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HANDICAP E PREGIUDIZIO

OLTRE IL PREGIUDIZIO SULL’HANDICAP

Andare oltre il pregiudizio sull’handicap è possibile attraverso l’educazione di coloro che non
essendo disabili presumono di non essere in qualche modo soggetti a qualche handicap. Il più
diffuso dei pregiudizi è in tale presunzione.
Occorre pensare altrimenti. Il ‘’ci’’ dell’esserci, il ‘’ci’’ si fa cultura e civiltà
È nell’apertura a ogni possibilità che potrà intravedersi il superamento d’ogni pregiudizio; è il senso
ineffabile dell’ulteriorità e dell’eccedenza che non riusciamo in alcun modo a cogliere nell’evento.
Il compito educativo, il compito di un dialogo creativo continuo, si fa a tal punto esigente che solo
nella prospettiva dell’educazione l’uomo può riporre l’accettazione della vita come vita e basta.
Seppur tragica e intrisa di limiti e errori, la vita come donazione di senso nella prospettiva
dell’ulteriorità è anzitutto gioia d’esserci.

INTRODUZIONE

Il termine ‘’ handicap’’ risulta oggi obsoleto. Il continuo utilizzo è espressione del pregiudizio.
Il documento che meglio interpreta una trasformazione concettuale è sicuramente l’ICF del 2001:
 È un modello descrittivo del funzionamento umano, non solo della disabilità
 È un modello universale
 Correla in un quadro sistemico approcci diversi (biopsicosociali9
 Guarda alla persona in relazione al contesto
 Interpreta i fattori che concorrono a formare il quadro del funzionamento umano secondo
un’ottica di equivalenza
Disabilità, il cui significato attuale è il seguente: la conseguenza o il risultato di una complessa
relazione tra la condizione di salute di un individuo e i fattori personali, e i fattori ambientali che
rappresentano le circostanze in cui vive l’individuo. Ambienti diversi, quindi, possono comportare
disabilità differenti a parità di medesime condizioni di salute.

È opportuno sottolineare che la modalità classica di guardare alla disabilità prima dell’ICF faceva
riferimento a un’impostazione del problema ispirata a un modello interpretativo di tipo medico-
sanitario, per il quale la disabilità dipendeva da condizioni di salute.
Nell’ICF il riferimento concettuale non è più la patologia, ma il funzionamento umano. La disabilità
è concepita come un problema complesso. L’eziogenesi della disabilità non va più ricondotta alla

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gravità del deficit, ma alle forme e modalità con cui determinate condizioni di salute interagiscono
con determinati fattori ambientali e personali.
Il problema della disabilità nell’ottica ICF non riguarda solo ed esclusivamente la persona che ne è
afflitta, ma la società intera.
Da tale impostazione si evince l’importanza e il ruolo dell’educazione.

PARTE PRIMA
Siamo tutti non vedenti

IL POTERE DEL PREGIUDIZIO

Il pregiudizio è un potere agito-subito. Chi lo agisce, allo stesso tempo lo subisce nei termini di una
riduzione della possibilità di comprendere la realtà. Chi lo subisce, allo stesso tempo lo agisce
portandone il peso, assumendone i contenuti e le deformità.
Il pregiudizio è soprattutto maschera che la ragione confeziona per se stessa o per l’altro quando la
diversità non è compresa, ma scartata.

UNO SGUARDO ALLA LETTERATURA SUL PREGIUDIZIO

Il termine pregiudizio indica un giudizio anticipato. Vuol dire essere stati superficiali.
Opinio praeiudicata (opinione preconcettata) e praeiudicium (giudizio anteriore) non sono la stessa
cosa.
Occorre spostare il focus dell’attenzione dall’opinione preconcettata, all’ a-priori del giudizio,
ovvero alle strutture di distorsione del senso su cui poggia la presunta bontà di quelle affermazioni,
che sono l’espressione di altrettanti pregiudizi.
Nel darsi ognuno il giusto tempo per riflettere prima di emettere qualsiasi giudizio, si otterrebbe per
tutti la riduzione del rischio di trovarsi oggetto di possibili pregiudizi.
Tuttavia il pregiudizio non è solo un problema della conoscenza, o del pensiero. Travalica la stessa
soggettività.
Il pregiudizio appare come un sfondo di senso antecedente il giudizio e sfuggevole al controllo del
soggetto intento a ‘’pensare’’ la formulazione. Il pregiudizio, quindi, appare al soggetto non come
tale, ma come argomento valido (ovvero fondato).
In generale la psicologia sociale individua nel pregiudizio almeno tre componenti intrinseche:
motivazionale, cognitiva e comportamentale. Secondo Allport la complessità con cui si manifesta

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alla mente l’ambiente sociale, induce l’individuo a elaborazioni semplificanti della realtà utili a
ottenerne la comprensione cognitiva.
Sempre per Allport, anche la paura di ciò che è sconosciuto ha un ruolo determinante nella
costruzione mentale del pregiudizio.
Sherif ha messo in luce come il conflitto e l’emulazione tra i gruppi siano alla base del processo di
costruzione di atteggiamenti e comportamenti pregiudiziali.
Secondo il sociologo nordamericano Rose, il disagio sociale, insopportabile per il singolo, innesca
un meccanismo proiettivo per cui le minoranze funzionano da capro espiatorio dell’insoddisfazione
e del senso di colpa.
Dollar mette in evidenza come l’origine motivazionale del pregiudizio va ricercata nella reazione
aggressiva a particolari situazioni di frustrazione vissuti dal soggetto.
Bacone, scrive, un vero e proprio trattato filosofico sul pregiudizio. Egli con il termine idola mentis,
intende quegli errori o illusioni dello spirito e del linguaggio che allontanano l’uomo da una
conoscenza corretta della realtà. È un livello non cosciente.
Idola fori sono gli errori che derivano dall’uso del linguaggio.
Ogni limitazione al linguaggio, e al suo potere discorsivo, quindi, rappresenta una minaccia alla
reale possibilità di comprensione da parte del soggetto, sia della realtà che di sé stesso.
Il pregiudizio, in tal senso, è malattia del discorso, e più profondamente ancora, del dialogo.

AZIONE COORDINATA DI PREGIUDIZI E STREOTIPI SOCIALI

Lo stereotipo può essere concepito come nucleo cognitivo del pregiudizio. Un nucleo cognitivo
funziona come uno schema mentale, un’immagine coerente e tendenzialmente stabile, in cui alcune
informazioni e credenze circa una categoria d’oggetti (o soggetti) si coagulano per dar vita a un
meccanismo rigido di valutazione. Si tratta di un sistema semplificato di elaborazione
d’informazioni. Gli stereotipi si definiscono come immagini molto semplificate riguardanti una
categoria di persone che vengono condivisi dalla gente.
Il potere dello stereotipo consiste nel trasformare meccanicamente l’ignoto nel noto, nel classificare
il nuovo all’interno delle categorie del vecchio, evitando così l’ansia.
Sue caratteristiche sono: l’origine sociale, la struttura supersemplificata del contenuto, il fatto che
non ha bisogno di essere verbalizzato.
La categorizzazione non è solo un processo mentale, poiché influisce sui comportamenti, modifiche
le condotte.

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Inoltre gli stereotipi, in quanto fenomeni sociali favoriscono il senso d’appartenenza del soggetto al
proprio gruppo (l’ingroup) e allo stesso tempo, concorrono alla percezione di diversità degli altri.
(l’outgroup)
Pregiudizio e stereotipo sono fenomeni complementari.
Lo stereotipo è una forza d’impatto che si impone in primo piano nella relazione. Il pregiudizio,
invece, come nel fenomeno percettivo dello sfondo, non opera in superficie.

IL PREGIUDIZIO: UNA BUGIA NECESSARIA?

