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Storie permesse storie proibite

Cap. 1: La costruzione dei disturbi psicopatologici nei contesti intersoggettivi

Quattro disturbi: ossessivo, fobico, alimentare e depressivo.


Sono le particolari posizioni che l'individuo e le persone per lui significative reciprocamente
assumono, entro la semantica critica, a svolgere un ruolo cruciale nella transizione della “normalità”
alla psicopatologia.
Il modello si fonda sulla Positioning Theory: l'assunto è che ogni membro della famiglia, pur
all'interno di una semantica comune, presenti modalità di partecipare alla conversazione, di
relazionarsi con gli altri e di organizzare la realtà spesso diverse e in conflitto con quelle degli altri
membri. Tali modalità sono invece coerenti con la particolare posizione che il soggetto occupa nella
semantica della sua famiglia e interdipendenti con quelle degli altri membri del gruppo. Emozioni,
scopi, premesse, sistemi di credenze, in questa prospettiva, non sono un aspetto di come ciascuno si
con-pone con gli altri membri del gruppo.
La nascita in una particolare famiglia e in una particolare cultura, così come la storia delle
precedenti con-posizioni, delimitano le possibili posizioni con cui ciascun individuo può con-porsi
con gli altri. Ed è proprio questa delimitazione che conferisce realtà all'io.
Il concetto di polarità semantiche familiari àncora l'individuo alla sua storia. Nuove semantiche
potranno essere apprese dal soggetto nel corso degli anni, altre potranno dominare la conversazione
entro cui è inserito, ma perlomeno inizialmente alcuni significati, quelli dominanti nella sua
famiglia al momento della sua nascita, e non altri, orienteranno la costruzione del suo mondo.
Un contributo decisivo alla comprensione della personalità umana e della psicopatologia in termini
di significato proviene dalle terapie cognitiviste.
Per Kelly ciascun individuo costruisce attivamente il mondo in cui vive attraverso pattern semantici
bipolari: i costrutti personali. Senza questi pattern l'uomo sarebbe incapace di dar senso alla propria
esistenza e il mondo gli apparirebbe un insieme di stimoli indifferenziati. L'uomo comune ha
bisogno di dare significato agli eventi, di costruire un suo punto di vista, di elaborare costruzioni
che assomiglino a teorie per poter controllare e prevedere il corso degli eventi. Tutta l'attività
costruttiva si fonda su contenuti semantici bipolari e ha caratteristiche peculiari a ciascun soggetto.
Non c'è un modo privilegiato di costruire gli eventi, ma tanti modi diversi quante sono le persone.
Kelly, utilizzando la metafora dell'uomo scienziato, ipotizza una naturale tendenza in tutti noi a
mettere alla prova la veridicità delle nostre costruzioni inoltre parla di invalidazione ossia
l'incompatibilità (soggettivamente costruita) tra una propria predizione e le evidenze osservate.
Il disturbo psicologico viene identificato da Kelly con una costruzione che venga usata
ripetutamente a onta di significative invalidazioni e quindi una sorta di coazione a ripetere.
Invece Guidano assimila la psicopatologia a una “scienza del significato”. Questa assimilazione gli
consente di ribaltare il pilastro, di derivazione psicoanalitica, della psicologia clinica, e
precisamente l'idea che esista un percorso di sviluppo unitario da cui prendono forma sia l'itinerario
normale sia gli itinerari psicopatologici, identificabili con le varie sindromi. Per Guidano non esiste
alcun percorso unitario. Al contrario, fin dall'origine, esistono percorsi di sviluppo paralleli – le
organizzazioni cognitive personali – caratterizzati da significati personali affatto diversi, che
possono evolvere verso la psicopatologia o verso la normalità.
Con l'espressione organizzazione cognitiva personale Guidano intende l'insieme dei processi
conoscitivi, sia taciti sia espliciti, che prende forma gradualmente nel corso dello sviluppo
individuale e grazie al quale ciascuno di noi, pur vivendo in una realtà sociale “oggettivamente”
condivisibile, costruisce attivamente, a livelli estremamente articolati di ordinamento percettivo
individuale, il suo punto di vista dall'interno, assolutamente unico e soggettivo. Oltre a rendere
idiosincratico ogni aspetto dell'attività mentale del soggetto, il significato personale è per Guidano
organizzativamente chiuso, una sorta di vincolo epistemologico.
Guidano e gli altri autori cognitivisti riprendono la teoria di Bowlby: i vari quadri psicopatologici
vengono ricondotti a pattern di attaccamento disfunzionali.
Per questi autori il significato è una faccenda che riguarda essenzialmente l'individuo. Il concetto di
polarità semantiche familiari lo considera invece come un'impresa congiunta a cui collaborano
perlomeno tre soggetti in interazione.
L'ambiente, in questa prospettiva, è soltanto fonte di perturbazione e l'adattamento dell'individuo si
identifica nella conservazione della propria coerenza interna a spese dell'ambiente, anche a costo di
trasformazioni irreversibili. Il processo di differenziazione di nuovi schemi emozionali, che
prosegue anche dopo l'adolescenza, non apporta per Guidano alcun cambiamento nel significato
personale di un'organizzazione cognitiva. Al contrario, esso stabilizza ulteriormente la coerenza
interna del soggetto (il significato personale) perché diventa possibile spiegare una realtà sempre
più complessa e mutevole con l'uso di pochi principi invarianti.
Gli psicoterapeuti cognitivisti attribuiscono una funzione determinante in tale transizione agli
aspetti sintattici. Per Guidano la dimensione semantica di ciascuna organizzazione cognitiva
personale costituisce l'aspetto invariante, mentre sono le regole sintattiche di flessibilità,
concretezza/astrazione e integrazione a determinare la modalità normale o patologica con cui viene
declinato il significato. La patologia sembra quindi definita da componenti formali mentre la
posizione del paziente nella semantica è ignorata.
Inoltre questi terapisti, pur riconoscendo la storicità del significato, sono più attenti alle basi
evoluzionistiche dell'uomo, al suo essere parte di una storia naturale evolutiva che lo collega ai
primati superiori, che alla dimensione culturale del significato.
Nel modello che presento invece l'enfasi è sulla definizione culturale del significato e della
psicopatologia. Ciascuna delle sindromi psicopatologiche sia espressione di uno specifico contesto
conversazionale familiare e di una posizione altrettanto particolare che il paziente e gli altri membri
della famiglia assumono rispetto alla dimensione semantica critica, ma contemporaneamente
esprima alcune premesse di un contesto culturale più ampio.
Al centro delle organizzazioni psicopatologiche fobica, ossessivo-compulsiva, anoressico-bulimica
e depressiva è possibile individuare alcune premesse riassumibili nelle idee di libertà come
indipendenza delle relazioni, di bontà “astinente”, di uguaglianza come abbattimento delle
differenze e di irrevocabile appartenenza a un gruppo di relazioni.

Cap. 2: Polarità semantiche familiari

La famiglia è una composizione di differenze.


I bambini allevati nella stessa famiglia sono più spesso diversi uno dall'altro che simili. Ed è proprio
il fatto di vivere nella stessa famiglia a rendere i fratelli diversi anziché simili, una scoperta
sorprendente che altera la prospettiva con cui tradizionalmente è stata vista l'influenza della
famiglia sullo sviluppo.
Il concetto di polarità semantiche offre una prospettiva costruzionista al significato attenta alle
differenze, non meno che alle somiglianza, presenti nella famiglia. Il concetto prevede che la
conversazione nella famiglia sia organizzata entro polarità di significato antagoniste del tipo
giusto/ingiusto, buono/cattivo, chiuso/aperto, attraente/ripugnante. Esso riprende l'idea che il
significato si costruisca attraverso polarità antagoniste dandone un'accezione costruzionista il cui
background è la Positioning Theory di Harré e colleghi: le polarità non sono quindi considerate
come qualcosa che sta dentro la mente delle persone ma come un fenomeno discorsivo; esse
s'identificano con alcune proprietà della conversazione.
Esaminiamone tre:
- Una trama condivisa di polarità semantiche familiari.
Ciascun membro della famiglia costruisce la conversazione all'interno di alcune polarità semantiche
specifiche rese prevalenti dalle pratiche discorsive di quella famiglia. Tali polarità costituiscono una
sorta di trama condivisa che genera specifiche narrative e intrecci.
Le polarità definiscono ciò che è rilevante per ciascun gruppo, indicano che cosa, rispetto al fluire
incessante e multiforme dell'esperienza, sarà costruito attraverso l'azione congiunta come un
episodio, l'unità minima in cui si articola il discorso.
Una famiglia, come ogni contesto intersoggettivo, si differenzia in quanto coloro che vi
appartengono costruiscono gli episodi attraverso cui si articola la conversazione in modo diverso
dalle altre famiglie. Inoltre ciascuno è in grado di interagire soltanto entro pratiche discorsive che
presentano almeno alcune polarità semantiche già sperimentate nei propri contesti relazionali.
Una famiglia è tale un quanto coloro che vi appartengono condividono una trama condivisa,
formata da un certo numero di polarità semantiche e dalle narrative che queste polarità alimentano.
L'elemento di somiglianza fra i membri della famiglia si limita a questa condivisione di una trama
di polarità semantiche che derivano dalla storia conversazionale della famiglia. Tale trama
circoscrive il repertorio delle narrative e degli intrecci dentro i quali saranno costruiti gli episodi.
- Positioning inevitabili.
Tutti i membri di una famiglia, come di ogni altro gruppo con storia, devono necessariamente
prendere posizione entro le polarità rilevanti nel proprio gruppo.
Una delle ipotesi cardine della Positioning Theory è che noi ci troviamo inevitabilmente a prendere
posizione nella conversazione. È un'ipotesi che riprende una nota tesi delle psicoterapie sistemiche:
l'impossibilità di non definire la relazione.
Prendere posizione è un processo bidirezionale.
Le persone si posizionano sempre rispetto a qualche significato presente nella conversazione. Potrò
sentirmi e con-pormi con gli altri come una persona “piena di energia” soltanto se nei contesti di cui
sono parte la polarità “pieno di energia – scarico” è rilevante, altrimenti sperimenterò altre emozioni
e sensazioni.
In sintesi, il positioning non avviene entro significati impredicibili. Al contrario, questo processo si
dispiega dentro un repertorio di significati predefinito, anche se flessibile e mutevole: i partner
conversazionali si posizionano e sono posizionati entro le polarità semantiche che le pratiche
discorsive della propria famiglia, e di altri gruppi di cui sono (o sono stati) parte, rendono via via
rilevanti.
La rilevanza che la conversazione assegna a ciascuna polarità semantica è continuamente negoziata,
così come è sempre aperta la possibilità che nuovi significati emergano nella comunicazione.
L'intero processo è spontaneo e in gran parte non intenzionale.
- Polarità semantiche e l'interdipendenza dei molteplici sé.
Ciascun partner conversazionale, posizionandosi con gli altri entro la trama di polarità semantiche
rilevanti nei propri contesti, ancora la propria identità a quella dei membri del proprio gruppo a cui
appartiene. La comunanza delle soggettività è conseguentemente assicurata dalla struttura polare del
significato. Poiché inoltre in tutte le famiglie sono salienti più di una polarità, i sé risultano
molteplici come le posizioni generate dalle polarità.
Questa proprietà prevede che l'organizzazione del significato secondo polarità antagoniste renda
interdipendenti le identità dei membri della famiglia, come di ogni altro contesto relazionale con
storia. Ogni individuo con-ponendosi entro le polarità semantiche salienti dei gruppi sociali a cui
appartiene, assume una specifica posizione nella trama narrativa condivisa: potrà posizionarsi come
giusto, leale, riservato ma per occupare queste posizioni altri dovranno posizionarsi come ingiusti,
infidi, teatrali.
Per questo quando qualcuno in terapia mi dice “io sono una persona buona” gli chiedo subito “chi
nella sua famiglia è cattivo?”.
Con il termine identità si riferisce a due aspetti fondamentali del sé che esprimono sia la sua
singolarità sia la sua molteplicità: la singolarità è sperimentata soggettivamente “come continuità
del nostro punto di vista” ed espressa nella conversazione attraverso l'uso di meccanismi discorsivi
come la prima persona; la molteplicità è invece assicurata dalla varietà di posizioni ricoperte dei
partner nella conversazione. Ciascuno è quindi un unico sé ma anche una pluralità di persone
almeno quante sono le polarità semantiche rilevanti nei suoi contesti relazionali.
In tutte le famiglie sono salienti più di una polarità. Per questo l'organizzazione del significato in
polarità antagoniste oltre a rendere le identità interdipendenti garantisce la molteplicità del sé.
L'organizzazione del significato in polarità antagonista, così come è stata prospettata, garantisce
dall'inizio l'inter-soggettività, o meglio la comunanza delle soggettività. Il bambino, non appena
entra nel significato, si posiziona subito, attraverso le emozioni, nella trama delle polarità
semantiche condivise della sua famiglia, costruendo insieme agli altri la propria posizione e con
essa una propria soggettività interdipendente con quella degli altri.
Il concetto di polarità semantiche esclude quindi l'idea che vi sia una soggettività che, essendo
costruita al di fuori dei rapporti sociali, debba essere coordinata, in un secondo momento, a quella
degli altri.
Le polarità semantiche familiari sono costruite dalle emozioni. Molte delle polarità semantiche
familiari si esprimono in modo esclusivo o prevalente attraverso pattern conversazionali non
verbali. In accordo con il costruzionismo sociale, non ci sono significati puramente cognitivi, così
come non esistono emozioni prive di cognizioni. E proprio perché sono espressione delle emozioni,
le polarità semantiche svolgono un ruolo importante per la psicopatologia.
(Teoria del doppio legame:
le caratteristiche distintive delle interazioni di doppio legame possono essere così sintetizzate 1) due
o più persone sono coinvolte in una relazione intensa che ha un alto valore di sopravvivenza fisica
e/o psicologica per una di esse, per alcune, o per tutte; 2) in un simile contesto viene dato un
messaggio che è strutturato in modo tale che asserisce qualcosa, asserisce qualcosa sulla propria
asserzione e queste due asserzioni si escludono a vicenda; 3) si impedisce al ricettore del messaggio
di uscir fuori dallo schema stabilito da questo messaggio, o meta comunicando su esso o
chiudendosi in se stesso.
La teoria del doppio legame introduce l'ipotesi che la patologia psicologica sia l'esito di confusione
e ambiguità radicale e sistematica nei processi comunicativi. Quando il soggetto si trova in una
condizione in cui la natura delle relazione nelle quali è coinvolto gli sfugge inesorabilmente e ogni
suo tentativo di venire a capo lo riporta nella situazione iniziale di indecidibilità, il suo equilibrio
psichico risulta minacciato. In altre parole, se la struttura delle interazioni significative assume la
forma del doppio legame, il soggetto non ha più un punto di vista stabile attraverso cui giudicare gli
eventi e orientare l'azione).
Il significato, in virtù della sua struttura polare, contribuisce ad assicurare l'intersoggettività. E
proprio perché la struttura del significato è polare, un individuo non può posizionarsi o essere
posizionato come generoso o intelligente se non c'è perlomeno un altro individuo nel suo contesto
relazionale che ricopre la posizione opposta di egoista o stupido. Ma in questo modo la sua
posizione, e quella parte della sua identità alimentata da tale posizione, vengono a dipendere da
coloro che si collocano in posizioni complementari.
Le polarità semantiche non esprimono leggi o tendenze del funzionamento del pensiero, non sono
rappresentazioni mentali, sono proprietà della conversazione. In questa prospettiva, la struttura
polare del significato fornisce una matrice che rende disponibili posizioni entro le quali vengono
costruite, mantenute e decostruite nella conversazione soggettività interdipendenti.
La stessa struttura del concetto di polarità è relazionale.
Per Needham il fattore che connette gli opposti e ne fa un costrutto unitario è la complementarietà,
un costrutto non affrontabile con la logica. Fatto sta che ogni polarità può sussistere solo nell'altra.
Guardini invece afferma che ciascuna polarità, pur non essendo senza l'altra, resta solamente e per
sempre se stessa. In una parola è irriducibile all'altra. La relazione polare è fatta simultaneamente di
relativa esclusione ed inclusione. La struttura polare del significato sarebbe quindi organizzata in
modo tale da richiedere che ciascun significato esista in rapporto a un altro che gli si oppone. In
altri termini il significato sembrerebbe l'impresa congiunta di due termini polari, indispensabili
proprio perché irriducibili l'uno all'altro.
Per Kelly la dicotomia aumenta la capacità di previsione dell'uomo.
Invece propongo che i contrasti semantici che ritroviamo in pressoché tutte le lingue costituirebbero
un universale la cui funzione è rendere interdipendenti gli individui anche a livello del significato.
In una specie come la nostra, dove ciascun individuo può realizzarsi soltanto all'interno di strutture
di gruppo, il fatto che i contrasti semantici vincolino gli individui gli uni agli altri rappresenta un
vantaggio da un punto di vista evoluzionistico.
Il conflitto non genera lo scioglimento di un gruppo se è all'interno della stessa trama narrativa. È di
questa natura del conflitto che oppone coloro che si collocano agli estremi di una stessa polarità
semantica: poiché entrambi condividono la medesima trama, le loro discordie e i loro contrasti
concorrono a mantenere la conversazione e la continuità delle reciproche identità.
Il concetto di polarità semantiche familiari prospetta l'opposizione polare come una matrice per la
costruzione delle singole identità. La dualità è nella matrice, non necessariamente nelle singole
identità e nelle rappresentazioni mentali dei singoli.
L'interdipendenza degli opposti che questo concetto prevede riguarda la conversazione che, in
accordo con Vygotskij, è una dimensione più primitiva rispetto al pensiero sia dal punto di vista
della filogenesi che dell'ontogenesi.
In sintesi il concetto di polarità semantiche familiari è per molti aspetti diverso e complementare a
quello dei costrutti personali di Kelly: i due concetti di riferiscono a fenomeni diversi. Essi inoltre
sottendono una differente concezione del significato. I costrutti personali di Kelly esprimono una
concezione costruttivista del significato, essenzialmente mentalistica. Le polarità semantiche sono
invece coerenti con la concezione sociale delle persone di tipo costruzionista.

