dall’idea di questa affezione, che nel caso della passione è inadeguata perché
la mente immagina, essendone solo causa parziale. Separare l’affetto dall’idea della causa esterna ha l’effetto di annullare l’essenza
dell’amore o dell’odio, mitigando tutti gli affetti che ne derivano. Conviene applicarsi, per quanto possibile, a conoscere ogni affetto
in maniera adeguata, affinché la mente venga in tal modo determinata dall’affetto a pensare le cose che percepisce in modo chiaro
e distinto e nelle quali si acquieta del tutto. In tal modo la potenza con la quale la mente è spinta a intendere le cose non è impedita
e ha perciò il potere di ordinare e concatenare le affezioni del corpo secondo un ordine conforme all’intelletto. Mediante questo
potere di ordinare e concatenare correttamente le affezioni del corpo siamo più resistenti agli affetti nocivi, perché è richiesta una
forza maggiore per inibire affetti ordinati e concatenati secondo l’ordine conforme dell’intelletto che affetti incerti e vaghi. La mente
ha ancora un’altra risposta propria, fare in modo che tutte le affezioni del corpo o le immagini delle cose, si riferiscano all’idea di
Dio. Da qui discende che chi più conosce se stesso e i propri affetti adeguatamente, tanto più ama Dio. E nessun’affetto può
distruggere quest’amore.

Riassunto, rimedi alle passioni

- Conoscenza stessa degli affetti


- Separare gli affetti dal pensiero della causa esterna, che immaginiamo confusamente
- Nel tempo con il quale le affezioni riguardanti le cose che intendiamo superano quelle riguardanti le cose che concepiamo
in modo confuso e mutilato
- Nella moltitudine delle cause dalle quali le affezioni che si riferiscono alle proprietà comuni delle cose o a Dio sono
alimentate
- Nell’ordine con il quale la mente può ordinare e concatenare l’uno all’altro i suoi affetti
- Conoscenza della necessità delle cose e l’amore verso Dio.

L’ETICA spinoziana è un lungo esercizio, che chiede tempo per essere applicata. Che i più rinunciano a intraprendere un cammino di
crescita, che molti si fermino alle prime difficoltà, non rende quest’etica meno naturale, comune, universale e in sé desiderabile.
Essa continuerebbe a esserlo anche se credessimo che le menti muoiano con il corpo e se ignorassimo che la nostra mente è eterna.
In questo senso, dell’etica spinoziana si può parlare di un’ascesi senza ascetismo.

L’amore intellettuale

La mente non va distrutta totalmente con la distruzione del corpo. Qualcosa di essa rimane, questo qualcosa è eterno. Questo è
l’idea che Dio ha dell’essenza eterna del nostro corpo, e che deve essere necessariamente data anche nella nostra mente, che non
può riguardare un’esistenza anteriore o separata dal corpo.

La mente umana è parte dell’intelletto infinito di Dio, sicchè quando diciamo che la mente percepisce adeguatamente questo o
quello, diciamo che Dio, non in quanto è infinito, ma in quanto si esplica mediante la natura della mente umana, in quanto
costituisce l’essenza della mente umana, ha questa o quella idea. Con l’esperienza della nostra eternità siamo ricondotti alla radice
del sentimento dell’essenza del nostro corpo, e quindi della nostra mente, in virtù della loro unione in Dio e con Dio. Quando la
mente sente la propria singolare eternità comprende anche di essere partecipe dell’intelletto di Dio e dell’eternità delle sue idee.
Concepire le cose sotto l’aspetto dell’eternità significa concepirle come enti reali, mediante l’essenza di Dio, implicano l’esistenza.
Contrariamente alla sostanza, l’essenza dei modi non implica l’esistenza. Questa differenza ontologica viene abolita con la
conoscenza di terzo genere, in quanto, tramite l’essenza di Dio, l’essenza delle cose viene percepita come esistente sotto l’aspetto
dell’eternità. Il sentimento della nostra essenza eterna ci dà accesso all’intuizione. L’intuizione procede dall’idea di certi attributi di
Dio direttamente alla conoscenza adeguata dell’essenza delle cose singole. Chi fa l’esperienza del terzo genere di conoscenza
realizza che l’essenza di ogni cosa esiste eternamente in Dio, e è più consapevole di sé di Dio e delle cose, questo libera in noi vera
gioia. Tale atto è il supremo conatus, o virtù, o potenza, o beatitudine di cui è capace la mente. Realizzando la più alta perfezione
della mente, sorge anche una suprema gioia associata all’idea di sé e della propria potenza. Essendo poi accompagnata dall’idea di
Dio come causa, questa gioia è per essenza anche amore. L’amore intellettuale della mente verso Dio è lo stesso amore di Dio, con il
quale Dio ama se stesso, non in quanto può essere esplicato mediante l’essenza della mente umana considerata sotto l’aspetto

