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Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento

PRESENTAZIONE

Il corso intende discutere una concezione metodologica generale della didattica, che fa propria,

trattandola come una risorsa, l’intrinseca autonomia dei processi di apprendimento. Secondo tale

concezione i processi di apprendimento si autoregolano, per cui la didattica li può governare solo

assecondandone ed orientandone dall’esterno la dinamica. Il che equivale ad affermare

l’impossibilità di una didattica normativa che presume di poter configurare direttivamente i

comportamenti e i risultati della formazione.

La prima unità del corso è dedicata a presentare la concezione generale dell'apprendimento e del

gruppo come attore di tale processo. La seconda unità affronta il tema della relazione tra

apprendimento ed affettività. La terza unità ha per oggetto la relazione educativa e il suo governo.

L’ultima unità propone alcune metodiche e criteri operativi derivanti dalle teorizzazioni proposte

nelle precedenti lezioni.

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Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento

I Unità Didattica
LINEAMENTI DI TEORIA GENERALE DEI PROCESSI DI INSEGNAMENTO-APPRENDIMENTO

Lezione 1

Sul concetto di gruppo

Che cosa è un gruppo? Qual è il numero giusto di componenti per un gruppo? Cosa hanno in

comune il gruppo classe, il gruppo terapeutico, il gruppo di formazione, il gruppo di orientamento

ed il gruppo di selezione? Questo è in genere il tipo di domande sul gruppo cui la psicologia dei

gruppi cerca di dare risposta, nello sforzo di pervenire ad una definizione condivisa circa il modo

migliore per definire, organizzare e condurre gruppi.

D'altra parte, le fenomenologie del gruppo variano notevolmente, secondo gli obiettivi che lo stesso

assume, così come delle condizioni organizzative entro cui si inscrive, al punto che risulta

quantomeno arduo riconoscere un qualche senso di unitarietà all’insieme di forme psicosociali cui

viene applicata tale categoria. Se dunque la psicologia dei gruppi cerca di definire il gruppo, di

descrivere le caratteristiche del suo funzionamento, così come i fattori che ne facilitano o

ostacolano il suo dispiegarsi, fa ciò a partire dal presupposto che al costrutto |gruppo| (qui ed in

seguito utilizziamo il segno "|" per indicare il riferimento al concetto, piuttosto che al fenomeno a

cui il concetto di riferisce) corrisponda una specifica e determinabile entità del mondo (nel nostro

caso: del mondo delle relazioni umane), dotata di una propria essenza cui ci si può riferire

indipendentemente dalla grande varietà di forme contingenti attraverso le quali essa si manifesta; in

altri termini a prescindere dalle configurazioni socio-simboliche, dagli obiettivi, dalle coordinate

spazio-temporali e da altre peculiarità che qualificano l'espressione storica di questa o quella

fattualità gruppale.

In questa e nelle successive due lezioni svilupperemo alcune osservazioni lungo una linea

argomentativa volta a mettere in discussione tale assunto.

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Cornice epistemologica

Secondo la tesi proposta, che assume come presupposto un’epistemologia di matrice socio-

costruttivista (Gergen, 1985; Salvatore, 2003), il gruppo non va inteso come un oggetto naturale,

cioè quale stato della realtà dotato di proprietà strutturali e funzionali invarianti; bensì, come un

costrutto che dà forma ad un determinato campo dell’esperienza (Valsiner, 2001).

Il che significa che se si osserva un gruppo che funziona in un certo modo, ciò accade non in quanto

l’osservatore registra un fatto, ma in quanto egli/ella norma/dà forma al proprio campo di

esperienza nei termini di ciò che il costrutto |gruppo| denota. Questa tesi implica, evidentemente, un

radicale ripensamento nel modo di utilizzare il concetto in discussione. In definitiva, si tratta di

riconoscere il |gruppo| come il prodotto, piuttosto che la premessa, della osservazione psicologica e

didattica ed in ragione di tale riconoscimento ridefinire le modalità che ne organizzano l’adozione

in quanto dispositivo utilizzabile in ambito formativo.

Chi si occupa di |gruppo| converrà su quanto tale concetto abbia subito una deriva di senso: viene

sistematicamente mobilitato in chiave ideologica e valoriale, svuotato delle proprie valenze teoriche

e metodologiche, usato indistintamente come attributo connotativo e come oggetto di discorso; in

definitiva: sistematicamente sottratto alla disciplina del pensiero scientifico ed assimilato alle

categorie del senso comune. A nostro avviso simile svuotamento di senso non deriva da un deficit di

teoria. Anche a volerci limitare al contesto italiano, la teoria psicologica intorno al gruppo è stata

feconda di indicazioni e di riflessioni critiche (Carli et al., 1988; Di Maria & Lo Verso; 1995, 2002;

Di Maria et al., 2002). La nostra idea è che il problema sia piuttosto di natura epistemologica,

concernendo più radicalmente la concezione stessa della conoscenza psicologica e pedagogica,

dunque lo statuto dei concetti che tali discipline utilizzano.

Le considerazioni sviluppate in queste lezioni non hanno ovviamente la pretesa di approfondire

l’insieme di questioni che l’ultima affermazione implica. Ci limiteremo a discutere un punto

generale, sviluppando un’analisi critica del concetto |gruppo|, volta ad evidenziare come esso sia

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sistematicamente impiegato in termini reificati.

L'ontologizzazione del costrutto |gruppo|

Capita piuttosto frequentemente di imbattersi in resoconti in cui il concetto |gruppo| viene usato in

modo reificato: trattato in termini per così dire naturalistici, come uno stato della realtà che si dà

all’osservazione, esistendo comunque indipendentemente da essa. Tale modalità implica una sorta

di ontologizzazione del concetto: il gruppo come una particolare essenza presente nel mondo,

caratterizzata da - e dunque rintracciabile in ragione di - peculiari proprietà e condizioni di

espressione.

Simile tendenza alla ontologizzazione del costrutto non va del resto considerata un limite da

attribuire al singolo resocontante. Siamo propensi a considerare l’assunzione scontata di un

presupposto ontologico come una caratteristica costitutiva del discorso intorno al gruppo,

rintracciabile nei principali interpreti di tale area del pensiero psicologico e pedagogico. In questa

sede non siamo nelle condizioni di argomentare in modo sistematico questa nostra affermazione. Ci

limitiamo a richiamare alcune citazioni, tratte dalla letteratura psicologico clinica, a supporto di

quanto in precedenza affermato.

«...mi trovai seduto in una stanza con otto o nove persone, a volte di più, a volte di meno, a volte

malati, a volte no. Nei casi in cui i componenti del gruppo non erano malati, mi trovai spesso in

difficoltà del tutto particolari. Cercherò di descrivere come si svolgono le cose. All’ora convenuta

cominciano ad arrivare i membri del gruppo; le persone cominciano a parlare un po’ fra loro e,

quando se ne è riunito un certo numero, il silenzio cade sul gruppo. Dopo un po’ ricomincia una

conversazione sconnessa e poi si fa nuovamente silenzio. Diventa chiaro che, in qualche modo,

sono al centro dell’attenzione del gruppo». (Bion, 1971, pagg. 35-36)

«Sette, otto, nove pazienti, adatti ad un comune approccio, si incontrano regolarmente una volta a

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settimana per un’ora e mezza con il terapista. Siedono comodamente, in una stanza adatta di

dimensioni adeguate, in modo da stare uno di fronte all’altro e di fronte al conduttore. L’atmosfera è

informale. Lo scopo dell’incontro è discutere i loro problemi. La quantità di sedute necessarie sarà

determinata dalle loro condizioni cliniche. Flessibilità e spontaneità sono le note chiave». (Foulkes,

1948, pag. 86)

«Un gruppo terapeutico è un ambiente ad hoc che creiamo artificialmente (...) sulla base di incontri

in accordo a certe regole, nel quale varie persone (da sei a otto) interagiscono, comunicano fra loro

e condividono delle norme. Gli incontri hanno luogo da una a più volte la settimana per un periodo

non predeterminato, anche se limitato e terminabile». (Puget et al., 1994, pag. 19).

«Il gruppo è ordinariamente composto da 17-35 persone, uomini e donne di età media, riuniti in una

sala che consente di formare un unico cerchio, in modo che ciascuno sia visibile a tutti gli altri. Il

conduttore siede fra loro, aiutato da uno o due colleghi. Del gruppo fanno parte, d’abitudine, anche

degli osservatori; questi solitamente non parlano, anche se, a un certo momento dell’iter gruppale,

può verificarsi che uno di loro possa prendere la parola. (...) Il gruppo è aperto, cioè continuo negli

anni, ed è pertanto suscettibile di ritiri e di nuove ammissioni. Il darsi del "tu" è una prescrizione».

(Ancona, 2002, pagg. 235-236)

Queste citazioni ci permettono di evidenziare due aspetti caratterizzanti un modo a nostro avviso

molto frequente di trattare concettualmente la nozione |gruppo|.

In primo luogo, in tutti i brani il gruppo è definito – o comunque implicitamente assunto, come nel

caso dei passi riferibili a Bion e Foulkes – in base e nei termini di una serie di elementi materiali: il

gruppo è fatto da persone, riunite in un certo momento spazio-temporale, in una certa numerosità.

Ci possiamo chiedere: in che modo e sotto quale punto di vista una simile definizione è differente

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da quella del linguaggio comune, così come la si può ad esempio trovare sistematizzata in un

vocabolario o praticata in una conversazione quotidiana? Evidentemente, la risposta a tale

interrogativo non può che essere: in nessun modo – un trombettista, un portiere di condominio, un

politico, una madre, un postino, un insegnante, un medico, ecc. utilizzano il termine |gruppo|

esattamente secondo la stessa accezione usata dagli eminenti autori appena citati. In quanto insieme

compresente ed interagente di persone di numerosità delimitata (o quale altra ulteriore precisazione

si voglia utilizzare), il gruppo non è un costrutto psicologico, ma la descrizione di uno stato del

mondo.

Il processo di oggettivazione, che Moscovici (1961) ha richiamato per caratterizzare il rapporto tra

la conoscenza scientifica e il suo utilizzo entro i contesti discorsivi quotidiani, viene qui ad essere

invertito, nel senso che in questo caso è la psicologia ad appropriarsi del linguaggio comune per

derivarne il proprio oggetto. Ed è a partire ed in ragione di tale oggetto, ma anche entro i vincoli

derivanti dalla fonte della sua costruzione, che poi andrà a sviluppare la propria teorizzazione. In

sintesi: le citazioni esaminate evidenziano come il gruppo non sia un costrutto generato

modellisticamente, ma un contenuto della vita quotidiana che viene successivamente fatto oggetto

del discorso psicologico.

In secondo luogo, nei passi citati sono richiamati parametri funzionali in quanto definitori o

comunque caratterizzanti l'oggetto gruppo ed il suo uso nel contesto clinico: la periodicità degli

appuntamenti, la prescrizione del "tu", il disporsi in circolo, il fatto che vi possano partecipare

membri malati e non, ecc.

Non è difficile rintracciare l'assunto implicito che fonda tali richiami: l'idea secondo la quale il

gruppo possieda una propria specifica modalità di funzionamento, una propria sintassi ed economia

interna, in rapporto alla quale vanno conformati i parametri che ne organizzano l'impiego entro

l'intervento. Si prenda in questo senso il caso della prescrizione a darsi del tu o la disposizione

circolare. E' evidente che tali parametri hanno senso nella misura in cui li si interpreta come modi

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per conformare la pratica del gruppo alla sua essenza. Per rimanere nell'esempio, è come se si

dicesse: dal momento che il gruppo è un contesto di vicinanza interpersonale, allora esso richiede

che le persone adottino organizzatori linguistici coerenti e funzionali a tale caratteristica (dunque

usino la seconda persona singolare nel rivolgersi reciprocamente); oppure: dal momento che il

gruppo è un contesto di scambi plurali e distribuiti, allora è necessario che la disposizione spaziale

assecondi tale caratteristica (da qui il sedersi in circolo).

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Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento

I Unità Didattica – Lezione 2

Critica all'ontologizzazione del costrutto |gruppo|

Esplicito ab initio la mia posizione critica nei confronti dell'ontologizzazione del costrutto |gruppo|.

Molti sono gli argomenti che motivano in tal senso. In questa sede ne richiamerò due: uno di natura

epistemologica, l'altro di tipo teorico. Sul piano epistemologico, l'ontologizzazione implica una

visione ingenua del rapporto tra linguaggio e mondo ed in questo senso va interpretata come il

riflesso della incapacità del discorso psicopedagogico di svincolarsi dal senso comune. Il che mina

la possibilità di pervenire ad una concettualizzazione univoca della nozione, e più in generale la

capacità della disciplina di fondare pratiche di intervento efficaci. Sul piano concettuale, il

riferimento al gruppo come entità in sé significativa contraddice il carattere contingente e

contestuale dei processi psicosociali. Da questo punto di vista, dunque, quando si categorizza una

determinata situazione interumana con la mediazione della categoria |gruppo|, ipso facto la si

qualifica in termini di invarianza, in definitiva scotomizzando la specificità contestuale dei processi

psicosociali che caratterizzano la situazione interumana stessa.

Approfondiamo di seguito questi due argomenti, che, per quanto strettamente intrecciati, preferiamo

per semplicità di esposizione declinare separatamente. Dedicheremo questa lezione al primo, la

successiva al secondo.

Il potere del senso comune

Il processo di ontologizzazione non è un problema fino a quando si presuppone una relazione

stabile e tendenzialmente biunivoca tra il linguaggio e il mondo. Chi si muove in quest’ottica ritiene

che il significato dei segni sia in ultima istanza legato alla cosa del mondo cui il segno stesso si

riferisce, in altri termini all’estensione del concetto - da qui la qualificazione di approccio

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estensionale attribuita a tale concezione epistemologica (Eco, 1975).

Tale presupposto è tuttavia quantomeno problematico; come evidenzia l’approccio intensionale, il

linguaggio è autonomo e chiuso, costituito da segni che si definiscono nelle relazioni semantiche e

sintattiche che mantengono reciprocamente, esattamente come accade nel caso di un vocabolario,

che esplicita il significato di un lemma non mostrando la cosa a cui il lemma si riferisce, ma

collegando il segno in questione ad altri segni (quelli usati per la definizione) (Rorty, 1989).

Non è questa la sede per entrare in una disputa filosofica che va avanti dal medioevo. La questione

per noi è più circoscritta, riguardando più specificamente il linguaggio scientifico. A proposito di

tale dominio, è sufficientemente condivisa l’idea – a meno di non abbracciare un'epistemologia di

matrice positivista - circa l'inapplicabilità della logica estensionale. In altri termini, almeno sul

piano di principio, si è generalmente d’accordo nel riconoscere che i concetti scientifici non si

fondano sulla corrispondenza alla realtà, ma sulle teorie ed in quanto tali operano come

modellizzazioni della realtà (per una generalizzazione di questo principio ai processi mentali; cfr

Neisser, 1987). I concetti scientifici sono dunque costrutti.

Può essere per certi verso ironico ricordare come sia stata proprio la psicologia ad evidenziare il

processo di reificazione a cui i costrutti scientifici sono sottoposti da parte del senso comune.

Stiamo evidentemente pensando al fondamentale studio di Moscovici (Moscovici, 1961), che parla

di oggettivazione per evidenziare il processo attraverso il quale il linguaggio quotidiano si appropria

dei costrutti scientifici (nel caso dello studio: della nozione di inconscio) estrapolandoli dal loro

contesto concettuale e trasformandoli in parole che corrispondono a cose.

L’oggettivazione non concerne tuttavia solo i costrutti che modellizzano processi latenti. La

tendenza alla reificazione è attiva ubiquitariamente nel nostro linguaggio quotidiano, al punto da

poterla considerare una qualità immanente del linguaggio, dunque del senso comune (Berger e

Luckman, 1969). La missione del pensiero scientifico si presta ad essere in questo senso definita

come lo sforzo di contrastare simile deriva, in modo da difendere l’autonomia delle idee rispetto ai

vincoli del mondo (o meglio, ai vincoli che le idee reificate del mondo di un certo momento storico

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culturale tendono ad imporre al tentativo di costruire ulteriori versioni del mondo, più utili e

sensate; in una parola: più umane).

Con ciò vogliamo dire che lo scopo della conoscenza scientifica è di costruire modelli che entrino in

dialettica con l’esperienza del mondo: siano adeguati rispetto ai vincoli che l’esperienza propone,

ma al contempo siano in grado di organizzare nuovi modi di guardare ai fenomeni. In questo senso,

la conoscenza scientifica è per definizione altra dal senso comune: a differenza di quest'ultimo, la

prima non può permettersi di istituire/stabilizzare un certo sistema di idee, rendendolo in definitiva

indistinguibile dal mondo che esso rappresenta.

Si pensi alla fisica. Tale sistema di conoscenza ha creato una teoria per spiegare la caduta dei gravi.

Nel far questo non si è limitata a sottolineare che gli oggetti se sollevati e lasciati andare tendono a

precipitare, come è esperienza comune di ciascun essere umano, ma ha costruito un modello

interpretativo di tale fenomeno, la |gravità|.

Ora: nella nostra società siamo tutti abituati a spiegare il fenomeno della caduta dei gravi attraverso

l’esistenza della gravità; tuttavia, da un punto di vista teorico, non si può dire che la gravità "esista":

esiste senz’altro l’esperienza sistematica del precipitare dei corpi e del peso che associamo agli

oggetti fisici, ma la gravità in quanto tale non esiste: è un modello che deve la propria

sopravvivenza al fatto che si adatta ai e mantiene nei vincoli dell’esperienza, ma il suo significato e

la sua validità risiede nella coerenza che mantiene con l’apparato concettuale in cui si inscrive,

tant’è che in quanto costrutto scientifico è profondamente variato nei secoli in ragione del passaggio

dalla cornice newtoniana, a quella della relatività generale, fino alla teoria quantistica.

Qui sta la fondamentale differenza qualitativa tra la scienza ed il senso comune. Il senso comune ha

a che fare con la gravità, la scienza con la |gravità|.

Psicopedagogia e senso comune

Se confrontiamo la psicologia e la pedagogia a scienze quali la fisica, non possiamo che giungere ad

una conclusione sconfortante: tali discipline sono ben lontane dal differenziarsi dal senso comune;

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al contrario essa tendono sistematicamente ad assumere le categorie dei mondi vitali come base,

contenuto e parametro del proprio esercizio. In altri termini, tali discipline - ed in particolare nella

loro versione mainstream, mutuano come propri oggetti, dimensioni definite dal senso comune

(emozione, apprendimento, ansia, motivazione, coscienza, valori, educazione....) - al limite

riconfezionate nel gergo specialistico – assunte come stati fattuali del mondo, per poi impegnarsi

nella ricerca di interpretazioni (generalmente in chiave esplicativa o quasi esplicativa).

Questo modello epistemologico limita lo sviluppo di scienze quali la psicologia e la pedagogica, in

quanto vincola gli spazi di possibilità della teorizzazione ai campi di significazione del senso

comune.

Nel caso della psicologia l’anaclitismo al senso comune è doppiamente critico. Così come per le

altre discipline scientifiche, esso vincola fortemente l’autonomia della conoscenza, ostacolandone

gli sviluppi innovativi; inoltre, nel caso della psicologia, l'anaclitismo mina alla radice la possibilità

di tradurre la conoscenza psicologica in intervento, ovviamente nella misura in cui concepiamo la

funzione professionale psicologica come orientata a sostenere lo sforzo degli attori di

elaborare/sviluppare i propri modelli di interpretazione della realtà in ragione del potenziamento

della capacità di organizzare la relazione con il mondo (Grasso, Salvatore, 1997).

E’ sufficiente osservare la performance di uno dei tanti psicologi da salotto per comprendere cosa

significhi e dove porti una psicologia analiticamente appoggiata sul senso comune: la

trasformazione della funzione professionale in funzione ritualizzata, declinante l’ovvio secondo

percorsi di senso già tracciati dalle direttici culturali del discorso condiviso, dunque continuamente

costretta a smarcarsi dal già detto per mezzo di retoriche valoriali e normative, prive di qualsiasi

capacità di incidenza, comunque legittimate a riprodursi fino a quando ciò che propongono rimane

ben all’interno di quanto il pubblico si aspetta/chiede di ascoltare.

Un'ultima considerazione in relazione a questo primo argomento. Va detto che il riconoscimento di

come la teorizzazione psicopedagogica del gruppo poggi anacliticamente sul senso comune porta a

valutare l'incerto statuto semantico del costrutto sotto una diversa luce. Anche una veloce

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panoramica sulla letteratura di settore evidenzia come sia molto arduo definire i confini del concetto

|gruppo|, così come la portata del suo uso.

Già a livello di definizione è difficile individuare anche una sola caratteristica definitoria che in

positivo o in negativo possa essere considerata universalmente qualificante e caratterizzante il

concetto.

A ciò si aggiungano le svariate modalità e significati con cui viene utilizzato: in alcuni casi con

|gruppo| ci si vuole riferire ad un oggetto/stato del mondo - |gruppo| come insieme a numerosità

limitata di soggetti riuniti in uno stesso spazio in interazione tra loro; in altri casi il concetto è

impiegato per connotare una specifica qualità che determinate strutture di attività posseggono ad un

determinato grado – |gruppo| ad esempio come livello di coesione/interdipendenza qualificante un

collettivo (si pensi a frasi quali: "questa classe non è ancora un gruppo", "questo reparto è un

gruppo molto unito", "bisogna diventare gruppo"...); in altri casi ancora |gruppo| assume il

significato di luogo-bersaglio dell'azione professionale - incontrare le persone in gruppo; trattare un

determinato gruppo di persone; gestire un gruppo classe...; oppure di modalità-dispositivo attraverso

il quale agire su un certo contesto - intervenire per mezzo del gruppo.

Inoltre, queste accezioni non sono chiaramente differenziate, ma si intrecciano senza chiare

distinzioni, secondo una varietà potenzialmente infinita di combinazioni. In definitiva, è innegabile

il carattere proteiforme, polisemico del termine, carattere che lo avvicina più ad una famiglia di

somiglianze che ad una nozione scientifica.

Il punto che in proposito ci interessa evidenziare è il seguente: a differenza di quanti ritengono

l'incerto statuto del concetto il riflesso del pluralismo presente in letteratura, o al limite il sintomo di

un deficit circoscritto di elaborazione teorica (relativo cioè alla concettualizzazione del costrutto)

esso va considerato conseguenza del problema epistemologico più generale che abbiamo

richiamato, cioè del fatto che la teoria assuma a proprio oggetto un ente definito dal senso comune

piuttosto che dalla teoria stessa.

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Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento

I Unità Didattica – Lezione 3

Un secondo argomento critico verso l'ontologizzazione

Veniamo ora al secondo argomento, portatore di una critica sul piano concettuale alla concezione

reificata del gruppo. Vale la pena partire anche in questo caso da un riferimento teoretico generale.

Il pensiero scientifico tradizionale ha orientato la scienza moderna allo studio di quelle "strutture

permanenti, immutabili ed universali" (Gergen, 1994) costitutive del nostro mondo; di contro,

l'ottica post-moderna (Vattimo, 1987) sottolinea come i dispositivi che sostanziano ed orientano i

processi simbolici non sono strutture di stampo kantiano, riflesso di qualità invarianti ed universali.

Se, dunque, il punto di vista moderno della scienza dispone ad una concettualizzazione del mondo

quale risultato di una struttura nascosta, conoscibile in base a misurazioni oggettive e leggi generali

che la regolano, il pensiero post-moderno porta a trattare le forme socio-simboliche, gli artefatti

culturali ed i modelli di significato veicolati socialmente, come altrettanti dispositivi socialmente

costruiti e derivanti dall’attività costruttiva ed interpretativa strutturata intersoggettivamente dagli

attori (Salvatore, 2003).