In realtà il concetto di polarità semantiche familiari contempla tre posizioni. Esso riprende la
metafora a cui rimandano molte etimologie del termine opposizione individuando essenzialmente
tre posizioni nella conversazione: le due polari e una serie di posizioni intermedie riassumibili in
quella di mezzo.
Anche per questa sua natura triadica, il concetto di polarità semantiche familiari rientra a pieno
titolo nella tradizione sistemica. Il ricorso a schemi esplicativi triadici costituisce uno degli aspetti
caratterizzanti le psicoterapie sistemiche fin dalla loro nascita. Haley individuava nel triangolo
l'unità privilegiata di analisi della nascente psicoterapia sistemica. Da allora il riconoscimento
dell'importanza del passaggio alla triade per la comprensione del comportamento umano ha
rappresentato un'acquisizione indiscussa nelle concettualizzazioni delle terapie sistemiche.
Triangoli e triangolazioni sono infatti al centro dell'elaborazione clinica dei pionieri della terapia
familiare. Soltanto grazie a Fivaz-Depeursinge e Corboz-Warnery sono emerse evidenze empiriche
che dimostrano la capacità di tutti noi, da un'età sorprendentemente precoce, di poter tener conto
contemporaneamente di due partner conversazionali. Queste autrici, hanno dimostrato attraverso il
gioco “triadico di Losanna” che molti bambini già a tre mesi sono in grado di alternare lo sguardo
fra i due genitori e a nove mesi pressoché tutti i bambini sono capaci di complesse interazioni
triadiche: si dimostra così che non appena il bambino entra nel significato è in grado di interagire in
contesti triadici e quindi quando il bambino entra nel significato è in grado di operare
posizionamenti taciti che tengano conto contemporaneamente di due partner.
I terapeuti sistemici, rispetto ai colleghi, si caratterizzano per la tendenza ad ampliare la loro analisi
alle generazioni precedenti anche quando il trattamento terapeutico è circoscritto al solo paziente
nelle terapie individuali.
Di certo non è sempre vantaggioso in terapia allargare il campo di osservazione. Non è infatti
possibile ricevere informazioni senza contemporaneamente darne, il processo è bidirezionale.
Coinvolgendo in seduta generazioni precedenti, il terapeuta inevitabilmente altera i confini della
famiglia nucleare, un movimento che può comportare effetti negativi anche se neutralizzabili nel
corso della terapia. Più il terapeuta estende la propria analisi alle generazioni passate o alla
parentela, meno tempo gli rimane per approfondire emozioni, sentimenti, scopi, sistemi di credenze
dei membri della famiglia nucleare.
Il campo di interferenza deve quindi essere ampliato quanto è necessario per la comprensione del
problema e per la trasformazione. Non oltre.
Il concetto di polarità semantiche familiari ci suggerisce di estendere l'analisi perlomeno fino a
includere le posizioni ai due estremi delle polarità semantiche ritenute importanti per la situazione
interpersonale che si intende analizzare.
Il problema dovrà allora essere contestualizzato fino a includere i due estremi. I tre poli delle
polarità cruciali diventeranno quindi oggetto della conversazione terapeutica.
La posizione mediana si definisce in rapporto a entrambi gli estremi.
Esaminiamo ora i processi conversazionali fra le persone che occupano le varie posizioni rese
disponibili dalle polarità semantiche salienti: i due estremi polari e la posizione mediana. Tali
processi concorrono a costruire le identità plurime dei partner conversazionali. Ricoprire una
posizione in un contesto conversazionale significa disporre di una gamma di strategie comunicative
verbali e non verbali, nonché un insieme di emozioni, premesse, schemi, sistemi di credenze, scopi
coerenti con quella posizione.
Proprio perché ciascuno occupa una gamma limitata di posizioni alcune storie saranno permesse,
nel senso di facili da costruire e da vivere, mentre altre gli saranno difficili, indisponibili o
addirittura proibite.
I concetti di interazione simmetriche e complementare e di schismogenesi ci aiutano a capire come
vengono costruite le due posizioni agli estremi.
Una delle grandi intuizioni di Bateson, che anticipa un tema centrale della Positioning Theory, è che
i tratti individuali che alimentano ciò che nel linguaggio ordinario chiamiamo “carattere” siano, in
misura significativa, l'esito di processi interattivi, in particolare di interazioni schismogenetiche
simmetriche e complementari.
Per Bateson la schismogenesi era un processo di differenziazione nel comportamento individuale
risultante dall'interazione cumulativa fra individui. Si trattava di un processo potenzialmente
progressivo che poteva verificarsi tanto nelle interazioni complementari quanto in quelle
simmetriche. Nel caso della schismogenesi complementare i due soggetti o gruppi in interazione
manifestavano comportamenti sempre più opposti; nel caso della schismogenesi simmetrica i
soggetti coinvolti, individui o gruppi, esibivano comportamenti sempre più simili.
In virtù dei processi schismogenetici gli individui massimizzano alcuni tratti del carattere a danno di
altri.
La costruzione dell'identità nella conversazione è infatti un processo che richiede, per essere
compreso, un'attenzione alla dimensione temporale e ai significati.
Riprendendo Bateson, possiamo affermare che quando in un contesto una dimensione semantica è
saliente, tra i membri che occupano i poli opposti della dimensione in questione la relazione sarà
complementare, cioè basata sullo scambio di comportamenti comunicativi opposti. Tra coloro che si
collocano nella stessa polarità la relazione sarà invece simmetrica, cioè basata sull'uguaglianza.
Esiste tuttavia anche la posizione mediana. La tesi che intendo avanzare è che la posizione di mezzo
non sia una semplice derivazione da quelle agli estremi. Esse ha una sua specificità perché è
costruita da processi conversazionali diversi da quelli che alimentano le due posizioni polari
contrapposte. La differenza non è immediatamente evidente. I processi conversazionali che
alimentano le posizioni di mezzo sono apparentemente simili ai processi ce costruiscono le due
posizioni polarmente contrapposte. Tra chi si pone, rispetto a una stessa dimensione semantica,
nella posizione mediana, e coloro che si contrappongono polarmente, la relazione, essendo definita
per differenza, è complementare. Analogamente, le relazioni fra coloro che occupano la posizione
mediana sono simmetriche, in quanto basate sull'uguaglianza. Si tratta tuttavia di analogie
superficiali. Le relazioni complementari che alimentano la popolazione di mezzo hanno
caratteristiche ben diverse da quelle che concorrono a costruire i due estremi. Possiamo definirle
speculari perché sono l'esito di un continuo bilanciamento: le alleanze, i conflitti, le collaborazioni
con coloro che occupano i due estremi sono sempre parziali. Di conseguenza esprimono un certo
ritiro dall'interazione.
Ma è soprattutto nei loro esiti sull'identità che i processi conversazionali della posizione mediana si
differenziano da quelli relativi agli altri due poli. Mentre le relazioni alimentate dalle posizioni
polari contrapposte stimolano – anche a prescindere dei fenomeni schismogenetici –
l'esteriorizzazione delle qualità individuali, le relazioni che costruiscono la posizione mediana –
siano speculari o simmetriche – danno luogo a un processo opposto che chiamo centralizzazione.
(fig 2.2) L'individuo collocato a uno dei due estremi, con-ponendosi per differenza o per
uguaglianza con gli altri, esteriorizza, esprime specifiche qualità. Proprio perché la sua attenzione è
diretta all'altro, egli acquista sempre più una sua specificità individuale: non c'è un io senza un tu.
Le posizioni agli estremi implicano un pieno riconoscimento del partner conversazionale, come
uguale, simile a sé, o come diverso, opposto a sé. Esse sono espressione nelle quali l'altro è centrale
nella sua posizione di alleato o di antagonista.
Le relazioni alimentare dalla posizione di mezzo innescano un processo opposto rispetto
all'esteriorizzazione: la centralizzazione. La posizione mediana si costruisce e si mantiene attraverso
un continuo bilanciamento nei confronti di chi si colloca ai due estremi. L'individuo in questa
posizione si sposta sensibilmente ora verso l'uno ora verso l'altro polo, ma questi spostamenti sono
contenuti e bilanciati, in un arco temporale relativamente breve, da cambiamenti di segno opposto.
Essendo la sua attenzione primariamente rivolta a mantenersi in equilibrio rispetto ai due estremi,
l'individuo in posizione mediana acquista una minore specificità individuale nella dimensione
semantica su cui il processo si applica di quanto accade a chi si colloca agli estremi. La definizione
di sé rispetto alla dimensione semantica saliente sarà altrettanto parziale.
Anche le relazioni tra coloro che condividono la stessa posizione mediana hanno un esito del tutto
simile sull'identità: gli individui saranno tanto più uguali tra loro quanto più risulteranno in
equilibrio rispetto ai due poli, e quindi poco o per nulla definiti rispetto alla dimensione semantica
entro cui si collocano.
I processi sia di esteriorizzazione sia di centralizzazione sono massimi allorché si verificano
fenomeni di polarizzazione. Gli individui massimizzano il tratto messo in gioco dalla polarità entro
cui ha luogo l'interazione schismogenetica, sviluppando una sorta di iperspecializzazione.
Chi si colloca nell'estremo culturalmente valorizzato di una dimensione semantica saliente sviluppa
una vera e propria eccellenza, in quanto massimizza una qualità socialmente apprezzata. Tuttavia è
esposto al rischio di unidimensionalità: ogni eccellenza si accompagna a qualche deficienza. Per
massimizzare certe qualità l'individuo deve trascurarne altre. L'iperspecializzazione in un contesto
rende l'individuo inadatto a partecipare ad altri tipi di conversazione.
Tutti i linguaggi sono infatti multidimensionali dal punto di vista semantico e il tipo puro si realizza
nel naufragio.
I pericoli sono ovviamente ancora più netti per coloro che si trovano nel polo con la connotazione
culturale negativa. Anche questi individui esteriorizzano qualità ben definite. La loro posizione
richiede un notevole dispendio di energie e molto apprendimento specialistico. S'impara a essere
passivi così come s'impara a essere attivi... ma chi si colloca all'interno dell'estremo connotato
negativamente, oltre a essere esposto a tutti i rischi del suo opposto polare, riceve una valutazione
negativa di sé: la sua eccellenza è di segno negativo.
I fenomeni di polarizzazione investono anche la posizione di mezzo. Essi sono il prodotto di
processi implogenetici, che rendono estrema la centralizzazione. L'esito di questi processi è
l'armonia, ma anche l'indifferenziazione. Quando la centralizzazione rispetto a una dimensione
semantica è massima, l'individuo è perfettamente bilanciato rispetto alla dimensione in questione.
L'eccellenza è rischiosa per la sua unilateralità, ma anche l'armonia contiene in sé i rischi del
naufragio, sia pure di altra natura. Essere perfettamente bilanciati rispetto a una dimensione
semantica saliente equivale a un ritiro dalla conversazione: l'individuo, limitatamente a quel gioco
semantico, non è più un partner conversazionale. Poiché non c'è un io senza un tu, se questa
posizione limite investe pressoché tutte le dimensioni semantiche salienti comporta la peggiore
minaccia a cui è esposto l'individuo: la perdita del sé.
I processi implogenetici esprimono una condizione in cui l'individuo non può definirsi perché l'altro
non può essere riconosciuto neppure come oggetto. Questi processi sono l'esito di situazioni
interpersonali in cui un partner conversazionale teme, sbilanciandosi verso uno degli estremi, di
ferire o addirittura di distruggere, o di essere a sua volta leso e sopraffatto, da chi si colloca nei due
poli contrapposti.
L'individuo in posizione mediana opera continui sbilanciamenti verso l'uno o l'altro dei due estremi,
e grazie a questi sbilanciamenti partecipa alla conversazione e si definisce come partner. Anzi le sue
alleanze parziali, così come i suoi conflitti limitati, gli consentono una multidimensionalità
semantica che è negata a chi si colloca agli estremi. Tuttavia quando i fenomeni implogenetici
prevalgono, e anche quando le possibilità di forme di partecipazione parziale alla conversazione
sono rese problematiche, la posizione mediana diventa la sede elettiva di pattern conversazionali
patogeni, a cui le psicoterapie sistemiche si sono riferite con termini quali disconferma, squalifica,
risposte tangenziali. Questi pattern conversazionali non sono necessariamente espressione di
contesti psicopatologici e sono riscontrabili con una certa frequenza nelle culture che privilegiano la
posizione mediana.
In sintesi, le famiglie o i gruppi con storia più ampi che valorizzano gli estremi e in cui prevalgono i
processi di esteriorizzazione tendono a favorire la differenziazione degli individui o, se si vuole
utilizzare un termine di derivazione psicoanalitica, l'individuazione. Differenziarsi implica di per sé
sviluppare certe qualità a scapito di altre e, come già detto, in ogni gruppo con storia vi sono sempre
più dimensioni semantiche salienti.
In questa prospettiva è possibile reinterpretare il termine “carattere”: così come viene usato nel
linguaggio della vita quotidiana, esso starebbe a indicare una persona che, essendo cresciuta in
contesti schismogenetici, risulta definita da un numero ridotto di caratteristiche.
Al contrario, le famiglie e anche le culture che valorizzano la posizione mediana e in cui prevalgono
i processi di centralizzazione, favoriscono lo sviluppo della multidimensionalità. Di conseguenza
l'identità degli individui che si collocano in posizione mediana può avvicinarsi a un ideale di
armonia. Quando tuttavia prevalgono i processi implogenetici si ha un incremento dei messaggi di
disconferma e di autosqualifica che minacciano la stessa esistenza dei soggetti come partner
conversazionali. È comunque insito nella posizione mediana un certo grado di ritiro dall'interazione;
di conseguenza gli individui che si collocano in questa posizione risultano meno differenziati
rispetto a chi si pone agli estremi delle polarità semantiche.