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dell’eternità; cioè l’amore intellettuale verso Dio è parte dell’amore infinito con il quale Dio ama se stesso. Alla conoscenza di
secondo genere sfuggono tuttavia le essenze singolari, a cui si perviene per intuizione e direttamente dalla conoscenza dell’attributo
di Dio. Dio, in quanto ama se stesso, ama gli uomini e, di conseguenza, l’amore di Dio verso gli uomini e l’amore intellettuale della
mente verso Dio sono una medesima cosa.

La nostra salvezza consiste nel rendere il più costante possibile questo sentire, che nulla, assolutamente nulla, può distruggere, e
che sarà tanto più alimentato quanto più saremo in grado di conoscere le cose finite secondo il terzo genere di conoscenza. Tanto
l’attività della mente che si esercita nel secondo e terzo genere di conoscenza, quanto l’attività del corpo evitando di essere
combattuti da affetti contrari, che impediscono che le affezioni del corpo si ordinino e si concatenino secondo un ordine conforme
all’intelletto. Viene in tal modo liberato il potere di riferire tutte le immagini delle cose all’idea di Dio, alimentando quell’amore
verso di lui che aumenta la parte esterna della mente. Per questo si capisce che nessuno goda della beatitudine per aver inibito gli
affetti; ma che il potere di inibire gli affetti nasce dalla beatitudine stessa. Chi, non senza fatica, riesce a far mutar segno alla forza
del suo conatus, promuovendo la vera conoscenza degli affetti di Dio e delle cose, e con ciò non cessa mai di esistere. Questa libertà
si pone al di là di ogni morale, liberata dall’obbedienza alla lege, basta a se stessa ed è sua propria ricompensa. È l’affermazione della
nostra stessa potenza che disfa la forza degli affetti che ci rattristano, e che finiscono cosi con il turbarci sempre meno. Ci libera dalla
generalità della morale e della religione e dai loro precetti e dall’obbedienza a eteronomo dover essere.

Dopo aver guidato il lettore con gli occhi delle dimostrazioni per un lungo percorso che dalla conoscenza dell’essenza e dell’esistenza
di Dio porta alla conoscenza della natura e dell’origine della mente, degli affetti e della loro potenza, l’Etica approda all’intuizione
della comune unione in Dio delle singole menti.

Capitolo 6

Religione e politica

Il TTP che aveva lo scopo di dimostrare quanto giova la libertà di parola e di filosofare, si è dovuto dapprima denunciare i principali
pregiudizi sulla religione, cioè le vestigia dell’antico servaggio; i pregiudizi sui diritti dei poteri sovrani, che molti col pretesto di
religione di rendere avverso ai poteri l’animo della moltitudine, affinché ogni cosa precipiti di nuovo nella servitù.

Separare filosofia e teologia

Il 17 secolo si apre con il rogo in Campo dei Fiori a Roma di Giordano Bruno. Galileo e Cartesio si confrontano anch’essi con l’autorità
teologica, rivendicando, ciascuno a suo modo, libertà e autonomia di pensiero. Cartesio confidava nel riconoscimento dei dottori
della Sorbona, convinto che le sue meditazioni e i suoi principi non entrassero in contraddizione con quelli della teologia cattolica,
malgrado i sospetti di ateismo che gli vennero mossi. Ma sia Cartesio che Leibniz finiranno con il concedere troppo alla tradizione
teologica ammettendo nei loro sistemi l’equivalente razionale di dogmi come la creazione “ex nihilo”, la concezione del Dio persona,
la trascendenza e la libertà di Dio, piegando cosi il lume naturale. L’intento di Spinoza fu senz’altro quello di portare a termine
questo processo emancipatorio, stabilendo una separazione che non comportasse alcun danno né per la filosofia, né per la teologia,
eretta a difesa della religione.