In questa sede ci interessa evidenziare un fondamentale principio euristico, implicato in tale shift

paradigmatico, sviluppato dalla psicologia di matrice socio-costruttivista: il carattere contestuale

dei processi psicosociali. Secondo tale principio, gli eventi di interesse psicologico, in quanto in

ultima istanza qualificabili come dinamiche di co- costruzione di senso, assumono forme specifiche

in ragione dei contesti socio-simbolici entro cui ed in ragione dei quali si dispiegano (Salvatore,

2004). Di conseguenza, l'idea di descrivere gli oggetti psicologici (la comunicazione,

l'apprendimento, la personalità, il gruppo) in termini di regolarità di funzionamento è una

semplificazione che per quanto possa avere qualche funzione di carattere comunicativo e di

semplificazione euristica, si scontra con limiti insuperabili nel momento in cui la si assume come

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modello normativo di conoscenza.

Il riconoscimento del carattere contestuale dei processi psicosociali rende cogente la dialettica tra

approccio nomotetico ed idiografico all'analisi psicologica. A proposito di tale dialettica, Molenaar

e Valsiner (2005) parlano di scienza idiografica, per evidenziare come il riconoscimento del

carattere contestuale e specifico dei fenomeni psicologici non vada considerato come il limite della

possibilità di sviluppare conoscenze cumulabili, quanto piuttosto il criterio in rapporto al quale

configurare i metodi di costruzione delle conoscenze sui fenomeni e sulla loro combinazione.

L’approccio idiografico di analisi non implica dunque una rinuncia alla quantificazione e più in

generale ad un criterio di consensualità, verificabilità e sistematicità della conoscenza scientifica;

ciò che lo qualifica è il riconoscimento della necessità di assumere come unità di analisi la relazione

tra caso individuale (che ovviamente non coincide necessariamente con la singola persona) e

contesto in cui è inscritto.

Il riconoscimento della contestualità dei processi psicosociali ha un'implicazione rilevante su quanto

in questa sede ci interessa approfondire. Se si accetta il principio secondo il quale un processo

psicosociale si organizza in ragione delle condizioni di contesto locale in cui si inscrive, allora va

riconosciuto che un qualsiasi assetto di relazione interumana può assumere un numero se non

infinito (i contesti sono comunque espressione di dimensioni di significato che la cultura conserva

entro un numero per quanto ampio, comunque vincolato) quantomeno ampio di forme e parametri

di funzionamento. Forme e parametri di funzionamento, inoltre e soprattutto, che si configurano in

ragione della funzione e della posizione che l'assetto di relazione umana assume entro il sistema di

attività che lo motiva. Di conseguenza, modellizzare tali forme nei termini di invarianza e

regolarità, significa in ultima istanza rappresentarle in termini semplificati e prototipici, se non

addirittura stereotipali.

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Il gruppo classe

Prendiamo in considerazione più specificamente la classe scolastica. Dal punto di vista che stiamo

discutendo, non si dà un assetto di relazione gruppale autonomo ed indipendente rispetto alla

classe. Al contrario la classe è tale assetto, in quanto la classe altro non è se non il significato che

motiva, media e opera come cornice di senso della relazione tra gli allievi: altro non vi è, se non

come produzione discorsiva degli attori sul loro essere classe, dunque come operazione di scissione

e reificazione della loro realtà organizzativa in ragione di modelli idealizzati di rappresentazione del

loro rapporto. In altri termini, una classe può anche essere definita o autodefinirsi "gruppo". Ma non

per questo è un gruppo: è una classe che usa il segno |gruppo| per parlare di se stessa attraverso e

nei termini della reificazione di una dimensione relazionale idealizzata (il gruppo) generante una

scissione simbolica tra un piano funzionale ed un piano degli affetti.

Possiamo dunque riconoscere come rappresentare la classe come un gruppo implica interpretare

stereotipalmente un sistema di attività contingente nei termini di un modello invariante; soprattutto,

implica non riconoscere il carattere contingente e istituito delle dinamiche psicosociali, operando un

doppio movimento di scissione e reificazione che da un lato separa la relazione umana dalla sua

inscrizione contestuale, cioè dal suo essere sempre e comunque un sistema di attività - una

relazione-per-fare-qualcosa ed al contempo reifica una rappresentazione idealizzata di una

relazionalità dotata di vita propria, in quanto tale alimento/fondamento psicologico dei sistemi di

attività (il gruppo).

In definitiva, così facendo invece di interpretare psicopedagogicamente la classe, cioè come

significato istituito regolativo del sistema di attività che sostanzia l'assetto di rapporto tra gli allievi,

si ipostatizza una forma pura (la relazione in quanto tale), assumendola a specifico fenomeno di

pertinenza psicosociale, come se fosse dotato di esistenza autonoma - dunque di regole, di modalità,

di proprietà funzionali e strutturali peculiari, indipendenti dal sistema di attività, per questo motivo

in ultima istanza acontestuali (Salvatore, 2001; Salvatore, Scotto di Carlo 2005).

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Per concludere

In definitiva, il senso di quanto fin qui detto consiste nella seguente conclusione: non esiste un

gruppo in quanto modalità specifica ed autonoma di funzionamento dei collettivi umani – dunque

della classe – separabile dall’attività e dalle sue regole/meccanismi di organizzazione e di

realizzazione.

Ciò ha una evidente ricaduta nel campo della didattica. Significa infatti che l’insegnante non ha

necessità di attribuire alcuni aspetti del comportamento della classe a variabili relazionali

indipendenti dalla didattica (cioè a fattori connessi al gruppo come variabile psicosociale

separata), e può dunque provare ad interpretare tutto quanto accade, dunque ad intervenire su

quanto succede, dall’interno dell’azione didattica.

E’ in ciò il senso del titolo di questo corso - “tecniche di gestione didattica dei gruppi di

apprendimento”: la possibilità di gestire in termini didattici i gruppi, in quanto gruppi-impegnati-in-

una-attività (apprendere)

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Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento

I Unità Didattica – Lezione 4

L'apprendimento-insegnamento. Lineamenti di una concezione costruttivista e dialogica

Negli ultimi due decenni si è sviluppata una rinnovata attenzione intorno ai processi di

apprendimento. Sotto la spinta delle proposte concettuali della psicologia culturale e del socio-

costruttivismo (Varisco 2002), il modello cognitivista ha gradualmente perduto il ruolo egemonico

ricoperto negli anni ’70 e ’80; sicché l’attuale pensiero psicopedagogico si presenta come un

discorso aperto, privo di una cornice paradigmatica unitaria. E’ indicativo in questo senso quanto

scrive Pontecorvo, nel capitolo introduttivo al diffuso Manuale di Psicologia dell’educazione da lei

curato (Pontecorvo, 1999)

“Un lettore avveduto si potrà chiedere come mai né in questo né in altro capitolo

si trovi una esposizione sistematica della prospettiva cognitivista al di là di molti

accenni. Le teorie cognitiviste, nelle loro applicazioni specifiche secondo il principio

della specificità di dominio, sono presenti come riferimento rilevante in alcuni dei

capitoli che seguono (…). Tuttavia ne manca una presentazione generale e soprattutto

non vengono riconosciute come guida per impostare un discorso psicoeducativo che

vuole avere una valenza sociale e una spendibilità formativa.

La ragione profonda è che chi scrive, insieme a molti che hanno contribuito a

questa opera, non ritengono di poterla considerare come teoria generale di riferimento,

come era sembrato possibile tra gli anni ’70 e gli anni ’80, quando si era pensato che il

cognitivismo potesse essere la guida per innovare profondamente l’educazione e la

psicologia dell’educazione fino ad allora, almeno nella vulgata angloamericana

prevalente, completamente dominata dal comportamentismo.

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(…)

La motivazione più profonda di questa scelta è che si è preferito un approccio

psicologico quale quello esposto in questo capitolo che fosse capace di interpretare e

guidare i processi educativi complessi, tenendo conto delle dimensioni di contesto,

cultura, contenuto e metodo, e che non trascurasse la costruzione dell’identità

dell’individuo e le sue valenze etico-sociali..” (Pontecorvo, 1999, pp. 13-14)

Pur non rappresentando un’alternativa radicale al cognitivismo, l’approccio

sociocostruttivista, con il recupero che propone delle dimensioni del contesto e del significato,

porta con sé una concezione fortemente innovativa dell’apprendimento. Una concezione che

sottolinea il carattere costruttivo, dialogico e dominio-specifico dei processi di apprendimento.

Dedichiamo la seconda parte di questa lezione approfondendo il primo aspetto.

Dedicheremo la prossima ai successivi due.

Il carattere costruttivo dell’apprendimento

L’apprendimento non è il precipitato immediato delle informazioni proposte dall’insegnante e più in

generale veicolate dal contesto. Al contrario, l’allievo costruisce il proprio conoscere elaborando le

informazioni nei termini ed in funzione dei propri modelli mentali e di conoscenza (schemi,

conoscenze, sistemi di credenze, categorie). Non sono dunque i dati in se stessi ad avere potere

informativo; il ruolo preminente l’hanno i modelli che presidiano il modo con cui tali dati sono

elaborati.

Questa idea è parte di una visione epistemologica più generale, relativa al rapporto tra soggetto e

oggetto della conoscenza. Secondo tale visione, l’informazione non sta nella stimolazione

ambientale, ma nel sistema di categorie e più in generale nei dispositivi interni (i cosiddetti fattori

intellettuali) del soggetto attraverso cui e nei termini dei quali la stimolazione stessa è trattata e

18
organizzata. Il che in altri termini significa che il soggetto “costruisce” l’ambiente, attribuendogli

significato in funzione delle categorie che possiede. Come dicono Maturana e Varela (1980): “tutto

ciò che è detto è detto da un osservatore ad un altro osservatore”.

Nell’ambito di questa concezione epistemologica, la conoscenza si sviluppa nei termini di

adeguatezza, piuttosto che di una rappresentazione che tenda ad avvicinarsi sempre più al vero.

Riportiamo quanto afferma von Glasersfeld (1981) a proposito del modello costruttivista.

“Alla consueta esigenza secondo cui la conoscenza dovrebbe rappresentare una

realtà indipendente ed assoluta alla quale non abbiamo accesso, questo modello

sostituisce la relazione di ‘adatto’, nel senso evoluzionista, secondo cui alle nostre

strutture cognitive è imposta la necessità di sopravvivere nello spazio che riescono a

trovare tra i vincoli dell’esperienza. In questa mutata prospettiva, la nozione tradizionale

di verità corrispondente ad uno stato di cose ontologico, viene sostituita dal concetto di

‘viability’.(...) Gran parte della resistenza incontrata dalla epistemologia costruttivista,

deriva tuttavia dal fatto che essa propone un cambiamento radicale nella concezione

della conoscenza stessa, Come ho detto all’inizio, il costruttivismo sostiene che la

maniera in cui le strutture cognitive da noi chiamate ‘conoscenza’, si rapportano al

‘mondo reale’ debba esser considerata secondo un rapporto di adeguatezza e non di

rappresentazione.Ciò significa che la relazione non deve essere intesa come analoga al

modo in cui un’immagine si può rapportare a ciò che si ritiene che essa rappresenti, ma

piuttosto come analoga al modo in cui un fiume si rapporta al paesaggio attraverso il

quale ha trovato il suo corso. Il fiume si forma ovunque il paesaggio consenta all’acqua

di scorrere. Vi è un’interazione continua e sottile tra la ‘logica’ interna dell’acqua (ad

esempio, il fatto che essa debba formare una superficie orizzontale e non può scorrere

dal basso verso l’alto) e la topologia del terreno. Sia l’una che l’altra impongono vincoli

al corso del fiume e lo fanno in maniera inseparabile. In nessun caso si potrebbe dire, ad

19
esempio, che il fiume gira a destra ‘perché’ c’è una collina, senza presupporre

implicitamente la logica dell’acqua che impedisce al fiume di scorrere dall’alto verso

basso. Il fiume così non rappresenta il paesaggio, ma si ‘adatta’ in esso, nel senso che

trova il suo corso fra i vincoli che si impongono, non a partire dal paesaggio o dalla

logica dell’acqua bensì, sempre e necessariamente, dall’interazione di entrambi gli

aspetti.” (von Glasersfeld, 1981; trad. it. pp. 103, 109)

20
Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento

I Unità Didattica – Lezione 5

Il carattere dialogico dell’apprendimento

L’organizzazione mentale possiede un’intrinseca valenza sociale. E ciò da almeno tre diversi e

complementari punti di vista.

In primo luogo, la mente è costitutivamente sociale in quanto, se è vero che i concetti sono teorie

(Neisser, 1987), è altrettanto vero che tali teorie sono elaborate collettivamente (Grasso, Salvatore,

1997). Diversamente da quanto vorrebbe quell’ampio e per altri veri variegato ventaglio di

posizioni che va dallo strutturalismo piagetiano al neocartesianesimo alla Fodor (1983), passando

per le diverse declinazioni in chiave sintattica o semantico-ecologica del cognitivismo (Sanford,

1987; Reed, 1986; Pessa, Penna, 2000), il culturalismo sottolinea come i modelli mentali (Johnson-

Laird, 1983) che sostanziano l’organizzazione del pensiero siano repertori di significati negoziati,

scambiati e recuperabili nell’interazione sociale, entro e per il tramite di specifici dispositivi

culturali (Bruner, 1986). Merito di questo punto di vista il recupero della visione vygotskijana della

mente come interiorizzazione dei dispositivi simbolici posti a mediazione del rapporto tra società e

ambiente (Cole, 1996; Mecacci, 1999).

In secondo luogo, la mente è intrinsecamente sociale, in quanto il pensare è un atto sociale,

finalizzato, strumentale e subordinato alle esigenze di regolazione della relazione sociale. Le

opinioni, i giudizi, i significati che le persone producono nella quotidianità non sono, dunque,

proiezioni epifenomeniche di un funzionamento cognitivo, basato su procedure incapsulate,

rispondente a regole date. Al contrario, il pensiero è intrinsecamente argomentativo e retorico

(Harrè, Gilet, 1994; Ligorio, 2004), orientato dall’esigenza degli attori di proporre e sollecitare

l’adesione alle visioni del mondo proposte. Ritorna qui la lezione del secondo Wittegenstein

(Edwards, Potter, 1992; Billig, 1996; Bonaiuto, Sterponi 1997; De Grada, Bonaiuto, 2003), dei

21
giochi linguistici come strumento ed espressione delle “forme di vita”, dei modi con cui gli attori

costruiscono gli spazi della loro storia e della loro reciprocità.

Infine, la mente è strutturalmente sociale in quanto è il prodotto dell’esperienza interpersonale. Il

che significa che il Sè è dialogico (Gergen, 1991; 1999), costruito e ricostruito come precipitato

delle negoziazioni di senso abitate dal soggetto.

Questa impostazione ha influenzato profondamente il modo di concepire i processi di

apprendimento. Sotto la spinta anche della riscoperta del pensiero di Vygotskij, un numero

crescente di studiosi ha cominciato a considerare l’apprendimento in quanto inscindibilmente legato

al contesto di socializzazione entro il quale - ed in ragione del quale - si produce. L’apprendimento,

infatti, avviene entro ed attraverso lo scambio dialogico che si instaura nel gruppo degli allievi e

nella relazione con l’adulto/docente (Carugati, Selleri, 1996).

Particolarmente significativa, in questa direzione, la nozione vygotskijana di zona di sviluppo

prossimale, che sta ad indicare le capacità prossime e potenziali che il soggetto può esprimere in

ragione dell’aiuto di un soggetto più competente. Alla nozione di zona di sviluppo prossimale si

collega il concetto di scaffolding (scaffold=impalcatura), che indica l’azione di sostegno dell’adulto

nei confronti del bambino impegnato in una determinata attività, funzione che viene

progressivamente ritirata parallelamente all’aumentare della capacità del bambino di padroneggiare

il compito.

L’apprendimento, inoltre, si realizza per il tramite delle risorse cognitive e di senso proprie del

gruppo sociale. Inoltre ancora, non esiste in sé, ma in quanto processo (luogo ed insieme strumento)

di partecipazione e di appartenenza del singolo ad una comunità di pratiche (Ligorio, 2002) . Le

comunità di pratiche sono:

“Aggregazioni informali (…) definite non solo dai loro membri, ma dal condividere i modi con cui

si fanno le cose e si interpretano gli eventi (…) nelle comunità di pratiche le relazioni sociali si

22
creano attorno alle attività, le attività prendono forma attraverso le relazioni e particolari

conoscenze ed esperienze diventano parte dell’identità individuale e prendono posto nella

comunità.” (Eckert 1993, cit. in Zucchermaglio, 1999, pag. 330)

“La comunità di pratiche è una condizione intrinseca di esistenza della conoscenza, e non

solo perché fornisce il supporto interpretativo necessario a comprenderla. La partecipazione alle

pratiche culturali nelle quali prende forma ogni conoscenza è un principio epistemologico

dell’apprendimento.” (Lave, Wengen, 1991; cit. in: Zucchermaglio, 1999, pag. 330).

Il carattere dominio-specifico dell'apprendimento

Abbiamo già fatto riferimento ad alcuni aspetti legati alla contingenza dell’apprendere. Ne

richiamiamo uno ulteriore, che alimenta in modo rilevante il dibattito psicopedagogico: il tema della

specificità di dominio (domain specificity).

La questione può essere sintetizzata con il seguente interrogativo: posto che la conoscenza si

acquisisce/costruisce in rapporto ad un determinato ambito di esperienza, in che misura essa è

utilizzabile in altri contesti?

La risposta della teoria della specificità di dominio a questo interrogativo riflette una concezione

modulare del funzionamento della mente (Fodor, 1983). Secondo tale concezione, l’apparato

cognitivo è un sistema differenziato; i sottosistemi in cui si articola operano in modo chiuso (Fodor

utilizza il termine “incapsulato”) o comunque con ridotta comunicazione. (In realtà, il riferimento di

questa teoria a Fodor va inteso essenzialmente in termini analogici. Infatti, Fodor considera

incapsulato soltanto una parte del sistema mentale: i sistemi di elaborazione dell’input. La teoria

23
della specificità di dominio, invece, propone un’idea generalizzata della modularità).

Conseguentemente, la ristrutturazione degli schemi mentali in un determinato dominio non implica

la sua generalizzazione ad altri domini.

Illustriamo questa linea di pensiero prendendo a riferimento il lavoro di Cole, uno dei principali

esponenti dell’approccio culturale (Cole, 1996). Lo studioso differenzia i due orientamenti in gioco

(approccio universalista vs approccio dominio-specifico) sulla base del modello di elaborazione

presupposto come mediatore tra stimolo-esperienze di apprendimento e risultati cognitivi.

Secondo la tesi universalista, i diversi stimoli accedono ad un sistema di elaborazione unico,

centralizzato; di conseguenza, i risultati dell’elaborazione sono generalizzabili entro il sistema

cognitivo. Secondo la tesi opposta, della specificità di dominio, gli stimoli di apprendimento

accedono ad un elaboratore distribuito, articolato in schemi di rappresentazione della conoscenza,

ciascuno specifico per un determinato ambito di compito cognitivo. Ad esempio, alcune ricerche, a

cui lo stesso Cole ha partecipato, sul rapporto tra alfabetizzazione, scolarizzazione e sviluppo delle

abilità cognitive (Scribner, Cole, 1978; 1981, cfr. in Boscolo, 1997), hanno mostrato che la capacità

dell’apprendimento della scrittura di produrre capacità cognitive generali (capacità di

classificazione e di ragionamento) non è assoluta ma dipendente dal contesto di apprendimento. Le

ricerche in oggetto sono state realizzate presso una popolazione della Liberia, al cui interno

convivevano due diverse modalità di alfabetizzazione: scolarizzazione e apprendimento informale

della scrittura. Ebbene, i risultati della ricerca hanno mostrato che solo nel caso in cui sia appresa

entro il contesto formale della scolarizzazione la scrittura produce effetti cognitivi. D’altra parte,

come mostra un ulteriore risultato di questi ricercatori, l’alfabetizzazione non sembra produrre

effetti cognitivi generali neanche nell’ambito più specifico dell’abilità metalinguistica (la capacità,

cioè, del soggetto di rappresentarsi e monitorare la propria produzione linguistica). Nel loro

complesso questi studi hanno mostrato come l’apprendimento della scrittura si traduca nello

sviluppo di abilità cognitive specifiche, piuttosto che di competenze cognitive generali, connesse a

24
compiti intellettuali trasversali ai diversi campi di esperienza.

“L’analisi di Scribner e Cole va considerata da due punti di vista. Da un lato, essa rappresenta

un’importante tappa nella costruzione del rapporto cultura-cognizione in termini di contesto,

che caratterizza l’approccio socioculturale: la cultura non è una variabile indipendente dalla

cognizione, ma è l’insieme delle situazioni, attività, contesti e strumenti con cui la gente

interagisce e svolge le varie funzioni cognitive. Dall’altro lato, quell’analisi è una disconferma

dell’ipotesi ‘forte’ dell’alfabetizzazione, secondo cui la scrittura è stata, nella storia della

civiltà, responsabile di nuove forme di discorso e di pensiero.” (Boscolo, 1997, pag. 79)

Le ricerche di Scribner e Cole non sono le uniche ad aver mostrato la limitata generalizzabilità delle

competenze cognitive acquisite. A titolo di esempio, per il loro carattere emblematico, si possono

citare le ricerche sulla cosiddetta “matematica di strada”. In una serie di studi di campo condotti su

un campione di bambini e ragazzi brasiliani dediti al piccolo commercio (Carraher, et al., cit. in

Carugati, Perret-Clermont, 1999), si è verificato come questi fossero perfettamente capaci di

utilizzare nozioni matematiche anche complesse, necessarie per svolgere la loro attività

commerciale “di strada”, mentre registravano elevate percentuali di insuccesso nella soluzione di

problemi di livello analogo di tipo scolastico. Un altro ambito di ricerca che porta elementi a favore

della tesi della specificità è rappresentato dagli studi sull’expertise professionale (Zucchermaglio,

2002), che mostrano come l’esperto si differenzi dal novizio non sul piano delle

strategie/competenze cognitive globali, ma per il modo con cui organizza la specifica base di

conoscenza connessa al compito.

La tesi della specificità non è tuttavia esente da problemi. Il più rilevante è evidentemente quello

rappresentato dal transfer. E’ innegabile, infatti, che le persone utilizzano alcune abilità in modo

trasversale rispetto ai contesti. La teoria della specificità di dominio deve offrire una spiegazione a

25
questo fatto. In altri termini: in che modo la mente diventa capace di trasferire abilità apprese entro

determinati contesti, anche in altri domini? La risposta che Cole (1996) dà a questo interrogativo

mostra l’intreccio tra teoria della specificità e approccio socioculturale.

Lo studioso, infatti, per spiegare il transfer dell’apprendimento sposta l’attenzione dai processi

intrapsichici al contesto, inteso come sistema di attività entro e nei termini del quale più individui

interagiscono. Ogni contesto costituisce un dominio di significati e di prassi specifico; inoltre, ad

ogni contesto corrisponde uno schema, cioè una rappresentazione della conoscenza relativa a tale

contesto.

L’estendibilità di uno schema dal contesto iniziale in cui è stato elaborato ad altri contesti, dipende

dalla coerenza/omogeneità tra tali contesti . D’altra parte, tale omogeneità è un precipitato culturale,

in quanto i diversi contesti di attività sono partecipi di una stessa cultura, la quale ha a disposizione

diversi dispositivi simbolici (primo fra tutti il linguaggio) per assicurare la regolarità tra i contesti,

necessaria a rendere prevedibile l’ambiente sociale.

In definitiva, nell’ottica di Cole, il transfer di apprendimento perde il suo significato di processo

intrapsichico, espressione delle proprietà di un sistema cognitivo astratto e decontestualizzato, e

viene interpretato come epifenomeno della regolarità dei contesti di attività, generato

dall’assimilazione culturale della variabilità ambientale.

26
Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento

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Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento

II Unità Didattica
EMOZIONI E SENSO NEL PROCESSO DI APPRENDIMENTO

Lezione 1

La dimensione affettiva dell’insegnamento-apprendimento

Premessa

Per avanzare nella direzione ora indicata, ci sono utili alcune premesse.

Come abbiamo già avuto modo di affermare, secondo la prospettiva socio-costruttivista nelle

precedenti due lezioni, l’insegnamento-apprendimento è un processo dialogico regolato dai

significati che i partecipanti elaborano e mettono in gioco.

