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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

INTRODUZIONE
1. CHE COSA VUOL DIRE “PENSIERO ORGANIZZATIVO”?
Per rispondere a questa domanda bisogna andare ad esaminare le parole che formano il titolo:

 ORGANIZZATIVO: è un aggettivo che deriva dal nome organizzazione, ed è da questo nome che
incominciamo ad esaminare il nostro esame.
 ORGANIZZAZIONE: la parola organizzazione è usata in due modi:
1. ENTE SOCIALE: fondato sulla divisione del lavoro e delle competenze
(impresa economica, partito politico, associazione sportiva, ecc..). Come
ad esempio quando si sente espressione “la nostra organizzazione” in
questo caso sta parlando di una specifica impresa economica, partito
politico, di una associazione sportiva, ecc...
2. ENTE ORGANIZZATO: in cui è determinato. Si possono essere
organizzazioni (imprese, partiti, servizi pubblici, ecc..) che sono bene,
mediocremente o male organizzate.

Analizziamo l’espressione “PENSIERO ORGANIZZATIVO”:

 Pensiero:
 che riguarda le organizzazioni e la loro organizzazione nel doppio significato che
abbiamo appena analizzato.
 Si può parlare di pensiero politico, economico, sociologico, e cosi via.
 Essa indica un corpus di teorie e di dottrine consolidate per connotare una
disciplina o una materia di studio.
 PENSIERO ORGANIZZATIVO:
 è una nuova espressione,
 precedentemente usate sono state teorie e analisi
organizzativa, sociologia dell’organizzazione o psicologia
dell’organizzazione.
 Questa espressione fa riferimento a un’area molto vasta di
contributi che nascono in campi disciplinari diversi come le
teorie manageriali, la teoria di impresa, la microeconomia
aziendale e la sociologia dell’organizzazione.

All’interno di questi contributi è possibile tracciare una distinzione:

 CONTRIBUTI PRESCRITTIVI: che discutono e propongono modelli reputati ottimali per progettare il
modo concreto di organizzare un’organizzazione. Essi appartengono alle teorie manageriali e
d’impresa.

 CONTRIBUTI INTERPRETATIVI: che esaminano le dinamiche sociali osservabili all’interno delle


organizzazioni, talvolta anche in rapporto ai modelli che si intende mettere in atto. Essi
appartengono alla sociologia d’impresa.

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2. LA CENTRALITA’ DEL CONCETTO DI DIBATTITO.


Il dibattito è la forma privilegiata attraverso cui procede la conoscenza scientifica:

 Ovvero lo sviluppo della conoscenza scientifica appare come un susseguirsi e intrecciarsi di dibattiti.

Un dibattito nasce quando uno o più interventi contestano lo stato dominante del sapere in un campo
disciplinare, e si sviluppa con l’apporto di altri interventi.
Il libro Storia del pensiero organizzativo evoca il susseguirsi di teorie e conoscenze esposte in modo
cronologici, per due motivi:

 Il primo motivo: è che il modo in cui teorie e conoscenze nascono e si succedono costituisce di per
sé materia di riflessione, dal momento che una nuova teoria può essere compresa solo alla luce di
ciò che è stato detto in precedenza.

 Il secondo motivo: riguarda i criteri con cui le teorie e conoscenze sono state scelte e organizzate in
questa storia, in modo da suggerire l’idea di alcuni percorsi organici.

La prima indicazione è che un discorso conoscitivo, quanto più si avvicina al rigore di un sapere disciplinare
istituzionalizzato, tanto più strutturato in, e alimentato da dibattiti all’interno di comunità scientifiche
formate da addetti ai lavori.
Il dibattito appare come forma privilegiata attraverso cui procedere la conoscenza scientifica.
Un dibattito nasce allorché uno o più interventi contestano lo stato dominante del sapere in un campo
disciplinare.
Ogni dibattito ha una traiettoria temporale che connota una specifica epoca storica.

Questo modo di intendere lo sviluppo di una disciplina scientifica si associa a diverse considerazioni:
 La prima è che nessun modello o ipotesi di ricerca nasce dal rapporto immediato con i fenomeni
oggetto di studio, ma sempre e solo da quanto altri membri della comunità scientifica hanno già
detto. La stessa considerazione vale per le scienze sociali: il referente ultimo degli scienziati sociali
non è la società né lo sono i suoi vari aspetti come le classi sociali o le organizzazioni, ma ciò via
hanno scritto sulla società, sulle classi sociali, sulle organizzazioni. Il modello agisce come un
orientamento gestaltico ovvero come una configurazione totalizzante che consente all’osservatore
di organizzare l’insieme delle osservazioni in un quadro plausibile. Nel modello interpretativo non
basta che sia contraddetto da dati empirici.

 La seconda considerazione è legata all’intendere lo sviluppo di una disciplina come un susseguirsi di


dibattiti è la caducità degli argomenti discussi in una comunità scientifica.
Ziman parla di una scienza diversa da ogni altro corpus di conoscenze organizzate, ad esempio un
credo religioso, per il fatto che i suoi contenuti effettivi possono cambiare nel corso di pochi decenni
fino a divenire irriconoscibili. Il cambiamento di contenuti in un dibattito non avviene solo per
accumulo di conoscenze, ma spesso per rigetto e sostituzione di precedenti ipotesi o modelli.
Ciò avviene:
 Per motivi interni: in quanto quando una varietà appare acquisita il dibattito si sposta e si
apre un altro fronte o se il cambio di un dibattito non avviene per accumulo di conoscenze,
avviene per rigetto o sostituzione di precedenti modelli.
 Per motivi esterni: perché ogni disciplina è condizionata dalle novità che accadono nella più
larga società. Nel campo delle scienze sociali gli avvenimenti esterni diventano oggetto di
investigazioni.
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Questo modo di intendere lo sviluppo delle scienze sociali ha almeno tre dirette conseguenze sul modo in
cui affronteremo temi e problemi interni al pensiero organizzativo.

 La prima è più evidente conseguenza è che un approccio critico alla materia non può che avere una
dimensione storia, con l’individuazione dei principali dibattiti che hanno caratterizzato le varie
epoche della disciplina.

 La seconda conseguenza è che questi dibattiti nascono in seno a paradigmi o modi di pensare che
portano a individuare quelli che KUHN chiama problemi rompicapo, ossia problemi che per un
certo tempo sono centrati nella comunità scientifica ma che poi decadono, non tanto perché siano
risolti quanto perché si esaurisce l’interesse dei ricercatori.

 La terza conseguenza è che la conoscenza specifica delle organizzazioni tende con il tempo a
divenire sempre più scaltrita e raffinata, ma con una erosione progressiva dell’oggetto di studio,
fino alla sua tendenziale coincidenza con lo stesso apparato concettuale predisposto per studiarle.

3. LE TRE QUESTIONI IN CUI SI ARTICOLA IL PENSIERO ORGANIZZATIVO.

La storia del pensiero organizzativo procede per linee tematiche e ricostruendo i dibattiti intorno ad
alcune questioni centrali.
Si possono individuare tre questioni in cui si articola il pensiero organizzativo nel XX secolo, ma per
spiegare questa divisione in materia bisogna affermare che non sono le realtà empiriche indagate a
definire un’area disciplinare, ma i problemi che si mettono a fuoco usando determinate categorie di
ricerca.

Le tre questioni sono:

 QUESTIONE INDUSTRIALE: in cui temi portati sono la tecnologia e il consenso.

 QUESTIONE BUROCRATICA: in cui temi portati sono funzioni delle norme e strategie dei
soggetti.

 QUESTIONE ORGANIZZATIVA: in cui temi portanti sono le decisioni e le risorse.

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1 CAPITOLO: TAYLORISMO, L’ORGANIZZAZIONE SCIENTIFICA DEL LAVORO.


1.TRE PUNTI PRELIMINARI.
Taylor cominciò a diffondere le sue proposte per la cosiddetta:

 “ORGANIZZAZIONE SCIENTIFICA DEL LAVORO” (OSL), chiamata successivamente Taylorismo.

Sono 3 i punti preliminare da sottolineare nell’analisi iniziale del taylorismo:

1. PRIMO PUNTO: il successo storico del taylorismo ha fatto entrare tale espressione nell’uso
corrente, tanto che parlare di taylorismo oggi significa parlare di lavori ripetitivi e standardizzati.
Tale uso corrente nasce da una schematizzazione che non tiene conto della sua ambivalenza,
radicata nella sua stessa portata innovativa rispetto alle precedenti condizioni di lavoro industriale.
Queste condizioni vengono portate via dal taylorismo. Le persone che hanno vissuto l’ordine, vanno
a ricordare solo l’aspetto negativo e oppressivo, senza apprezzare il carattere razionalizzatore.

2. SECONDO PUNTO: si ha un dibattito sul suo superamento che è avvenuto tra gli anni 40 e gli anni
80 del 900. Questo favorisce la presa di coscienza della storicità del taylorismo, ovvero che esso è
stato solo un episodio della storia dell’industria. Bisogna dire che il taylorismo ha presentato una
molteplicità di forme, da quelle più autoritarie a quelle più sofisticate e sottili.
Ciò porta a due forme:
 Non si parla più di taylorismo perché è stato superato

 Non è stato superato, ma semplicemente umanizzato con


l’attenuazione dei suoi tratti. Secondo questa ipotesi c’è il concetto
del progresso tecnologico che ha permesso un miglioramento delle
condizioni lavorative. Ancora oggi, vengono attuati processi di
taylorizzazione del lavoro impiegatizio con la diffusione dei
computer sul luogo di lavoro porta a parlare di neotaylorismo
informatico.

3. TERZO PUNTO:

Vi sono due singolari della vita di Taylor:

 Era un ingegnere impiegato in innovazioni tecniche.


Tramite questa attività sviluppò una proposta di management scientifico e investì
numerosi aspetti gestionali dell’azienda. La sua opera era quello della riorganizzazione del
mondo operaio.
Taylor non può essere considerato un sociologo, ma diventò un personaggio molto citato
nella sociologia del lavoro e dell’industria.

 Taylor non operò da solo, ma in un movimento di riformatori che si battevano per un


“management sistematico”. Molte sue idee furono deformate o applicate in parte è così lo
stesso Taylor si trovò in polemica con i suoi collaboratori.

Dunque:

 Da un lato: esiste il problema storiografico a cosa risale a lui e a ciò che


risale ad altri riformatori;

 Dall’altro lato: viene riconosciuta la radicalità delle sue convinzioni e la


mancanza di compromessi che fecero si che il suo nome prevalse su tutti e
finì di creare un intero movimento.
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2. IL CONTESTO STORICO IN CUI NASCE IL TAYLORISMO


Il motivo che spiega il sorgere di un movimento per la rivoluzione manageriale sta nella percezione di una
contraddizione tra:

 le potenzialità produttive di un’industria e

 i metodi arcaici della sua conduzione.

Il successo che ebbe il taylorismo all’interno del movimento fu la determinazione di perseguire in modo
intransigente tre obiettivi:

1. ACCETTARE: e razionalizzare le linee di autorità nell’impresa.

2. AUMENTARE: produzione e rendimento di uomini e impianti non solo attraverso la


riorganizzazione, ma anche attraverso la trasparenza di costi, procedure, tempi e metodi di lavoro.

3. USARE: la scienza non solo come criterio di azione, ma anche come base legittimante delle nuove
proposte.

Con le sue proposte Taylor si prefiggeva:

 una rivoluzione del modo di lavorare,

 una rivoluzione nel modo di comandare.

All’epoca di Taylor l’industria presentava molti requisiti materiali che avrebbero permesso di imboccare la
strada per una modernizzazione della produzione.

Si possono distingue 4 ordini di fattori:

1. I PROGRESSI TECNICO – SCIENTIFICI:

Verso la fine dell’800 scienza e tecnica fornivano macchinari più potenti e veloci, ma che
permettevano anche di andare verso tre linee importanti della produzione industriale moderna:

 STANDALIZZAZIONE DEI PRODOTTI E DEI MEZZI DI PRODUZIONE;

 PRODUZIONE DI PEZZI INTERCAMBIABILI, SIA DI PRODOTTI FINITI CHE PER MACCHINE E


UTENSILI.

 LA PROGRESSIVA SPECIALIZZAZIONE DELLE MACCHINE UTENSILI.


Questa specializzazione si aveva sia con la creazione di nuove macchine per lavorazioni
particolari e il perfezionamento di macchinari già esistenti.

2. LA DIMENSIONE EGLI IMPIENTI – CRESCITA QUANTITATIVA DEI COMPLESSI INDUSTRIALI:

I progressi tecnologici si accompagnano al progressivo ingrandimento dei complessi industriali.


In pieno 800 erano rare le fabbriche con più di mille dipendenti, cosa invece diffusa verso la fine del
secolo.
L’espansione produttiva e la fusione tra imprese hanno condotto al gigantismo industriale esploso
negli anni 20.
La concentrazione di manodopera in grandi stabilimenti era la risposta all’esigenza di produzione
su larga scala, ma ponevano problemi organizzativi nuovi per i quali non potevano valere le vecchie
soluzioni.

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3. IL TIPO DI MANODOPERA OFFERTA DI FORZA LAVORO NON QUALIFICATA E ALTA MOBILITA’:

L’espansione dell’industria richiedeva un reclutamento sempre più ampio di manodopera.

I figli del proletariato industriale cominciavano a scansare a non essere più sufficiente e si ricorse
dunque al reclutamento di masse contadine.

Negli Stati Uniti ad esempio affluirono milioni di immigrati, masse di ex contadini che davano luogo
a un’imponente offerta di lavoro.

La manodopera era estremamente mobile:

 Sia perché le imprese non garantivano alcuna sicurezza di impiego;

 Sia perché i lavoratori cercavano continuamente un lavoro migliore.

4. L’ESPANSIONE DEL MERCATO – LE PERCEPITE POTENZIALITA’ ESPANSIVE DEL MERCATO:

La scelta di avviare una produzione di massa rispondeva:


 alla convinzione che la produzione di costo dei prodotti,
 resa possibile da un’economia, avrebbe consentito un’espansione quasi illimitata del
mercato.
La variabile strategica su cui puntare per battere la concorrenza:
 dunque era vista più nella riduzione dei costi che nella qualità e innovazione del prodotto.
Così se si indovinava la formula di un prodotto, si poteva fabbricare per anni senza grosse varianti.
Tale punto ebbe la piena attuazione nei primi decenni del 20 sec.
Quando il fordismo fu un’originale applicazione dei principi tayloristici in condizioni di elevata
rigidità tecnologica (emblematica la catena di montaggio).

3.IL CONTESTO STORICO IN CUI NASCE IL TAYLORISMO


Questi punti dello sviluppo industriale contrastavano con le pratiche di produzione all’interno delle officine,
rimaste agli standard tecnici di un’epoca precedente.
Non esistevano metodi rigorosi per impostare il lavoro ed erano carenti anche i metodi amministrativi per
calcolare i costi delle singole fasi produttive.
L’intera gestione del processo produttivo era delegata a gerarchie intermedie di origine operaia, e il
management si limitava a contrattare dall’esterno le quote globali di produzione.
Nelson parlava di:
 IMPERO DEI CAPIREPARTO (FOREMEN):
avevano la maggior parte dei poteri nello stabilire:
 i tempi e metodi di produzione,
 dell’accertare i costi e la qualità del lavoro,
 nel gestire il personale.
La concentrazione del potere nelle mani dei capireparto provocava una diffusione empirica,
approssimazione e arbitrarietà dei metodi di conduzione dell’officina.
Vi erano dei veri e propri atti di arbitrio e corruzione tra operai e capi, che descrisse JACOBY.

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JACOBY afferma:
 che per l’operaio, il caporeparto era una persona autoritaria, che decideva la politica del personale
di sua iniziativa.
 Quando l’azienda assumeva e la folla si accalcava di fronte alla fabbrica per avere lavoro, il
caporeparto decideva i lavoratori più adatti, oppure i parenti o amici di persone già assunte, oppure
con scelte di tipo etnico.
 Accadeva che alcuni operai offrissero denaro, whisky o sigari per entrare a lavorare, fenomeno
molto comune.
Il sistema era conosciuto come:

 DRIVE SYSTEM (SISTEMA DELLO SPINTONE): era un sistema di abuso e minacce, con la spinta
continua a lavorare in modo più duro e veloce.
 CONTRACTORS (CONTRATTISTI): erano operai di esperienza che lavoravano in fabbrica sia con
ruolo di dipendenti che di piccoli imprenditori.
Veniva stabilita una determinata somma di denaro e l’impresa forniva ai contrattisti locali,
materiali, macchine e energia, e questi si impegnavano a eseguire una determinata quantità di
lavoro ad un prezzo fisso entro una determinata data.
I contrattisti assumevano manovali e aiutanti che diventavano così dipendenti diretti nel
contrattista e non dell’impresa.
Tale sistema perpetuava l’ignoranza del management sugli aspetti economici e tecnici del processo
produttivo.
I contrattisti toccavano trovare soluzioni tecniche e umane per abbassare i costi.

Nel pre-taylorismo funzionava così:


1. Quando si parla di dequalificazione di massa provocata dal taylorismo, si pensa:
 alla perdita di lavoro da parte degli operai qualificati,
 ma non si pensa alle condizioni di lavoro dei lavoratori meno qualificati.
 Si tende a sottolineare l’irrigidimento delle gerarchie che tolgono discrezionalità ai
dipendenti, ma non si pensa all’autorità imposta dai capireparto.
2. Nelle imprese prima di Taylor vigeva una contrattazione tra:
 Direzioni
 Gerarchie e contrattisti
 Basata su empiria
 Arbitrio e rapporti di forza.
3. La storicizzazione del taylorismo i permette di capire che il taylorismo pone fine all’impero dei
capireparto.
Questi ultimi si trasformano da piccoli capi a un esercito disciplinato che deve garantire la
realizzazione delle direttive provenienti dall’alto.
Il criterio per giudicare il loro operato non era la sottomissione dei lavoratori, ma la conformità agli
ordini dati dall’alto.
I capi intermedi comandano solo nei ranghi gerarchici stabiliti e nei campi limitati dalla direzione.
Taylor intende per metodo scientifico:
 Non è così definito solo perché prevede analisi sistematiche, con misure esatte per tutte le fasi
della produzione.
 È scientifico perché discende direttamente dalla direzione generale, opponendosi all’empiria dei
capi reparto.
 La direzione centrale deve assumere l’iniziativa strategica di centralizzazione del potere,
razionalizzazione dei metodi produttivi e stabilimento di gerarchie.

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4. LA LETTURA TAYLORIANA DELLE FABBRICHE ALLA FINE DEL 19 SECOLO.

Taylor spiega che:


 l'organizzazione scientifica del lavoro (OSL): consiste in un certo numero di principi generali, in una
ben definita concezione teorica che può essere applicata in varie maniere.

La risposta che spiega cosa è questa nuova concezione teorica riguarda la natura del rapporto tra:
 gli uomini
 e il loro lavoro.
Taylor spiega che fino ad ora l'attenzione degli uomini si è soffermata sulla divisione del surplus:
 gli operai rivendicavano tale surplus tramite salario,
 gli imprenditori volevano trattenerlo sotto forma di profitto.
I conflitti sociali sono sempre stati provocati dalla limitatezza delle risorse disponibili.
Taylor assicura che tali conflitti sono superabili:
 né mediante la repressione violenta
 né col collasso economico, ma utilizzando l'Osl.
Per Taylor l'Osl è una rivoluzione mentale, che deve coinvolgere tutte le componenti sociali del
lavoro di fabbrica.
Questa rivoluzione consiste nel:
 distogliere l'attenzione dalla divisione del surplus e
 collaborare per aumentare la quantità di surplus,
 fino a farlo diventare tale da non essere più necessario lottare per la sua divisione.
 Dunque l'inizio di un'era di abbondanza sancisce la fine dei conflitti sociali.
Per avere abbondanza è necessario:
 aumentare la produttività,
 e il rendimento della manodopera affidandosi all'Osl.
Gli uomini non hanno capito che la via del benessere e del progresso:
 è la collaborazione tra le parti per ingrandire il surplus,
 e non la lotta di classe per dividersi risorse scarse.
Taylor vede l'espressione quotidiana della lotta nel cosiddetto soldiering, il rallentamento
intenzionale del lavoro.
Egli ne individua 3 cause:

1. L'ERRATA CONVINZIONE: che un aumento della produttività provochi la perdita del lavoro per un
notevole numero di persone.
2. I SISTEMI IMPERFETTI DI ORGANIZZAZIONE: che costringono gli operai a lavorare a un ritmo più
lento per salvaguardare i propri interessi.
3. L'INEFFICIENZA DEI METODI EMPIRICI: usati nelle aziende che portano allo spreco di gran parte
dello sforzo produttivo.

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1. IGNORANZA DELLA NATURA UMANA E METODI ORGANIZZATIVI: Dunque Taylor imputa il
rallentamento del lavoro all'ignoranza della natura umana, ma anche agli inadeguati metodi
organizzativi.
L'aumento della produttività invece comporta:
 una riduzione dei prezzi e un maggiore assorbimento sul mercato, dunque la maggiore
produttività è la premessa per raggiungere un nuovo equilibrio tra domanda e offerta, con
un conseguente aumento nel consumo di beni prima ristretti a una certa élite.
L'argomento di Taylor può essere letto come uno scambio politico:
 da un lato: si promette un maggior benessere grazie al consumo di beni prima riservato a
una élite,
 dall'altro: si richiede il consenso ad una struttura autoritaria di produzione, legittimata
dalla sua efficienza.
2. LAVORAZIONE A COTTIMO: Nella seconda causa adottata per cercare di spiegare il rallentamento
del lavoro è stata ricercata in motivi inerenti alla natura umana che interagiscono con l'inefficienza
dei metodi organizzativi. Taylor capisce che nella natura umana vi è la tendenza a "prendersela
comoda", e ciò si traduce nel rallentamento della produzione.
Poiché le imprese non riescono a stabilire i tempi richiesti dalle varie lavorazioni, esse si affidano
dunque all'empiria.
Ad esempio spesso pensano di risolvere il problema con il cottimo (retribuzione basata su una
determinata quantità di prodotto lavorato), ma è una soluzione illusoria: infatti una volta che i
lavoratori riescono a raggiungere la quota stabilita nel cottimo, esse decidono di aumentarla.
Ma quest'aumento può essere fatto solo in modo arbitrario, dunque porta a proteste e a un
rallentamento dei ritmi in modo tale che non vi siano altri aumenti.
Nel sistema di cottimo che germoglia l'arte del rallentamento produttivo.
3. METODO ORGANIZZATIVO: Una terza causa adotta per spiegare il rallentamento della produzione
è organizzativa, e nasce dal fatto che "fare il lavoro" è ritenuto più importante del come farlo, che
è visto come aspetto secondario.
Taylor ritiene che bisogna capovolgere tali pratiche: il lavoro operaio è totalmente complesso che
occorre uno studio apposito da condurre con metodologie scientifiche.
Una moderna direzione di impresa non si può più limitare a sollecitare la produzione con metodi
tradizionali lasciando che gli operai la organizzino a proprio piacimento.
Deve invece assumere su di sé gran parte dei compiti che fino all'ora venivano lasciati agli operai.
Gli operai devono solo limitarsi a eseguire tutto ciò che la direzione ha stabilito.

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5.LA SCIENZA COME VIA DI SALVEZZA: ELEMENTI DI UN’ANTROPOLOGIA


TAYLORIANA.

Il ragionamento di Taylor si muove su due livelli:


 da un lato imputa il rallentamento del lavoro alla natura umana,
 dall'altro agli inadeguati metodi organizzativi.
Questi due livelli concorrono a costruire un'argomentazione:
 Da un lato: Taylor comprende le ragioni degli operai, che spingono al rallentamento come
forma di difesa dall'arbitrio delle direzioni.
 Dall'altro: però li colpevolizza perché se lavorassero bene non obbligherebbero le direzioni a
esercitare pressioni.
Gli uomini tendono sempre a lavorare con ritmo lento e agevole.
Taylor colpevolizza anche gli imprenditori di non saper fare il proprio lavoro, ma li rassicura di
stare dalla propria parte ritenendo che gli operai, lasciati al loro destino, sono "plebaglia".
Tale termine si origina in una concezione puritana del lavoro umano.
Il lavoro non è mai piacevole, ma bisogna lavorare con serietà per assolvere prima di tutto a un dovere
morale.
Gli uomini però sono portati a peccare a causa del peccato originale.
Taylor però scrive nell'epoca dello scientismo positivista:
 con l'ottimistico messaggio dell'evoluzione morale e materiale dell'uomo,
 e l'efficacia del metodo scientifico.
In questo modo si è creata una contaminazione tra le due correnti.
Taylor sostanzialmente sembra dire che:
 se gli uomini non fossero inclini al male, non ci sarebbe bisogno di organizzazione scientifica.
 La pigrizia e la rapacità sono dunque la condizione che evidenzia il ruolo dell'Osl.
Esistono due forme:
 Da un lato l'organizzazione può riscattare gli operai: dalla loro pigrizia facendo leva sul desiderio di
maggiore guadagno;
 dall'altro l'organizzazione è fatta dagli imprenditori: che sono naturalmente rapaci.
Dunque ci si chiede su quale base però si può presumere che gli imprenditori non subordinino
l'organizzazione alla loro rapacità:
 la risposta è che spetta agli imprenditori il compito di realizzare ordine e progresso, ma a patto che
conducano la propria impresa rispettando metodi e vincoli dettati da un superiore principio
scientifico.

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6.PRINCIPI ESSENZIALI E I MECCANISMI ORGANIZZATIVI DELL’OSL.

L'obiettivo dichiarato da Taylor è:


 un aumento della produzione,
 e per ottenere tale risultato è necessaria una trasformazione radicale del modo di produrre
 ma anche dell'intera struttura organizzativa.

Vi sono 4 principi che costituiscono l'essenza dell'OSL:

1. STUDIO SCIENTIFICO DEI MIGLIORI METODI DI LAVORAZIONE: in rapporto alle caratteristiche


dei lavoratori e delle macchine.
Questa è la parte più nota del taylorismo, perché comprende tutte le prescrizioni che portano a
decomporre il lavoro umano e a ricostruirlo secondo determinati principi.
Tali prescrizioni costituiscono la formulazione originaria del cosiddetto:
 MTM (Misurazione, tempi e metodi): che sarebbe stati utilizzati nelle industrie.
 selezione d'un gruppo sperimentale da analizzare di circa 10-15 lavoratori abili nel lavoro.
 scomposizione e analisi dei singoli movimenti in rapporto a tempi di esecuzione, posizione
fisica etc.
 correzione e eliminazione di movimenti inutili e sbagliati, poco razionali per lo scopo che
perseguono.
 ricomposizione del comportamento lavorativo sulla base dei movimenti considerati più
razionali.
 standardizzazione degli utensili sulla base di caratteristiche ottimali.
 fissazione di un tempo teorico di lavorazione in base alla somma dei tempi dei diversi
movimenti.
 addestramento del gruppo sperimentale sulla base delle nuove procedure.
 osservazione dei tempi effettivamente impiegati, tenendo conto delle necessità dei lavoratori
 calcolo delle correzioni apportabili al tempo teorico in modo da aumentarlo di una
percentuale per far fronte alle pause e a vari inconvenienti.
Tutte queste prescrizioni portano al metodo cosiddetto:
 Task management: ogni giorno verrà stabilito un determinato ammontare di lavoro che gli
operai dovranno svolgere senza cambiamenti.
Il vantaggio è un lavoro standardizzato con una resa prevedibile e con un rendimento doppio di
quello avuto con i vecchi sistemi.
Tuttavia Taylor opera due livelli di analisi:
a) l'applicazione del task management sul lavoro di manovali addetti a scarico e
carico di materiali pesanti.
b) l'applicazione del task a qualsiasi lavoro manuale, che spinge Taylor a
dare prescrizioni più attente di quelle date per i lavori più elementari.

Taylor in linea generale raccomanda che l'operaio compia quotidianamente il lavoro programmato e
per il cui svolgimento egli riceva istruzioni dettagliate che precisino il suo operato.
Linea importante di questo metodo è la netta separazione:
 tra progettazione
 e esecuzione.
Tale separazione ha provocato:
 una dequalificazione assoluta degli operai di mestiere,
 e la parziale qualificazione della manovalanza semplice.

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Il risultato è stata la formazione di una larga fascia di operai semi qualificati (semiskilled):
 capaci di alimentare le macchine,
 controllarle, accenderle e
 spegnerle.
Taylor sa che il Task management porta alla protesta della manodopera di mestiere:
 per far accettare il nuovo metodo egli propone una politica di alti salari,
 proposti per chi non lavora più in fretta (come accadeva col cottimo),
 ma per chi esegue per intero la produzione fissata e con i metodi previsti.

In caso di mancato raggiungimento del task il lavoratore subirà una diminuzione che può prendere
la forma di una multa.
Taylor è favorevole a tale sanzione che ritiene lo strumento più efficaci e per scoraggiare la
trasgressione rispetto all'Osl.
Il task management presenta una contraddizione:
 da un lato: il task management favoriva l'omogeneizzazione della manodopera nella categoria
dei semi qualificati,
 ma dall'altra: tale omogeneizzazione poteva divenire la base per proteste collettive.
Per questo Taylor sottolinea l'importanza di lavori individuali e non di gruppo, con paghe
personalizzate secondo diversi indicatori.

2. SELEZIONE ADDESTRAMENTO SCIENTIFICO DELLA MANODOPERA:


Taylor, tenendo presente i metodi i metodi di assunzione, prescrive che:
 le mansioni non possono essere affidate secondo il criterio del caso o della simpatia.
 l'assegnazione del lavoro ai singoli dipendenti deve rispettare criteri scientifici.
La scientificità dei criteri di selezione trova in Taylor la formulazione che può essere
definita come "teoria dei lavoratori di prima categoria".
Con tale formulazione Taylor denota il modo con cui un lavoratore esegue un certo lavoro,
qualunque esso sia.
Per qualsiasi tipo di lavoro esistono:
 operai di prima categoria, e solo utilizzando questi si può arrivare a
un'organizzazione scientifica del lavoro.
Taylor afferma che non vi è nessun uomo che possa svolgere bene ugualmente ogni lavoro,
ma allo stesso tempo non vi è nessun uomo che non sappia essere di prima categoria in
almeno un lavoro.
I tecnici dell'OSL dunque devono allocare razionalmente i ruoli lavorativi, in modo da
ottimizzare il rapporto tra doti soggettive del lavoratore e caratteristiche oggettive della
prestazione di lavoro.
In quest'ottica dunque ogni lavoratore non di prima categoria ė visto come un soggetto di
cui ancora non sono state riconosciute e utilizzate appieno le migliori capacità.

3. INTIMA E CORDIALE COLLABORAZIONE TRA DIRIGENTE E MANODOPERA: Instaurazione di


rapporti di stima e collaborazione tra direzione e manodopera.
Il meccanismo principale per ottenere il consenso operaio all'Osl è:
 ricompensa economica, ma non è sufficiente.
Taylor infatti parla di collaborazione:
 tra dirigenti e dipendenti: affermando che opportuni rapporti personali devono
essere continuamente mantenuti tra datori di lavoro e manodopera, e i primi
devono discutere ponendosi allo stesso livello dei secondi.
 Se un dirigente presta ascolto alle necessità e proteste del lavoratore, non
esisterebbe motivo per il sorgere di associazioni sindacali o di scioperi.

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In questo modo Taylor restituisce una dimensione umana al lavoro disumanizzato dai metodi
scientifici.
Taylor auspica che tali contatti facciano parte di una politica volta a favorire contratti di
lavoro individuali e a evitare la contrattazione collettiva col sindacato.
All'epoca di Taylor infatti era molto comune il closed shop:
 in base al quale i sindacati che organizzavano gli operai di mestiere riuscivano a imporre
alle aziende di assumere solo i propri iscritti.
Taylor, in generale contro i sindacati, si contrappone a tale pratica che non permette una
selezione scientifica del personale.
Si può desumere che quindi Taylor ha ancora in mente fabbriche non grandissime con un
padrone personale che conosce direttamente ciascun dipendente.