L’originalità del TTP, che lo rende unico e paradigmatico, è la pretesa di accordarsi con il senso autentico della Scrittura, non
avanzare nulla che non sia stato stabilito sulla base dei contenuti stessi della Scrittura mediante una corretta lettura dei testi,
ispirata alla spiegazione dei propri principi biblici e fondato su principi filologici e linguistici nella tradizione del Valla. Per realizzare
un tale progetto, è necessaria un’indagine storica della Scrittura, che dovrà

1) Conoscere la natura e le proprietà della lingua ebraica in cui furono scritti i libri
2) Raccoglie in una tavola sinottica gli enunciati più importanti di ciascun libro, per verificare quelli simili, quelli oscuri, e quelli
contrastanti, al fine di determinarne il senso
3) Raccoglier tutte le notizie concernenti i libri conosciuti, i loro autori, la loro vita, i loro costumi, la loro fortuna, nonché il
loro ingresso nel canone

Il vero senso della Scrittura non va perciò confuso con la verità della cosa di cui si parla, ma determinato a partire dal solo uso della
lingua su base esclusivamente scritturistica. Compito dell’interprete è determinare il significato dei discorsi, alla luce del pensiero,
delle credenze e della mentalità di coloro che li produssero.

Che Dio è unico e onnipotente, che è il solo Dio da adorare, che provvede a tutti e predilige quanti lo amano e amano il prossimo
con se stessi, questo è quanto si può trarre chiaramente dal senso del testo. Per il resto, chi sia Dio, in che modo provveda a tutte le
cose e ad altre questioni, la Scrittura non lo insegna esplicitamente. Si vede che attraverso la definizione della profezia, che anche la
conoscenza naturale la è accanto della rivelata. Hanno per origine Dio, sono certe, e sono tutte e due date in vista della salvezza
degli uomini. Definita la profezia attraverso la sua causa, è ora necessario spiegare come questa sia stata data. Anche qui la risposta

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dovrà fondarsi sulla Scrittura sola. Per quanto misteriosi possano sembrare alcuni passi della Bibbia, una cosa risulta con chiarezza
dalla loro analisi: non v’è profeta a cui Dio non si sia rivelato attraverso l’immaginazione. Diversamente da Mosè, che parlava con
Dio faccia a faccia, come suole un uomo con un amico, Cristo comunicò con Dio da mente a mente. La posizione di particolare
rilievo assunta dalla sapienza e dalla vita esemplare di Cristo, come attestante dai Vangeli fanno si che egli venga accostato alla
figura del filosofo, anzi del summus philosophus. Diversamente dai profeti, percepì le cose rivelate con verità e in modo adeguato.
Cristo è la stessa bocca di Dio.

Il fatto che i profeti percepirono le rivelazioni con l’ausilio dell’immaginazione spiega anche come poterono percepire molte cose
oltre i limiti dell’intelletto. Si possono comporre più idee a parole e immagini, che a partire da quelle nozioni e quei principi che
presiedono alla conoscenza naturale. Mentre certezza e verità sono tutt’uno nella rivelazione intellettuale, la certezza della
rivelazione profetica ha bisogno di un secondo segno per essere confermata. Sulla presenza del segno, quindi, si gioca la
fondamentale differenza che corre tra i due tipi di rivelazione. La certezza profetica quindi si basa su tre cose

- I profeti immaginavano le cose rivelate con la massima vividezza, come il solito accade in stato di veglia, nella percezione di
oggetti
- Essi avevano il segno, che era dato per convincerli, e tutti i segno che accompagnavano le loro rivelazioni erano dati in
funzione delle loro opinioni e capacità di comprensione, per cui essi variavano per stile e chiarezza da profeta a profeta, a
seconda dell’ingegno di ciascuno di essi.
- I profeti avevano l’animo rivolto esclusivamente al giusto e al buono, ovvero testimoniavano attraverso la loro pratica di
non parlare alla leggera.