Da questo vertice interpretativo, sia le pratiche (il loro orientamento, le modalità con cui sono

realizzate, gli scopi verso cui sono dirette, le identità e intersoggettività che le mobilitano e

motivano), che gli oggetti della conoscenza, sono fondati e mediati dai dispositivi semiotici attivi

entro il contesto formativo (Pontecorvo, 1990; Cole, 1996). Inoltre, secondo l’ottica psicodinamica,

tali dispositivi semiotici - le interpretazioni e i significati che essi permettono di realizzare - sono a

loro volta espressione di processi intersoggettivi di simbolizzazione affettiva. Il che in definitiva

significa considerare la dimensione affettiva come fondamentale processo di semiosi che definisce

(istituisce) la cornice di senso (contesto) a sua volta fonte e riferimento della co-costruzione di

significati in cui si sostanzia lo spazio dialogico della formazione.

Concentreremo quindi la nostra attenzione sull’intreccio tra la dimensione conscia e la dimensione

affettiva delle dinamiche di costruzione intersoggettiva di senso che alimentano e sostanziano

l’insegnamento-apprendimento.

In tal senso proponiamo di considerare il processo di insegnamento-apprendimento nei termini di

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quattro differenti dimensioni contestuali, intese come altrettante componenti che intervengono a

definire la specifica configurazione di ogni attività formativa:

 gli scopi e il senso delle pratiche formative (il perché dell’insegnamento-apprendimento);

 il posizionamento socio-discorsivo degli attori implicati nelle pratiche formative (il chi);

 la costruzione/rappresentazione degli oggetti del sapere (il cosa);

 le modalità cognitive e discorsive delle pratiche di insegnamento-apprendimento (il come).

Intendiamo queste dimensioni come coordinate di riferimento utili per definire uno spazio

cartesiano entro cui modellizzare l’insegnamento-apprendimento. Ciascuna pratica concreta può

quindi essere definita dalla sua posizione (se si vuole: dai valori di coordinata) su tali dimensioni.

Possiamo a questo punto fare un ulteriore, ultimo passaggio. Ciascuna delle quattro dimensioni ora

richiamate incontra la dimensione inconscia e così facendo genera un piano, che descrive una

specifica forma di interazione conscio-inconscio: una modalità attraverso la quale la componente

affettiva dell’insegnamento-apprendimento partecipa alla configurazione del processo formativo.

Il senso delle pratiche di insegnamento-apprendimento: il perché

Gli attori implicati in una attività di insegnamento-apprendimento sono impegnati a dare senso alla

propria partecipazione: ad interpretare/elaborare il rapporto tra pratica di insegnamento-

apprendimento e il più ampio spazio di vita entro cui tale pratica si inscrive.

Ciò avviene secondo due complementari modalità.

Da un lato, l’esperienza formativa viene connotata in ragione dei significati che il soggetto

attribuisce al proprio ambiente di vita. Da questo punto di vista, l’esperienza di partecipazione al

contesto di apprendimento si configura come un testo interpretato secondo codici propri di universi

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simbolici altri e diversi da quelli scolastici (la famiglia, il quartiere, il gruppo di amici, i domini di

fruizione massmediale…).

Allo stesso tempo, tuttavia, prendere parte ad una pratica formativa si configura come un atto, in

quanto tale dotato di un valore performativo (Austin, 1962): portatore di una valenza di

affermazione costruttiva di senso e di realtà. Da questo punto di vista, dunque, l’esperienza di

formazione si costituisce come testo interpretante: veicolo di significazione che esprime

l’investimento del soggetto su una specifica versione di identità.

E’ entro questo circolo ermeneutico, dove scuola e mondo diventano ciascuno reciprocamente fonte

di senso - significante e significato dell’altro - che gli attori partecipi di un ambito formativo

costruiscono intersoggettivamente il valore di esistenza del mondo che condividono, dunque la

cornice semiotica fondante il loro discorso e la loro attività.

Si pensi a come possa essere diversa l’esperienza scolastica di uno studente che si rappresenta

l’ambiente circostante (il territorio, il futuro) come caotico, chiuso, inaffidabile, impermeabile agli

investimenti ed al progetto, rispetto all’esperienza di uno studente che vive il mondo come spazio

aperto e ricettivo, sostanziato da strutture e soggetti accoglienti, affidabili, disponibili

all’interlocuzione.

In un caso, la scuola potrà essere vista come rifugio o come un luogo dove agire l’impotenza

sperimentata nei confronti del mondo; nell’altro come percorso progettuale di investimento su

quelle competenze e/o su quelle ritualità di appartenenza fondanti l’inscrizione nel mondo degli

adulti.

Si pensi, da un punto di vista complementare, a come possa configurarsi diversamente la forma di

partecipazione scolastica di uno studente che ha dato a tale partecipazione il valore di adesione alla

norma familiare, rispetto a quella dello studente che le ha attribuito il significato di un atto di sfida,

o di affrancamento dall’autorità.

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In sintesi la partecipazione ad una attività formativa è mediata dal senso che gli attori co-

costruiscono entro e in ragione dello spazio transazionale che si stabilisce tra contesto formativo e

ambiente di vita. La nostra tesi è che simile processo di co-costruzione di senso non si realizzi

esclusivamente - né primariamente - in termini di negoziazione semantica; al contrario, rifletta la

salienza di dinamiche di simbolizzazione affettiva, fondate sul modo di essere inconscio della

mente. Infatti, le dinamiche semiotiche che sostanziano la co-costruzione di senso si esprimono

secondo un registro di generalizzazione, omogeneizzazione e assolutizzazione delle connotazioni,

che sono segni peculiari e distintivi dell'emozionalità e degli affetti (Salvatore, 2004a).

Per chiarire ed argomentare quanto ora affermato, nella prossima lezione ricorreremo

all’illustrazione di un caso.

Un caso esemplificativo

Richiamiamo come esemplificativa una situazione che abbiamo raccolto in qualità di responsabile e

supervisore del Centro di Consultazione Psicologica di un’Università italiana.

Marco è uno studente di 26 anni, iscritto al corso di laurea in giurisprudenza. Si rivolge al servizio di

consultazione in quanto sente di star sprecando il proprio tempo, di non riuscire a studiare e a dare esami

come vorrebbe. Si sente e si dichiara impotente: incapace di dare impulso ed orientamento al proprio

percorso di studio, soggiogato dal peso di una distanza e di una contraddizione che avverte sempre più

ampia, lacerante e irrisolvibile tra il desiderio di laurearsi, l’interesse per i contenuti dello studio, da un lato,

e l’incapacità di impegnarsi in modo sistematico, di mettersi sui libri a studiare, dall’altro. Si rivolge al

servizio di consultazione con la richiesta e la speranza di essere aiutato, di essere fortificato nella propria

motivazione, di essere sostenuto e rinsaldato nel suo impegno, nel suo tentativo di mantenersi orientato al

compito.

Nello sviluppo dei colloqui di consulenza, diventa via via più chiaro un aspetto della posizione di Marco: il

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senso performativo della sua lamentata impotenza; in altri termini, la sua esigenza di connotare in termini di

fallimento gli aspetti dialettici del percorso formativo. Sulla base di questa ipotesi interpretativa, Marco e il

consulente elaborano un’ulteriore ipotesi sul senso attribuito all’esperienza universitaria, così sintetizzabile:

“il mio fallire negli studi è la mia vittoria contro il potere annichilente dei miei genitori”.

In questa sede non intendiamo approfondire le implicazioni teorico-tecniche della consulenza al

caso. L’abbiamo proposto per la sua valenza esemplificativa relativamente ad una serie di aspetti

che la nostra discussione ha in precedenza richiamato. Riprendiamoli brevemente.

Marco arriva alla consulenza con un determinato senso soggettivo della propria esperienza

universitaria. Ovviamente “soggettivo” non va qui inteso come equivalente a “individuale”. L’idea

di Marco di essere improduttivo, incapace di stare al passo, è una categoria di senso intrinsecamente

sociale. Sociale in quanto si configura in ragione di tutta una serie di premesse normative che sono

evidentemente parte del contesto culturale e intersoggettivo in cui Marco è inscritto. Sociale,

inoltre, in quanto tale idea è comunque elaborata entro lo scambio dialogico intersoggettivo (tanto

diretto ed agito, tanto sedimentato nelle ritualità, nei modi di dire, di fare e di pensare che danno

forma al discorso interiore; Billig, 1996; 2003).

Il senso che Marco dà alla propria attività di studente diventa al contempo campo ed oggetto della

negoziazione con il consulente, non diversamente di quanto accada con gli altri attori (studenti,

docenti, familiari…).

Tuttavia, per la specifica funzione rivestita, il consulente non si mantiene con il consultante sul

piano della negoziazione semantica, ma persegue l’obiettivo di espandere l’area dei significati, di

andare oltre (pensandole) le premesse date-per-scontate del discorso.

Ad esempio, oltre la premessa secondo la quale se uno studente è in ritardo con gli esami sta

perdendo tempo; così come la premessa secondo la quale se qualcuno vive con frustrazione una

certa condizione allora significa che non la desidera/non la persegue. Su questa base, la coppia di

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consultazione si mette nelle condizione di focalizzare le valenze affettive del discorso di

autorappresentazione di Marco. In particolare, l’aspetto di assolutizzazione e generalizzazione

(l’esperienza di insuccesso nel percorso di studio sta per - e si trasforma nel - vissuto totalizzante di

fallimento/impotenza), l’omogeneizzazione sdifferenziante (l’equivalenza posta tra esperienza

universitaria ed autorità paterna). Soprattutto, il trattare il discorso secondo il codice interpretativo

dell’inconscio permette di attivare un ulteriore senso, aperto a - ed al contempo riflettente - la

possibilità che i significati che configurano l’identità locale (quella di studente, nel caso) siano

ambivalenti, intrinsecamente e irrimediabilmente contraddittori, paradossali.

In definitiva la possibilità che si possa volere ciò che non si desidera e desiderare ciò che si rifugge

e che tutto ciò conviva con la capacità razionale e progettuale; anzi, la fonda e permette.

Il fatto che l’esempio proposto riguardi un individuo potrebbe indurre a pensare che la dimensione

affettiva attenga alle singole persone (in linea con la concezione tradizionale che tratta le emozioni

come la componente idiosincratica degli individui). In realtà, l’idea di affetto ed emozione come

deficit di razionalità è molto lontana dalla visione che qui si sta proponendo. Torna dunque utile un

ulteriore riferimento, questa volta direttamente centrato sulla dimensione affettiva di una dinamica

culturale.

Una recente ricerca sulle culture professionali dei docenti della scuola italiana (Salvatore et al.,

2004) ha permesso di enucleare sei differenti raggruppamenti di docenti, ciascuno dei quali

portatore di una specifica e differenziale cultura professionale, dunque di una identità di ruolo.

Ciascuno di tali modelli può in questo senso essere considerato una semantica: una particolare

modalità di dare significato all’esperienza di ruolo, agli aspetti che la qualificano (concezione

dell’insegnamento-apprendimento, problemi della scuola, prospettive di sviluppo, rappresentazione

dell’ambiente sociale e dell’utenza…).

Allo stesso tempo, in ragione della metodologia di analisi adottata, la ricerca ha permesso di

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individuare lo spazio simbolico di cui le diverse semantiche enucleate costituiscono altrettanti

posizionamenti discorsivi (Harrè, Gillet, 1994).

Tale spazio simbolico si struttura intorno ed in ragione di alcuni fondamentali processi di

categorizzazione, che, per le loro valenze di connotazioni generalizzanti e omogeneizzanti,

corrispondono ad altrettante espressioni di ciò che in questa sede abbiamo definito simbolizzazione

affettiva (o inconscia). In particolare, dall’indagine è emerso che l’universo simbolico dei docenti

della scuola italiana si organizza in primo luogo nei termini della dialettica emozionale ritiro da vs

investimento sull’ambiente/alterità.

In altri termini, secondo una connotazione del contesto buono/cattivo, che costituisce la prima e

fondamentale forma di rappresentazione generalizzante ed assolutizzante del contesto, che lo

qualifica valutativamente (Capozza, 1977), in modo mutuamente alternativo, in chiave di

idealizzazione (ambiente/Altro come assolutamente pieno di tutte le cose buone possedute al

massimo grado) o contro-idealizzazione (ambiente/Altro come assolutamente pieno di tutte le cose

cattive, possedute al massimo grado).

Un’ultima considerazione. La dialettica simbolica buono/cattivo attraversa e alimenta tutte le sei

culture professionali, ciascuna delle quali può in questo senso essere interpretata come una

declinazione specifica di tale movimento semiotico fondamentale.

In quest’ottica, lo spazio simbolico, ovvero la dimensione inconscia del senso, si costituisce come

la matrice dei significati, il codice condiviso generativo della cultura. La varietà delle produzioni

discorsive, delle affermazioni assiologiche, la molteplicità dei punti di vista e dei processi di

costruzione di significato messi in gioco dagli attori costituiscono altrettante espressioni contingenti

di tale codice, di cui si fanno interpreti diversi segmenti della popolazione.

In conclusione, la mappatura culturale che abbiamo richiamato permette di evidenziare - dunque di

connetterli dal punto di vista ermeneutico - due differenti livelli del significato:

• il piano semantico delle idee, delle rappresentazioni e dei valori che gli attori adottano come

40
criteri di categorizzazione, narrazione e negoziazione del contesto e delle identità;

• il piano simbolico, dove si configura la matrice emozionale - inconscia - fondante e

generativa delle rappresentazioni culturali.

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Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento

II Unità Didattica – Lezione 2

Il posizionamento dei partecipanti entro le pratiche formative: il chi

La natura ermeneutica dell’insegnamento-apprendimento

Lo scambio intersoggettivo che media e sostanzia il processo di insegnamento-apprendimento è

regolato da significati condivisi, al contempo sottoposti ad un continuo lavoro di ridefinizione

negoziale. Sono tali significati condivisi a configurare le “regole del gioco” che definiscono il

reciproco posizionamento (Harrè, Gillet, 1994) dei partecipanti entro l’attività formativa.

Allo stesso tempo, i partecipanti concorrono incessantemente, dall’interno e per mezzo del proprio

agire, a consolidare, reinterpretare, elaborare e far evolvere tali significati, dunque il loro contesto

discorsivo e di attività. Solo in parte questi significati regolativi sono codificati ed oggetto di

conoscenza dichiarativa. In genere, essi si esprimono in modo indiretto, come atteggiamenti,

modalità dell’agire, copioni; come norme, assetti ed artefatti materiali; come presupposti dati per

scontati che orientano ragionamenti, aspettative, valutazioni; ancora, come criteri di canonicità e

forme di narrazione, come retoriche e ritualità.

In un loro lavoro, Perret-Clermont e Iannaccone (2005) riportano quanto accaduto in una scuola

superiore svizzera, di indirizzo tecnico professionale. La scuola aveva acquistato un macchinario

particolarmente innovativo e costoso, equivalente a quello effettivamente utilizzato nei sistemi di

produzione. L’apparecchio costituiva dunque, almeno nelle intenzioni (nelle interpretazioni) dei

docenti, una risorsa preziosa per gli studenti, finalizzata allo sviluppo di abilità qualificate ed

appetibili. Il macchinario della scuola presentava tuttavia un’unica differenza rispetto a quello

utilizzato nei processi di produzione: per permettere di visualizzarne e capirne il funzionamento, era

inserito in una struttura trasparente. Tale differenza fece sì che il macchinario fosse percepito dagli

studenti come un gioco, come una simulazione lontana dalla realtà. In altri termini, gli studenti

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attribuirono un significato all’oggetto (questa macchina è una finzione!) conflittuale rispetto a

quello dei docenti; significato che si sostanziò in un posizionamento di disimpegno relativamente

alla partecipazione al contesto di attività mediato dal macchinario.

L’episodio raccontato da Perret-Clermont e Iannaccone rende evidente il carattere intrinsecamente

ermeneutico delle attività di insegnamento-apprendimento. Allievi e docenti (ma anche gli altri

soggetti interessati: dirigenti, genitori, personale tecnico e amministrativo…) configurano ed

orientano le proprie modalità di partecipare ai processi di insegnamento-apprendimento in ragione

di come interpretano (dialogicamente) tali processi, dunque dei significati che attribuiscono ai

diversi elementi/oggetti/interlocutori che articolano la loro esperienza. Tutto ciò che è esperito è

motivo ed oggetto di semiosi: le forme dello spazio e del tempo scolastico, i criteri e le norme

organizzative, le procedure di lavoro, gli assetti di ruolo, la scuola, le regole di comportamento, le

attese reciproche, l’apprendimento e l’insegnamento stessi, i processi mentali implicati… D’altra

parte, l’attività interpretativa che accompagna e si intreccia alle pratiche di insegnamento-

apprendimento è per sua natura dialettica e negoziale. I significati non sono attribuiti, non sono cioè

predefiniti e dunque applicati. Al contrario, sono sistematicamente ricreati entro e in ragione dei

contesti di azione. Si torni al conflitto intorno al macchinario a scopo didattico della scuola

svizzera: è un giocattolo o uno strumento tecnologico innovativo? Chi lo usa fa solo finta di

prepararsi ad un mestiere o è quanto mai vicino alla prestazione professionale sulla quale sta

investendo?

La negoziazione può essere conflittuale (come accade tra i docenti e gli allievi della scuola

svizzera) o improntata alla cooperazione e alla ricerca di equilibri tra le proprie intenzioni e

l’attribuzione di intenzioni altrui (come invece accade a Marco e al consulente al quale si rivolge) o,

ancora, conflittuale e cooperativa insieme (come spesso accade nella vita quotidiana).

Quale che sia il modo con cui si realizza, essa rimane comunque il luogo e la modalità attraverso

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cui le interpretazioni di configurano e riproducono intersoggettivamente.

Sono a questo punto necessarie due puntualizzazioni.

In primo luogo, va evidenziato come la negoziazione dei significati trovi il proprio vettore nella

valenza performativa delle pratiche. Ciò che si vuol dire è che i partecipanti ad una interazione

educativa non negoziano significati e regole del gioco in momenti diversi e separati rispetto al loro

agire quotidiano. Certo, possono in certi momenti sospendere tale agire e metacomunicare su di

esso. Tuttavia, si tratta di momenti rari: in genere i significati sono scambiati indirettamente, in

quanto implicazioni che si reificano attraverso gli atti a cui sono legati. Il che in altri termini

significa che le modalità di partecipazione se da un lato sono espressione delle interpretazioni che

gli attori negoziano, allo stesso tempo affermano i significati che li alimentano, in questo modo

realizzando (reificando) ciò che implicano. E’ a questo meccanismo semiotico che ci si riferisce

richiamando il concetto di performatività delle pratiche1 (Austin, 1962).

In secondo luogo, va richiamata la circolarità ermeneutica della semiosi negoziale. Il carattere

negoziale, intersoggettivo delle pratiche interpretative che sostanziano e mediano le attività di

insegnamento-apprendimento (così come qualsiasi altra pratica socio-discorsiva) è possibile in

quanto fondato su significati sovraordinati che funzionano da premesse. In altre parole, la

negoziazione delle differenze è possibile nella misura in cui su un altro piano gli attori condividono

delle premesse, cioè dei modelli interpretativi generali che in ultima istanza fondano il valore di

realtà dello scambio intersoggettivo (Berger, Luckmann, 1966).

Si sta dunque dicendo che l’intersoggettività richiede un fondamento di codice condiviso, che

strutturi una primitiva interpretazione del contesto: una cornice di senso (Perret-Clermont,

Iannaccone, 2005) che qualifica ciò che può così essere considerato ovvio, dato per scontato,

trattato come realtà-delle-cose.

La cornice di senso condivisa funziona come istituito (Mehan, 1997), convenzione reificata in dato-

1
. Si veda anche il concetto di prolessi proposto da Cole (1996).

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di-fatto, in quanto tale a sua volta capace di istituire significati. In definitiva, pensare/negoziare

significati presuppone significati istitutiti sovraordinati: significati che permettono di

pensare/negoziare, ma non si lasciano pensare/negoziare.

Le considerazioni fin qui svolte ci portano ad individuare il ruolo della dimensione affettiva.

Secondo la nostra proposta, la cornice di senso che si costituisce come istituito della negoziazione è

il prodotto della semiosi affettiva.

Ritorna dunque il carattere duplice della semiosi a cui abbiamo in precedenza fatto riferimento. Nei

termini della presente discussione, possiamo così precisarlo: gli attori istituiscono il senso del loro

rapporto/attività sul piano inconscio, come costruzione di uno spazio simbolico affettivo condiviso;

tale spazio simbolico condiviso si costituisce come matrice delle successive pratiche interpretative,

che si realizzano sul piano semantico, della negoziazione dialogica dei significati.

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Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento

II Unità Didattica – Lezione 3

La costruzione degli oggetti della conoscenza: il cosa

L’insegnamento-apprendimento: una dinamica ricorsiva

Il carattere costruttivo dell’apprendimento non si esprime solo a livello del processo, ma investe

anche l’oggetto su cui il processo si dispiega. Il che è un altro modo per affermare che il contenuto

della conoscenza non sia dato, ma costituisca un costrutto intersoggettivo (Bruner, 1996; Grossen,

Perret-Clermont, 1994; Scardamalia, Bereiter, 1994).

L’apprendimento consiste nel costruire concetti attraverso la mediazione di altri concetti. Inoltre, i

concetti non sono entità astratte e fisse, ma modi di entrare in rapporto con il mondo, che

qualificano la loro forma in maniera contingente, in ragione del modo con cui sono utilizzati entro

le pratiche discorsive (Wittgenstein, 1953), in ragione del modo con cui operano in quanto

mediatori dell’intersoggettività.

Questa prospettiva configura l’insegnamento-apprendimento nei termini di una dinamica ricorsiva:

un processo che si realizza a partire da premesse fondanti che a loro volta, circolarmente, sono

generate entro ed attraverso il processo stesso. Il che in altri termini significa che la costruzione

dell’oggetto della conoscenza (per restringere il campo all’elemento che in questa sede ci interessa)

è, allo stesso tempo e circolarmente processo istituente e mediatore dell’insegnamento-

apprendimento. Senza alcuna pretesa di sistematicità, richiamiamo di seguito alcuni processi socio-

cognitivi che entrano in gioco a questo livello.

Ricerche e concettualizzazioni ormai classiche, pur da prospettive e con intenti differenti, hanno

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evidenziato come le rappresentazioni su cui il pensiero opera implicano, da un lato, operazioni di

selezione e pertinentizzazione delle informazioni, dall’altro elaborazioni costruttive, tali in quanto

capaci di andare oltre l’informazione disponibile (Beyond the Information Given - BIG) e/o anche

di operare senza informazione disponibile (Without the Information Given - WIG) (Ausubel, 1968).

Una circostanza dove ben è evidente la valenza selettiva dell’apprendimento è nella presa di

appunti. Per certi versi, ciascun studente tende a selezionare in modo idiosincratico le informazioni

da incorporare nella propria rappresentazione della lezione; allo stesso tempo, la variabilità dei

modi con cui i dati trovano organizzazione (concettualmente, logicamente, ma anche spazialmente e

ironicamente - si pensi alle sottolineature, all’uso di colori diversi per segnale le relazioni di

priorità, di implicazione, ecc.) evidenzia la presenza di una molteplicità di strategie finalizzate alla

selezione delle informazioni pertinenti, ciascuna delle quali volta a costruire una particolare

rappresentazione dell’oggetto didattico, attraverso l’ordinamento logico-gerarchico degli elementi

selezionati come costitutivi.

Prendiamo ora in considerazione la seguente situazione.

Classe di ragazzi di 12 anni. Lezione di matematica. L’insegnante ha appena terminato la spiegazione della

procedura che permette di verificare se un numero è divisibile per 3 o per 9. Nel corso della spiegazione ha

anche precisato quali sono gli altri numeri per i quali è stata individuata una prova del genere. Si passa ad

alcuni esercizi dimostrativi e di consolidamento della comprensione. Gli allievi seguono e si applicano agli

esercizi con interesse, incuriositi da quella che appare una formula in qualche modo alchemica, quasi fosse

espressione di una proprietà magica dei numeri.