La verità, in senso ontologico, è soprattutto risposta ( offerta di senso) alla carenza/ domanda di
senso di cui l’uomo, ogni uomo, è portatore in sé stesso. La verità ontologica è tutt’uno con il
proprio manifestarsi, da cui non si distingue discorsivamente (il verbo si è fatto carne); la falsità per
esistere, ha bisogno d’altro da cui nascondersi (nel mentitore, il falso si nasconde nei panni del vero
e trova vita).
Fatte queste premesse, riprendiamo la breve riflessione di Bion sopra citata, specialmente per
esplicitare lo scopo di questa digressione in relazione al pregiudizio.
Il falso, la bugia, come il pregiudizio, sono costrutti mentali la cui esistenza deriva dall’azione del
pensatore che nega o distorce il vero: in tale senso, osserva Bion, il pensatore è logicamente
necessario per la bugia. In certi casi, tale azione rappresenta il tentativo esterno della razionalità di
resistere (o negare) all’evidenza del vero. Per sottrarsi al pregiudizio, al pensatore è richiesto un atto
di razionale umiltà: accettare la propria inutilità in relazione all’evento della verità che autopone se
stessa. Infatti, continua Bion, il pensatore non ha importanza per la verità.
Ciò che è vero, a differenza di ciò che è falso, non ha bisogno del pensatore per esistere o per
aggiungere altro ‘’vero’’ a se stesso: l’utilità del pensatore, in questo caso, consiste nel farsi
interprete del vero.
Il processo tramite cui la realtà si pone alla coscienza, necessita dell’umiltà del pensatore per
manifestare a se stessa e all’uomo i propri contenuti di verità.

PREGIUDIZI E SCHEMI MENTALI

Nell’ottica di questo scritto, in cui si cerca di portare alla luce le radici culturali del pregiudizio
sull’handicap, risulta decisivo scoprire quale logica presieda alla costruzione di soluzioni
esistenziali di senso, personali o collettive, che implicano il rifiuto o lo ‘’scarto’’ di altri esseri
umani: costretti a vivere ‘’senza senso’’ o ‘’da emarginati’’.
In questo caso, è necessario aiutare l’uomo da un punto di vista educativo a capire che anche il
proprio esserci e progettarsi nel mondo come ‘’senso’’ e valore sono suscettibili di modifiche.
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Le leggi percettive, tendono a chiudere lo sguardo dentro un orizzonte limitato. Di conseguenza,
anche le possibili soluzioni si riducono drasticamente.
Quando lo sguardo sulla realtà è a priori limitato, anche le soluzioni di senso esistenziali subiscono
gravi limitazioni.
Per la pedagogia speciale, il limite rappresentato dall’handicap si pone come sfida consistente nel
riuscire a rileggere il senso del vivere umano dentro la logica della possibilità di sviluppo offerta
dall’educazione.

PARTE SECONDA: LE RADICI CULTURALI


La cultura dello scarto

LO SCARTO CULTURALE

L’umanità è uno spaccato del tutto che ci circonda, così come il singolo uomo è uno spaccato
dell’umanità intera. In virtù di questo reciproco appartenerci, in noi stessi possiamo sondare,
indagare, scoprire, amare e odiare l’umanità intera.
L’uomo è più di una semplice domanda ( Ed io chi sono?) in quanto è già data in lui parte della
risposta: la totalità a cui in se stesso rinvia in qualità di frammento. L’uomo è in sé trascendenza.
Si tratta quasi di una rivoluzione copernicana, non chiediamo più il senso della vita, ma sentiamo di
essere sempre interrogati, avere la responsabilità di rispondere esattamente ai problemi vitali, di
adempiere ai compiti che la vita pone a ogni singolo, di far fronte alle esigenze dell’ora.
L’uomo in quanto frammento per essere compreso necessita di essere visto alla luce dell’intero, a
cui si riferisce, a cui rinvia in sé.
Il termine limite, secondo la radice limes significa linea di confine. Secondo la radice limen
significa soglia, ingresso.
Integrazione non significa imposizione a tutti di un frammento ideologicamente assunto a totalità.
Ogni particolare, specialmente quando il particolare è il singolo uomo, rappresenta un valore
universale in quanto parte ed espressione dell’umanità intera.
Ma ogni singolo uomo, in quanto singolarità, è anche espressione di un altro valore rappresentato
dall’unicità e irripetibilità della sua persona (l’unica diversità che ha valore per l’uomo).
La cultura dello scarto, quindi fa riferimento a un’errata interpretazione del significato frammento,
da un lato, e d’integrazione dall’altro.

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La cultura che scarta l’handicap non lo ritiene ‘’bello’’; il pregiudizio si fonda anche su un
meccanismo estetico. Eppure, dentro ogni frammento d’umanità, anche se ulteriormente
frammentato nell’handicap, si trova lo splendore della vita, dell’umanità.
Osserva Larocca che solitamente di fronte al deficit noi ci facciamo prendere dal particolare
dell’handicap, invece di rimanere estatici di fronte al miracolo della vita e quindi dell’intero che c’è
in quell’altro.
La vera integrazione, consiste nel scartare lo scarto.
Integrare significa rendere accessibile a noi stessi il dono rappresentato da ciò che l’altro è in quanto
‘’altro da noi’’.
Nell’imparare a prendersi cura dell’altro scartato si ottiene per sé, e a livello culturale, il significato
dell’umana esistenza.
Lo scarto è ciò che va assolutamente recuperato in quanto contiene un ‘’dovere essere’’
dell’umanità non ancora esplorato.
L’ideologia si radica nella cultura, che da un lato la genera, dall’altro la copre.
La cultura non è qualcosa di cerebrale o razionale, ma è realtà che segna di sé la sensibilità, la
percezione, il pensiero, la coscienza della persona. L’interazione sociale è il luogo in cui è assorbita
e metabolizzata.
La cultura gli offre una ‘’forma di vita’’, nella quale e per mezzo della quale la sua esistenza
individuale si forma, nella cui cornice può costruire il proprio destino.
La cultura può assumere anche il significato di strumento d’oppressione e d’alienazione,
specialmente per chi è più debole.
La cattiva coscienza si mostra soprattutto nella diffusa indifferenza per la sofferenza altrui, nella
perdita del sentimento di reciprocità.

LO SCARTO DELLA CRISI

Ci troviamo di fronte ad una civiltà della crisi. La crisi si presenta come fenomeno endogeno, forma
e modalità attraverso la quale la civiltà si costituisce e si riproduce.
Lo stato di crisi permanente.
Per l’educatore risulta assai difficile formulare progettualità funzionali all’agire educativo. In
assenza di riferimenti di valore e di senso che siano stabili. Il rischio è dato da scelte esistenziali
derivanti dal ripiegamento dell’io su se stesso: assoluto presente del nulla a cui fa da contraltare la
folle esaltazione edonistica della soggettività.
Ogni crisi è crisalide, cioè vita in trasformazione.

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L’azione del pregiudizio in quanto resistenza al cambiamento impedisce di fatto la positiva
attivazione del dinamismo idoneo a trasformare la crisi in opportunità. La crisalide della civiltà per
potersi realizzare, comporterebbe una trasformazione culturale idonea a liberare la ragione dalle
pastoie del pregiudizio: in primis, quello sull’handicap.
Senza una decostruzione, la società che domani andremo a costruire riprodurrà le deformazioni del
presente. La pedagogia della decostruzione, passo successivo a quello della caduta delle ideologie,
può evitare l’aufheburng della civiltà: ossia il rigenerarsi delle deformazioni del presente nel futuro.
La decostruzione è lo smantellamento psicologico, etico, economico, politico e pedagogico delle
strutture che hanno generato e perpetuano la crisi.