Profeti politicamente sono teocratici, elevandosi sopra al popolo perché eletto a interpretare la volontà divina . La rivelazione
intellettuale diffonde tra pari il libero esercizio del pensiero e della parola in una dinamica che è tendenzialmente democratica.
Spinoza oppone così alla figura del profeta che concentra su di sé funzioni legislative, ermeneutiche e teologiche, la posizione e la
funzione del filosofo in una libera repubblica. Invece di imporre la propria legge e di ergersi a guida di chi gli presta ascolto, il
propagatore della ragione diffonde con la sua parola il diritto di ognuno a farsi interprete della propria potenza esercitando
liberamente la ragione che è in lui. Si delineano due comunità, la prima fa capo all’autorità del profeta, che vive dell’impotenza
degli uomini a essere essi stessi profeti; la seconda fa spazio ai liberi pensatori e al loro pubblico confronto, che permette di
risvegliare una rivelazione da sempre presente nelle menti degli uomini.

Dio si conferma vero autore della Bibbia, per la vera religione che la Bibbia insegna, e non perché volle comunicare agli uomini un
certo numero di libri.

La fede e il mistero della religione

La scienza biblica e il metodo ermeneutico portano alla conclusione che a nulla servirebbe invocare l’oscurità di certi passi. Il
messaggio biblico viene così ricondotto al suo insegnamento: la Scrittura insegna solo cose semplicissime, che tutti sono in grado di
capire, comprese le menti più semplici. Essa ha di mira l’obbedienza, non la scienza. Dio non rivelò ai profeti alcun mistero
filosofico. Rivolta ai più, la Bibbia non intende quindi rendere più sapienti, ma obbedienti.

Cosi come la scrittura fu sempre adattata alla comprensione del volgo, così anche va mantenuto il diritto di interpretarla e di
adattarla alle proprie opinioni, se questo permette, nelle cose che concernono giustizia e carità, di obbedire a Dio con un più pieno
consenso dell’animo. Esso riposa sull’insegnamento stesso della Scrittura, che indica che l’intera legge consiste nell’amore verso il
prossimo, onde chi ama il prossimo. Per Spinoza quindi la fede è: sentire intorno a Dio cose tali che, ignorate, è tolta l’obbedienza
verso Dio, poiché esse sono necessariamente poste con il porsi di questa obbedienza. C’è un’unione tra la fede e un certo modo di
agire, il che significa che la fede non è salvifica di per sé, ma solo in relazione all’obbedienza. Non dimostra ottima fede chi fa
prova di ottimi argomenti, ma chi mostra ottime opere di giustizia e carità. D’altra parte la Scrittura non condanna l’ignoranza, ma
solo la disobbedienza, dando la possibilità a ciascuno di essere in Dio e che Dio sia in lui malgrado una conoscenza inadeguata.
Spinoza enumera sette dogmi, che vanno a costituire la dogmatica minimale, quelli che Dio pone in modo assolute e che, senza di
quali è impossibile l’obbedienza.

- Dio esiste
- Dio è unico
- Dio è presente ovunque
- Dio ha supremo diritto e dominio su tutto, ne fa qualcosa costretto da qualche legge
- Il culto di Dio e l’obbedienza verso Dio consistono nella sola giustizia e nella sola carità, ossia nell’amore verso il prossimo
- Tutti coloro che obbediscono a Dio secondo questa regola di vita sono salvi
- Dio perdona i peccati di coloro che si pentono

Immaginazione e obbedienza sono sufficienti per produrre autentica fede. Con ciò si compie anche la definitiva separazione tra
teologia e filosofia, tra fede e ragione. La loro separazione avviene che reciproco rispetto e mutuo profitto. La filosofia ha per mira
la verità, i suoi fondamenti sono le nozioni comuni inscritte nella natura delle cose. La seconda ha per scopo l’obbedienza e la pietà, i
suoi fondamenti sono i racconti storici, e vanno stabiliti sulla sola base della Scrittura. Entrambe di accordano quanto