In che modo il bambino entra a far parte della trama condivisa di polarità semantiche della sua
famiglia? Ciò che il bambino apprende è un modo di posizionarsi con i familiari in contesti
semantici tripolari.
Ma in che modo il bambino si con-pone con gli altri membri della famiglia? Stabilendo quelli che la
letteratura chiama “legami di attaccamento”: i legami di attaccamento sono diversi in rapporto alle
polarità semantiche salienti nella particolare famiglia in cui il bambino entra a far parte.
Le emozioni vengono via via apprese grazie all'empatia.
La costruzione di una nuova posizione relazionale è l'esito di processi di attaccamento che sono
diversi in rapporto alle polarità semantiche presenti nella famiglia. La nostra specie non si può
prescindere dal significato. Per questo non può privilegiare un unico modello di attaccamento.
I bambini stabiliscono legami con i membri della famiglia, si con-pongono con loro secondo una
gamma di strategie coerenti con i significati polari salienti nel loro contesto familiare. In tutti è
sempre l'adulto ad attribuire i significati agli eventi. A livello semantico non esiste la bidirezionalità
adulto-bambino che è invece presente. Già dalla nascita, negli scambi interattivi.
Come è noto, tutti gli adulti, interagendo con il bambino piccolo, si comportano “come se” il
piccolo avesse intenzioni, scopi che di fatto è presumibile non abbia, ne fanno un partner
conversazionale a pieno titolo anche se non lo è. Gli adulti sovra-interpretano il comportamento del
bambino, attribuendogli un senso anche quando ne è sprovvisto. Tuttavia ciascun adulto privilegia
certi contenuti semantici e non altri; in questo modo l'adulto fornisce al bambino quella che
possiamo chiamare un'impalcatura semantica all'interno della quale il piccolo inizierà a con-porsi
con i membri della famiglia, definendo così la propria posizione. Questo processo non è quindi
bidirezionale ma l'adulto non esercita neppure un'influenza deterministica.

Di certo la nascita in una famiglia e in una cultura, delimitano le possibili posizioni con cui ciascun
individuo può con-porsi con gli altri. Ma proprio questa delimitazione dà realtà all'individuo. Le
posizioni che l'individuo può ricoprire non sono infinite.
Il concetto di polarità semantiche non confina l'individuo entro un'unica dimensione semantica.
Esso prevede che l'individuo disponga sempre di più di giochi semantici in cui posizionarsi con gli
altri. Via via che costruisce una propria posizione all'interno della famiglia, il soggetto si trova
tuttavia a disporre di una serie di abitudini comunicative, di capacità emotive e cognitive che gli
renderanno facile con-porsi con persone con un repertorio di capacità compatibili, in quanto
cresciuti in contesti con polarità semantiche simili; queste stesse capacità gli renderanno invece
difficile con-porsi con chi si è costruito all'interno di dimensioni semantiche diverse.
Il concetto prevede che il soggetto sia in grado di mettere in atto cambiamenti di posizione che
richiedono la capacità di con-porsi entro giochi semantici nuovi, entro dimensioni semantiche che
erano prima sconosciute. Questo tipo di cambiamento è stimolato dagli episodi enigmatici e dalle
relazioni enigmatiche.
Ciascuno, per entrare in una relazione significativa con una persona che non appartiene già ai suoi
contesti di riferimento, deve condividere uno o più giochi semantici. Ciascuno individua l'altro,
ancor prima di esserne consapevole.
L'avvio di una relazione di lavoro, di amicizia, di una relazione sentimentale, avviene quindi sempre
sulla base di qualche gioco semantico noto a entrambi i partner.
Alcuni ricercatori hanno dimostrato che il cambiamento è innescato da situazioni interattive che
presentano qualche affinità con quelli che ho chiamato episodi enigmatici. Non tutti gli incontri
sociali sono risultati efficaci ai fini dell'apprendimento; soltanto alcune interazioni, affini ai nostri
episodi enigmatici, erano in grado di operare avanzamenti: si tratta di interazioni in cui tra i due
soggetti viene a crearsi quello che possiamo definire un “conflitto socio-cognitivo”.
Affinché ciò si verifichi due condizioni risultano cruciali:
a) i soggetti coinvolti nell'interazione devono produrre, di fronte a un compito comune, risposte
divergenti; la divergenza può essere causata da ragioni contingenti e dal diverso livello di
competenza dei partner nella costruzione della nozione su cui verte l'esperimento;
b) i soggetti, in virtù della consegna sperimentale che li sollecitava a formulare una risposta o
semplicemente per il piacere della condivisione, dovevano essere indotti a trovare un accordo non
soltanto di facciata.
In breve, affinché la situazione interattiva diventasse generativa di avanzamenti cognitivi si
dovevano creare, tra i partner, una situazione di conflittualità e contemporaneamente il desiderio di
superare la divergenza.
Per diventare occasione per l'apprendimento di nuovi giochi semantici, anche gli episodi enigmatici
devono essere contestualizzati da emozioni che inducono i soggetti a mantenere l'interazione. Sono
queste emozioni a far superare ai partner l'impasse: entrambi entrambi i partner, nel tentativo di
mantenere l'interazione, sperimentano stati emotivi che consentono loro di con-porsi sulla base di
una dimensione semantica che era ignota a entrambi o, come spesso accade, uno dei partner
sviluppa modi di sentire che gli permettono di con-porsi con l'altro.
Quando ciò accade uno o entrambi i partner apprendono una nuova posizione nella conversazione.
Il coinvolgimento emotivo è sicuramente cruciale per il cambiamento. Le divergenze che si
riscontrano negli episodi enigmatici importanti per la costruzione e rottura dei legami e per l'identità
di ciascun partner conversazionale sono prevalentemente emotive.
Le relazioni costellate da episodi enigmatici hanno in genere durata breve. Un numero davvero
ampio di risultati sperimentali dimostrano che le persone interrogano i fatti per confermare le
proprie ipotesi e non per falsificarle. Analogamente, preferiamo con-porci con persone e in
situazioni interattive che non mettono in discussione la nostra identità. Con-porci all'interno di
dimensioni semantiche che ci sono ignote implica modificare significativamente la nostra posizione
e conseguentemente la nostra identità.
Poiché il cambiamento non è necessariamente un valore, è probabile che alla base della preferenza
per relazioni “confermanti” ci siano buone ragioni. Alcune relazioni sono tuttavia obbligatoriamente
enigmatiche. È il caso della relazione terapeutica che è finalizzata al cambiamento del paziente. Se
rinuncia a provocare episodi enigmatici, la relazione terapeutica produce dipendenza o produce
aggiustamenti all'interno di una trama di polarità semantiche che non viene modificata. Ma proprio
perché deve provocare episodi enigmatici, tale relazioni deve configurarsi come un contesto
emotivamente significativo per il paziente.

I significati che dominano la conversazione nei contesti con cui si sviluppano le organizzazioni
fobiche, ossessive, tipiche dei disturbi alimentari e depressive, si chiamano rispettivamente
“semantica della libertà”, della “bontà”, del “potere” e dell' “appartenenza” perché le polarità
caratterizzanti sono alimentate dalle stesse emozioni e quindi formano un insieme coerente di
opposizioni polari.
In queste semantiche sono coinvolti tutti i membri della famiglia, ma soltanto il partner
conversazionale, di regola, presenta un'organizzazione psicopatologica. Ciò che sembra favorire lo
sviluppo della psicopatologia è la posizione che il soggetto assume entro la semantica critica.
Con la Positioning Theory accanto al livello di contenuto di ogni messaggio e al livello di relazione
del meta-messaggio che indica quale significato debba essere attribuito ad un messaggio, vanno
inclusi l'episodio, la relazione fra i comunicanti, il sé o biografia personale e i modelli culturali.
Tutti questi livelli sono costruiti nel corso della conversazione e sono organizzati gerarchicamente.
In altri termini, il significato di un messaggio è definito non solo dal meta-messaggio, ma anche
dall'episodio di cui è parte e dalla relazione tra i partner, oltre che dai rispettivi sé e dai modelli
culturali.
Normalmente i messaggi sono contestualizzati dei livelli superiori che rappresentano la “forza
contestuale”. Fintanto che ciò accade, la natura dell'episodio, il tipo di relazione fra i partner, il
concetto di sé degli individui coinvolti e i modelli culturali vengono confermati dal messaggio. Ma
può accadere, come di fatto accade, che la “forza implicativa” (che preme dal basso verso l'alto)
prevalga. In questo caso un singolo messaggio capovolge la natura dell'episodio poiché diventa il
contesto entro il quale dare significato all'episodio. A sua volta, un episodio può diventare il
contesto in cui interpretare una relazione, e una relazione può fungere da contesto per il sé. E
l'episodio può modificare la relazione.
Di regola i ribaltamenti che vedono la forza implicativa diventare forza contestuale riguardano i
livelli di significato che coinvolgono messaggio-metamessaggio-episodio. Ma non mancano episodi
capaci di cambiare la natura di una relazione, il sé dei protagonisti e persino i modelli culturali.
È evidente che quando la forza implicativa sta per diventare forza contestuale la riflessività potrà, a
tratti, essere massima: i partecipanti oscillano circa l'interpretazione da dare all'episodio o alla
natura della loro relazione. I positioning difficili che caratterizzano la posizione dei soggetti che
sviluppano una psicopatologia fobica, ossessiva, depressiva e i disturbi alimentari riguardano due
dei livelli implicati: il sé e le relazioni. Tra di essi la riflessività è massima: il soggetto oscilla tra
prospettive inconciliabili.

Vi è riflessività quando due elementi in una gerarchia sono organizzati in modo tale che ciascuno di
essi è contemporaneamente il contesto in cui l'altro va inserito e il contenuto di cui l'altro è il
contesto.
I circuiti riflessivi, sono intrinseci all'interazione sociale. Se gli individui, percorrendo un'unità di
significato dall'alto verso il basso e viceversa, non si trovassero mai al punto di partenza, non
sarebbe neppure possibile il cambiamento. L'esperienza della riflessività – alla base dei messaggi di
doppio legame che Bateson considerava patogeni – è invece una conditio sine qua non del
cambiamento, della crescita e dell'evoluzione.
Il fatto che la riflessività sia un attributo normale dei processi comunicativi, non significa che non
abbia nulla a che fare con la patologia. Accanto ai circuiti “armonici” che non sono problematici, ci
sono i circuiti “bizzarri” che creano disagio e alla peggio patologie psicologiche. Sono di questa
natura i circuiti in cui finiscono per trovarsi intrappolate le persone con organizzazione fobica,
ossessiva, depressiva e tipica dei disturbi alimentari.
I concetti di transitività e intransitività consentono di distinguere i due tipi di circuiti: due livelli di
significato sociale hanno una relazione transitiva quando ciascuno può diventare il contesto
dell'altro senza che si modifichi il significato di nessuno dei due; i due livelli di significato hanno
invece una relazione intransitiva quando non è possibile che ciascuno dei due diventi il contesto
dell'altro senza che nessuno cambi di significato.
La transitività o intransitività fra i livelli di significato è definita dall'esperienza soggettiva da
“meta-regole” che sono il prodotto di modelli culturali e familiari e della particolare posizione
occupata da ciascuno entro i propri contesti di appartenenza. Di conseguenza non esiste alcun
messaggio a cui possano essere universalmente attribuite le caratteristiche di circuito ricorsivo
bizzarro.
Autori ipotizzano che l'entità del danno prodotto dei circuiti riflessivi bizzarri irrisolti sia tanto
maggiore quanto più sono coinvolti i livelli di significato superiori. Se la riflessività persiste e se
arriva a coinvolgere il sé, l'individuo – oltre a essere posto in uno stato di indecidibilità - non riesce
più a raggiungere un punto di riferimento stabile a partire dal quale poter dare significato agli
eventi.
Anche la posizione dei soggetti con un'organizzazione fobica, ossessiva-compulsiva, anoressico-
bulimica e depressiva all'interno della semantica dominante assume i contorni di un circuito
ricorsivo bizzarro che coinvolge i livelli del sé e della relazione. Due esigenze imprescindibili per
l'essere umano - disporre di relazioni soddisfacenti e mantenere un'autostima accettabile –
diventano autoescludenti proprio rispetto ai significati centrali per il contesto conversazionale di cui
il soggetto è parte.
I circuiti ricorsivi o i dilemmi implicativi non esauriscono la pluralità delle condizioni che possono
rendere problematici i positioning degli individui entro le semantiche. Tutte le polarità semantiche
rendono disponibili accanto a posizioni nell'estremo valorizzato, altre più difficili da vivere perché
nell'estremo considerato negativamente.
La collocazione del polo positivo non garantisce all'individuo un futuro privo di problemi. Chi si
colloca nell'estremo negativo può a volte trarre vantaggi dal suo positioning. La collocazione nel
polo connotato negativamente, per quanto fonte di sofferenza, non costituisce un pre-requisito che
interessa trasversalmente tutte le condizioni psicopatologiche.
In sintesi ricevere una definizione negativa di sé non sembra essere una condizione che
necessariamente favorisce lo sviluppo della psicopatologia. Almeno per le organizzazioni
psicopatologiche di cui ci occupiamo qui, l'esordio sintomatico sembra essere connesso più che a
esperienze traumatiche a un positioning che minaccia di privare il soggetto della struttura narrativa
entro la quale poter collocare la propria parte. Il problema – perlomeno nel momento che precede
l'ingresso nella patologia – non è che alcune storie gli siano proibite, mentre altre gli sono permesse,
ma che la stessa possibilità di comporsi entro una struttura narrativa gli è preclusa. È la patologia a
restituirgliela, a caro prezzo.

Cap. 3: La semantica della libertà e i disturbi fobici

I soggetti fobici si sentono sull'orlo di un baratro pauroso. La sensazione di allarme di fronte a un