4. RISTRUTTURAZIONE DELL’APPARATO DIRETTIVO:


Distribuzione uniforme del lavoro e delle responsabilità tra amministrazione e manodopera.
Questo principio è cruciale per l'intero Osl.
Con esso Taylor afferma che l'efficienza di un'officina non dipende solo dalle sue
ristrutturazioni interne ma anche dalla radicale riorganizzazione dell'apparato direttivo
dell'impresa.
Le proposte nascono da un'analisi insoddisfatta della situazione del tempo:
 nelle fabbriche tradizionali vi è penuria di personale dirigente, e i singoli capi si
adoperano in numerose e diverse mansioni che spesso non portano a termine o lo
fanno con costi alti.
 i capi cercano di superare la difficoltà scaricando parte dei compiti ai propri impiegati,
che però già hanno i loro compiti.
 tali inconvenienti sono aggravati da una struttura gerarchica militare, che contempla
una linea sola di trasmissione di tutti i comandi, in modo che un capo intermedio riceve
la totalità degli ordini da chi gli è superiore e li trasmette a chi gli è inferiore.
Tale tipo di organizzazione per funzionare dovrebbe disporre di personale con un gran numero
di qualità umane e tecnico-professionali, ma uomini di questo tipo aspirano a posti più alti di
responsabilità e non a posti intermedi.
Per risolvere il problema della scarsità di uomini con alte capacità di comando è organizzare
l'azienda in modo da restringere l'arco delle responsabilità affidate ai singoli soggetti.
Tale restrizione consente di avere un equilibrio tra capacità umane reperibili nel mercato del
lavoro e complesso di compiti assegnati.
Dunque i difetti che colpivano i livelli esecutivi colpiscono anche quelli direttivi:
 in entrambi i casi occorre che la pianificazione dei compiti ponga fine all'iniziativa
personale basata sul caso.
Per gli apparati direttivi le soluzioni sono:
 restringimento dei campi di competenza.
 l'ancoraggio delle prestazioni a norme e procedure prestabilite dalla direzione
centrale.
 aumento numerico dei quadri intermedi.
Ma la novità più importante è la sostituzione della direzione tradizionale su base militare con la
direzione funzionale:
 gli operai: non obbediscono più a un solo capo, ma sono controllati da diversi capi,
ciascuno dei quali si occuperà di un aspetto particolare del lavoro. Dunque crea una
fitta burocrazia di fabbrica.
L'intervento di Taylor però non si ferma all'officina, ma si dedica anche ai livelli superiori.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Le richieste di intervento di Taylor devono essere regolate secondo:
 il “principio di eccezione”: con cui estende ai livelli superiori l'eliminazione di tempi
superflui che operava nell'esecutivo.
Nelle fabbriche tradizionali infatti il direttore si trova inondato di lettere e rapporti da
timbrare:
 in realtà ci dovrebbe essere un assistente che esamini attentamente le richieste di
intervento, in modo tale da far intervenire il direttore solo per gli incidenti in cui non è
prevista una competenza a livello inferiore.
Ricapitolando la fabbrica taylorizzata si basa su una burocrazia interna concepita come
strumento di efficienza e conformità alle direttive dall'alto (su questo si avvicina a
Weber).
La divisione del lavoro si determina su 3 livelli:
 al livello più basso: l'esecuzione materiale della produzione.
 al livello intermedio: l'analisi dettagliata delle procedure lavorative e la ricerca di
miglioramenti tecnici.
 al terzo livello: vi è la massima dirigenza, che non deve occuparsi del funzionamento
ordinario dell'impresa ma interviene solo in casi eccezionali, perché il suo compito
principale è dedicarsi a problemi di strategia aziendale.

Alla base dell'Osl vi è poi un principio metodologico generale:


 il cosiddetto one best way: l'idea che vi è un metodo unico e migliore per risolvere problemi e
compiere azioni di qualunque genere.

7.L’ONE BEST WAY E IL PRIMATO DELL’IMPRESA.

L'Osl si presenta come una costruzione organica volta ad affermare il primato dell'organizzazione
di impresa.
Questo primato trova la sua legittimazione nel ricorso alla scienza e nel postulato:
 one best way: consiste nel presupposto che per ogni problema vi è una soluzione ottimale, e che
tale soluzione può essere raggiunta solo con l'adozione di metodi scientifici di ricerca.
A causa della superiorità sulle soluzioni "non scientifiche", quelle suggerite dell'one best way
possiedono un’autorità che le fa apparire come soluzioni superiori agli interessi di parte e dunque
neutrali.
L'one best way è:
 n imperativo cui devono sottostare sia gli operai sia i datori di lavoro.
 In questo modo arbitrio e potere personale scompaiono.
La pretesa di Taylor di fondare tutto sulla scienza è stato oggetto di critiche:
 Ad esempio la scienza non può essere inoppugnabile poiché la scienza procede con la continua
messa in discussione dei suoi risultati;
 Il fatto che la scienza può dare solo indicazioni di carattere tecnico ma non di ordine strategico, che
restano materia di scelte politiche e di valore.
Ma l'obiettivo della battaglia di Taylor era far passare il principio che per condurre un'impresa in
modo moderno occorre affermare la sovranità dell'impresa sugli interessi personali di chi vi lavora,
e per raggiungere questo obiettivo Taylor si appella alla scienza come unico principio presentabile
come superiore agli interessi di parte.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

3 CAPITOLO: CHESTER BARNARD. L’AZIENDA COME SISTEMA COOPERATIVO.

1. FONDAZIONE ETICA DELLA SOCIETA’ E MANAGEMENT NON PROPRIETARIO

Nella prima parte del 20 secolo, va a interessare il mondo manageriale degli USA e dell’Occidente.
Nel pensiero di Barnard si riflettono due cambiamenti:

1 Il primo cambiamento: attiene alla storia delle idee e consiste nel progressivo declinare
dell'individualismo utilitaristico a favore di una filosofia che considera la società come
un'entità cooperativa regolata da principi morali.
L'individualismo concepiva la società come l'area di una lotta per la sopravvivenza tra individui
isolati, che agiscono in base a calcoli utilitaristi.
La lotta per l'esistenza si presentava dunque come il presupposto per giustificare:
 sia la ricerca del successo
 sia il totale dominio sulla manodopera considerata come una massa ostile.

2 Il secondo cambiamento: riguarda la progressiva distinzione:


 tra proprietà e
 management;
tale distinzione porta all'avvento di una figura sociale nuova, quella dei manager non
proprietari.
Questa nuova figura sociale rende più complessi i giochi strategici in azienda, in quanto si
passa a uno schema in cui il management svolge una funzione autonoma che non coincide
necessariamente con il volere della proprietà.
L'avvento del manager non proprietario e l'esigenza di una fondazione etica dell'agire
manageriale definiscono l'orizzonte teorico in cui Barnard si muove.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

2. LA PARABOLA DEL MASSO. I FONDAMENTI DELL’AZIONE COOPERATIVO.


Barnard rompe con l'individualismo utilitaristico, nell’opera “La funzione del dirigente”.
Barnard esordisce:
 l'uomo è un essere caratterizzato dal fatto di proporsi degli scopi per trasformare l'ambiente in
cui vive, ma che sperimenta continuamente l'esistenza di limiti (fisici, biologici, mentali sociali
etc.).
 Il modo più efficace per superarli è di passare dallo sforzo dell'individuo isolato alla
cooperazione tra più persone.
 Nel momento in cui cominciano a cooperare per conseguire fini comuni, gli uomini entrano
nella realtà delle organizzazioni formali.
Sebbene l'impresa economica sia il riferimento privilegiato, l'ambizione di Barnard è di sviluppare
una teoria valida per qualsiasi tipo di organizzazione.
Il ragionamento di Barnard segue una linea universale.
Questo modo di procedere è rappresentato dal frequente ricorso alla parabola del masso:
 Immaginiamo che un uomo si trovi per la strada di fronte a un masso che gli blocca il cammino:
egli inizialmente tenterà si smuoverlo con le sue forze, ma se è troppo pesante dovrà attendere
che sopraggiungano altre persone per riunire gli sforzi.
 Questo è il più semplice tipo di cooperazione, dove il fine comune coincide con il fine
personale.
Ma il fine organizzativo non coincide mai con i moventi personali.
Supponiamo infatti che gli uomini direttamente interessati a rimuovere il masso non ce la
facciano da soli a rimuoverlo e abbiano bisogno di altro aiuto.
In questo caso dovranno ottenere il contributo di persone non direttamente interessate a
rimuovere il masso, ma queste accetteranno di cooperare solo e otterranno una ricompensa
che è diversa dalla rimozione del masso stesso, e che sia capace di motivarle
sufficientemente.
La parabola del masso contiene due elementi centrali nella costruzione teorica di Barnard:
 il rapporto:
- tra aspetti formali e
- informali della cooperazione umana.
 la distinzione tra:
- fini organizzativi e
- moventi personali.

IL RAPPORTO TRA ASPETTI FORMALI E INFORMALI


Nella costruzione della teoria di Barnard:
 Il rapporto tra aspetti informali:
 riconosce che i rapporti informali creano le condizioni in cui sorgere l’organizzazione
formale,
 i rapporti informali limitano: gli atteggiamenti, opinioni, usanze; che sono privi di fini
consapevoli, di strutture e suddivisioni interne.
 Fino a quando si resta nell’ambito di un rapporto informale, non è possibile stabilire UN
SISTEMA COOPERATIVO vero e proprio.
 L'organizzazione informale dunque esige un certo ammontare di organizzazione
formale, in quanto non può durare o espandersi senza di essa.

 Il rapporto tra aspetti formali:


 Tornando alla parabola del masso, solo nel momento in cui quegli uomini decidono di
cooperare per spostare il masso conferiscono un carattere formale al loro rapporto, in
quanto danno luogo a un sistema cooperativo.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
 Mayo sostiene che:
- I rapporti informali sono come l’anima che da senso e tono alle strutture
formali.
 Barnard introduce una modifica nelle tesi di Mayo.
 Barnard restituisce all'organizzazione formale la funzione di sede privilegiata in cui gli
uomini stabiliscono una cooperazione nel senso specifico del termine in quanto dotata
di scopo consapevole.
 La stessa organizzazione formale ad essere per Barnard la matrice di nuovi rapporti di
tipo informale:
- Ad esempio, un'impresa assume persone che non si conoscono, e la loro
conoscenza nell'ambito dell'impresa può restare informale, cioè priva di
particolari finalità.
- Ma se quelle persone scoprono di avere finalità comuni di qualsiasi tipo
(politiche, religiose, culturali etc) e decidono di cooperare per quelle finalità,
quelle danno vita in quel momento a una nuova organizzazione formale.
 Questa può così svilupparsi nell'organizzazione formale già esistente ma anche essere
del tutto indipendente.
FINI DELL’ORGANIZZAZIONE E MOVENTI PERSONALI
Nella costruzione della teoria di Barnard si ha una distinzione tra:
 Fini organizzativi:
 nel momento in cui il fine comune viene perseguito tramite l’organizzazione formale
esso diventa fine dell’organizzazione,
 quindi un fine impersonale e da esso vanno distinti moventi per cui gli uomini
partecipano all’organizzazione.

 Moventi personali:
 Infatti anche quando i moventi di un membro partecipante coincidono con il
raggiungimento del fine dell'organizzazione, il significato da attribuire al
raggiungimento del fine dell'organizzazione come entità complessiva va distinto dal
movente personale di quel membro.
Dalla distinzione tra fini organizzativi e moventi individuali consegue che non ci si può limitare a
perseguire solo fini impersonali dell’organizzazione ma vanno tenuti presenti anche i moventi dei
singoli membri.
A tal fine è necessario riuscire a mobilitare consensualmente un insieme di individui per un fine che
non è loro e di offrire allo stesso tempo a tali individui, incentivi sufficienti a soddisfare la loro
motivazione personale a partecipare.
La distinzione:
 tra fini dell'organizzazione e
 moventi dell'individuo
non passa solo tra organizzazione e individui, ma passa anche all'interno degli individui.
Ogni partecipante ad una organizzazione può essere infatti visto come dotato di una duplice
personalità:
 Personalità organizzativa: è rilevante per l'analisi del funzionamento organizzativo e riguarda
le modalità delle prestazioni che l’individuo svolge.
 Personalità individuale: è rilevante per analizzare i moventi del soggetto nell’equilibrio tra il
suo contributo all’organizzazione e i benefici che ne ricava.
La personalità individuale può essere diversa o anche opposta da quella organizzativa.
Il riconoscimento di questo possibile contrasto tra le due personalità apre la via a un'analisi sulla
complessità dell'agire umano, dove spesso il soggetto è costretto a distinguere i principi personali da
quelli dell'organizzazione in cui partecipa.
La conciliazione di tali ambiti è un problema universale per qualsiasi organizzazione formale.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

3. L’EFFICACIA ED EFFICIENZA

Barnard dopo la distinzione tra:


 fini organizzativi e
 moventi dei soggetti
Ne derivano due dimensioni dell'azione organizzativa:
 EFFICACIA:
- si intende la misura in cui l’organizzazione raggiunge i propri obiettivi.
- Avere un fine è riuscire a realizzarlo è un requisito importante perché un’organizzazione
esista e rimanda in vita.

 EFFICIENZA:
- di un'organizzazione è sempre definita dal grado con cui essa coordina le risorse umane
e tecnologiche per garantire giorno per giorno quelle specifiche prestazioni.
- si intende la misura in cui i moventi individuali a cooperare sono soddisfatti.
- L'efficienza di un'organizzazione dunque si misura nel modo in cui si soddisfano le
motivazioni individuali a far parte di un sistema cooperativo.
- Retribuzioni, profitti e gratificazioni morali che si traggono dal cooperare sono tutte
categorie empiriche che Barnard colloca nel concetto di efficienza.
Efficienza ed efficacia sono due dimensioni del sistema cooperativo che non sono però per forza
collegate.
Vi possono essere organizzazioni efficaci ma non efficienti o viceversa.
Quando un'organizzazione è efficace ma non efficiente l'organizzazione raggiunge i propri obiettivi
ma non soddisfa gli individui che partecipano;
Quando l'organizzazione è efficiente ma non efficace soddisfa gli individui partecipanti ma a scapito
del raggiungimento del fine per cui essa è sorta.
Ma la situazione che si presenta di più nella realtà ė quella in cui il perseguimento di efficacia ed
efficienza da luogo a tensioni.
La mediazione tra i due termini è per Barnard il problema di fondo delle funzioni direttive, e si pone
dunque la questione della sua analisi.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

4. L’ECONOMIA DEGLI INCENTIVI


Barnard esamina la questione chiamata l’economia del rapporto tra:
 Contributi
 Incentivi.
Nelle linee generali il rapporto è semplice perché le soddisfazioni nette che inducono un uomo a
contribuire con i suoi sforzi ad una organizzazione derivano dal confronto tra i vantaggi positivi e gli
svantaggi che questa comporta.
Il punto di equilibrio tra:
 costi e
 benefici
 è una variabile che dipende da vari fattori.
Barnard avverte che l'economia degli incentivi ha un dominio di applicazione molto più esteso
della sfera economica in senso stretto.
Essa è applicabile a qualsiasi tipo di organizzazione in cui si realizzano delle transizioni tra:
 contributi forniti da membri che partecipano e
 gli incentivi che ricevono come contropartita.
Andiamo ad analizzare meglio:
 IL PRIMATO DEGLI INCENTIVI NON MATERIALI:
Tutti gli incentivi offerti da un sistema cooperativo possono essere distinti in:
- INCENTIVI MATERIALI: sono quelli di tipo monetario, ma comprendono anche
condizioni fisiche generali, come i benefici di posizione o la sicurezza del posto;
- INCENTIVI NON MATERIALI: comprendono giustificazioni morali, stima e prestigio e
quelle che Barnard chiama condizioni di comunione, cioè “quel sentirsi a proprio agio
nei rapporti sociali che è talvolta detto solidarietà, integrazione sociale o sicurezza
sociale”.
Quando parla di incentivi non materiali Barnard non si riferisce solo alla gradevolezza
psicologica dei rapporti informali, ma all'importanza delle gratificazioni fondate sulla
dimensione morale dell'agire cooperativo.
Sarebbe tuttavia troppo semplicistico ritenere che Barnard metta enfasi sugli incentivi non
materiali per giustificare una politica di scarsi incentivi materiali (es bassi salari).
L'enfasi sugli incentivi non materiali conduce Barnard a dedicare ampio spazio alle iniziative di
persuasione che le organizzazioni possono attuare per estendere l'ambito dei propri possibili
membri.
Queste iniziative sono volte a creare le condizioni per cambiare i desideri di un numero
sufficiente di persone in modo tale che gli incentivi che può offrire diventino adeguati.
Tale persuasione può avvenire dalla semplice pubblicità ad un'adeguata istruzione scolastica.

 LA GENERALITA’ ASTRATTA DELLA CONDIZIONE DI MEMBRO COOPERATORE:


La teoria di Barnard ricomprende qualsiasi categoria di membro che a qualsiasi titolo instaura
con il sistema cooperativo una transazione tra:
 contributi dati e
 incentivi ricevuti.
Dunque dipendenti, manager, capi, sono tutti unificati nella categoria di membri cooperatori.
Tale astrazione risponde all'esigenza sentita da Barnard di pervenire a un modello teorico
unificante che valga per qualsiasi tipo di organizzazione.
Va riconosciuto a Barnard il merito di avere dato il primo contributo alla fondazione di una
teoria generale delle organizzazioni.
La sua analisi presenta anche dei limiti.
Infatti proprio il mancato riconoscimenti teorico delle varie specificità organizzative costituisce
un limite della sua analisi.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Barnard:
 non offre strumenti per esaminare le sostanziali differenze che il contributo dei membri
assume a seconda del tipo di organizzazione,
 gli strumenti per trattare fenomeni economici rilevanti come lo sfruttamento, la
contrattazione o la speculazione.

 LA FONDAZIONE SOGGETTIVA DEL VALORE E L’EFFETTO COMPLESSIVO DELLA COOPERAZIONE


L'economia degli incentivi trae origine dall'assunto liberistico di soggetti individuali che
decidono in base a calcoli razionali sulla propria utilità.
L'uomo di Barnard:
 calcola,
 giudica e
 confronta,
 ma oggetto dei suoi giudizi non sono solo convenienze utilitaristiche,
 ma anche il significato che egli ricava dalla cooperazione,
 e i benefici materiali sono solo una minima componente di tale significato.
Abbiamo dunque di fronte un uomo che decide soprattutto in base a criteri ispirati da
sentimenti morali e da convinzioni.
Tale antropologia da a Barnard la possibilità di affrontare l'obiezione che un sistema per
sopravvivere ed espandersi ha bisogno di una somma di risorse il cui valore economico sia
superiore alla somma degli incentivi distribuiti.
Secondo l'impostazione non materialistica dell'economia degli incentivi di Barnard,
il sistema cooperativo da ai suoi membri degli incentivi che non sono solo economici, e dunque i
membri trovano in questo surplus non materiale la convenienza a continuare la loro
collaborazione.
Barnard si rende anche conto che esistono casi in cui le transazioni tra membri e sistema
cooperativo sono quasi esclusivamente di carattere economico, e quindi una risposta basata
solo sugli incentivi non materiali non è sufficiente.
Barnard risponde che la caratteristica di un sistema cooperativo efficace:
 è quella di saper organizzare il contributo dei singoli in modo da ottenere dal loro
complesso un valore economico globale che è superiore alla semplice sommatoria.
La cooperazione:
 è la base su cui si crea un coefficiente che può moltiplicare il valore dei singoli
contributi.
 Affinché l'intero possa divenire superiore alla somma delle parti è necessario che una
direzione generale del sistema cooperativo presieda al coordinamento degli sforzi.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

5. LA TEORIA DELL’AUTORITA’

Barnard affronta il problema dell’autorità attraverso:


 La fondazione cooperativistica dell'organizzazione e
 la ricerca di un equilibrio tra:
- contributi e
- incentivi.
Barnard concepisce l'autorità come:
 una funzione necessaria e
 legittimata;
 tanto più l'autorità è di basso profilo, conforme a procedure e rituali, tanto maggiori sono le
sue probabilità di essere accettata e di raggiungere i suoi obiettivi.

L’AUTORITA’ PUO’ ESSERE:


 CARATTERISTICHE FORMALI DELL'AUTORITÀ:
L’autorità presenta due caratteristiche formali:
A. La prima caratteristica: la fonte dell'autorità risiede nel fatto di essere accettata da
parte dei sottoposti.
Anche nei casi in cui l'organizzazione ricorre alla coercizione e alla minaccia,
Barnard sostiene che l'autorità si regge ancora sul fatto che i sottoposti sia pur
tacitamente consentono.
Barnard con questa osservazione vuole sottolineare il limite dell'autorità che rischia
sempre di essere trasgredito.
Il ricorso alla coercizione non è mai efficace per ottenere il consenso, perché si basa
solo sulla minaccia ed è destinato a fallire.
L'autorità è tanto più efficace quanto più riesce ad ottenere il consenso offrendo
incentivi positivi e dotati di valore morale.
B. La seconda caratteristica: secondo Barnard l'autorità non consiste nell'occupare una
posizione gerarchica superiore, ma nel fatto che i sottoposti riconoscono un carattere
d’ordine a particolari tipi di comunicazioni che provengono da quelle posizioni.
Affinché l'autorità sia accettata da detentori di posizioni di responsabilità devono
preoccuparsi che i loro comandi siano conformi ad alcuni codici di efficacia e di
correttezza procedurale.
Un’altra condizione fondamentale per la circolazione e l’accettazione degli ordini è il buon
funzionamento del sistema di comunicazioni.
In particolare:
- l'ordine deve essere capito e le linee di autorità devono essere stabilite chiaramente;
- il contenuto dell'ordine non deve contrastare con i fini generali dell'organizzazione;
- il contenuto dell'ordine deve essere compatibile con gli interessi legittimi delle persone a cui
l'ordine è diretto;
- gli individui a cui è diretto l'ordine devono essere in grado di eseguirlo.
Inoltre Barnard ricorda che il buon funzionamento di un sistema di comunicazioni richiede che
il percorso di un ordine rispetti tutti i livelli gerarchici ed eviti percorsi superflui.

 OGGETTO DELL’AUTORITA’: ESTENSIONE DELLE AREE DI DISPONIBILITA’:


Barnard:
 si domanda quale sia l'oggetto su cui l'autorità si esercita,
 e la risposta la trova nella distinzione tra fini dell'organizzazione e movente individuale.
La pretesa di ottenere dagli individui l'identificazione completa con l'organizzazione ė del tutto
irreale.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Dunque ciò che l'autorità deve fare è gestire il rapporto tra contributi e incentivi in modo tale
che i sottoposti allarghino la sfera della propria disponibilità ad obbedire ai comandi che
servono agli scopi dell'organizzazione.
Ma questo non è un compito facile.
Il problema infatti è che le prestazioni che un sistema può chiedere ai suoi membri provocano
atteggiamenti differenziati.
Dunque il massimo che l'organizzazione può ottenere dai suoi membri ė una estesa
disponibilità a eseguire gli ordini.
Barnard elimina l'equivoco di impostare il rapporto tra individuo e organizzazione all'insegna
di una irraggiungibile fusione tra i fini organizzativi e moventi individuali (per questo si distacca
dalle Relazioni Umane, che proclamava un clima sociale gradevole nell'azienda con lo scopo di
ottenere l'adesione emotiva dei dipendenti ai fini dell'impresa).
Per Barnard l'agire cooperativo si fonda sul primato degli incentivi morali, ma tale primato si
limita ad essere la base per sostenere che l'autorità deve operare in modo da estendere l'area
dei comandi che i membri sono disposti a seguire.
L'efficacia dell'autorità sta dunque nell'estensione dell'area di disponibilità dei dipendenti a
eseguire gli ordini.
Ma l'area di disponibilità esprime anche il grado di efficienza: quanti più è maggiore la
soddisfazione dei moventi individuali, tanto più estesa sarà l'area di prestazioni a cui gli
individui sono disponibili.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

6. LE FUNZIONI DEL DIRIGENTE


Barnard individua tre principali funzioni del dirigente:
1. La prima funzione è:
 assicurare un efficiente sistema di comunicazioni e
 costruire una struttura generale di ruoli dove collocare persone adatte a
 garantire il flusso ottimale delle comunicazioni.
2. La seconda funzione è:
 garantire l'acquisizione regolare e costante delle risorse necessarie per il
funzionamento dell'organizzazione.
 queste risorse sono:
- sia i membri, intesi come qualsiasi soggetti
che ha transazioni con l’organizzazione, da
portare in relazione cooperativa con
l'organizzazione,
- sia come servizi che essi possono fornire;
3. La terza funzione è:
 determinare i fini dell'organizzazione: Per Barnard il fine è un processo diffuso che
coinvolge tutto il sistema cooperativo.
Tale visione si collega in Barnard all'enfasi data più dagli aspetti comunicativi che a
quelli decisori dei dirigenti.

Un buon dirigente è quello che garantisce l'equilibrio attraverso atti discreti e poco visibili piuttosto
che quello che decide con atti di imperio.

Secondo Barnard le doti di comando di un buon dirigente consistono:

 in una complessità morale: intende il riferimento ad un insieme di codici di comportamento


pubblici e privati concernerti diverse realtà.
Quanti codici morali sono presenti nella personalità di un soggetto tanto maggiori sono le
possibilità di conflitti.

 in un senso di responsabilità superiore alla media: per dominare questa situazione provvede il
senso di responsabilità, cioè una sorta di meta-codice che negli inevitabili conflitti garantisce
l’affidabilità della persona e la sua coerenza ad un principio.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

7. LA PERSONALITA’ DEL DIRIGENTE. CONCLUSIONI.

Barnard affronta il problema della personalità che deve avere un dirigente all’altezza del suo compito.

Barnard afferma che le doti di comando consistono in:


 in una complessità morale:
intende il riferimento a tanti codici di comportamento:
- Sia pubblici
- Sia privati
Che presiedono a diversi ambiti di
realtà.
 in senso di responsabilità superiore alla media:
può essere inteso come una sorta di meta-codice che può garantisce:
- l’affidabilità della
persona,
- la sua coerenza ad un
principio.

Il senso di responsabilità per il dirigente può essere visto come:


 personalità organizzativa:
che garantisce contro i dubbi e che nascono dalla
 Personalità individuale:

Barnard rimanda al dualismo quello tra:


 fini dell’organizzazione e
 moventi individuali
e trova nella mediazione di questo dualismo la base su cui legittimare il ruolo del leader:
 la responsabilità direttiva: è quella capacità dei leaders che riflettono atteggiamenti ideali,
speranze, in gran misura non loro li obbliga a legare la volontà degli uomini alla realizzazione di fini
che vanno oltre i loro fini immediati oltre i loro tempi.

Barnard parla del declino:


 dell’individualismo utilitaristico:
- a favore di una fondazione etica della società
- e l’avvento della classe dei manager non proprietari.

 Il primo punto:
trova la sua espressione nell’agire cooperativo e non ha bisogno di altri commenti.
 Il secondo punto:
Barnard non affronta in modo esplicito l’avvento dei manager non proprietari, ma il problema
posto questa novità storia si scorge della filigrana di tutto il suo pensiero.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
La distinzione:
 tra fini organizzativi e
 moventi personali
può essere considerato come l’espressione in termini generalizzati e attratti della riflessione
sull’esperienza concreta di un management che si impegna nel successo di un’impresa che non
possiede, con tutta la complessità che ne deriva dalla tensione professionale tra identificazione in
quanto personalità organizzativa e distacco in quanto personalità individuale.
Barnard sa che il manager non proprietario:
 può scontrarsi non solo con i dipendenti ma con la proprietà.
 Il management ha bisogno di una legittimazione per portare avanti le sue ragioni, la sua autonomia.

La teoria del sistema cooperativo:


 in cui tutte le componenti dell’impresa sono membri a pari titolo, regolati della medesima logica
dell’equo rapporto tra i contributi e incentivi fornisce una base per quella legittimazione.
Barnard sostiene che Il management non proprietario:
 compie un mutamento sostanziale di prospettiva:
 sia rispetto a Taylor: indicava nella
scienza il principio fondato di un agire
imprenditoriale dove la proprietà e
management non sono ancora distinti.
Barnard fa i conti con questa distinzione
per legittimare la professionalità del
management non proprietario in base a
criteri di lealtà al fine organizzativo e non
alle persone di scarsa visibilità
autocratica di doti di equilibrio di
capacità mediatrici.
 sia rispetto che RELAZIONI Umane:
focalizzano gli aspetti informali
dell’organizzazione avendo presenti le
condizioni dei subalterni.
Barnard elabora una visione più generale
dell’azienda, dove sono considerate tutte
le sue componenti sociali.
Nelle relazioni umane, una volta
soddisfatto il retroterra emozionale dei
dipendenti non obiettano sulla
razionalità dei fini posti dal management.

Barnard indica nella mediazione tra:


 i fini dell’organizzazione e
 i variegati moventi di tutti i membri
 il banco di prova della razionalità etica del management problematico e aperto.

Barnard sviluppa un modello teorico che pretende di essere valido per qualsiasi tipo di organizzazione.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

4 CAPITOLO: TEORIE DELLA CRESCITA DELLA PERSONALITA’.


1. LE VIE DI USCITA DALL’AFFLIZIONE TAYLORISTICA

Nel dibattito sui modi con cui uscire dall'afflizione taylorista si possono individuare due
Schieramenti:
a) SCHIERAMENTO VOLONTARISTA:
 ebbe il maggior successo negli anni 60-70, e
 vede il tratto saliente dell'afflizione taylorista nel fatto di obbligare le persone a lavori stupidi
e privi di motivazione.
 Di conseguenza propone una riorganizzazione del lavoro:
 tale che i compiti affidati alle persone siamo più intelligenti, responsabili e dotati di senso di
quanto previsto dal taylorismo.
Vi sono due presupposti di tale posizione:
 lavori più ricchi di contenuti intelligenti e responsabili che procurano maggiore
soddisfazione e consentono una crescita della personalità di chi li compie.
Ciò permette anche un maggiore coinvolgimento dei soggetti nelle organizzazioni.
 la tecnologia non predetermina un solo modo in cui lavorare, ma consente dei margini
di libertà.
Questi margini vanno scoperti e sfruttati in modo da ridisegnare le mansioni con contenuti più
ricchi del passato.
b) SCHIERAMENTO TECNOLOGICO:
 vede il tratto saliente dell'afflizione taylorista nella continua erogazione di sforzo in
condizioni disagiate,
 e ritiene che la via per superare tale afflizione sia offerta dal progresso tecnologico,
piuttosto che dalla ricerca volontaristica di modelli alternativi all'interno delle
tecnologie tradizionali.
Il progresso tecnologico viene introdotto:
 per lo scopo di una maggiore produttività e
 la riduzione della forza lavoro,
 non certo il miglioramento delle condizioni lavorative.
Questo risultato viene raggiunto:
 come effetto,
 con indubbi benefici
 dunque anche nelle relazioni sul luogo di lavoro.
Le innovazioni tecnologiche costituiscono la base che rende possibile ed economicamente
conveniente:
 il trapasso da una fase di meccanizzazione dove era massima l'afflizione tayloristica,
 a una fase di automazione dove tale afflizione si attenua fino a non costituire più un problema
sociale.

Dunque, a differenza delle posizioni volontaristiche:


 non si tratta più di proporre "un'uscita dal taylorismo", che in realtà era offerta solo a una
minoranza di lavori in cui era possibile ridefinire i contenuti;
 superare l'afflizione tayloristica significa piuttosto una possibilità generalizzata attraverso
l'introduzione di miglioramenti sociali e ambientali.
Il progresso tecnologico comporta:
 un arricchimento dei contenuti lavorativi,
 in altri casi questo non succede.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Ma anche nel secondo caso, pur non uscendo dagli schemi tayloristici, la concreta condizione del
lavoro migliora nettamente sotto il profilo dell'erogazione dello sforzo.
La storia ha dato ragione alla posizione tecnologica.
Il nuovo modo di lavorare si è realizzato con:
 l'automazione flessibile e
 la rivoluzione informatica,
 ma seguendo vie e modalità diverse da quelle annunciate in quegli anni.
Ciò non sminuisce il merito della posizione volontaristica, sviluppatasi soprattutto negli anni 60-70
negli USA, e che ha preso il nome anche di teoria motivazionista o di realizzazione della
personalità.
A tali teorie va riconosciuto:
 di avere interpretato il bisogno di uscire dall'afflizione dei lavori ispirati al dogma
tayloristico.
 di aver legittimato tale esigenza sulla base di una nuova e complessa antropologia dei
bisogni dell'uomo.
 di rappresentare un superamento delle Relazioni Umane, nel senso di rivendicare
mutamenti reali nei contenuti del lavoro e non soltanto interventi manipolatori della
psiche umana.

2. LA SCALA DEI BISOGNI UMANI SECONDO A. MASLOW

Le caratteristiche della scuola motivazionista sono quelli di impostare in termini favorevoli all'uomo i
Rapporti tra:
 organizzazioni e
 soggetti che vi lavorano.

La scuola capovolge l'impostazione della teoria organizzativa classica:


 secondo la quale le esigenze delle organizzazioni vanno considerate come la variabile
indipendente a cui occorre subordinare il comportamento umano.
La scuola motivazionista capovolge tale teoria:
 al primo posto: sono messi i bisogni dell'uomo, in special modo quello di autorealizzazione sul
lavoro, e le organizzazioni devono essere giudicate in base al grado con cui si adattano a tali
bisogni.
 Ciò non significa che le necessità delle organizzazioni vadano trascurati.
La tesi dei motivazionisti è che:
 i fini dell'organizzazione possono essere raggiunti proprio quanto più sono soddisfatte le
esigenze di crescita personale dei soggetti.
Il taglio psicologico che viene dato al rapporto uomo-organizzazione.
Ma psicologico:
 non significa, come nelle Relazioni Umane, l'insieme dei fattori irrazionali di cui l'organizzazione
deve tenere conto per evitare conflitti:
 la connotazione psicologica del bisogno di autorealizzazione dell'ego assume per i
motivazionisti il valore di una fondazione antropologica della necessità di autorealizzazione
della personalità.
Quanto più stimolanti sono i lavori, tanto più democratici sono i processi decisionali, meno
burocratici sono i controlli, e più spontanea è la cooperazione di gruppo.
I motivazionisti si propongono di suggerire strumenti operativi che partendo dalle esigenze di
autorealizzazione umana giungano a suggerire una riprogettazione generale delle
organizzazioni.
Tale posizione però pone il problema di comprendere cosa si intende per bisogni umani.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Il modello della scala dei bisogni di Maslow:

 parte dalla premessa che la motivazione di un comportamento nasce dalla tendenza a


soddisfare determinati bisogni.
 Soddisfatto un bisogno è probabile che questo non determinerà più il comportamento del
soggetto fino a quando non compaia nuovamente.
 I bisogni differiscono tra di loro per natura e grado di complessità.
 Il bisogno di mangiare e quello di affermazione sociale ad esempio sono imparagonabili.