LO SCARTO DELL’EVENTO

Un elemento più evidente di altri di questa civiltà della crisi è la difficoltà di comprensione, tipica
dell’uomo contemporaneo, del mondo, del mondo, della vita, della realtà.
La crisi si riflette particolarmente sull’educazione.
Ci troviamo davanti all’incommensurabilità tra senso ed evento, segno ed evento.
La civiltà della crisi si concretizza filosoficamente come ‘’eccedenza’’ dell’evento rispetto al segno-
discorso con cui se ne tenta l’interpretazione.
L’uomo per uscire dalla civiltà della crisi necessita quindi di un logos (senso-discorso) forte, in
grado di attingere l’eccedenza di senso di cui è portatore l’evento.

LO SCARTO SCIENTIFICO

Il problema che ci si pone da un punto di vista epistemologico è come riuscire a cogliere la


complessità di cui è intrisa la realtà, senza ricorrere a strategie di conoscenza semplificati o, peggio
ancora, mutilanti il dato di realtà.
La filosofia moderna, quella che ha posto le basi della scienza con Cartesio, separò nettamente tra
ego cogitans (io pensante) e res extensa (cosa pensata). Questa separazione è considerata la base di
partenza del pensiero disgiuntivo. Nel XX secolo è stata introdotta un’ulteriore disgiunzione ‘’La
riduzione del complesso al semplice.
Così come Pascal aveva intuito, l’uomo si trova in mezzo a due infiniti, l’infinitamente piccolo e
l’infinitamente grande; la scienza oggi vive nella sua struttura epistemologica fra due brecce; la
breccia microfisica in cui si rivela l’indipendenza di soggetto e oggetto (teoria quantistica); la
breccia macrofisica che unisce in un’unica entità i concetti di spazio e di tempo (teoria della
relatività).

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È come se ci trovassimo di fronte a una nuova forma d’alienazione, portata avanti da un potere, il
potere scientifico, che non si limita solo a fornire strumenti ma soprattutto ‘’forme di conoscenza’’
della realtà preconfezionata, denominabili dall’uomo solo nella forma dell’uso e non della
conoscenza.
Turing fa una previsione sociologica, secondo cui, ci sono due punti particolarmente rilevanti:
3) Inizieremo a comportarci noi stessi in maniera più simile a quella delle macchine
4) la nostra immagine di noi stessi diverrà più simile alla nostra immagine delle macchine
Se l’uomo non riuscirà a contrastare queste due ipotesi c’è il rischio che venga meno il suo ruolo nel
mondo. Salvaguardare l’umanità da tale processo d’oggettivazione, comporta, riscoprire e
valorizzare la soggettività nel suo significato più profondo.
Nel mentre, le ricerche avanzano, l’unica cosa certa su cui possiamo contare e ‘’operare’’ è la
dignità umana.
Secondo Popper il valore di verità di una teoria scientifica è solo quello di resistere ai processi di
falsificazione a cui è sottoposta in un determinato momento.
La scienza, in futuro, per non tradire il suo scopo, dovrà porre le basi perché si costruisca un reale e
autentico dialogo con gli altri saperi.

RAZIONALAITA’ NON SCIENTIFICHE

Esistono diversi tipi di razionalità, legati ai diversi significati di ragione.


Habermas prospetta una nuova concezione di coscienza, da intendersi come intersoggettività. Ciò
significa che il paradigma di riferimento dell’analisi sociologica è l’intersoggettività.
Per intersoggettività s’intende la trama di significati e d’azioni all’interno dei quali è inserito il
soggetto, indipendentemente dalla consapevolezza che questi ha di appartenervi.
Esistono quindi, razionalità diverse, che fanno riferimento a mondi diversi, a linguaggi diversi.
Solo la complementarietà argomentativa delle diverse razionalità può permettere all’uomo di
cogliere se stesso e la realtà in modo completo: senza scarti. Il pregiudizio sull’handicap si sviluppa
all’interno di una razionalità che afferma e impone il proprio potere sulle altre, in quanto, ignorando
la ‘’possibilità del limite’’, impone limiti alla possibilità.

PARTE TERZA: L’HANDICAP


Vedere l’uomo al di là dell’handicap

PREGIUDIZI, STEREOTIPI E HANDICAP


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Significa vedere nell’handicap l’uomo, il limite di ogni uomo.

HANDICAP VISTO DA VICINO

Il termine handicap rinvia alla frase ‘’hand in cap’’, mano nel berretto.
Il termine handicap si collega originariamente anche alle corse dei cavalli. In questo senso assume il
significato di svantaggio imposto ai cavalli migliori, consistente in un peso aggiuntivo da portare
durante la competizione.
Tale terminologia è nel tempo divenuta la modalità denotativa, si vive una condizione di svantaggio
rispetto agli altri.
Connota l’intera persona, inferiore, imperfetta, sbagliata.
In base al sapere pedagogico speciale, il termine handicap indica una condizione di svantaggio
sociale, nonché uno stato di bisogno derivante da specifiche difficoltà che il soggetto incontra
nell’ambiente e nei confronti delle quali è possibile e auspicabile intervenire attraverso
l’educazione.
Nel fare educativo, osserva Larocca si manifesta come resistenza alla riduzione d’asimmetria tra
essere e dover/poter essere.
Nel linguaggio comune deficit e handicap sono assimilati l’uno all’altro.
Deficit infatti, indica perdita, alterazione, anomalia a carico di strutture e funzioni psicologiche,
fisiologiche e anatomiche; può essere permanente o transitorio, il cui prodotto sociale più nocivo, è
proprio la situazione di handicap.
Tenere distinti handicap da deficit, è fondamentale per procedere in ulteriori riflessioni.

TEORIA DEGLI INSIEMI E PREGIUDIZIO SULL’HANDICAP

Con il termine insieme si intende un aggregato o gruppo di oggetti di qualsiasi natura.


Ordinamento e ripartizione sono i due fondamentali principi di organizzazione di un qualsiasi
insieme.
È per un errore logico che il termine handicap è finito col definire una specie dentro il genere
uomini.
È questa la logica illogica che si nasconde dietro l’uso comune della parola handicap, divenuta per
antonomasia giudizio di quasi umanità.
C’ è qualche meccanismo in atto per cui la diversità, predicato fondamentale della molteplicità,
laddove c’è handicap diventa ipostasi, ovvero elemento sostanziale con cui contraddistinguere una
nuova categoria dell’umano.

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Il pregiudizio sull’handicap, fa riferimento a un sistema simbolico che scarta, quel frammento di
umanità, che è il disabile.
La prospettiva dell’integrazione è quella che non si accontenta delle categorie, non si accontenta
quindi delle distinzioni per deficit o per anomalie o per elementi di difficoltà nei confronti
dell’organizzazione sociale, ma cerca di vedere gli individui singolarmente, ciascuno con i propri
bisogni, per capirne in pari tempo la loro originalità e gli elementi di condivisione.

HANDICAP, PREGIUDIZIO E SCARTO: DUE CASI EMBLEMATICI

Lasciatemi morire
PAGINA 81-82

DISFUNZIONE O RESPONSABILITA’ MORALE?

Gli studi di Pettigrew mettono in evidenza il fatto che i fattori situazionali e socioculturali possono
determinare il pregiudizio anche in assenza di disfunzioni della personalità.
Bauman in Modernità e Olocausto, sempre a proposito dello sterminio degli ebrei, mette in luce
come il regime nazista generò e utilizzò scientificamente pregiudizi e stereotipi sociali contro gli
ebrei, per inibire la responsabilità morale del popolo tedesco di fronte al crimine dello sterminio.
Osserva, Bauman che, per far funzionare questo sistema, il bersaglio dell’ingiustizia doveva
diventare una categoria astratta e stereotipata: ‘’Finché gli ebrei furono soltanto ‘’pezzi da museo’’,
qualcosa da guardare con curiosità, resti fossili di una specie mitica, con la stella gialla sul petto,
testimoni del passato esclusi dal presente, qualcosa che bisognava andare a cercare lontano’’.
Per rendere agli occhi di una persona ‘’normale’’ (perché così erano coloro che compirono lo
sterminio degli ebrei) il vicino, un estraneo, l’amico d’infanzia un ‘’nemico’’ e alla sofferenza
dell’altro qualcosa di ‘’giusto’’, è stata necessaria l’azione subdola di qualcosa di particolarmente
potente, efficace. Si tratta di ciò che viene descritto come ‘’macchina’’ della distruzione umana.
Il primo e fondamentale passo di questa logica disumana è il fatto di essere un atto culturale.
La vera difficoltà è consistita nel collocare l’umanità dell’altro su un piano di valore e significato
inferiore rispetto a quello di tutti gli altri.
Il passaggio più subdolo consiste nel far percepire chi ci è uguale come se fosse diverso per poi
trasformarlo in ‘’cosa’’ e successivamente in ‘’scarto’’ d’umanità.
Si fece leva sul pregiudizio culturale dell’inferiorità.
Il pregiudizio è qualcosa che imprigiona le persone, le rende diverse da quello che sono e le
allontana le une dalle altre.