futuro segnato dal presentimento di accadimenti che si sentono inadeguati ad affrontare, li
accompagna costantemente per questo per loro è così importante per loro disporre di punti di
riferimento. I punti di riferimento, per quanto rassicuranti, sono vissuti come barriere e un soggetto
con organizzazione fobica desidera saltare oltre il limite.
La compresenza della paura di fronte a un mondo costruito come pericoloso e del desiderio di
disfarsi di ancoraggi e nicchie protettive ha una storia. È frutto di un particolare positioning in una
conversazione familiare in cui è dominante un insieme coerente di polarità detto “semantica della
libertà”.
Le polarità principali di questa semantica sono “libertà-dipendenza” e “esplorazione-attaccamento”.
I sé, le modalità con cui vengono costruite le relazioni, i valori a cui i membri di questa famiglia
credono sono intessuti dai significati creati da queste due polarità e da paura/coraggio, le emozioni
che lo alimentano.
A causa di avvenimenti effettivamente verificatosi, il mondo esterno è visto come minaccioso. La
stessa espressione delle emozioni è considerata fonte di pericolo. Proprio perché la realtà incute
paura, i familiari sono spesso percepiti come fonte di protezione e rassicurazione. Si è tuttavia liberi
proprio perché si è in grado di fronteggiare da soli un mondo pericoloso senza l'aiuto dell'altro.
Libertà e indipendenza sono intese in questa semantica come libertà e indipendenza dalla relazione
e dai suoi vincoli.
La conversazione in queste famiglie si organizza preferibilmente attorno a episodi dove la paura, il
coraggio, il bisogno di protezione e il desiderio di esplorazione e di indipendenza svolgono un ruolo
centrale. I membri di queste famiglie si sentiranno, e verranno definiti, timorosi, cauti o, al
contrario, coraggiosi, temerari. Troveranno persone disposte a proteggerli o si imbatteranno in
persone incapaci di cavarsela da sole, bisognose del sostegno.
In tutte le famiglie dei pazienti fobici ci sono personaggi che esprimono l'autonomia in maniera
estrema.
Naturalmente i poli opposti, quali “dipendenza” e “attaccamento”, sono altrettanto importanti e
anche intorno ad essi si strutturano specifiche identità.
Tuttavia si pone maggiore accento sui poli “libertà” e “esplorazione” perché nella conversazione
delle famiglie dei soggetti con organizzazione fobica sono questi i poli più valorizzati, anche se
spesso in modo ambivalente. La semantica di queste famiglie esprime infatti un ordine morale in cui
libertà,, indipendenza ed esplorazione sono costruiti come valori, mentre i legami di attaccamento,
la compagnia dell'altro, sono sentiti come espressione del bisogno di protezione da un mondo
“pericoloso” e di conseguenza sono associati a un certo grado di avvilente dipendenza. I membri di
queste famiglie sentono l'amicizia, l'amore e le altre forme di attaccamento in termini parzialmente
negativi perché le costruiscono come forme di dipendenza. Gli episodi in cui l'individuo riesce a far
fronte da solo alle circostanze sono invece avvertiti come manifestazioni di libertà e di
indipendenza.
In sintesi, in queste famiglie in virtù del prevalere della semantica della libertà persone libere e
indipendenti, qualche volta autosufficienti, si oppongono e si compongono con membri della
famiglia dipendenti, bisognosi del sostegno e della protezione degli altri. E soprattutto coloro che si
pongono nel polo valorizzato sono ammirati, a volte odiati, ma sembrano appartenere, agli occhi dei
pazienti agorafobici, ad altre dimensioni dell'essere: il mondo di questi membri della famiglia non
ha nulla da spartire con loro, sono ontologicamente diversi, quasi fossero semidei.
La presenza della semantica della libertà è una sorta di condizione necessaria ma non sufficiente,
per lo sviluppo della psicopatologia fobica. È il positioning che i soggetti assumono dentro questa
semantica a contribuire in modo decisivo allo sviluppo della psicopatologia.
Tutti i soggetti fobici, pur essendo profondamente diversi l'uno dall'altro per cultura, età, condizione
professionale, personalità, erano accumunati all'inizio della terapia da una posizione nella semantica
della libertà che li induceva a sperimentare un dilemma specifico. La posizione del paziente nella
semantica della libertà è una posizione relativa alla cui costruzione concorrono, oltre al soggetto
fobico, altri membri della famiglia.
Il soggetto fobico tenta di trovare un equilibrio tra due esigenze ugualmente irrinunciabili: il
bisogno di protezione da un mondo percepito come pericoloso e il bisogno di libertà e
indipendenza. Ogni allontanamento fisico o psicologico da tali figure lo pone di fronte al rischio di
trovarsi in balia della propria fragilità e debolezza. Alla base dei problemi del paziente vi è questo
dilemma: esplorare liberamente trovandosi soli, in balia di pericoli che non si è in grado di
affrontare, oppure essere soffocati dalla protezione rassicurante della famiglia o di altre nicchie
protettive.
Per questa organizzazione non è problematico soltanto l'aspetto protettivo della relazione; la stessa
possibilità di costruire e mantenere legami affettivi è avvertita come limitante. Il soggetto fobico
sente l'amore, l'amicizia e tutti i legami come forme di dipendenza. La relazione in quanto tale
diventa, almeno in parte, intransitiva con l'autostima. Disporre di una relazione coinvolgente e
appagante significa essere protetto ma si traduce in un'avvilente dipendenza che restituisce al
soggetto un'immagine negativa di sé. D'altra parte, acquisire un'immagine positiva di sé richiede
essere autonomo, solo ed è un impresa impossibile per chi è cresciuto entro la premessa che il
mondo è pericoloso e la convinzione di essere debole.
Quando episodi e situazioni interpersonali specifici rendono massima la riflessività del circuito
bizzarro, il soggetto non ha più una trama narrative entro la quale con-porsi: la sua posizione è
intrappolata in una serie di prospettive inconciliabili e slittanti.
Con lo sviluppo dei sintomi, l'individuo mantiene la relazione protettiva, ma ciò non costituisce più
un attacco inaccettabile all'autostima. La dipendenza dalla relazione è ora giustificata da un evento
“esterno” non voluto e incontrollabile: la malattia.
La costruzione di emozioni e sensazioni come eventi esterni al sé facilita inoltre il controllo
esasperato delle relazioni interpersonali, caratteristico di questa organizzazione. Tutta la strategia
interpersonale fobica è manipolatoria perché è un tentativo occulto – forse in parte intenzionale – di
indurre l'altro a coinvolgersi e a essere sempre disponibile, senza che il soggetto s'impegni a sua
volta nella relazione. Spesso l'impegno, di una relazione, viene accettato purché l'altro diventi
controllabile. Soltanto così la relazione non intacca l'autostima.
È possibile ricondurre la gamma dei modi di funzionamento precedenti l'esordio sintomatico a un
continuum con agli estremi due strategie: la prima possiamo definirla strategia del distanziamento
emotivo (soggetti claustrofobici), mentre la seconda strategia della vicinanza limitante (soggetti
agorafobici).
I soggetti con strategia del distanziamento emotivo si sentivano, ed erano considerati dagli altri,
persone libere, indipendenti, capaci di cavarsela da sole; prima dell'esordio di collocavano sul polo
positivo della semantica della libertà. Le persone con questa strategia non risultavano mai del tutto
prive di legami, anche sentimentali, come accade invece alle personalità narcisistiche o alle
organizzazioni depressive. È invece caratteristica di questa strategia la difficoltà di mantenere livelli
adeguati di efficacia e competenza in situazioni sentimentali emotivamente dirompenti come
l'innamoramento.
La tendenza a non rompere i legami importanti riguarda l'organizzazione fobica nella sua globalità,
non solo i soggetti con questa strategia. Ciò non significa che queste persone non pongano fine ad
amicizie, relazioni sentimentali e anche matrimoni.
Trasformare la natura delle relazioni è invece una storia permessa: l'ex partner diventerà ad esempio
un amico, una sorta di parente con cui non si ha più né coinvolgimento sentimentale, né progetti
comuni, ma con il quale rimane un attaccamento.
Nei soggetti con strategia del distanziamento emotivo questa tendenza acuisce la paura di
coinvolgersi entro una relazione perché genera il terrore di cadere in balia dell'altro e non essere più
in grado di uscire dalla gabbia che il legame ha creato; di qui l tendenza a scegliere partner più
coinvolti e dipendenti dal legame di quanto lo fossero loro.
Le persone con strategia della vicinanza limitante, di regola agorafobici, si collocavano, anche
prima dell'esordio sintomatico, nel polo svalutato della semantica della libertà: erano definite e si
definivano in modo più o meno esplicito come dipendenti, timorosi o deboli; avevano costruito e
mantenevano relazioni affettive molto strette, in grado di fornire loro un senso di protezione
adeguato; altrettanto caratteristica è la loro tendenza a controllare le figure di riferimento. Ancor
prima che l'esordio sintomatico rendesse questa scelta obbligata, la tendenza a ricercare legami
protettivi era attribuita a cause specifiche inibenti la loro vera natura.
Separazioni e rotture tendono a disorganizzare l'organizzazione fobica nella sua globalità: quando
prevale la strategia del distanziamento emotivo risultano critiche anche le situazioni che possono
essere interpretate come perdita di indipendenza e di libertà; invece sono prevalentemente le
situazioni che comportano una perdita di protezione a mantenere in crisi le persone il cui
adattamento si fonda sulla strategia opposta.
Quali caratteristiche del contesto relazionale in cui si sviluppano i disturbi fobici rendono critici gli
eventi?
Pur riconoscendo varie differenze, tutti riconducono la psicopatologia alla relazione coniugale.
Tuttavia l'attenzione alla sola coppia coniugale è a mio avviso il limite principale di questi modelli.
Questa scelta risulta particolarmente inopportuna in un'organizzazione come quella fobica che
privilegia le relazioni verticali rispetto a quelle orizzontali.
È comunque molto difficile che il soggetto fobico si consegni totalmente alla relazione coniugale
come accade ad altre organizzazioni.
Di regola la situazione relazionale che conduce all'esordio sintomatico rompe la complementarietà
fra la relazione coniugale e un altro sistema di relazioni, altrettanto vitale per il soggetto quanto la
relazione con il partner. Eventi che diventano critici perché alterano la posizione del soggetto fobico
nella semantica della libertà in equilibrio precario fra perlomeno due sistemi di relazioni altrettanto
importanti. Di questi almeno uno è rappresentato da relazioni verticali. E spesso l'esordio
sintomatico produce l'effetto pragmatico di consentire al paziente di mantenere relazioni strette con
entrambi i sistemi da cui dipende, evitando la minaccia che l'uno escluda o ridimensioni troppo
l'altro.
La relazione coniugale e la sua dinamica interna è complementare a un'altra relazione o fascio di
relazioni, se non più importanti, ugualmente fondamentali per il soggetto fobico.
L'esordio sintomatico negli adulti sembra essere l'esito di cambiamenti che alterano l'equilibrio fra i
due sistemi di relazione entro cui il soggetto componendosi contiene la sua riflessività del circuito
ricorsivo.
Secondo Bowlby i disturbi fobici derivano da pattern di attaccamento ansioso sviluppatosi in
risposta agli stessi modelli interattivi riscontrati nei bambini che rifiutano la scuola: la fobia
scolastica è un precursore per agorafobia. Il contesto fobico sembrerebbe, come detto da Liotti,
violare i bisogni biologici di esplorazione del bambino.
Questa spiegazione è in contrasto con i presupposti su cui si fondano le psicoterapie sistemiche.
Esperienze memorizzate di attaccamento ansioso caratterizzano non soltanto l'agorafobia e gli altri
disturbi dello spettro fobico, ma anche altre psicopatologie e, non solo, questi modelli non rendono
ragione del bisogno di libertà e indipendenza caratteristico dell'organizzazione fobica.
Il modello seguente è capace di dar ragione di ciò che più caratterizza l'organizzazione fobica: la
costruzione di attaccamento ed esplorazione come reciprocamente escludentisi. L'adozione di un
approccio sistemico ha permesso di contestualizzare la relazione diadica adulto-bambino all'interno
della rete di relazioni. Il modello convalida l'ipotesi che il bambino abbia una relazione di
attaccamento preferenziale quale quella descritta da Bowlby.. il punto è che questo adulto – che per
semplicità espositiva identificherò con la madre – è coinvolto in un legame affettivo
particolarmente intenso con un membro della famiglia che si colloca nel polo “libertà,
indipendenza” della semantica critica. Si tratta del familiare con cui la madre ja il legame più
intenso. Di regola questa persona è meno coinvolta nella relazione di quanto la madre desidererebbe
da generare nella madre sentimenti di insicurezza e desideri di rassicurazione. Man mano che il
bambino percepisce la propria situazione relazionale costruisce progressivamente il proprio
desiderio di legami affettivi intensi e il bisogno di libertà come reciprocamente escludentisi. La
relazione nella quale è coinvolto con la madre prevede una drastica riduzione dei comportamenti
esplorativi ma questi stessi comportamenti, che la madre scoraggia in lui, sono invece caratteristici
della figura emotivamente più importante per lei.
Mantenere la relazione con la madre significa quindi per il bambino ricevere una definizione
negativa di sé, dove la negatività di tale definizione è data dal fatto che la madre valorizza un
membro della famiglia che ha un comportamento opposto a quello sollecitato nel bambino.
La figura a cui la madre è vincolata non è soltanto indipendente e autonoma, spesso è tale da
suscitare in lei sentimenti di insicurezza e desideri di rassicurazione: la relazione stretta che il
bambino sviluppa con la madre è un tentativo di rispondere adeguatamente a questi stati emotivi di
lei.
Questo contesto intersoggettivo triadico contiene gli ingredienti che strutturano un vero e proprio
dilemma, in virtù del quale attaccamento e autostima diventano intransitivi. Tre aspetti vanno
approfonditi e riguardano: -la posizione della madre, -la dimensione temporale, -le differenze tra il
contesto intersoggettivo che genera la strategia della vicinanza limitante e quello all'origine della
strategia del distanziamento emotivo.
La tesi avanzata potrebbe suggerire un comportamento ambiguo da parte della madre che sollecita
nel bambino certi comportamenti mentre è emotivamente coinvolta con un partner con modalità
interattive del tutto opposte.
Le madri dei pazienti fobici hanno scambi affettivi spesso intensi e reciprocamente gratificanti.
Accade semplicemente che la madre, essendo fortemente coinvolta in una relazione affettiva con un
partner indipendente e spesso “fuggitivo” sviluppi sentimenti di insicurezza e desideri di
rassicurazione. Il bambino, che è organizzato in modo da adattarsi all'adulto che si prende cura di
lui, percepisce questo stato emotivo della madre e sviluppa comportamenti a esso complementari.
La posizione di ciascun membro della famiglia all'interno della semantica della libertà non è
determinata unicamente dalle dinamiche relazionali, ma anche dai processi di sviluppo che creano
vincoli e possibilità. Inoltre la configurazione relazionale illustrata non è esterna e indipendente dal
bambino, non è caratteristica “oggettiva” del contesto.essa è piuttosto un modo attraverso cui il
bambino legge la situazione relazionale entro cui è coinvolto (può esistere soltanto quando il
bambino comincia ad avere una consapevolezza).
Quando l'organizzazione fobica si è costituita – perlopiù alla fine dell'adolescenza - una serie di
eventi possono determinare l'insorgere della sintomatologia fobica. Si tratta di una possibilità, non
di una necessità.

Cap. 4: tra bene e male, i disturbi ossessivi

Nelle famiglie in cui si sviluppano le organizzazioni ossessivo-compulsive al centro della dinamica