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all’insegnamento morale. Emancipandosi dalla tutela teologica, la filosofia non riconosce altra autorità che la ragione stessa. Ma è
vero anche il reciproco: la teologia non ha da essere l’ancella della ragione. Sicchè, né il senso della Scrittura deve essere forzato
per soddisfare la ragione, né la ragione deve corrompersi per adattarsi alla Scrittura. La ragione non ha, infatti, nulla da temere
dalla fede, in quanto la fede non cela nulla che contraddica il valore e la validità della ragione. Spinoza riprende a modo suo un tema
classico della teologia, che vedeva nel lume naturale un dono divino. Dal canto suo, la fede non ha nulla da temere dal libero
esercizio della ragione, perché, se si considerano i suoi precetti o insegnamenti di vita, la teologia si accorda pienamente con la
ragione. Allo stesso tempo, la ragione viene lavata dai sospetti che un’apologia scettica poteva far pesare su di essa. Infatti, che altro
ottengono coloro che con tutti i mezzi cercano di dimostrare la verità e l’autorità della teologia a scapito della ragione se non di fare
rientrare la teologia stessa sotto l’impero della ragione?

L’indipendenza della teologia dalla filosofia riposa sul fatto che la ragione riconosce di non poter dare dimostrazione della verità
falsità del fondamento stesso della fede, ossia la credenza che gli uomini si possano anche mediante la sola obbedienza? Se
pensiamo che questo fondamento è dimostrabile con la ragione, verrà meno ogni separazione tra teologia e filosofia, la prima
venendo a confondersi con la seconda. Per Spinoza non v’è motivo di dubitare del fondamento della fede, la rivelazione fu
sommamente necessaria. V’è quindi qualcosa che, pur senza contraddire né inquietare la ragione, sembra destinato a resisterle?
Spinoza non dimostra l’indimostrabilità del dogma fondamentale della teologia, neppure afferma che nessuno lo dimostrerà. La
rivelazione è di grandissima utilità e conforto per tutti coloro che non hanno la forza della ragione per acquisire l’abito della virtù.

I fondamenti del diritto e del potere

Ora si indagherà da un punto di vista politico fino dove si estenda la libertà di pensare e di esprimersi nello Stato. Nella seconda
parte del TTP si parla dei fondamenti della vita politica, del diritto civile e degli Stati sovrano, dei rapporti tra il diritto naturale di
ciascuno e il diritto del potere sovrano, e hanno sullo sfondo la storia politica deli Ebrei, la relazione tra Stato e Chiesa.

La concezione dei fondamenti del diritto in Spinoza è semplice, essa equipara diritto a potenza. Il giusnaturalismo spinoziano è
quindi espressione diretta dell’ontologia della potenza delineata nella prima parte dell’Etica, poiché la potenza universale di tutta
la natura non è altro che tutto l’insieme degli individui. Che ogni individuo abbia tanto diritto quanto ha di potenza fa si che in virtù
della concezione del conatus, ogni cosa abbia per natura il diritto di perseverare nel suo essere, ossia di esistere e agire secondo
come è determinata a farlo. Direttamente fondata nella potenza divina, prova di ogni considerazione di ordine morale, non
obbedisce a nessun tipo di antropocentrismo. La radice del diritto non risiede nella ragione umana, bensì nel desiderio, in quanto
non tutti sono naturalmente determinati ad agire secondo le regole e le leggi della ragione, mentre tutti, saggi o stolti che siamo,
seguono per necessità naturale il proprio desiderio. Per supremo diritto di natura, ognuno, che sia condotto dalla ragione o affetti,
desidera tutto ciò che ritiene utile per sé e ha licenza di ottenerlo in qualunque modo, tutto è lecito nei limiti dell’appetito e di ciò
che può fare ogni cosa, nessuno possiede più diritto di quanta potenza effettivamente eserciti, a nessuno è dato il diritto di fare
ciò che non può fare, essendogli proibito solo quello che non può realizzare.

Le differenze con il filosofo inglese, a parole di Spinoza, differisce nel lasciare il diritto naturale sempre nella sua integrità e sostenne
che in una città il potere sovrano ha piè diritto sul suddito solo nella misura in cui ha più potere di esso. Ciò che per Hobbes è
l’espressione di un artificio che consente agli uomini di uscire dallo Stato di natura stringendo un patto, in Spinoza è ancora
un’espressione del diritto di natura, espressione della natura sociale dell’uomo. Il diritto di natura di ogni individuo non cessa nella
condizione civile. Che si trovi nello stato di natura o quello civile, l’uomo prosegue comunque i proprio utili. La differenza tra le due
condizioni consiste nel fatto che nella condizione civile tutto temono le stesse cose e tutti hanno una stessa regola di vita. Non è
contro natura che l’uomo diventa propriamente umano, ma potenziando una natura già data come sociale. Tale potenziamento
passa necessariamente attraverso un’unione di individui. Questo diritto della società è chiamato democrazia . Ciò non abolisce né
sospende il diritto naturale di ciascuno, né tanto meno la possibilità di rompere l’ordine politico qualora qualcuno ritenesse suo
interesse farlo.