Fermiamoci per un momento sul senso di fascinazione, se non di vero e proprio stupore, che

avvolge la classe.

Da che cosa è alimentato, quale ne è la fonte? In linea generale, possiamo dire che evidentemente

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esso riflette il carattere non atteso, insolito della regola aritmetica; in altri termini la capacità della

regola di perturbare lo schema cognitivo degli allievi; se si vuole, il suo proporsi come violazione di

canonicità.

Ma, ci si può allora chiedere: su cosa poggia tale canonicità? Evidentemente su una

rappresentazione degli artefatti matematici a cui la regola in questione viene assimilata. Si potrebbe

in questo caso fare l’ipotesi che la canonicità attesa stia nel fatto che non vi sia rapporto tra qualità

individuale delle cifre che compongono i numeri e le proprietà dei numeri generati dalle cifre

componenti (dunque, ad esempio: le proprietà aritmetiche di 1 e di 2 non sono in relazione con le

proprietà di 12). Ebbene, nel caso in esame tale attesa è contraddetta: una numero è divisibile per 3

o per 9 se la somma delle cifre che lo compongono è divisibile rispettivamente per 3 e per 9.

L’esempio ora proposto ci sembra mostrare in modo efficace come la rappresentazione di un

oggetto di apprendimento (nel caso: le caratteristiche e i vincoli delle regole matematiche associate

alle operazioni aritmetiche) non si limiti alla registrazione passiva dei dati, ma implichi operazioni

di inferenza e di generalizzazione che portano ad andare “oltre l’informazione data” (nel caso:

l’inclusione della regola aritmetica in questione nella classe generale delle regole che sottendono al

principio della mancanza di rapporto tra cifre componenti ed entità numeriche composte).

La valenza costruttiva esercitata sui contenuti del lavoro formativo si esprime anche in un altro,

complementare modo: attraverso una funzione di connotazione, che attribuisce significati agli

oggetti e alle attività su di essi. Gli elementi del sapere (le operazioni su di essi) sono infatti

continuamente e ricorsivamente interpretati: qualificati con attributi, valenze, proprietà, che in

ultima istanza riflettono e veicolano il tentativo dei soggetti (della comunità) di regolare la relazione

(insieme cognitiva e pragmatica) con le conoscenze e più in generale con il processo di

insegnamento-apprendimento.

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Il papà chiede a Carlo: “Che cosa hai fatto oggi a scuola?”

“Per un po’ la maestra ci ha fatto lavorare: abbiamo imparato le lettere dell’alfabeto. Mamma mia che fatica!

Siamo stati bravi, e così siamo andati in giardino a giocare”, è la risposta del bambino di 5 anni.

“Che gioco avete fatto?”

“Prima abbiamo giocato a dare i nomi alle piante; poi, abbiamo cantato la filastrocca dell’alfabeto”.

Ecco un esempio insieme minimale e lampante di connotazione. Il contenuto di una pratica didattica

viene categorizzato in ragione di un modello istituito di senso (opposizione |lavoro scolastico| vs

|lavoro non-scolastico|) che segmenta e scandisce il fluire dell’esperienza, così da generare contesti

che si propongono agli attori formativi come ambiti di esperienza (lo stare in classe come lavoro vs

lo stare in giardino come gioco): quadri costituiti da regole del gioco (gli assetti intersoggettivi che

mediano i contesti di lavoro e i contesti di gioco; ad es. parlare uno alla volta quando si lavora;

possibilità di gridare e sovrapporre le voci quando si gioca a nominare le piante), distribuzioni di

valori (l’erogazione di impegno che legittima il merito; il ruolo premiante della maestra…), vissuti

(fatica/divertimento, sforzo/piacere); in quanto tali rappresentabili, pensabili, abitabili, narrabili.

La connotazione

Le considerazioni poste nel precedente paragrafo portano ad evidenziare come il processo di

connotazione non si risolve in una mera operazione di etichettamento, come se si trattasse di

predicare caratteristiche di argomenti già definiti, pre-costituiti entro lo spazio culturale dei soggetti

formativo.

Al contrario, è proprio attraverso il processo di connotazione, veicolato dallo scambio

comunicazionale didattico, che i dispositivi del setting formativo (rappresentazioni di conoscenze,

repertori di dati, definizioni di obiettivi…) si attivano: si trasformano da astrazioni linguistiche a

materia simbolica (insieme intrapsichica e interpsichica), patrimonio situato della comunità di

insegnamento-apprendimento.

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Possiamo aggiungere che la connotazione, nel momento in cui inscrive/attualizza gli artefatti entro

la cultura della comunità di insegnamento-apprendimento, orienta i modi del lavoro formativo,

indirizzando e selezionando le strategie discorsive e cognitive di elaborazione del materiale

didattico (la domanda di lavoro cognitivo, le euristiche impiegate, le modalità di analisi, i criteri di

successo, i ritmi e i tempi, la percezione del carico di lavoro).

Si pensi in proposito in questo senso a come possa variare il modo di entrare in rapporto cognitivo

con un oggetto di apprendimento a seconda se esso venga connotato come |familiare| o |non

familiare|; oppure: |complicato| o |facile|. In un caso ci aspetteremo una maggiore propensione ad

attivare modalità di tipo assimilativo, orientate ad applicare schemi ed euristiche consolidate;

nell’altro strategie che lascino maggiore spazio all’esplorazione e all’accomodamento. Infinite

possono essere le forme di connotazione, così come gli ancoraggi che le alimentano. Un argomento

di apprendimento può essere interpretato in quanto |parte del programma non ancora fatto|, oppure

come |irrilevante|; |noioso|; |non interessante per il docente|; su un altro piano: |da imparare a

memoria|; |da studiare bene, perché l’insegnante ci tiene|; ancora: |è un compito su cui non sono

ammessi errori|; |questo compito va affrontato velocemente|, e così via.

Per illustrare questo punto, ci sia permesso citare la lezione di matematica sulla regola della

divisibilità di cui abbiamo riferito nel paragrafo precedente.

L’insegnante ad un certo punto deve interrompere la lezione ed assentarsi per qualche minuto. Per mantenere

gli allievi sul compito e tenere sotto controllo i comportamenti della classe nel periodo di assenza, propone:

“Bene, vedo che l’argomento vi sta interessando. Debbo assentarmi per qualche minuto. Nel frattempo

perché non provate a trovare una soluzione che permetta di verificare la divisibilità del numero per 13?”

Gli allievi accettano con entusiasmo, impegnandosi per tutto il tempo dell’assenza dell’insegnante in ipotesi

via via più fantasiose, inesorabilmente destinate all’insuccesso, tuttavia capaci di catalizzare l’interesse e

l’attenzione collettiva.

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L’aspetto su cui richiamiamo l’attenzione del lettore è il seguente. Malgrado il fatto che nel corso

della lezione sia stata data l’informazione utile in tal senso, gli studenti hanno connotato il problema

affidatogli dall’insegnante come un compito su cui potersi applicare, in quanto, evidentemente,

risolvibile.

E’ plausibile ritenere che ciò che ha sollecitato, orientato e permesso simile connotazione sia stata

l’iniziativa dell’insegnante di inscrivere simbolicamente simile proposta di impegno entro il format

del compito scolastico (i compiti scolastici sono per definizione risolvibili…). Il che ci porta a

riconoscere come le informazioni e le conoscenze implicite (ed anche esplicite) non

necessariamente funzionano da vincolo della capacità delle dinamiche di costruzione sociale di

configurare gli oggetti della didattica.

Ciò che ai fini del nostro discorso ci preme sottolineare, comunque, è anche un altro punto: al di là

delle ragioni che possono aver alimentato la connotazione di |risolvibilità|, una volta istituita, tale

connotazione ha funzionato da organizzatore insieme sociale (ha mediato il funzionamento del

gruppo) e cognitivo (ha orientato il ragionamento in termini di strategia per prove ed errori).

Il ruolo dell’inconscio

Fin qui abbiamo richiamato alcuni dei processi costruttivi e connotativi che configurano le

dinamiche di insegnamento-apprendimento. Vogliamo ora porre anche entro questa area della nostra

discussione, la questione circa il ruolo giocato dall’inconscio.

In termini generali, la nostra tesi à la seguente: i processi di costruzione-connotazione dell’oggetto

di insegnamento-apprendimento sono per loro natura cognitivi e discorsivi. Tuttavia, anch’essi sono

mediati e regolati dal modo di funzionare inconscio della mente.

Proviamo di seguito a chiarire ed argomentare questa quanto appena affermato.

51
In primo luogo, in via preliminare, è utile richiamare una fondamentale caratteristica del

funzionamento mentale inconscio: la valenza antropomorfizzante.

Dal punto di vista dell’inconscio, gli oggetti simbolizzati sono sempre e comunque oggetti animati,

dotati cioè di una intenzionalità di rapporto. Gli oggetti mentali generati dalla semiosi affettiva sono

animati da un dinamismo relazionale rivolto verso il soggetto simbolizzante. Il che in altri termini

significa che le emozioni, in quanto significati predicati dal codice inconscio, sono per definizione

modelli di esperienze di relazione (inter alia, Stern, 1985; Fonagy, Target, 2001). Si pensi in questo

senso alle culture animiste, che attribuiscono intenzionalità agli eventi naturali, leggendoli come

segni della presenza di forze soprannaturali. Ancora, si pensi al bambino che dà del “cattivo” allo

spigolo del mobile che ha inavvertitamente urtato.

Il carattere antropomorfizzante della semiosi inconscia investe anche gli oggetti della conoscenza: i

saperi, gli elementi della conoscenza, le informazioni. Dal punto di vista della teoria psicodinamica,

si potrebbe dire che proprio per questa ragione gli oggetti assumono la valenza di contenuti mentali,

diventano cioè pensabili. Nella misura in cui si accetta questa tesi fondamentale, se ne deduce che

anche gli oggetti di conoscenza sono in primo luogo - e, in certo senso, propedeuticamente -

rappresentati in termini emozionali, cioè attraverso la mediazione della simbolizzazione inconscia;

in altre parole, come qualità relazionali proiettate entro modelli fantasmatici di rapporto.

E’ questo il punto centrale del modello qui proposto: gli elementi di conoscenza, per poter essere

contenuti trattabili in chiave cognitiva e discorsiva, sono prima sottoposti a processi di

simbolizzazione emozionale (inconscia).

E’ utile a questo punto richiamare in che senso si parla, in questo contesto, di simbolizzazione

affettiva (o emozionale). In termini generali, la simbolizzazione affettiva può essere intesa come un

modo del pensiero che opera attraverso categorizzazioni generalizzate e generalizzanti, che

52
proiettano gli oggetti su classi di significato tendenzialmente infinite (Matte Blanco, 1975), dunque

fortemente sdifferenzianti ed omogeneizzanti.

Dal punto di vista inconscio, dunque, rappresentare un oggetto (sia esso una persona, un elemento

del mondo materiale, un’idea, un evento, un artefatto simbolico) significa predicarlo (simbolizzarlo)

con categorie di significato altamente generalizzate, organizzate intorno alle forme fondamentali di

relazione (ed in ciò sono riconoscibili ed esperienziabili come emozioni).

53
Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento

II Unità Didattica – Lezione 4

La costruzione degli oggetti della conoscenza: il cosa (2)

La valenza omogeneizzante della categorizzazione emozionale

Sarebbe possibile rintracciare analiticamente la salienza del meccanismo di generalizzazione-

omogeneizzazione della simbolizzazioni affettiva in ciascuno degli esempi a cui ci siamo riferiti

nelle lezioni precedenti.

Si potrebbe ad esempio evidenziare come nella presa d’appunti i processi costruttivi messi in

evidenza esprimono la specifica cultura della comunità di apprendimento, essendo guidati da

meccanismi di generalizzazione che non necessariamente implicano relazioni semantiche tra gli

elementi cognitivi e tra questi e gli obiettivi che guidano la computazione, anzi, spesso operano

malgrado tali relazioni.

Un caso a nostro avviso paradigmatico di quanto ora detto è il seguente: l’assimilazione

(omogeneizzazione) tra struttura dell’enunciazione e struttura dell’enunciato. Si immagini una

lezione volta a proporre agli allievi un determinato contenuto didattico. Ovviamente questo

contenuto si caratterizzerà per una propria struttura interna di relazioni concettuali, che stabiliscono

ciò che è primario e ciò che è complementare, ciò che è implicato e ciò che è implicante, ecc.

Ovviamente, anche la lezione sarà organizzata secondo una struttura discorsiva e temporale (che

cosa viene detto prima, che cosa dopo, quali aspetti vengono ripetuti, quali proposti in modo

sbrigativo, quali solo evocati, ecc.). Ebbene, si può ipotizzare che quanto più nel contesto classe

prevalga una forma di attivazione emozionale, tanto più risulterà pregnante il processo di

generalizzazione e di omogeneizzazione tra il qui ed ora dell’enunciazione e il lì ed allora

54
dell’enunciato, con la conseguente tendenza degli allievi a riorganizzare il contenuto in funzione

della forma della lezione, piuttosto che della struttura interna del suo contenuto.

Il processo ora richiamato non riguarda, evidentemente, soltanto le situazioni di insegnamento-

apprendimento. Basti in questo senso pensare a quell’ampia evidenza empirica, che conferma del

resto l’esperienza di ognuno, circa la tendenza ad attribuire valore (a secondo dei casi: di credibilità

di precisione, ecc.) al contenuto di un’affermazione in ragione delle caratteristiche circostanziali in

cui è stata prodotta (chi l’ha prodotta, entro quale contesto). Ciò che in questa sede ci interessa

segnalare è che tale processo è attivo ed organizza in modo pregnante anche l’insegnamento-

apprendimento. Inoltre, si tratta di riconoscere come simile valenza organizzante della

simbolizzazione affettiva non è un fattore interveniente, ma la fonte stessa della costruzione socio-

cognitiva degli oggetti su cui l’insegnamento-apprendimento opera.

Gli esempi che abbiano proposto evidenziano, inoltre, la salienza del meccanismo di

generalizzazione emozionale che riteniamo costituisca il principale vettore della presenza

dell’inconscio su questo piano dell’insegnamento-apprendimento.

Si torni alla canonicità e alla sua rottura nell’episodio della prova di divisibilità. E’ facile

riconoscere alla base di tale circostanza l’attività del meccanismo di generalizzazione, in ragione del

quale viene assunta come assoluta e ubiquitaria la caratteristica della incommensurabilità tra

proprietà dei numeri e proprietà delle cifre. Nel caso della segmentazione operata da Carlo, tra

momento del lavoro e momento del gioco, la generalizzazione si mostra nel suo effetto speculare:

essa genera una categorizzazione emozionale dell’esperienza di tipo dicotomico, che separa ciò che

sul piano funzionale è unito (in termini psicodinamici parleremmo di scissione).

L’esempio offre indizi per avanzare una congettura circa la fonte e la direzione di tale

55
dicotomizzazione: la differenziazione dentro-fuori. Richiamandoci a Carli e Paniccia (2003)

riconosciamo in tale categoria affettiva una fondamentale matrice della simbolizzazione inconscia:

una delle prime forme di segmentazione emozionale dell’esperienza (insieme a buono/cattivo;

grande/piccolo). Nel caso, le attività che vengono proiettate nella categoria |dentro| (le attività che si

svolgono all’interno, al chiuso della struttura scolastica) sono: a) tra loro omogeneizzate; b) dunque

connotate attraverso la loro associazione alla classe di significati riassumibile nella coppia

|lavoro|/|scuola|; c) in questo modo separate dalle attività proiettate sulla (in altri termini:

simbolizzate nei termini della) opposta categoria |fuori|, a cui si áncora la coppia di connotati:

|gioco|/|non-scuola|.

Dal canto loro, gli allievi che si impegnano nel cercare la regola di verifica della divisibilità del

numero 13 lo fanno in base al fatto che hanno categorizzato in termini generalizzanti tale esercizio,

proiettandolo nella classe dei |compiti-scolastici| per definizione assunti come risolvibili. Tale

categorizzazione segnala il proprio carattere emozionale non solo in quanto implica una “rinuncia”

all’informazione disponibile (l’insegnante aveva in precedenza precisato che per il numero 13 non

era disponibile una regola di verifica della divisibilità), ma anche e soprattutto in quanto si basa

sulla assolutizzazione dell’equazione simbolica: scuola/compiti-risolvibili2).

Sintesi

Proviamo di seguito a sintetizzare quanto detto in queste tre lezioni sulla costruzione degli oggetti

della conoscenza:

 gli oggetti della conoscenza vengono mentalizzati attraverso la loro simbolizzazione

affettiva (inconscia);

 il modo di essere inconscio, è la forma antropomorfizzante del pensiero, che tende a trattate

2
. Equazione simbolica che a sua volta può essere interpretata assumendo come sfondo la simbolizzazione del
docente come genitore che nutre e fa crescere (Carli, Mosca, 1980; Gentile, Salvatore, 2001; Salvatore et al., 2004), per
definizione buono, dunque privato della proprietà semiotica di dare agli allievi-figli cose cattive - come può esserlo un
problema irrisolvibile.

56
gli oggetti rappresentati (quale ne sia la loro natura e sostanza) come dotati di intenzionalità

di rapporto;

 la simbolizzazione inconscia mentalizza gli oggetti della conoscenza, e nel fare ciò li dota di

una determinata forma categoriale; in altri termini li significa in chiave affettiva nei termini

di significati emozionali, che rimandano alle forme fondamentali di esperienza del legame

sociale;

 un’ulteriore fondamentale peculiarità della categorizzazione emozionale generata

dall’inconscio è la sua valenza generalizzante ed omogeneizzante.

 Il significato emozionale con cui l’oggetto assume valore di oggetto mentale può essere

inteso come una prima forma di rappresentazione mentale dell’oggetto, una

protocostruzione, che ne orienta/vincola/alimenta (sia pure, evidentemente, in modo non

prescrittivo e meccanico) le successive funzioni discorsive e cognitive di rappresentazione

costruttiva.

Nella prossima lezione rivolgeremo la nostra attenzione alle modalità cognitive e discorsive delle

pratiche di insegnamento-apprendimento.

57
Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento

II Unità Didattica – Lezione 5

Le modalità cognitive e discorsive delle pratiche di insegnamento: il come

Elaborazione primaria e simbolizzazione

La discussione su questo punto potrebbe portarci lontano, intersecandosi con un campo vastissimo

di riflessione, attraversato dai contributi di svariate discipline e approcci teorici (psicologia

cognitiva, approcci (neo)piagetiani, psicologia culturale, pedagogia, etnografia). Circoscriviamo

dunque la nostra analisi ad un paio di aspetti, rinunciando a qualsiasi pretesa di sistematicità,

interessati come siamo a mettere in evidenza in termini globali la funzione degli affetti come

organizzatore delle strategie cognitive di elaborazione delle informazioni entro i processi di

insegnamento-apprendimento, piuttosto che ad analizzare in maniera esaustiva i modi attraverso cui

ciò avviene.

A tal fine prendiamo in considerazione il concetto di “elaborazione primaria” (Sanford, 1987), che

denota la funzione di analisi dell’input volta ad attivare schemi interpretativi, in definitiva a

collegare lo stesso input al contesto semantico, in modo da renderne possibile la lettura.

Il concetto rimanda a quell’approccio più generale che evidenzia come i processi di elaborazione

dell’informazione sono inferenziali e per tale ragione guidati da modelli mentali, intesi come forme

di conoscenza sul mondo (Johnson-Loyrd, 1983; Neisser, 1987).

Esemplificativo in questo senso il modo con cui viene concettualizzata la comprensione dei testi

(Kintsch, 1988). Le singole frasi non contengono necessariamente le informazioni sintattiche e

semantiche utili a vincolare la decodifica della frase. Per estrarre il significato della frase, il

58
soggetto è chiamato a realizzare inferenze, guidate dalla conoscenza del mondo a cui la frase fa

riferimento.

Si prenda ad esempio la frase: “Giovanni sta andando alla festa di compleanno di Mario; spera che

il regalo gli piaccia”. Evidentemente la interpretiamo come la descrizione dell’aspettativa di

Giovanni che il dono che egli sta portando a Mario per onorare la ricorrenza di quest’ultimo possa

essere accolto con favore da colui a cui è destinato (Mario). Questa interpretazione ci risulta ovvia.

Tuttavia essa non è contenuta nel testo. Di per sé la frase si presta ad essere interpretata anche nel

seguente modo: “Giovanni spera di gradire il regalo che si aspetta di ricevere da Mario, in

occasione della festa di compleanno di quest’ultimo”.

E’ la conoscenza di come va il mondo a cui la frase si riferisce (i regali li riceve il festeggiato) ad

indirizzare la nostra inferenza interpretativa. Qualora ci fosse necessità di una controprova: si

prenda la seguente frase equivalente sul piano sintattico alla precedente, ottenuta modificando due

solo termini aventi la stessa funzione grammaticale: “Giovanni sta andando alla festa di matrimonio

di Mario; spera che la bomboniera gli piaccia”. Anche in questo caso non abbiamo dubbi

nell’interpretare la speranza di Giovanni, guidati come siamo dalla conoscenza del fatto che nel

nostro contesto culturale è l’ospite del ricevimento nuziale colui a cui compete ricevere la

bomboniera.

L’aspetto che in questa sede vogliamo richiamare è il seguente. L’elaborazione primaria non è

un’operazione esclusivamente logico-computazionale. La selezione del contesto semantico di

ancoraggio, infatti, implica, sia come premessa che come conseguenza, processi di simbolizzazioni

mediati dalla cultura locale.

Riconosciuta la funzione vincolante del modello di conoscenza sul mondo, rispetto alla capacità di

venire interpretativamente a patti con l’intrinseca ambiguità dell’input, diventa rilevante chiedersi

59
che cosa istituisce tali modelli come vincolo delle possibilità ermeneutiche del pensiero.

A questo punto della trattazione la nostra risposta apparirà scontata: i contesti semantici assunti

come modelli di mondo, sono presupposti fondanti le inferenze interpretative in quanto ed in

ragione delle culture attive entro il contesto discorsivo, dunque delle dinamiche di simbolizzazione

affettiva che le informano e configurano.

I teorici dell’elaborazione primaria non si occupano del fondamento culturale dei modelli mentali:

essi sono interessati a studiare come tali modelli funzionano da organizzatori cognitivi. D’altra

parte, gli esempi richiamati in precedenza rendono facilmente ragione di come i modelli siano

artefatti contesto-specifici: è un dato culturale della nostra società la regola del gioco che presidia la

distribuzione degli obblighi tra i ruoli previsti in una festa di compleanno. Ciò che la nostra

discussione intende aggiungere è il fatto che tali modelli culturali non sono proprietà/artefatti statici

dell’ambiente culturale, ma forme di significato che si ri-attivano/ri-configurano entro le pratiche

discorsive situate, in ragione dei processi di simbolizzazione affettiva che le mediano.

Chi scrive ha avuto modo, nell’ambito della propria attività di consulenza ai docenti dei vari ordini

di scuola, di raccogliere diversi esempi della validità del principio ora affermato. In molte occasione

la possibilità di pensiero divergente, la capacità dei docenti in formazione di seguire percorsi

cognitivi ed interpretativi innovativi passa quasi inevitabilmente per la loro capacità di riconoscere

e di riflettere sulle premesse emozionali del loro posizionamento discorsivo (Paniccia, 2003). In

diverse occasioni gli insegnanti con cui ho lavorato mi hanno segnalato come ciò accada anche

nelle loro classi scolastiche. D’altra parte, quella della fondazione affettiva delle premesse è un

principio psicodinamico generale, che informa la teoria della tecnica psicoanalitica sia nel lavoro di

consulenza individuale che di gruppo.

I risultati della ricerca sulle culture professionali dei docenti della scuola italiana, richiamati in

precedenza (Salvatore et al., 2004), così come diverse altre analisi di sistemi culturali basate

60
sull’approccio psicodinamico qui descritto (inter alia Salvatore, 2000, 2004a; Carli et al., 2004)

mostrano che i modelli mentali, intesi come mappature semantiche del mondo, si fondano ed al

contempo esprimono modelli di simbolizzazione più generali, espressioni di fondamentali processi

di categorizzazione emozionale.