emotiva vi è la contrapposizione fra bene e male. La polarità semantica critica è “buono/cattivo”, a
cui si associano una serie di significati che concorrono a creare quella che possiamo chiamare
“semantica della bontà”. L'importanza che questa semantica assume fa sì che la conversazione in
queste famiglie si organizzi preferibilmente intorno a episodi che mettono in gioco la deliberata
volontà di fare il male, egoismo, avidità, godimento colpevole dei sensi, ma anche bontà, purezza,
innocenza, ascesi, così come sacrificio e abnegazione. I membri di queste famiglie si sentiranno di
conseguenza, e saranno considerati, buoni, puri, responsabili, o, al contrario, cattivi, egoisti,
immorali. Incontreranno persone che li salveranno, li eleveranno o, al contrario, che li inizieranno al
vizio, li indurranno a comportamenti di cui potranno poi sentirsi colpevoli. I loro figli saranno
buoni, puri, casti o, al contrario, sfrenati nell'espressione dei loro desideri, violenti nell'affermazione
di se stessi e della propria sessualità.
Per le famiglie di cui ci occupiamo è il bene a essere una privazione di male. La bontà che
ritroviamo in alcuni di loro è “astinente” perché non è altro che un'assenza di male. Buono è chi
rinuncia all'espressione dei propri desideri e alla difesa dei propri interessi, chi si sacrifica, chi si
allontana dalla dinamica pulsionale e non chi è disponibile, accogliente, garbato e generoso verso
gli altri. Cattivo è chi esprime la propria sessualità e le proprie pulsioni aggressive.
Le istanze vitali – sessualità, affermazione di sé, investimenti su persone e cose – sono luogo in cui
si esplica il male, mentre sacrificio, rinuncia e ascesi vengono identificati con il bene.
A causa della concezione astinente, o sottrattiva, della bontà tipica di queste famiglie, le polarità
“puro/impuro” o “puro/vizioso” esprimono forse meglio di bene e male il tratto centrale della
semantica della bontà. Queste polarità richiamano però la sessualità che non sempre è al centro
della conversazione di queste famiglie.
Le emozioni che stanno alla base di questa semantica sono colpa/innocenza e disgusto/godimento
dei sensi. Non stupisce quindi che la cultura di molte delle famiglie in cui si sviluppano
organizzazioni ossessive sia impregnata di valori religiosi, e alcune partecipano attivamente alla
vita religiosa.
Non sempre sono gli impulsi sessuali a dover essere trascesi. A volte ad essere assimilati al male
sono il denaro, il desiderio di emergere, di affermare la propria personalità, le attività
imprenditoriali e le finanze.
Il problema di questi contesti familiari non è quindi la carenza di emotività, è se mai il modo
prepotente, aggressivo, a volte perverso, che accompagna le emozioni, laddove e quando sono
espresse.
Anche nelle organizzazioni ossessive, come in quelle fobiche, si stabilisce un circuito riflessivo
bizzarro che coinvolge i livelli del sé e della relazione. Il dilemma delle persone con disturbo fobico
può essere espresso da questo interrogativo: assicurarsi una relazione affettiva coinvolgente ma
sentirsi per questo soffocati e sminuiti nella propria autostima? Oppure rinunciare ai legami, essere
liberi, ma anche soli, in balia di un mondo pericoloso? Il soggetto fobico, quando la riflessività del
circuito è massima, oscilla fra due prospettive altrettanto inaccettabili: mantenere i legami di
attaccamento, essere protettiti, equivale a sentirsi soffocati da un'avvilente dipendenza; ma
raggiungere l'autonomia, e con essa il rispetto di sé, significa essere sopraffatti dalla paura perché si
è soli di fronte a un mondo pericoloso. Di queste due prospettive, l'una privilegia la relazione
mentre l'altra dà priorità al sé.
Nei soggetti ossessivi la fluttuazione, esito del circuito riflessivo bizzarro, è invece interna al sé: il
soggetto, entrando in relazioni significative, diventa preda di percezioni di se stesso discrepanti. Il
coinvolgimento erotico, ma anche l'investimento su persone o progetti finalizzati alla propria
affermazione personale, rompono il sentimento di unità del sé, perché generano percezioni
antitetiche, o perché creano una scissione fra una parte buona, giusta e una cattiva, sbagliata.
Quando la riflessività è massima il soggetto oscilla tra la percezione di se stesso totalmente
dicotomiche; il coinvolgimento erotico e l'affermazione personale diventano intransitivi con una
percezione unitaria di sé.
Il polo “affermazione di sé” implica collocarsi entro il polo negativo del costrutto buono/cattivo che
per le persone con organizzazione ossessiva è sovraordinato rispetto a tutti gli altri.
Questo dilemma provoca in questa organizzazione del significato scissioni e percezioni di sé
antagoniste. Il soggetto avverte una scissione interna, una contrapposizione fra due percezioni di sé
antitetiche, ossia una parte buona e giusta, che deve essere confermata, e una parte sbagliata e
cattiva che deve essere controllata, combattuta o addirittura soppressa.
Esprimere la propria sessualità e aggressività, ricercare la propria affermazione personale,
coinvolgersi in relazioni appaganti, significa quindi essere cattivi e indegni d'amore; mentre essere
amabili, degni d'amore, richiede l'annullamento, il sacrificio di sé. Di qui l'oscillazione continua fra
un'immagine di sé buona, ma sacrificale, in ultima istanza mortifera, e una vitale, ma
intrinsecamente malvagia, che conduce al rifiuto, alla reiezione.
Questo dilemma conferisce un pathos drammatico al circuito riflessivo bizzarro perché mette in
gioco vita e morte: esse buoni, amabili significa fare un passo indietro rispetto alla vita, morire
(almeno in parte) ma vivere equivale a diventare malvagi, e quindi a esporsi al pericolo sia di essere
rifiutati sia di diventare bersaglio di rappresaglie e vendette. Di fronte a un'alternativa tanto
radicale, il dubbio, la ricerca di certezze e la conseguente paralisi decisionale, che così spesso
funestano la vita di coloro che presentano un'organizzazione ossessiva, si rivelano strategie
intelligenza di sopravvivenza.
Eppure gli altri membri della famiglia sono in grado di fronteggiare questo dilemma insito nella
semantica della bontà, posizionandosi fra gli “astinenti” o tra i “pulsionali”. Gli astinenti possono
essere orgogliosi della loro purezza, possono provare disgusto per chi indulge ai piaceri, così come i
pulsionali possono godere per la soddisfazione dei loro impulsi o sperimentare sensi di colpa per il
loro comportamento.
Due condizioni emotive rendono impossibile alle organizzazioni ossessive posizionarsi con gli uni o
con gli altri o collocarsi serenamente in posizione mediana: una è segnata da paura/angoscia, l'altra
da mortificazione/avvilimento. Il soggetto ossessivo, quando si coinvolge in relazioni gratificanti, si
sente in pericolo, e gli è spesso difficile circoscrivere la fonte del suo stato di allerta. Mortificazione
e avvilimento sono invece avvertite quando rinuncia: sentirsi puro, corretto, significa per queste
persone essere sopraffatti da sentimenti di mortificazione e di annullamento che sono, a loro volta,
generativi di rabbia e di rancore. Sono questi stati emotivi a impedire al soggetto di collocarsi
nell'uno o nell'altro polo e a consegnarlo a un'oscillazione continua: quando la riflessività raggiunge
il suo acme, il soggetto viene fatto letteralmente rimbalzare fra due immagini di sé antitetiche,
perché l'una, generando paura e angoscia, deve essere rapidamente abbandonata mentre l'altra,
creando avvilimento e mortificazione, non può essere mantenuta.
Ciò che contraddistingue le organizzazioni ossessive sono i contesti specifici in cui sono
sperimentate queste emozioni. Inoltre il soggetto con organizzazione ossessiva è l'unico, all'interno
della propria famiglia, a sperimentare, in modo sistematico queste due condizioni emotive.
Ma di che cosa hanno paura i soggetti ossessivi nel momento in cui investono nei confronti di
persone o cose, e si percepiscono come cattivi?
Anzitutto di perdere il legame con le figure principali di attaccamento ma vi è anche il rischio di
punizioni e rappresaglie alla propria integrità fisica e sessuale.
I sentimenti di mortificazione/avvilimento derivano invece dalla rinuncia ai propri impulsi e
desideri. Per il soggetto ossessivo, a differenza di quanto accade ad altri nella sua famiglia, astenersi
dal coinvolgimento pulsionale significa annientarsi.
Gli aspetti cupi e tristi che accompagnano questa organizzazione derivano proprio da questi
sentimenti: l'ossessivo sembra una persona impoverita e svuotata. Proprio la mortificazione,
l'avvilimento, che di regola non vengono nascosti, ma al contrario sono esternati dal tono della
voce, dallo sguardo, dalla mimica facciale, dalla postura, danno la misura di quanto pesi la rinuncia
al piacere alle persone con questa organizzazione. Un sentimento così acuto di privazione non
sarebbe presente se il desiderio non fosse perentorio, se la volontà di affermazione non fosse
prepotente.
Anche quando la riflessività del circuito, essendo contenuta, non produce l'oscillazione critica tra
percezioni dicotomiche di sé, il soggetto con organizzazione ossessiva si trova in quella posizione
mediana tra i due estremi (descritti nel secondo capitolo). Il soggetto con organizzazione ossessiva
non si costruisce invece né all'interno della polarità bontà, purezza né all'estremo opposto cattiveria,
vizio e si mantiene in una posizione mediana. Paura/angoscia e mortificazione/avvilimento sono le
emozioni che accompagnano questi movimenti.
Chi si colloca nella posizione mediana si esprime, e quindi esiste, sbilanciandosi ora verso l'uno e
l'altro estremo e soltanto così il soggetto si definisce come partner e partecipa alla conversazione.
Il soggetto riesce così perlopiù a evitare sia di sentirsi preda di una mortificazione annientante sia di
percepirsi, e di essere percepito, come malvagio e quindi di sentirsi indegno di essere amato e di
venire di fatto rifiutato. Tuttavia quando la riflessività del circuito diventa massima qualsiasi
oscillazione verso l'uno o l'altro degli estremi, per quanto bilanciata, risulta inaccettabile. Ogni
tentativo di autoaffermarsi, di esprimere i propri impulsi e desideri, è accompagnato da una
sensazione di corruzione personale, da disgusto, paura e angoscia. Ogni ricerca di ascesi e di
purezza è segnata da sentimenti di annientante mortificazione e da rabbia, o è turbata dal dubbio che
l'ascesi sia una maschera dietro la quale si nascondono intenti nefandi. Il soggetto entra così nella
zona di naufragio della posizione di mezzo.
L'individuo tenta sempre più di non definirsi rispetto agli estremi, facendo seguire a ogni
spostamento verso un estremo un altro si segno opposto. L'arco di tempo dell'oscillazione diventa di
conseguenza così breve che il soggetto di trova in balia di percezioni di sé totalmente dicotomiche.
È a questo punto che il dubbio, la ricerca di certezze e la conseguente paralisi decisionale diventano
invasivi. Il soggetto rifiuta ogni espressione dei propri impulsi, perché gli restituiscono
un'immagine inaccettabile di sé. Di fronte all'impossibilità di trovare un positioning accettabile
l'ossessivo si attesta caparbiamente sulla propria immobilità. La funzione primaria dei dubbi è di
paralizzarlo.
Grazie a questi dubbi, la persona con organizzazione ossessiva rende a se stesso più difficilmente
praticabili sia la strada del vizio sia quella della virtù, contenendo così paura/angoscia e
mortificazione/avvilimento. Ma è la paralisi. Il soggetto – che è ormai un paziente – rischia
l'implosione, che è il naufragio della posizione di mezzo. Ed è a questo punto del processo che
compaiono i sintomi (ossessioni e compulsioni), diventati ormai gli unici movimenti vitali. In
genere le ossessioni esprimono gli impulsi proibiti e a contenere l'angoscia mentre le compulsioni
sono comportamenti ripetitivi, finalizzati a placare la paura e l'angoscia che le ossessioni suscitano.
Con lo sviluppo dei sintomi il paziente continua a fare quello che faceva prima: si bilancia tra i due
estremi. Il bilanciamento avviene ora però in modo egodistonico: non è più il soggetto a decidere,
son i sintomi a imporsi contro la sua volontà. Il soggetto anche se sa che le ossessioni, spesso a
contenuto aggressivo o erotico, sono produzioni della sua mente, non ne è responsabile perché
subisce come eventi esterni ai quali non può sottrarsi.
Il circuito riflessivo bizzarro contribuisce anche l'ambivalenza e la mancanza di spontaneità, due
tratti dei soggetti con organizzazione ossessiva non meno caratteristi del dubbio e della ricerca di
certezza. Ogni relazione che consente al soggetto di esprimere le pulsioni proibite, poiché lo espone
a rischi terribili, comporta sentimenti ambivalenti. Ma anche le relazioni affettive che lo inducono a
perseguire l'ascesi, il sacrificio di sé, sono segnate da amore e odio: la mortificazione, l'avvilimento
che il soggetto esperisce nel tentativo di percorrere la via della bontà astinente, sono generativi di
odio e rabbia verso chi è all'origine di questa scelta (questo spiega anche il ricorso degli ossessivi
alle pratiche superstiziose).
La mancanza di naturalezza e di spontaneità è invece da attribuire alla posizione mediana. Tale
collocazione richiede di per sé un controllo dei propri comportamenti più elevato rispetto a quello
richiesto dalle posizioni agli estremi: l'individuo in posizione mediana bilanciandosi continuamente
rispetto a chi si colloca ai due estremi della dimensione semantica critica deve mantenere
un'attenzione privilegiata sul proprio comportamento.
Le persone con questa organizzazione esprimono l'assenza di naturalezza nella postura, nel
linguaggio sorvegliato, nello stile di pensiero e in ogni altra manifestazione.
Il soggetto sperimenta che alcune storie gli sono permesse, nel senso che sono per lui facili da
vivere, mentre le altre sono pericolose, inquietanti e quindi proibite.
Per il soggetto con organizzazione ossessiva la vita in quanto tale sembrerebbe una storia proibita.
In realtà tutte le molteplici e quanto mai varie forme di funzionamento individuale che precedono
l'esordio sintomatico sono tentativi di lasciare spazio al coinvolgimento emotivo e all'affermazione
personale. Per i soggetti con questa organizzazione la vita è sì una storia proibita, ma anche
tremendamente ambita.
Semplificando molto, è possibile ricondurre a due la gamma di strategie con le quali i soggetti
ossessivi tentano, prima dell'esordio sintomatico, di contenere la riflessività del circuito bizzarro.
Queste due forme di funzionamento possono essere chiamate strategia della purezza e strategia
della gerarchizzazione del male.
Attraverso la strategia della purezza il soggetto cerca di evitare la percezione dicotomica di sé,
coinvolgendosi in attività pulsionalmente neutre e prestigiose. Le persone con questa strategia
cercano strenuamente di mantenere un'immagine positiva di sé. Anche se non completamente prive
di calore emotivo, di capacità di coinvolgimento epatico e di tenerezza, le persone con questa
strategia presentano un certo grado di coartazione delle emozioni. L'intimità viene avvertita come
gratificante ed è intensamente desiderata. Tuttavia i legami emotivi sono sentiti come pericolosi
perché li inducono a percepirsi come cattivi, indegni. Per questo le persone con questa strategia
controllano e contengono l'espressione dell'affettività, sviluppando a volte una dedizione esclusiva
al lavoro intellettuale, inteso come scienza, arte, religione,... La componente essenziale di questa
strategia è proprio la superiorità: se non morale, intellettuale. Le persone con questa strategia spesso
manifestano orgoglio e alterigia, a volte possono essere arroganti e supponenti. Il sentimento della
loro superiorità, fondata sulla natura prestigiosa delle aree oggetto di investimento, permette loro di
contenere mortificazione e avvilimento, sempre incombenti. Il soddisfacimento degli impulsi che
questa strategia contente è comunque indiretto: i desideri originari sono moritificati, inibiti nella
meta. Anche la scelta del partner rispecchia frequentemente questo schema interattivo. I soggetti
con questa strategia, dovendo limitare drasticamente l'espressione dell'aggressività e della
sessualità, contengono il sentimento incombente di avvilimento e mortificazione scegliendo partner
ambiziosi, aggressivi o sessualmente trasgressivi. Attraverso la relazione con il partner possono così
vivere in modo vicario quanto a loro è proibito, brillare di luce riflessa senza esporsi a troppi rischi,
e naturalmente combattere la negatività del loro compagno, rieducandolo, castigandolo e così via.
La strategia della gerarchizzazione del male è “etica” nella sua essenza. Ma, paradossalmente, i
soggetti che la esprimono tendono a esteriorizzare maggiormente, rispetto alla strategia della
purezza, gli aspetti cattivi di sé. Anche queste persone danno la priorità, nel proprio itinerario di
vita, ad aree neutre, che presentano un distanziamento dall'interazione, ma anche queste aree
devono avere una rilevanza etica. Ciò che è essenziale per queste persone è disporre di principi che
consentano loro di segmentare giustamente il mondo in buoni e cattivi. L'individuo, disponendo di
principi etici sicuri che gli consentono di dividere, con giustizia, il mondo in buoni e cattivi, può
esperire odio, avidità, sadismo verso la parte del mondo identificata come ignobile, cattiva. Le
persone che sviluppano questa strategia inibiscono meno, rispetto ai soggetti che ho descritto
precedentemente, gli impulsi proibiti, soprattutto l'odio, l'aggressività, la rabbia, il risentimento, il
sadismo. La riflessività del circuito viene contenuta sottomettendo tali impulsi a una visione etica: il
sé cattivo viene gerarchizzato dal sé buono. La gerarchizzazione su cui si fonda questa strategia è
esterna e rigida. Il soggetto non valuta via via che cosa è male e che cosa è bene, ma si affida a
principi, a idee codificate, esterne a lui e comunque vissute come tali o a istituzioni. A causa della
riflessività del circuito bizzarro, il soggetto diffida di sé e per evitare l'incertezza deve quindi
affidarsi a principi e ad autorità esterni. Questa strategia, visto che permette una maggiore
espressione degli impulsi, è generativa di personalità più espanse. Le persone con questa strategia
possono esprimere anche aggressività, violenza, sopraffazione purché nella giusta direzione.
Queste due strategie tendono a essere messe in crisi da eventi abbastanza diversi. La prima
(purezza) da episodi che rendono obbligatoria l'espressione dei sentimenti proibiti; la seconda
(gerarchizzazione) tutte quelle situazioni che mettono in crisi i principi che consentono al soggetto
di segmentare il mondo in buoni e cattivi, e conseguentemente di esprimere i propri impulsi cattivi,
sottomettendoli al sé buono e spesso non sono i principi in sé a deludere o vacillare, ma le persone
che li incarnano e l'esito è che l'individuo perde il punto di vista esterno attraverso il quale aveva
gerarchizzato il sé buono e il sé cattivo, contenendo così la riflessività del circuito bizzarro.