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L’ALTRO PER IL REALISMO INGENUO

Il realismo ingenuo si fonda sull’assunto di base denominato ‘’ipotesi della costanza’’ secondo cui
gli oggetti sono percepiti quali esse sono nella realtà oggettiva. Fisica, cosicché l’esperienza
soggettiva si caratterizza come ‘’copia’’ della realtà.
La percezione della realtà si fonda su processi mentali- in gran parte inconsapevoli.
Anche la percezione dell’altro come handicappato non può essere spiegata come dato fenomenico,
ma come processo mentale, ovvero: programma che rimanda a una memoria e a un apprendimento.
Anche la percezione dell’altro come handicappato è una costruzione mentale, espressione di un
apprendimento che ha radici nella cultura che ha caratterizzato il percorso educativo.
In particolare, nella relazione educativa sono i livelli analogici della comunicazione (pause, toni,
sguardi ecc..) molto più di livelli numerici (parole, concetti, ragionamenti) condizionare la
percezione e a trasmettere il valore attribuito all’altro.
Ogni dato è sempre mediato.
Sarà lo stigma, a questo punto, a determinare la modalità della comunicazione e dell’interazione,
‘’più di ogni altro, una persona in situazione di handicap vive nel rapporto con il prossimo e nel suo
sguardo, interiorizzando il modo in cui viene percepito’’.

UN DIFETTO DI RAGIONE: I TUNNEL DELLA MENTE

Il termine tunnel della mente, rinvia a nuovo inconscio che non è quello già esplorato dalla
psicanalisi che coinvolge la sfera emotiva, bensì uno che coinvolge sempre a nostra insaputa la sfera
cognitiva, cioè l’universo dei ragionamenti, dei giudizi, delle scelte tra diverse opportunità, dei
contrasti ben ponderati tra ciò che è ritenuto probabile e ciò che è ritenuto improbabile.
L’indagine di Palmarini sui tunnel della mente, ne porta alla descrizione di otto, ognuno con
specificità e caratteristiche proprie:
1. Le scelte incorniciate: quando di fronte a opzioni perfettamente equivalenti da un punto di
vista probabilistico, la scelta ricade solo su una e non si vede l’equivalenza con le altre
2. La segregazione delle decisioni: la nostra attenzione è completamente occupata da un
particolare
3. L’effetto congiunzione: quando posti davanti al problema di dover scegliere tra varie
soluzioni, la nostra scelta ricade su un’ipotesi congiunta e non su un’ipotesi disgiunta,
nonostante si sappia che è assai improbabile che due fenomeni si presentino insieme e
congiunti, piuttosto che separati e disgiunti. Avviene che, ciò che ha meno probabilità di
verificarsi sia scelto solo perché ci sembra più tipico

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4. La disattenzione per la frequenza di base: quando nel prendere decisioni su determinate
questioni, cadiamo in errore perché tendiamo a non mobilitare tutte le conoscenze, in quanto
attratti da ciò che è tipico
5. La confusione tra correlazioni di causa ed effetto e le correlazioni di frequenza
6. La confusione tra il concetto di causa e quello di probabilità
7. L’effetto certezza: assegnare un peso maggiore ai risultati certi, piuttosto che a quelli incerti
8. L’effetto incertezza: ovvero la prudenza irrazionale, quando di fronte a due o più situazioni
delle quali non sappiamo ancora quale si verificherà, pur sapendo che almeno una
certamente avverrà, la nostra immaginazione resta bloccata.
I tunnel della mente hanno in comune la propensione psicologica del soggetto a ritenere più
probabile ciò che gli riesce più facile immaginare o che appare tipico.
Molte opinioni che riguardano il mondo dell’handicap risentono proprio di questa tendenza
psicologica al ‘’tipico’’.

IL PREGIUDIZIO DELLE VITTIME: ‘’LA ZONA GRIGIA’’

Zona grigia, come realtà complessa, che non si presenta nella semplificazione concettuale, alla
divisione delle cose in bianco e nero, in quanto appunto zona grigia.
Bisogna dire però che è un pregiudizio sull’handicap anche l’idea che ci sia sempre solidarietà tra
gli oppressi, tra i sofferenti. Avvicinarsi alla disabilità con l’idea che laddove c’è la sofferenza c’è
sicuramente solidarietà e ogni altro valore positivo, significa non conoscere a fondo la realtà.
Il male più grande di chi ha una disabilità consiste proprio nel sentire di dover vivere isolatamente il
proprio dolore, la propria sofferenza, il proprio carico di fatica.

IL DEFICIT: UN MURO PER L’HANDICAP

L’impalpabile muro è da vedere volta a volta nella singola persona che lo innalza.
Il muro impalpabile del rifiuto del diverso, a cui concorrono pregiudizi e stereotipi, impedisce a chi
lo ha innalzato di vedere nell’handicap (qui inteso come limite intrinseco alla natura umana) una
realtà che attraversa trasversalmente l’umanità, e quindi ognuno in sé stesso, in quanto indigenza
cronica di senso, richiamo insaziabile d’ulteriorità.
La percezione umana, come pure il pensiero analitico della scienza, tendono a frantumare l’intero
per analizzare le parti.
L’azione del pregiudizio sull’handicap, in quanto azione di scarto, concorre a replicare tale
atteggiamento nel contesto delle relazioni interpersonali. Tutto ciò a scapito di una vera cultura
dell’integrazione.
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Pregiudizi e stereotipi generano atteggiamenti di distanza.

PARTE QUARTA: OLTRE IL PREGIUDIZIO SULL’HANDICAP

Recuperare la vista

SUPERARE LA CULTURA DEL PREGIUDIZIO SULL’HANDICAP

Ogni azione tesa a un qualsiasi cambiamento deve quindi agire su entrambi i fronti. Non si può
agire con la speranza di cambiare il tu se non si è aperti anche alla possibilità del cambiamento del
proprio io.
L’azione educativa idonea a contrastare il pregiudizio sull’handicap richiede interventi globali,
ovvero capaci di incidere sulla visione della vita dei soggetti, intervenendo sia sul contesto sociale
di appartenenza, sia sul sistema di significati e valori.

RESISTENZA AL CAMBIAMENTO

Non sono le esperienze di incontro e/o di conoscenza diretta di persone che hanno deficit e/o
minorazioni a generare l’atteggiamento di pregiudizio nei loro confronti.
Il pregiudizio sull’handicap precede l’esperienza dell’incontro con chi ha disabilità. Tuttavia le
forme e i modi di tale incontro sono dati dall’educazione.
Per tale ragione, per modificare atteggiamenti pregiudiziali e stereotipi è necessario ripartire
dall’educazione, e attraverso essa ottenere le trasformazioni idonee a superare le invisibili barriere
interpersonali che si frappongono tra le persone.
Calegari osserva che la semplice informazione non muta, non altera necessariamente
l’atteggiamento e il comportamento della persona prevenuta. Più efficaci si sono dimostrati i
contatti diretti.
Tuttavia, bisogna considerare che l’apprendimento è fortemente condizionato dalle difese dell’io: è
più difficile disimparare che non apprendere. Le vecchie abitudini divengono parte integrante
dell’identità.