Conclusioni

La discussione sviluppata in questa Unità Didattica offre lo spunto per alcune considerazioni

conclusive.

In primo luogo, va osservato che la dimensione simbolica non si aggancia ad un qualche tipo di

fenomeno3, ma ad una classe generale di processi, tra cui l’insegnamento, definita in ragione e nei

termini di costrutti derivanti dalla teoria psicologica.

Ciò evidentemente riflette una specifica opzione epistemologica, che in ultima istanza riconosce la

psicologia come scienza in quanto disciplina che costruisce, sulla base delle proprie categorie e dei

propri metodi di ricerca, il proprio oggetto/campo di indagine.

Il che in altri termini significa pensare alla psicologia come ad un sapere metodologico, capace di

interrogare con una specifica prospettiva interpretativa, un insieme vasto di fenomenologie. In

definitiva, una psicologia che rinunciando a riferirsi - e circoscriversi - a fenomeni psicologici,

diventa in grado di trattare psicologicamente i fenomeni (sociali, organizzativi, economici, culturali,

ecc.).
3
. In questa sede con il termine “fenomeno” intendiamo un certo stato del mondo così come è rilevato e
qualificato dal senso comune. Sono fenomeni, dunque, il disagio, la dispersione, la malattia mentale, l’indisciplina, la
demotivazione, ecc. In questa prospettiva, distinguiamo “fenomeno” da “processo”, termine quest’ultimo con il quale
intendiamo denotare la dinamica psicologica che permette di interpretare in chiave psicologica il fenomeno. Il processo
è dunque il modello psicologico che interpreta, secondo le categorie che la teoria psicologica ha a disposizione, il
fenomeno. Il processo non è uno stato del mondo, ma un costrutto. Tra fenomeno e processo corre dunque la stessa
differenza che sussiste, ad esempio, tra il peso (fenomeno definito entro il linguaggio del senso comune) e la forza di
gravità (modellizzazione scientifica del fenomeno).

61
Come abbiamo visto in questo ciclo di lezioni, la funzione psicologica può farsi carico di

problematiche che sono in parte le stesse su cui insistono anche altre professionalità. La distinzione

di campo va dunque operata su un piano metodologico: il modo con cui i problemi e i temi vengono

interpretati, dunque trattati.

Il che in altri termini significa che le diverse professioni, alle prese con gli stessi fenomeni

(dispersione, qualità, autovalutazione, disagio giovanile), li modellizzano secondo costrutti

differenti, dunque traducendoli in processi differenti. Da questo punto di vista, possiamo

individuare la specificità della logica psicologica di intervento su vari livelli. Ad un primo livello la

logica che stiamo proponendo si differenzia da altre (ad esempio quelle di ispirazione pedagogica)

in ragione di alcuni fondamentali principi concettuali e di metodo:

• l’azione si focalizza primariamente sui modelli categoriali, sul loro sviluppo, piuttosto che ai

contenuti rappresentazionali/artefatti culturali che tali modelli generano/alimentano4;

• concepisce lo sviluppo dei modelli di categorie come una dinamica endogena, derivante

dalla capacità di accomodamento del sistema culturale.

Il modo di concettualizzare la dinamica di tale sviluppo e il modo di promuoverlo costituiscono

ulteriori punti di specificità della modalità attraverso la quale stiamo discutendo la dimensione

simbolica degli insegnamenti.

Richiamiamo l’attenzione in particolare su due punti, che qualificano la matrice insieme

psicodinamica e socio-costruttivista proosta in questa Unità Didattica.

Da un lato, il riferimento ad una concezione contestualista della mente, che porta a leggere i modelli

categoriali e i connessi processi di significazione come fenomeni intersoggettivi (Salvatore, 2003b,

4
. Per dirla con la terminologia di Rorty (1989), è interessata più ai vocabolari che alle produzioni linguistiche
che dall’uso di tali vocabolari derivano.

62
2004a).

Dall’altro, l’ipotesi psicodinamica fondamentale del doppio registro, razionale ed emozionale, dei

processi di significato, per un verso rientranti nella logica diurna del pensiero intenzionale, per

l’altro espressione della matrice onirica del registro inconscio.

Il convergere di queste due concezioni si traduce sul piano metodologico nell’idea fondamentale

secondo la quale lo sviluppo dei modelli culturali e simbolici è primariamente connesso alla

capacità di elaborazione delle valenze simbolico affettive dei modelli stessi, dunque alla possibilità

per gli attori di attivare funzioni riflessive volte ad esplorare i presupposti categoriali del

discorso/attività in cui sono posizionati. Dal che deriva la concezione dei setting di intervento come

ambiti intersoggettivi di costruzione di senso finalizzati alla attivazione, supporto e contenimento di

pratiche discorsive volte alla pensabilità delle loro stesse matrici categoriali

Simile modello si muove entro quella particolare (ed innovativa) prospettiva di psicologia dinamica

che condivide con il socio costruttivismo lo stesso “postulato fondamentale” (Salvatore, et al., 2003;

Salvatore, Ligorio, 2003; Ligorio, Salvatore, 2004; Salvatore, 2004a): il principio secondo il quale

la forma delle relazioni è un organizzatore del cognitivo.

Questo postulato è stato affermato in vari ambiti (filosofico, sociologico, antropologico,

epistemologico, di critica d’arte) da paradigmi differenti (materialismo storico, idealismo,

storicismo, funzionalismo, strutturalismo). Socio costruttivismo e psicologia dell’inconscio ne

propongono una declinazione peculiare, nel momento in cui assumono il significato, nelle sue

valenze semantiche e simboliche, come il fondamentale mediatore del rapporto tra mente e società,

tra relazione sociale e simbolo.

Abbiamo quindi provato a declinare tale concezione generale nel campo specifico delle pratiche

formative. Il nostro tentativo riflette l’intenzione più ampia di contribuire alla definizione di una

63
teoria psicodinamica dell’apprendimento. In ambito psicoanalitico il tema dell’insegnamento-

apprendimento è generalmente ricondotto - ed assimilato - alla prospettiva del soggetto (individuale

e/o gruppale) che apprende.

In questo senso la psicoanalisi non ha un proprio punto di vista sistematico sul processo di

apprendimento. Da parte sua, la psicologia che si è interessata all’apprendimento si è

sostanzialmente disinteressata dell’inconscio, ritenendo tale costrutto in ultima istanza

incommensurabile e dunque irrilevante. Non che non venga attribuito un ruolo alla componente

affettiva. Al contrario, emozioni e motivazioni sono diventati oggetto di attenzione anche

nell’ambito delle teorie cognitive dell’apprendimento (Boscolo, 1997).

Le diverse prospettive convergono senza difficoltà nel riconoscere rilevanza a questo tipo di fattori.

Tuttavia, gli affetti vengono considerati come una dimensione altra da quella cognitiva, dunque

come una variabile esterna che interviene a condizionare o comunque ad agire sul processo di

apprendimento, senza tuttavia appartenere al dominio costitutivo di tale fenomenologia.

In definitiva, la dimensione affettiva possiede, entro questa impostazione, lo stesso statuto

concettuale attribuito alle variabili socio-economiche, di personalità, ergonomiche: elementi che

possono anche guadagnare assoluta pregnanza nel determinare gli esiti del processo di

insegnamento-apprendimento, ma che tuttavia la esercitano dall’esterno, risultando in ultima istanza

irrilevanti dal punto di vista della comprensione di come l’apprendimento si (auto)organizza.

La nostra tesi si muove in controtendenza rispetto all’impostazione appena richiamata. Come

abbiamo a più riprese provato ad evidenziare nel corso delle lezioni proposte, la nostra prospettiva è

quella di un modello psicodinamico dell’apprendimento. Un modello che non intende proporsi

come esaustivo ed autosufficiente, quanto piuttosto come un contribuito che integra e potenzia la

teoria generale, in particolare attraverso la concettualizzazione del ruolo organizzante che

l’inconscio gioca entro i processi di insegnamento-apprendimento.

64
Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento

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III Unità Didattica – Lezione 1

Il carattere dato del processo formativo tradizionale

Introduzione
Lo scenario odierno confronta gli attori scolastici (i docenti in primis), con un basilare
elemento di criticità/sviluppo della relazione educativa: il problema metodologico-
organizzativo di come praticare i processi formativi in ragione di un fruitore non più
assumibile come dato, in conseguenza della radicale trasformazione del contesto socio-
culturale. Il presente modulo intende discutere una tesi fondamentale: tale scenario, implica
e sollecita una trasformazione strutturale della professione docente: da sistema di azione
funzionante in rapporto a contesto dato (istituito) a sistema di azione funzionante a contesto
intrinsecamente variabile.

Il setting istituito

La maggior parte delle professioni non necessitano di costruire il senso della propria
funzione per esercitare la propria competenza tecnica. Nell’azione di rivolgersi a un medico, a un
avvocato, a un commercialista, è già implicito il significato di tale consultazione: si tratta di
occuparsi, a seconda dei casi, della propria salute, della propria situazione giudiziaria, economica,
finanziaria… Ciò consente al medico, ad esempio, di dare per scontato la condivisione del
significato della propria attività con il paziente, dunque la comprensione dei reciproci ruoli ed
aspettative. Il perché dell’incontro è implicito nella tecnica.
Il profano si rivolge all’esperto assumendo da un lato di non avere le competenze tecniche
per affrontare autonomamente l’oggetto del proprio interesse, dall’altro che tali competenze siano
possedute dal suo interlocutore, il quale è anche disponibile, a determinate condizioni (es.
pagamento dell’onorario), a trasmetterle o a farsi carico sostitutivamente del processo che il cliente
è chiamato a gestire per ottenere un determinato risultato. L’uno si configura come colui che manca
di, l’altro come colui che provvederà a trasmettere cosa all’altro manca. E vi è un’uniformità tra
esperto e profano in quanto a punti di vista su chi ricopra l’una o l’altro ruolo.

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La competenza tecnica dell’esperto è in definitiva sufficiente in questi casi sia a spiegare il
senso della richiesta che a regolare il rapporto tra tecnico e profano (Carli, Paniccia, Lancia, 1998).
Il contenuto tecnico della prestazione non dipende peraltro dalla qualità di questa rapporto,
che può essere considerato una semplice cornice per il dispiegamento dell’azione professionale: il
medico non userà due principi attivi diversi per curare due persone che presentano la stessa
malattia, l’ingegnere non modificherà i calcoli in funzione di chi è il suo cliente. La tecnica in
questi casi funziona, ha validità, indipendentemente dalle circostanze contestuali in cui si dispiega.

Indichiamo con setting istituito il configurare l’azione professionale come un sistema di


norme e procedure date, definite a priori dal consulente e/o dall’istituzione di cui egli fa parte. Nel
setting istituito la relazione tra esperto e profano non è un criterio organizzante la prassi; è
semplicemente il contesto entro cui si declinerà la prestazione.
E’ evidente che in diverse circostanze ci attendiamo utilmente che il setting sia istituito: non
sarebbe auspicabile l’eventualità di un ingegnere o di un medico “sensibile al contesto”.

Il setting dato a scuola

Come ogni altro scambio intersoggettivo professionale ed umano, anche il processo di


insegnamento-apprendimento è sempre organizzato da un qualche presupposto culturale (aspetti
normativi e valoriali condivisi, codici e premesse di significato) che non viene stipulato entro il
rapporto fra docente e studente, ma costituisce l'a priori operante da codice istituito ed al contempo
da frame istituente su cui la relazione educativa può inizialmente appoggiarsi per organizzarsi
(Salvatore, Ligorio, De Franchis, 2005).
Si può ad esempio osservare come la funzione docente presupponga a proprio fondamento la
posizione di dipendenza dell’allievo; una posizione che implica l’adesione del destinatario a una
visione dell’agire educativo che qualifica il docente come valore e oggetto di investimento
(Morozzo della Rocca, Salvatore 1995).
L’essere disciplinati in classe, l’arrivare puntuali, l’eseguire i compiti, l’attenzione a ciò che
il docente spiega, sono, da questo punto di vista, prima ancora che espressioni di un modello
comportamentale-motivazionale e/o della personalità (buona volontà, coscienziosità, ecc.) di un
allievo, il precipitato di un universo simbolico condiviso in cui docenti e discenti sono immersi. Ciò
d’altra parte non significa che essi pensano, significano, interpretano, si rapportano agli oggetti
(norme, procedure, compiti, ecc.) del loro comune sistema di attività nel medesimo modo. Un
docente può ad esempio connotare come essenziale la corretta esecuzione di un compito, che lo

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studente, dalla propria posizione e seguendo un altro criterio interpretativo, categorizza come
difficile o noioso. Ciò tuttavia non impedisce loro di essere in rapporto, sulla base di premesse
condivise di secondo ordine (cioè: sovraordinate) che organizzano e coordinano le interpretazioni,
generando uno spazio di consensualità sul senso da attribuire al sistema di attività in cui sono
implicati - dunque anche alla variabilità delle posizioni e degli atteggiamenti individuali.
Senza il comune riferimento a tali premesse di secondo ordine, il processo di insegnamento
non potrebbe dispiegarsi: gli allievi si autorizzerebbero a presentarsi in classe seguendo criteri
soggettivi, potrebbero decidere autonomamente cosa studiare, il docente potrebbe affidare loro lo
svolgimento della lezione o la verifica dell’apprendimento realizzato (una volta venuto meno, ad
esempio, la premessa di II ordine che riconosce nel docente colui che sa e nell’allievo colui che
deve essere guidato, disciplinato e formato).

In questo senso la relazione educativa può essere configurata, al pari di altre relazioni
professionali, come un setting istituito (Mehan, 1978), che pone come dato l’accordo
su chi, cosa, come, perché si insegna. “Dato” nel senso che tale accordo opera come
un’insieme di presupposti non dichiarati che rendono sensato ciò che si fa a scuola e
configurano le “regole del gioco” definenti il reciproco posizionamento (Harrè,
Gillet, 1994) dei partecipanti all’attività formativa.

In quanto istituiti, questi significati regolativi non sono - per definizione - oggetto di
conoscenza dichiarativa. Vengono utilizzati in quanto tali; in questo senso: applicati, agiti e
affermati attraverso i segni (discorsi, comportamenti) scambiati nella interazione educativa. In
questo senso, gli atti discorsivi e comportamentali hanno valore performativo (Salvatore & Pagano,
2005): per il fatto stesso che si esercitano e si istituiscono come realtà data la cornice di senso che li
informa.
Ad esempio, nel proporre un contenuto didattico, nell’atto stesso di esporlo in un certo
modo, l’insegnante afferma ciò che è utile trasmettere/apprendere, ciò che è secondario, ciò che
deve essere sottolineato o solo evocato; cosa può essere dato per scontato e cosa ha bisogno di
spiegazioni; attribuisce in definitiva lo statuto d’evento e carattere di pregnanza a certi fatti, mentre
lo rifiuta ad altri; così facendo definisce il quadro semiotico di riferimento che orienta il processo di
interpretazione (dunque di pertinentizzazione, di selezione, di categorizzazione) che qualifica la
fruizione del messaggio da parte dell’allievo, dunque l’ambito di significazione entro il quale egli è
chiamato a muoversi.

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La definizione di tale ambito d’altra parte, se da un lato pone dei vincoli all’interpretazione
soggettiva della situazione, dall’altro non ne prescrive il significato, che risulterà dall’autonoma
attività interpretativa dagli interlocutori, dispiegata entro ed in virtù della negoziazione
intersoggettiva. Così, ad esempio, se uno studente entra in classe 10 minuti dopo il suono della
campanella che segna l’inizio delle lezioni, entro una comune definizione della sua azione come
ritardo, si potrà riconoscere in tale circostanza il segno ora della sua pigrizia (interpretandolo
dunque come atto che parla delle caratteristiche personali dell’allievo), ora del suo disinteresse
(interpretandolo come atto che parla del suo rapporto con il docente e/o con la scuola tutta), ecc.
Ciò che rende ad un setting formativo il suo carattere istituito non è dunque la fissità dei
significati attribuiti agli oggetti/eventi che caratterizzano il sistema di attività, ma il fatto di
assumere che vi sia un accordo su modo di interpretarli, come se il loro valore comunicativo fosse
immanente, impermeabile rispetto al tempo e allo spazio.

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Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento
III Unità Didattica – Lezione 2

Il setting dato in classe. Un esempio

Quello che segue è il trascritto dell’interazione tra un insegnante di matematica e la sua


classe di una scuola superiore di una città dell’Italia meridionale.
Riportiamo questo esempio per evidenziare quali e quanti presupposti vengono agiti ed
affermati di fatto – performativamente - attraverso gli atti discorsivi che docente e allievi producono
relazionandosi. Inoltre, è interessante osservare come ciò avvenga attraverso sfumature, segnali
minimi, difficilmente individuabili in tempo reale.

Insegnante : Allora ragazzi oggi io intendo interrogare qualcuno. Giovanni? Dovrei interrogare: Claudio
vieni per favore, Carlo.
Carlo: Si
Insegnante: Adesso vediamo voi due. Sirigatti, non c’è?
Gruppo di studenti: No, non c’è, c’era Maria ma è andata via.
Insegnante: Adesso vediamo voi, poi nel frattempo vediamo. Magari Giovanna. Dai Claudio.
Gruppo di studenti: Geometria?
Gruppo di studenti: No, matematica..
Gruppo di studenti: Matematica o Geometria?
Insegnante: La geometria fa sempre parte della matematica, non è un’altra cosa…Allora iniziamo dalla
geometria, mi date un libro per favore?
Gruppo di studenti: Ah… di geometria?

Analizziamo questa vignetta.

 Allora, ragazzi: l’appellativo implica ed attiva un modello di rapporto. Nel caso, il senso di
una relazione informale, sostanziata in chiave di prossimità. I “ragazzi” non sono gli
“studenti”, sono un oggetto acontestuale; si potrebbe dire, ciò che resta degli studenti una
volta che questi siano alleggeriti del loro contenuto di ruolo, delle ragioni funzionali per cui
sono in rapporto tra loro e con il docente.
 io intendo: qui è la dimensione soggettiva ad essere assunta come principio regolativo dello
scambio. L’insegnante áncora la decisione ad una propria intenzione/volontà personale,

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piuttosto che, ad esempio, ad un criterio di utilità (“verifichiamo l’apprendimento prima di
introdurre altri concetti”), o normativo (“devo interrogare”): trova senso, da questo punto di
vista, il “per favore” che porta ad interpretare anche la decisione dello studente di
avvicinarsi o no alla cattedra per essere interrogato come espressione di una volontà
personale, regolata da criteri soggettivi, piuttosto che, ad esempio, funzionali e di ruolo. In
definitiva, in questo modo si veicola l’idea di un atto di volontà del docente che sollecita una
risposta di accettazione dello studente di una attività che va subita in ragione e grazie alla
mediazione della relazione interpersonale.
 interrogare: è una dimensione costitutiva della tradizionale lezione didattica, volta alla
verifica dell’apprendimento realizzato; la parola merita tuttavia una sottolineatura dal
momento che della verifica rende rilevante la dimensione asimmetrica in ragione della quale
c’è qualcuno che pone le domande in funzione di controllo e qualcun altro che è chiamato a
rispondere; è dunque un atto che suggerisce uno specifico modo di configurare/interpretare
il momento valutativo (diverso, ad esempio, dal dire: “vediamo se ci ricordiamo di cosa
abbiamo parlato nelle ultime lezioni”).
 qualcuno: il riferimento ad un soggetto generico afferma il punto di vista per cui la
centratura è sull’attività (qualcuno verrà interrogato) più che sul chi è chiamato a svolgerla;
l’insegnante sembra in questo modo interpellare lo studente come strumento per lo
svolgimento del proprio progetto, piuttosto che, ad esempio, come soggetto concreto, con
una propria agentività, rispetto alla quale perseguire uno specifico scopo.
 “Sirigatti non c’è?” - “No, non c’è, c’era Maria ma è andata via. In primo luogo, si può
ipotizzare che con la sua risposta lo studente locutore attenuta la potenziale rottura
dell’assetto di prossimità veicolata dall’uso del cognome, dal passaggio. Si può tuttavia
aggiungere che la risposta allo stesso tempo riproduce un asseto di senso condiviso:
evocando Maria in contiguità con Sirigatti, la si assimila ed al contempo si mobilita una
categoria più generale come referente dell’interrogazione. In altri termini, si costruisce il
senso dell’interrogazione come azione non finalizzata al singolo studente, in quanto
funzione di regolazione del suo processo di apprendimento, ma come procedura adempitiva
rivolta al collettivo indifferenziato – in quanto materiale che ne consente l’esercizio (per cui
Maria o Sirigatti, è lo stesso, purchè qualcuno).
 Geometria o matematica?. Questa domanda per certi versi banale, veicola una potente
proposta performativa: la distinzione tra le due materie, come due attività portatrici di una
diversa struttura di conoscenze. L’interrogativo in questione può dunque essere interpretato
come un atto attraverso il quale gli studenti reificano entro ed attraverso lo scambio

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comunicativo (dunque istituitiscono come dato di realtà) una premessa generativa
dell’oggetto di esperienza (la geometria come oggetto specifico, in quanto distinto dalla
matematica).
 La geometria fa sempre parte della matematica, non è un’altra cosa: L’insegnante non
interagisce con l’atto implicato nella domanda sul piano della sua funzione performativa
(cioè in quanto premessa generativa di senso); piuttosto, la negozia nel suo contenuto
semantico immediato, opponendo ad esso un diverso ordine semantico, basato sul proprio
sistema culturale di riferimento (il modello epistemologico di riferimento che propone
l’unità di geometria e matematica). Qui troviamo una espressione sufficientemente evidente
della cultura docente che assume il setting in quanto istituito. L’insegnante propone il
proprio modello in quanto norma, cioè criterio di verità in ragione del quale dare significato
al discorso degli allievi. Ciò evidentemente implica considerare tale discorso come uno
scarto rispetto alla realtà data attesa, piuttosto che come espressione di un diverso codice
culturale, costitutivo di un diverso oggetto di esperienza, in definitivo di un diverso mondo
di significato – nel caso: la distinzione tra geometria e matematica in quanto vissuti non
come forme dello scibile, ma come segmenti discreti dell’attività scolastica (articolata in
ragione dei libri differenti, così come, probabilmente, della distinzione delle ore di lezione,
ecc…).
 “Iniziamo da geometria. Mi date un libro?”E’ interessante osservare che nella situazione di
interazione esaminata la proposta di senso avanzata performativamente dagli studenti per
quanto contrastata sul piano dichiarativo dall’insegnante, nei fatti viene fatta propria come
regolativa sul piano degli atti. L’insegnante, infatti, assume gli ancoraggi materiali (il libro)
ed i marcatori lingiustici (“iniziamo da”) veicolati dalla proposta semiotica degli studenti, in
questo modo diventando parte del contesto discorsivo costruttivo della geometria come
segmento dell’attività di studio (piuttosto che ambito dello scibile).

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Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento
III Unità Didattica – Lezione 3

Ancora un esempio

Prendiamo in considerazione un ulteriore pattern dello stesso scambio comunicativo.