L'esperienza con le famiglie delle persone con organizzazione ossessiva dimostra che alcuni
membri di questi nuclei scelgono la via del sacrificio, della rinuncia, senza per questo essere colti da
quei sentimenti di annientamento che rendono questa scelta impraticabile per il soggetto ossessivo.
Altri membri della stessa famiglia vivono le loro pulsioni colpevoli senza essere minacciati da
livelli intollerabili di paura e angoscia.
Perché queste due strade sono invece, nello stesso tempo, ineludibili e bloccate, per il paziente
ossessivo?
Ritengo che entrambi i genitori siano essenziali per la comprensione di questa organizzazione.
Circoscrivendo il campo di osservazione al solo genitore verso cui il bambino ha il legame
preferenziale, il contesto non risulta sufficientemente ampio da includere la configurazione
relazionale necessaria per spiegare gli aspetti caratterizzanti di questa organizzazione. L'altro
genitore non è affatto marginale. Dalla casistica emerge un contesto intersoggettivo triadico, dentro
il quale prende forma e acquista significato la posizione difficile del paziente ossessivo e il dilemma
che lo caratterizza. Questa configurazione è frutto dell'esperienza del paziente.
1) Padre e madre si trovano ai due estremi della semantica critica, e la relazione della coppia è
caratterizzata da processi schismogenetici complementari che rendono il conflitto acuto, a
volte lacerante.
2) La figura principale di attaccamento del soggetto che svilupperà un'organizzazione
ossessiva-compulsiva si colloca di regola nell'estremo bontà, purezza (genitore astinente).
Questa figura con cui il futuro ossessivo sviluppa un attaccamento intenso, spesso esclusivo,
offre al bambino, in contesti importanti, una posizione di parità o di superiorità rispetto
all'altro genitore e ad altri membri della famiglia di livello gerarchico superiore. La barriera
generazionale è così infranta. La figura principale di attaccamento ponendolo in quella
posizione sembra anteporlo al partner e/o ad altri membri della famiglia della sua stessa
generazione. Le motivazioni che il soggetto si dà sono svariate: perché è più sensibile e
buono, o più riflessivo e collaborante o altro ancora. Il bambino sente che l'adulto di
riferimento sta meglio con lui che con il partner. Successivamente la preferenza viene
connessa a qualità che rendono il bambino superiore al partner come persona: è più
intelligente, più creativo e addirittura più maturo del partner.
3) La posizione di superiorità che gli è attribuita stimola il bambino al confronto e alla
competizione con l'altro genitore. Il bambino è dichiarato dalla figura principale superiore
all'altro genitore. Proprio per questo è indotto a pretendere per sé lo stesso trattamento.
Tanto più il bambino è in posizione di superiorità, tanto più la pretesa di uguaglianza con il
genitore “pulsionale” aumenta, e con essa il desiderio di assumerne i comportamenti. Si
aggiunga che il genitore pulsionale dà di regola un'interpretazione malevola dei
comportamenti del bambino: leggerà come seduzione sessuale la ricerca di vicinanza del
bambino al genitore preferito e/o come prepotenza ed egoismo le sue richieste. Il genitore
pulsionale, essendo percepito e percependosi come cattivo, non può che fornire
interpretazioni malevole. Inoltre la sua malevolenza è acuita dalla gelosia e dall'irritazione
per la posizione di superiorità che il partner accorda al figlio. Questi aspetti contribuiscono a
indurre il bambino a percepire in sé pulsioni sessuali e/o aggressive.
4) Il dramma nasce non appena il bambino tenta di esprimere le pulsioni. Il genitore
“astinente”, che è la figura principale di attaccamento, lo rifiuta perché vede in lui i
comportamenti odiati nel coniuge: la stessa protervia, lo stesso egoismo, lo stesso interesse
morboso per il sesso e così via. Il genitore astinente, che sopporta i comportamenti egoisti o
cattivi del partner pulsionale, anche perché spesso ambivalente lo ammira e ne è attratto, non
è certo disposto a subire analoghi comportamenti da parte di un bambino. Se le pulsioni
stigmatizzate sono quelle aggressive, ogni gesto di prepotenza del bambino verso la madre
riceverà una risposta di odio e di disprezzo.
La ripulsa della figura principale di attaccamento ferisce in modo particolare il bambino per più di
un motivo.
a) è carica di un astio sproporzionato al gesto che l'ha suscitata.
b) esprime disgusto per il fatto che il bambino provi impulsi colpevoli (una ripulsa del bambino
come persona).
c) riporta il bambino, improvvisamente e incomprensibilmente, in una posizione gerarchica
inferiore.
Come risultato di questa configurazione relazionale, per il bambino mantenere la propria posizione
di privilegio nei confronti della figura principale di attaccamento significa disconoscere in sé,
negare, quegli impulsi che proprio il confronto paritario con l'altro genitore, prodotto dalla
posizione di privilegio, alimenta e rende ineludibili.
Questa configurazione spiega perché al futuro ossessivo la via dell'ascesi e quella dell'espressione
degli impulsi siano ineludibili e bloccate. Il confronto paritario con il genitore pulsionale e
l'interpretazione malevola che questi dà del suo attaccamento al genitore preferito inducono il
bambino a riconoscere e a sperimentare in sé i desideri colpevoli. Non gli è quindi possibile
collocarsi nella stessa polarità del genitore preferito e seguirne la via della bontà astinenze, senza
sperimentare intollerabili sentimenti di mortificazione.
Il soggetto impara rapidamente che, esprimendo le proprie pulsioni, si scontra con le rappresaglie
del genitore pulsionale, e soprattutto con la ripulsa del genitore preferito: la relazione con la figura
principale di attaccamento si incrina, e il bambino rischia di precipitare dalla posizione di privilegio
alla condizione di infetto, colpevole.
Il genitore astinente non nutre odio per il bambino né lo camuffa, sicuramente rifiuta gli impulsi
sessuali e aggressivi del bambino. Si tratta di un rifiuto netto ed esplicito.
La configurazione triadica descritta presenta analogie con quella che ritroviamo nei contesti in cui si
sviluppano le organizzazioni fobiche?
La semantica critica è diversa. Anche le posizioni del soggetto ossessivo e di quello fobico rispetto
alla figura principale di attaccamento hanno poco in comune. Il soggetto fobico sa che questa
figura, sebbene nutra verso di lui affetto, antepone un altro membro della famiglia. Il futuro
paziente fobico non gode di alcune posizione di superiorità. Al contrario, con il suo ruolo di partner
consolatorio è in una posizione di totale svantaggio rispetto alla persona verso cui la madre
mantiene il coinvolgimento emotivo prioritario. Nel contesto triadico tipico delle organizzazioni
fobiche il confine tra le generazioni è rigidamente mantenuto. Anche quando i due adulti della
configurazione triangolare critica coincidono con i genitori, i desideri edipici non sono centrali. La
configurazione critica tende infatti a farli recedere, anziché stimolarli, perché stabilisce una distanza
invalicabile fra il bambino e il suo “antagonista”.
Nonostante queste differenze, le configurazioni triadiche che accompagnano lo sviluppo delle
organizzazioni fobiche e ossessive presentano un'importante analogia: tutte stimolano nel bambino
l'ambivalenza verso la figura principale di attaccamento, anche se le ragioni che sostengono
l'ambivalenza sono diverse.
La collera, la rabbia che il futuro paziente fobico sviluppa verso l'adulto con cui ha il legame
preferenziale, e i sentimenti di colpa che, di conseguenza, lo affliggono derivano dalle frustrazioni e
dall'impotenza che il bambino esperisce nel suo ruolo di partner consolatorio: la madre non si
consola. Il bambino non è in grado di colmare i vuoti e le sofferenze prodotti dal partner fuggitivo.
Anche il futuro paziente ossessivo può vivere la frustrazione di non poter difendere il genitore
preferito dalla violenza del partner pulsionale, ma ciò che scatena in lui odio e aggressività verso la
figura principale di attaccamento sono le rinunce a cui deve sottostare per essere approvato e amato
da questa figura, e soprattutto le invalidanti ripulse di cui è oggetto non appena esprime le proprie
pulsioni.
Entrambi hanno nutrito, nell'infanzia, sentimenti profondi di amore verso l'adulto di riferimento. Il
genitore preferito dai soggetti fobici è spesso molto affettuoso ed empatico, mentre nel caso degli
ossessivi è una figura meno espansiva, ma capace di tenerezza e benevolenza.

Cap. 5: la semantica del potere, anoressia, bulimia e altri affanni alimentari

il contesto familiare in cui si sviluppano i disturbi alimentari ci introduce in un universo semantico


completamente diverso: l'idea di libertà della relazione è estranea a queste famiglie. Anche il
conflitto fra bene e male è di regola assente.
Ciò che domina la conversazione è la semantica del potere dove c'è chi vince e chi perde, chi ha
successo, chi sa imporsi in famiglia e nella comunità e chi invece si arrende.
Accanto a “vincente/perdente”, un'altra polarità caratterizza queste famiglie:
“volontà/arrendevolezza”. Questa seconda polarità è subordinata gerarchicamente alla prima
secondo un rapporto mezzo-fine: si è vincenti perché si è volitivi, determinati, efficienti mentre si è
perdenti perché si è passivi, arrendevoli, in balia delle sopraffazioni degli altri. La bonarietà,
l'accondiscendenza, l'accettazione della definizione che l'altro dà della relazione sono costruite entro
queste famiglie con passività imbelle, inettitudine.
Vincente/perdente ha una peculiarità che la distingue dalle polarità di cui ci siamo occupati finora:
il suo contenuto è puramente relazionale. È possibile considerarsi vincenti o perdenti soltanto
rispetto agli altri. La polarità vincente/perdente non è invece percepibile, neppure nel corso
dell'esperienza immediata, come un tratto individuale. Essa si riferisce esclusivamente alla
relazione. È l'esito di un confronto.
Le famiglie entro le quali si sviluppano le psicopatologie alimentari sembrano confermare l'ipotesi
originariamente formulata da Festinger che esista nell'uomo un impulso a valutare le proprie
opinioni e abilità in base a quelle degli altri. Nelle famiglie di cui ci occupiamo il confronto, con i
criteri di riuscita e i conflitti competitivi che ne conseguono, guida sia le relazioni interne al nucleo
sia quelle con la parentela.
La ragione dell'attenzione selettiva che queste famiglie attribuiscono alla semantica del potere va
spesso ascritta a una storia di caduta e di riscatto sociale o a differenze di rango tra le famiglie di
provenienza.
Poiché la polarità che è al centro della semantica di queste famiglie è puramente relazionale, la
relazione con l'altro è percepita, in ogni momento e in ogni circostanza, come centrale per la
definizione del proprio sé. Tutti in queste famiglie sono attenti al giudizio degli altri, ai criteri di
riuscita sociale, alle apparenze sociali. Questa attenzione all'altro e al suo giudizio rende i membri
di queste famiglie in prevalenza etero-attributori: essi cioè tendono ad attribuire la causa dei propri
comportamenti agli altri, o meglio considerano i propri comportamenti come risposta a quegli degli
altri. Questa tendenza è massima nell'anoressia e bulimia.
La polarità semantica critica vincente/perdente rende la definizione della relazione fra i membri del
nucleo e i conflitti relativi assolutamente centrali. La lotta per la definizione della relazione è
argomento costante della conversazione di queste famiglie. L'oggetto del contendere, i contenuti del
conflitto sono di regola irrilevanti, mentre chi abbia la supremazia è ciò che conta. Proprio perché il
confronto competitivo regola le relazioni, la definizione delle relazioni tra i membri della famiglia è
instabile, e di conseguenza le identità dei membri sono insicure.
Nelle famiglie in cui si sviluppano i disturbi alimentari chi è nella posizione perdente non accetta la
resa. La ragione è semplice: nessuno può accettare che lo scacco definisca la propria identità.
Accettare la propria posizione, per chi si colloca nella polarità perdente, equivarrebbe ad ammettere
“io sono la mia sconfitta”. Per questo coloro che si trovano in questa posizione, se non hanno
concrete possibilità di scalzare i vincenti, quanto meno ridefiniscono la propria sconfitta come
sacrificio, sviluppando con coloro che si collocano nella stessa polarità e con gli stessi vincenti
quelle escalation sacrificali.
Proprio perché i perdenti non possono accattare la propria sconfitta, i vincenti non possono mai
cessare di lavora alla conversazione della propria superiorità. Tutte le loro energie saranno dedicate
a mantenere e a esibire i segni e i simboli che li rendono superiori. La via seguita dei vincenti
consiste spesso nel presentare se stessi e i comportamenti che li rendono superiori in termini di
oblatività: lavorano tutto il giorno per il bene della famiglia, sono attivi nella comunità, mantengono
contatti sociali e amicizie per aiutare la carriera di altri membri della famiglia, sono efficienti, ben
organizzati, determinati, ecc... naturalmente, nessuno in famiglia crede a queste buone intenzioni,
neppure chi le sbandiera: i vincenti, proprio perché condividono con gli altri membri del nucleo la
semantica critica, sono i primi a dubitare di se stessi, a sospettare che la loro oblatività sia uno
strumento per avere la meglio sugli altri.
La gamma degli stati emotivi alla base della polarità critica, sperimentati in modo caratteristico dai
membri di queste famiglie, comprende vanto, senso di efficacia e competenza personale,
padronanza, dominio, fiducia in se stessi, di contro vergogna, umiliazione, impotenza,
inadeguatezza, gelosia, invidia e rivalità.
Il processo di esteriorizzazione delle caratteristiche individuali tuttavia risulta ostacolato. Poiché
ogni definizione di sé è connotata in termini di più e di meno e dà luogo a una superiorità o a
un'inferiorità rispetto agli altri, le differenze sono immediatamente colte ma temute o addirittura
ritenute illegittime. Le differenze non sono infatti al servizio della cooperazione. Al contrario,
servono all'affermazione della propria superiorità di contro agli altri membri del nucleo, alla
prevaricazione o sono un indizio del proprio scacco, della propria disfatta.
Questa dinamica familiare è inevitabile conseguenza della particolare organizzazione semantica di
queste famiglie, così centrata sul confronto competitivo: quando la competizione raggiunge livelli
estremi, le differenze individuali scatenano escalation competitive e quindi devono essere
ostacolate, o quanto meno contenute, perché rappresentano una minaccia alla coesione e alla
continuità del gruppo.
La rilevanza che assume in questa famiglia la semantica del potere spiega anche un aspetto
caratteristico della comunicazione di questi nuclei: l'elevatissima frequenza di rifiuti. Ben raramente
un membro conferma quanto l'altro sta dicendo, e come si definisce nella relazione. Solitamente lo
contraddice. Tale rifiuto non riguarda però l'invito generico a comunicare, il quale è positivamente
accolto e ricambiato, esso colpisce invece il messaggio in sé, sia nel suo livello di contenuto che in
quello di definizione della relazione.
Eppure tutti in queste famiglie temono il rifiuto come la peggiore invalidazione e ambiscono alla
conferma più che a ogni altro bene. Ma, in un contesto in cui le differenze sono declinate in termini
di superiorità e inferiorità, confermare la definizione che l'altro propone significherebbe esporre se
stessi al rischio di perdere la propria posizione vincente o equivarrebbe a confermare il proprio
scacco.
Anche la posizione delle persone con un'organizzazione tipica dei disturbi alimentari assume,
rispetto alla semantica critica, le caratteristiche di un dilemma o circuito riflessivo bizzarro, che
coinvolge i livelli del sé e della relazione. Tuttavia il dilemma non prefigura, neppure
ipoteticamente, l'eventualità di un'indipendenza dalla relazione né lascia aperta la possibilità di
investimenti sostitutivi su dimensioni svincolate dalla relazione.
Convinzione che la relazione contestualizzi il sé in tutti i membri di questi nuclei, non soltanto in
chi soffre di disturbi alimentari. L'organizzazione semantica di queste famiglie, così dipendente da
una polarità puramente relazionale come vincente/perdente, i conflitti laceranti per la preminenza e
la conseguente cronica instabilità nella definizione delle relazioni, rendono le identità di tutti
insicure e quindi bisognose di continue conferma da parte degli altri. Per questo l'esordio
sintomatico del paziente con disturbi alimentari è perlopiù preceduto da un disagio generalizzato e
da una sofferenza diffusa in tutto il nucleo.
Di certo anoressiche, bulimiche e obesi sperimentano un sentimento di devastante inconsistenza di
fronte alla perdita di relazioni da cui ricevono approvazione e conferme. Inoltre presentano una
sensibilità del tutto caratteristica alle critiche. La disapprovazione, persino di persone poco
significative, innesca una percezione di sé a tal punto intollerabile da produrre un senso di
disorientamento totale.
Il dilemma da esaminare mette in gioco la modalità privilegiata di porsi in relazione di questi
soggetti: “adeguarsi/opporsi”. La semantica critica e la conseguente attenzione selettiva al problema
della definizione della relazione inducono i membri di queste famiglie a costruire le relazioni come
forme di adeguamento all'altro e alla sue richieste, oppure di opposizione. Adeguarsi/opporsi risulta
tuttavia cruciale soprattutto per coloro il cui positioning dipende maggiormente dai membri adulti
del gruppo. Chi desidera mantenere la propria supposta o reale superiorità, o migliorare il proprio
positioning, sente di doversi adeguare a coloro che detengono una posizione vincente nel gruppo
familiare o nella comunità, chi invece è perdente e non individua possibilità di miglioramento del
proprio status, si oppone ai vincenti cercando di delegittimare la superiorità.
Il dilemma, che assume le caratteristiche di un circuito riflessivo bizzarro, si verifica quando sia
adeguarsi sia opporsi diventano inconciliabili con il mantenimento di una percezione definita di sé.
Uniformarsi alle aspettative degli altri significa, per la persona che sperimenta il dilemma, essere
passivo, perdente, sentirsi intruso e di conseguenza sopraffatto. Opporsi comporta recuperare un
senso di efficacia personale, ma equivale a essere rifiutati, e quindi implica perdere la conferma
dell'altro e con essa il sentimento della propria individualità.
Quando la riflessività del circuito è massima l'individuo oscilla tra adeguarsi e opporsi senza trovare
una validazione del proprio sé. Questo momento di grande disagio coincide di regola con l'esordio
sintomatico.
Attraverso il digiuno e il vomito, le anoressiche e le bulimiche si oppongono alle figure principali di
attaccamento intensificandone contemporaneamente il rapporto. Il cibo diventa un'area di scontro e
di combattimento dove la paziente non si adegua alle richieste.
Lo stile riscontrato nelle donne diventate anoressiche o anoressiche-bulimiche in età adulta si
caratterizza per un'adesione totale, spesso conformista, ai valori del proprio gruppo familiare e
sociale. Queste donne assumono comportamenti attesi e premiati dei membri autorevoli del gruppo
e perseguono mete condivise con le figure significative del proprio contesto di appartenenza. Alta
tendenza a dipendere dalla conferma dell'altro e sono perfezioniste.il coinvolgimento emotivo e
sessuale è in genere temuto tuttavia poiché l'identità in tutti i suoi aspetti dipende dall'altro, di
regola sentono come prioritaria l'esigenza di un partner stabile che diventa il centro delle loro
attenzioni.
L'anticonformismo caratterizza lo stile di adattamento opposto, frequentemente riscontrato negli
obesi. Ipercritici con chi si impegna in obiettivi socialmente apprezzati, queste persone tendono a
smascherare coloro che si trovano in posizione superiore. Nei confronti di chi ha uno status
gerarchico più alto ambiscono a porsi come antagonisti e a sviluppare quella specie di parità di cui
gode l'oppositore. La paura di confrontarsi con l'altro entro una relazione sessuale è a volte
maggiore di quella delle persone con lo stile di adattamento opposto. Una relazione intima,
profonda e paritaria rischia di far emergere quella negatività che il loro con-porsi entro gli estremi
negativi della semantica critica alimenta per questo molto spesso, più che partner veri e propri,
scelgono persone che hanno bisogno di loro e del loro aiuto.