Maslow distingue cinque grandi ordini, o di livelli di bisogni che è possibile collocare in una
scala gerarchica.

Dal livello più basso sino al livello più alto sono:


 BISOGNI FISIOLOGICI (riguardano la sopravvivenza immediata).
 BISOGNI DI SICUREZZA (riguardano la sopravvivenza sul lungo periodo).
 BISOGNI SOCIALI (riguardano l'esistenza di un ambiente sociale gradevole).
 BISOGNI DELL'EGO (riguardano l'aspirazione ad un riconoscimento sociale del proprio status).
 BISOGNI DI AUTOREALIZZAZIONE (riguardano l'ispirazione a un lavoro che arricchisca la
dimensione psicologica interiore dell'uomo).

L'ipotesi di Maslow è che:

 l'ordine gerarchico dei bisogni stabilisce anche l'ordine di priorità nella loro soddisfazione.
 Chi non ha ancora soddisfatto un bisogno collocato a un livello inferiore non ente la necessità
di soddisfare un bisogno a livello superiore.
Ad esempio in una fabbrica con salari bassi e frequenti infortuni sul lavoro, offrire un ambiente
sociale favorevole o un lavoro più stimolante non desterebbe interesse e apparirebbe come un
modo di eludere il bisogno reale di paghe più alte e condizioni di lavoro più sicure.
È in queste situazioni che secondo Maslow il problema più sentito diventa quello di riprogettare le
mansioni e più in generale l'intera struttura organizzativa, in modo da arrivare a un equilibrio tra
bisogni umani e motivazioni all'agire.
La scala dei bisogni di Maslow si presta anche ad essere letta come una interpretazione
evoluzionistica dei bisogni sul lungo periodo.

Nella storia dell'industria si può distinguere:

 una prima fase in cui i problemi erano una carenza di beni materiali e di precarietà del lavoro.
Qui i bisogni erano salari più alti e maggiore sicurezza di impiego.
Quando questi bisogni cominciarono ad essere soddisfatti, emersero altri bisogni di
adattamento sociale.
 Dunque si ha un evolversi dei bisogni umani.
 Ciò spiega perché l'obiettivo di dare al lavoro contenuti più gratificanti sia divenuto un
problema sentito solo recentemente.

Tuttavia ė difficile che nella vita dell'uomo fai siamo fasi caratterizzate da un livello dominante di
bisogni.

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3. CHRIS ARGYRIS: IL CONFLITTO TRA INDIVIDUO E ORGANIZZAZIONE

Argyris è uno degli autori di ispirazioni motivazionista:


 pone in maggior evidenza il contrasto tra le esigenze dell'individuo
 e quelle delle organizzazioni strutturate secondo i principi classici del management.
Argyris parla del processo di crescita psicologica dell'individuo consiste nel passaggio dallo stato di
infanzia a quello di maturità, che è caratterizzato da trasformazioni fondamentali:
 da uno stato di passività a uno di attività.
 da uno stato di dipendenza dagli altri a uno di relativa indipendenza.
 da pochi modi di comportamento a una pluralità di modi.
 da interessi superficiali a interessi più profondi.
 da prospettive di breve termine a prospettive temporali più lunghe.
 da uno stato di posizione subordinata nella famiglia a una posizione di uguaglianza se non di
 superiorità.
 da una mancanza di consapevolezza di sé a una crescita di autocoscienza.
La condizione adulta:
 significa l'acquisizione di una serie di capacità e l'avvenimento di una serie di trasformazioni.
La maturità:
 non consiste solo nel punto in cui il soggetto si colloca tra le varie tappe citate,
 ma anche dal grado in cui egli permette ad altri soggetti di fare altrettanto.
 Requisito fondamentale della maturità dunque è non inibire la crescita di altri soggetti verso la
loro maturità.
Le organizzazioni:
 dove gli uomini operano devono essere strutturate in modo da favorire quella crescita e quelle
esigenze.
Argyris osserva:
 il modo in cui si impone di lavorare nelle grandi organizzazioni moderne impedisce lo sviluppo
di queste caratteristiche
 e condanna gli uomini a restare infantili.
Una caratteristica delle organizzazioni moderne:
 è la razionalità formale che impone agli uomini di agire in campi di competenze e con
procedure predeterminate.
La specializzazione dei compiti frena:
 la naturale ricerca umana della novità e sviluppa poche e
 superficiali capacità;
 il principio gerarchico,
 l'unità di comando e
 la sfera di controllo tende a rendere gli individui passivi e subordinati, con un ristretto campo di
responsabilità.
L'insieme di questi principi sono incompatibili con lo sviluppo delle qualità necessarie per rendere
matura la persona umana.
Alle organizzazioni strutturate su principi tayloristici:
 non interessa disporre di uomini maturi e autonomi,
 ma avere uomini disciplinati e
 poco inclini ad assumersi responsabilità non previste.
Il contrasto tra:
 la logica di funzionamento delle organizzazioni e
 le esigenze di crescita umana produce varie conseguenze negative.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Sensi di frustrazione, progetti di breve periodo, diffusione di stati di rivalità e propensione al conflitto.
Per uscire da questo stato di cose, la prospettiva indicata da Argyris è una ridefinizione dei compiti
lavorativi, che non può avvenire per via gerarchica, ma attraverso la creazione di gruppi informali
di lavoro che si autogestiscono in modo democratico.
Le direzioni aziendali:
 non devono distruggere la propria organizzazione formale,
 ma devono consentire lo sviluppo di spazi autogestiti,
 con forme di leadership non autoritaria elette dagli stessi dipendenti.
Si deve sviluppare dunque una sensibilità nuova alle esigenze umane, sulla base dell'assunzione
che quanto più quelle esigenze sono soddisfatte, più aumenta la qualità delle prestazioni umane e
il potenziale dell'organizzazione.
Questa però era la prima formulazione della sua tesi, che sottopose a recisione.
Negli anni 70 Argyris matura una teoria dell'apprendimento organizzativo, che rappresenta
un'evoluzione del suo approccio.
Egli concepisce l'organizzazione come una struttura:
 dove i soggetti non sono solo soggetti d'azione ma anche agenti di apprendimento
organizzativo, ovvero contribuiscono a modificare il modo di vedere la realtà usato
nell'organizzazione.
Tale impostazione porta alla distinzione tra:
 -APPRENDIMENTO INDIVIDUALE: quando la scoperta e la correzione di un errore resta
esperienza dei singoli soggetti e non diventa oggetto di apprendimento collettivo.
L'apprendimento individuale previene alla sua concreta realizzazione quando si trasforma in
apprendimento organizzativo.
Argyris fa un’ulteriore distinzione:
 APPRENDIMENTO A GIRO SEMPLICE: quando la scoperta e la correzione
dell’errore consentono di mantenere gli aspetti centrali della mappa cognitiva
dell’organizzazione.
 APPRENDIMENTO A GIRO DOPPIO: quando la scoperta e la correzione dell’errore
conducono a modificare la mappa cognitiva.
 APPRENDIMENTO ORGANIZZATIVO, quando la scoperta e la correzione di un errore diventa
oggetto di apprendimento collettivo, con la modifica della mappa cognitiva utilizzata
dall'organizzazione.
Argyris con questa distinzione cerca di superare definitivamente l'antitesi tra:
 arricchimento della personalità e organizzazione che caratterizzava la prima parte della sua
attività.
 Lo scopo però rimane quello di creare modelli che favoriscano il più possibile la formazione di
personalità mature secondo la definizione iniziale.

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4. FREDERICK HERZBERG:” IGIENE” E MOTIVAZIONE


Un punto di discussione nella scuola motivazionista riguarda l'universalità delle idee sulla natura
umana.
In azienda esistono due tipi di persone:
 coloro che soffrono l'oppressione dell'organizzazione formale e reagiscono positivamente a
programmi di autorealizzazione.
 coloro che sono soddisfatti di svolgere lavori privi di iniziativa e non ambiscono ad accollarsi
maggiori responsabilità.
I programmi di autorealizzazione dunque devono essere selettivi.
Herzberg è l'autore che nella scuola motivazionisti affronta l'esistenza di questi due tipi di
persone.
 Lui parte dalla premessa che i metodi tradizionali di organizzazione trascurano possibilità
dell'uomo e conducono a un sotto impiego delle risorse umane.
 Il fatto che i soggetti accettino tali condizioni non significa che siano motivati.
Herzberg affronta il problema partendo dai risultati di sue ricerche sui fattori che stanno all'origine
Della:
 soddisfazione e
 l'insoddisfazione nel lavoro.
Ai soggetti si chiedeva quali avvenimenti avessero provocato soddisfazione e quali insoddisfazione nel
lavoro.
I fattori che avevamo:
 soddisfatto erano i contenuti del lavoro in sé,
 quelli che non avevamo soddisfatto erano la remunerazione e l'ambiente di lavoro.
Herzberg distingue sulla base di ciò due classi di fattori:
 FATTORI IGIENICI: che riguardano le condizioni esterne al lavoro, come l'ambiente fisico e la
remunerazione.
 FATTORI MOTIVAZIONALI: che riguardano il contenuto del lavoro, quindi la capacità di
procurare una crescita psicologica nella personalità di chi lavora.

Distingue poi le persone sulla base di due diversi atteggiamenti rispetto al lavoro:
 RICERCATORI DI MOTIVAZIONE: che cercano soprattutto una soddisfazione intrinseca al
lavoro, che gli dia la gioia di una crescita psicologica.
 RICERCATORI DI IGIENE: che non si curano della gioia intrinseca del lavoro, ma sono sensibili
solo ad aspetti esterni come la remunerazione e l'ambiente.
Herzberg ritiene che solo i ricercatori di motivazione possono trarre soddisfazione dal lavoro,
mentre i secondi possono solo essere meno insoddisfatti.
Per i ricercatori di motivazione la situazione ideale è quella di un lavoro che soddisfa:
 sia le esigenze di crescita di sé
 sia le esigenze igieniche: infatti se vengono soddisfatte solo le prime esigenze si è infelici,
perché si combatte con la voglia di continuare quel lavoro e la necessità di lasciarlo.
Per i ricercatori di igiene:
 la presenza o assenza di motivazioni non è un problema: possono essere o inadatti, quando
fanno lavori provvisti di motivazioni che però non apprezzano, o
 come soggetti in condizione di sofferenza mentale quando sono costretti a svolgere lavori
stimolanti ma privi dei requisiti igienici che desiderano.
Vi è poi il cosiddetto "monastico", che corrisponde alle situazioni in cui il soggetto trascura sia la
soddisfazione intrinseca del lavoro che le condizioni igieniche.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
I REQUISITI DELLA CRESCITA PSICOLOGICA

Herzberg presenta le motivazioni al lavoro che sono come:


 un ordine di fattori superiore ai semplici fattori remunerativi e ambientali.
Queste motivazioni affondano le radici nei:
 bisogni di autorealizzazione,
 di riconoscimento sociale,
 di discrezionalità nell'esecuzione del lavoro,
 e in generale di una continua crescita psicologica.
Ma affinché la crescita psicologica sia effettiva occorre che siano soddisfatte alcune condizioni sul
l'esecuzione del lavoro, che sono:
 ampliamento della conoscenza: il lavoro deve costituire uno stimolo continuo ad apprendere
nuove nozioni teoriche e pratiche, per tenere viva la conoscenza.
 aumentare relazioni nell'ambito delle cose conosciute: la conoscenza deve diventare uno
strumento di ulteriore conoscenza e di comprensione intelligente della realtà, ovvero di
scoperta di nessi logici tra il conosciuto.
 creatività: che va diffusa in ogni tipo di conoscenza, comprensione e decisione dell'individuo.
 efficacia in condizioni di incertezza: capacità di decidere autonomamente quando ci si trova in
situazioni non previste dai modelli di comportamento prefissati.
 crescita reale: la crescita psicologica deve riguardare le azioni compiute dall'individuo come
tale, e non da altri individui con i quali il primo si identifica.
 principio di individuazione: la crescita psicologica deve riguardare l'individuo nella sua
interezza e non solo come membro dell'organizzazione. Non hanno una vera crescita
psicologica i soggetti che trovano la propria dimensione umana solo al lavoro, che si alienano
nel ruolo professionale.

L'obiettivo del management:


 diventa quello di dare ai ricercatori di motivazioni incarichi tali da realizzarsi.
Un uomo che cessa di progredire nella sua vita è moribondo.
Bisogna affidare compiti sempre più complessi che esigono impegno.
Per fare ciò bisogna eliminare le costrizioni inutili, accrescere la responsabilità degli individui a lavoro,
introdurre nuovi compiti di maggior impegno intellettuale.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

5. MOTIVAZIONI, LEADERSHIP ED EFFICIENZA

Le teorie motivazioniste:
 si reggono sul giudizio di valore che lavori con un senso, con un clima di collaborazione e con
una leadership non autoritaria sono un bene in quanto favoriscono la crescita della personalità
umana.
Ma affinché tale giudizio ottenga ascolto dagli ambienti manageriali, occorre dimostrare che i lavori
con tali caratteristiche sono una soluzione conveniente anche per le imprese in quanto migliorano il
clima interno, diminuiscono l'assenteismo, turnover e conflitti, e favoriscono prestazioni migliori.
Dimostrare la connessione tra il senso del lavoro, la leadership democratica e l'efficienza
aziendale appariva tra gli anni '40 e '60 una proposta suggestiva per la ricerca sociale americana.
In questo ventennio si andò alla ricerca di conferme empiriche di quelle convinzioni. Un'indicazione era
venuta da una ricerca di Kurt Lewin su tre gruppi di studenti. Il primo gruppo era guidato con criteri
autoritari, il secondo con criteri democratici, e il terzo con criteri del tutto
permissivi.
- il primo gruppo aveva raggiunto in breve tempo un rendimento soddisfacente ma in seguito le
pressioni autoritarie avevano bloccato i progressi.
- il terzo gruppo aveva dato risultati negativi, con un rendimento insufficiente.
- solo il secondo gruppo condotto con criteri democratici aveva ottenuto buoni risultati e durevoli
nel tempo.
Tuttavia il proseguo delle ricerche aveva rivelato che i contenuti del lavoro e lo stile di leadership
non erano sufficienti da solo a spiegare la complessa fenomenologia dei rapporti tra atteggiamenti
e rendimento.
In alcuni casi infatti si constatò che si poteva raggiungere un alto rendimento anche senza
soddisfazione dei dipendenti, o al contrario l'alta soddisfazione dei dipendenti non raggiungeva per
forza soddisfacente.
Il rapporto tra soddisfazione e rendimento appariva dunque troppo problematico perché le aziende
potessero convincersi ad impegnarsi in programmi di riprogettazione delle mansioni.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

6. RENSIS LIKERT E GLI STILI DI LEADERSHIP

Un contributo chiarificatore è stato fornito da Rensis Likert:


 Esso confuta innanzitutto l'idea che il maggior rendimento dipenda sempre e comunque dalla
soddisfazione dei dipendenti e dall'atteggiamento favorevole dell'azienda.
 Egli infatti riconosce che dove i lavori sono più ripetitivi si può raggiungere un alto rendimento
anche in assenza di soddisfazione da parte dei dipendenti.
Likert pensa che:
 il taylorismo è un sistema completo, che nella misura in cui limita gli uomini in comportamenti
predefiniti riesce ad ottenere risultati apprezzabili.
 il taylorismo non possa essere applicato in tutti i tipi di lavori.
Vi sono lavori che implicano:
 creatività,
 responsabilità e
 iniziativa che non possono essere limitati.
Likert si concentra sull’impostazione tradizionale del lavoro che viene poi smentita.
Nei lavori che Likert chiama variati il rendimento è maggiore quando:
 è minore la pressione esercitata dall'alto.
 è più distaccato il controllo gerarchico.
 le reazioni in caso di errore non sono punitive ma comprensive.
La leadership auspicata da Likert:
 non si limita al tono amichevole nei rapporti,
 ma richiede cambiamenti sostanziali nell'intera struttura organizzativa
 e nel sistema di comunicazione.
Le comunicazioni:
 non devono limitarsi a discendere dall'alto verso il basso sotto forma di comandi,
 ma sono permesse anche le comunicazioni dal basso verso l'alto.
L'autonomia dei collaboratori subordinati:
 è un punto fondamentale di questo modello direttivo: ma tale autonomia non deve tradursi in
isolamento e mancanza di contatti verticali.
 Il capo ideale è per Likert colui che riesce a conciliare il rispetto dell'autonomia dei suoi
dipendenti con continui scambi di idee.
L'equilibrio tra:
 responsabilità e
 partecipazione
si connette all'uso di una potente motivazione che è il bisogno di autorealizzazione.
Anche il modello direttivo tradizionale punta su:
 un bisogno di autorealizzazione dei dipendenti, ma il suo appagamento viene concepito in
termini puramente economici, mediante l'incoraggiamento a una esasperata competizione.
Nel modello partecipativo proposto da Likert:
 l'autorealizzazione avviene invece in modo diverso:
l'organizzazione del lavoro deve essere ristrutturata in modo da favorire una dimensione
collettiva e non competitiva tra i membri.
Likert si fa così fautore dei gruppi di lavoro, formati da membri leali verso il gruppo stesso, con
capacità di interazione e obiettivi che richiedono un alto rendimento.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Questi gruppi devono essere collegati tramite:
 perni connettori: membri che fanno parte contemporaneamente di due diversi gruppi
sovrapposti in modo gerarchico.
I soggetti appartengono allo stesso tempo a un gruppo superiore e a un gruppo inferiore:
 partecipano al gruppo superiore in qualità di membri coinvolti nelle decisioni e sono
responsabili anche del gruppo gerarchico più basso.
La formula dei perni connettori consente secondo Likert di raggiungere due obiettivi:
 la specializzazione dei gruppi e
 la loro interconnessione con il continuo scambio di comunicazione.
Questo modello rappresenta un management massimamente:
 democratico e
 partecipativo.

L'osservazione degli stili di leadership adottati nelle aziende permette a Likert di classificarli in 4
modelli:
 autoritario-sfruttatorio.
 autoritario-benevolo.
 consultivo.
 partecipativo.
Via via che dal modello autoritario-sfruttatorio ci si avvicina al modello partecipativo si ha una
crescente democratizzazione, un maggiore coinvolgimento dei dipendenti e dei risultati superiori.
Il problema di ogni azienda dovrebbe essere dunque quello di avvicinarsi maggiormente al modello
partecipativo.
Likert capisce che avvicinarsi a tale modello sia impegnativo e difficile.
È un processo delicato che si può effettuare solo attraverso uno sviluppo organizzativo a tutti i livelli
aziendali.
La pluralità dei modelli di leadership viene approfondita la Likert nell'opera successiva:
 attraverso nuove analisi conclude che i modelli più autoritari hanno maggiore possibilità di
raggiungere soddisfacenti standard di rendimento in tempo minore, ma tale standard tende a
decrescere col tempo, mediamente due anni;
 con il modello partecipativo invece il rendimento comincia ad aumentare fino a superare
anche il livello del modello autoritario.
Tuttavia anche nel ragionamento di Likert vi è un equivoco.
All'inizio della sua analisi distingue i
 lavori ripetitivi dove vige l'organizzazione tradizionale dai lavori variati dove possono valere le
sue proposte.
 Ma le sue proposte possono essere applicate solo a una privilegiata minoranza di situazioni.
 Inoltre se le organizzazioni disposte a cambiare sono quelle dove la direzione è favorevole al
mutamento, dove i rapporti sono ispirati a una reciproca fiducia e dove i dipendenti sono già
soddisfatti, è segno che le cose vanno già bene e dunque non si vede il bisogno di drastici
cambiamenti.
 Si può però supporre che le proposte di Likert possano essere applicate anche a situazioni dove
il lavoro precedentemente ripetitivo è stato trasformato in lavoro variato.
 Ma allora la trasformazione importante è quest'ultima, e non quella del management
partecipativo che ne sarebbe un'ovvia conseguenza.
Ma Likert non affronta tale problema.
Tali obiezioni permettono di rivedere l'obiettivo di Likert: egli non voleva mutamenti universali in
ogni fascia di lavori, ma riguardava solo la fascia medio alta dei dipendenti, dove le funzioni
manageriali si trasformano in amministrazioni.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

7 CAPITOLO: NEL POST-FORDISMO: SPECIALIZZAZIONE FLESSIBILE, PRODUZIONE


SNELLA E FABBRICA MODULARE.
1. ALTERNATIVE STORICHE AL FORDISMO: LE TESI DELLA SPECIALIZZAZIONE
FLESSIBILE.

Kern e Schumann nella loro opera segnano:


 la fine del Taylorismo e
 l'avvento della logica post tayloristica, l'opera di

Piore e Sabel nella loro opera segnano:


 la fine del fordismo e
 l'avvento di un regime produttivo post-fordista.

Le differenze tra:
 TAYLORISMO: riguarda l'organizzazione del lavoro esecutivo che viene standardizzato al fine di
aumentare l'intensità delle prestazioni.
 FORDISMO: è un termine che ha più significati:
 Risale agli anni ’10 quando Ford adottò nelle sue officine la catena di montaggio
semovente.
 Tratti tipici del fordismo sono le grandi dimensioni dei complessi industriali e la
produzione di massa di beni standardizzati.
 Negli anni ’70 questo modello entrò in crisi per la troppa rigidità del processo
produttivo, dei costi della manodopera e delle prestazioni.
 Al suo posto subentrava un modello definito post-fordista caratterizzato dalla
flessibilità dei processi produttivi e dell’impiego della manodopera.
Precisando:
 IL TAYLORISMO: può essere considerato come un modello che rientra nel più vasto sistema
Fordista di produzione.
Tuttavia:
 Taylorismo e fordismo hanno dato vita a due dibattiti marginalmente connessi:
 infatti chi si focalizza sul Taylorismo evidenzia la dequalificazione,
 l'alienazione e le condizioni per il suo superamento;
 chi si focalizza sul fordismo invece si riferisce a un processo produttivo entrato in crisi
per la troppa rigidità e al conseguente passaggio a regimi di produzione più flessibili.
I fautori della specializzazione flessibile affermano:
 che lo sviluppo produttivo avrebbe potuto essere diverso da come è stato,
 e oggi può imboccare una strada diversa da quella percorsa.

Nell'800:
 l'industria mondiale ha perso l'occasione di svilupparsi secondo un modello diverso da quello
che portò alle concentrazioni fordiste,
Oggi:
 la crisi economica di queste concentrazioni rende attuale la possibilità di uno sviluppo diverso,
 fondato su un sistema specializzato
 e flessibile di piccole e medie industrie.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Piore e Sabel arricchiscono la discussione:
 sulla pluralità delle forme industriali introducendo la variabile della dimensione d'impresa.
Secondo Piore e Sabel:
 le piccole imprese:
 garantiscono una produzione flessibile e
 articolata in piccoli lotti,
 cioè non di serie,
 le grandi imprese:
 organizzate secondo criteri fordisti
 possono offrire solo una produzione rigida
 e di massa che non va incontro alle crescenti esigenze di
personalizzazione del consumo.
 nei sistemi lavorativi:
esistono delle differenze:
 il lavoro operaio: proprio perché variato e svolto in ambienti
piccoli è più ricco di opportunità professionali e meno
anonimo che non nella grande industria.

 Il distretto industriale:
 è l’espressione socio-economica in cui più tipicamente si
realizza il modello alternativo alla grande impresa.

 È un agglomerato definito geograficamente da piccole imprese e specializzato nella


produzione di beni simili, dove:
 le imprese proliferano per imitazione mediante una micro-
imprenditorialità diffusa;
 i rapporti di concorrenza e tutela degli interessi collettivi
sono regolati sul piano formale e informale.
 istituzioni politico-sociali di controllo e di sviluppo delle
capacità tecniche, produttive e innovative sono considerate
un patrimonio collettivo interno al distretto industriale.

La simpatia dei fautori della specializzazione flessibile:


 va alla piccola industria, che a loro dire garantisce una qualità della vita migliore da quella
offerta dal modello fordista,
 e ne vengono enfatizzate le qualità tecnologiche e impreditive di questo modello di
produzione.
Le critiche alla tesi della specializzazione flessibile sono dovute:
 il fatto che non vi è alcun argomento fondante del fatto che la piccola industria è migliore, dal
momento che quando è cominciata la storia dell'industria caratteri negativi come lo
sfruttamento vi erano anche nella piccola industria;
 inoltre anche la grande industria ha dimostrato di essere in grado di superare le rigidità della
produzione di massa (vedi il modello di produzione snella giapponese).

Nonostante queste critiche le tesi della specializzazione flessibile hanno avuto il merito di
alimentare il dibattito sull'organizzazione industriale proponendo un modello diverso da quello
dominante.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

2. LA SCOPERTA DEL MODELLO GIAPPONESE

Negli anni ’80 fece il suo ingresso un nuovo regime produttivo, né taylorista né fordista:
 IL MODELLO GIAPPONESE.
La novità di tale modello consiste in una serie di soluzioni organizzative che non si limitano alla sfera
produttiva, ma investono l'intera strategia di impresa.
Il modello giapponese dimostrò che:
 la produzione flessibile: può essere attuata anche in seno a grandi imprese, correggendo le tesi
di Piore e Sabel secondo cui questa è una prerogativa della piccola industria.
 Si può uscire dal taylorismo e dagli aspetti gerarchici burocratici che lo hanno caratterizzato in
occidente e coinvolgendo gli operai nella esecuzione responsabile dei compiti affidati.
 la cooperazione e la fiducia reciproca sono fattori fondamentali di successo.

In modello giapponese:
 nasce negli anni ’40, dopo la seconda guerra mondiale,
 la allora piccola casa produttrice di automobili della Toyota stava attraversando una crisi,
 con scarsi capitali,
 macchinari inadeguati e spazi ristretti.
Secondo i criteri fordisti fabbricare auto in quelle condizioni era impossibile.
Tajichi Ohno era il direttore della Toyota:
 riuscì a risollevare l’azienda abbassando il punto di profitto dall’economia di scala tipica delle
produzioni di grande serie
 a un’economia di flessibilità basata su produzioni di breve serie.
Egli capì che bisognava trasformare i vincoli in risorse:
 in quanto non era possibile tenere testa alla concorrenza con vecchi macchinari,
 sì dovevamo usare quei macchinari in maniera diversa rispetto al passato.
 si doveva abbandonare la pratica di allestire i macchinari per produzioni destinate a rimanere
uguali per settimane e mesi,
 si doveva cominciare a cambiare frequentemente gli allestimenti per produrre lotti brevi
inseguendo anche le più piccole opportunità di mercato.
 Moltiplicare gli allestimenti significa però abbreviare i tempi di tali operazioni.
 Se nelle fabbriche tradizionali gli allestimenti, che venivano cambiati massimo 2-3 volte
all'anno, richiedevano diverse ore di lavoro, le variazioni quasi giornaliere di produzione
imponevano che il tempo per gli allestimenti si riducesse a meno di un'ora.
Ohno per raggiungere tale obiettivo:
 poteva contare sull'unica risorsa abbondante della Toyota, ovvero le maestranze:
 la Toyota utilizzando la pratica degli allestimenti veloci ridusse i tempi da qualche ora a 15-20
minuti.
La pratica degli allestimenti veloci portò a superare la tradizionale distinzione tra gli operai addetti
all’allestimento dei macchinari e gli operai addetti alla produzione.
Gli allestimenti veloci risultarono congruenti anche con un altro vincolo della Toyota, ovvero di
disporre di poco spazio per i magazzini.
Il frequente cambio di produzione faceva infatti venir meno il bisogno di accumulare grandi riserve di
materiali, ma imponeva un sistema di trasporti perfetto così che le consegne arrivassero giusto in
tempo per essere lavorate.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Procedendo in tal senso si scoprirono altri due vantaggi:
 la produzione a lotti piccoli e diversificati permetteva alla Toyota di rispondere alle variazioni
di mercato e alle richieste personalizzate dei clienti con un tempismo ed una flessibilità ignote
alle fabbriche di grande serie.
 il secondo vantaggio provenne dalla scoperta che la produzione a piccoli lotti permetteva un
controllo della qualità estremamente più efficace a quello ottenuto nella produzione di massa.
Si constatò la convenienza di fermare la produzione immediatamente per eliminare i difetti
scoperti piuttosto che lasciar scorrere il flusso produttivo per intervenire sui difetti a fine linea,
come prescriveva il modello fordista.
Ohno e i suoi collaboratori scoprirono:
 così che le loro scelte si concatenavano così da formare un modello alternativo a quello
fordista.
 Tra gli anni '50 e '60 la Toyota ottenne successi così grandi da diventare una delle più
importanti e innovative imprese del mondo del settore automobilistico, è il suo modello si
impose anche sulle altre imprese.