Insegnante: Vediamo, qualche definizione per esempio. Carlo dammi una definizione di poligono. Intanto,
come lo definiresti un poligono? Allora…
Carlo: …. (rimane in silenzio)
Insegnante: Allora…Carlo.. un poligono. Disegnalo, disegna un poligono. Vediamo dalla rappresentazione
grafica di capire come potremo definirlo, disegna un poligono qualsiasi, disegnalo.

 qualche definizione/una definizione: l’uso dell’aggettivo e dell’articolo indeterminativo


contribuiscono ad indurre un frame interpretativo che rende rilevante (pertinentizza) l’azione di
definire in quanto tale, piuttosto che lo specifico oggetto a cui tale azione si applica.
 Intanto. Il senso ora richiamato sembrerebbe ulteriormente alimentato dal successivo uso del
termine “intanto”, che connota l’oggetto da definire in termini contingenti, strumentali,
pretestuali: è come se definire il poligono non avesse valore in sé, ma fosse un primo passo,
transitorio e per certi versi pretestuale.
 (silenzio). Carlo non entra esplicitamente in conflitto con il frame interpretativo
dell’insegnante. Piuttosto produce un atto che potremmo definire “di confine”, né totalmente
compatibile (l’interrogazione presuppone che l’interrogato dica qualcosa), né totalmente
incompatibile (la scena muta è una possibile, sia pure marginale opzione a disposizione
dell’interrogato). Tale posizionamento rende l’atto polisemico, oggetto di una molteplicità di
possibili interpretazioni: |non so rispondere|; |non voglio rispondere|; |non capisco la domanda|;
|devo pensare/ho bisogno di tempo|; |aspetto un suggerimento”|, ecc.
 Allora… Carlo…. un poligono. E’ l’insegnante a “sciogliere” la polisemia dell’atto dell’altro,
anche in questo caso in termini performativi. Sollecitando lo studente ad una risposta, carica il
silenzio dello studente di un significato di impedimento contingente a rispondere (piuttosto, ad
esempio, di indisponibilità strutturale ad aderire alla richiesta). In questo modo viene agito – ed
al contempo riprodotto – uno dei fondamentali assunti dell’attività didattica: l’adesione dello

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studente al proprio ruolo, dunque l’interpretazione degli scarti in chiave di
impossibilità/incapacità, piuttosto che di uscita dal ruolo.
 Disegnalo, disegna un poligono. Vediamo dalla rappresentazione grafica di capire come
potremo definirlo, disegna un poligono qualsiasi, disegnalo. Questa iniziativa discorsiva si
presta ad un duplice ordine di considerazioni. In primo luogo, sembrerebbe conseguente alla
precedente sollecitazione e volta a rinforzarne il senso. E’ come se l’insegnante assumesse ed
agisse – realizzandola tramite l’azione - un’idea di questo tipo: “Carlo accetta di essere
interrogato, ne comprende il significato; se sta in silenzio è perché si riconosce non in grado di
produrre la performance che egli stesso considera adeguata al ruolo”. Il silenzio di Carlo in
questo modo assume il valore di un’adesione al ruolo, al contempo assoluta e paradossale: Carlo
è così identificato con il ruolo che si impedisce di parlare in quanto sente di non avere nulla da
dire di adeguato. Ovviamente sono possibili anche altre letture di questo pattern comunicativo.
Tuttavia, quella che stiamo perseguendo risulta coerente con il successivo sviluppo
dell’iniziativa discorsiva dell’insegnante. Interviene infatti un doppio salto, che nei fatti
modifica il frame precedente, sostanziato dalla routine dell’interrogazione. Il primo salto
avviene con il recupero di una diversa procedura/area dell’identità di ruolo. La sollecitazione a
disegnare, infatti, modifica il senso stesso dell’interazione, che a questo punto non si configura
più come un controllo sull’apprendimento acquisito relativamente ad una capacità/conoscenza
discreta e circoscritta, ma come induzione di un processo di costruzione di conoscenza. Se si
vuole, si è prodotta un’uscita dal frame |interrogazione|; oppure, si è trasformato tale frame in
modo che incorpori un diverso contenuto di attività. Tale salto si associa all’emergere di un
nuovo posizionamento, richiamato dall’uso della prima persona plurale e di una formulazione
aperta, esortativa piuttosto che imperativa (Vediamo come potremo definirlo). A questo punto
non vi è più un insegnante opposto ad uno studente di cui controllare il possesso di una certa
qualità, ma un soggetto collettivo (un noi) che sta impegnandosi in uno sforzo condiviso volto
ad ottenere un risultato il cui incerto riscontro (si veda in proposito l’uso del “potremo” in
chiave condizionale) attesta ulteriormente il valore dell’investimento esercitato.

Qualche commento

Ciò che ci sembra interessante è il fatto che il processo di coordinamento della reciprocità
che abbiamo testè analizzato viene messo in atto attraverso procedure di microregolazione del
significato che non implicano negoziazioni esplicite del senso, ma piuttosto si esercitano attraverso

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l’incessante, non intenzionale ed implicita attribuzione performativa di valore comunicativo al
posizionamento dell’altro.
Ad esempio, come abbiamo visto, l’insegnante ridefinisce il frame non come risposta al
contenuto comunicativo di Carlo (il suo silenzio), ma in ragione della propria riorganizzazione del
senso nei termini della quale incorpora nel proprio sistema di significati la condotta dell’allievo. In
definitiva, ogni attore è al contempo chiuso nella propria autoreferenzialità interpretativa ed al
contempo capace di entrare in rapporto microregolativo con l’altro.

Il modello di relazione educativa implicato

Per quanto limitati, i due esempi discussi in questa e nella precedente lezione
illustrano in modo sufficientemente chiaro come la cultura educativa implicata in
questo scambio tratti la soggettività dei partecipanti (intesa in senso lato come
l’insieme dei mondi di significato che mediano/organizzano l’esperienza che essi
fanno del setting formativo e della loro partecipazione al suo interno) come
eteroregolabile ed allo stesso tempo come una componente data del format didattico
(Salvatore, Scotto di Carlo, 2005).

Simile presupposto - spesso implicito - alimenta l’aspettativa secondo la quale si possono


prevedere e prescrivere valori, norme, richieste di ruolo, operando come se la risposta cooperativa
degli attori cui vengono proposte regole e condizioni di partecipazione dipendesse essenzialmente
dalla coerenza del messaggio e dalla legittimità/sensatezza del suo contenuto.
Simile concezione pedagogica trova peraltro sostegno nella letteratura psicologica: basti
pensare alla teoria dell’utilità attesa (Edwars, 1954), secondo la quale l’utilità o desiderabilità di un
comportamento si fonda sul calcolo della probabilità (aspettativa) e dell’utilità (valore) di particolari
conseguenze; l’uomo è concepito come un soggetto razionale capace di valutare
oggettivamente/razionalmente costi e benefici delle alternative di azione, e di agire
congruentemente con queste. Una prospettiva, quella che stiamo richiamando, che in ultima istanza
è espressione di un derivato epistemologico secondo il quale il valore dei segni scambiati è inscritto
negli oggetti stessi, in ragione (per il fatto stesso di essere parte) del contesto in cui occorrono
(Salvatore, 2007). Il che giustifica la non esplicitazione del loro perché, dunque l’assunzione della
committenza dello studente come premessa del processo di insegnamento-apprendimento, piuttosto
che come condizione.

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Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento
III Unità Didattica – Lezione 4

I limiti di una concezione istituita del setting

L’alterità antropologica dello studente

Ogni modello educativo (e più in generale professionale) ha i propri vincoli di fattibilità, le


condizioni, cioè, entro i quali può essere declinato. Abbiamo ad esempio già osservato come il
setting applicativo – implicato in una concezione istituita della relazione esperto-profano
presupponga la salienza di uno spazio di consensualità/omogeneità tra i codici di significazione
entro il contesto formativo (Salvatore, Scotto di Carlo, 2005), l’accordo ad esempio tra esperto e
profano sull’utilità del loro incontro. Tale modello risulta d’altra parte impraticabile in quelle
situazioni in cui il cliente non condivide i presupposti che consentono l’incontro con la funzione
professionale; in altri termini, in quelle circostanze entro le quali l’assenza di un’afferenza ad una
comune matrice di significati non garantisce la cooperatività tra gli attori implicati.
Il punto è che il non darsi di tali condizioni sembra oggi una regola, piuttosto che
un’eccezione con cui occasionalmente l’insegnante è chiamato a confrontarsi. E la ragione di ciò
non ha a che fare con la sostanza o qualità in sé delle proposte formative ed educative della scuola -
affermarlo significherebbe pensare all’istituzione scolastica come ad un sistema chiuso,
impermeabile, incondizionato dai contesti (sociali, storici, economici, culturali) in cui pure si
inscrive e che, almeno fino ad un certo punto, le hanno dato legittimità, riconoscendola come
espressione di un mandato sociale.

Come è stato da più punti di vista osservato, nella società “complessa” (Luhmann, De
Giorgi, 1992) e iperdiferrenziata, a venir meno non sono solo gli a priori culturali fondanti l’agire
educativo, ma i sistemi di significato che fondano l’agire sociale e l’investimento sui principi, le
regole, i domini di valore di cui le istituzioni (anche quelle scolastiche) sono in parte espressione.
La scuola si confronta con un’utenza composita e differenziata nelle sue attese, caratteristiche e
modalità di declinare la partecipazione alla vita scolastica (Carli, 2001), come a quella comunitaria
più ampia (Ferrari Occhionero, 2001); differenze che evidenziano come la categoria |studente| sia
un’astrazione che non rende conto della pluralità dei sistemi di senso che l’attraversano ed
organizzano l’identità dei soggetti che tramite tale classe di significato sono denotati; sistemi di

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senso che spesso appaiono incompatibili con le tradizionali regole del gioco fondanti i processi di
apprendimento e di lavoro collettivo.
Il dibattito accesosi attorno all’opportunità o meno di mantenere il crocifisso nelle aule
scolastiche, è solo uno degli indizi che informano sulla difficoltà ad assumere lo studente in termini
di radicale alterità, tale non necessariamente in quanto diverso da un punto di vista etnico o
religioso, ma perché difficilmente riducibile alle condizioni istituite del setting di insegnamento-
apprendimento.

Strategia dell’assimilazione versus strategia dell’accomodamento

Il carattere di alterità antropologica dell’utenza mette la scuola dinanzi a due opzioni di


fondo. La prima, che possiamo definire strategia di assimilazione. Essa assume il carattere istituito
del agire educativo, dunque si muove nella direzione di rintracciare ed intervenire sui fattori che ne
impediscono il funzionamento atteso. L’altra logica è quella che possiamo definire dell’
accomodamento. Essa rintraccia/interpreta la frattura del copione che orienta l’azione professionale
come esito generato dall’incontro con una irriducibile estraneità ed usa gli eventi critici per capire
come sviluppare l’appropriatezza del setting in modo da renderlo mediatore e luogo di incontro con
essa.
Nel primo caso la mancata implicazione dell’utenza nel setting formativo viene trattata
come una perturbazione risolvibile attraverso l’insistenza su strumenti e procedure che non mettono
in discussione il modello educativo/formativo esistente.
Nel secondo caso l’eterogeneità dell’utenza viene intesa come informazione di ritorno
sull’opportunità di elaborare un modello di relazione educativa capace di interagire con la
variabilità del contesto, trattata come un fattore costitutivo, piuttosto che come incidente o fattore di
disturbo contingente, del funzionamento del sistema di azione professionale.
Possiamo parlare, in questo secondo caso, di una concezione istituente del setting formativo:
diversamente dal setting istituito, quello istituente, o negoziale (Salvatore, Scotto di Carlo, 2002),
non dà per scontata la cooperazione tra docente e classe e non considera le regole che consentono al
processo di insegnamento di dispiegarsi condizioni ad esso preesistenti; al contrario, interpreta le
regole del gioco che fondano gli ambienti di insegnamento-apprendimento come la risultante di un
continuo processo di costruzione e negoziazione di significati. Ciò a partire dall’idea secondo la
quale gli oggetti, le regole, le procedure, messe in campo nel processo di insegnamento-
apprendimento, non hanno in sé obiettivi e non prescrivono le modalità del loro utilizzo. Essi vanno

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piuttosto considerati dei contenuti attraverso cui i locutori interagiscono, esercitano i propri modelli
formativi e di rapporto in ragione della contingenza delle circostanze in cui sono iscritti.

La relazione educativa in questa prospettiva non è una semplice cornice ma ciò


attraverso cui il processo di insegnamento-apprendimento si dispiega. Il docente è
quindi chiamato non solo ad insegnare, ma anche a costruire, sviluppare, monitorare
e verificare le condizioni organizzative e di rapporto con l’utenza che lo mettono
nelle condizioni di insegnare.

Discuteremo nel prossimo paragrafo i presupposti teorici che motivano l’assunzione di una
tale prospettiva, per poi suggerire quali modelli formativi la possano sostanziare.

Il carattere ermeneutico dell’insegnamento

Il modello del setting istituente fa proprio il punto di vista – sostenuto da diverse aree del
pensiero psicologico contemporaneo – secondo cui il processo di insegnamento-apprendimento non
può essere configurato come un semplice processo di trasmissione-acquisizione di dati: la mente
non elabora pacchetti informativi ma significati (Bruner, 1990); significati che non sono proprietà
degli oggetti ma del loro incontro con i dispositivi semiotici degli attori che li interpretano, li
qualificano, li utilizzano e in questo senso li generano, in modo particolare ed idiosincratico
(piuttosto che riproduttivo ed universalistico), in ragione dei contesti locali di identità e attività in
cui sono inscritti (Harré, Gillett, 1994; Valsiner, Van der Veer 2000).

In quest’ottica il processo di insegnamento-apprendimento si configura come


un’attività ermeneutica che procede attraverso l’attribuzione di senso agli elementi
(contenuti didattici, tecniche, procedure, regole, attività …) che lo abitano.

L’insegnante, da questo punto di vista, può offrire condizioni e modalità di esercizio alla
funzione di apprendimento (definendo/selezionando/organizzando le condizioni su cui il processo
ermeneutico si dispiegherà) ma non ne definisce gli esiti (Salvatore, Scotto di Carlo, 2003). Così ad
esempio, la proposta attivabile da parte di un docente di lavorare in gruppo, non esiterà, in due
classi differenti, necessariamente in uno stesso tipo di lavoro di gruppo, dipendendo dal senso con
cui la classe, cui la proposta è rivolta, interpreterà questo mandato.
E’ rilevante osservare che - come evidenziato da una molteplicità di fonti di letteratura
psicologica tale senso non è sostanziato dal significato attribuito all’oggetto discreto

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dell’esperienza; al contrario, tale significato è il riflesso del valore più generale di connotazione
globale del contesto interpersonale, organizzativo, sociale, istituzionale entro cui ed in ragione del
quale si realizza l’esperienza dell’oggetto. Ad esempio, una rappresentazione della propria
esperienza di studente – dunque dell’ambiente didattico nel suo complesso- come insieme di
adempimenti favorirà una interpretazione di ciò che in esso si incontra e si fa nei termini di attività
o regole cui aderire o non aderire, piuttosto che, ad esempio, nei termini di operazioni su cui
investire in funzione dell’utilità che rivestono.

Ai fini del nostro discorso, è utile evidenziare come la tesi della contestualità e situatività dei
significati abbia importanti implicazioni metodologiche nel processo di insegnamento-
apprendimento:
 viene meno l’idea di una istruttività intrinseca dello stimolo didattico (Salvatore,
Scotto Di Carlo, 2005): i contenuti trasmessi dall’insegnante non vengono ricevuti e acquisiti dagli
allievi con gli stessi criteri e la stessa intenzionalità con cui sono messi in campo; lo studente si
rapporta infatti a qualsiasi segno prodotto dal docente attraverso la mediazione dei sistemi di
significato (modelli culturali, simbolici, cognitivi) di cui dispone;
 viene meno l’idea di saperi e tecniche il cui valore d’uso e la cui applicabilità siano
senza tempo e senza luogo - validi dunque per tutti, ubiquitariamente e per sempre,
indipendentemente dal contesto (interpersonale, organizzativo, sociale, istituzionale) e dalla
dinamica di scambio in cui il loro impiego viene proposto.

In sintesi, il riconoscimento del carattere contingente del significato rende assai incerta
l’efficacia di una strategia formativa fondata su di una concezione istruttiva o procedurale del
processo di insegnamento: la prima, che si declina in termini informativi, non tiene in debito conto
l’autonomia interpretativa dei fruitori; la seconda, che si configura come correzione degli schemi
che presiedono la selezione e l’organizzazione delle informazioni, ignora la natura contesto-
specifica del valore dei modelli che vengono proposti ad oggetto dell’apprendimento.

Il docente si trova in un situazione peculiare, per certi versi paradossale: da una parte è sua
funzione specifica (istituzionalizzata dal mandato sociale) quella di creare apprendimento; non può
dunque inscrivere la propria azione professionale all’interno dei modelli e delle premesse di cui gli
allievi sono portatori, assimilandosi cioè al loro universo simbolico, rincorrendo le loro fantasie e
attese di rapporto; dall’altra, allo stesso tempo, non può operare malgrado il proprio “cliente” (e i
sistemi di appartenenza cui si riferisce), imponendo in modo normativo il proprio punto di vista

81
educativo su cosa e su come sia utile/opportuno/necessario pensare, essere, fare entro il setting
formativo. Come diverse aree disciplinari (non solo pedagogia, ma anche epistemologia,
antropologia, sociologia, psicologia, biologia) hanno evidenziato, non è possibile infatti prescrivere
i modelli simbolici che governano il modo degli attori di interpretare il proprio ruolo e il contesto in
cui sono inscritti.

In questa sede non vogliamo limitarci a segnalare simile paradosso, del resto sperimentato
quotidianamente dagli insegnanti in termini di incertezza, insoddisfazione, senso di impotenza. Per
individuare una prospettiva di sviluppo è d’altra parte opportuno tenere in conto un principio
teorico-metodologico generale: l’attività semiotica di interpretazione-costruzione di significato
degli attori se da un lato è autonoma, dall’altro è comunque vincolata ed esercitata entro, a partire
e nei termini delle categorie che il contesto culturale mette a disposizione. In altri termini, se va
riconosciuto che ogni individuo pensa e parla in ragione dal proprio universo interpretativo, è
altrettanto opportuno rilevare che per esercitarli utilizza le categorie (cognitive ed affettive) e i
registri narrativi che trova disponibili entro il contesto. L’autonomia semiotica del soggetto si
alimenta di risorse simboliche che il soggetto si abilita ad utilizzare in ragione del proprio essere
parte di un sistema di appartenenza (dunque di una cultura).
In questo senso il modo dello studente di rappresentar(si), connotar(si), narrar(si)
l’esperienza, è sempre rappresentazione/narrazione di secondo grado, vincolata agli ambiti di
significazione e ai gradi di libertà che l’insegnante, attraverso i dispositivi organizzativi (i contenuti
dei compiti richiesti, il modo di presentarli, le forme di rapporto che propone agli allievi,
l’organizzazione spazio-temporale dei lavori, ecc) gli mette a disposizione.

Come abbiamo provato ad evidenziare nell’analisi del trascritto proposte nelle precedenti
lezioni, l’azione didattica del docente si pone infatti non solo come veicolo ma come inveramento di
criteri di adeguatezza e di interpretazione del ruolo. Si pensi al silenzio di Carlo, lo studente cui
l’insegnante di matematica chiede la definizione di poligono. Interpretarlo, attribuendogli un
significato nei termini del proprio frame interpretativo è una delle azione che il docente aveva a
disposizione; un’alternativa, in alcuni casi meritevole di esplorazione, è di assumere come oggetto
del discorso il discorso stesso; in altri termini non agire il significato derivante dall’assimilazione
della posizione dell’altro, ma usare tale segno (nel caso: il silenzio) come un pretesto che permetta
di sviluppare il livello di negoziazione condivisa del senso di ciò che sta avvenendo, dunque più in
generale del contesto che organizza tale senso.

82
Si tratta in definitiva di svolgere fino in fondo l’implicazione legata al riconoscimento del
carattere negoziale e situato del significato. La conoscenza non è un lavoro o un bagaglio cognitivo
individuale ma un prodotto che emerge in spazi specifici (situati) di intersoggettività, dove
relazionalmente e discorsivamente gli attori costruiscono versioni e rappresentazioni condivise di
quanto stanno facendo e realizzando insieme. Il contesto educativo – da questo punto di vista - è
esso stesso un evento di costruzione sociale, cui anche l’insegnante partecipa, proponendo,
incoraggiando, alimentando, convalidando (in un modo o nell’altro) premesse e criteri di rapporto.
Può essere allora un importante spazio di lavoro per il docente la creazione di dispositivi che
consentano di promuovere i segni scambiati nella relazione educativa nella loro qualità di
significato compatibile con gli obiettivi di apprendimento che il progetto formativo intende
veicolare.

Da questo punto di vista, l’attività educativa può essere caratterizzata/concepita per il


suo offrirsi come opportunità di superamento dei vincoli che le dimensioni
simboliche istituite pongono alla possibilità di generare nuovo senso. E’ questa una
diversa, ma non incompatibile definizione di apprendimento.

83
Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento
III Unità Didattica – Lezione 5

Dal setting applicativo al setting negoziale

Se è vero che l’efficacia del processo di insegnamento è strettamente connessa al grado di


investimento degli studenti e al valore che essi attribuiscono all’agire educativo, allora essa può
essere alimentata attraverso la creazione di dispositivi che, in quanto inscrivibili nei loro modelli
categoriali e nel loro orizzonte di esperienza, possano funzionare al contempo da ancoraggio e da
vettori di sviluppo dei loro schemi di conoscenza; dispositivi dunque compatibili rispetto al sistema
di significati con cui gli studenti danno valore all’ambiente; al contempo non appiattiti sui loro
linguaggi contestuali.
Un simile setting formativo si caratterizza per la sua salienza semiotica (Salvatore, Scotto Di
Carlo, 2005): la sua capacità di configurarsi come contesto simbolicamente pregnante per il sistema
d’identità e di intersoggettività degli allievi.
Ciò si può verificare nella misura in cui gli studenti vengano messi nelle condizioni di
riconoscere nel sistema formativo (nei suoi contenuti, nelle sue modalità) non solo un’attualità fatta
di impegni, di compiti, di scadenze, di regole…, ma anche e soprattutto un progetto (un perché) e
un’ipotesi di sviluppo del proprio futuro, dunque del proprio desiderio, non solo formativo ma
anche esistenziale, in definitiva un rapporto tra ciò che stanno facendo come studenti e ciò che
sono, e desiderano essere come attori dotati di soggettività ed intenzionalità.

L’insegnante può sviluppare la salienza simbolica del setting formativo nella misura
in cui lo configura come veicolo non solo di pensieri-già-pensati ma da pensare,
ovvero nel momento in cui organizza situazioni e stimoli, che oltre a funzionare da
contenitore delle pratiche di insegnamento/apprendimento, operino come pre-testi
per generare significati e contesti di riflessione. Il che significa valorizzare e porre
attenzione non solo al testo da apprendere, ma anche al contesto in cui e attraverso
cui esso viene appreso; non solo all’esito ma anche al processo che genera
apprendimento, dando voce alla relazione in cui si inscrive.

Se il setting istituito implica/giustifica una logica di insegnamento che non prevede


mediazioni/specificazioni su cosa, come e perché si fa ciò che si fa, il setting istituente richiede una
logica negoziale che assumendo la pluralità dei punti di vista in gioco, lascia spazio al loro

84
riconoscimento. Il suo prodotto cognitivo e relazionale è la pratica socio-semiotica dell'estraneità.
Dove per “estraneità” intendiamo un modello di relazione simbolica con l'oggetto che lo tratta come
non immediatamente dato, scontatamente ri-conoscibile (Montesarchio, Crotti, 1993; Paniccia,
2003).
Evidentemente, la pratica del setting istituente richiede metodologie di lavoro specifiche,
strutturanti ed al contempo flessibili, che permettano al setting stesso di configurarsi come un testo
“aperto”, da costruire, da esplorare, sperimentare, costantemente passibile di ristrutturazione. In
questo senso il processo educativo è insieme progetto ed esperienza. In quanto progetto, è
caratterizzato da finalità, che lo sottraggono alla causalità; in quanto esperienza, è un viaggio non
scontatamente prescritto da regole date, continuamente passibile di revisione, in funzione di ciò che
appare utile, interessante o significativo in quel momento, in quel contesto

In quest’ottica ci pare di poter leggere l’insistenza oggi sulla necessità di una cultura dei
processi formativi che si apra ai vissuti e alle narrazioni (Montesarchio, Marzella, 2002;
Montesarchio, Venuleo, 2003; Freda, 2004; Di Vita, Granatella, 2006), intese non come spazio altro
dall’apprendimento, ma come riconoscimento del ruolo giocato dai dispostivi semiotici degli allievi
e della possibilità di procedere attraverso e non malgrado le teorie sulla relazione, sul ruolo di
studente, di insegnante, sull’uso del processo formativo, che la loro domanda esprime.
Esplicitare tali teorie- gli assunti posti in premessa - non è operazione fine a se stessa;
significa creare un contesto in cui i codici di riferimento possano essere attraversati, elaborati,
pensati. E ciò a partire dal punto di vista per cui il processo di insegnamento ha valenza formativa
non solo nella misura in cui in esso si mobilitano determinati contenuti, ma in quanto capace di
configurarsi come contesto di produzione di senso, dunque dispositivo interpretante della
esperienza di presenza nel mondo degli attori implicati non solo interpretabile.