ESPERIENZE DI RIDUZIONE DEL PREGIUDIZIO A CONFRONTO

Allport, IPOTESI DEL CONTATTO. La promozione sociale del contatto fra i gruppi in cui si
evidenziano atteggiamenti pregiudiziali, può ridurre gli effetti negativi del pregiudizio.
Ha comunque evidenziato importanti limiti rispetto all’obiettivo di ridurre il pregiudizio.
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Il cambiamento prodotto non andava al di là del contesto sociale in cui è avvenuto il contatto.
Si tratta del principio della regressione degli atteggiamenti, secondo la quale, dopo un certo periodo
di tempo le opinioni tendono a regredire, anche se non del tutto, verso il punto di vista originario.
L’ipotesi del contatto si rifà alla teoria dell’identità sociale, ovvero la concezione che essendo le
appartenenze di gruppo ad alimentare le rappresentazioni del sé, in base al processo di appartenenza
vissuta dal soggetto, si producono importanti conseguenze per ciò che riguarda la condotta.
Il pregiudizio sull’handicap fa riferimento a logiche di scarto dell’altro che nulla o poco hanno a che
fare con i problemi da cui nasce e si sviluppa l’ipotesi del contatto di Allport.
Tuttavia, da tale ipotesi si possono ricavare utili indicazioni anche per la lotta al pregiudizio
sull’handicap, specialmente a livello legislativo.
La legislazione deve tenere conto che tra coloro che sono affetti da qualche handicap e coloro che
invece godono di perfetta salute ci sono condizioni di partenza diverse. Ignorare questo fatto,
magari in nome di una pseudo eguaglianza porterebbe a un’esclusione subdola di chi, pur essendo
persona come gli altri, in assenza di tutele finisce per essere discriminato e marginalizzato.
I programmi che ‘’mostrano l’handicap’’ al grande pubblico, puntano spesso solo sull’emotività
con il risultato che si finisce per ottenere la socializzazione del dramma umano ma non delle ragioni
attraverso le quali, il dramma andrebbe letto e decodificato.
I pregiudizi non possono essere eliminati chiedendo a chi ne è pervaso di rinunciare a determinate
idee e valori, senza offrirgli in alternativa altri valori e idee. E ciò è possibile con l’educazione.

RICCHEZZA DEL DIVERSO

Il diverso fa paura in quanto rappresenta il nuovo, l’imprevisto, l’estraneo, il non uguale.


Laddove impera il pregiudizio, si è instaurato il rifiuto della ricerca del significato, del valore e
della ricchezza della diversità.
Ma per cogliere la ricchezza del diverso, è necessario il confronto con la sua persona, la sua
individualità, il suo volto e il suo nome.
Il nome identifica, differenzia e pone il valore della singolarità (Pascal).
Il nulla, è potere senza nome. Non dare un nome al proprio desiderio di libertà, di vita, di felicità è
ciò che di più distruttivo è vissuto oggi dai giovani.
Il male, si nutre del nulla. Il potere del nulla è di agire senza senso.
Ogni uomo è una domanda di umanizzazione. L’umanità non è già data, è una specie, in tensione
continua tra essere e poter/dover essere: insaziabile desiderio di ulteriorità.
L’elemento portante di questa umanità-domanda, quindi, è proprio il riconoscimento reciproco
dell’io e del tu nella relazione, l’incontro-dialogo tra persone che hanno un nome e quindi di
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riconoscono nel loro sapersi simili ma anche diverse. Il processo di costituzione d’umanità, si
estrinseca con la relazione e nella relazione. Chiusura è de-umanizzazione.
La propria umanità nessuno la possiede, ma la scopre nella relazione con l’altro, con la realtà. Nella
dimensione dell’apertura alla vita ognuno scopre se stesso, il proprio volto umano.
La relazione si fa umanizzante nel saper essere accanto.
Essere accanto in tal senso umanizza la relazione, insegna a comunicare, ad ascoltare a collaborare,
a vivere e a trasformare la propria solitudine in un’esperienza di solidarietà.

ULTERIORITA’

L’uomo cresce e si sviluppa psicologicamente nella misura in cui passa dalla logica dell’io alla
logica del tu; dal principio di piacere, al principio di realtà.
Al di là del proprio baricentro… l’ulteriorità.

VALORI LIBERANTI

Ciò significa che per sbilanciarsi non bisogna sganciarsi dal Sole, senza il quale tutto diventerebbe
nient’altro che un eterno precipitare.
Il nostro disequilibrio, quindi, è tanto maggiore quanto maggiore è il legame con la terra e con il
sole.
Il disequilibrio funzionale all’educazione dell’uomo non può prescindere dal legame con la realtà,
da un altro, e dalla tensione verso i valori dell’altro.
Solo l’educazione ai valori rende possibile all’uomo un vero e proprio cammino di sbilanciamento
verso l’altro e il dialogo creativo con la realtà: Una cattiva educazione, ossia un’assenza o una
carenza, o una distorsione o una incoerenza nella presentazione dei valori, non può che dare uomini
folli, trasgressivi, non creativi.

SAPERSI ORIENTARE

Oggi viviamo in un contesto nel quale il mondo delle relazioni umane è sganciato da prospettive di
valore: da qui il disorientamento esistenziale. Non si tratta dei valori presenti, più o meno rifulgenti,
nei modelli di questa o quella cultura, ma di quelli eterni e universali, quelli che attirano i bambini
alla vita, gli artisti della bellezza, gli scienziati della verità, i santi del bene, tutti gli uomini all’unità.
I valori culturali, per quanto importanti, non sono sufficienti all’educazione perché, come osservato
da Nietzsche, sono troppo umani.

LA MERAVIGLIA
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Il termine meraviglia, negli antichi, è considerato il principio della filosofia.
Nell’età moderna, la meraviglia, è considerata da Cartesio, la prima di tutte le passioni.
Socrate è sapiente, in quanto, nonostante, le sue ampie conoscenze, rimane nel dubbio che la
ragione possa esaurire la profondità del reale. Teme che il sapiente possa cadere nella presunzione
di poter prosciugare il mare del mistero, con la cannuccia della ragione.
Proprio dalla percezione dell’abisso nasce la meraviglia.
La meraviglia e lo stupore nascono dalla disponibilità a lasciarsi interrogare da ciò che per altri è
scontato.
L’epochè è l’atteggiamento mentale che pone tra parentesi giudizi e pregiudizi, sia del senso
comune sia delle teorie scientifiche. Con l’epochè è la stessa familiarità del mondo che è sospesa.
L’epochè diviene così l’atteggiamento fondamentale dell’uomo che desidera andare oltre il
pregiudizio.

PREFERISCO DI NO: L’EPOCHE’ PER IL DIALOGO CREATIVO

Superare il pregiudizio dell’handicap, risulta possibile laddove si riesca a porsi dinanzi all’altro, al
diverso, senza fretta, senza angoscia, in un atteggiamento di coinvolgimento, di apertura.
Il conoscere è in realtà un cum-nascere, ovvero: il disvelarsi reciproco della coscienza all’oggetto e
dell’oggetto alla coscienza.
Nel riconoscere in sé stessi i propri scarti, le proprie disabilità, e nel saperli integrare grazie alla
propria autoeducazione, si pongono le basi per l’integrazione di ogni altra alterità e diversità.