Negli anni ’80 Womack, Jones e Roos formavano:


 un gruppo di ricerca, il MIT,
 concettualizzarono il modello giapponese, di cui il toyotismo appariva la versione più pura,
come “produzione snella”.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

3. I TRATTI ESSENZIALI DEL MODELLO GIAPPONESE

a) LA CENTRALITÀ DEL JUST IN TIME Il JIT (Just-in-time):


è un sistema produttivo che garantisce la continua e perfetta simmetria tra:
 l’offerta dei beni prodotti
 e la domanda proveniente dal mercato.
A differenza della produzione di massa che punta su economie di scala attraverso la
fabbricazione prolungata e uniforme di un dato prodotto e il rigido rispetto delle quantità
programmate con largo anticipo,
il JIT consiste:
 nel produrre e consegnare merci finite al momento giusto
 i materiali acquistati per trasformarli nel momento giusto.
 Rende possibile far uscire i prodotti in serie brevi
 e differenziate con aggiustamenti continui alle fluttuazioni della domanda.
Per poter funzionare deve essere provvisto di quattro requisiti fondamentali:
1) eliminazione delle risorse ridondanti, considerate spreco.
2) coinvolgimento dei dipendenti nelle decisioni riguardanti la produzione.
3) partecipazione dei fornitori.
4) ricerca della Qualità Totale.

b) L'OFFICINA MINIMA SOSTITUISCE L'OFFICINA RIDONDANTE


Nel fordismo:
 le fabbriche sono meccanismi rigidi che vanno protetti dalle perturbazioni esterne.
 Le imprese fordiste si preoccupano di avere scorte in eccedenza in modo che se
interruzioni o anomalie si verificano in qualche punto del flusso produttivo la
produzione a valle possa continuare in attesa che la normalità sia ripristinata.
Quanto più è alta la possibilità di situazioni critiche, tanto più sono elevate le scorte di riserva
(logica del just in cause).
Ciò porta a conseguenze come depositi di materiali disseminati per tutto il percorso
produttivo, spostamenti di materiali da un reparto all'altro, scarsa attenzione al tempo reale
del processo di produzione etc.
Il modello giapponese:
 richiede invece meno scorte,
 meno spazi,
 meno movimenti di materiale,
 meno tempi per allestire i macchinari,
 meno addetti,
 meno apparati informativi e tecnologie più frugali, opta cioè a una produzione snella.
Ma l'eliminazione di risorse ridondanti non obbedisce solo a imperativi economici, ma anche a
criteri di essenzialità che fanno apparire qualsiasi elemento superfluo come uno spreco.
Lo spreco è per Ohno una categoria concettuale molto vasta, le cui forme non si presentano
nello stesso momento e con la stessa evidenza.
Di norma spreco appare tale quando un altro spreco è già stato eliminato.
Così si innesta un processo di continuo miglioramento che concatena la riduzione di attività
lavorative che non creano un valore aggiunto alla riduzione di tempi morti e scorte.
La riduzione delle scorte conduce a sua volta ad allestimenti rapidi e frequenti dei macchinari
per cambiare di produzione e accorciare i tempi di transito del prodotto nel flusso produttivo.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
La ricerca dell'essenzialità ė perseguita anche attraverso un altro elemento:
 la tecnologia frugale:
 si intendono impianti il più possibile semplici e conoscibili dal personale che li
usa che può dunque suggerire anche miglioramenti.
 Per frugale dunque non si intende arretrato.
 La frugalità favorisce la diffusione di robot e macchine a controllo numerico,
ma suggerisce cautela nei confronti di impianti più complessi che costano
molto e non sono familiari ai lavoratori, obbligando così a dipendere dalla
consulenza esterna di chi li ha forniti.

c) IL COINVOLGIMENTO DEI DIPENDENTI SOSTITUISCE LA DIVISIONE BUROCRATICA DEL


LAVORO
Nel fordismo:
 vige una divisione taylorista del lavoro con confini precisi tra le mansioni.
 Si presume che gli addetti ai lavori non abbiamo le competenze necessarie per i compiti
che fuoriescono dalle loro mansioni,
 e ciò scoraggia l'apprendimento di nuove abilità
 e l'assunzione di responsabilità non previste.
 Si ritiene inoltre che i rapporti tra lavoratori e impresa siano sempre conflittuali, e ciò
scoraggia rapporti di reciproca fiducia.
Nel modello giapponese:
 le mansioni hanno confini poco precisi
 i dipendenti sono sollecitati a partecipare alle decisioni riguardanti la produzione.
Il coinvolgimento dei dipendenti trova la manifestazione più evidente nel cosiddetto principio
di automazione:
 ossia nel diritto-dovere degli operai di interrompere la produzione ogni volta che
notano delle anomalie,
 e di segnalarlo attraverso indicatori luminosi in modo che si possa effettuare una
correzione immediata.
 Ciò infrange il principio fordista del move the metal, ovvero che gli eventuali difetti
devono essere corretti solo alla fine della linea in fase di verifica e collaudo.
Il coinvolgimento dei dipendenti si manifesta anche in altri aspetti:
 la polivalenza delle capacità professionali che consente lo scambio di posizioni nel
gruppo di lavoro e di darsi una mano in casi di difficoltà.
 la flessibilità delle squadre di lavoro che adattano la propria numerosità e
strutturazione interna alle variazioni dei compiti e della produzione.
 l'impegno nel miglioramento continuo (kaizen) di ogni fattore produttivo.
 Anche il lavoro dei dipendenti è oggetto di kaizen perché si presuppone che essi
collaborino per eliminare i lavori che non danno valore aggiunto.
 Il massimo principio del modello giapponese è il kaizen.
Koike indica il segreto dell’impresa giapponese nell’altissima capacità intellettuale degli
operai:
 è un’abilità che si manifesta nella soluzione di problemi concettualmente nuovi, posti
dalle innovazioni tecnologiche.
 Nel risolvere questi problemi non vi è una divisione del lavoro tra operai e ingegneri,
ma si lavora assieme.
Aoki individua l’elemento unificante del modello giapponese nel concetto di coordinamento
orizzontale, che è una forma più efficace e alternativa del coordinamento per via gerarchica.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Il coordinamento orizzontale per funzionare presuppone:
 l'interiorizzazione nei singoli reparti di obiettivi coerenti con l'obiettivo globale
dell'impresa.
 l'autonomia di ogni reparto nell'individuare e affrontare i problemi interni.
 l'integrazione delle capacità possedute dai membri del gruppo in modo da consentire
un uso efficace di tutta l'informazione disponibile localmente.
L'espressione più avanzata del coordinamento orizzontale è il kanban:
 un sistema di cartellini posti su carrelli che svolgono la funzione di moduli d’ordine e
notifiche di consegna.
 Su ogni cartellino viene scritto il fabbisogno dei pezzi necessari ad una data posizione di
lavoro e questi pezzi vengono prelevati dalla posizione precedente del processo
produttivo.
 Nel carrello viene attaccato un cartellino in cui viene scritto il materiale che si necessita.
 In discendenza arriva il carrello col materiale necessario.
 Si ottiene in tal modo un meccanismo che coordina le operazioni delle varie posizioni
lavorative attraverso informazioni che muovono da monte a valle senza bisogno di
ricorrere a sistemi centralizzati di controllo.
d) LA COLLABORAZIONE CON I FORNITORI SOSTITUISCE IL PRINCIPIO DEL DIVIDE ET IMPERA
Le imprese fordiste costruiscono e assemblano la maggior parte del prodotto all’interno dei
propri stabilimenti e per la quota restante si rivolgono a fornitori esterni ma non hanno nessun
contratto con uno di loro in particolare riservandosi la possibilità di scegliere altri fornitori in
occasioni future.
Il rapporto tra i fornitori e l'impresa madre dunque è di forte diffidenza.
Le imprese ispirate al modello giapponese:
 scelgono i fornitori in base alla capacità di collaborare con l’impresa madre in piani di
lungo termine.
L'impresa madre favorisce la collaborazione tra fornitori con l'interscambio informazioni e
aiuti.
Si forma così una fitta rete cooperativa basata su rapporti di fiducia e su contratti di lungo
periodo.
L’aspetto più visibile di tale rete è rappresentato dall’insediamento dell’impresa madre a breve
distanza da quelle fornitrici in modo da garantire rapide e frequenti consegne.
e) L'OBIETTIVO DELLA QUALITÀ TOTALE SOSTITUISCE IL PRIMATO DELLA QUANTITÀ
Nelle fabbriche fordiste:
 la produzione di massa impone di dedicare attenzione alla regolarità dei flussi
programmati e di considerare la qualità dei prodotti come un problema separato.
 Di conseguenza si avrà una qualità insoddisfacente e costosa perché occorre dedicare
tempo e risorse per eliminare difetti in una fase successiva della produzione.
Il modello giapponese invece assume la qualità come una caratteristica obbligatoria dei
prodotti, è tutta la produzione deve puntare sull'ideale dello zero difetti.
Le fabbriche giapponesi infatti si basano sull’espressione Qualità Totale:
 essa indica che la ricerca della qualità deve essere presente lungo tutto il processo
lavorativo.
 L'autonomazione rappresenta emblematicamente questa pratica.
Se si eliminano subito i difetti nel momento della loro comparsa, i prodotti arrivano a fine linea
già garantiti sul piano della qualità, così da rendere meno importante la revisione e il controllo
e da diminuire gli addetti ai collaudi finali e impegnarli in lavori più produttivi. Qualità però non
significa solo che il prodotto è privo di difetti per il consumatore. Qualità è anche lavorare
senza sprechi e senza costi economici aggiuntivi che possono essere eliminati. Infatti
l'insegnamento più profondo del modello giapponese sta nel collegare la qualità all'essenzialità.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

4. LE INTRISECHE AMBIGUITA’ DEL MODELLO GIAPPONESE: CON QUALI LIMITI È


ESPORTABILE?

Tra gli anni 80 e 90 in occidente è nato un dibattito sulle conseguenze sociali che ha provocato il sul
modello giapponese.
Il modello giapponese trae una doppia ambiguità dal fatto che un sistema produttivo che culmina:
 Just in Time è efficiente se le cose vanno
 Just in Time non è efficiente se sorge qualche intoppo.

Di conseguenza per poter funzionare al meglio:


 richiede un ambiente sociale collaborativo
 e una estrema dedizione al lavoro.
Un punto centrale nel dibattito aiuta a comprendere più da vicino le ambiguità.
Questo punto:
 riguarda la questione se il modo di lavorare del modello giapponese non sia che un taylorismo
 i lavoratori hanno interiorizzato oppure se superi realmente il taylorismo.
Nel superamento del modello giapponese non vi sono mansioni impoverite, né un controllo dall’alto:
 i lavoratori lavorano in gruppo, conoscono tutte le operazioni da compiere, si cambiano i ruoli e
collaborano per un miglioramento continuo.
 Chi critica il modello giapponese invece denuncia il sovraccarico di lavoro e l'assillo costante
delle direzioni all'eliminazione di movimenti inutili.
Le fabbriche giapponesi si propongano di essere più tayloriste del taylorismo stesso.
Tuttavia una giusta conoscenza del modello giapponese consente di comprendere che la stessa
raccomandazione sia di Taylor che dei giapponesi, ovvero di eliminare i movimenti inutili, non ha lo
stesso significato:
 Taylor si riferisce al comportamento fisico dell'operaio, e prescrive la sequenza dettagliata dei
suoi gesti.
 Il modello giapponese si riferisce invece al flusso sistemico della produzione.
I movimenti inutili da eliminare sono:
 da un lato quelli dei materiali (lo stoccaggio),
 dall'altro quelli degli operai costretti a spostarsi da un luogo all'altro per reperire
pezzi e utensili che devono essere a portata di mano.
 La disposizione fisica dei macchinari nello stabilimento ha un'importanza per
raggiungere la produzione snella.
Il modo di intendere la riduzione dei movimenti inutili:
 da un lato aiuta a comprendere la differenza tra Taylorismo e modello
giapponese,
 ma dall'altro lato non calma le apprensioni sull'intensificazione del lavoro nel
modello giapponese.
Al contrario Ohno ammette di non voler superare il Taylorismo ma di volerlo "pensare al contrario":
 Ohnoo ritiene che per ottenere il massimo rendimento bisognava attaccare il potere degli
operai non frantumandone le mansioni ma sovraccaricandoli di lavoro.
Per raggiungere questo obiettivo Ohno sostituì il principio dell'one best way (imposizione
dall'alto di metodi, tempi, gesti etc) con il principio della riduzione delle scorte.
 Dunque nel Taylorismo classico la standardizzazione è definita da un ristretto gruppo di esperti
ed è importa per via gerarchica alle maestranze;
 nel modello giapponese la standardizzazione è un obiettivo definito con il coinvolgimento
attivo di tutti ed è sempre migliorabile.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Oliver e Wilkinson notano un’altra ambiguità nella condizione di:
 fragilità dell'impresa in JIT: rinuncia alla sicurezza fornita dalle risorse eccedenti per avere
successo questo sistema richiede che tutte le risorse impiegate nel processo produttivo siano
prevedibili e affidabili.
In particolare occorrono lavoratori non solo flessibili ma anche disposti a prestazioni straordinarie
per affrontare una criticità.
Oliver e Wilkinson notano che questo requisito provoca due conseguenze ambivalenti:
 da un lato il JIT esige che i lavoratori siano asserviti alle esigenze produttive,
 dall'altro il suo successo dipende dalla disponibilità dei lavoratori a collaborare.
Infatti basta un rifiuto o un rallentamento perché gli effetti sulla produzione siano immediati.
Con il JIT dunque l'impresa fa una scommessa:
 sguarnendo le difese storiche erette contro la conflittualità vista come destino inevitabile della
produzione industriale.
Si ha così la prospettiva di un cambiamento dei rapporti umani in fabbrica.
Non è dunque possibile dare un giudizio univoco sul modello giapponese.
Esso supera il fordismo:
 sia sul piano della produzione che diventa flessibile
 sia sul piano umano dove il coinvolgimento dei lavoratori sostituisce i controlli burocratico.
 Ma ciò non significa che il lavoro diventi più libero e rilassato.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

5. LA VIA OCCIDENTALE ALLA PRODUZIONE SNELLA: UNA RICERCA ALLA FIAT


AUTO

Negli anni 90 alcune imprese europee dell’auto (Fiat, Ford, Renault, Peugeot, Volkswagen) hanno
imboccato la strada della produzione snella, con elementi comuni:
 esteso uso di tecnologie avanzate che consentono di evitare o attenuare lo sfruttamento
intensivo della manodopera praticato nel modello giapponese.
 la ricerca di accordi con il sindacato per il coinvolgimento consensuale della manodopera in
proposte di miglioramento.
 il ricorso a forme di organizzazione modulare della produzione adatte a gestire con rapidità e
flessibilità le anomalie di processo e prodotto.
 sensibili miglioramenti nei valori tipici della produzione snella.
Questi elementi consentono di parlare di una via occidentale alla produzione snella, che si
differenzia dalla via giapponese per il modo graduale con cui procede e per l'ibridazione con
approcci di altra origine.
La produzione snella dimostra che non vi è una sola via di uscita dal fordismo, ma ve ne sono due:
 LA VIA OCCIDENTALE CHE PRIVILEGIA LA TECNOLOGIA.
 LA VIA GIAPPONESE CHE PRIVILEGIA L'ORGANIZZAZIONE.
Tale duplicazione può essere rappresentata in un diagramma in cui:
 LA DIMENSIONE TECNOLOGICA: che può essere alta o bassa
 LA DIMENSIONE DELLA PRODUZIONE: che può essere snella o grassa.
Esistono 4 caselle:
 Casella 1: corrisponde alla fabbrica fordista tradizionale, con prodotti di massa e automazione
rigida.
 Casella 2: uscita occidentale dal fordismo, basata sulla convinzione che l'innovazione
tecnologica fosse l'unica strada per aumentare produttività e flessibilità.
 Casella 3: uscita giapponese dal fordismo, avvenuta con l'innovazione organizzativa dell'officina
minima.
 Casella 4: il secondo processo di allontanamento dal fordismo, in cui vi sono sia organizzazione
snella che innovazione tecnologica.
Alla quarta tappa si arriva sia da un percorso occidentale che da un percorso taylorista.
Il diagramma rappresenta il percorso compiuto dalla Fiat per arrivare a quella che è chiamata la
Fabbrica Integrata, termine con cui esprime la sua interpretazione di produzione snella.
La fabbrica integrata:
 non nasce per superare la produzione rigida fordista,
 ma per superare gli inconvenienti della Fabbrica ad Alta automazione, che originavano dal
contrasto tra le tecnologie avanzate e la formula organizzativa di tipo tradizionale.
Si compì il primo passo per superare questi inconvenienti quando nella Fiat le vecchie squadre di
produzione dell’epoca fordista erano state sostitute dalle UTE (Unità Tecnologiche Elementari), le
quali funzionavano come delle mini fabbriche dotate di tutte le risorse tecniche e umane necessarie
per svolgere in autonomia i compiti assegnati.
Un aspetto da tenere in considerazione riguarda le ragioni del consenso operaio alla realizzazione
della Fabbrica Integrata.
Questo è un punto importante, perché una fabbrica a produzione snella non può avere una
manodopera ribelle.
Verso la fine degli anni '80 la Fiat comprese:
 che l'Alta Automazione non era in grado a migliorare da sola la qualità del prodotto.
 Per raggiungere questo obiettivo era importante coinvolgere gli operai: solo così ci può essere
una produzione più snella e orientata anche alla qualità.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Ma come si poteva ottenere il loro consenso a lavorare in modo più impegnativo e a suggerire
miglioramenti?
 La risposta si trova nelle conseguenze della fase ad Alta Automazione con cui la Fiat cercò di
uscire dal fordismo.
Le grandi innovazioni tecnologiche:
 non portarono solo ad aumentare la produttività e la flessibilità,
 ma cambiarono anche il modo di lavorare in officina,
 migliorando le condizioni ambientali,
 aumentando la trasparenza del lavoro umano con i controlli incorporati nelle tecnologie,
 e rendendo le prestazioni più conformi agli standard in quanto le tecnologie lasciano meno
spazio alle variazioni umane.
Tali novità trasformano il dibattito sul superamento del Taylorismo:
 diminuire la fatica non significa aumentare i contenuti intelligenti nel lavoro.
Il caso Fiat dimostra che la tappa del neotaylorismo informatizzato è stata la premessa necessaria
perché qualche anno dopo diventasse possibile chiedere agli operai la loro intelligenza e i loro
suggerimenti.
Prima dell'automazione vi era una stretta connessione tra quantità del prodotto e quantità del
sforzo:
 in questa condizione gli operai si difendevano dallo sfruttamento e cercavano di custodire
gelosamente le astuzie con cui amministravano il lavoro quotidiano.

Il venir meno del nesso tra produzione e sforzo fisico pone le premesse affinché gli operai condividano
le loro astuzie, soprattutto se le aziende propongono incentivi in cambio.
 la Toyota ha puntato sul coinvolgimento umano e poi sulla tecnologia,
 la Fiat ha puntato prima sulla tecnologia e solo dopo ha scoperto l’importanza del
coinvolgimento umano (lo stesso percorso della Fiat è riscontrabile anche nelle case
automobilistiche prima citate).

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

6. OLTRE LA PRODUZIONE SNELLA: DALLA FABBRICA INTEGRATA ALLA FABBRICA


MODULARE
Nei primi anni 90 l'orientamento diffuso era che la produzione snella fosse il paradigma
consolidato nella produzione industriale e che avrebbe potuto essere solo migliorato.
Sulla base di tale ipotesi Bonazzi ha effettuato una ricerca negli stabilimenti Fiat, più precisamente
per esaminare il funzionamento delle UTE che sostituivano le vecchie squadre di produzione.
Le UTE funzionavano:
 come delle mini fabbriche dotate di tutte le risorse tecniche e umane necessarie per svolgere
in autonomia i compiti assegnati e quindi affrontare senza aiuti esterni le anomalie che
possono verificarsi nel processo produttivo.
 Oggetto di analisi della ricerca fu il comportamento di capi e tecnologi di 4 UTE diverse e il
metodo di analisi fu lo shadowing,
 ovvero l'osservazione diretta e prolungata della giornata lavorativa di capi e tecnologi e delle
azioni da loro svolte e il tempo impiegato per ogni azione.
 Scopo della ricerca era verificare se il lavoro di quelle persone consisteva soprattutto nel
tamponare le emergenze come accadeva nel fordismo oppure riuscivano a perseguire attività
di miglioramento continuo del processo produttivo come accadeva nel modello giapponese e
della fabbrica integrata.
 Dall'osservazione empirica emerse una differenza tra le UTE prese in esame.
 In particolare nei reparti di lustratura capi e tecnologi riuscivano e dedicare parte del loro
tempo alla ricerca di miglioramenti tecnici e organizzativi;
 nelle UTE di montaggio invece i capi erano ancora in larga presi della gestione di svariate
emergenze quotidiane.
Emergeva dunque una tendenziale biforcazione tra le UTE di lastratura e quelle di montaggio.
La ricerca si chiudeva con la domanda se quelle differenze dipendessero dalle diverse capacità delle
persone o dalle caratteristiche oggettive delle varie fasi del processo produttivo.
A prescindere dalla possibilità di rispondere al quesito, tale ricerca verificava luci e ombre della
Fabbrica Integrata nella concreta realtà.
Ben presto emersero novità che dimostravamo che il post-fordismo non è un modello produttivo
ma un processo di trasformazioni.
Ci riferiamo ai processi di terziarizzazione che si ebbero in tutte le imprese a cavallo tra il 20° e il 21°
secolo.
Per terziarizzazione:
 si intende la cessione ad imprese esterne, di fasi e di servizi integranti del processo produttivo
che si svolgono in siti appartenenti all’impresa madre.
 La conseguenza ė che fabbriche e uffici che in passato appartenevano a una sola impresa
diventano un "condominio" di più imprese che convivono impegnandosi in un progetto
comune.
 I contributi delle varie imprese sono anche detti moduli e la fabbrica così organizzata viene
chiamata Fabbrica Modulare.
In alcuni settori come:
 quello automobilistico e
 quello informatico
la terziarizzazione è ritenuta la risposta più efficace all'effetto combinato di due tendenze:
 compresenza nel medesimo bene di diverse componenti frutto di tecnologie e competenze
diverse tra loro.
 necessita di invertire la decrescente redditività dei capitali investiti.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Per spiegare, gli investimenti negli anni 80 e 90 hanno avuto una redditività modesta o a volte
anche inferiore rispetto ai capitali investiti.
Ciò ha spinto le imprese a cercare un aumento della redditività concentrandosi sulle attività
individuate come propria competenza essenziale (core competence).
Le attività non core:
 vengono cedute insieme agli impianti necessari ad altre imprese per cui quelle attività sono
core.
Le imprese subentranti tuttavia non sino vincolate a servire solo l'impresa madre con gli impianti da
questa ceduti, ma una volta soddisfatti gli impegni previsti da contratto possono servire anche altri
clienti.
Tra le dirette conseguenze di questo cambiamento vi è che:
 la gerarchia della fabbrica modulare deve imparare a far funzionare il sistema produttivo non
solo mediante ordini ma anche mediante
 la gestione di contratti stipulati con le imprese terze.
Per capire come questo principio funzioni nella realtà, Bonazzi ha fatto una nuova ricerca presso gli
stabilimenti Mirafiori di Fiat Auto.
Emerge una realtà differenziata:
 vi sono casi di collaborazione con imprese esterne che non pongono problemi,
 altri che invece danno luogo a continue controversie tra le imprese coinvolte.
La difficoltà dipende dal grado di intreccio delle attività e dalla complessità dei rapporti lavorativi tra i
dipendenti delle diverse imprese che si trovano a
collaborare.
La ricerca conferma che uno dei maggiori problemi organizzativi della Fiat Auto negli ultimi anni è stato
come innestare la Fabbrica Modulare su quella integrata senza traumi.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

8 CAPITOLO MAX WEBER: LA BUROCRAZIA COME APPARATO DEL POTERE


LEGALE.

1. LA “SOCIOLOGIA COMPRENDENTE”. OGGETTO E STRUMENTI DELLA RICERCA


SOCIOLOGICA

Nel 20 secolo, Weber, espone il problema che era al centro del dibattito tra:
 POSITIVISTI: ritenevano che bisognava ricondurre le scienze sociali al modello delle scienze
naturali, in modo che esse spetti il compito di scoprire le regole universali che presiedono allo
sviluppo della società umana.
 STORICISTI: ritenevano che non vi sono leggi del divenire umano è che ciò riguarda l’uomo va
studiati col metodo storico, senza stabilire tendenze universali.
era l’oggetto di conoscenza delle scienze storico sociali e quale metodo bisognava adottare.
Weber rifiuta il positivismo e riformula la tesi storicistica.
Weber:
 ritiene che non esistano leggi universali nella storia umana, ma si discosta anche dalle tesi
storicistiche che,
 affermando il carattere unico e irripetibile dei fenomeni umani, negano alla sociologia uno
spazio autonomo rispetto alle discipline storiche.
Infatti il fatto che non esistano leggi universali che presiedono allo sviluppo della storia umana non
significa che l'unica conoscenza possibile sia quella di singoli eventi storici.
È possibile fare anche:
 generalizzazioni e confronti sistematici di epoche storiche,
 forme di governo,
 convinzioni religiose etc.
Secondo Weber la sociologia studia:
 l’agire dotato di senso: definito come l’atteggiamento umano a cui l’individuo che agisce
attribuisce un suo senso soggettivo, in riferimento all’atteggiamento di altri individui.

L’AGIRE SOCIALE di una o più persone in modo da pervenire a conclusioni il più possibile oggettive e
hanno lo scopo per la sociologia quello di:
 COMPRENDERE: significa rendere evidente il senso di un dato agire umano;
 SPIEGARE: significa trovare le cause che si suppone abbiano provocato quell’agire.
 I concetti di “comprendere” e “spiegare” non si contrappongono, ma devono integrarsi in un
unico processo di “spiegazione comprendente”, dove le relazioni di causa diventano anche
relazioni di senso.
 La spiegazione comprendente: deve fare riferimento alle cause oggettive che hanno indotto gli
individui ad agire in quel modo, sia alle motivazioni soggettive che gli individui danno al loro
agire.
La spiegazione comprendente si avvale di due metodi:
 Metodo individualizzante, usato dagli storici per la ricostruzione dei singoli eventi oggetto di
studio,
 Metodo generalizzante, che consente giudizi generali e confronti tra le varie forme dell’agire
sociale.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

2. L’AGIRE DOTATO DI SENSO


Affermare che l'oggetto della sociologia è l'agire sociale dotato di senso significa definire che cosa
fa parte del suo campo di interesse.
Lo scopo della sociologia non è quello di pervenire a dati statistici di eventi considerati.
Le statistiche aiutano:
 la comprensione sociologica in quanto indicano al ricercatore le condizioni in cui avviene un dato
agire dotato di senso o le conseguenze che da esso derivano.
Esse vengono considerate come conoscenze strumentali e ausiliarie che specificano il campo dei fenomeni
da spiegare.
Stabilito che l'oggetto della sociologia è l'agire dotato di senso,

Secondo Weber i fondamenti di tale agire sono:


 AGIRE RAZIONALE RISPETTO ALLO SCOPO:
il soggetto agisce in un modo che ritiene razionale al fine di un determinato scopo nel mondo
esterno, valutando costi e benefici della propria decisione.
Ciò è alla base dell’agire capitalistico inteso come accumulazione metodica, continua e illimitata di
capitale al solo fine di creare altro capitale, escludendo ogni emotività in quanto disturba con il
perseguimento dello scopo;
le decisioni devono essere prese in base a puri e freddi calcoli di costi e benefici.
 AGIRE RAZIONALE RISPETTO AL VALORE:
in questo tipo di agire, il soggetto agisce razionalmente accettandone tutti i rischi non per
conseguire un risultato estrinseco, ma per rimanere fedele al valore che egli reputa assoluto e
preminente.
 AGIRE AFFETTIVAMENTE:
questo tipo di agire è determinato da impulsi, emozioni e sentimenti.
Il senso dell'agire non è un risultato estrinseco o un valore da testimoniare, ma ė la soddisfazione di
un bisogno.
 AGIRE TRADIZIONALMENTE:
questo tipo di agire viene posto in atto dal soggetto che agisce in base alle proprie abitudini.

L'individuazione di queste determinanti dell'agire pone la necessità di alcune precisazioni.

1. I tipi di agire individuati da Weber sono delle distinzioni analitiche che permettono di vedere come l'agire
umano delle singole persone può essere ricondotto a una o a un'altra determinante.
Questi 4 fondamenti dunque designano dei tipi puri o tipi ideali di azione, che nel comportamento effettivo e
osservabile di un soggetto sono sempre mescolati anche se talvolta prevale un tipo d’azione rispetto alle
altre.
Alcuni tipi di agire possono essere allo stesso tempo razionali rispetto allo scopo e al valore: es. uno
scienziato è razionale rispetto allo scopo di valutare una determinata ipotesi e rispetto al valore di
testimoniare amore per le verità.
2. L'agire razionale rispetto allo scopo può essere anche del tutto irrazionale rispetto al valore. Il contrasto tra le
due razionalità emerge quando lo scopo che si persegue razionalmente è privo di senso o quando è
addirittura in totale contrasto con il valore (es: sterminare razionalmente una popolazione).
Weber sostiene che tra tensione tra questi due tipi d’azione caratterizza l’epoca moderna, conferendo
mancanza di senso ultimo alle conquiste umane.
3. La razionalità dell’agire è definita in base alla valutazione del soggetto che agisce.
Dunque se un soggetto adotta un rituale magico per avere un vantaggio, quello è agire razionale rispetto allo
scopo, nonostante il rituale sia lontano dalla razionalità scientifica.
4. L’individuazione dei tipi puri di agire è necessaria per capire il senso che i soggetti danno al loro agire
rispetto alle istituzioni che operano nella vita sociale.
I tipi puri dunque forniscono un'indicazione sul percorso da seguire per analizzare le istituzioni formali:
queste devono essere studiate non come strutture in sé, ma sempre in riferimento all'agire sociale delle
persone che hanno contatti con esse.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

3. IL TIPO IDEALE
La base su cui Weber fonda la specificità del sapere sociologico rispetto a quello storico è la
possibilità di fare generalizzazioni e confronti:
 ciò è possibile attraverso la costruzione dei tipi ideali.
Nella realtà storico-sociale non esistono i tipi ideali:
 in quanto sono soltanto delle costruzioni mentali,
 punti di riferimento che l’uomo costruisce a suo rischio per potersi accostare alla realtà e
conferirle un senso comprensibile se pur limitato.
I tipi ideali individuano uniformità di comportamento e vengono utilizzati per poter fare connessioni e
confronti.
La costruzione di un tipo ideale consiste in un procedimento di astrazione composto da tre fasi:
a. seleziona gli elementi che appaiono più significativi e caratterizzanti;
b. trascura gli elementi che appaiono accidentali e irrilevanti;
c. collega tra loro gli elementi selezionati e li coordina in un quadro privo di contraddizioni.
Il tipo ideale così costruito è sempre un concetto-limite e trova la sua giustificazione nell’essere un
modello concettuale orientativo per la ricerca: riscontra delle uniformità di comportamento e
permette di fare comparazioni.
Si possono creare un numero indefinito di tipi ideali a seconda delle esigenze di ricerca.

4. PROCEDIMENTI CONCRETI DI COSTRUZIONE DEL TIPO IDEALE


Per quanto riguarda il procedimento con cui Weber costruisce i tipi ideali:
 per prima cosa parte da una definizione del modello tipico-ideale in termini formali, giuridici e
istituzionali.
 Tale definizione viene raggiunta mediante un'elencazione dei requisiti sociali che a suo parere sono
le caratteristiche fondamentali del modello in questione.
Nella costruzione di un tipo ideale, Weber considera inoltre due elementi:
 le condizioni economiche e tecniche che rendono possibile la comparsa storica delle realtà da lui
sussunte sotto il tipo ideale.
 le implicazioni che derivano per tutti i soggetti interessati a livello di conseguenze sociali ed
economiche.
Per Weber, l’essenza del lavoro sociologico sta nell’incessante dialettica tra:
 la definizione dei tipi ideali
 e la loro critica in rapporto all’osservazione concreta della realtà.
Dunque da considerazioni formali che ne definiscono la cornice:
 si passa a connotazioni sempre più specifiche di ordine tecnico, culturale, psicologico sull'agire
sociale dei soggetti viventi in condizioni riconducibili a quel tipo.
Ma proprio l'arricchimento delle connotazioni di un tipo ideale porta ad ammettere una serie di
varianti dello stesso tipo ideale.
Infatti non appena Weber fornisce una definizione generale di un tipo ideale, si affretta a precisare che in
certe circostanze storiche alcune di quelle qualità non appaiono, ne appaiono altre etc.
Questo modo di procedere comprende:
 sia giudizi che tengono a generalizzare
 e sia giudizi che tendono a individualizzare:
i due tipi di giudizio non si contraddicono, in quanto solo dopo aver generalizzato alcune condotte il loro
insieme risulta individuato rispetto ad altri tipi e sottotipi ideali.
Da questo modo di procedere si ha un'importante conseguenza:
 si possono trascurare le difformità dei comportamenti reali rispetto al modello, a meno che tali
decisioni non formano a loro volta una uniformità di comportamento tanto rilevante per la ricerca
da rendere necessaria la definizione di un nuovo tipo ideale.
 Per Weber infatti l'essenza del lavoro sociologico consiste nella continua dialettica tra la definizione
di tipi ideali e la loro critica in rapporto all'osservazione della realtà.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

5. I TRE TIPI PURI DEL POTERE LEGITTIMO


Per comprendere il pensiero di Weber sulla burocrazia occorre collocarlo nel quadro più generale
della teoria del potere.
Weber definisce:
 il potere come la possibilità per specifici comandi di trovare obbedienza da parte di un
determinato gruppo di uomini.
Bisogna fare delle precisazioni:
 Ogni potere può essere studiato partendo dalle relazioni specifiche di comando e obbedienza
che legano dare persone, avendo cura di stabilire anche le circostanze in cui si attiva il rapporto
di potere.
 Ogni potere inoltre richiede un apparato amministrativo di uomini di fidata obbedienza che
servano da tramite tra superiore e sottoposti.
 Ogni potere per essere esercitato in maniera continuativa e regolare richiede di essere
legittimato e che i sottoposti credano nella sua legittimità.
Tale punto è importante perché Weber distingue il potere legittimo da atti puramente arbitrari volti
ad ottenere obbedienza con la forza.
Inoltre l'esercizio di un dominio sulla base della forza è comunque eccezionale, in quanto se si protrae
nel tempo cercherà comunque di darsi una legittimazione.
Il tipo di legittimazione richiesta dall'esercizio continuativo del potere diventa il criterio in base al
quale Weber distingue tre tipi puri di potere, che non si trovano mai allo stato puro della realtà:
 tuttavia si possono ravvisare nei concreti rapporti di potere delle caratteristiche che li
avvicinano a uno o all'altro tipo.
 Ogni tipo di potere richiede un apparato amministrativo con caratteristiche specifiche e ha
alcuni fattori di instabilità e crisi.

Questi tre tipi di potere sono:

 POTERE CARISMATICO.

Per carisma si intende una qualità eccezionale attribuita a una persona che per tanto viene
riconosciuta come capo.
I seguaci giustificano la loro disponibilità all'ennesima incondizionata e a volte totale in base
alle qualità eccezionali del capo.
Il potere carismatico non per forza però è durevole, in quanto ha bisogno di continue
conferme, altrimenti rischia di scomparire.
Il potere carismatico è irrazionale nel senso che manca di regole ed è rivoluzionario in quanto
rovescia il passato.
Esso nasce da una rottura radicale con le istituzioni vigenti e si afferma come predicazione di
un ordine nuovo o come ritorno alle origini di un’istituzione di cui si accusa la progressiva
degenerazione nel corso del tempo.
L’apparato amministrativo del potere carismatico è rudimentale, formato discepoli, uomini di
fiducia che stanno a contatto con il loro capo carismatico in quanto gli son stati vicini nelle
prove più ardue o hanno dato prova di dedizione ed eroismo.
Tali seguaci non ricevono stipendi né benefici.
Il rischio tipico del potere carismatico puro, è che a seguito della morte o del ritiro del capo, e
successivamente dell’elezione del nuovo capo, il carisma finisca per diventare un potere
burocratico-tradizionale.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
 POTERE TRADIZIONALE.

Il potere è tradizionale quando la sua legittimità è accettata sulla base di antichi ordinamenti e
poteri di signoria.
Dunque il capo ė determinato in base a regole tradizionali, e non può avere qualità specifiche
di comando.
Nonostante ciò i sottoposti sono tenuti a obbedienza in virtù di ciò che rappresenta per la
tradizione.
Il potere tradizionale ha conosciuto due forme tipiche prevalenti:
 La forma patrimoniale, in cui il sovrano ha il diritto di comando su qualsiasi subordinato
e il diritto di proprietà su qualsiasi cosa appartenente ai suoi sottoposti, che sono
sudditi e non cittadini.
I funzionari dell’apparato amministrativo dipendono dal sovrano per una
remunerazione e sono al suo servizio personale.
 La forma feudale, in cui l’apparato amministrativo gode di un’ampia autonomia nei
confronti del sovrano, e non sono dipendenti personali ma alleati uniti da un
giuramento di fedeltà.
Essi possiedono un proprio dominio amministrativo che viene trasmesso in eredità
(feudo), non dipendono dal signore, ma sono tenuti a fornirgli risorse tratte dal feudo.
Il rischio tipico del potere tradizionale è l’instabilità, in quanto tale potere è sempre
minacciato dall’insorgere del carisma locale di capi che si ribellano alla tradizione.

 POTERE LEGALE.