Lo stato democratico tende naturalmente a promuovere insieme ragione e potenza, quindi libertà. Perché essendo così grande
l’assemblea, sarà difficile che qualcuno converga in qualcosa di assurdo, poi, lo Stato democratico sembra il più naturale e il più
vicino alla libertà che la natura concede a ognuno, dove tutti rimangono uguali, come erano prima nello Stato di natura.

Mentre l’inglese vedeva nella monarchia assoluta la risposta più consona a far compiere all’uomo il salto che lo porta da una
naturale asocialità verso la vita civile, Spinoza guarda alla democrazia come la forma che gli sembra essere più in continuità con
l’assolutezza del diritto di ciascuno.

Mentre il diritto naturale degli individui e degli Stati si fonda sull’eterno decreto di Dio, di cui lo Stato di natura è espressione, il
diritto divino invece dipende dalla volontà rivelata di Dio, avvenuta nella storia e costituita attraverso un patto espresso, di cui la
Scrittura porta testimonianza. Lo Stato naturale va concepito prima e senza il diritto divino rivelato. Se non fosse così, sarebbe
stato superfluo che Dio stringesse un patto con gli uomini obbligandoli. Poiché il diritto civile di ogni Stato conserva il diritto
naturale di esercitare il suo potere, non è quindi tenuto a obbedire al diritto divino rivelato . Anzi, sarà necessario riconoscere al
potere sovrano dello Stato l’assoluto diritto di stabilire sulla religione ciò che giudica opportuno, in ragione e forza del diritto
naturale di cui è espressione. Tutto accade quindi secondo le leggi dell’universale natura, al di là del giusto e dell’ingiusto, del bene e

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del male. Dio non ha alcun regno particolare sugli uomini se non attraverso coloro che detengono il potere, ovvero attraverso gli
uomini stessi. Solo attraverso coloro che si fanno interpreti della potenza divina, Dio regna sugli uomini e dirige le cose umane
secondo giustizia ed equità. La ragione e l’esperienza conferma che il diritto divino dipende dalla sola decisione dei poteri sovrani,
e che essi ne sono interpreti. Ne consegue che la salvezza dello Stato è la legge suprema a cui tutte le leggi, umane e divine, si
devono accordare e che quindi i poteri sovrani dello Stato sono gli interpreti della religione, affinché essa si accordi all’utile dello
Stato. Ragione per cui i poteri sovrani dello Stato sono depositari degli affari sacri. Diritto sacro e diritto civile devono perciò fare
capo all’unico potere sovrano.

Verso la democrazia

Il TP assume un intento più pragmatico e istituzionale, interessandosi agli aspetti costituzionali dello Stato nelle sue diverse forme:
monarchico, aristocratico e democratico. Le pagine previste sulla costituzione democratica, Spinoza non ebbe il tempo di
consegnarle. La sfida è di non allontanarsi dalla prassi, cercando di rimanere fedeli alla natura umana come essa realmente è e non
come dovrebbe essere, nemmeno propone qualcosa di inaudito, perché l’esperienza ha già mostrato tutti i tipi possibili di governo.
Si pone l’obiettivo di dimostrare in modo certo e indubitato ciò che si accorda con la prassi e dedurlo dalla condizione stessa della
natura umana. Il metodo è quello già sperimentato nell’Etica: gli affetti umani non sono contemplati come vizi, ma come proprietà
che rispondano a leggi precise, cosi come possono farlo i fenomeni naturali. Lo stato viene ora definito più precisamente come il
diritto della potenza di una moltitudine, secondo i tre tipi canonici di condizione civile: monarchia, aristocrazia, democrazia. Il
diritto dello stato è lo stesso diritto della natura, definito non dalla potenza di ciascun individuo, bensì dalla potenza della
moltitudine, condotta da un’unica mente. Sicurezza, pace, concordia e leggi razionali saranno le prerogative della libertà e ottimo
sviluppo.