PARTE QUINTA: PROSPETTIVE EDUCATIVE

Nel dialogo creativo del con-essere l’antidoto al pregiudizio sull’handicap

PROSPETTIVE D’EDUCAZIONE

C’ è il rischio che la stessa prospettiva assunta per combattere il pregiudizio, possa essere
pregiudiziale e quindi rendere l’azione inefficace. Conviene allora assumere l’educazione alla
libertà e al dialogo creativo come fine di ogni e qualsiasi prospettiva

LA SODDISFAZIONE DEI BISOGNI UMANI FONDAMENTALI

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Sono proprio le condizioni di gravi carenze di salute, autonomia, relazione, ‘’umanità’’, che sono
presenti in chi ci appare simile, lo rendono oggetto di attacchi aggressivi, finalizzati ad allontanarlo
da sé per paura di vedersi assimilati ad esso e così condividerne il destino.
L’analisi delle strutture portanti l’antropologia umana, individuano nella ricerca di senso il nucleo
caratterizzante del profilo umano.
Negli esseri umani ciò che muove alla vita e all’azione, sono in un’infinità di casi soprattutto
ragioni di senso: che a volte consentono di raggiungere una reale felicità anche in situazioni di
grave carenza rispetto alla soddisfazione di bisogni fondamentali. Ciò di cui l’uomo ha bisogno, per
la pedagogia, è di essere aiutato, nella ricerca di quegli orientamenti di senso da cui derivare il
significato profondo della propria umana esistenza.
La ricetta e il desiderio di trovare un senso per la propria vita è causa di felicità e creatività.
Bisogni e desideri: Le affermazioni a proposito dei desideri sono intenzionali e referenzialmente
opache, poiché la loro verità dipende da come un soggetto esperisce il mondo. Tale componente
soggettiva deve essere messa in contrasto con l’oggettività delle affermazioni relative ai bisogni.
Queste soni coestensive alla loro verità che dipende da qualcosa come il modo in cui il mondo è e
non il modo di funzionare della mente.
Poiché la sopravvivenza fisica e l’autonomia personale costituiscono in ogni cultura le
precondizioni di qualsiasi azione individuale, esse rappresentano i bisogni umani più basilari-quelli
che devono essere soddisfatti in qualche misura affinché gli attori possano effettivamente
partecipare alla propria forma di vita e impegnarsi per il conseguimento di qualsiasi altro scopo cui
attribuiscono valore.
Ogni programma rivolto alle persone con disabilità, deve necessariamente coinvolgere le medesime
fin dall’inizio, in quanto non è possibile realizzare obiettivi di reale integrazione a prescindere dagli
interessati.
Diversamente, l’integrazione è una farsa. Il riconoscimento effettivo del diritto della persona con
disabilità ad esercitare una cittadinanza attiva e reale, comporta la creazione di condizioni sociali
per cui lo stato di disabilità vissuto dal soggetto sia tale che nella realizzazione degli stessi egli
possa ottenere risultati pari o superiori a quelli di altri non disabili.
Risulta necessario un contributo decisivo nella direzione dell’ottimizzazione della risposta al
bisogno-diritto. Ciò implica il necessario riferimento a una visione morale, a un codice etico.
Gli autori ritengono che la conoscenza codificata di cui sono portatori gli esperti deve essere posta a
confronto con il mondo di vita razionalizzato-la conoscenza basata sull’esperienza quotidiana-
sviluppato dai cittadini ordinari attraverso l’autoriflessione. Sarebbe altrimenti impossibile porre un
freno al potere degli interessi consolidati: l’esperienza del mondo della vita risulterebbe reificata in

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modo che semplicemente si rinforzerebbero i pregiudizi esistenti (la mancata realizzazione di queste
regole, è un punto nevralgico dell’attuale crisi politica: non si dimentichi, infatti, che ogni
pregiudizio è malattia del discorso e, più profondamente ancora, del dialogo.
Non importa quanto l’ambiente sociale possa essere maturo per la trasformazione, gli individui
dovranno impegnarsi virtuosamente nelle proprie attività personali, vocazionali e politiche affinché
tale risultato possa essere conseguito.
La forma di attività umana più significativa al fine di un’integrazione reale del disabile è il lavoro.
Lavoro e relazioni umane significative, sono basi fondamentali dell’autonomia personale.
Ottimizzare la soddisfazione dei bisogni su scala mondiale implica, in ultima analisi, qualche
sistema di autorità globale capace di far rispettare i diritti universali alla soddisfazione dei bisogni.
Un ordine mondiale basato su valori, regolato da istituzioni internazionali che incorporano alcune
mete finali condivise da tutti gli stati.
Va da sé quindi, che non ci sono prospettive di educazione laddove non ci sia anche una volontà
politica di soddisfare i bisogni umani fondamentali di tutte le persone, senza esclusioni.

SOGGETTIVIZZAZIONE

Gli sviluppi delle neuroscienze hanno messo in luce che il cervello umano è dotato di plasticità
neuronale. Esperienze diverse, infatti, moltiplicano e modificano le potenzialità di apprendimento
del cervello. Lo stesso concetto d’intelligenza, andrebbe riformulato alla luce delle attuali scoperte.
Anche in presenza di difficoltà d’apprendimento o di ritardo mentale, è comunque possibile
sviluppare l’intelligenza.
Sta all’educazione quindi, la responsabilità dello sviluppo di quelle disposizioni (personali e
ambientali) che possono consentire anche chi ha disabilità di raggiungere elevati livelli di sviluppo
culturale e umano.
In particolare, nella scuola, l’azione educativa è ciò attraverso cui si può intervenire per aiutare i
bambini a sviluppare quelle capacità indispensabili per riuscire a interpretare la realtà, contrastando
così l’azione dirompente del pregiudizio e dell’ignoranza.
Il pregiudizio non appare alla coscienza di chi sta nel pregiudizio.
L’intelligenza del soggetto in età scolare si configura molto più quale reticolo in movimento che
non come sequenza lineare, in contrasto con la fondamentale rigidità dei programmi di istruzione.
È necessario assumere, per chi educa, paradigmi teoretici e didattici nuovi, che tengano quindi
conto di quest’aspetto dinamico dello sviluppo degli apprendimenti
Nel periodo in cui la mente si apre alla conoscenza, il pregiudizio rischia di insinuarsi e
contaminare gli sviluppi del sapere. Da qui la necessità di una scuola attenta ad evitare le pastoie del
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pregiudizio. Il rispetto di sé e degli altri, generato dalla consapevolezza che esiste un valore
intangibile: la dignità di tutti e di ciascuno, nessuno escluso. Comporta anche l’assunzione di una
rinnovata concezione d’intelligenza. Guardare anche ad altre forme dell’essere intelligenti.
L’apertura della scuola alle diversità in tal senso è cultura del riconoscimento e della
partecipazione. Laddove nella scuola si creano le condizioni per l’accoglienza dei differenti bisogni
educativi degli alunni anche l’offerta formativa guadagna qualità ed efficacia.

DESOGGETTIVIZZAZIONE

L’identità va vista come il risultato stabile di tutti i processi di identificazione che si sono succeduti
nella vita di un individuo.
Lo sguardo attento alla persona nella sua globalità, comporta, nel contempo, un’attenta analisi delle
forme e delle modalità attraverso le quali l’io entra in relazione con la propria cognitività.
Nel percorso di educazione alla cognitività risulta decisivo non solo ed esclusivamente lo sviluppo
delle capacità cognitive, ma anche, se non di più, l’attivazione di relazioni tra l’io del soggetto con
la cognitività, cosicché l’Io riconosca come appartenente a sé la funzione cognitiva e allo stesso
tempo, l’io sia capace di mettersi in relazione tramite tale funzione con tutte le altre aree di cui si
compone l’identità personale.
L’educazione così intesa, mira allo sviluppo dell’autonomia, ovvero alla sua personale capacità di
sapersi avvalere dei guadagni d’ogni funzione per lo sviluppo della sua intera personalità.
Ciò che ognuno è, non è coglibile se il riferimento è la sola vita interiore a prescindere dagli
specifici legami che si possono instaurare, oltre che con sé stessi, anche con gli altri, le cose, il
mondo… L’altro.
L’azione educativa rivolta a costituire il ‘’ponte’’ tra Io e mondo, concorre così in modo essenziale
alla costituzione dell’identità personale del soggetto e ne favorisce l’autentica crescita umana.

