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Tema dei possibili rischi di esiti infausti di un processo psicoterapeutico trattarne significa riconoscere la fallibilità
dei propri metodi. Non è più possibile infatti trattarne in termini di corretta applicazione di un modello ritenuto
universalmente valido; si tratta di riconoscere che, anche ove il professionista abbia agito con correttezza e
competenza rispetto al proprio modello e alle proprie metodologie, l’esito indesiderato è sempre possibile.
EFFETTI INDESIDERATI ED ESITI INATTESI – Questione dei possibili rischi iatrogeni in psicoterapia presentazione di
un esempio capitato a Barbetta (esempio del vetro unidirezionale nel nuovo Centro l’informazione ricevuta
sarebbe stata un implicito ma potente messaggio di squalifica delle persone in terapia. La psicoterapia si occupa di
significati e vissuti emozionali, di relazioni e narrazioni, di quel mondo dell’informazione e delle idee ove lo zero può
rivelarsi causa efficiente e gli effetti paradosso sono sempre possibili. Chi pratica la psicoterapia è comunque esposto
al rischio di effetti iatrogeni.
È bene affrontare questa questione facendo riferimento esplicito alla cornice epistemologica all’interno della quale si
pone oggi la nostra pratica clinica. 3 ASPETTI DI CONSAPEVOLEZZA:
1. La consapevolezza della condizione postmoderna – siamo tutti orfani di certezze assolute, e nessun modello
oggi può considerarsi portatore di una conoscenza esaustiva. Dovremmo sempre mantenere un
atteggiamento di umiltà critica e non dimenticare che il nostro approccio è di per sé limitato e parziale.
2. La consapevolezza della complessità non riducibile del vivente – e nello specifico delle vicende umane di cui
ci occupiamo: non dobbiamo mai dimenticare che ci sono sempre molteplici possibili livelli di lettura e punti
di vista alternativi e vicendevolmente escludentisi.
3. La consapevolezza che la “realtà psichica” (significati, emozioni e narrazioni) emerge nel qui-e-ora, viene
creata e ricreata incessantemente dalle, e nelle, relazioni in cui ci impegniamo.
CASO CLINICO Caso di Alberto, il cui comportamento ha subito negli ultimi due anni un’escalation inarrestabile.
Dopo circa un anno e mezzo di incontri al Centro i comportamenti disturbati di Alberto sono ormai un ricordo. Come è
possibile che una situazione di disagio che appariva grave e in costante peggioramento in occasione della prima presa
in carico venga invece considerata, a posteriori e dopo una differente presa in carico, un disagio transitorio, fisiologico
e pienamente superabile? Possiamo ipotizzare che in questo caso si sia rivelato decisivo allargare il campo di
osservazione e considerare il comportamento di Alberto come segno di un disagio intergenerazionale.
Non si tratta quindi di una questione di setting, bensì di consapevolezza, attenzione e rispetto della complessità
insita in ogni situazione umana: è tale consapevolezza ciò che induce a non dare per scontato che prima sia
necessario conoscere (fare diagnosi) per intervenire poi correttamente, e invita piuttosto il più possibile ad
allargare il campo di osservazione.
Ascoltare attentamente la storia della famiglia ci ha permesso di ipotizzare che il punto critico fosse l’immagine di
sé dei genitori costruita all’interno della relazione con i propri genitori, e quindi questo ci ha portato a lavorare
con loro affinché potesse emergere in modo credibile un’immagine più positiva.
In altri termini, i colleghi sarebbero stati ciechi riguardo al fatto che, pur con le migliori intenzioni, finivano per
confermare implicitamente il giudizio di incapacità genitoriale già espresso dai nonni.
Possiamo affermare che l’applicazione corretta di un protocollo di intervento riconosciuto come valido ha avuto,
per quella specifica situazione clinica, effetti iatrogeni.
La scelta di porre il focus a livello intergenerazionale non può ritenersi giusta di per sé, anche se si è rivelata utile
in quella specifica situazione. È precisamente il superamento della logica dell’ortodossia ciò che può renderci
attenti al rischio di effetti iatrogeni.
UNA CONCEZIONE ETICA DELLA PSICOTERAPIA – La situazione clinica proposta mostra bene anche l’ultimo aspetto di
consapevolezza sopra indicato, relativo all’ineludibile responsabilità soggettiva nel partecipare a intessere la “realtà
psichica” intesa come proprietà emergente dall’incontro delle proposte di coloro che partecipano alla relazione del
qui-e-ora.
I colloqui con i genitori di Alberto hanno apertamente sfidato la loro idea di incapacità, incompetenza e
inadeguatezza. Convinzione che siano le nostre pratiche di dialogo a creare le nostre realtà, ivi compreso il cosiddetto
“io” per questo l’uso del verbo essere è pericoloso e illusorio quando parliamo di significati, vissuti, descrizioni e
narrazioni: i genitori di alberto non erano incompetenti se non in relazione (a qualcos’altro); il nostro obiettivo era
che non fossero tali anche nella relazione con noi.
La psicoterapia è una pratica anzitutto etica, e solo conseguentemente clinica. Con il termine “etica” non si intende
qualcosa che abbia a che fare con la morale, ma piuttosto la piena consapevolezza di una non eludibile responsabilità
soggettiva nei processi di definizione e di creazione dei significati e quindi, in definitiva, della “realtà”.
Responsabilità moderna = pragmatica / Responsabilità postmoderna = epistemica, in quanto non riguarda l’azione,
bensì il come partecipiamo a definire le realtà emergenti dalla relazione terapeutica.
Concepire la psicoterapia come una pratica etica implica la consapevolezza di quanto siamo sempre e comunque
esposti al rischio iatrogeno.
TEMPO DELL’ESSERE E TEMPI DEL DIVENIRE – La dimensione tempo riveste un’importanza fondamentale nel processo
terapeutico, e risulta quindi decisiva anche rispetto ai rischi iatrogeni. Il punto su cui vorrei soffermarmi è di natura
epistemica, ossia riguarda la concezione atemporale sottesa a una lettura diagnostica che riduce la persona e la sua
storia al sintomo che ne fa un “paziente”. Il verbo “essere” introduce il tempo dell’ontologia, ossia un tempo senza
tempo, immobile e non evolutivo; ciò non potrà non avere significative conseguenze sia sul rapporto che la persona
instaura con il proprio “sintomo” sia sulle sue relazioni con i familiari e i conviventi, nonché con il medico o il
terapeuta.
Come ci ricorda Heinz Von Foerster, dovremmo parlare del soggetto in termini di divenire umano piuttosto che di
essere umano. Ritengo che concepire il tempo come tempo del divenire, dell’evoluzione, del cambiamento sia una
premessa implicita ma irrinunciabile per mantenere alta l’attenzione rispetto ai rischi iatrogeni.
MONITORARE IL RISCHIO DEL RISCHIO IATROGENO – Su quali certezze può contare la psicoterapia? Come può un
professionista della psiche essere attento a evitare le possibilità di rischi iatrogeni?
La risposta è da cercare in un atteggiamento che da un lato mantenga sempre viva l’attenzione alla pluralità di livelli
logici in cui si articola la complessità dell’esperienza umana, e dall’altro si impegni a esercitare costantemente
operazioni di secondo ordine, o ricorsive, che rispettino appunto tale complessità.
Il punto non è raggiungere una competenza tale che garantisca dal rischio di essere ciechi; oggi sappiamo che ciò è
logicamente impossibile. Il punto, piuttosto, sarà la consapevolezza di tale cecità sempre possibile, strutturale.
Dobbiamo evitare il rischio di essere ciechi alla possibilità di essere ciechi.