L'infanzia nella maggioranza delle anoressiche, bulimiche e anche degli obesi non sembra essere
stata teatro di tensioni o conflitti che possono essere letti come precursori della psicopatologia (a
differenza di fobici e ossessivi). Il dilemma emerge nell'adolescenza o pre-adolescenza.
Con la pre-adolescenza e con l'adolescenza un equilibrio si rompe. Coloro che si collocano nel polo
vincente, come le future anoressiche e bulimiche, per mantenere la loro posizione si trovano ora a
competere con le stesse figure della cui conferma hanno costantemente bisogno. Inizia quindi una
rivalità perlopiù sotterranea con i genitori che si gioca su più tavoli. Abituati a misurarsi con i
coetanei, sollecitati dagli stessi genitori per dimostrare la loro superiorità, con il crescere dell'età si
trovano inevitabilmente a confrontarsi con i genitori e con gli altri adulti della famiglia. I contenuti
sono per altro irrilevanti quando prevale la semantica del potere, quel che conta è chi ha la meglio.
Inoltre i genitori controllano le frequentazioni dei figli per tutelarli. Controlli e limiti risultano
fastidiosi per questi adolescenti non solo perché li considerano non necessari avendo sempre dato
prova di essere responsabili e ciò che li rende particolarmente odiosi è il fatto che sono interpretati
come sopraffazioni. Ai loro occhi il controllo dei genitori è espressione della volontà di dominio, un
tentativo di prevaricarli per mantenerli in una condizione di soggezione e la relazione
complementare con gli adulti viene ora letta in termini di inferiorità/superiorità. Accettare con loro
una relazione complementare viene sentito come passività e asservimento e quindi comporta un
certo grado di intransitività con il mantenimento di un'immagine positiva di sé. D'altra parte opporsi
significa perdere le conferme che l'insicurezza della propria identità rende indispensabili.
L'adolescenza è un periodo difficile anche per coloro che si con-pongono tra i perdenti, come
accade ai futuri obesi. Questa fase del ciclo di vita non è però così critica come per chi si colloca nel
polo valorizzato della semantica della famiglia. Anche per questi ragazzi controlli e limiti posti
dagli adulti sono comportamenti prevaricatori. Tuttavia il conflitto con gli adulti non è per loto
opponendosi a queste figure definiscono la propria individualità. Con l'adolescenza il dissenso verso
gli adulti attivi/vincenti da sotterraneo diventa palese, trasformandosi a volte in aperta ribellione.
L'adolescenza con i normali compiti evoluti che la caratterizzano e gli inevitabili cambiamenti nella
relazione genitori/figli è tale da alimentare i conflitti fra sé e relazione tipici del circuito bizzarro.
Questi conflitti diventano dirompenti per chi come le anoressiche e le bulimiche si collocano nel
polo valorizzato della semantica del potere e queste ragioni contribuiscono a spiegare come mai
anoressia e bulimia insorgano più frequentemente nell'adolescenza di quanto accade per l'obesità.

Le persone con l'organizzazione tipica dei disturbi alimentari di regola sono in grado di elaborare in
modo adattivo il dilemma tratteggiato se possono fare affidamento su una figura di attaccamento
che funga da contesto per la definizione dei confini del loro sé. Possiamo chiamare questo
attaccamento preferenziale “legame confermante”. Finché quindi la configurazione relazionale
consente il mantenimento di almeno un legame confermante, la riflessività del circuito bizzarro si
mantiene entro limiti tali da evitare slittamenti psicopatologici. Va precisato che la figura
confermante delle anoressiche e bulimiche a peso ideale si colloca di regola nella polarità vincente:
come loro, è attiva, capace di iniziativa, volitiva mentre l'adulto che garantisce ai futuri obesi il
legame confermante è invece in posizione perdente.
Il processo interattivo che conduce le persone alla psicopatologia conclamata può essere segmentato
per ragioni di chiarezza espositiva in cinque fasi:
1) Il bersaglio dell'istigazione è di regola un genitore collocato in posizione vincente, quindi
attivo e determinato. Per le anoressiche e per le bulimiche a peso ideale coincide con il
legame confermante.
2) Nel corso dell'istigazione, il futuro paziente diventa un interlocutore privilegiato per
l'istigatore e spesso anche per il più ampio schieramento dei perdenti. Inizialmente questa
nuova posizione ha un valore confermante non soltanto per i soggetti collocati nella polarità
negativa della dimensione semantica critica, ma anche per quelli posti fra i vincenti. I primi
si trovano al centro di attenzioni e di un interesse a cui non erano avvezzi, ma anche i
secondi sono lusingati dalla nuova posizione. In questa fase il soggetto riceve conferme da
entrambi gli schieramenti.
3) L'istigatore non coincide con uno dei genitori. Le sue critiche, e i successivi attacchi del
futuro paziente al genitore vincente, sono tuttavia spesso sostenuti dall'altro genitore.
Quest'ultimo svolge così nel processo una funzione di appoggio all'istigazione.
4) L'istigazione trova terreno facile perché il genitore che ne è il bersaglio conferma le critiche
che gli vengono rivolte con la sua intolleranza verso gli attacchi del figlio, o con
atteggiamenti sopraffattori o semplicemente dimostrandosi infastidito. L'esito è che il
soggetto, deluso, prende le distanze dal genitore vincente e si oppone attivamente a lui. Ciò
accade sia a chi è particolarmente legato a questa figura (anoressiche e bulimiche) sia a chi è
più distaccato (bulimico).
5) Il soggetto, che ormai in questa fase è un paziente, viene deluso dal nuovo alleato e da tutto
lo schieramento dei perdenti. Le ragioni possono essere diverse ma l'esito è che il paziente si
allontana dai nuovi alleati ed è ora solo. È a questo punto che la riflessività del circuito
bizzarra diventa massima.
Nel caso dell'anoressia è centrale la fase 4, in cui la paziente è delusa dal genitore vincente e la
disillusione nei confronti del genitore vincente è invece atroce. Nonostante sia disillusa continua a
rimanere ancorata ai comportamenti e ai valori dei vincenti. Di solito questa figura è la madre.
Per le bulimiche sia la disillusione del genitore confortante che è di solito il padre sia quella
successiva degli istigatori hanno spesso una risonanza emotiva ugualmente forte.
Per gli obesi la fase emotivamente più destabilizzante del processo interattivo è la fase 5 perché li
priva del legame confermante. Anche l'obeso, nonostante la delusione, non si stacca dai valori della
figura di attaccamento preferita, continua ad essere anticonformista e ribelle tuttavia il sintomo
allude alla disillusione. L'obesità è una resa ai vincenti ed è anche una difesa.
Vengono confermate le osservazioni di Guidano. L'anoressia e la bulimia mettono alla prova il
genitore preferito, verificano o tentano di verificare le critiche che gli istigatori suggeriscono loro.
Entrambe provocano attivamente la delusione mettendo in atto comportamento che inducono il
genitore oggetto di critiche a uscire allo scoperto o andando alla ricerca di prove. Al contrario gli
obesi non provocano la delusione dei nuovi alleati e tanto meno dell'adulto confermante e preferito.
L'inaffidabilità di questa figura e la conseguente delusione che il processo istigatorio mette in luce
sono costruite come eventi esterno annientanti.
Le famiglie in cui si originano le organizzazioni del significato tipiche dei disturbi alimentari sono
un vivaio fertile per lo sviluppo delle dinamiche istigatorie e nello tempo sono vulnerabili a tali
dinamiche. Queste famiglie non attrezzano i propri componenti a far fronte a uno degli esiti più
frequenti della dinamica istigatoria ossia la perdita dei legami confermanti.

Cap. 6: la depressione, un problema di appartenenza negata

Come è noto, questa psicopatologia tende a risolversi autonomamente e a ripresentarsi, quando