La legittimazione di questo tipo di potere si basa sul presupposto della credenza nell'equità
della legge.
Nel potere legale si obbedisce al superiore perché si presume che egli eserciti la carica in virtù
di una nomina legale, che sia competente e che i suoi comandi siamo conformi agli
ordinamenti legali.
Si presume inoltre che questi ordinamenti siano stati istituiti razionalmente rispetto a un
determinato valore o scopo, che costituiscano un insieme di regole universali e non emanate
per regolare casi specifici con intenti arbitrari, e che anche il detentore del potere sia tenuto a
rispettare quegli ordinamenti.
L’apparato amministrativo tipico è la burocrazia.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

6. ESSENZA, PRESUPPOSTI E SVOLGIMENTO DEL POTERE BUROCRATICO

Weber esamina i principi e i modi di funzionamento di una burocrazia moderna intesa:


 sia come amministrazione pubblica
 che come impresa privata.
Una burocrazia comporta:
1. Il principio della competenza di autorità definite, disciplinata da leggi e regolamenti
amministrativi.
2. Ciò significa che la burocrazia presuppone sempre una stabile divisione dei
doveri e dei poteri di ufficio che vanno esercitati secondo norme previste.
3. Il principio della gerarchia degli uffici, cioè un sistema rigido di sovra e subordinazione degli
organi di autorità con poteri di controllo dei superiori sugli inferiori.
4. Il segreto di ufficio, cioè la conservazione di tutti gli atti relativi al funzionamento dell’apparato
burocratico e che è rigidamente separato dalla vita privata dei funzionari.
5. Una preparazione specializzata, che mette i funzionari in una posizione privilegiata rispetto ai
non addetti ai lavori.
6. L'esercizio di un’attività a tempo pieno da parte di chi vi lavora.

Tali caratteristiche implicano delle conseguenze sulla posizione interna ed esterna dei funzionari:
1. L’ufficio è una professione e pertanto è necessario aver conseguito un corso di studi, prove di
qualificazione come condizioni preliminari per l'assunzione o passaggio a mansioni superiori,
ed essere fedeli all’ufficio, cioè leali ad uno scopo oggettivo impersonale e obbedienti ai
superiori.
2. La condizione di funzionario si accompagna a un prestigio di ceto, rilevante nei confronti dei
dominati.
3. La carica ha durata vitalizia e si configura in una carriera che porta il funzionario a ricoprire
posizioni sempre più alte per motivi di merito e anzianità.
4. La carica è ricompensata da uno stipendio monetario fisso pagato dall’amministrazione per cui
lavora il funzionario.
Nella burocrazia pura infatti il funzionario non riceve compensi economici
dagli utenti dell'organizzazione, ma questi pagano l'amministrazione che a sua volta paga il
funzionario tramite stipendio.
5. Il funzionario non possiede gli strumenti del suo lavoro, ma gli sono dati in dotazione
dall'amministrazione.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

7. CONDIZIONI STORICHE DELLO SVOLGIMENTO DELLA BUROCRAZIA

Le caratteristiche citate definiscono la forma pura della burocrazia moderna, ma Weber individua
manifestazioni imperfette di burocrazia nei grandi imperi dell'antichità.
Per Weber vi sono due condizioni che resero possibile il sorgere di quegli apparati:
 Prima di tutto lo sviluppo di un’economia monetaria è la premessa indispensabile per la
costituzione di una burocrazia,
e la comparsa di un ceto di funzionari liberi e remunerati ad hoc a cui affidare lo svolgimento di
determinati compiti.
 Poi l'esistenza di problemi tecnici da risolvere è a sua volta il presupposto materiale che
sollecitò la creazione di apparati amministrativi dotati di caratteristiche burocratiche.
Weber parla delle burocrazie degli antichi stati imperiali come burocrazie patrimoniali, dove i
funzionari sono dignitari nominati non solo in base alla competenza ma anche in base al censo e
alla nascita, e remunerati col prelievo legale di tangenti sui servizi pagati dai sudditi:
 si trattava di forme miste di potere legale e tradizionale.

Le ragioni storiche del processo di burocratizzazione sono indicate da Weber in due fattori
principali:

1. LA SUPERIORITÀ TECNICA DELLA BUROCRAZIA.


Weber pone a confronto la burocrazia rispetto alle amministrazioni pre burocratiche
tradizionali.
Dal confronto emerge la superiorità della burocrazia moderna rispetto a strutture che
funzionavano senza tener conto di criteri di efficienza, oggettività e precisione.
Inoltre nella burocrazia le inefficienze possono essere denunciate poiché ci sono norme che
prevedono delle sanzioni, mentre nelle amministrazioni burocratiche non vi erano norme che
definissero efficienza e obiettività.
La superiorità della burocrazia dunque deriva dal fatto di ispirarsi al principio della razionalità
rispetto allo scopo: ciò fa sì che gli atti burocratici siano più efficienti, economici, prevedibili e
oggettivi.
2. AVVENTO DELLA DEMOCRAZIA DI MASSA.
La burocrazia moderna è anche un effetto della democrazia di massa.
Questa affonda le radici nel moderno stato di diritto, che trasforma le persone da sudditi a
cittadini e sancisce il principio di uguaglianza di fronte alla legge.
Il principio di uguaglianza è infatti incompatibile con le amministrazioni pre-burocratiche
basate sull'esistenza di privilegi e non tenute a rispondere dei propri atti.
L'apparato conforme ai principi dello stato di diritto è la burocrazia, poiché solo questa è in
grado di garantire a tutti i cittadini trattamenti uguali e prevedibili secondo le norme.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

8. LE AMBIVALENZE DELLA BUROCRAZIA


Il riconoscimento della superiorità tecnica della burocrazia non significa che Weber giunga a
conclusioni ottimistiche sulle prospettive aperte alla burocrazia stessa.
Egli infatti sottolinea anche le ambivalenze della burocrazia, il rischio che gli elementi citati come
fattori di superiorità si trasformino in minacce per l'uomo.

Weber esamina tre aspetti delle ambivalenze della burocrazia:


1. BUROCRAZIA E POLITICA.
La burocratizzazione dello stato è lo strumento con cui viene soddisfatto il primo aspetto della
democrazia, ma lo sviluppo della burocrazia contiene elementi che ostacolano la democrazia
come partecipazione.
La burocrazia infatti difende la propria autonomia da interferenze esterne mediante la
riservatezza:
 quest’ultima si esprime in avversione alla pubblicità e alle indagini, al ricorso del
segreto di ufficio contro chi dall’esterno vorrebbe conoscere strutture e modi di
procedere.
 In tal modo si difende da critiche esterne e trova il modo di sottrarsi al controllo
dell’autorità politica.
Weber nota infatti che il politico deve ricorrere alla burocrazia per ottenere le informazioni
riguardando il suo campo d'azione, e dunque la burocrazia condiziona profondamente l'azione
del politico.
Infatti sorgono tensioni quando il potere politico intende arrivare programmi innovativi volti a
disturbare in qualche modo la silenziosa onnipotenza della burocrazia.
La burocrazia al servizio del potere politico diventa essa stessa un’istituzione di potere dotata
di suoi interessi e di sue logiche di conservazione.
Il fatto che un’unica persona abbia tutto il potere nelle proprie mani aggrava la sua dipendenza
dall’apparato burocratico.

2. BUROCRAZIA E SPERSONALIZZAZIONE.
La burocrazia è tanto più perfetta quanto più rende i rapporti impersonali ed anonimi
escludendo sentimenti e risentimenti.
Ma tale obbiettivo non può essere raggiunto senza pagare costi umani.
Infatti l'organizzazione burocratica richiede ai suoi dipendenti di limitare la libera espressione
della propria personalità, e di conseguenza di essere affettivamente neutrali di fronte agli
ordini superiori.
Ciò porta all'esecuzione di qualsiasi comando che sia formalmente legale, e ciò è un problema
in caso di ordini di sopraffazione o morte.

3. BUROCRAZIA E RAZIONALITÀ.
L'epoca moderna ė caratterizzata da un contrasto tra la tendenza a una sempre maggiore
razionalità rispetto allo scopo e la richiesta di una razionalità secondo il lavoro.
La razionalità secondo lo scopo può essere vista come espressione della diffusione di una mentalità
scientifica e di "disincantamento" rispetto al sacro.
La scienza contribuisce a disincantare il mondo con lo svanire di vecchie credenze, ma non è in
grado di offrire all'uomo nuovi valori e scopi.
La scienza offre all’uomo soltanto la conoscenza fisica del mondo, lo aiuta a conquistare la natura,
ma non può dirgli in cosa credere e dove dirigere le sue forze.
Di conseguenza, la vita moderna secolarizzata, tecnologica e burocratizzata diventa sempre più
razionale e al tempo stesso sempre più ansiosa di alcune certezze che ineriscano al piano della
razionalità rispetto ai valori.
Tale angoscia spiega la comparsa di nuovi movimenti carismatici.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

12 CAPITOLO MICHEL CROZIER: SISTEMA BUROCRATICO E STRATEGIE DEGLI


ATTORI.
1. LE PRINCIPALI NOVITA’ TEORICHE DEL MODELLO DI M. CROZIER
Michel Crozier cambia:
 l'analisi della burocrazia,
e la materia principale diventa:
 la burocrazia della amministrazione pubblica,
e tra gli autori con cui interloquisce ci sono:
 non solo Weber e i post Weberiani,
 ma anche Taylor e le Relazioni Umane.
Tra gli aspetti fondamentali del suo percorso di ricerca vi sono:
 INTERPRETAZIONE PEGGIORATIVA DEL TERMINE BUROCRAZIA:
Crozier si discosta dal significato Weberiano della burocrazia come modello tipico ideale di
amministrazione razionale, dando al termine un significato peggiorativo, che evoca la lentezza,
la pesantezza e la complicatezza di un apparato poco efficiente.
Inoltre per Crozier la burocrazia è un'organizzazione incapace di correggere i propri errori.
Quelle che per i funzionalisti sono le conseguenze inattese della burocrazia che in teoria
dovrebbe funzionare razionalmente rispetto allo scopo, per Crozier diventano componenti
tipiche della burocrazia stessa.
 ANALISI STRATEGICA DEI COMPORTAMENTI BUROCRATICI:
Per comprendere come funziona un'organizzazione burocratica non ci si può limitare alla
conformità dei comportamenti rispetto ai precetti razionali come ritiene Taylor, ma per Crozier
bisogna studiare le strategie degli attori nei rapporti reciproci quotidiani entro il quadro delle
regole formali dell'organizzazione.
Crozier così modifica anche il punto di vista dell'analisi funzionalista, in quanto studiare le
funzioni di un sistema burocratico è importante, ma a patto di vederle come effetto di strategie
che i soggetti attuano all'interno di quel sistema.
 POTERE COME CONTROLLO DEI MARGINI DI INCERTEZZA:
in un sistema burocratico dove tutto deve essere impersonale e prevedibile si sfuoca la
definizione Weberiana di potere come possibilità legittimata di avere obbedienza a uno
specifico comando.
Il potere diventa infatti la capacità di difendere margini di libertà di scelta e rendere la propria
condotta in qualche modo imprevedibile agli altri.
Solo questo è il modo in cui si conquista una posizione di vantaggio rispetto a cui non dispone
di quei margini di libertà.
 IMPORTANZA DEI MODELLI CULTURALI NAZIONALI:
La storia di una nazione plasma la personalità e cultura dei soggetti, il comportamento e le
istituzioni politico-amministrative.
Per studiare adeguatamente una burocrazia occorre quindi sempre tener presente i tratti
nazionali specifici del paese in cui agisce quella burocrazia.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

2. L’ESAME DI DUE BUROCRAZIE STATALI

La domanda da cui Crozier prende le mosse nasce da un tratto caratteristico della sociatà moderna,
l’avvento delle grandi organizzazioni.
Crozier è interessato ad alcuni aspetti che sono:
 La sicurezza,
 La regolarità,
 L’impersonalità del funzionamento.

Crozier analizza due organizzazioni statali:

 ISTITUTO PARIGINO DI CONTABILITÀ DIPENDENTE DAL MINISTERO DELLE FINANZE:

Nell’istituto contabile parigino:


 il lavoro è svolto da personali quasi tutto femminile,
 ed è regolare,
 omogeneo e autonomo,
 ovvero ogni gruppo compie le stesse operazioni senza cooperare con altri.
I carichi di lavoro sono definiti una volta per tutte sulla base del numero di clienti affidato a
ogni gruppo, e se al termine della giornata il lavoro non è finito si fanno gli straordinari.
I compiti della dirigenza sono:
 garantire la regolarità del servizio, far osservare la disciplina;
 ripartire i carichi di lavoro secondo prassi consolidate;
 segnalare al Ministero le necessità dell’istituto.
Il dominio di regole impersonali e i limitati compiti della gerarchia delineano una situazione:
 rigida,
 semplificata e con poche tensioni,
 anche se con scarse comunicazioni
 e scarsi contatti sociali.
Ciò provoca varie conseguenze:
 i dipendenti danno all’istituto lo stretto necessario previsto dal regolamento e
sviluppano all’esterno del lavoro tutta la loro vita sociale.
 dentro l’istituto la mancanza di rapporti sociali reali è data da condotte
conformistiche, e le diverse categorie tendono a isolarsi l'una dall'altra mantenendo
solo rapporti formali di cortesia: si cerca di evitare qualsiasi conflitto aperto con i
superiori e gli inferiori diretti.
 lo stile di conduzione aziendale, impersonale e autoritario ottiene dagli impiegati basso
assenteismo ed elevata intensità di lavoro, anche se a livello di sistema vi è scarsa
efficienza complessiva.
Non esistono strumenti tecnici né possibilità impreditive per migliorare l’istituto.
 tra le impiegate l’insoddisfazione si esprime nel forte avvicendamento annuo e nella
bassa anzianità aziendale.
Ovvero si lavora in modo disciplinato ma si va via dopo poco tempo.
Tra i dirigenti intermedi invece le frustrazioni dovute a lunghi anni di servizio senza
responsabilità importanti e senza riconoscimenti di merito trovano una rivalsa nella
sicurezza di impiego e nella libertà personale.
Per leggere dunque la vita dell'istituto ci si deve concentrare sulla ripugnanza che a
tutti i livelli i membri dell'organizzazione provano per situazioni che li porrebbero in
condizionando dipendenza e controllo diretto da parte dei livelli superiori.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
 UN MODELLO DI PRODUZIONE INDUSTRIALE:

Una situazione più complessa si trova nel monopolio industriale.

Nel monopolio industriale il posto di lavoro:


 è garantito a vita,
 le retribuzioni sono egualitarie
 e vige il principio generale di anzianità.
 Anche qui la produzione è fissata non su criteri di mercato ma per via amministrativa da un
ufficio ministeriale,
 e la maggior parte del personale è di sesso femminile con la gerarchia in mano agli uomini.
A differenza dell’istituto:
 vi è il sindacato che esercita un ruolo notevole per il generale livellamento secondo principi
egualitari di anzianità.
I quadri intermedi sono la componente più frustrata.
La rigida applicazione del principio di anzianità subordina i criteri di merito e toglie ai capi la
discrezionalità del disporre dei dipendenti.

La maggior parte dei capi intermedi vengono così ridotti:


 a semplici guardiani delle norme,
 privi di reali competenze,
 e si adeguano rassegnati alla subcultura operaia.

Anche la direzione svolge un ruolo di basso profilo:


 non ha competenza su campi che la qualificherebbero strategicamente.
 Gli obiettivi sono fissati dall'esterno,
 i metodi di produzione sono stabili,
 non si può assumere e licenziare liberamente,
 e non si possono assegnare liberamente i posti di lavoro dal momento che vice il principio
di anzianità.
 L’unica iniziativa lasciata alla direzione è la costruzione di nuovi padiglioni e la sistemazione
di quelli esistenti. L
 a logica che ispira l'intero organismo, ovvero ridurre al minimo i poteri personali lungo la
linea gerarchica, ha portato a un accertamento delle responsabilità al vertice del
monopolio.
Questa centralizzazione ha portato a uno svuotamento dell'autorità, con una lontananza della
direzione dai dipendenti.
Il direttore può solo concedere periodi di ferie, abbuoni sui tempi di lavorazione quando il
materiale da trattare è scadente e cercare di ottenere dall’esterno materia migliore.
Con un basso profilo il direttore può ancora raggiungere i suoi fini, ma a patto che siano molto
limitati e non provochino l'ostilità dei sindacati.
Di maggiori poteri godono gli ingegneri di produzione, anche se dipendono formalmente dal
direttore.
La loro competenza tecnica li mette in una posizione privilegiata, creando però anche notevoli
occasioni di conflitto con gli altri membri della direzione.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Anche se le attività svolte dall'istituto contabile e dal monopolio industriale sono differenti, i
tratti comuni dei due organismi sono:
 dominio di regole impersonali e astratte e diffusa debolezza gerarchica;
 mancanza di contatti organici tra le varie categorie professionali e tendenza di queste a
diventare dei compartimenti stagni;
 mancanza di competizione in termini di competenza professionale;
 diffusa incapacità di mutamento, di adattamento al nuovo.
 Quando i valori principali in un luogo di lavoro sono la giustizia è l'equità, diventa
difficile potersi impegnare in un programma di rinnovamento e progresso, poiché la
paura di leder quei due principi porta alla conservazione degli equilibri esistenti.
Il quadro di Crozier dunque è diverso da quello di Weber.
Weber descrive la burocrazia:
 come un apparato potente, efficiente e razionalmente orientato allo scopo;
 la pericolosità della burocrazia sta nella sua possibilità di servire qualunque scopo senza
porsi problemi di valori, con i dipendenti che non si pongono il problema del significato
etico di ciò che fanno.
Crozier invece la pone come:
 un apparato impersonale e privo di carisma, rigido, inefficiente e meschino.
 Essa nasce come organismo rigido e privo di fascino ma che concede a chi le sa sfruttare
nicchie di indipendenza privata.

3. IL POTERE COME CONTROLLO DEI MARGINI DI INCERTEZZA


Crozier costruisce un modello del fenomeno burocratico in cui tutti gli aspetti prima elencati sono il
risultato dell'interazione tra:
 i vincoli posti dal sistema
 e le logiche di azione dei soggetti.
Crozier fa delle importanti considerazioni sul taylorismo.
Il taylorismo è un progetto razionalistico integrale in base al quale ogni procedura deve essere
standardizzata secondo il criterio dell’one best way:
 in versione tecnocratica
 ed efficientistica si presenta come una burocrazia perfetta.
Crozier osserva che ciò è anche un’utopia, è la ragione si coglie riflettendo su ciò che accadrebbe nei
rapporti sociali se tale utopia fosse realizzata.
Se infatti ciò fosse realizzato la discrezionalità sarebbe soppressa:
 nei ruoli esecutivi
 e nei ruoli collocati lungo la catena gerarchica.
Ognuno avrebbe un percorso predeterminato da compiere, e le scelte sarebbero abolite.
In una tale situazione limite la predeterminazione impersonale del ruolo coinciderebbe con la
dissoluzione dei rapporti di dipendenza gerarchica personale.
Nella realtà tuttavia esistono:
 sempre dei margini,
 situazioni in cui le procedure previste non sono sufficienti,
 e persone che non è possibile ricondurre a comportamenti predeterminati.
Nel monopolio industriale studiato da Crozier regna:
 l’ideologia razionalistica di eliminare ogni rapporto di potere personale,
 di trovare soluzioni uniche e rigorose secondo regole precise;
 dall'altro lato però nelle aree come la manutenzione dove il comportamento degli addetti non
è facilmente prevedibile si è sviluppata una rete di negoziazioni e pressioni interpersonali.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Una conseguenza inattesa dei processi di razionalizzazione nelle grandi organizzazioni moderne è che
la prevedibilità del comportamento diventa una prova di inferiorità.
Chi invece riesce a conservare aspetti non prevedibili dell'esplicazione del suo ruolo è in una posizione di
superiorità.
Dunque l'imprevedibilità:
 è libertà
 ma anche potere.
Quanto più rigida è la gabbia burocratica, tanto più gli atti umani che sfuggono alla predeterminazione
assumono significato di potere.
Crozier fa un esempio:
 quella che per A è la discrezionalità di scegliere il suo comportamento,
 per B è un elemento di incertezza nel prevedere il comportamento di A.
 Dunque il potere che ha A su B dipende dal grado con cui A riesce a prevedere il comportamento di
B, ma B non quello di A.
Crozier dunque definisce il potere come controllo dei margini di incertezza nelle relazioni con il
prossimo.
Il potere è essenzialmente:
 scelta,
 iniziativa,
 strategia,
 possibilità di condizionare il comportamento altrui al di fuori delle regole previste;
 in un’organizzazione burocratica il vero potere tra i soggetti si radica in quegli interstizi delle
strutture formali che si sottraggono alla prevedibilità del regolamento.

4. LOTTE DI POTERE COME CONTROLLO DEI MARGINI DI INCERTEZZA


Crozier definisce:
 lotte di potere come le lotte per conquistare o mantenere il controllo delle fonti di incertezza, e in
tali lotte si manifestano le strategie dei singoli individui o di certi gruppi.
I punti dell’organizzazione in cui avvengono i maggiori scontri sono quelli dove è più carente la
razionalizzazione e la regolamentazione.
Quanto più incerta è la regolamentazione di un ruolo, tanto è maggiore il potere del soggetto che occupa
quel ruolo.
Il soggetto usa tale potere per far valere il suo potere nei confronti di coloro che occupano ruoli
diversi ma funzionalmente connessi con il suo per ottenere maggiori ricompense all’interno
dell’organizzazione.
Il gioco è:
 è difensivo per chi cerca di conservare i margini di incertezza del proprio ruolo lavorativo;
 è offensivo per gli altri che cercano di sottrarre quei margini attraverso ulteriori regolamentazioni.
Le lotte di potere avvengono in una situazione strutturata dove esistono vincoli e regole sottintese.
Tali vincoli:
 attenuano l’asprezza delle lotte, suggeriscono cautela e compromessi e portano a riconoscere che
non si può superare la soglia oltre cui sentimenti e dignità del competitore restano feriti.
Ma è importante un'ulteriore considerazione:
 quanto meno un’organizzazione ha bisogno di competere per garantirsi la sopravvivenza tanto
meno importanti sono le poste in gioco nelle lotte di potere.
La lotta per il controllo dei margini di incertezza porta gli uomini a sviluppare delle condotte
strategiche.
Infatti Crozier riconosce ai soggetti la capacità di sviluppare proprie strategie razionali
all’interno dell’organizzazione.
Gli uomini contrattano il proprio impegno nell'organizzazione sulla base di quello che sono i loro interessi.
In un'organizzazione burocratica dove tutto è regolamentato, quegli interessi passano per la tutela dei
margini di discrezionalità del proprio ruolo.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Per Crozier:
 il ritualismo del burocrate non va visto come un adattamento alle pressioni del sistema, quanto
come una strategia che il burocrate usa per difendere la sua libertà di azione.
 Ma non esiste solo la strategia del ritualismo: il burocrate usa anche il disinteresse, la rinuncia a
Partecipare.
I soggetti valutano che farsi coinvolgere non ne vale la pena, che la fuga dalla responsabilità permette di
difendere la propria indipendenza.

5. IL PROBLEMA DEL MUTAMENTO NELLA BUROCRAZIA


Lo scostamento principale di Crozier dai funzionalisti consiste nelle difficoltà di mutamento delle
organizzazioni burocratiche.
Crozier osserva:
 che l’incapacità di trasformarsi va interpretata non come conseguenza inattesa ma come
prerogativa accettata al modo di essere della burocrazia.
Questa è costruita in modo da non avere al suo interno nessuno strumento istituzionale per potersi
correggere, e di conseguenza le pressioni per il cambiamento sono destinate a provocare ulteriori rigidità.
Per comprendere questa tesi bisogna citare i quattro aspetti costanti in ogni burocrazia pubblica, che
sono:
 impersonalità delle norme;
 centralizzazione delle decisioni al vertice;
 isolamento di ogni categoria gerarchica;
 lo sviluppo di poteri paralleli nei margini di incertezza.
L’insieme di queste caratteristiche producono:
 frustrazione,
 distacco,
 non partecipazione,
 ridotta efficienza
 e rigidità.
Questo malessere porta a pressioni sulla dirigenza affinché intervenga per apportare cambiamenti,
ma questa, non avendo strumenti e cultura del cambiamento, rinvia il problema a livelli più alti della
gerarchia.
Crozier definisce la burocrazia come un sistema che non è capace di correggersi in funzione dei propri
errori e le cui disfunzioni solo uno degli elementi essenziali del suo equilibrio.
La burocrazia può cambiare solo:
 per crisi,
 per sobbalzi improvvisi
 e drammatici che la investono completamente.
Ci si chiede dunque come può la burocrazia amministrare la società, se non muta insieme alla società. La
burocrazia secondo Crozier:
 essendo priva di strumenti che garantiscano un graduale adattamento alle novità sociali,
 cambia solo attraverso crisi e sussulti drammatici che la investono,
 poiché in un caso di crisi il potere politico centrale interviene impiegando dall'alto una riforma
capace di risolvere le cause di disagio con un servizio più efficiente,
 e la burocrazia riprende a funzionare.
Nella vita della burocrazia dunque vi sono periodi di stabilità e brevi periodi di mutamento per crisi.
Per tali motivi la crisi è elemento distintivo di ogni burocrazia.
La definizione della burocrazia come organismo incapace di correggersi sulla base dei suoi errori
va integrata dicendo che essa è un sistema troppo rigido per adattarsi senza crisi alle
trasformazioni che l’evoluzione sempre più rapida delle società industriali rende sempre più spesso
necessarie.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

6. BUROCRAZIA E CONTESTO NAZIONALE


Crozier si chiede:
 in che misura i risultati ottenuti hanno una validità generale oppure si limitano al contesto
francese.
In linea più generale si chiede quali sono i rapporti tra organizzazione burocratica e contesto culturale.
Crozier osserva:
 che per quanto riguarda la Francia molti tratti culturali della sua ricerca coincidono con quelli
posti in evidenza da precedenti indagini antropologiche e da scrittori politici classici.

L'origine di questi caratteri va ricercata in due elementi che nascono nella storia francese:
 L'interiorizzazione nelle coscienze di un'autorità assoluta e diffusa.
 l'incapacità di sopportare la subordinazione diretta.
La tensione tra questi due elementi viene risolta attraverso la centralizzazione e le norme
impersonali.
In tal modo di mantiene una concezione assolutistica dell'autorità e si eliminano i rapporti diretti di
dipendenza.
Ma Crozier non si concentra solo su questi tratti culturali, ma cerca di cogliere le analogie tra gli
organismi da lui studiati e altre istituzioni della società francese (es. sistema scolastico), in cui
trova sempre gli stessi tratti (impersonalità delle norme, centralizzazione delle decisioni, rigidità del
sistema...).
Questi tratti suggeriscono due indicazioni:
 l'importanza della burocrazia nel sistema francese,
 e l'ipotesi che l'amministrazione pubblica di un paese è l'istituzione dove più
fedelmente si rispecchiano i tratti di quel paese.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

7. OLTRE LA BUROCRAZIA. TECNOLOGIA E CRESCITA CULTURALE.


Sulla base di questi presupposti ci si chiede come l'innovazione possa trovare stazioni una burocrazia
che cambia solo per crisi.
Crozier avverte che sia necessario distinguere tra:
 la difficoltà della burocrazia a rinnovare sé stessa
 e la funzione di stimolo che svolge per l'innovazione economica e sociale della società.
La storia francese indica che la devozione burocratica della pubblica amministrazione:
 per l’ordine e la stabilità ha fornito un quadro indispensabile per lo sviluppo dell’imprenditoria
privata;
 ha svolto anche un importante ruolo di stimolo all'innovazione attraverso incentivi, sfruttando
alcune conseguenze positive dei suoi tratti peculiari di impersonalità e accentramento.
Anche in Crozier dunque la burocrazia presenta un'ambiguità di funzioni, ma stavolta con segno
positivo, in quanto è stata un fattore determinante per quanto riguarda lo sviluppo della società
francese.
Tuttavia Crozier avverte che si è giunti a un punto in cui non è più sufficiente quel tradizionale
Equilibrio:
 tra società
 e pubblica amministrazione.
L’avvento della società di massa, la crescita culturale dei soggetti, l’espansione e la sofisticazione dei
bisogni collettivi e individuali si trasformano ora in una richiesta di crescente intervento della pubblica
amministrazione e impongono una profonda trasformazione delle sue vecchie strutture burocratiche.
Secondo Crozier:
 per soddisfare tale domanda proveniente dalla società civile l’amministrazione pubblica deve
razionalizzarsi, cioè deve diventare più flessibile, decentrata, capace di imprendibilità e di
autocorrezione dall’interno, deve cioè deburocratizzarsi.
Dunque se per Weber la burocrazia, rigida e impersonale, è lo strumento per eccellenza della
razionalizzazione, per Crozier, per portare avanti il processo di razionalizzazione, bisogna uscire
da quel modello e riprogettare un altro che impropri quei valori di flessibilità e innovazione che
finora erano preclusi alla pubblica amministrazione.
Come si raggiunge tale obiettivo?
Crozier abbandona il pessimismo su cui si è basata:
 l'analisi della realtà esistente
 e indica risorse nuove ed esterne alla burocrazia che possono trasformarla.
Le tecnologie informatiche e la crescita culturale nella società civile secondo Crozier sono i fattori
relativamente recenti che orientano lo sviluppo delle grandi organizzazioni moderne.
Le nuove tecnologie informatiche consentono maggiore velocità ed efficienza:
 la liberalizzazione del lavoro umano dai compiti più esecutivi;
 la crescita culturale fa sì che si affidino alle persone
 compiti più impegnativi del passato con maggiori margini di libertà.
Crozier dunque, nel suo messaggio cautamente ottimistico, afferma che bisogna riporre maggiore
fiducia sui singoli soggetti che egli vede come agenti attivi di modernizzazione:
 i soggetti portano innovazione, mentre l'organizzazione (analiticamente distinta dai soggetti
che vi sono all'interno) è naturalmente portata alla routine e alla chiusura.
 Di qui la necessità di dare maggiore spazio ai soggetti per la loro imprendibilità.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

8. DOPO IL FENOMENO BUROCRATICO. LA SOCIOLOGIA FRANCESCE DELLA


PUBBLICA AMMINISTRAZIONE.
Le prospettive aperte del fenomeno classico hanno fornito la base teorica per un vasto programma di
ricerche sul campo compiute da Crozier e da i suoi allievi.

La peculiarità del sistema amministrativo francese e l’originalità della demarche adotta fanno della scuola
originata da Crozier una voce dell’attuale dibattito sulle possibilità di superamento della burocrazia
tradizionale.

Questa scuola:

a) Ha esteso il campo di studio all’intero sistema politico- amministrativo francese fino a chi studia i
vari aspetti del funzionamento delle scuole superiori che formano i pubblici funzionari.

b) Ha arricchito e reso più complesso il quadro fornito il fenomeno burocratico. Emerge al tempo
stesso la loro peculiare capacità di negoziare con funzionari e uomini di altre amministrazioni, con
gli organismi di rappresentanza degli interessi locali.

Dupuy e Thoenig sostengono la necessità di distinguere tra la rigidità delle strutture burocratiche
formali che formano la cornice d’insieme e la flessibilità della pratica amministrativa che si svolge
secondo sottili regole di contrattazione incrociata all’interno di quella cornice.

Crozier può essere imputata a tre fattori:

1. Il primo fattore: è il fatto di avere esteso l’indagine a rami, livelli e ruoli della pubblica
amministrazione dotati di responsabilità professionali maggiori di quelle riscontrate nell’istituto
contabile e nel monopolio industriale.

2. Il secondo fattore: è la modificazione nelle strutture amministrative francesi, dopo il grande


scuotimento sociale del 1968.

3. Il terzo fattore: sta nell’affinamento degli stessi strumenti di indagine con una maggiore attenzione
agli aspetti informali e riservati, ma non per questo meo regolati della contrattazione incrociata tra
i vari comportamenti della pubblica amministrazione.