L’AUTOSTIMA PERMESSA D’APERTURA AL TU

Soprattutto durante i primi due anni, la concezione di sé del bambino dipende dalla percezione di
come la sua presenza viene vissuta dalle figure affettive di riferimento, in primis la madre.
La conquista della coscienza di possedere un proprio Io, insieme alla sempre più evoluta
consapevolezza di sè a stessi, costituiscono le basi di un’altra esperienza fisica fondamentale e
consistente in quel particolare sentimento di sé e del proprio valore, l’autostima.

LA RICETTA DELL’AUTOSTIMA
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VEDI SCHEMA PAGINA 143
Vicinanza o distanza tra Io ideale e Io reale, rispettivamente espressione del sé desiderato e del sé
percepito (componenti del concetto di sé), possono confrontarsi e entrare in relazione senza causare
‘’fratture’’ interiori, solo laddove è presente un Io forte, ovvero capace di reggere la tensione
intrapsichica derivante dal cogliersi diversi rispetto a come si desidererebbe essere. Eppure è,
proprio dentro questa consapevolezza che è possibile lo sviluppo dell’autostima, intesa quale
guadagno del sentimento del proprio valore di persona capace di cambiare, di migliorarsi.
L’educazione dell’autostima comporta il supporto dell’esplorazione del proprio sé, e quindi il
sostegno durante la delicata presa di coscienza del proprio Io reale.
Infatti, la costruzione del sé del bambino è potenzialmente influenzata dalle relazioni che si
instaurano con le figure affettive di riferimento.
Quando nel bambino si sviluppa una percezione del sé parziale, incompleta, caratterizzata dalla
svalutazione, per effetto della quale anche l’io reale si tinge dei toni foschi della negatività o della
eccessiva autocritica.
Come pure, quando, l’Ideale di sé risulta infarcito di richieste impossibili. Da qui l’inevitabile
conseguenza, consistente nell’avvertire se stessi come incapaci, inadeguati.
Infatti, solo laddove il limite risulta accessibile a noi stessi ed è positivamente accolto,
nell’interiorità del soggetto che lo vive, risulta possibile anche la crescita, il cambiamento e lo
sviluppo creativo della personalità
Nella scuola, come in famiglia, risultano decisive le relazioni educative che promuovono nel
bambino il suo positivo sguardo su stesso, sulle proprie reali capacità e/o difficoltà.
In tale direzione, assumono valore particolare le attese degli insegnanti. Hanno in sé la forza di
prefigurare la direzione dei possibili cambiamenti. Nella misura in cui sono puntate sul positivo,
anche il bambino riesce a guardare oltre le difficoltà del momento, quelle che sono le proprie
possibilità reali di cambiamento e di successo.

PREVENIRE LA FRUSTRAZIONE

Ogni bambino ha delle qualità di cui deve essere reso consapevole, e rispetto alle quali può
sviluppare competenze specifiche. Il raggiungimento di questo obiettivo è l’elemento fondamentale
dell’educazione all’autostima: famiglia e scuola si devono alleare per ottenere questo risultato.
Una delle variabili maggiormente prese in considerazione dalla psicologia quale causa di disistima,
è l’incapacità di gestire l’esperienza di frustrazione, In tale situazione si genera uno stato d’ansia
che non fa che aumentare lo stato d’insicurezza del soggetto.

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La gestione positiva dell’esperienza frustrante, avviene laddove gli adulti con cui il bambino entra
in relazione, mettono in atto atteggiamenti rinforzanti il positivo, quali:
 Distinguere nella comunicazione con il bambino il fare dall’essere (ciò che fai può essere
sbagliato, ma tu sei un valore comunque per me)
 Investire il bambino di aspettative positive (effetto Pigmalione)
 Evidenziare i progressi e le qualità
 Aiutare il bambino a giudicarsi rappresentativamente e non percettivamente (ciò che conta è
l’impegno, l’attenzione, la volontà, più che il risultato)
 Graduare le mete (i miglioramenti non si realizzano immediatamente)
 Differenziare le proposte e seguire le inclinazioni
 Offrire spazi e tempi adeguati (per il gioco, per lo studio)
 Dotarsi di rituali e rispettarli
 Avere pazienza e rispetto per i tempi di risposta del bambino
Vedi schema pagina 147

EDUCARE ALL’ALTRO

Il valore della cultura, quindi, consiste in primis nel farsi strumento di crescita e sviluppo
dell’umanità intera. Ma la cultura tradisce a questo scopo se a priori, nelle proprie radici nelle trame
dei propri prodotti, nei mezzi con cui si espande, impedisce l’incontro con l’alterità.
Favorire il confronto, promuovere il dialogo, insegnare a lavorare insieme sono modalità attraverso
le quali si può, a partire dalla scuola, operare in tal senso. In questa direzione, ad esempio,
assumono notevole rilievo le metodologie didattiche che valorizzano il potenziale derivante dal
lavoro e dal confronto di gruppo. ‘’Apprendimento cooperativo’’
In alcune ricerche di Armstrong e all. laddove sono presenti in classe studenti con disabilità tramite
l’apprendimento cooperativo si producono cambiamenti significativi nella direzione del
miglioramento del livello di accettazione e di reciproca comprensione.
Il termine intelligenza deriva dal latino intus-legere: andare al cuore delle cose.

L’INVISIBILE DELL’AZIONE EDUCATIVA

L’azione educativa possiede una dimensione che, seppur non visibile risulta decisiva per qualificare
come educativa l’azione stessa, e determinante al fine dell’effettiva conoscenza di ciò che si reputa
educativo: in primis, l’intenzionalità di colui che compie l’azione.

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Altro fondamentale dell’atto educativo, è il cosiddetto ‘’non evento’’. Ovvero ciò che non è
avvenuto durante l’azione educativa, è concausa dell’esito dell’azione educativa alla stregua di ciò
che è accaduto.
L’azione educativa è per sua natura esposta alla necessità di non poter essere neutra.
Quando si tratta di processi che hanno a che fare con l’educazione, nessuno si può sottrarre dalla
responsabilità di agire, seppur solo attraverso lo sguardo, un ruolo educativo.
Ma è proprio perché invisibile che l’educazione si sottrae al dominio della scienza
positivisticamente intesa, restando così l’avventura più affascinante per l’uomo.

IL NODO DI SALOMONE: NECESSARIO INTRECCIO TRA TEORIA ED AZIONE

Il nodo di Salomone mette bene in evidenza l’intreccio tra teoria e azione. La teoria, per quanto
valida, se non si avvale dell’azione resta vana. L’azione, per quanto efficace, senza la teoria resta
insensata. E in questo intreccio il nucleo del dispositivo funzionale all’educazione.
È l’azione che genera il processo di conoscenza. L’azione contiene un sapere e come tale, se
correttamente indagata, diviene essa stessa fonte di conoscenza.
Ogni affermazione teorica per essere anche educativa comporta sempre la messa in atto di
un’azione dalla cui efficacia emerga l’autorevolezza di quanto teoreticamente enunciato. Teoria e
azione non sono però due atti distinti.
L’azione educativa che si svolge sempre attraverso la relazione con l’altro, comporta non solo la
presenza di valori e teorie, ma anche dispositivi funzionali in grado di attivarne i necessari processi.
Il limite di molte pedagogie, è proprio quello di non aver considerato sufficientemente l’intima
relazione tra teoria e azione. La teoria pedagogica, dentro la relazione educativa, ha senso se svolge
il compito di rispondere adeguatamente alle domande che la relazione educativa suscita.