Il setting negoziale non implica insomma un appiattimento sui linguaggi contestuali degli
studenti; se così fosse, pur promovendo la loro partecipazione, verrebbe meno nella sua principale
valenza di motore di sviluppo dei loro modelli di conoscenza. Esso fa proprio piuttosto il punto di
vista per cui l’efficacia del processo di insegnamento è legata alla sua capacità di incrementare la
pensabilità/rappresentabilità/narrabilità dell’esperienza scolastica e dell’identità di ruolo dello
studente, operando come contesto di natura perturbativa, che permetta al contempo di:

• mobilitare i sistemi di conoscenza degli allievi (creando condizioni per esplicitarli);

85
• sfidare la tenuta delle premesse che ne fondano l’organizzazione (le condizioni di
validità/felicità, le implicazioni);
• sostenere metodologicamente i tentativi di ristrutturazione concettuale con i quali essi
rispondono alla perturbazione del precedente assetto (Salvatore, Scotto Di Carlo, 2005).
• In quest’ottica, l’azione dell’insegnante si muove entro i vincoli delle premesse
(cognitive, affettive, simboliche) proposte dal formando e ne promuove al contempo lo
sviluppo, rendendo visibili, parlabili, dialogabili le risorse simboliche che lo possono
alimentare.

Prospettive formative

Il modello educativo ora proposto ha una implicazioni rilevante concernente la


reinterpretazione della funzione docente. Come evidenziato, la logica del setting istituente permette
una diversa lettura di quegli eventi che, segnalando la mancata implicazione dello studente nel
setting formativo, si presentano come critici per l’insegnante; essi possono infatti essere
reinterpretati come il segno non di ciò che manca allo studente, ma dei diversi criteri che
guidano/motivano il suo investimento scolastico, dunque ci ciò che manca al setting per entrare in
rapporto con tale differenza. Si tratta in altri termini di chiedersi non come cambiare l’allievo ma
come cambiare il contesto di apprendimento in modo che sia per lui appetibile, ovvero
utilizzabile/comprensibile, in quanto assimilabile entro i suoi frame interpretativi – ciò, vale la pena
precisarlo, in ultima istanza come metodo per produrre processi di apprendimento efficaci.

In tale ottica, l’agire professionale del docente si viene a configurare in termini


bidimensionali. Da un lato, come competenza tecnica che regola l’azione didattica
entro le aree e i momenti dati del rapporto con l’utenza; dall’altro la competenza
metodologica volta a costruire le condizioni di setting e di relazione con il fruitore
necessarie per sviluppare e governare tali aree/momenti, dunque per esercitare
l’azione didattica.

È questa un’operazione culturalmente nuova per la scuola e la funzione docente. Può essere
infatti osservato come fino a qualche tempo fa, all’insegnante non competeva trattare il contesto di
declinazione della propria azione professionale; tale contesto poteva costituire un fattore di disturbo
o di vincolo del processo di insegnamento; tuttavia non era, per “mandato” oggetto di regolazione

86
da parte del docente cui competeva il controllo degli esiti di quanto insegnato, non la responsabilità
dei risultati raggiunti (Cfr. Morozzo della Rocca, 1993). L’insegnante era legittimato a ragionare in
termini di contesto istituito (Mehan, 1978).

87
Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento
III Unità Didattica - Bibliografia

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• Valsiner, J., van der Veer, R.: (2000), The Social Mind.
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Press.

90
Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento
IV Unità Didattica – Lezione 1

La didattica come perturbazione e l’uso formativo dell’errore

La didattica come perturbazione

Secondo quanto discusso nella seconda unità, i saperi non sono costituiti da repertori di
conoscenze, ma dal modo con cui i soggetti organizzano le informazioni entro modelli di
rappresentazione della realtà e di attribuzione di senso all’esperienza. La conoscenza, in questi
termini, non risiede nei dati, ma nel rapporto tra dati e soggetto.
Questa concezione costruttivista critica la logica incrementalista dell’insegnamento come
azione volta a produrre/favorire l’accumulo di informazioni nella mente/contenitore del discente
(De Beni 1994). Ricordiamo come a tale concezione classica si contrappone la visione
dell’insegnamento come azione di stimolazione ed al contempo di supporto agli allievi impegnati
nella costruzione e organizzazione delle conoscenze.
Il soggetto discente apprende non solo e non tanto aggiungendo nuovi elementi al proprio
bagaglio di saperi, ma ristrutturando ricorsivamente le rappresentazioni del mondo e dell’esperienza
che possiede e che utilizza come mediatori semantici della relazione con l’ambiente di vita. I nuovi
elementi di sapere non si inscrivono, dunque, in un vuoto; ma entrano nel sistema di conoscenze più
complessivo proprio dell’allievo. Il rapporto tra modelli mentali (la semantica propria dell’allievo) e
i saperi proposti dall’insegnamento è dunque dialettico: da un lato i modelli mentali definiscono il
significato delle informazioni, assimilandole secondo i criteri semantici che li contraddistinguono;
dall’altro, l’input, per il fatto stesso che diviene oggetto di assimilazione, può costituirsi come fonte
di ristrutturazione del sistema di conoscenze.

In quest’ottica, l’insegnamento è concepito come azione indiretta. Viene meno l’idea di una
istruttività intrinseca dello stimolo didattico (in altri termini, la fiducia nell’idea secondo la quale
l’azione didattica funzionerebbe da vettore che trasporta l’informazione nello spazio mentale, in
precedenza libero, del soggetto). Diversamente da questa visione tradizionale, la didattica
predispone situazioni di stimolazione di natura perturbativa volti a sollecitare lo sviluppo
dall’interno dell’organizzazione concettuale dell’allievo. In altri termini, situazioni pensate al
contempo per: mobilitare i sistemi di conoscenza degli allievi, sfidare la tenuta dei presupposti che
ne fondano l’organizzazione; sostenere metodologicamente i tentativi di ristrutturazione concettuale

91
con i quali gli allievi rispondono alla perturbazione del precedente assetto.

La concezione dell’insegnamento i cui lineamenti stiamo tratteggiando offre una nuova e


diversa considerazione di alcuni temi che, soprattutto sul piano dell’agire quotidiano degli
insegnanti, mantengono spesso posizioni periferiche. Ne evidenziamo in particolare due.

Stiamo pensando in primo luogo al tema del senso dell’esperienza di apprendimento, inteso
come oggetto, metodo ed obiettivo dell’insegnamento (De Vecchi, Carmona Magnaldi, 1996). Nella
concezione costruttivista i soggetti sono visti come operatori costantemente alle prese con
l’esigenza di dare significato all’esperienza. L’apprendimento, in quest’ottica, è in se stesso
l’espressione di questa tensione ed allo stesso tempo il suo risultato. La riorganizzazione delle
conoscenze è la risposta che il soggetto produce per dare senso al dato di esperienza con cui si
incontra/scontra. In definitiva è il senso che egli attribuisce a tale dato: il nuovo rapporto semantico
che istituisce con quel determinato segmento di esperienza/realtà.

Da un punto di vista complementare, il senso entra come criterio metodologico. Se è vero


che la conditio sine qua non dell’apprendimento è la mobilitazione del sistema di conoscenza
dell’allievo (in quanto l’apprendimento è la ristrutturazione a cui va incontro tale sistema nel
momento in cui si esercita in contesto perturbante), allora l’insegnamento non può che coniugarsi
come capacità di predisporre contesti sensati; in altre parole, situazioni e stimoli che, in quanto
iscrivibili nel loro orizzonte cognitivo e di esperienza, funzionino da attrattori ed alimento delle
operazioni mentali degli allievi.

Sulla motivazione

Val la pena per inciso evidenziare come questa concezione inscriva nella struttura stessa del
processo/esperienza di apprendimento la dimensione motivazionale. Essa in questo senso implica
una critica netta di due approcci al tema della motivazione che trovano ampia diffusione nel
comune sentire didattico. Da un lato, l’idea della necessità di integrare/diluire il lavoro di
apprendimento con momenti compensativi (di tipo ludico/espressivo) pensati con finalità
motivazionali. Una idea, questa, che presuppone il carattere intrinsecamente non motivante (se non
demotivante) dell’esperienza di apprendimento scolastico, per questo motivo da equilibrare con

92
iniezioni di elementi di gratificazione extradidattica, volte a riprodurre (dunque contenere) entro il
processo di insegnamento-apprendimento l’esperienza di uscita dal contesto scolastico. Dall’altro,
una visione strumentale dell’apprendimento, in base alla quale può risultare sensato per l’allievo
solo quella conoscenza e quei processi di apprendimento che risultino spendibili entro lo spazio di
vita dell’allievo.
Queste due idee di motivazione sono tra loro evidentemente diverse. Esse tuttavia
condividono un assunto comune: l’idea che il senso non sia immanente all’apprendimento e che per
questa ragione vada alimentato in maniera vicariante, vuoi come indotto delle componenti
prosociali e/o ludiche - comunque extradidattiche - dei contesti scolastici, vuoi come connotazione
di spendibilità dei suoi risultati.
Per certi versi, si potrebbe dire che lo stesso costrutto di motivazione presupponga e si
giustifichi sulla base di questa frattura tra senso e apprendimento: si può infatti parlare di
motivazione all’apprendere nel momento in cui in sé l’apprendimento non è un processo
intenzionale, cioè immanentemente legato al suo oggetto (forse non a caso, in semiotica questa
relazione immanente tra significante e significato viene definita “motivazione”).

Nell’ottica che stiamo proponendo, è l’esperienza in sé dell’esercizio della


conoscenza ad essere significativa, indipendentemente dalla finalizzabilità dei suoi
prodotti, in quanto la ricerca autoregolativa di nuovi livelli di equilibrio dinamico è
un attrattore intrinseco del funzionamento cognitivo.

De Vecchi e Carmona-Magnaldi (1996), ad esempio, riportano alcune modalità che possono


essere utilizzate come dispositivi di promozione di senso:
• proporre problemi che sfidano le capacità di soluzioni del sistema di conoscenze di
cui gli allievi sono in un momento dato portatori;
• evidenziare gli esiti paradossali dei presupposti su cui si basa il ragionamento;
• utilizzare le conoscenze acquisite per produrre nuovi apprendimenti;
• fare riferimento alla realtà esperienziale degli allievi.

Come si vede, alla base di diverse di queste modalità vi è una strategia volta a permettere
all’allievo di confrontarsi con i limiti dei propri modelli, in modo da provocare una rottura
dell’assetto cognitivo dato, un indebolimento della sua forza assimilativa, come presupposto per il

93
raggiungimento di un livello più competente di equilibrio.

Il senso, infine, è anche obiettivo dell’insegnamento.


La conoscenza è tale nella misura in cui è sensata; il dato acquista la valenza di
informazione nel momento in cui chi lo possiede ha su di esso un progetto di utilizzazione
semantica, che si traduce nella costruzione di connessioni e di implicazioni tali da proiettare
l’elemento entro il più complessivo reticolo concettuale che sostanzia il punto di vista del soggetto.

L’errore

Un altro tema che prendiamo in considerazione e che riteniamo importante da discutere è


quello dell’errore (Binanti, 2001).
La didattica tradizionale di matrice incrementale segue una logica modello-scarto: la
prestazione dell’allievo viene interpretata in ragione del modello che fissa il comportamento/esito
atteso (progettato), come distanza/devianza da tale norma; in definitiva, in termini di assenza.
Entro questa prospettiva l’errore dell’allievo non ha significato, se non in quanto indicazione
di ciò che l’allievo non ancora è/ha.

Rovesciando questa impostazione, l’approccio didattico che stiamo illustrando


sottolinea la valenza costruttiva dell’errore.

L’interesse si sposta in questo senso dalla valutazione della distanza tra comportamento
atteso e comportamento reso, alla comprensione del modo con cui l’allievo organizza la propria
rappresentazione della realtà, per come essa si riflette nella performance.
In altri termini, l’errore viene ad essere interpretato come presenza di uno specifico modello
implicito di conoscenza, i cui presupposti orientano le modalità e gli esiti (per quanto idiosincratici
possano essere) dell’elaborazione dei saperi di cui il discente è protagonista.

L’errore acquista in questo senso un doppio statuto pedagogico: sul piano


epistemologico, esso si propone come il segno dell’autonomia della
soggettività del discente, dell’universo di significati di cui si sostanzia; sul
piano metodologico, si presta ad essere utilizzato come testo rivelatore della
peculiare semantica che organizza il modo di pensare del discente.
Sul piano dell’azione didattica questa concezione si traduce in uno
spostamento di focale dai contenuti dell’insegnamento ai modelli cognitivi
e semantici nei termini dei quali gli allievi li interfacciano e se ne
appropriano.
94
Dinanzi all’errore il docente cercherà in primo luogo di comprendere il presupposto
concettuale di cui l’errore stesso costituisce declinazione coerente. L’azione didattica si proporrà
dunque di favorire lo sviluppo del modello dell’allievo.

Operare in tale direzione significa muoversi su un doppio registro: da un lato, con una
funzione decostruttiva, volta a favorire l’esplorazione da parte del discente dei limiti semantici del
suo modello di conoscenza. A tal fine il docente proporrà situazioni di impasse, di rottura, che
sollecitano l’attivazione dei presupposti critici, e al contempo permettono di evidenziarne la
fallacia; dall’altro, con una funzione costruttiva, volta a sostenere la ristrutturazione da parte
dell’allievo del campo di conoscenze e della sua organizzazione concettuale (Maccario, 1999).
L’approccio metodologico ora delineato presuppone una visione “a salti”
dell’apprendimento. La conoscenza secondo una sequenza di rotture e ristrutturazioni, dove
l’equilibrio raggiunto non sostituisce, ma potenzia la condizione precedente.
Merita di essere segnalato, come indicativo di questo approccio, il concetto di campo di
validità (De Vecchi, Carmona Magnaldi, 1996): ogni fenomeno, naturale o storico, può essere
teorizzato a diversi livelli di concettualizzazione.

Piuttosto che in rapporto ad un criterio di verità assoluto, ciascuna teoria (per quanto ci
interessa, qualsiasi teoria proposta dall’allievo) può essere interpretata come un livello di
formulazione dotato di un determinato campo di validità.
Il campo di validità costituisce dunque allo stesso tempo il vincolo e il senso della teoria
formulata. Da un punto di vista, infatti, esso è interpretabile come l’ambito di coerenza entro cui
può legittimamente muoversi il ragionamento dell’allievo, per come viene ad essere definito dai
presupposti impliciti da cui egli parte.
Da un punto di vista complementare, tuttavia, il campo di validità di una formulazione è
dato dal rapporto che si stabilisce tra l’allievo e le esigenze/domande cognitive del contesto
(compiti di apprendimento, forme di esperienza, modalità cognitive).

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In questo senso, il campo di validità di una formulazione sta nel tipo di operazioni
semantiche che tale formulazione permette al discente di realizzare, nella coerenza tra queste
operazioni e le richieste del contesto. Come si può vedere, il concetto di campo di validità
sostituisce ad un criterio “ortopedico” assoluto di verità, una visione contingente, funzionale e
dinamica della conoscenza.
Contingente, in quanto parametra le performance del discente al contesto entro cui ed in
funzione del quale si realizzano; funzionale, in quanto adotta come criterio di validità la capacità
della formulazione di sostenere la presenza nel mondo del soggetto; dinamica, in quanto concepisce
l’apprendimento come processo di approssimazioni successive, cadenzato dall’acquisizione di
livelli progressivi di organizzazione concettuale.

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Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento
IV Unità Didattica – Lezione 2

Criteri per la gestione negoziale del setting formativo

In questa lezione esponiamo alcuni principi metodologici e criteri operativi utilizzabili dagli
insegnanti per organizzare e gestire in chiave negoziale l’attività formativa. Quanto discusso
nella precedente unità costituisce lo sfondo concettuale di riferimento per i suggerimenti in
questa sede proposti.

Lo sviluppo della salienza simbolica dei contesti di apprendimento

Il riferimento alla letteratura e alla tradizione di intervento psicosociale permette di adottare


un principio metodologico generale: la qualità di un contesto di attività che nell’ultima lezione del
modulo precedente abbiamo definito con il termine salienza simbolica si sviluppa nella misura in
cui gli allievi da un lato hanno la possibilità di elaborare intersoggettivamente interpretazioni del
contesto stesso, dall’altro di sperimentare tale contesto come un mediatore capace di generare
significati organizzanti l’esperienza del mondo. In altri termini, un contesto di attività si propone
come saliente sul piano simbolico nella misura in cui è attrezzato per essere allo stesso tempo:
interpretabile ed interpretante.

Un contesto di attività si rende interpretabile se è strutturato come un setting non


dato, ma aperto all’esplorazione e alla negoziazione. In altri termini, se allo stesso
tempo funziona da contenitore/vettore di pratiche (nel caso scolastico: da
contenitore/vettore delle pratiche di insegnamento/apprendimento) e da pre-testo che
alimenta l’elaborazione del suo senso intersoggettivo. Evidentemente, un simile
processo - che intreccia ricorsivamente azione, co-costruzione di significati
sull’azione stessa e riflessione su/narrazione di tale co-costruzione - richiede un
setting di lavoro specifico, centrato su regole del gioco strutturanti ed al contempo
flessibili, che permettano al setting stesso di proporsi come un luogo mai saturo di
senso, sempre pronto a sollecitare e valorizzare negli attori coinvolti ulteriori
percorsi dialogici di interpretazione.

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Un contesto di attività si rende interpretante se è strutturato in modo che ciò che si
realizza in ed attraverso di esso ha un valore-di-vita per gli attori in esso implicati.
Riferendoci in particolare al mondo della scuola, lo sviluppo del valore-di-vita delle
attività del contesto di insegnamento-apprendimento implica tre componenti di
processo.

 In primo luogo, la capacità del contesto di attività di conservare i propri confini,


dunque di garantirsi l’autonomia necessaria per elaborare/mediare, piuttosto che riprodurre, i
significati del contesto.
 In secondo luogo, la capacità di inscrivere tali significati, intesi in senso lato come il
prodotto dell’attività formativa, entro gli spazi di vita degli allievi. Il che richiede da un lato la
capacità di formulare i curricula in modo commensurabile ai (sia pure non appiattito sui) linguaggi
contestuali, dall’altro di promuovere la committenza e la competenza d’uso (delle conoscenze) degli
allievi (a cui compete in ultima istanza l’iscrizione stessa).
 In terzo luogo, una riconfigurazione dei prodotti didattici in termini tali da renderne
evidenti le valenze di mediazione. Il che in altri termini significa spostare l’accento da un modello
di conoscenza statico, centrato sul possesso di conoscenze (siano esse intese come nozioni o come
strutture gnoseologiche più complesse) ad uno centrato sul potere metodologico dei saperi di
organizzare l’esperienza.

La finalizzazione degli atti

Non è sufficiente motivare gli atti. E’ anche necessario promuovere una rappresentazione di
questi secondo un modello motivazionale funzionale. A tal fine vanno contrastate tre tendenze che
tendono a caratterizzare la microcultura dei contesti di apprendimento. Bisogna in primo luogo
evitare la connotazione in chiave adempitiva degli atti, sia quelli prodotti dall’insegnante, sia quelli
attesi a carico dello studente. In altri termini, l’ambiente di insegnamento-apprendimento deve
essere quanto più possibile libero da logiche del tipo: “mettiamo in atto questo comportamento
perché così è scritto che si faccia e noi dobbiamo assolvere a tale prescrizione”.
L’adempitività è uno strumento simbolico potente nell’organizzare i comportamenti nel
breve periodo, in quanto risolve alla radice il problema del senso da dare ai comportamenti. Ma ha
una controindicazione particolarmente insidiosa: deresponsabilizza gli attori della relazione
educativa, in quanto ancora il significato di quanto accade entro tale relazione ad un principio di

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autorità esterno, al quale tanto il docente che gli allievi sono tenuti ad aderire. In questo senso, in
definitiva ritualizza le attività e disarma il docente della sua capacità di organizzare il setting
formativo.
L’altra tendenza da evitare è quella di trattare in chiave di potere la relazione educativa.
Anche il potere è uno strumento, in alcune circostanza assolutamente necessario. Ma ovviamente
laddove la relazione educativa è organizzata in chiave di potere non vi è spazio per la negoziazione
e più in generale per dare senso condiviso a quanto accade entro il setting formativo. Vanno del
resto operate una serie di distinzioni. In primo luogo, va distinta la motivazione di potere dalle
circostanze in cui il docente usa il proprio potere di ruolo per rafforzare la propria proposta didattica
ed organizzativa.
In altri termini, vi è una notevole differenza tra un atteggiamento del tipo: “si fa così perché
così ho io deciso” (il potere come sostanza della motivazione) ed uno del tipo: “si fa così per questi
motivi, che sono disposto ad esplicitare, ma che una volta definiti io ho la facoltà di considerare
vincolanti”. In questo secondo caso il potere del docente non è la motivazione della sua decisione,
ma uno strumento organizzativo per realizzarla. In secondo luogo, vale la pena evidenziare come vi
sia una differenza tra l’autorità del docente esercitata in termini promozionali o vincolanti.

Con “promozionale” in questa sede intendiamo una prescrizione volta ad ottenere


dall’allievo un certo comportamento. Con “vincolante” invece intendiamo
un’autorità che si esprime come interdizione di certi atti. E’ evidente che la prima
forma di autorità implica un livello più elevato di adempitività, connotando in modo
più marcato il setting formativo in termini di potere.

Un terza connotazione da evitare è quella che qualifica i comportamenti in termini di


soggettività e/o di relazione interpersonale. Va cioè contrastata la tendenza naturale degli allievi a
pensare che i comportamenti e le decisioni degli insegnanti siano espressioni della loro volontà e
del loro desiderio e che assecondarle o non assecondarle implichi far loro piacere o dispiacere.
Queste tre tendenze possono essere contrastate nella misura in cui i comportamenti e le
decisioni in classe sono ancorate a criteri di scopo: “si fa ciò perché è utile a raggiungere questo
obiettivo, che serve a questo scopo più generale” (il cui valore deve ovviamente essere condiviso).

Attenzione alla componente performativa degli atti

Abbiamo già chiarito che cosa intendere per performatività: ogni atto del docente – così

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come degli allievi – non veicola solo il significato che contiene e che intende proporre, ma anche un
senso più generale concernente le premesse implicite su cui esso si fonda.
L’analisi dello scambio comunicativo tra docente e classe proposta nella precedente unità
dovrebbe aver chiarito questo punto. Inoltre, tale senso più generale non necessariamente, anzi
quasi mai è esplicito e chiaro a chi lo propone e chi lo riceve. Al contrario, in genere è implicito e
viene raccolto inconsapevolmente, anche se risulta un organizzatore potente della relazione
educativa.
Da qui la necessità per il docente di controllare ed analizzare in modo sistematico le
implicazioni performative del proprio agire, così come quelle dei propri allievi. Per fare ciò
l’insegnante dovrà chiedersi: “Quali presupposti che tendo a considerare ovvi rendono quanto sto
facendo e dicendo sensato?”. Sono appunto tali presupposti a rappresentare il senso performativo.

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Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento
IV Unità Didattica – Lezione 3

Ulteriori criteri

La motivazione degli atti

Spesso i docenti non esplicitano le ragioni che sono alla base delle loro decisioni e dei loro
comportamenti in classe. Per un verso ciò è dovuto al fatto che nella quotidianità delle attività
scolastiche si definiscono routine e modi di fare che tendono ad essere esercitate in modo quasi
automatizzato; per altri versi, ciò dipende dal fatto che l’insegnante può considerare tali ragioni
legate alla propria professionalità, riflesso delle procedure operative organizzanti la didattica,
dunque non attinenti la relazione con gli allievi.
Tuttavia, esplicitando e motivando le proprie decisioni in modo sistematico – anche se non
necessariamente capillare – l’insegnante potrà perseguire due obiettivi complementari: da un lato,
sul piano performativo, veicolerà l’idea della vita scolastica come di un mondo sensato, dove le
azioni sono governate da criteri sistematici al contempo pubblici ed ostensibili; dall’altro, favorirà
l’implicazione degli allievi nella relazione educativa, rendendo maggiormente comprensibile il
contesto della loro esperienza, al contempo diminuendo la possibilità di interpretazioni distorte,
elaborate dagli allievi in modo autonomo, secondo i modelli di significato propri della loro cultura.