Ne emerge un quadro complesso e contraddittorio che conferma l’intuizione originaria di Crozier di


uomini che agiscono strategicamente all’interno delle nicchie ricavate nelle strutture formali.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

13 CAPITOLO VARIETA’ E PROGETTAZIONE DELLE FORME ORGANIZZATIVE.


1. IL SUPERMANTO DELLA BUROCRAZIA TRADIZIONALE NELLA LETTERATURA
MANAGERIALE
Il dibattito sui limiti dell'universalità del modello weberiano porta a riconoscere l'esistenza di logiche:
 non soltanto burocratiche con cui interpretare
 e riprogettare da capo le strutture amministrative.
Nelle opere di Gouldner e Crozier vi sono delle anticipazioni in tal senso.
 Per Gouldner i lavori fondati:
 sulla responsabilità,
 la collaborazione,
 la capacità di decidere non può essere spiegata con le stesse norme che regolano i
lavori puramente esecutivi:
 per i primi vale il principio di competenza,
 per i secondi quello di disciplina.
Occorre dunque rinunciare all'intento di Weber di creare un modello unico e riconoscere che
nella stessa organizzazione di lavoro possono coesistere diversi sistemi di norme e principi
organizzativi.
 Per Crozier i soggetti ingabbiati nei regolamenti formali si prendono la rivincita con strategie
inattese che possono causare circoli viziosi.
Per superare tali inconvenienti è necessario che l’amministrazione pubblica conferisca una
dimensione imprenditoriale ai ruoli dei suoi dipendenti, trasformandoli da burocrati in
manager.
A partire dagli anni ’60 si trovano in questa letteratura due indirizzi di ricerca in cui si possono trovare
affinità con le problematiche sollevate da Gouldner e Crozier.
 Il primo indirizzo riguarda le logiche generali di direzione e amministrazione d’impresa.
Come Crozier contesta i principi tradizionali della burocrazia, anche nel dibattito manageriale
vengono messi in discussione i principi classici della direzione di impresa e si perviene alla
direzione per obiettivi.
 Il secondo indirizzo riguarda la necessità di differenziare le strutture direttive e amministrative.
Come Gouldner sostiene la necessità di superare un modello unico di burocrazia, anche nel
divertito manageriale affiora la necessità di progettare strutture flessibili, più adeguate alla
complessità crescente dei problemi. Così:
 dal modello classico di burocrazia di tipo funzionale si passa
 al modello di tipo divisionale, poi a quello per progetto e poi a quello per matrice.
La letteratura manageriale offre alcuni progetti organizzativi in cui si possono scorgere le
ripercussioni del dibattito sulla burocrazia, e si pongono essi stessi come materia per
un’ulteriore riflessione sociologica.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

2. LA DIREZIONE PER OBIETTIVI. IL CONTRIBUTO DI P. DRUCKER

Dirigere per obiettivi significa:


 che ogni manager imposta la sua azione attraverso l’individuazione e il perseguimento di
obiettivi specifici,
 contrattati con i suoi superiori e da raggiungere entro un dato periodo di tempo.
 Il manager sa che verrà valutato dai superiori in base al grado in cui ha raggiunto tali obiettivi.
Questo modo di intendere l'azione manageriale è il risultato di una lunga discussione nell'ambito
delle scelte manageriali.
Drucker si impose già dagli anni '50 come uno dei più influenti rappresentanti della corrente di
pensiero della direzione per obiettivi.
1. Il punto di partenza di Drucker è la critica radicale dell’idea che la ricerca del massimo profitto
sia di qualche utilità per capire che cosa veramente fanno le imprese e i loro manager. Prima di
tutto quindi è sbagliato supporre che le aziende agiscano in base a criteri di massimizzazione.
Drucker sostiene che il vero problema che sta a cuore di ogni azienda e che la guida nelle scelte
concrete è quello di raggiungere un profitto sufficiente a coprire i rischi insiti nell’attività
economica, dunque a evitare le perdite.
2. In secondo luogo, dire che un’impresa si prefigge di massimizzare i profitti è una affermazione
senza senso perché prescinde dalla dimensione temporale.
Scegliere profitti più limitati con la garanzia di perseguirli nel tempo vuol dire anteporre il
criterio sulla sicurezza sul medio-lungo termine a quello del massimo profitto immediato senza
preoccuparsi del domani.
Per comprendere come agisce un'azienda dunque occorre sostituire al principio unico di
massimizzazione del profitto il principio che esiste una pluralità di obiettivi variabili, che si
specificano in base a vincoli e scadenze temporali.
Dirigere un’azienda significa:
 dunque raggiungere un equilibrio tra i vincoli e gli obiettivi, stabilendo priorità e scadenze.

Stabilire un obiettivo vuol dire attivare un processo pratico e conoscitivo che Drucker articola in cinque
punti:

1. spiegare e inquadrare l’intera gamma dei fenomeni connessi all’attività aziendale in un piccolo
numero di proposizioni;
2. sottoporre tali proposizioni alla verifica dell’esperienza concreta;
3. predire il comportamento aziendale;
4. valutare la validità e l’opportunità delle decisioni nel momento in cui vengono prese;
5. mettere i manager in grado di analizzare la propria esperienza e di valutare il proprio operato.
Per Drucker gli obiettivi sono necessari in tutti quei campi in cui il livello di attività e i risultati hanno
un’influenza vitale e diretta sulla sopravvivenza e sulla prosperità dell’azienda, quindi quei campi in cui
l'azienda è visibile sotto un profilo economico, sociale e finanziario.
 Gli obiettivi devono essere a loro volta:
Concreti, cioè realistici, credibili e verificabili.
Gli obiettivi non sono fissati in modo unilaterale dai capi, ma emergono in una serie di riunioni
allargate anche ai dirigenti inferiori.
In tali riunioni vengono individuate le “aree strategiche” di sviluppo dell’azienda, e per
ciascuna area i problemi esposti dai capi responsabili vengono discussi collegialmente da tutti i
partecipanti cercando di superare le divisioni specialistiche e gerarchiche del lavoro;

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
 Il più possibili quantificabili: per ogni area strategica la direzione centrale contratta con vari
responsabili dell’area i piani d’azione di gruppo ed individuali da raggiungere entro date
scadenze.
La fissazione degli obiettivi:
dunque avviene con una trattativa in cui i superiori e i responsabili diretti discutono le
possibilità di raggiungere obiettivi misurabili e specifici (es. un tot di fatturato).
 Raggiungibili in un arco di tempo determinato: i responsabili di area e i loro superiori tengono
delle riunioni periodiche di valutazione su quanto è già stato raggiunto dei risultati che i
responsabili si erano impegnati a realizzare.
Nel corso di queste riunioni si contrattano in modo aperto e trasparente le eventuali modifiche
da apportare alle strutture organizzative.
Con questo metodo:
o non si stabiliscono solo gli obiettivi con un patto concordato tra superiori e responsabili diretti
degli obiettivi,
o ma si ha anche la formazione sul campo di nuovi dirigenti.
Infatti il modo più efficace di formare i dirigenti adatti a gestire obiettivi sono quelli di affidare compiti
limitati ma organicamente completi a persone che hanno già anche partecipato all'attività collegiale di
individuazione degli obiettivi.
Ogni area strategica dunque ha sub-obiettivi sempre più specifici affidati ad un responsabile.
In tal modo i dirigenti di livello inferiore non si limitano solo a obbedire ordini ricevuti, ma gestiscono
obiettivi assegnati.
Così si ridefinisce la disciplina, non più vista come obbedienza diligente e passiva agli ordini ma
come un coinvolgimento responsabile.
In conclusione:
o mentre nella burocrazia tradizionale vigeva il principio che tutto ciò che non è permesso è
vietato,
o nell'azienda di Drucker vige il principio opposto, ovvero che tutto ciò che non è espressamente
vietato è permesso.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

3. I VANTAGGI E COSTI DELLA DIREZIONE PER OBIETTIVI


La direzione per obiettivi può essere considerata come l'antitesi della burocrazia tradizionale
descritta da Weber, presentando elementi come:
 la discussione aperta al di là delle gerarchie, individuazione e contrattazione di obiettivi,
acquisizione di competenze sul campo... Etc.
Almeno in linea di principio, in una prospettiva che supera le logiche burocratiche tradizionali, vengono
meno le patologie denunciate dai post weberiani e da Crozier:
 in quanto le capacità strategiche degli individui vergini valorizzate,
 i limiti non sono più imposti da norme impersonali ma riflettono capacità reali,
 le conseguenze inattese sono trasparenti,
 si chiedono uomini più dinamici e responsabili etc.
Vengono meno così i circoli viziosi della vecchia burocrazia, ma si possono aprire su diversi fronti.
 La direzione per obiettivi non è facile da realizzare ed è comunque destinata a rimanere circoscritta
ad ambiti manageriali.
 La direzione per obiettivi si presenta come uno strumento per intensificare la pressione
dell'impresa sull'individuo, in base al principio che vince chi interiorizza meglio la regola si sfruttare
al massimo se stessi e i propri collaboratori.
La DPO infatti cerca il massimo sfruttamento dei manager attraverso il principio di una sfrenata
competizione individuale.
 La scuola motivazionista denuncia i limiti della DPO come uno strumento teso ad appiattire gli
obiettivi personali dei manager sugli obiettivi generali dell'impresa.
Una vera crescita della professionalità secondo i Motivazionalisti non può avvenire in una vita
alienata, regolata unicamente dalla competizione individuale.
Le imprese devono porsi il problema dell'arricchimento della personalità in quanto tale dei loro
manager.

4. I QUATTRO PRINCIPALI MODELLI DI ORGANIZZAZIONE AZIENDALE


Negli stessi anni in cui si afferma il dibattito sui nuovi stili di direzione aziendale, si sviluppa una
riflessione parallela sui modelli di organizzazione aziendale che ripone il ricorso all'una o all'altra
formula di direzione a seconda di alcune caratteristiche oggettive del contesto.
Il problema è che la crescente complessità del contesto ambientale impone di rivedere
l'assunzione che esiste un modello universale per organizzare ogni tipo di azienda.
Ansoff e Brandenburg teorizzano il passaggio evolutivo dell’impresa attraverso 4 modelli puri di
organizzazione:
 FUNZIONALE,
 DIVISIONALE,
 PER PROGETTO
 E A MATRICE.
Ognuno di questi modelli è costruito per massimizzare l’efficienza organizzativa, ma riconoscendo
che i criteri di tale efficienza variano in funzione al contesto in cui opera l'impresa.
1. Il primo criterio: corrisponde alle condizioni di stabilità quando i livelli e caratteristiche della
produzione e rimangono stabili nel tempo.
2. Il secondo criterio: corrisponde alle condizioni di elasticità operativa quando l’organizzazione si
trova nella necessità di decidere mutamenti rapidi ed efficienti nei livelli di produzione.
3. Il terzo criterio: risponde alla condizione di elasticità strategica quando l’azienda deve reagire
ai mutamenti che intervengono nei caratteri qualitativi della produzione.
4. Il quarto criterio: si determina di fronte alla necessità di un cambiamento costante e
istituzionalizzato delle strutture, provocato da continui e profondi mutamenti della tecnologia
e dei controlli del processo produttivo.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Mentre i primi 3 gradi di efficienza rispondono all'esigenza di adeguarsi a mutamenti relativamente
prevedibili, il quarto criterio pone l'azienda nella condizione di saper affrontare una molteplicità
continua di cambiamenti strutturali non prevedibili a priori.
È soprattutto quando si impone il quarto criterio che si ricorre alla direzione per obiettivi.
L’ipotesi di Ansoff e Brandenburg è Infatti che esista una generale corrispondenza tra:
- i criteri di efficienza
- e i quattro modelli puri di organizzazione.

 IL MODELLO FUNZIONALE:
Il modello funzionale è il più antico, ed è detto così perché ogni ruolo di comando corrisponde
ad una funzione presente nel processo produttivo.
Sotto la direzione generale vi sono tre direzioni:
 degli acquisti,
 della produzione
 e delle vendite.
Alle loro dipendenze vi sono altre aree di comando via via più ristrette ma sempre
corrispondenti a specifici momenti funzionali del processo produttivo.
All'interno di ciascuna di queste articolazioni vige il principio della corrispondenza tra area di
responsabilità e livello di autorità.
Accanto alle posizioni direttamente collegate al processo produttivo (o linea) sono previsti
ruolo di staff, privi di autorità diretta ma con compiti di ausilio tecnico.
Il modello è caratterizzato dall’accentramento delle decisioni al vertice, ripetitività e analogia
delle funzioni affidate ai vari uffici e reparti.
Tale modello è ancora oggi il più diffuso nella gestione di aziende:
 di dimensione medio-piccole,
 tecnologia poco sofisticata,
 controlli personali
 o burocratici
 e mercato stabile.
Il modello funzionale entra in crisi quando lo sviluppo dell'azienda impone una più complessa
articolazione.
Dall'impresa costituita da un solo stabilimento con pochi prodotti si passa a imprese formate
da più stabilimenti, a volte distanziati geograficamente, con una gamma di produzioni
crescente e l'esigenza di una maggiore elasticità nel decidere le variazioni di quantità dei
prodotti.
Diventa importante anche la contabilità industriale interna.

 MODELLO DIVISIONALE:
Alle esigenze descritte corrisponde il modello divisionale, che venne applicato negli anni 20 presso
la General Motors.
Il modello divisionale raggruppa” in divisioni” le varie attività in base alla linea dei prodotti (e non
in base alle attività produttive), e decentrerà il potere di gestione a livello di ogni divisione.
Le divisioni vengono affidate a dirigenti responsabili delle decisioni strategiche, amministrative e
operative riguardanti la loro area.
Rispetto a quello funzionale dunque questo modello introduce un momento gerarchico-
amministrativo in più, costituto dalla direzione completa di un prodotto o di una linea di prodotti.
Con tale modello non si ha solo un cambiamento dell'organigramma, ma anche problemi nuovi
che riguardano la ridefinizione dei rapporti i massimi dirigenti e la relazione tra linea e staff.
La proliferazione dei gruppi di staff garantisce competenze particolari e flessibili ma aumenta la
probabilità di conflitti nelle aree di comando.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

 MODELLO PER PROGETTO:


Il modello per progetto nasce quando la combinazione tra:
 lo sviluppo tecnologico
 e le crescenti esigenze di mercato impongono di lanciare prodotti con una vita
commerciale breve che nel passato,
 ma con più elevati contenuti tecnici.
Si rende necessario dunque pervenire a delle attività più flessibili rispetto a quelle delle
strutture tradizionali.
Ai programmi produttivi di più lunga scadenza si affiancano così dei progetti
temporaneamente definiti dove si studiano e si sperimentano nuovi prodotti o nuovi modi di
produrre.
I soggetti coinvolti ad un progetto si trovano quindi a partecipare a due strutture aziendali:
 quella istituzionale da cui dipendono per l’attività ordinaria
 e quella del progetto in cui espletano un compito temporaneo.
Tale modello offre il vantaggio di essere flessibile, articolata, polimorfa, temporanea,
destinata a sciogliersi quando l’obbiettivo è raggiunto.
Consente di raggiungere obiettivi particolarmente complessi o innovativi, che non si
potrebbero raggiungere con strutture istituzionali stabili (che devono continuare l'attività di
routine).
La struttura a progetto però porta anche dei problemi.
In particolare occorre un'organizzazione capace di:
 garantire il trasferimento a costi minimi delle risorse dalle sezioni tradizionali ai progetti
e da un progetto all'altro;
 ottenere la collaborazione delle persone provenienti dalle diverse sezioni, con diverse
sezioni e competenze e se e modi di affrontare i problemi.
 superare gli attriti burocratici che sorgono quando le strutture tradizionali sono invitate
a collaborare per compiti non consueti.
 designare il project manager, ovvero il capo progetto in base a una competenza
professionale e capacità di coordinare altre persone;
 far accettare alle altre persone coinvolte nei progetti la cosiddetta "locomozione di
gruppo", ovvero il cambiamento di ruolo nel passaggio tra posizioni direttive e
posizioni subordinate (es: se una persona è leader di un progetto non è detto che lo sia
anche nel progetto successivo).
Il project manager dunque ha un ruolo strategico sottoposto a varie tensioni che
l'azienda non può eliminare.
Egli ha l'intera responsabilità del progetto e ne risponde direttamente la direzione
centrale.
La sua posizione rischia di porlo spesso in conflitto di con i capi di sezione a cui deve
rivolgersi per avere risorse e uomini.
In caso di conflitti la soluzione è la mediazione da parte della direzione centrale,
anch'esso intervento con dei costi perché evidenzia i limiti delle capacità impreditive
del capo progetto.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

 MODELLO PER MATRICE:


Il modello per matrice può essere considerato come una sofisticazione del modello per
progetto.
Anche in questo progetto c'è la sovrapposizione di una struttura dinamica per compiti non di
routine sulla struttura tradizionale, ma vi è una differenza.
L'organizzazione a progetto si limita a coinvolgere le persone in un solo progetto, per un
periodo limitato, e alla fine rientrano nella loro struttura di appartenenza.
Nel modello a matrice invece i vari progetti durano più a lungo e a ciascuno di essi è preposto
un “ufficio di progetto” stabile con compiti di promozione e coordinamento.
I dipendenti inoltre non collaborano a un solo progetto ma a più progetti
contemporaneamente con una sequenza di impegni programmata in anticipo.
Questo modello consente dunque di aumentare la mobilità e la flessibilità, e si ottiene un
risparmio di quadri specializzati, che non vengono utilizzati solo in una sola attività ma ruotano
a tempo parziale in vari progetti.
Questo uso delle risorse umane tuttavia acutizza i problemi del modello a progetto:
 sì acutizza il problema dello stress dovuto al continuo ruotare dei compiti;
 mentre nell’organizzazione a progetto il prestito degli esperti viene contrattato una volta per
tutte all'inizio del progetto, nell'organizzazione a matrice la contrattazione diventa permanente
e pluralistica, perché occorre trovare formule conciliatrici per le contrastanti esigenze delle
sezioni istituzionali dei vari progetti.
 si ha una tensione accentuata dalla distinzione marcata tra responsabilità e potere.
Da una ricerca svolta da Gemmil e Wilemon su delle aziende fornitrici della NASA che adottano
modelli a matrice, risulta che si possono distinguere 5 tipi di potere:
a) AUTORITÁ FORMALE;
b) POTERE DI RICOMPENSA;
c) POTERE PUNITIVO;
d) POTERE PROFESSIONALE;
e) POTERE REFERENTE.
I primi tre tipi di potere corrispondono però alle posizioni direttive di tipo tradizionale, ma
non a quelle del project manager in un'organizzazione a matrice.
Un buon project manager dovrebbe limitarsi a esercitare solo il potere derivante
dall'esperienza professionale e dal l'identificazione dei sottoposti con la sua attività.
Ma in realtà il project manager continua ad avere responsabilità nella gestione del progetto.
Sull'organizzazione a matrice si può dire che:
 sia perennemente temporanea;
 l'autorità non è pari alla responsabilità;
 la maggior parte dei membri ha più tessere di appartenenza;
 ha un'elevata competitività professionale;
 è senza un'autorità che sia un lungo di riferimento e di protezione.
A causa di queste caratteristiche l'organizzazione a matrice non pretende di essere un modello
valido universalmente, ma è una risposta in situazioni estreme: essa viene adottata in imprese
relativamente anomale, impegnate in lavorazioni complesse e innovative, con forte insicurezza
di procedure e dove prevale il momento esplorativo.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

5. HENRY MINTZBERG: LE CINQUE CONFIGURAZIONI ORGANIZZATIVE

Mintzberg tenta di sistemare in un quadro unitario le varie indicazioni scaturite dal dibattito sulla
burocrazia, e di formulare un modello che indichi le logiche e i vincoli da rispettare quando si
vogliono progettare le strutture interne di organizzazioni complesse.
Il quadro di Mintzberg può essere definito da delle acquisizioni particolari:
 la burocrazia teorizzata da Weber è la struttura più adatta per garantire un'amministrazione
regolare e standardizzata.
 la burocrazia è anche affetta da varie patologie di funzionamento date dalle strategie dei
soggetti.
 si deve distinguere tra due forme di burocrazia: quella che concerne lavori esecutivi e quella
che concerne lavori con contenuti professionali.
 un modo per Iside dalle patologie burocratiche è progettare metodi di direzione non gerarchici,
basati sul raggiungimento di obiettivi e sulla soluzione di particolari problemi.
 tali formule non possono essere applicate in modo uguale su qualsiasi tipo di lavoro, e la loro
validità è limitata alle aree più innovative e finalizzate a risultati specifici.
 molteplici forme organizzative possono coesistere nella stessa impresa: in particolare le
organizzazioni per progetto e per matrice si sovrappongono alle strutture più tradizionali che
persistono.
Da questo quadro emergono 3 elementi che ispirano l'intera opera di Mintzberg:
 la pluralità delle forme organizzative;
 l’impossibilita di sbarazzarsi completamente della burocrazia tradizionale;
 la necessità di scoprire un ordine generale regolatore dei processi di progettazione
organizzativa.
Egli fa propria l’impostazione che ha ispirato un recente filone di pensiero sulle organizzazioni, il
cosiddetto approccio basato sullo studio delle contingenze organizzative.
Tale approccio venne:
 sviluppato in varie ricerche tra gli anni ’60 e ’70 e stabilisce che la struttura organizzativa di
un’impresa varia in funzione del variare di una serie di fattori strategici come dimensione,
complessità della tecnologia e grado di prevedibilità dell’ambiente.
Dalle ricerche contingentistiche risulta inoltre che le imprese che si danno l’assetto più conforme alle
condizioni tecnologiche ed ambientali in cui si trovano ad operare sono anche quelle più efficienti.
In conclusione la progettazione di un'azienda per essere ottimale deve essere fatta nel rispetto di
alcune contingenze riconosciute come strategiche.
Mintzberg costruisce la sua analisi sulla base di queste indicazioni.
 Da un lato occorre superare il principio per il quale vi è un solo modo ottimale di organizzare
l'azienda;
 dall'altro bisogna anche rifiutare la tesi che le forme organizzative possono essere scelte in
modo libero e arbitrario.
Mintzberg afferma che la scelta delle forme deve obbedire ad una logica sistematica e rigorosa
basata sulla ricerca della coerenza tra le varie parti. Rispettando questa coerenza si arriva alle
configurazioni organizzative, ovvero modelli completi in cui i parametri della progettazione
organizzativa corrispondono alle situazioni in cui l'organizzazione opera.
Secondo Mintzberg le configurazioni organizzative sono 5:
1. struttura semplice:
2. burocrazia meccanica:
3. burocrazia professionale
4. soluzione divisionale:
5. adhocrazia:

73
BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

6. MECCANISMI DI COORDINAMENTO E PARTI DELL’ORGANIZZAZIONE


Per comprendere il processo con cui si formano le configurazioni bisogna partire tra i meccanismi con cui
l’organizzazione coordina le attività al proprio interno e le parti dell’organizzazione proposte a tale
coordinamento.
Bisogna tenere presente che i meccanismi differiscono a seconda della complessità e della natura delle
attività da coordinare.
Secondo Mintzberg le configurazioni organizzative sono 5:

1. STRUTTURA SEMPLICE:

il meccanismo di coordinamento è quello della supervisione diretta eseguita dal vertice che
accentra le varie funzioni.
Tale struttura non ha bisogno di burocrazia né di organi di staff, ed è diffusa nelle aziende più
piccole, in quelle nuove, ma anche in quelle altamente carismatiche e nelle organizzazioni
“sintetiche”, ovvero fortemente accentrate che coordinano gli sforzi in una situazione breve ed
eccezionale.

2. BUROCRAZIA MECCANICA:

Il meccanismo di coordinamento è quello basato sulla standardizzazione dei processi lavorativi;


la parte dell’organizzazione incaricata di questo compito è la tecnostruttura, ovvero l'insieme dei
tecnici che si occupano di programmazione, analisi di tempi e procedure di lavoro.
La parte più consistente del nucleo operativo è formata da addetti a mansioni ripetitive e prive di
discrezionalità.
Tale configurazione ha avuto la sua massima diffusione nelle produzioni industriali di grande serie,
ma attualmente si ritrova anche nella maggior parte delle organizzazioni di servizio.

3. BUROCRAZIA PROFESSIONALE:

Il meccanismo di coordinamento è quello basato sulla standardizzazione delle capacità dei


dipendenti.
Il nucleo operativo è costituito da professionisti dipendenti, formati al di fuori dell'organizzazione,
e assunti con una verifica delle loro capacità, in quanto operano con discrezionalità e iniziativa
personale.
Alcuni esempi di tale modello sono gli ospedali, le scuole e le organizzazioni che forniscono servizi
artigiani e qualificati.
In questo modello si lavora a diretto contatto col pubblico, e in questo modo si viene controllati
più dagli utenti che dall'organizzazione.
Tale organizzazione richiede inoltre l’elevato sviluppo di uno staff di supporto, incaricato di
provvedere ai servizi e alle necessità funzionali del gruppo operativo.
Inoltre così come la burocrazia meccanica non può esistere senza la tecnostruttura, la burocrazia
professionale non può esistere senza uno staff di supporto che garantisca le risorse necessarie allo
svolgimento delle funzioni.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
4. SOLUZIONE DIVISIONALE:

Il meccanismo di coordinamento consiste nella standardizzazione dei


risultati.
La parte dell’organizzazione che corrisponde a tale meccanismo è la linea gerarchica
intermedia.
Tale modello viene adottato nelle aziende di grandi dimensioni con un mercato
eterogeneo, e gode di un’ampia autonomia interna che riguarda le strutture a cui la direzione
centrale affida degli scopi da raggiungere.

5. ADHOCRAZIA:
6.
Il meccanismo di coordinamento è quello dell’adattamento reciproco, un meccanismo non
gerarchico ed estremamente immediato e informale.
La semplicità di tale adattamento è particolarmente funzionale nelle organizzazioni più
complesse con compiti non di routine.
L'adhocrazia è caratterizzata da un nucleo di specialisti ad alta sofisticazione, con
comportamenti non formali e attitudine all'esportazione di soluzioni su percorsi non definiti.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

7. LA DIFFERENZAZIONE DELLE AZIENDE NELLA SOCIETA’ CONTEMPORANEA

Il modello presentato richiede alcuni commenti:


 Il primo luogo va sottolineato che le varie parti dell’organizzazione non convivono affatto in modo
armonico, ma danno luogo a spinte la loro stessa ragion d’essere all’interno dell’organizzazione.
In particolare:
 Il vertice strategico: attraverso la superficie diretta spinge verso l’accentramento e favorisce
l’emergere della struttura semplice;
 La tecnostruttura spinge verso la crescente standalizzazione delle prestazioni del nucleo operativo e
favorisce l’emergere della burocrazia meccanica;
 Il nucleo operativo cerca in contrasto con la tecnostruttura, di ridurre al minimo il controllo esterno
e spinge verso la propria professionalizzazione. Se la spinta ha successo si perviene alla burocrazia
professionale;
 La linea intermedia spinge verso quella che MINTZERG chiama la balcanizzazione dell’azienda in una
unità sempre più autonome dal vertice centrale. Se la spinge riesce si perviene alla configurazione
divisionale;
 Lo staff di supporto spinge verso la collaborazione. Gli uomini di staff sanno di esercitare la
massima influenza solo in forza della loro competenza professionale vengono richiesti di
collaborare alle varie decisioni dell’azienda. Il naturale sbocco della spinta dello staff è
l’adhocrazia.
Un altro aspetto del modello di Mintzberg si lega all’ordine in cui sono stati presentati i cinque meccanismi
di coordinamento.
L’ordine è il progressivo aumento dei margini di iniziativa individuale nell’esecuzione del lavoro:
 Controllo personale e continuo
 Controllo burocratico sulle modalità standard di esecuzione
 Controllo sui risultati
 Adattamento reciproco dove il controllo è interiorizzato nei commenti del team.

Mintzberg è un contingentista.
Quindi ritiene che le cinque configurazioni non sono altro che la risposta coerente che le organizzazioni
danno alle varie contingenze situazionali in cui operano.
Le aziende con compiti stabili e ripetitivi avranno molta tecnostruttura e molta burocrazia meccanica.
Le grandi aziende con forte competitività di mercato avranno un ampio sviluppo delle linee intermedie
divisionalizzate.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

CAPITOLO 14. OLTRE LA BUROCRAZIA TRADIZIONALE: TECNOLOGIE


COMPLICATE E UTENTI ESIGENTI.
1. DUE FILONI DI RICERCA
Esiste un modo del tutto nuovo rispetto a quello descritto di affrontare il problema del lavoro
umano nelle organizzazioni economiche.
Negli ultimi vent'anni si sono sviluppati due filoni di ricerca che riguardano due maggiori novità
comparse nella società contemporanea:
1. Un filone riguarda le conseguenze che l'avvento di tecnologie più complicate e invasive
provoca nello svolgimento quotidiano del lavoro dipendente;
2. Il secondo filone esamina la crescita dei lavori "emozionali" che si svolgono in interazione
diretta con esseri umani che sono clienti, utenti etc.
Con l'avvento di questi due filoni di ricerca si esce dall'orizzonte concettuale in cui si cercavano le
formule organizzative più adatte ad affrontare determinati problemi, e si entra in un nuovo
orizzonte in cui si affrontano problematiche legate a modi, aspetti e proprietà del lavoro umano che
prima non esistevano o erano trascurati.

3. UNA PRECEDENTE: LA TIPOLOGIA DI CHARLES PERROW


Il modello presentato da Perrow all'inizio degli anni '70 è l'antefatto che ha preparato il terreno ai
successivi discorsi sulle nuove burocrazie caratterizzate:
 sia dall'impatto della tecnologia sul lavoro quotidiano
 che dai rapporti con l'utenza.
Vi sono due punti cardine dell'analisi di Perrow:
1. Un primo punto è la soluzione innovativa del rapporto tra soggetti e strutture organizzative.
Perrow osserva che la sociologia ha sempre dovuto rispondere alla domanda:
 se contano più i soggetti nel plasmare le strutture organizzative
 o se contano più le strutture nel plasmare l'agire dei soggetti.
Perrow ritiene fuorvianti entrambe le risposte.
Bisogna ormai riconoscere che tra soggetti e strutture vi è un rapporto complesso, che
impedisce di privilegiare uno dei due fattori.
I soggetti condizionano le strutture ma queste a loro volontà retroagiscono sui soggetti, in un
rapporto biunivoco.
Ad esempio, negli istituti di correzione si deplora che gli assistenti siano punitivi, e convinti che
ordine e disciplina bastino per correggere i minori a loro affidati.
Ma Perrow afferma che i sociologi contestano questo modo di vedere, argomentando che gli
atteggiamenti delle persone sono formati dalle organizzazioni in cui lavorano.
I vincoli e le aspettative presentate dal loro lavoro possono dettare il comportamento che
definiamo punitivo, e così si definiscono punitive le persone.
Ciò significa che le persone cambiano le loro convinzioni iniziali dopo aver lavorato per un certo
tempo in un'organizzazione, acquisendone la cultura prevalente.
Per comunque cambiare una realtà organizzativa dunque è necessario avere presente tutti i
condizionamenti strutturali, e mettere in atto un progetto politico culturale di lungo periodo.
Ma quei condizionamenti strutturali non nascono da una realtà esterna oggettiva che obbliga
gli esseri umani a comportarsi in un certo modo:
Perrow insiste sulla natura percepita dei compiti da affrontare.
Quei compiti sono costruiti socialmente, e sono quindi storicamente modificabili in base alla
cultura e alle convinzioni.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
2. Si arriva così al secondo punto dell'analisi di Perrow, ovvero la corruzione di una tipologia di
organizzazioni e lavori basata sul concetto di routine.
Perrow ritiene troppo semplicistica la contrapposizione tra:
 lavori burocratici considerati di routine e
 lavori non burocratici con minore presenza di routine.
Esaminando il termine routine è utilizzati per definire due situazioni distinte:
 è routine vi è poca varietà nei compiti e porca incertezza sui metodi da adottare;
 non è routine quando vi è un'alta varietà di compiti e un'alta incertezza sui metodi da
adottare.
La varietà dei compiti e la certezza dei metodi sono sempre apparsi connessi, ma in realtà
sono cose diverse, e la distinzione deve essere recuperata:
 infatti vi sono anche lavori che presentano varietà e anche certezza,
 e lavori che presentano poca varietà e anche incertezza.
La dimensione relativa all'uniformità o varietà dei compiti può essere anche definita come
presenza di poche eccezioni o molte eccezioni;
la dimensione relativa al grado di certezza o incertezza può essere definita come maggiore o
minore possibilità di analizzare la ricerca di procedure da seguire.
Le due variabili possono essere incrociate in una tabella 2x2 con 4 situazioni tipo distinte.
1. La prima cella definisce situazioni più tradizionali dove l'abilità di mestiere e la professionalità
degli operatori sono i requisiti per raggiungere un dato scopo, e riguarda dunque l'artigianato
classico e le attività affidate all'esperienza sul lavoro.
Le attività non sono variate ma i metodi e le tecnologie richieste consentono margini di
discrezionalità.
2. La seconda cella definisce lavori esecutivi richiesti per prodotti standard su larga scala. I lavori
sia manuali che amministrativi sono ripetitivi e programmati secondi procedure predefinite e
analizzabili.
3. La terza cella definisce le situazioni più critiche e più creative. Qui il lavoro non è ripetitivo ed è
caratterizzato da un elevato numero di problemi da risolvere unitamente a processi decisionali
non analizzabili in base a procedure pre- codificate.
4. La quarta cella infine definisce lavori tecnici in presenza di alta tecnologia.
In questi lavori la professionalità sta nel saper scegliere tra molte procedure predefinite quelle
più appropriate alla situazione da affrontare.

Il modello di Perrow si presta a delle considerazioni:


1. Questo modello ha il pregio di poter essere applicato a diversi tipi di situazioni lavorative, non
solo a industrie o amministrazioni, ma anche a lavori professionali consistenti in servizi e
interventi su persone.
2. Va tenuto presente che l'esistenza di molte o poche eccezioni nel lavoro e la ricerca più o
meno analizzabile delle procedure non dipende dalla natura oggettiva dei compiti da svolgere,
ma dalla percezione sociale e culturale della situazione in cui si deve intervenire.
3. Il concetto di routine risulta assai più articolato di quanto si crede.
Le routine non sono solo delle sequenze semplici e programmate di azioni, ma possono
prevedere dalle scelte tra alternative e l'operatore è tenuto a scegliere la strada ottimale in
base a istruzioni ricevute o esperienze pregresse.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
4. Lo schema di Perrow consente di distinguere tra la dimensione della responsabilità e quella
dell'autonomia, dimensioni spesso confuse tra loro.
Si dà per scontato che al crescere del grado di autonomia nell'esecuzione di un lavoro cresca la
responsabilità per il lavoro eseguito e viceversa.
Ma oggi nei lavori ad alta tecnologia non è più così: maggiore responsabilità nella gestione di
apparecchiature non comporta maggiore autonomia, al contrario diminuisce perché
l'operatore è tenuto a seguire rigorosamente le procedure previste in modo da evitare guasti e
incidenti.
La tabella precedente può anche essere rappresentata in questo modo:
 Tanto più la freccia è spessa tanto meno analizzabili sono le procedure adottate;
 quanto più sono gli alberi di scelta, tanto più frequenti sono le eccezioni.
Le diverse celle:
1. La cella 1 rappresenta lavori con poche eccezioni e procedure non analizzabili. Non vi sono
molte varianti, e sono interne al flusso gestito dall'operatore in base alla sua esperienza.
2. La cella 2 rappresenta lavori con poche eccezioni e procedure analizzabili.
L'operatore è tenuto a seguire una gamma ristretta di operazioni previste da una routine
specifica, e ha la sola scelta tra proseguire o interrompere (go and stop).
3. La cella 3 descrive lavori con molte eccezioni e procedure non analizzabili.
Le diverse frecce spesse con diverse varianti indicano l'esistenza di una pluralità di metodi che
richiedono scelte precise, e rilevanti margini di discrezionalità e improvvisazione.
Esistono delle routine ma non dettagliate da prescrivere ogni singolo atto.
4. La cella 4 descrive lavori con molte eccezioni e procedure analizzabili.
È la situazione di lavori tecnici con apparecchiature complesse, in cui l'operazione deve
memorizzare una quantità di routine dettagliate che non prevedono discrezionalità.
L'operatore deve scegliere tempestivamente le routine più appropriate alle situazioni da
fronteggiare.