L’OCCULTO: IL DIVORZIO TRA DISPOSITIVO FUNZIONALE E VALORI

Il potere della tecnica, del mezzo, nelle mani d’educatori senza valori determina la nascita d’agenzie
educative occulte che, avvalendosi del potenziale evocativo del dispositivo dell’educazione,
provocano domande esistenziali senza saper offrire risposte di senso.

PARTE SESTA: PREGIUDIZIO E MALATTIA MENTALE


Oltre il pregiudizio sulla follia, la terapia dell’ulteriorità

SANITA’ MENTALE TRA FOLLIA E CREATIVITA’


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Il problema del limite tra sanità mentale e follia rimane intatto ancor oggi, perché il cambiamento
delle condizioni sociali ha cambiato solo le coordinate dell’ambiente psicopatogeno.
Sono cambiate, solo le forme di follia. Ci sono forme di follia che sono salutari, e forme di salute
che sono folli.
Scopo di questo capitolo è di mettere in luce come l’handicap derivante dalla psicopatologia se
integrato dalla stessa persona sofferente e dalla società, può essere portatore di ulteriori significati
per la vita. Sim-bolizzazione e meta-bolizzazione del pathos (dal greco: passione, ma anche
sofferenza, pena e affetto intenso).

PEDAGOGIA SPECIALE E FOLLIA

Concezione di handicap connaturato e indotto.


È quindi opportuno che nell’ambito dell’analisi dei problemi educativi della persona con handicap,
si faccia chiarezza tra difficoltà provenienti dal deficit e difficoltà che nulla o poco hanno a che fare
con il deficit, perché riconducibili a situazioni problematiche insite ai contesti di vita familiari e
sociali in cui il soggetto vive.
Inoltre, indipendentemente dalla presenza o meno di deficit, può avvenire che si strutturino
handicap indotti. In questo caso l’origine della resistenza al pieno sviluppo dell’essere umano va
ricercata all’interno delle esperienze educative che hanno caratterizzato quella particolare storia di
vita.
Questa è anche la probabile causa di molte psicopatologie.
Ogni malattia mentale è anche e soprattutto metamorfosi esistenziale della persona. Sono insieme il
modo di essere, di vivere, di progettare e di stabilire rapporti umani che si modificano radicalmente:
nel suo manifestarsi, appare come l’elaborazione drammatica di un’interiorità.
Ciò che ne contraddistingue l’essenza è l’intenso patire. Ed è proprio di questo che dovrebbe
occuparsi la psicopatologia. Tuttavia qualcosa (che qui si ipotizza essere azione riconducibile al
pregiudizio) ne ha impedito per molto tempo la reale presa in carico, anche da un punto di vista
educativo.
Il termine patologia, ‘’logia’’, uno studio, del pathos.
Nel significato attuale corrente il termine ha invece assunto un significato del tutto diverso ovvero:
studio delle cause e della natura delle malattie.
Vi è evidente una forzatura, con cui i concetti indicati dai termini passione, sofferenza, pena e
affetto, sono stati ricondotti e assorbiti nel concetto e termine ‘’malattia’’. Il termine malattia ha un
suo significato autonomo.

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IL PREGIUDIZIO MEDICO SULLA FOLLIA

Esistono molti pregiudizi, l’idea che un disagio psichico avvertito dal soggetto ma che non dà
evidenti segni di stranezze, sia cosa di poco conto.
Se poi il disagio aumenta, subentra un altro pregiudizio: che si tratti di una malattia, in senso
medico.
Il pregiudizio medico sulla follia, consiste nell’idea secondo cui così come il corpo ha un
funzionamento predeterminato che si può definire normale, salvo quando viene guastato da qualche
causa (noxa patogena), altrettanto debba essere per il cervello.
Frankl, ciò che è malato non deve necessariamente essere sbagliato.
Ogni fenomeno umano, nello specifico la malattia mentale, va interpretato e affrontata in un’ottica
pluridimensionale.
Il pregiudizio, in sintesi, è una forma di non vedere che, come tale, impedisce quel cambiamento e
sviluppo dell’umanità che solo il dialogo, in particolare il dialogo creativo, può compiere e
realizzare.
Il pregiudizio sulla follia è tutto ciò che impedisce di vedere nella malattia mentale la sofferenza e
l’incapacità creativa dell’uomo e non fa cogliere la necessità di una riconsiderazione in chiave
educativa della psicopatologia.
Ancora una volta, ci troviamo davanti a una riduttiva concezione dell’umano, secondo la quale ciò
che è limite, malato o disabile che sia, va scartato in nome di un concetto di salute o normalità
ristretto.
Si viene a costruire l’idea di malattia mentale come malattia del cervello.
Siamo davanti alla nascita dell’idea, derivante dal pregiudizio medico sulla follia, che da essa
bisogna difendersi attraverso l’affidamento al potere medico.
Il terapeuta e il paziente sono prima di tutto due persone e non due ruoli.
Per poter curare, il medico non deve mai pensarsi separato dal paziente. La repressione di questo
polo della coppia, porterebbe il medico alla soglia pericolosa di convincersi di non aver nulla a che
fare con la malattia.
Ogni persona è ontologicamente un ‘’essere-di-bisogno’’, cioè mancanza.
Il dialogo con una persona che ha vissuto l’esperienza della finitudine è perciò una ricchezza. La
sofferenza e il limite divengono così, nella condivisione, possibilità di recupero del significato
autentico dell’esistenza umana.

LA MALATTIA MENTALE OLTRE IL PREGIUDIZIO: LA DEPRESSIONE, IL ‘’MALE OSCURO’’

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La definizione male oscuro rende perfettamente il senso di quello che prova la persona colpita da
depressione. Il depresso perde la gioia di vivere, la capacità di godere e partecipare. Il momento
peggiore è la mattina, al risveglio: quando vede davanti a sé la giornata come un lago immobile,
insuperabile.
Depressione è non avere voglia di niente, non desiderare niente. Una sofferenza morale senza fine.
Si annulla ogni qualità e valore personale.
Ma depressione è un forte disagio psicologico, è quella sofferenza che guasta e consuma la voglia di
vivere, è anche quel dolore feroce che paralizza e annienta, toglie il sonno e l’appetito, o al
contrario, spinge a dormire e mangiare senza ritegno.

L’OSCURITA’ DEL MALE: IL RISUCCHIO DEL CRONOTOPO NELLA ‘’MORTA GORA’’

La depressione è stata definita la malattia del tempo. La dimensione temporale è compromessa nella
depressione.
La depressione si spiega filosoficamente come un collasso della temporalità, il chiudersi su se
stesso del tempo in risucchio del presente in un nulla senza fine.

DEPRESSIONE: IL FONDO ENIGMATICO E BUIO DELL’ANIMA

Osserva Galimberti che sul discorso dell’anima si intrecciano due diverse tradizioni: quella
filosofica della razionalità, di stampo Platonico e quella orfica, dove il buio dell’anima fa la sua
comparsa.
L’anima si pone quindi come sede di un conflitto tra ragione e follia. Il conflitto rinvia a una radice
comune.
Il linguaggio oscuro dell’anima parla il linguaggio del simbolo, del mito.
Prima della connotazione psicologica, la follia è figura cosmica, è l’occhio non ancora distratto
dalla notte del mondo. Significa pensare all’anima come a quell’apertura che, nel darsi regole
dell’ordine, non si chiude alla sua profondità.
Ma chi può parlare dell’anima? E se la depressione fosse un male dell’anima, a chi spetterebbe la
cura?
La depressione, in quanto sintomo di malattia, va assolutamente curata. Ma il malato depresso deve
totalmente rinunciare a quel richiamo di senso, dato dalla scoperta della sua fragilità, che il
profondo della sua anima gli ha posto innanzi?
Deve divenire patrimonio di esperienza su cui fondare una vita nella quale la consapevolezza del
nulla si trasformi nella ricerca di quell’ulteriorità che da tale nulla può salvare.
La cura della depressione deve evitare di esorcizzare e censurare questo fondo enigmatico e buio.
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