Governo indiretto dei processi formativi

Spesso gli insegnanti pensano alla relazione educativa e alla gestione dei processi formativi
in modo puntuale e diretto. In altri termini, si aspettano che le configurazioni attese di tali processi
debbano discendere da loro interventi ed essere in connessione diretta, se non immediata, con le
loro azioni in tal senso. In realtà il gruppo classe è un sistema complesso, difficilmente governabile
secondo simile logica lineare. Il docente deve dunque operare tenendo conto anche di una diversa
possibilità metodologica: in diverse circostanze, i comportamenti e le condizioni che l’insegnante
ritiene utile perseguire possono essere non il risultato immediato della sua azione, ma la
conseguenza di processi comunicativi ed organizzativi che egli/ella può mettere in moto.
Facciamo un esempio: l’insegnante può ritenere necessario selezionare un certo allievo per
un determinato compito. Secondo la logica lineare, andrà ad individuare direttamente l’allievo in

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questione, esplicitando o meno i criteri della selezione. Secondo la logica che stiamo qui
sottolineando, può sollecitare una discussione tra gli allievi, lasciando a loro la decisione, al
contempo fornendo loro i criteri sulla base dei quali operare la scelta.

La prevedibilità e sistematicità del setting

La possibilità per la classe di dare senso all’esperienza è legata in modo rilevante a quanto
tale esperienza si renda disponibile ai soggetti in modo comprensibile. Tale comprensibilità è
ovviamente in parte, come abbiamo detto, il frutto della capacità dei docenti di chiarire i criteri che
organizzano l’organizzazione delle attività; allo stesso tempo, dipende dalla sistematicità e
prevedibilità dell’ambiente di apprendimento.
Il docente deve dunque avere cura di individuare parametri, principi e criteri che rimangano
stabile sia tra le diverse circostanze e soggetti che nel tempo; al contempo dovrà rendere evidente
tale sistematicità, mettendo in luce come anche in circostanze che sembrano differenziarsi vadano
interpretate come espressione/riflesso degli stessi principi. Allo stesso modo, è utile che
l’organizzazione delle attività sia pensata su scale temporali differenti e complementari, in modo
che gli allievi abbiamo un’idea chiara sia di come le attività si andranno a dispiegare nel medio
termine, così come nel breve. La mancanza di prevedibilità dei contesti è infatti un fattore di perdita
di senso e passivizzazione molto potente.

La negoziazione

Ovviamente non tutto quanto accade entro un setting formativo può essere oggetto di
negoziazione tra docente e discenti. Ciò tuttavia non toglie la possibilità per l’insegnante di
individuare in ogni circostanza aspetti che possono essere concordati con il gruppo classe e/o con
gli studenti interessati. Nessuna circostanza è infatti monolitica: è sempre organizzabile e
rappresentabile in modo da lasciare spazio ad aspetti sui quali può esercitarsi la discrezionalità ed
intenzionalità degli allievi.
Tale principio si presta ad essere applicato a tutti i livelli scolastici, ovviamente in modi
differenziati in ragione dell’età degli allievi. Ad esempio, immaginiamo un’attività che l’insegnante
ha necessità di realizzare per perseguire gli obiettivi programmati. E’ chiaro che se tale attività è
indispensabile, la sua realizzazione non può essere oggetto di negoziazione, ma solo di

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esplicitazione delle motivazioni (vedi dopo).
Tuttavia, la predisposizione di simile attività implica anche la definizione dei tempi, delle
modalità, delle forme operative con cui realizzarla. Sarà dunque cura dell’insegnante individuare
all’interno di questi aspetti gli elementi che possono essere concordati con gli allievi.

Un chiarimento è opportuno. La negoziazione deve focalizzarsi sugli aspetti sistematici


dell’organizzazione e della programmazione delle attività. In altri termini, deve riguardare le
regole del gioco. Non va dunque intesa come un modo per alimentare un atteggiamento di
incessante contrattazione che metta continuamente in discussione quanto previsto, nella
ricerca dell’eccezione, della deroga.

L’esplicitazione

Questo criterio è pensato come un modo per promuovere il carattere riflessivo


dell’esperienza formativa. Esso è complementare al criterio della motivazione degli atti,
rivolgendosi al comportamento degli allievi.

Con esplicitazione vogliamo intendere quell’azione del docente che sposta


l’attenzione dal contenuto del discorso dell’allievo alla logica/premesse di senso che
lo informano, offrendo in questo modo all’allievo stesso – ed al resto della classe –
l’opportunità di riconoscere i significati impliciti che organizzano il suo pensiero e le
sue valutazioni (dunque le sue richieste e le modalità di entrare in rapporto con il
lavoro formativo).

Si prenda in tale senso in considerazione l’esempio riportato nella lezione 13 della


precedente unità. In tale occasione lo studente chiede se l’interrogazione riguarderà la matematica o
la geometria. Come abbiamo visto, in tale circostanza il docente risponde sul piano del contenuto,
dichiarando la propria visione secondo la quale matematica e geometria sono parti di una stessa
materia e dunque di uno stesso compito. In questo modo, tuttavia, non interagisce con il punto di
vista dello studente: il suo intervento non si offre come opportunità per lo studente di riconoscere e
rivedere le proprie premesse. Al contrario, se in simile circostanza l’insegnante avesse utilizzato il
criterio dell’esplicitazione, avrebbe ad esempio potuto rispondere all’allievo nei seguenti termini:
“vedo che dal tuo punto di vista matematica e geometria sono due materie distinte. Mi sembra un

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aspetto interessante, anche perché dal mio punto di vista non è così. Come mai la pensi in questo
modo? Vogliamo provare ad approfondire questo punto”.

Sospensione dell’azione normale

Ovviamente, come l’esempio precedente dovrebbe aver mostrato, l’esplicitazione implica


una qualche interruzione dell’attività che si sta realizzando. Tale interruzione è comunque limitata e
facilmente reversibile. Riprendendo l’esempio del punto precedente, è evidente che nel momento in
cui il docente interviene con una esplicitazione sposta il focus dall’interrogazione alla discussione
volta ad approfondire il punto di vista dell’allievo. D’altra parte, tale discussione può essere
contenuta in un periodo ristretto, ad esempio rimandandone lo sviluppo ad un successivo momento.

Parliamo invece di sospensione dell’azione quando l’insegnante dedica specificamente un


momento dell’attività formativa a sviluppare un processo riflessivo di interpretazione di quanto sta
accadendo. Sospensione dell’azione ed esplicitazione non si differenziano in modo marcato. In linea
generale, la sospensione dell’azione di caratterizza per il fatto di essere un intervento previsto
dell’insegnante, piuttosto che estemporaneo e reattivo al discorso dell’allievo, in genere al fine di
affrontare un aspetto critico o comunque rilevante del setting (un fatto sul quale è necessario
discutere, un’esigenza di revisione delle regole del gioco…).

In sintesi, dunque, la sospensione dell’azione è volta a creare uno spazio riflessivo


che la classe in quanto tale utilizzerà per dare senso ad un elemento rilevante ed
organizzante il setting. Tali momenti di sospensione hanno evidentemente senso
nella misura in cui interrompono l’attività didattica normale, ma al contempo
abbiano ricadute su tale attività. In caso contrario non si potrebbe parlare di
sospensione, ed il rischio sarebbe quello di una scissione tra la didattica normale e
momenti di costruzione di senso, tuttavia incapaci di incidere sull’attività formativa
quotidiana.

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Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento
IV Unità Didattica – Lezione 4

Osservare ed interpretare gli eventi critici. Criteri procedurali

In questa e nella prossima lezione presentiamo alcuni criteri che gli insegnanti possono
utilizzare nell’osservazione ed interpretazione dei processi che intervengono nell’attività didattica,
ed in particolare nel caso di eventi critici che interrompono il normale funzionamento del setting,
proponendosi come problemi da comprendere e sui quali intervenire.
In questa lezione ci soffermiamo su alcuni criteri di tipo procedurale. Si tratta di principi
relativi alla logica dell’analisi del caso:
 distinzione tra dato e ipotesi;
 distinzione tra explicans/explicandum;
 prova del giornalista;
 distinzione tra descrizione funzionale, spiegazione, interpretazione;
 criterio della variabilità;

Distinzione tra dato ed ipotesi

E’ questo un criterio tanto ovvio quanto poco utilizzato entro le analisi dei casi. In linea
generale, si tratta di non confondere la lettura di un determinato fenomeno con il fenomeno stesso.
Infatti, se è vero, in un’ottica costruttivista, che non esistono dati ma interpretazioni, è altrettanto
vero che alcune interpretazioni esprimono un livello di inferenza meno accentuato di altre; se si
vuole, rimangono più vicine all’esperienza.
Nella maggior parte dei casi, il resoconto di casi critici connessi a comportamenti e
circostanze psicosociali è giocato in termini di costrutti, spesso legati a dimensioni interne, tuttavia
utilizzati in modo reificato, come se si trattasse di stati di realtà autoevidenti. Si pensi al riferimento
a concetti quali: “essere legato a”, “non stare alle regole”, “essere aggressivo”, “non avere voglia di
studiare”, “assumere un comportamento provocatorio”. Concetti che vengono spesso utilizzati come
descrittori, mentre in realtà costituiscono generalizzazioni, fondate su interpretazioni, che
raccolgono ed omogeneizzano un insieme anche diversificato di circostanze.

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Distinzione tra explicans/explicandum

Questo criterio è complementare al precedente. Accade non di rado che dinanzi al tentativo
di giungere ad una ipotesi interpretativa di un determinato comportamento o circostanza, si
individui come soluzione una descrizione generalizzata del comportamento stesso, attribuendole lo
statuto di causa esplicativa. Ad esempio, è come se si dicesse che una persona si comporta
aggressivamente perché è aggressiva, oppure che non va a scuola perché demotivato; così facendo,
attraverso la traduzione linguistica del dato fenomenico in una condizione disposizionale, si
trasforma ciò che deve essere spiegato (la descrizione funzionante da explicandum) in ciò che
spiega (l’ipotesi funzionante da explicans).
Spesso la distinzione tra descrizione e interpretazione non è agevole. Ciò è particolarmente
evidente nei casi in cui la descrizione non coincide con la mera presentazione del dato di fatto, ma
con una sua iniziale elaborazione (ad esempio in termini di sintesi, di recupero di aspetti impliciti).
In casi del genere, è facile attribuire a tali descrizioni valenze esplicative; in altri termini, trattarle da
quasi-interpretazioni.
Chi scrive ha verificato in diverse circostanza di supervisione questo slittamento logico-
metodologico; uno slittamento che spesso prende la forma di una trasformazione del dato
comportamentale in descrizione di uno stato interno corrispondente, dunque in una assunzione di
tale descrizione come fattore determinante. Del tipo: “il gruppo ha attaccato il suo membro X
(comportamento) perché sentiva verso di lui aggressività (riferimento a stato interno)”.

Prova del giornalista

Questo criterio riguarda la scelta del livello di interpretazione da assumere nell’analisi.


Come ci insegna la psicologia culturale, e prima ancora la psicologia sociale, ogni volta che si
trovano dinanzi ad una qualche forma di criticità, dunque di violazione della canonicità, le persone
ricercano spiegazioni che diano senso allo scarto dal modello atteso. Ciò significa che gli esseri
umani sono costantemente impegnati a creare spiegazioni.
Ci si deve allora chiedere: se comunque si fanno ipotesi, quale è il livello di elaborazione a
cui utilmente l’analisi del caso critico può attestarsi? Il criterio del giornalista serve a rispondere a
questo interrogativo.
Il principio è il seguente: se l’ipotesi elaborata è pensabile che la possa fare anche un
giornalista (assunto come rappresentativo di un pensiero competente fondato sul senso comune, o
comunque su una competenza diversa da quella psicologica), allora bisogna approfondire

106
ulteriormente l’analisi. Il docente è infatti chiamato a formulare interpretazioni che vadano al di là
del senso comune.

Distinzione tra spiegazione, descrizione funzionale, interpretazione

Si tratta di un principio generale, che tuttavia può essere di utile riferimento nell’analisi dei
casi.

Con spiegazione si vuole qui intendere la logica di analisi volta a ricercare cause -
disposizionali o situazionali che siano - determinanti del fenomeno.
La descrizione funzionale è invece orientata alla ricerca della funzione che assolve il
fenomeno nell’economia complessiva del sistema sottoposto ad esame; una sua
variante è l’analisi che ricerca i moventi intesi come scopi/piani perseguiti dai
soggetti. Con interpretazione intendiamo invece l’analisi volta a rilevare il
significato che determinati atti/fenomeni hanno per chi li produce e/o per gli altri
attori implicati.

Prendiamo ad esempio un caso di uno studente che abbandona la scuola. Ipotizzare che tale
evento sia legato alla mancanza di prerequisiti nello studente, è, secondo la tipologia appena
proposta, una spiegazione, cioè: l’individuazione di una causa di cui l’abbandono costituisce
l’effetto. Ipotizzare che il comportamento di uscita serva al soggetto per evitare la frustrazione di un
inserimento in un contesto fortemente normativo, costituisce una descrizione funzionale, in quanto
indicativa della funzione svolta dal comportamento entro il rapporto studente-scuola. Leggere
nell’abbandono il senso di un riconoscimento dell’ estraneità del contesto scolastico rispetto al
proprio contesto di identità e di appartenenza costituisce invece un’interpretazione, cioè una
modellizzazione del fenomeno come espressione di un significato connotante la partecipazione del
soggetto al contesto scolastico.
Come ha mostrato l’esempio, la distinzione tra i tre modelli di analisi è per certi versi sottile
e comunque implica una elaborazione del senso comune, portato a confonderle. La distinzione,
d’altra parte, non comporta una preferenza per uno dei modelli: si tratta piuttosto di mantenere
coerenza nel procedere dell’analisi.

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Criterio della variabilità
Questo principio propone di verificare la stabilità del fenomeno oggetto del caso critico, in
modo da vedere quali siano le condizioni di contesto che si associano ad esso e che dunque possono
essere assunte dall’analisi. Alla base di questo criterio vi è l’idea che raramente un determinato
fenomeno comportamentale si presenta in modo stabile ed invariante tra le diverse circostanze; di
conseguenza, cogliere come un determinato fenomeno vari nel tempo e nello spazio è un modo per
relativizzare le ipotesi, dunque per spostare le interpretazioni dall’evento in sé al rapporto tra
l’evento e il suo contesto.
Facciamo un esempio: si pensi agli insegnanti che pongono come problema critico
l’aggressività di alcuni degli studenti della classe, rivolta verso un altro sottogruppo della classe.
Sulla base di questo criterio, tali insegnanti proveranno ad analizzare le diverse situazioni di
funzionamento della classe, in modo da rilevare se i comportamenti aggressivi siano costanti tra i
contesti e le circostanze, o se, al contrario, si presentano in modo variabile, associandosi
prevalentemente ad alcune piuttosto che altre circostanze.
Riconoscere la variabilità del fenomeno in funzione del contesto offre una pista di analisi
che permette di orientare la ricerca delle ipotesi nella direzione della comprensione dei fattori
differenzianti i contesti a cui ricondurre la variabilità rilevata.

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Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento
IV Unità Didattica – Lezione 5

Osservare ed interpretare gli eventi critici. Criteri interpretativi

Questo tipo di criteri riguarda le chiavi di lettura che sostanziano il processo interpretativo.
Di seguito ci soffermiamo in particolare sui seguenti principi:
 ricerca delle presenze;
 lettura comunicazionale;
 ricerca delle premesse condivise;
 autoimplicazione delle ipotesi.

Ricerca delle presenze

L’idea alla base di questo principio è per certi versi ovvia: i fenomeni sono legati a -
dipendenti da - eventi e situazioni attive, piuttosto che da assenze; in altre parole, ciò che accade
dipende da ciò che accade, e non da ciò che non accade. Questo principio viene spesso di fatto
contraddetto dalla tendenza a ricercare spiegazioni e interpretazioni definite in termini negativi,
come assenza di qualcosa di atteso.
Il prototipo di questo tipo di interpretazioni/spiegazioni è la demotivazione. Il “de” privativo
indica per l’appunto il fatto che tale concetto denoti l’assenza di qualcosa di assunto come
desiderabile (la motivazione). Ora, ipotizzare che alcuni problemi della scuola (ad esempio lo
scarso rendimento scolastico, gli abbandoni, il deterioramento delle modalità di partecipazione degli
studenti alla vita scolastica) siano la conseguenza della demotivazione degli studenti, significa
attribuire una capacità generativa all’assenza. Ma questa modalità di spiegazione è critica sul piano
logico, non fosse altro perché implica l’impossibilità di differenziare l’assenza di un determinato
fenomeno dall’assenza di qualsiasi altro fenomeno (tutti i fenomeni sono uguali nella loro
caratteristica di essere assenti).

Lettura comunicazionale

Questo principio suggerisce di intendere l’evento critico - in particolare quando consiste in

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un comportamento o un insieme di comportamenti - come un atto comunicativo. In questo modo il
fenomeno non viene più ad essere considerato nel suo contenuto fattuale, dunque parametrato in
termini di realtà, ad esempio in relazione ai costi sociali e/o morali connessi, ma in quanto
espressione di un significato veicolato da un soggetto ad altri soggetti, con il primo implicato nel
contesto.
Questa chiave di lettura è particolarmente utile nei casi in cui il fenomeno da analizzare si
presenta con valenze di allarme sociale (indesideribilità-odiosità). Si pensi, ad esempio, agli episodi
di vandalismo o bullismo a scuola. E’ ovvio che tali episodi suscitino reazioni di indignazione e di
condanna sociale e morale. Tuttavia, ai fini dell’analisi, dunque dell’intervento, è utile procedere
“senza memoria e senza desiderio” (per riprendere la felice espressione di uno psicoanalista - Bion),
in modo da pervenire ad una interpretazione dell’evento quanto più possibile autonoma rispetto alle
pur legittime attese normative fondate sui valori socialmente condivisi.
In quest’ottica, torna utile leggere l’atto vandalico o di bullismo come un significante
veicolante un contenuto (un senso) rivolto al contesto (alla scuola, alla classe, ai docenti); in
questo modo si può riuscire a “mettere tra parentesi” il valore sociale del gesto per approfondirne il
significato psicologico.

Quanto fin qui detto ci porta a segnalare un aspetto a nostro avviso rilevante. Spesso
i docenti tendono a considerare più o meno problematico un determinato evento in
ragione dei costi sociali ed umani ad esso connesso. Ad esempio, un atto vandalico
che produce danni ingenti sarà, in questa logica, considerato più grave e critico di un
atto vandalico che ha prodotto danni contenuti. A nostro avviso, questa
sovrapposizione tra valutazione di senso comune (economica, etica, sociale)
dell’evento critico e valutazione psicosociale è fuorviante; anzi, concettualmente
problematica. Infatti, nella misura in cui si assume che il valore comunicativo e
dunque psicopedagogico di un atto sta nel suo significato, e che tale significato è in
rapporto aleatorio con i modi con cui viene espresso (il tipo di significante utilizzato)
(Salvatore, Scotto di Carlo), se ne deve dedurre che il valore sociale dell’espressione
non è un indicatore adeguato della valenza psicologica del suo contenuto. Se ci è
consentito l’estremizzazione, confondere/unire i due piani (significante e contenuto)
è come pensare che una certa opera letteraria (contenuto-testo) abbia valore in
ragione del valore del libro su cui è stampata (vettore materiale del contenuto-testo).

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Ricerca delle premesse condivise

Questo criterio orienta a ricercare la dimensione di significato condiviso che organizza la


variabilità delle posizioni, delle opinioni e degli atteggiamenti. L’ipotesi di fondo alla base di questo
criterio è che nei contesti di rapporto le differenze discorsive e comportamentali si inscrivono
comunque entro un assetto di condivisione di senso: una cornice che permette di trattare le
differenze come parti in relazione, piuttosto che elementi incommensurabili. In questo senso, ogni
conflitto implica, ad un livello logico superiore, una dimensione di accordo (non fosse altro:
sull’oggetto del conflitto; cfr. Salvatore, Scotto di Carlo, 2005).
Il principio che stiamo discutendo, sul piano operativo si traduce nella ricerca delle
premesse condivise dagli attori in gioco, che danno senso agli atti prodotti e/o interfacciati dagli
attori stessi. Facciamo un esempio: si pensi ad un forte conflitto all’interno di una classe, tra un
gruppo di studenti che assume un comportamento di sfida nei confronti delle regole del gioco
fondanti il setting di apprendimento ed un altro gruppo, che si identifica con tali regole e con i
docenti che ne sono la fonte. Facciamo conto che tale conflitto si giochi, tra le altre cose, in una
operazione sistematica di sabotaggio delle procedure e negli strumenti del lavoro formativo (ad
esempio comportamenti disturbanti, sparizioni di oggetti e di libri…).
Ebbene, possiamo immaginare livelli anche aspri di scontro, fratture anche profonde tra i
due gruppi; tuttavia ciò non ci impedirebbe di cogliere ciò che i due gruppi condividono sul piano
della premessa: una comune visione del senso della vita scolastica come centrato sulle procedure e
le norme: da un lato attaccate, dall’altro valorizzate e difese.

Cogliere le dimensioni di premessa condivisa permette di raggiungere “il nocciolo”


dell’identità culturale di un gruppo, dunque il senso profondo che il contesto assume
per gli attori in esso implicati.

Autoimplicazione delle ipotesi

Chi scrive ha più volte sperimentato quanto sia complicato utilizzare questo principio,
apparentemente semplice. Esso suggerisce ai docenti di considerare le ipotesi interpretative del caso
(in particolare le prime formulazioni) non come forme di elaborazione del caso stesso, ma come
espressione del fenomeno. In altri termini, il ragionamento e i pensieri sollecitati dal tentativo di
analizzare il caso prima di essere considerati forme di riflessione sul fenomeno, possono essere

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concepiti - ed utilizzati - come parte del fenomeno, dunque come ulteriori elementi del repertorio di
dati. E’ in questo senso che parliamo di autoimplicazione: anche il pensiero sul caso è - soprattutto
nelle prime fasi dell’analisi - parte del caso.
Sul piano operativo ciò significa che dinanzi ad una ipotesi, docenti e consulente possono
utilmente chiedersi: “Il fatto che ci sia venuta in mente come prima ipotesi questa certa spiegazione,
che segnale è; che cosa ci dice del caso che stiamo trattando?”

Il principio della autoimplicazione richiama la concezione psicodinamica circa l’uso


clinico del controtransfert (Salvatore, Scotto di Carlo, 2005). Essa, in ultima istanza,
deriva dall’impossibilità di isolare il momento/contesto dell’azione e quello del
pensiero, dunque lo spazio del caso critico e lo spazio della sua analisi: l’analizzatore
porta con sé le categorie e la posizione che mantiene entro il caso critico. Per certi
versi ogni analisi è un sintomo di ciò che intende analizzare.

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Tecniche di gestione didattica dei gruppi di apprendimento
IV Unità Didattica - Bibliografia

• Binanti, L. (a cura di, 2001c). Pedagogia, epistemologia e didattica dell’errore. Catanzaro:


Rubbettino Editore.
• De Beni, M. (1994). Costruire l’apprendimento. Brescia: Editrice La Scuola.
• De Vecchi, G., Carmona-Magnaldi, N. (1996). Faire construire des savoirs. Paris:
Hachette Livre (trad. it. Firenze: La Nuova Italia Editrice 1999).
• Maccario, D. (1999). Educare al senso critico. Strategie per la didattica. Torino: UTET.
• Salvatore, S., Scotto di Carlo M. (2005), L’intervento psicologico nella scuola. Roma:
Istituto Carlo Amore

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