Il modello di Perrow ha il merito di individuare alcune variabili che consentono di inserire diverse
situazioni lavorative in un solo schema concettuale.
Si superano così gli approcci che si limitano a esaminare preci e difetti della burocrazia classica.
Il suo modello è l'antefatto per comprendere il passaggio ai più recenti filoni di ricerca sulle comunità
di pratiche e sui lavori emozionali.

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5. A TU PER TU CON LE NUOVE TECNOLOGIE: LAVE E WENGER E LE COMUNITA’


DI PRATICHE.
Il concetto di comunità di pratiche nasce negli anni 90 e ha conosciuto una rapida fortuna nelle
scienze sociali.
Nonostante sia nati nell'ambito:
 della psicologia cognitiva,
 ha avuto ripercussioni anche nel pensiero organizzativo
 e nella sociologia del lavoro.
La premessa sulla quale si basa il concetto:
 è che l'apprendimento non avviene solo tramite insegnamento,
 perché non è un processo solo individuale, s
 solo mentale e non è separato dall'attività pratica.
Bisogna superare la distinzione:
 tra insegnamento
 e attività pratica
 e riconoscere che l'apprendimento avviene mediante un'attività situata,
 ovvero un'attività definita è influenzata dal contesto sociale e dalle situazioni che vi si sviluppano.
Tali situazioni producono conoscenza attraverso l'attività, quindi contesti e situazioni differenti
danno luogo a differenti processi di apprendimento e differenti conoscenze.
Queste caratteristiche conducono Lave e Wenger ad affermare che l'apprendimenti avviene soltanto
all'interno di specifiche comunità di pratiche formate da un insieme di persone.
Ma affinché una comunità di pratiche possa essere riconosciuta come tale occorre che abbia 3 requisiti:
1. IMPEGNO RECIPROCO TRA LE PERSONE;
2. UN'IMPRESA COMUNE;
3. REPERTORIO CONDIVIDO DI ESPERIENZE, TECNICHE E DISCORSI.

Le situazioni in cui più comunemente nascono comunità di pratiche sono:


 luoghi di lavoro,
 ma anche attività culturali,
 artistiche,
 religiose,
 sportive etc.
Va tenuto conto che:
 le comunità non richiedono la prossimità fisica del loro membri, in quanto nulla vieta che le
pratiche possano svolgersi mediante comunicazioni a distanza;
 le comunità sono sistemi sociali aperti, nel senso che si riferiscono continuamente con l'entrata e
l'uscita di membri;
 le pratiche non sono un patrimonio esclusivo dei membri esperti della comunità ma devono essere
messe a disposizione di membri nuovi che le apprendono gradualmente man mano che aumenta il
loro coinvolgimento.
Le comunità di pratiche si pongono dunque come sistemi sociali di apprendimento, mediante una
partecipazione periferica legittima.
Tale espressione indica che l'apprendimento non si ha con l'insegnamento astratto di principi formali, ma
con la partecipazione diretta e concreta alle pratiche della comunità.
La partecipazione inoltre è legale e legittima, ed è periferica perché il rito infante entra per gradi nella
comunità: non si limita a osservare il lavoro altrui ma svolge fin dall'inizio attività secondarie e di semplice
ausilio, che con il tempo acquistano sempre più importanza e complessità.
Sono importanti inoltre le interazioni con altri membri della comunità e in particolare grande importanza è
riconosciuta ai dialoghi.
Appare chiaro dunque che l'apprendimento non è solo un processo mentale ma un'attività coinvolgente
che cresce e si complessi dica nel tempo.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

4. LE COMUNITA’ DI PRATICHE SUI LUOGHI DI LAVORO


Il ripensamento dei processi di apprendimento provoca profonde ripercussioni sul modo di studiare:
 le organizzazioni
 e le condizioni concrete del lavoro.
Brown e Duguid sono gli autori:
 che danno il contributo più rilevante in questa direzione.
Il concetto di comunità di pratiche offre il vantaggio di pervenire:
 a una concezione unificata del lavoro,
 dell'apprendimento
 e dell'innovazione.
Si tratta di tre aspetti che finora sono stati concepiti come separati e in conflitto tra loro.
Innanzitutto bisogna chiarire il perché di questa separazione:
 la ragione principale secondo Brown e Duguid va trovata nello scarto tra le prescrizioni formali
su come si deve lavorare e le pratiche concrete su come effettivamente si lavora.
Le prescrizioni formali mettono i dettagli perché si ritiene che siano facilmente deducibili dai principi
formali.
Brown e Duguid ritengono che non è così:
 perché la pratica occupa un posto centrale nel processo di apprendimento,
 e senza una spiegazione delle difficoltà che si incontrano sogni passo è impossibile capire il
processo lavorativo e le premesse necessarie per dare un contributo innovativo.
L'apprendimento è visto dagli autori come:
 un ponte tra lavoro e innovazione.
Per avvalorare la loro tesi, Brown e Duguid si rifanno a una ricerca che John Orr ha svolto su
tecnici riparatori di macchine fotocopiatrici.
Orr aveva notato un distacco tra le prescrizioni:
 contenute nei manuali che le case produttrici forniscono per riparare le macchine
 e le pratiche di fatto eseguite per ripararle.
I manuali danno una strada predeterminate che non offre alternative, e presentano scelte basate sul
presupposto che i guasti delle macchine siano sempre prevedibili.
Orr ritiene che questo presupposto sia scorretto:
 in quanto i riparatori si trovano di fronte a un distacco tra le istruzioni sempre più semplici e la
tecnologia sempre più complessa e imprevedibile.
 Il distacco nasce dal fatto che le case produttrici vedono la riparazione dei guasti solo nei
termini del risultato finale e non in termini del reale processo che si svolge in condizioni di
lavoro che cambiano continuamente.
Le case produttrici concepiscono il lavoro di riparazione come una concatenazione di operazioni
elementari da eseguire.
Ma l'abilità dei riparatori consiste invece nel l'inventore strategie di interventi che superano
l’incombente prescrizioni dei manuali.
I riparatori infatti sviluppano la loro conoscenza non sui manuali di apprendimento ma le condizioni
reali.
La conseguenza paradossale è che l'inadeguatezza dei manuali rende il lavoro dei riparatori più
difficile.
Teoricamente di fronte a un guasto difficile da riparare i riparatori possono risolvere
sostituendo la macchina, ma questo è da loro percepito come una sconfitta:
 ingegnarsi a riparare una macchina dal guasto è prima di tutto questione di orgoglio.
Va inoltre tenuto presente che il compito dei riparatori non è solo aggiustare le macchine ma anche
mantenere e sviluppare le relazioni sociali tanto con gli utenti tanto con i colleghi.
Ciò avviene mediante lo story telling, ovvero la narrazione dei problemi incontrati nell'aggiustare la
macchina.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
I tecnici cominciano con:
 il farsi raccontare dai clienti cosa non va nella macchina,
 poi traducono quel racconto in una mappa concettuale,
 e se non riescono a risolvere quel problema da soli ne parlano con i colleghi di lavoro.
A differenza dei manuali che spiegano:
 cosa non funziona
 ma non spiegano il perché non funziona,
 i riparatori sono prima di tutto interessati a capire le cause dei gusti.
Il racconto del perché degli specifici guasti e del modo di eliminarli comincia a circolare tra i
riparatori, con l'effetto di accelerare i tempi di riparazione e accumulare un'esperienza comune che
costituisce la base di un'identità professionale collettiva.
Conseguenza importante della pratica del racconto:
 è quella di trasformare il lavoro di riparazione in un compito di gruppo caratterizzato da
collaborazione.
Quest'impegno collettivo e collaborativo nel lavoro porta al secondo aspetto sottolineato da Brown e
Duguid, che le comunità di pratiche sono necessarie ad alimentare l'apprendimento.
Nella ricerca compiuta da Orr l'oggetto dell'apprendere non erano solo le fotocopiatrici o il modo di
ripararle, ma anche il modo di raccontare i guasti, i tentativi e il risultato conseguito.
Apprendere comporta diventare membri di una comunità, imparare linguaggio e codici di
comportamento.
Orr sottolinea che la comunità da lui studiata:
 non era fatta solo di tecnici riparatori,
 ma anche di clienti e fornitori.
Tuttavia le comunità richiedono di essere riconosciute anche dalle case produttrici di fotocopiatrici.
Il lavoro di riparazione può essere svolto senza intoppi solo a condizione che le imprese riconoscano
che le comunità di pratiche sono indispensabili per poterlo eseguire.
Brown e Duguid riprendono questo punto da Orr per affermare che le organizzazioni vanno
ripensate come comunità di piccole dimensioni che sviluppano conoscenze al loro interno e poi le
trasmettono all'esterno.
Solo i piccoli gruppi evitano l'ossificazione delle grandi organizzazioni, e permettono di realizzare la
learning organization, ovvero tante piccole unità che favoriscono la formazione di nuove leve e nuove
idee.
Si arriva così al terzo punto di Brown e Deguid, ovvero l'innovazione.
L'innovazione è vista come
 un'iniziativa non solitaria ma che nasce solo in una comunità di pratiche.
Ciò significa 3 punti:
a) le visioni alternative del mondo non nascono solo nei laboratori scientifici ma in tutte le
comunità di pratiche interne a un'organizzazione;
b) l'innovazione non è data solo da grandi scoperte ma anche da micro novità;
c) l'innovazione non consiste solo nello scoprire nuove tecnologie ma anche nel concepire nuovi
ambienti in cui utilizzare quelle tecnologie, aprendo prospettive sconosciute.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

5. A TU PER TU CON GLI ESSERI UMANI: ARLIE HOCHSCHILD E I “LAVORI


EMOZIONALI”

Se nel filone delle comunità di pratiche la novità consiste nel portare l'attenzione sulle interazioni
quotidiane con cui le persone lavorano, nel filone del lavoro emozionale:
a) la novità consiste nel portare l'attenzione sulle interazioni dirette tra chi lavora in
organizzazioni di servizio e i clienti che necessitano di quei servizi.

L'espressione lavoro emozionale è usata per la prima volta dalla sociologa americana:
b) Arlie Hochschild nel libro The managed heart, che esponeva i risultati di una ricerca
sulle assistenti di volo in una compagnia aerea.
Con l'espressione lavoro emozionale Hochschild intende sottolineare un aspetto peculiare in tutti i
lavori di servizio a contatto con il pubblico.
Lei parte dalla premessa che bisogna superare la concezione ingenua secondo cui sentimenti ed
emozioni non si possono controllare ma solo reprimere.
Ma in realtà i sentimenti e le emozioni sono socialmente modificabili e mutevoli nel
tempo, sono educabili nel senso che si possono amministrare.
La gestione dei sentimenti non è una questione privata del singolo ma è regolata dalle norme sociali:
 sono queste a suggerire quali emozioni provare o non provare,
 quali sono appropriate o non appropriate in specifiche situazioni.
La premessa antropologica sulla natura sociale e gestibile delle emozioni permette alla Hochschild
di esaminare la gestione delle emozioni sul lavoro.
In un aereo di linea il passeggero può decidere se sorridere i no, ma le assistenti di volo sono tenute a
sorridere ma anche ad esibire un certo calore nel loro sorriso, anche se il passeggero è sgarbato.
Ciò avviene perché le assistenti hanno imparato a trasformare il sistema emozionale, ovvero a porre
un nesso tra un atto privato come un sorriso e un atto pubblico come sorridere a uno sconosciuto in
un contesto di lavoro.
Ciò richiede di porre i nostri sentimenti sotto il dominio di un'organizzazione.
Hochschild distingue tra due tipi di azione:
a) AZIONE DI SUPERFICIE: consiste nell'avere un comportamento conforme a certe regole, ma
dove si capisce subito che sorrisi e buone maniere non sono sentimenti reali, sono convenzioni
che non richiedono intima adesione da chi li compie.
Al di là del sorriso di circostanza non vi è nulla.
b) AZIONE IN PROFONDITÀ: comporta un lavoro su sé stessi fino a immedesimarsi totalmente nel
proprio ruolo.
Le assistenti di volo devono andare dunque oltre sorrisi e parole di circostanza, devono
dimostrare reale premurosità, interpretando le esigenze dei passeggeri.
Ciò non è facile, e per questo la compagnia aerea sottopone le hostess a dura selezione.
La Hochschild tuttavia è anche consapevole che la sfrenata competizione tra compagnie aeree
richiede un impegno di lavoro prolungato che rende sempre più difficile gestire i viaggiatori con
la gentilezza personalizzata che si richiede.
Così la routine prende il sopravvento e il mestiere delle hostess diventa banale.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

6. ROBIN LEIDNER E I SERVIZI INTERATTIVI: TRA ROUTINE E IMPREVEDIBILITA’

Tra le tante ricerche nate nel solco della Hochschild è da segnalare quella di Leidner:
 per il modo in cui sviluppa l'esame di quelli che chiama i lavori di servizio interattivo e le strategie
attuate dai soggetti coinvolti.
Leidner si distingue dalla Hochschild per due motivi:
a) Il primo motivo: è che Leidner non si limita a indagare il modo in cui una burocrazia inculca ai suoi
dipendenti le tecniche per gestire i sentimenti, ma compie un'indagine su due differenti luoghi di
lavoro:
 un ristorante McDonald
 e una compagnia di assicurazione col nome fittizio di Combined
Insurance.
Pur essendo due organizzazioni diverse condividono il fatto di lavorare in contatto diretto con i
clienti.
L'ipotesi di Leidner è che la gestione delle emozioni sia perseguita con metodi differenti e ottenga
risultati diversi.
b) Il secondo motivo è che Leidner è molto più critico della Hochschild nell'esaminare come si
controllano le emozioni, perché sottolinea soprattutto gli aspetti manipolativi volti a ottenere
uniformità di comportamento.
Leidner parte dal concetto di routine nel lavoro.
In ottica tayloristica:
 il lavoro operaio o comunque tutti i lavori esecutivi sono un susseguirsi di routine;
 anche la burocrazia di ufficio prevede il rispetto di rigorose routine,
 e anche quando si occupa di persone la burocrazia tende a trattarle non come soggetti ma come
pratiche.
Questo concetto di lavoro burocratico entra in crisi con l'avvento di una società dove i lavori di
servizio a contatto con i clienti crescono.
Le persone non sono più semplici pratiche, ma soggetti che entrano in interazione diretta con le burocrazie
e pretendono trattamenti personalizzati, e possono protestare per l'eventuale inefficienza.
1. La prima conseguenza è che diventa più problematico parlare di routine.
Nei lavori di servizio interattivo il problema maggiore diventa quello di inserire i clienti provenienti
dall'esterno dentro le routine della burocrazia che li accoglie.
A contestare la routine infatti non possono più essere solo i dipendenti, ma nei servizi interattivi è
sempre più frequente che siano i clienti a contestarle.
2. La seconda conseguenza è che mentre nei lavori manuali i dipendenti devono confrontarsi solo con
il management, nei lavori di servizio interattivo i soggetti in gioco diventano 3:
 i dipendenti,
 il manager
 e i clienti esterni.
Il quadro si complica aprendo prospettive nuove.
L'ipotesi di Leidner e che quando i clienti contattano l'organizzazione per un servizio i loro interessi
convergono con quelli dei dipendenti:
 all'aspettativa dei clienti di ricevere un servizio soddisfacente corrisponde la professionalità dei
secondi a offrirlo.
 Però il management, preoccupato per i costi, sollecita i dipendenti a standardizzare il servizio e
accorciare i tempi.
Quando invece sono le organizzazioni a cercare i clienti avviene il contrario:
 i dipendenti e i management hanno l'interesse di convincere clienti diffidenti ad accettare il
servizio.
Il modo diverso di comportarsi nei confronti delle routine porta Leidner ad affrontare il problema di come
le persone accettino di essere routinizzate, agendo in conformità di direttive della burocrazia interessata a
raggiungere la massima efficacia e prevedibilità del servizio.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Leidner individua 3 tipi di servizi interattivi distinti in base alle personali qualità del lavoratore e alla
natura delle interazioni che si sviluppano nel corso del servizio.
1. Nel primo tipo rientrano i servizi in cui l'interazione è inseparabile dal prodotto fornito (es.
rapporto tra studente e insegnante).
2. Il secondo tipo è formato da servizi in cui il prodotto è separabile dall'interazione, ma questa è
importante per determinare la qualità del servizio offerto: es. guide turistiche, assistenti sociali,
medici.
3. Il terzo tipo è formato da servizi in cui la qualità dell'interazione è cruciale per vendere il prodotto
ma non fa parte del prodotto stesso: es. assicuratori, intervistatori.

7. ROUTINIZZAZIONE LE EMOZIONI TRA RESISTENZA E COMPLICITA’


Come sostiene la Hochschild tutti i servizi richiedono un lavoro emozionale, ovvero la creazione di
un particolare stato emotivo nei clienti e utenti mediante la manipolazione dei loro sentimenti.
Leidner va oltre la Hochschild perché sostiene che la routinizzazione del lavoro emozionale non è
una costante ma una variabile che dipende da una decisione del management.
Questo decide di routinizzate la gestione delle emozioni quando:
 ritiene che la qualità dell'interazione sia importante per garantire il successo dell'impresa;
 giudica i dipendenti incapaci di gestire efficacemente di loro iniziativa le emozioni dei clienti/
utenti;
 è la stessa natura del servizio offerto a imporre di routinizzare le interazioni per garantirne il
controllo.
Quando però i clienti non gradiscono trattamenti troppo standardizzati, o quando le interazioni
sono troppo complesse e ad alto contenuto professionale, le misure descritte hanno un effetto
limitato.
Allora le burocrazie ricorrono a una seconda strategia che consiste nel "personalizzare" la routine.
Leidner sostiene che la personalizzazione però si riduce quasi sempre ad una apparenza.
Agli addetti ai servizi interattivi viene insegnato di ripetere frasi di circostanza già preparate, simulare
attenzione per il cliente è addirittura fingere di fare delle eccezioni al regolamento pur di venirgli
incontro.
Sono tutti metodi per dare l'impressione al cliente di un trattamento personalizzato.
Eppure Leidner sostiene:
 che non è sempre possibile eliminare del tutto la discrezionalità dalle iniziative degli addetti,
specialmente quando questi sono al di fuori di un controllo diretto.
Per affrontare queste eventualità le burocrazie decidono di formare i dipendenti in modo che, pur
prendendo decisioni autonome, agiscano in piena conformità con le direttive.
Dunque diventa di rilevante importanza la formazione pregressa.
Lo scopo è un controllo più esteso e sottile di quello esercitato sul comportamento esplicito dei
dipendenti.
Dopo aver illustrato il suo schema teorico, Leidner passa ad esporre i risultati della sua ricerca.
In base alle ipotesi delineate:
 egli si attende che al McDonald la routinizzazione sia portata avanti con predeterminazione di
tutte le decisioni,
 mentre alla Combined Insurance alcuni aspetti delle decisioni siano lasciati agli addetti, dopo
essere stati sottoposti a un addestramento preventivo.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Leidner intende esaminare anche come le due organizzazioni inducono i clienti a cedere alle loro
Disposizioni:
 il grado di successo che ottengono nel controllare il comportamento dei dipendenti e come
questi ultimi concilia il loro senso di indennità con l'identità imposta dalle organizzazioni.
 Quando scende sul campo però Leidner si accorge che i comportamenti sono più complessi di
quelli attesi.
 Al McDonald gli addetti cercano ogni occasione per discostarsi dalla routine e per
personalizzare il servizio in una tacita alleanza con i clienti che affollano il locale;
 nella compagnia di assicurazione invece gli agenti vanno di casa in casa per indurre chi vi abita
a stipulare dei contratti, e seguono meticolosamente la routine predisposta dalla compagnia,
in quanto ritengono che sia il miglior modo per persuadere i clienti e ottenere un risultato che
beneficia dalla compagnia per cui lavorano.

Le ricerche della Hochschild e di Leidner ci dicono:


 che l'obiettivo dei manager di ottenere il massimo controllo sulla forza lavoro con risultati il più
possibile prevedibili non cambia passando da un tipo all'altro di organizzazioni,
 ma cambiano semplicemente i mezzi con cui ottenere quei risultati.
In entrambi i casi un insieme di costrizioni comprimono la libera soggettività dei lavoratori:
 ma mentre nelle burocrazie tradizionali le costrizioni puntano a ottenere il massimo sforzo nel
volume di output prodotto, nelle burocrazie dei servizi puntano a costruire nei dipendenti una
personalità artificiale da "vendere" al pubblico;
 inoltre mentre nelle burocrazie tradizionali il rapporto tra datori di lavoro e dipendenti
produceva dinamiche sociali semplice,
 nelle burocrazie dei servizi l'avvento del pubblico come terzo attore complica quel rapporto
che può portare a giochi strategici più complessi.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

CAPITOLO 16. RAZIONALITA’ LIMITATA E DECISIONI: HERBERT SIMON E LA SUA


SCUOLA.
1. I TRE PUNTI DELLA RIVOLUZIONE SIMONIANA
Si è detto che nella metà del 20 sec. il funzionalismo è stato il paradigma predominante delle
scienze sociali.
Nel campo del pensiero organizzativo tuttavia la maggiore alternativa teorica al funzionalismo è
rappresentata fin dagli anni ’40 da Herbert Simon e dalla sua scuola chiamata comportamentista,
per sottolineare che il suo oggetto di analisi sono i comportamenti umani all’interno delle
organizzazioni.
Simon e la sua scuola contribuirono al calare del funzionalismo.
La rivoluzione simoniana al modo di concepire le organizzazioni e il comportamento umano al loro
interno si costituisce di 3 punti:

1. IL PRIMO PUNTO:
Simon ritiene che per studiare il comportamento umano nelle organizzazioni non occorre partire
dall'organizzazione intesa come una struttura che prescrive dei ruoli, ma dagli uomini che agiscono
all'interno e che sono visti come soggetti che decidono continuamente.
La decisione è l’oggetto fondamentale della conoscenza organizzativa.
Ma capire il modo in cui si decide e dunque in cui si agisce, occorre assumere come unità di analisi
le premesse delle decisioni umane.
Simon afferma che la premessa è un'unità di analisi più piccola del ruolo perché:
 “ogni decisione dipende da molte premesse che sono numerose nella definizione di un
solo ruolo”.
Studiare il comportamento di un gruppo umano all’interno di un’organizzazione significa:
 vedere l’organizzazione come uno schema che “fornisce a ogni appartenente al gruppo
buona parte dell’informazione, delle premesse, degli obiettivi e degli atteggiamenti che
influenzano le sue decisioni”.
L’organizzazione è un luogo dove gli uomini decidono secondo una certa programmazione e un
certo coordinamento.

2. IL SECONDO PUNTO:

è che Simon ritiene che sia sbagliato ritenere che l'uomo sia un soggetto perfettamente razionale.
L’uomo dispone di una razionalità limitata.
I limiti oggettivi della conoscenza, l’impossibilità di considerare contemporaneamente troppe
variabili, l’incertezza interna a ogni gerarchia delle preferenze, la disposizione mentale, le
convinzioni dovute alla formazione culturale e i vari condizionamenti sociali fanno sì che nella
maggior parte dei casi le decisioni vengano prese secondo un criterio di sufficienza e di
soddisfazione minimale.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
3. IL TERZO PUNTO:
della rivoluzione di Simon consiste nel riprendere il modello proposto da Barnard sull’equilibrio
tra incentivi e contributi come principio generale di funzionamento di un’organizzazione, e nel
rileggerlo sulla base dei due punti precedenti.
Tale equilibrio appare come la risultante nel tempo, di un complesso di decisioni tutte
limitatamente razionali.
Esse riguardano il flusso delle attività interne all’organizzazione, le procedure che regolano tali
flussi e le scelte che gli individui compiono in rapporto all’organizzazione.
In tale prospettiva l’oggetto centrale dell’analisi è rappresentato:
 dalle forme
 e dall’intensità dell’identificazione dei soggetti
 con l’organizzazione complessiva
 e sue sub-unità.
Anche Parsons si era rifatto a Barnard per trarne l'argomento che il consenso dei membri è il
presupposto indispensabile per il funzionamento di un sistema organizzativo.
Ma il modo in cui Simon si riallaccia a Barnard è diverso:
 il consenso rimane problematico perché l'identificazione dei soggetti con l'organizzazione
non è scontata
 e in ogni caso non obbedisce mai alla logica della massimizzazione ma a quella della
sufficienza.
Di conseguenza bisogna studiare le condizioni che rendono possibili le forme di cooperazione, ma
anche le cause e le forme dei conflitti.
Per Simon un'organizzazione può sopravvivere indefinitamente anche in modo conflittuale.
Inoltre Simon non reifica l’organizzazione:
 non è un contenitore dotato di scopi e di una vita indipendente, ma va vista come il
risultato delle azioni di una moltitudine di uomini.

2. LE FALSE CERTEZZE DEI PRINCIPI CLASSICI

Simon inizia la sua opera effettuando una critica radicale dei principi di amministrazione presentati
dalla scuola classica come delle verità universali e inoppugnabili.
I principi stabiliscono che l’efficienza tende ad aumentare se:
 si specializzano i compiti in senso al gruppo di lavoro;
 si assegnano i componenti del gruppo a una sola gerarchia di autorità;
 si restringe l’ambito del controllo ad un piccolo numero di dipendenti;
 si raggruppano quest’ultimi secondo criteri coerenti come fine, procedimenti, clientela e
luogo di lavoro.
Simon analizza tali principi per dimostrarne l’inconsistenza.

 IL PRINCIPIO DI SPECIALIZZAZIONE
stabilisce che l’efficienza aumenta se i dipendenti vengono specializzati.
Tale affermazione è valida secondo 2 criteri:
a) il primo è in base alle funzioni svolte, in modo che i dipendenti devono occuparsi di tutti i problemi
attinenti a una data funzione a prescindere dal luogo in cui essi si verificano;
b) il secondo è su base territoriale in modo che i dipendenti collocati in una data area devono
occuparsi di tutto ciò che avviene in quell’area.
La scuola classica non dice quale di questi due criteri sia migliore, quindi la grande teoria
amministrativa non offre alcuna soluzione concreta.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

 IL PRINCIPIO DI UNITÀ DI COMANDO


stabilisce che ogni dipendente debba ricevere ordini da un unico superiore.
Tuttavia Simon osserva che questo principio trova numerose smentite quando si incrocia con il
principio di specializzazione.
Esistono catene complesse di lavori e competenze che non possono essere affidate ad un unico
superiore.
Capita spesso infatti che un dipendente prenda ordini:
 da un superiore per alcuni aspetti e
 da un altro superiore per altri aspetti.
Anche questo principio non dà indicazioni utili su come decidere concretamente la struttura
gerarchica di un'organizzazione complessa.
 IL PRINCIPIO DELL’AMBITO DI CONTROLLO
dichiara che quanto più i gruppi sono piccoli tanto più è facile controllarli e quindi maggiore è
l’efficienza.
Applicare tale principio significa optare per una struttura a maglie strette, e dunque comporta una
moltiplicazione di maglie per coprire tutta l'organizzazione.
Tali maglie devono essere coordinate in modo da garantire le comunicazioni verticali e orizzontali.
Questo principio contrasta con un altro principio secondo cui l’efficienza aumenta se si riduce il
numero dei livelli amministrativi attraverso i quali passano le comunicazioni.
Anche in questo la scuola classica non da una soluzione.
 L’ULTIMO PRINCIPIO
sancisce che l’efficienza cresce se il personale viene raggruppato secondo:
o fine, procedimenti, clientela e territorio.
Tale principio non stabilisce niente di valido, in quanto fine, procedimenti, clientela e territorio
sono criteri organizzativi tra loro concorrenti e ad ogni momento i vantaggi che derivano da tre di
essi devono essere sacrificati per applicare il quarto.
In tutti i casi considerati la teoria classica dell'amministrazione si limita a dare prescrizioni
generiche e astratte che vanno integrate sempre con considerazioni esterne alla teoria stessa.
Ci si ritrova dunque in una situazione dalla quale secondo Simon si esce rinunciando a ricercare dei
principi universali da cui derivare la struttura ottimale delle organizzazioni.
Bisogna creare degli strumenti operativi che consentano di pervenire a delle “descrizioni
scientificamente significative” di situazioni amministrative specifiche.
Tali descrizioni dovranno mostrare per ciascuna persona quali decisioni essa prende e a quali
influenze è soggetta nel prendere ciascuna decisione.
Solo dopo aver compiuto questa analisi è possibile un ulteriore esame di eventuali interventi
migliorativi.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

3. GIUDIZI DI FATTO E GIUDIZI DI VALORE. IL CONTINUUM MEZZI-FINI.

Lo studio del comportamento organizzativo equivale quindi per Simon ad un'analisi delle decisioni.
Il primo passo è la distinzione di due categorie di giudizi.
Simon distingue tra:

 GIUDIZI DI FATTO: sono “descrizioni del mondo sensibile e del modo nel quale esso opera".
Sono dunque giudizi empirici di cui è sempre possibile verificare se sono veri o falsi.

 GIUDIZI DI VALORE: esprimono l’opzione per uno stato di cose ritenuto desiderabile, e hanno
un valore etico e ottativo.
A differenza dei giudizi di fatto non possono essere giudicati come veri o falsi in quanto non
esistono mezzi per verificare empiricamente la loro correttezza, ma possono essere accettati o
rifiutati in base ad altre premesse di valore e non in base a criteri di verificabilità scientifica, in
quanto scienza ed etica rappresentano per Simon due dimensioni concettualmente distinte
dell’agire umano.

Distinguere questi due tipi di giudizi è semplice, ma diventa più complesso nel l'osservazione
concreta dei comportamenti umani, dove i due tipi di giudizi sono sempre compresenti e intrecciati.
Tale intreccio appare in modo particolare nelle decisioni.

Simon vede le decisioni come un processo in cui certi mezzi vengono scelti per raggiungere dati fini:
 l’adeguatezza dei mezzi è oggetto di giudizi di fatto,
 mentre la desiderabilità del fine è oggetto di giudizi di valore.
 Un esempio può essere in campo militare: si può dare un giudizio tecnico sull'efficacia dei
mezzi militari per un attacco a sorpresa prescindendo dal giudizio di valore sulla liceità morale
di quell'azione.
Come in Weber alla razionalità rispetto allo scopo corrisponde la burocrazia, in Simon ai giudizi di
fatto corrisponde la scienza dell’amministrazione:
 in entrambi i casi si prescinde dai giudizi di merito sulle finalità ultime dell'azione.
Weber vede una profonda tensione tra:
 la razionalità rispetto allo scopo e quella rispetto al valore, e tale tensione è destinata ad
aggravarsi nel mondo moderno a causa della crescente potenza dei mezzi tecnologici.
Simon invece pone:
 in relazione mezzi e fini, quindi giudizi di fatto e di valore:
 nei concreti comportamenti umani esiste sempre un continuum mezzi-fini.
Ogni azione ha sempre 2 facce:
 è al contempo un fine dell’azione precedente e un mezzo per l’azione successiva;
 in quanto mezzo essa è soggetta a dei giudizi di fatto sulla sua idoneità a raggiungere un dato
fine, ed in quanto fine è soggetta a dei giudizi di valore.

Se si applicano queste conclusioni ai comportamenti umani nelle organizzazioni, ne deriva che la


scienza dell'amministrazione, anche se necessaria, non è sufficiente da sola perché si limita a
studiare i metodi ottimali per raggiungere determinati obiettivi, ma non dice il perché quegli obiettivi
sono considerati desiderabili dagli uomini.