diventa cronica, dopo un periodo di totale o parziale remissione. Spesso i pazienti descrivono sia
l'uscita che l'ingresso nella malattia come eventi improvvisi, a volte inaspettati.
La maggior parte degli studiosi concorda che la componente genetica per la depressione abbia
un'incidenza del 30-40%.
Bisogna comunque tener conto che la depressione, intesa come sintomo, passa trasversalmente fra
le organizzazioni del significato. Difficilmente ne soffrono le anoressiche, ma molto spesso le
persone obese. Anche i fobici possono manifestare disturbi depressivi, specialmente gli agorafobici,
la cui autostima è strutturalmente bassa perché soffrono per la loro dipendenza. Fra gli ossessivi la
depressione è particolarmente frequente.
Nelle famiglie da cui provengono le persone con organizzazione depressiva la conversazione rende
saliente quella che possiamo chiamare “semantica dell'appartenenza”. Essi fanno capo a due
polarità: inclusione/esclusione, onore/onta e sono alimentati da gioia/allegria – rabbia/disperazione,
le emozioni caratterizzanti questa semantica. L'essere incluso nella famiglia, nella parentela, nella
propria stirpe, nella comunità è per i membri di queste famiglie la cosa più importante proprio
perché nello stesso nucleo c'è chi è escluso, emarginato.
Le rotture con i propri genitori, con la parentela, con la comunità sono frequenti in questi nuclei. A
volte sono definitive, altre volte vengono ricomposte ma sono comunque tali da segnare il destino di
alcuni membri della famiglia.
Le tragedie non sono necessariamente presenti nelle storie familiari dei depressi. Non manca invece
mai la contrapposizione fra chi è al centro del proprio mondo e chi invece è solo, isolato.
Nelle famiglie in cui si sviluppano le depressioni sono spesso presenti personaggi allegri, gioiosi
che di regola sono il perno intorno a cui ruota un mondo familiare e sociale. Con qualcuno la vita
sembra esserci accanita, mentre con altri è stata particolarmente generosa.
È il positionign assunto dal paziente nella semantica dominante a contribuire in modo decisivo allo
sviluppo di un'organizzazione depressiva. Si tratta di un positioning che fa sperimentare ai pazienti
questo dilemma: appartenere equivale a essere indegni di rispetto e di stima, ma essere esclusi, soli,
significa rinunciare allo stato di esseri umani. Due dimensioni irrinunciabili dell'esistenza –
appartenenza e la propria dignità – rischiano di escludersi reciprocamente.
Sono gioia/gratitudine e rabbia/disperazione a scandire il dilemma. La gioia si converte in rabbia e
risentimento che rischiano di degenerare in episodi di violenza verbale o fisica in grado di
minacciare e di distinguere proprio le relazioni interpersonali che garantiscono loro l'inclusione. Il
prezzo pagato al mantenimento dell'appartenenza è infatti altissimo: la propria onorabilità.
Quando il dilemma raggiunge il suo acme, il soggetto oscilla fra due alternative altrattanto
inaccettabili: continuare a mantenere la relazione equivale a essere spregevole, romperla significa
uscire dal consorzio umano. Solitamente comportamenti aggressivi, spesso descritti dal paziente
come acting out, provocano lacerazioni e rotture della relazione ma allentano la riflessività del
circuito. Il soggetto rischia di perdere tutto ciò che aveva, ma la riflessività del circuito si è ridotta
perché il paziente ha perlomeno salvato la propria onorabilità. Sfortunatamente, non appena la
rabbia si stempera, la disperazione per la perdita e la conseguente solitudine irrompono.
Per il depresso la solitudine è una condanna, uno stigma. I soggetti inclini alla depressione soffrono
terribilmente per il loro isolamento affettivo. Anche se autosufficienti, non provano alcun orgoglio
per la loro capacità di cavarsela da soli. Riuscire a stare da soli non è una conquista come per le
organizzazioni fobiche, è caso mai una triste necessità.
Quando il dilemma coinvolge il partner, le emozioni diventano incandescenti. La regola che la
relazione con il partner è in grado di attivare le emozioni più dirompenti è particolarmente vera per
le organizzazioni depressive.
Le situazioni che alimentano il dilemma sono diverse ma di regola i pazienti hanno dato un
contributo determinante nel crearle e nel mantenerle con comportamenti aggressivi o provocatori.
Queste persone contribuiscono attivamente (che non significa intenzionalmente) a sollecitare gli
eventi negativi che le colpiscono in misura maggiore di quanto accade agli altri perché sembrano
mancare di problem solving relazionale.
La forte presenza nella dinamica emotiva dei soggetti depressi contribuisce a spiegare perché è
difficile che le persone con organizzazione depressiva siano palesemente triste e avvilite nel periodo
pre-morboso o, nelle depressioni croniche, durante le remissioni.
Naturalmente quando la depressione irrompe, la disperazione non emerge in momenti circoscritti
come nel passo che ho riportato, ma prende l'intera scena. Allegria, attività, interessi, tutto cade
come un castello di carta e le persone con organizzazione depressiva, diventate ormai pazienti, sono
così disperate che non riescono neppure ad alzarsi dal letto.
L'esordio sintomatico avviene di regola a seguito di rotture, separazioni dal partner o fallimenti
lavorativi. A volte la risposta depressiva è immediata, più spesso insorge più tardi, quando la rabbia
si stempera e la disperazione non basta a ristabilire l'appartenenza perduta perché il partner non
intende coinvolgersi nuovamente. Rabbia e comportamenti aggressivi provocano nel mondo
relazionale del depresso conflitti, rotture e allontanamenti da relazioni significative.
La depressione avrebbe comunque un valore adattivo. Costringe infatti il paziente a mettere fine a
comportamenti interpersonali negativi. Le premesse per il ristabilimento delle relazioni significative
e di conseguenza per la guarigione sono così poste.
I depressi nel momento in cui entrano nella psicopatologia conclamata manderebbero messaggi di
“non attacco” che scoraggiano l'aggressività dei rivali, da solo precedentemente sollecitata
attraverso comportamenti aggressivi e provocatori. La depressione funzionerebbe anche come una
sorta di segnale di allarme che indica allo stesso paziente la necessità di cambiare rotta e invita gli
altri a fare altrettanto.
L'ipotesi che la depressione faciliti il ristabilimento di rapporti interpersonali lacerati dai conflitti
spiega come mai questa psicologia sia clinica. Allora perché le persone con organizzazione
depressiva si comportano in modo così conflittuale da avere bisogno di meccanismi adattivi tranne
drammatici come la depressione?
I pazienti depressi si trovano frequentemente o emotivamente distanti dalla propria famiglia di
origine, con cui a volte avevano interrotto ogni frequentazione, o coinvolti in una relazione
fortemente conflittuale con il partner o reduci da una rottura sentimentale recente. In tutti i casi la
relazione con il partner aveva una posizione così centrale nella loro dinamica emotiva che spesso
era difficile durante la conversazione terapeutica focalizzarsi su altri argomenti. Quello che
bramavano era una relazione affettiva profonda, coinvolgente, fusionale, entro la quale essere
riconosciuti come uomo o donna. Difficilmente erano riusciti a crearla, mai a mantenerla. Anche se
lontana dalle aspettative, la relazione di coppia entro cui erano coinvolti e il conflitto che la
attraversava erano di regola al centro del loro universo emotivo.
Secondo la casistica si può confermare che il depresso è “uno dei pochi pazienti psichiatrici che in
modo sistematico e significativo stabilisce una relazione di coppia stabile. Sicuramente, insieme con
i pazienti bipolari, è quello che ci riesce più frequentemente nel gruppo dei disturbi mentali gravi”.
Il partner può essere estremamente valorizzato: il paziente, perlomeno nella fase iniziale della loro
relazione, l'ha adorato, idealizzato, amato e ha cercato di essere contraccambiato, dedicandogli
tempo, attenzioni, risorse. Quando il partner è idealizzato (o lo è stato) più facilmente la relazione
diventa esplosiva, a volte violenta. Ed alcuni dei pazienti iniziano la terapia proprio per controllare
proprio l'aggressività.
Altrettanto frequenti sono i partner svalutati ontologicamente. Si tratta di una scelta sbagliata in
origine, perlomeno agli occhi del paziente. Sono persone non degne, con cui il paziente sembra
essersi coinvolto per di non rimanere solo. Mantenere la relazione con loro contribuisce a far sentire
il paziente indegno e a escluderlo dal mondo a cui sarebbe stato destinato. La relazione con questi
partner è generalmente meno conflittuale, perché possessività e gelosia sono meno acute. Sebbene
oggetto di radicale svalutazione e di critiche, raramente i pazienti pensano di lasciarli. L'ostacolo
era spesso la gratitudine oppure la mancanza di stima in se stessi. Tuttavia il paziente è convinto che
il mantenimento della relazione aumentasse la sua emarginazione anche se gli consentiva di
scaricare sul partner la responsabilità di un'esclusione di cui sarebbe stato comunque oggetto.
Due configurazioni relazionali risultano ricorrenti nel periodo precedente l'esordio sintomatico:
1) La prima vede il paziente in una posizione di esclusione mentre il partner è al centro di tutte
le relazioni. Il desiderio di un rapporto di coppia fusionale, l'insofferenza verso chiunque si
inserisca nella coppia pongono il futuro depresso in una posizione marginale rispetto a tutte
le relazioni familiari ad eccezione di quella di coppia. Gli altri sono avvertiti come
minaccianti. Quando, perlopiù a causa dei suoi comportamenti aggressivi, s'incrina la
relazione di coppia il soggetto con organizzazione aggressiva si ritrova completamente solo.
Il suo mondo relazionale risulta desertificato perché era connesso agli altri attraverso il
partner. Anche per questo le persone con questa organizzazione, sebbene capaci di rompere
le relazioni, sono riluttanti a chiudere la relazione di coppia e accettano a lungo una
situazione che alimenta rabbia e li fa sentire indegni. Si sentono emarginati, esclusi, ignorati,
sopportati da un partner che ha acquistato sicurezza e centralità proprio grazie alle loro
attenzioni esclusive eppure, nonostante ribollano d'ira, perlopiù esitano a chiudere con il
partner.
2) Nella seconda configurazione il futuro depresso non soltanto è nella posizione di chi si trova
escluso nella propria famiglia nucleare, ma assiste contemporaneamente all'inclusione del
proprio partner nella propria famiglia di origine, inclusione della quale non ha mai potuto
fruire. Generalmente il compagno non ha intenzionalmente cercato di conquistarsi la
famiglia del partner, ciò nondimeno il paziente si sente da questi depredato della sua stessa
famiglia di origine.
Queste due configurazioni, così come l'acuto conflitto di coppia che di regola precede l'esordio
sintomatica depressivo, possono essere meglio comprese se lette alla luce della frattura del soggetto
con organizzazione depressiva con la sua famiglia di origine, presente con regolarità nella casistica.
La distanza emotiva del paziente dalla sua famiglia di origine, a prescindere dalla storia che l'ha
creata, contribuisce a spiegare il conflitto di coppia. Apre infatti un vuoto affettivo che alimenta
aspettative e richieste totalizzanti verso il partner. Induce il paziente, che ha già sperimentato il
dolore della perdita, a non chiudere con troppa facilità, anche se rompere le relazioni è per il
paziente una storia permessa. Gli fa temere l'abbandono: se la relazione di coppia non funziona non
c'è una famiglia di origine che lo accolga e lo sostenga e il partner rappresenta l'unica relazione
interpersonale in cui erano emotivamente coinvolti.
In sintesi, la frattura con la famiglia di origine comporta per il paziente con organizzazione
depressiva un coinvolgimento e un impegno eccessivo nella relazione di coppia e lede la sua
capacità di negoziare le regole della relazione con un partner che ha invece spesso relazioni solide
con i genitori e fratelli. Apre inoltre la possibilità (messa in atto nella seconda configurazione) che il
partner, qualora si avvicini alla famiglia del compagno, sviluppi con questa un legame più intenso
di quanto il paziente sia mai riuscito a realizzare.
Si spiega così l'importanza che la relazione coniugale riveste per questi pazienti e la tendenza ad
aspettative totalizzanti verso il partner.
Ma perché mai hanno consumato una frattura tanto radicale con la famiglia di origine?
Esiste un sostanziale accordo da parte di clinici e ricercatori che l'esperienza relazionale delle
persone con grave depressione sia segnata da un fallimento nelle relazioni primarie. Proprio
l'esperienza di non essere mai stato in grado nel corso dell'infanzia, dell'adolescenza e della
giovinezza di stabilire un legame di attaccamento con almeno uno dei genitori è stata considerata da
Bowlby e anche da molti cognitivisti all'origine della gravi depressioni. È emerso che la perdita o la
separazione della madre prima degli undici anni aumenta il rischio di depressione in età adulta.
Ricerche successive hanno permesso di chiarire che in realtà la variabile cruciale non è tanto la
perdita della madre quanto la qualità delle cure successive. La perdita della madre è quindi un
fattore che predispone al rischio di abbandono e di abuso e proprio questi fattori, prima dei
diciassette anni, duplicano il rischio depressivo in età adulta.
Molti dei pazienti non sembrano essere mai riusciti a sviluppare legami di attaccamento stabili con
nessuno dei familiari. Altri non erano riusciti a mantenerli nel corso dello sviluppo. Quindi è forte
l'ipotesi secondo cui un attaccamento mancato o evitante sia all'origine di depressioni croniche.
Il contesto familiare del futuro depresso sembra essere caratterizzato da una coppia che non lascia
spazio alle relazioni verticali genitore-figlio. Nell'infanzia e nell'adolescenza non ha potuto di
conseguenza sviluppare momenti di inclusione nella coppia. Nelle dinamica familiare in cui si
sviluppano le organizzazione depressivi, il figlio, futuro paziente, non solo non è in alcun modo
triangolato dai genitori ma si sente sostanzialmente ignorato. La dinamica emotiva della famiglia
era centrata sulla relazione di coppia – coesa o conflittuale che fosse – e il figlio che sarebbe
diventato depresso ne era escluso.
L'esclusione da una coppia che accentra su di sé la dinamica emotiva della famiglia, il disimpegno
dei coniugi verso le proprie funzioni genitoriali, generano nel figlio rivalità, gelosia e invidia verso
uno o entrambi i genitori. Il futuro depresso è quindi indotto da queste emozioni a sviluppare una
percezione negativa di sé. Aggressività, odio, rancore verso uno o entrambi i genitori sono ai suoi
occhi ingiustificati, contribuiscono quindi a restituirli un'immagine di sé come persona indegna
d'amore.
In questa situazione relazionale si apre di fronte al futuro depresso la possibilità di prendere posto
tra gli eletti. Stabilire una relazione potenzialmente esclusiva e gratificante con uno dei genitori, o
con un altro membro importante della famiglia, sembra finalmente possibile al futuro depresso, che
naturalmente sarebbe felice di passare dal positioning di escluso a quello di accolto, scelto. La
risposta ricevuta dall'adulto presso cui ricerca l'inclusione è invece una ripulsa indignata. L'offerta
relazionale del bambino è censurata: usurpa una posizione che non gli appartiene. A volte il
bambino non riesce neppure a proporsi al genitore nella posizione di eletto perché l'altro genitore,
con cui il bambino è maggiormente in interazione, blocca sul nascere il movimento relazionale
censurandolo come indegno. In alcuni casi è il bambino stesso che si nega la possibilità di
inclusione fra gli eletti, convinto che una mossa di questo tipo getti nella disperazione uno dei
genitori.
In tutte le situazioni il futuro depresso si trova in una posizione relazionale che gli restituisce
un'immagine negativa di sé: mantenere una posizione di esclusione significa infatti sperimentare
sentimenti di rivalità, invidia e gelosia verso una coppia incapace di offrire momenti di
condivisione. Tentare di spostare il proprio positioning tra coloro che sono amati, onorati, inclusi,
comporta essere indegno e ignobile.
La persona con organizzazione depressiva costruisce la propria esclusione dal gruppo (reale o
supposta) come un'onta, un danno irrevocabile che lede la propria dignità, come un sovvertimento
di un ordine naturale che incrina definitivamente il proprio destino.
Tuttavia tutte le organizzazioni presentano specifiche risorse connesse alla semantica e alla
positioning del paziente. Ad esempio, la semantica del potere conferisce a coloro per i quali è
saliente la capacità di con-porsi entro i contesti lavorativi; anoressiche, bulimiche e quanti si
collocano nel polo valorizzato di questa semantica posseggono inoltre una straordinaria volontà e
determinazione, oltreché una motivazione di successo che sono prerequisiti necessari al
raggiungimento dell'affermazione personale in pressoché tutti i campi.
La semantica dell'appartenenza e la posizione sperimentata dall'individuo con organizzazione
depressiva nell'infanzia o nell'adolescenza forniscono, così come accade per le altre semantiche,
alcune importanti risorse che possono essere utilizzate nel corso del processo terapeutico.
Proprio l'esclusione sperimentata nella famiglia di origine permette alle persone con questa
organizzazione di vivere spesso un'adolescenza e una giovinezza meno problematiche dell'infanzia.
Crescere, e crescere in fretta, per queste persone è spesso una storia ambita. Non avendo avuto
legami stretti, né triangolazioni, lo svincolo dalla famiglia di origine che nell'adolescenza e nella
giovinezza è necessario è per loro una storia permessa e spesso esaltante. L'uscita da casa è per le
organizzazioni depressive spesso a-problematica.
Ma il vuoto affettivo che i soggetti con questa organizzazione si lasciano alle spalle è una spinta
potente a costruire nuove realtà conversazionali, che possono rivelarsi anche pericolose e dipendere
emotivamente da altri.
Ciò che soprattutto il giovane con questa organizzazione cerca di creare è una coppia. Anche negli
stadi successivi del ciclo di vita, vecchiaia compresa, l'obiettivo centrale di queste persone è la
condivisione e l'intimità con il partner. Non avendo legami importanti nella propria famiglia di
origine, in genere le persone con questa organizzazione entrano molto precocemente in relazioni
intime, spesso totalizzanti. Inoltre proprio l'esperienza di essere stato escluso rende la coppia più
ambita.
L'amore romantico, fusionale, dove ciascun partner è il centro dell'universo emotivo dell'altro, è
senz'altro una dimensione del sentire tipica delle organizzazioni depressive. Naturalmente le
aspettative totalizzanti del futuro depresso nei confronti della coppia, la difficile storia relazionale
con la famiglia di origine, candidano la coppia nata su queste premesse al naufragio. L'esito è
spesso una relazione con il partner conflittuale. Tuttavia l'interessa che il depresso ha per la
relazione di coppia e la sua capacità di fusionalità e di intimità costituiscono risorse preziose. Prima
di tutto per loro stessi – infatti sono in grado di costruire e mantenere la relazione di coppia – ma
anche per la terapia – in cui il coniuge diventa una risorsa fondamentale nel processo terapeutico
perché emotivamente legato al paziente.
La capacità fusionale delle persone con organizzazione depressiva è un attrattore potente per il
compagno. Situazioni di coppia apparentemente senza speranza possono inaspettatamente evolvere
positivamente nel corso del processo terapeutico molto più frequentemente di quanto accade con
altre psicopatologie.

Cap. 7: semantica familiare e relazione terapeutica

il terapeuta e la stessa esperienza terapeutica finiscono per con-porsi nella semantica dominante
nella conversazione familiare. Non avremo di conseguenza un unico modo di costruire la relazione
terapeutica ma tanti modi diversi quante sono le semantiche. La variabile cruciale che modella la
relazione terapeutica non è la psicopatologia ma la semantica dominante nei contesti
conversazionali del paziente.
1) La terapia tra esplorazione e protezione. Quando domina la semantica della libertà, il
terapeuta all'inizio del trattamento si troverà collocato nel polo della libertà e proprio per
questo dovrà confrontarsi con la paura del paziente della terapia. Lo spettro della dipendenza
dal terapeuta, la paura di esserne influenzato, la preoccupazione di essere stimolato ad
avventurarsi in un mondo in cui potrà trovarsi allo sbaraglio, rendono soprattutto la terapia
individuale un'esperienza temibile e affascinante. Come conseguenza di queste
preoccupazioni, la richiesta avanzata dal paziente si configura di regola come una cauta
esplorazione, spesso seguita da un rapido allontanamento. Sottrarre le vie di uscita a una
persona cresciuta in contesti in cui domina la semantica della libertà apre la strada a un
dropout. L'alleanza terapeutica può nascere soltanto quando il paziente sarà sicuro di poter
entrare e uscire dalla terapia senza per questo incrinare la relazione. La collocazione del
terapeuta nel polo protezione, che si verifica di regola nelle fasi avanzate del processo
terapeutico, ci fa capire come il paziente non abbia torto nel temere l'esperienza terapeutica.
Una volta che il terapeuta è diventato un affidabile punto di riferimento, le sue aspettative
diventano difficilmente eludibili per il paziente che non può perderne la guida. Le persone
provenienti da contesti conversazionali in cui prevale la semantica della libertà difficilmente
accettano di portare la propria famiglia in terapia e coinvolgere la famiglia d'origine o il
partner in un'esperienza su cui non possono esercitare alcun controllo è per loro più
pericoloso che avventurarsi da soli.
2) Il terapeuta tra antagonista e alleato. Difficilmente, quando la semantica del potere domina
la conversazione, il terapeuta è sentito come una persona intenta a trovare insieme al
paziente e alla sua famiglia una via di uscita. Non si tratta di un problema di diffidenza.
L'ostacolo è rappresentato dall'asimmetria che caratterizza la relazione paziente-terapeuta,
che viene letta attraverso la metafora del potere. La relazione terapeutica è
conseguentemente sentita come umiliante. È un pattern che inizia con i primi contatti. Il
setting può addirittura essere sentito come una sorta di “abuso di potere” e si può avvertire il
fastidio per l'asimmetria della relazione terapeutica, che viene interpretata come
un'asimmetria di potere in cui il paziente è nella posizione one-down. Anche se il terapeuta
evita comportamenti che possono essere letti come prevaricatori, sviluppare l'alleanza
terapeutica con questi pazienti è un'impresa ardua. Laddove è dominante la semantica del
potere si apre per il terapeuta, accanto alla posizione di antagonista, necessariamente da
combattere, quella più promettente di alleato. Il paziente è anche disposto ad accettare una
relazione che in quanto asimmetrica gli è sgradita pur di conquistare un alleato.

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