Per quanto riguarda lo Stato monarchico, Spinoza segue la regola seguente: la moltitudine può conservare sotto un monarca una
libertà sufficientemente ampia, purché si riesca a delimitare la potenza del re con la sola potenza della moltitudine, e a conservare la
prima con il solo ausilio della seconda. Nei fatti però la monarchia è una aristocrazia latente. Ha: un esercito composto da soli
cittadini non mercenari; la suddivisione del regno in casate; la proprietà pubblica del suolo e delle abitazioni affittati ai privati; la
costituzione di un consiglio reale composto da un gran numero di cittadini veterani di ogni casata, scelti dal re per una carica di un
massimo di 5 anni.

Il potere sovrano di uno Stato aristocratico è detenuto da alcuni individui scelti: i patrizi. La costituzione varia in base al fatto che lo
Stato aristocratico faccia capo a una sola città o che è tenuto da più città, e che Spinoza predilige. Il consiglio aristocratico interpreta
l’assolutezza del potere del potere in maniera più stabile della monarchia, il cui potere è soggetto all’interpretazione da un solo
uomo. Inoltre il consiglio patrizio non ha bisogno di un consiglio esterno, né della vigilanza della moltitudine. Questa, anche se
esclusa, è tuttavia la vera depositaria della sovranità assoluta, e tende perciò per natura a contestare ogni altra istanza che se ne
faccia interprete. Ne consegue che lo stato aristocratico sarà tanto più stabile quanto avrà meno da temere la moltitudine, se questa
otterrà tutta la libertà che è necessario concederle. I principi per assicurare potenza e durata allo Stato aristocratico saranno: evitare
che l’aristocrazia si corrompa in oligarchia; preservare l’uguaglianza dei cittadini; promuovere il bene comune; mantenere il potere
del consiglio dei patrizi, senza andare a scapito della libertà della moltitudine. Duraturo sarà lo stato che riesce a conservare
inviolate le sue leggi, che altro non sono che la sua stessa anima. Le leggi saranno inattaccabili se saranno difese non tanto dalla
ragione, ma da qualche comune affetto o sentire degli uomini. Uno stato aristocratico ben formato, soprattutto quello policentrico,
dalle leggi solide, non teme quindi sedizioni interne, e difficilmente si muta in monarchia o dittatura. Potrà essere distrutto solo da
cause esterne. In questo senso la sua forma può dirsi eterna.

Nello stato democratico tutti i cittadini, non per scelta, ma per legge, possiedono diritti di suffragio nel supremo consiglio e possono
ricoprire cariche. Tutti cioè maschi di una certa età e benestanti, escluse donne e i sevi, i figli e gli orfani, almeno finchè in potestà
dei genitori e dei tutori. Iscritta nella natura, origine e fine del comune agire della moltitudine, la democrazia più che un regime è un
agire immanente alla comune potenza dell’uomo, espressione di emancipazione e libertà. Che non è un’utopia. Tanto più la potenza
della moltitudine, unica e depositaria della sovranità, verrà salvaguardata e promossa tanto più lo Stato si conserverà nella sua
forma, evitando di corrompersi, ma anche tanto la moltitudine diventerà attivamente interprete del proprio diritto, tanto più la
forma dello Stato tenderà verso una forma democratica. Più i cittadini saranno in grado di promuovere la propria potenza e libertà
attraverso lo sviluppo della pietà, del libero pensiero, delle arti e delle scienze, più lo Stato sarà florido e potente. Più sarà florido e
potente lo Stato più lo saranno i suoi cittadini. Questo regime di democrazia più che un regime tra gli altri, costituisce un desiderio
comune di beatitudine, una promessa iscritta nella ragione, che gli uomini sanno da sempre di poter realizzare. Insieme.

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Simon de Vries – si interroga della definizione, agiato mercante, tra i più affezionati e sinceri amici di Spinoza. Morto
prematuramente, volle nominare Spinoza come sue erede ma lui lo dissuase dal farlo. Simon lascio un vitalizio di 500 fiorini, Spinoza
si accontentò di 300, il fratello di Simon si prese le cure del funerale di Spinoza.

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