Se si vogliono studiare questi aspetti bisogna passare da:


 una scienza dell'amministrazione
 a una sociologia dell'organizzazione.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

4. I LIMITI DELLA RAZIONALITA’ UMANA


Il fatto che gli uomini agiscano in una catena ininterrotta dove ogni azione serve a prepararne
un'altra fornisce coerenza al comportamento umano, e questo può considerarsi razionale.
Simon definisce:
 la razionalità umana come “la selezione di alternative di comportamenti preferiti in rapporto ad un
sistema di valori in base al quale sia possibile valutare le conseguenze del comportamento”.
Tuttavia si tratta di una razionalità limitata.
In contrapposizione con la teoria economica classica, che definisce l'uomo come perfettamente razionale.
Simon analizza le cause che limitano la razionalità delle decisioni umane.
Vi sono 5 ordini di fattori:
1. In primo luogo, raramente la catena dei mezzi fini è completa:
 quanto più il fine è remoto tanto più debole diventa l’integrazione tra le varie azioni.
Spesso la connessione tra le attività quotidiane e i fini ultimi sfugge o è mutevole.
Talvolta la mancata connessione è dovuta al rifiuto o all’incapacità da parte dei capi
dell’organizzazione di decidere su questioni politiche scottanti.
La razionalità illumina così solo un segmento del continuum che poi si perde nell’ombra del non
detto, dell’ambiguo, del non ancora deciso.
Ci si trova a lavorare su programmi limitati e definiti da obiettivi intermedi, e si evita di porsi la
questione della loro ragion d'essere complessiva.
Il limite trova le sue radici nell’impossibilità di pervenire a una consapevolezza totale del continuum
mezzi-fini.
2. Un secondo fattore che limita la razionalità umana riguarda la scelta dei mezzi.
La mente umana tiene presente solo una rosa ristretta di alternative, e spesso si è portati a
scegliere una data via escludendo a priori un esame più ampio.
Ciò può essere causato dalla resistenza ad apprendere nuove strade, dal ricordo di successi
precedenti che si spera di ripetere o da convinzioni radicate.
3. Un terzo fattore sta nell'impossibilità di separare completamente i mezzi dai fini, perché la scelta
dei mezzi non è mai neutrale rispetto ai fini che gli uomini si propongono.
4. Un quarto fattore consiste nel fatto che non è possibile conoscere a priori tutte le conseguenze di
una scelta e fare una gerarchia sicura delle preferenze.
Per risolvere questo limite si elaborano previsioni probabilistiche basate sull'esperienza passata e si
assumono degli obiettivi intermedi come sufficientemente preferibili, ma si lascia nell'ambiguità il
giudizio sulle possibili gerarchie di preferenze più remote.
Limitare l'analisi ad un certo punto della catena delle conseguenze, appare come una condizione
indispensabile per poter prendere una decisione.
5. Un quinto fattore consiste nel fatto che nelle organizzazioni le decisioni raramente sono individuali,
ma esprimono comportamenti di gruppo.
Le decisioni possono essere prese in una situazione cooperativa, che si ha quando i membri del
gruppo condividono gli obbiettivi e si scambiano informazioni dando luogo ad un lavoro di equipe.
Le decisioni possono essere prese però anche in situazioni di conflitto che si ha quando i soggetti
mutano il loro comportamento in relazione alle mosse dell’avversario.
In ogni caso, quanto maggiore è il gruppo dei partecipanti reali alla decisione, tanto maggiore è la
probabilità che si giunga a dei compromessi e a degli aggiustamenti tra le varie convinzioni e i vari
interessi in gioco.
Secondo Simon tutti questi fattori portano a due conclusioni fondamentali:
a) La prima considerazione è che le decisioni vanno viste come processi in cui mezzi e fini vengono
scelti e confrontati strada facendo;
b) La seconda è che solo in casi eccezionali le decisioni vengono prese seguendo il criterio
dell'efficienza ottimale: nella normalità dei casi le persone si accontentano di soluzioni
soddisfacenti, dove la prevedibilità di una soluzione rispetto a un’altra è sempre relativa e
prevedibile.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

5. LE STRUTTURE ORGANIZZATIVE: DECISIONI PROGRAMMATE, AUTOTITA’,


INFLUENZA
Il fatto che la razionalità umana sia limitata spiega il fatto che gli uomini costruiscono delle
organizzazioni.
Secondo Simon se la razionalità non fosse limitata non potrebbe esserci una struttura organizzativa stabile
in quanto:
 “i modelli di comportamento che chiamiamo organizzativi sono essenziali per il raggiungimento
della razionalità in senso lato”.
La connessione tra i limiti umani e la necessità di ricorrere alla cooperazione organizzata trova una
teorizzazione esplicita con Barnard.
Gli uomini hanno limiti fisici, psichici, culturali che impediscono loro di perseguire degli obbiettivi
complessi:
 per spostare più avanti questi limiti gli uomini devono creare dei sistemi di cooperazione dotati di un
efficace equilibrio tra i contenuti richiesti e gli incentivi offerti.
Simon riprende tale tesi, e afferma:
 che le organizzazioni offrono il modo più efficace per integrare
 e coordinare il comportamento umano mantenendo la razionalità a un livello alto.
Ma le organizzazioni non raggruppano semplicemente gli individui affidando a ciascuno una funzione, in
quando gli uomini nelle organizzazioni elaborano anche delle decisioni programmate.
Affinché gli uomini possano porsi degli obbiettivi complessi non basta che lavorino in gruppo;
 occorre anche che non siano costretti a prendere decisioni nuove per ogni singolo atto che
compiono, ma che possano ricorrere a sequenze di decisioni prestabilite in base a esperienze e
calcoli.
Naturalmente gli uomini devono talvolta prendere anche delle decisioni anche non programmate.
In genere però gli uomini trovano nelle organizzazioni un repertorio di programmi già esistenti che danno
informazioni sufficienti per stabilire almeno i criteri minimali sulle decisioni da prendere.
Ma le decisioni programmate non si limitano a dare schemi per eseguire i lavori materialmente richiesti
dentro l’organizzazione:
 esse servono anche ad assorbire l’incertezza.
La maggior parte delle volte un’esplorazione completa non è possibile perché comporterebbe costi e ritardi
intollerabili:
 si decide allora di decidere in base al alcuni indicatori che stanno al posto delle prove certe, ma ai
quali i calcoli e le esperienze precedenti conferiscono un grado accettabile di probabilità.
Questo è un tipico esempio di razionalità limitata.
Secondo Simon:
 “il comportamento razionale esige modelli semplificati che includano gli elementi essenziali del
problema senza rifletterne tutta la complessità”.
Gli uomini entrando in un’organizzazione sono già soggettivamente disposti a conformarsi a delle
direttive provenienti dai loro superiori; generalmente si ritiene che gli uomini obbediscano in base
al principio di autorità.
Secondo Simon l’autorità riguarda solo la parte dei comportamenti umani in cui l’uomo accetta di
conformarsi agli ordini, mettendo a riposo le sue facoltà critiche.
Esiste invece un’area vasta di comportamenti umani che sono regolati dal principio di influenza:
 la decisione di agire viene presa in base a un convincimento per il quale chi agisce è d’accordo
almeno a grandi linee con chi comanda sul merito delle cose che gli viene detto di fare.
Per Simon il convincimento deriva spesso dalla trasmissione per via sociale di dichiarazioni di
fatto.
Inoltre alcune affermazioni possono convincere senza bisogno di prova, solo per effetto della posizione
ricoperta dalla persona delle quali hanno preso origine.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Così Simon opera una sottile distinzione:
 ordini eseguiti sospendendo le proprie facoltà critiche.
 ordini eseguiti in base al convincimento che sono opportuni perché si ha stima nei confronti di chi li
dà.
 ordini eseguiti perché si è autonomamente convinti della loro opportunità di merito.
Tale distinzione è importante per comprendere il grado più o meno autoritario o democratico partecipativo
di un'organizzazione.

6. L’EQUILIBRIO NELL’ORGANIZZAZIONE E LA DECISIONE DI PARTECIPARE


Simon riprenda la tesi di Barnard, e afferma che l’esistenza di qualsiasi organizzazione è resa possibile
dall’equilibrio tra i contributi forniti dai singoli partecipanti e gli incentivi che essi ricevono in cambio.
Il postulato prevede che ogni partecipante decida di restare finché gli incentivi ricevuti hanno per lui un
valore pari o superiore al valore che egli conferisce ai contributi richiestigli.
I contributi di tutti i partecipanti costituiscono la fonte da cui l’organizzazione trae gli incentivi da offrire ai
partecipanti stessi.
Per capire il modello di Simon bisogna tenere presente che:
 Solo una parte degli incentivi è di natura materiale.
Una larga parte degli incentivi non sono di natura materiale, come sicurezza, prestigio, crescita
professionale, senso di identità, familiarità con il luogo e equilibrio psichico.
 La “funzione di utilità”, cioè il valore che ogni incentivo materiale o non materiale presenta ai
singoli partecipanti, ha un fondamento soggettivo nella struttura delle preferenze individuali.
 Alcuni apprezzeranno il denaro, altri la sicurezza, altri gli onori.
 Il modello ha una capacità di unificazione concettuale forte.
Non sussiste solo il rapporti di lavoro e gli altri rapporti economici di un'impresa, ma anche
qualsiasi rapporto non economico.
 Il modello sollecita continuamente l’osservatore a porsi nella condizione mentale di concepire
l’organizzazione come nulla più che il risultato contingente della partecipazione umana.
Le organizzazioni vanno pensate come processi che riescono a durare nel tempo solo finché
attraggono e organizzano con successo i contributi necessari alla loro esistenza.
Se mutano i contributi, muta anche l'efficacia nel raggiungere i fini stabiliti e mutano i fini stessi in
quanto sono stabiliti da membri che partecipano.
La decisione di restare o lasciare l'azienda (dunque il turnover nell'azienda) può essere vista come
l’effetto del saldo tra l’utilità percepita degli incentivi e quella dei contributi.
Ma il saldo contiene a sua volta due variabili:
 LA DESIDERABILITÀ PERCEPITA
 LA FACILITÀ PERCEPITA DI LASCIARE L’ORGANIZZAZIONE.
Le due variabili sono in parte indipendenti l'una dall'altra, e ciò spiega che non esiste connessione
meccanica tra il grado di soddisfazione e la decisione di rimanere o no.
Se i soddisfatti tendono a restare, non significa che gli insoddisfatti decidano di andarsene.
Il modello di Simon non da una risposta di ordine generale sul turnover dei lavoratori, ma suggerisce una
pluralità di percorsi di ricerca.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Per dare un'idea della capacità esplicativa di questo modello bisogna esporre 3 punti.
a) Il primo punto è che vi è la possibilità che il fine dell’organizzazione sia cambiato.
Ciò può avvenire quando la coalizione maggioritaria dei membri che ricoprono ruoli direttivi decide
di migliorare il rapporto tra contributi e incentivi o quando si percepisce che il fine non corrisponde
più alle richieste dei clienti.
b) Il secondo punto è che esistono contributi diretti e indiretti:
 sono diretti se i fini dell’organizzazione hanno un valore immediato e personale per i
membri che contribuiscono;
 sono indiretti se sono risarciti con ricompense diverse dal raggiungimento del fine
organizzativo in sé.
La distinzione trova un facile riferimento nelle imprese dove:
 il lavoro svolto dai proprietari è un contributo diretto,
 Il lavoro svolto dai dipendenti è in prevalenza un contributo indiretto.
c) Il terzo punto riguarda la possibilità che gli incentivi alla partecipazione provengano non dal fine
generale perseguito dall’organizzazione, ma da un suo sub-obiettivo.
Anche questa possibilità appare scontata nelle organizzazioni economiche, dove varie persone sono
preposte a sub-obiettivi lontani dall'attività principale ma diventano per esse l'obiettivo primario.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

7. R. CYERT E J. MARCH: COALIZIONI, QUASI-SOLUZIONE DEI CONFLITTI E


AMBIGUITA’ DEI FINI.
Cyert e March sono i due autori che per molti versi sono tra i più diretti prosecutori dell’opera di
Simon.
Essi con la loro opera fanno lo sforzo di collegare:
 la teoria economica classica all'analisi organizzativa,
 e cercano di esaminare come il management prende le decisioni.
Il punto di partenza è l'acquisizione di Simon che solo gli uomini hanno degli scopi e che le
organizzazioni sono degli artefatti per perseguire gli scopi che gli uomini decidono.
Qui vale il modello contributi incentivi di Simon.
Ma per stabilire gli scopi e gli obiettivi strategici di un’organizzazione occorre una coalizione di
individui o di gruppi di individui già riuniti in sub-coalizioni.
All’interno di una coalizione bisogna distinguere tra:
 MEMBRI ATTIVI: sono quelli che partecipano alla presa di decisioni in quanto si attendono dei
benefici di ordine politico, ossia inerenti alla determinazione degli obiettivi.
 MEMBRI PASSIVI: sono coloro che si attendono dei benefici monetari e sono esclusi nella presa
di decisioni strategiche.
Considerare gli scopi dell’organizzazione come l’espressione del processo decisionale di una
coalizione di membri attivi ha importanti conseguenze per l’analisi organizzativa.
a) In primo luogo porta a vedere l'impresa non come dominata da una sola volontà, ma come
una confederazione di interessi differenti che possono entrare in conflitto.
Di conseguenza l’attività più critica nel governo di un’impresa è quella di formare una
coalizione sufficientemente larga per determinare gli scopi da perseguire.
b) In secondo luogo, gli scopi stabiliti dalla coalizione sono sempre un compromesso che
comprende molti aspetti ambigui, volutamente mal definiti, con parti e aspetti non operativi.
Ciò si spiega con il fatto che un accordo su alcune cose precise da fare subito, è possibile solo
se si accetta di lasciare nell’indefinito, considerevoli aree di disaccordo e di incertezza sugli
obiettivi più remoti e sui sub-obiettivi, e che l’organizzazione può perseguire scopi diversi e
contrastanti contemporaneamente.
c) In terzo luogo: Questo modo d’agire è l’unico razionale in condizioni di incertezza.
Esso non elimina l'incertezza, ma la rimanda più in là oltre lo spazio limitato in cui vi è accordo
sulle decisioni specifiche da prendere.
Si agisce dunque in termini:
o di “quasi risoluzione” dei conflitti,
o di “livello minimo accettabile”
o e di “attenzione sequenziale agli scopi”.
d) In quanto luogo: Poiché gli scopi esprimono l'equilibrio esistente in un dato momento tra i
partecipanti della coalizione, ne deriva che essi di norma cambiano se cambiano i rapporti di
forza o se escono alcuni partecipanti o ne entrano degli altri.
In determinati momenti possono anche verificarsi le alleanze più inattese che possono
trasformare l'organizzazione, ma può anche capitare che uno o più partecipanti escano dalla
coalizione determinando la fine dell'organizzazione.
e) In quinto luogo: Affinché un’organizzazione sopravviva non è richiesto che i membri della
coalizione condividano necessariamente alcuni valori generali sulla sua legittimità.
Per sopravvivere un'organizzazione ha bisogno solo di mantenere una coalizione di parti che
forniscano le risorse e il sostegno necessario perché essa continui con le sue attività, che sono
esse stesse i risultati desiderati dai membri della coalizione.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

CAPITOLO 18. CULTURA, SIGNIFICATO E RISORSE: APPROCCI DURI E APPROCCI


MORBIDI ALLE ORGANIZZAZIONI.
1. DAL PARADIGMA DELLE CONTIGENZE AGLI APPROCCI “MORBIDI”.
Negli anni 70:
 la teoria contingentista era il paradigma comune, ma cominciava ad esservi il dubbio che tale
teoria portasse a conoscenze non davvero significative.
 Le ricerche sulle contingenze organizzative si erano sviluppate nel presupposto che fosse possibile
individuare delle connessioni strutturali “dure” e necessitate al di là delle strategie umane.
Secondo John Child però la debolezza dei risultati raccolti obbligava a fare autocritica.
Bisognava riconoscere che anche i fattori che a prima vista potevano risultare oggettivi, sono in gran parte il
prodotto di scelte e di convinzioni umane:
ad esempio l'ambiente in cui si opera non è dato, ma si sceglie.
Le conclusioni di Child riproponevano l'importanza della soggettività dell'azione umana nelle
organizzazioni:
 occorreva tornare a studiare le scelte strategiche del management alla luce della cultura,
 delle convinzioni e delle preferenze che emergono nei gruppi di comando.
Una seconda sfida agli approcci duri alle organizzazioni proveniva dai confronti tra le diverse culture
nazionali.
Una tesi formulata in senso alla teoria delle contingenze sosteneva:
 che quanto più si sviluppa un processo di industrializzazione,
 tanto più le strutture organizzative tendono a omogeneizzarsi in tutti i paesi perché le specificità
culturali delle varie società perdono sempre più importanza nel modellare quelle strutture.
Questa tesi, detta della convergenza tendenziale:
 accese forti controversie.
 Nel dibattito organizzativo si cominciò a diffondere il dubbio che le conoscenze di natura
quantitativa servissero a poco per afferrare la vera identità delle organizzazioni.
Era come se per conoscere una persona di avesse la convinzione che solo una scienza esatta potesse dare
conoscenze valide, e tale convinzione avesse portato ad accumulare informazioni sulla struttura anatomica,
tralasciando tratti culturali ed esperienze di vita.
Erano così maturi i tempi perché si passasse da un approccio duro a un approccio morbido.
La crisi del paradigma contingentista poneva:
 le premesse per la costruzione di un nuovo paradigma organizzativo.
Alla formazione di tale paradigma contingentista contribuì l’incontro del discorso organizzativo con due
filoni di ricerca fino allora considerati estranei:
1. Il primo filone era quello dell’antropologia culturale.
Tra gli studiosi di organizzazione ci si rese conto che il modo in cui gli antropologi studiano le tribù o
i villaggi primitivi può essere utilizzato anche per le più sofisticate organizzazioni che operano in
ambienti complessi.
Sia in un villaggio primitivo che alla Nasa vi sono simboli, rituali, convinzioni condivise, e la loro
esplorazione rappresenta spesso l'aspetto più fruttuoso della ricerca.
Per esprimere tale consapevolezza entro nel linguaggio il concetto di "tribù organizzativa".
2. Il secondo filone era quello delle ricerche etnografiche iniziate negli anni ’30 e ’40 in seno alla
sociologia urbana.
Studi di quartieri poveri e minoranze etiche, che fino ad allora sembravano essere un filone
minoritario della sociologia, mostrarono il loro valore per la conoscenza degli aspetti organizzativi
di quelle realtà.
Il metodo etnografico cominciò così ad essere utilizzato come mezzo di conoscenza organizzativa.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Tra il finire degli anni ’70 e i primi anni ’80 aumentarono le pubblicazioni dedicate a temi come:
 la cultura organizzativa,
 le cerimonie,
 i simboli
 e il senso che i soggetti attribuiscono alle proprie azioni.
Tali pubblicazioni rispecchiavano la nascita di un nuovo movimento di pensiero dove vi erano una pluralità
di scuole con nomi, origine teoriche e indirizzi di ricerca differenti.
L'unica opzione comune a tutto il movimento era la diffidenza per:
 le conoscenze basate sugli aspetti quantitativi delle organizzazioni,
 e la conseguente scelta degli approcci qualitativi o etnografici.
Si possono dunque chiamare:
 morbidi: quegli approcci incentrati su aspetti culturali e cognitivi,
 e duri gli approcci incentrati su fattori e interessi più materiali.
Bisogna tenere presente che il carattere duro o morbido degli approcci non coincide necessariamente con:
l'adozione di metodologie quantitative o qualitative:
 METODI QUANTITATIVI: ci possono essere ricerche sulla cultura di una data popolazione fatte con
metodi quantitativi (es. interviste su un grande campione),
 METODI QUALITATIVI: così come ricerche incentrate su condizionamenti strutturali e agire
strategico dei soggetti, condotte con metodi qualitativi.
Vi sono due tipi di approcci morbidi:
a) CULTURALISMO - FUNZIONALISMO NORMATIVO: concentra l'attenzione sulla cultura organizzativa
vista come la principale spiegazione dei fenomeni organizzativi.
b) COGNITIVISMO - FENOMENOLOGIA: concentra l'attenzione sui processi cognitivi e sul
conferimento di senso da parte dei soggetti.

2. EDGAR SCHEIN: IL PRIMATO DELLA CULTURA ORGANIZZATIVA


L’idea centrale di Edgar Schein:
 è che l’analisi di un’organizzazione consiste nello studiare la sua cultura.
 Ciò perché la cultura è l'elemento più importante di un'organizzazione, che consente di spiegarne
la struttura, le scelte strategiche, la condotta degli individui.
Cultura e leadership possono essere viste come due facce della stessa medaglia, in quanto secondo Schein:
 l'unico compito realmente importante dei leader consiste nel creare e gestire la cultura d'azienda.
Schein definisce in questo modo la cultura:
 “la cultura organizzativa è l’insieme coerente di assunti fondamentali che un dato gruppo ha
inventato, scoperto e sviluppato imparando ad affrontare i suoi problemi di adattamento esterno e
di integrazione interna, e che hanno funzionato abbastanza bene da poter essere considerati validi,
e perciò tali da poter essere insegnati ai nuovi membri come il modo corretto di percepire, pensare
e sentire in relazione a quei problemi”.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
A partire da tale definizione, vi sono 3 aspetti fondamentali:

1. Il primo aspetto consiste nel concetto di cultura come un insieme di assunti fondamentali.
Schein intende affermare che la conoscenza di una cultura organizzativa si sviluppa mediante
un’analisi condotta a differenti livelli di profondità.
Al livello più visibile ci sono i cosiddetti artefatti (es. architettura, tecnologia o anche le espressioni
visibili del modo di comportarsi), ossia i prodotti osservabili che caratterizzano una data
organizzazione, ma che pur essendo visibili non per questo sono facilmente decifrabili.
Per Schein l'osservazione attenta degli artefatti è il primo passo dell'analisi organizzativa:
o si raccolgono le prime impressioni,
o si formulano le ipotesi di lavoro,
o si prepara il terreno per passare a un secondo e più approfondito livello di analisi.

2. Al secondo livello troviamo i valori espliciti dell’organizzazione.


In ogni organizzazione si sviluppano ideologie e discorsi che indicano quali sono i valori a cui
ispirare le proprie azioni e gli obiettivi da raggiungere.
Siamo nella sfera dei discorsi che spesso vengono sviluppati e detti circolare dalla leadership con
l'intento di creare senso di appartenenza e solidarietà, di individuare i pericoli esterni, di chiarire e
legittimare le scelte dell'organizzazione e di creare consenso tra i membri.
Chi vuole studiare le organizzazioni deve analizzare quei valori, la loro evoluzione nel tempo e le
loro corrispondenze con gli artefatti.
Ma la ricerca continua.

3. Al terzo livello troviamo gli assunti di base:


o che sono convinzioni profonde e inespresse date per scontate e sulle quali spesso i membri
non hanno nemmeno una chiara consapevolezza.
Far emergere questi assunti è il compito più difficile, ma è qui che si gioca il valore della ricerca, e
la possibilità di andare oltre la banale descrizione.
Gli assunti riguardano i campi universali dell'esperienza umana (es. rapporto con la natura,
percezione del tempo, relazioni tra le persone).
Gli assunti si combinano variamente tra di loro dando luogo a dei sistemi di convinzione articolati e
complessi.
Ad esempio un'organizzazione opera sulla base di assunti:
o come il fatto che la verità proviene dai membri più anziani perché più saggi e con uno status
sociale più elevato,
o ogni persona ha un suo territorio che non può essere invaso,
o l'organizzazione è l'unica unità che si prende cura dei suoi membri;
o altre organizzazioni possono operare con assunti diversissimi da questi.
In ogni caso i sistemi di convinzione devono soddisfare una coerenza interna:
o che riguarda sia la combinazione degli assunti tra di loro
o sia il rapporto tra questi e i livelli dei valori espliciti e degli artefatti.
Coerenza tuttavia non significa che in un'organizzazione può esistere solo un sistema di
convinzione, in quanto possono esservi subculture differenziate.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

3. SCHEIN: LA FORMAZIONE DI UNA CULTURA


Bisogna spiegare come si creano gli assunti fondamentali di un'organizzazione.
Qui si entra nella seconda parte della definizione di cultura data da Schein.
Il primo aspetto è che una cultura è sempre formata dentro un gruppo, che ha condiviso problemi
significativi e li ha affrontati, e non può esistere al di fuori di esso.
Dunque sviluppare una cultura comune:
 il gruppo deve avere una storia comune;
 quanto più il gruppo è omogeneo e stabile con esperienze lunghe e intense, t
 anto più la sua cultura è forte e articolata.
Una cultura organizzativa può nascere solo all'interno di un gruppo chiamato a risolvere problemi
significativi:
 dunque una cultura non è fatta di idee astratte,
 ma di risposte a problemi concreti che occorreva risolvere.
Schein distingue due grandi categorie di problemi:
 QUELLI RIGUARDANTI L’ADATTAMENTO DEL GRUPPO ALL’AMBIENTE ESTERNO.
Determinano la sopravvivenza del gruppo:
o riguardano gli obbiettivi,
o le strategie e i mezzi per realizzare gli obiettivi e la valutazione delle prestazioni;
o su questi problemi occorre un consenso minimo necessario,
o pena la dissoluzione del gruppo.
 QUELLI RIGUARDANTI L’INTEGRAZIONE INTERNA.
Riguardano la capacità del gruppo interno all’organizzazione di funzionare come gruppo.
Anche qui c'è una esigenza di consenso riguardante il linguaggio e le categorie mentali comuni.

Tutti questi problemi hanno specificità che riflettono la storia dell'organizzazione e l'ambiente in cui opera.
Per affrontarli l'organizzazione sviluppa assunti che devono funzionare abbastanza bene da poter essere
considerati validi.
Questi assunti formano la cultura dell'organizzazione, di cui bisogna sottolineare due aspetti:
1. La cultura è sempre il risultato finale di un processo basato sulla ripetizione del successo, e ciò
porta a dare certe cose per scontate;
2. Gli assunti non garantiscono mai un funzionamento perfetto e definitivo, ma ricordano la
razionalità limitata di Simon:
o sono perfettibili e si evolvono continuamente perché mutano i problemi e si escogitano
delle soluzioni che risultano più efficaci di quelle precedenti.
Secondo Schein:
 la cultura è sempre in continua formazione perché è sempre in atto qualche tipo di apprendimento
circa il modo di porsi in rapporto con l’ambiente e il modo di gestire gli affari interni.
 Si crea così una tensione tra l'esigenza di conservare il patrimonio degli assunti formatisi con
l'esperienza precedente e l'esigenza di verificarli e adattarli alle novità che li sfidano.
Tale tensione è presente in ogni cultura organizzativa ed è compito della leadership gestirla.
La cultura non è soltanto un patrimonio condiviso dai membri già presenti nell'organizzazione.
Un requisito fondamentale per la sopravvivenza del gruppo è la trasmissione della sua cultura ai nuovi
membri.
La trasmissione può essere semplice di nuovi membri sono ancora giovani e non ancora
formati, mentre è più difficile se portano con sé idee e valori già acquisiti in altre esperienze.
In questi casi è possibile che siamo i nuovi membri a provocare cambiamenti nella cultura
dell'organizzazione in cui entrano.
Si pone così il problema di studiare i processi di adattamento reciproco tra:
o la cultura preesistente dell'organizzazione
o e i cambiamenti apportati dai nuovi membri.
Schein non dà una risposta preventiva perché sono dinamiche da studiare caso per caso.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
L’analisi deve essere integrata da un approccio che metta a fuoco tre aspetti:
1. I processi di socializzazione dei nuovi membri, ovvero come la cultura organizzativa viene
trasmessa, recepita e adattata.
2. Le risposte date ad eventi critici nella storia dell’organizzazione, risposte che formano un patrimonio
di ricordi che concorrono a formare l'identità collettiva dell'organizzazione.
3. Le anomalie o i tratti sorprendenti osservati o scoperti man mano che la ricerca procede.
Una cultura organizzativa può essere messa meglio a fuoco se si esaminano:
 le irregolarità,
 le devianze
 e le tensioni latenti che in essa producono.
Infine va tenuto presente che questi elementi vanno ricondotti al modo in cui viene esercitata la leadership:
 leadership
 e cultura infatti sono due aspetti della stessa realtà.

4. UN APPROCCIO “DURO” ALLE ORGANIZZAZIONI: LA DIPENDENZA DALLE


RISORSE E IL RICORSO AI SIMBOLI NELL’ANALISI DI PFETTER E SALANCIK
Un impianto teorico completamente diverso è quello di Pfeffer e Salancik.
L’approccio utilizzato da Pfeffer e Salancik
 è particolarmente duro in quanto mette in luce i vincoli posti dall’ambiente esterno.
 Il loro punto di partenza è la tesi di Thompson secondo cui la logica prevalente in qualsiasi
organizzazione è la ricerca di certezza nell’acquisizione delle risorse di origine esterna.
Secondo loro questo presupposto sembra recepito anche da coloro che teorizzano le organizzazioni come
sistemi aperti in interazione con l’ambiente.
Dire che un'organizzazione dipende dalle risorse acquisite all'esterno è più forte che limitarsi a dire
che interagisce con quelle risorse.
Sottolineare la dipendenza significa infatti riconoscere che:
 le organizzazioni lottano sempre per la sopravvivenza.
 la sopravvivenza dipende dalla abilità con cui esse si procurano le risorse.
 i problemi posti dalla lotta per la sopravvivenza plasmano il modo in cui l'organizzazione è
strutturata.
Dunque è la politica esterna delle organizzazioni a dominare su quella interna e a dare le chiavi
per comprenderla.
Queste considerazioni, valide per ogni tipo di organizzazione, appaiono particolarmente adatte per capire
la logica delle grandi imprese.
Un esempio è il problema dell'umanità azione del lavoro in fabbrica.
È un problema che sembra nascere dall'interno, ma in realtà trae origine dal fatto che le imprese non
hanno più il potere di una volta nel mercato del lavoro:
 infatti non possono più assumere e licenziare con arbitrio,
 in quanto i lavoratori hanno ora un potere sindacale che limita la libertà d'uso della forza lavoro.
 Così le imprese rispondono sviluppando una politica di valorizzazione delle risorse umane.
Infatti solo quando il lavoro diventa una risorsa pregiata e problematica le imprese affrontano il
problema di valorizzarla.
Queste considerazioni valgono per ogni tipo di risorsa o vincolo.
Un’organizzazione tende a usare le varie opportunità in modo ottimale soltanto alla sua sopravvivenza ed
affronta i problemi che esse comportano solo quando vi è costretta dalle pressioni e dai vincoli esterni.
La tesi di Pfeffer e Salancik è che un’organizzazione riesce a sopravvivere nella misura in cui
riesce a condizionare l’ambiente che lo condiziona.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
In questo quadro essi forniscono vari strumenti concettuali:
1. LA DISTINZIONE TRA EFFICACIA ED EFFICIENZA.
Sono due concetti già utilizzati ma a cui i nostri autori hanno dato un nuovo significato.
 L’EFFICIENZA è definita come una misura interna di performance e riguarda il rapporto tra
la somma delle risorse utilizzate e i risultati che si ottengono, e non considera le valutazioni
di merito circa i beni prodotti o i servizi svolti.
 L’EFFICACIA invece è una misura esterna di natura socio-politica e riguarda l’abilità
dell’organizzazione nel raggiungere risultati o nel compiere azioni accettabili dall’ambiente
in cui opera.
Misura il grado in cui l’organizzazione soddisfa le domande che le sono rivolte da altre
organizzazioni o da gruppi esterni.
L'efficacia di un'organizzazione si manifesta nel farsi socialmente accettare e approvare,
pone un problema di legittimità nel produrre ciò che si produce e nell'agire come si agisce.
Efficacia ed efficienza sono due dimensioni indipendenti l’una dall’altra.
Un’organizzazione può avere:
 un’alta efficienza e una bassa efficacia quando i suoi profitti sono alti ma con una forte
opposizione al suo operato;
 può avere inoltre un’alta efficacia e una bassa efficienza se compie attività socialmente
approvate ma con bassi profitti.

2. L'AMBIENTE IN CUI UN'ORGANIZZAZIONE opera è formato da altri enti e organi che formulano
domande nei confronti dell'organizzazione in questione.
Ma le domande sono spesso contrastanti, e l'organizzazione deve scegliere quali domande
soddisfare, con una scelta non casuale ma connessa all'esigenza di reperire le risorse necessarie
alla sopravvivenza.
Un’organizzazione dunque non può sopravvivere se non è capace di acquisire le risorse necessarie:
 ma non può sopravvivere neanche se non è capace di soddisfare almeno una parte delle
domande che le provengono dal contesto in cui opera.
Questa visione del rapporto tra organizzazione e ambiente porta a varie conseguenze:
 Il concetto di ambiente attivato (enacted environment), che Pfeffer è Salancik prendono
da Weick.
Se un'organizzazione porta avanti una politica, allora l'ambiente in cui opera non è una
realtà immodificabile ma è in larga parte plasmato dall'organizzazione stessa.
 Le organizzazioni cercano di controllarsi a vicenda e l'effetto complessivo sono le loro
crescenti interdipendenze.
L'interdipendenza è ambivalente:
 da un lato favorisce azioni coordinate e dunque aumenta il potere di intervento
sull'ambiente;
 dall'altro impone mediazioni e impedisce ai singoli soggetti di ottenere risultati pienamente
conformi alle loro volontà.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

5. IL RUOLO DEL MANAGEMENT TRA RISORSE E SIMBOLI

Il quadro che emerge da tale analisi è duro.


Le organizzazioni lottano per le risorse da acquisire dall’esterno le quali sono in massima parte destinate
ad usi obbligatori e offrono margini di libertà esigui nel loro utilizzo.
I vincoli e le limitazioni tuttavia non impediscono che la leadership abbia un suo decisivo campo d’azione a
livello simbolico.
Pfeffer ritiene che sia necessario distinguere tra due piani:
 quello dei risultati sostanziali che riguardano l’acquisizione e l’allocazione delle risorse;
 quello dei risultati simbolici rappresentato da sentimenti, valori, senso di identità e appartenenza.
Tale distinzione permette a Pfeffer di affermare che nelle organizzazioni formali:
 l’azione dei management concerne in larga misura la realtà simbolica e i risultati simbolici,
 mentre le costrizioni esterne influenzano le azioni e i risultati sostanziali.
Ciò significa che il compito del management è essenzialmente quello di fornire un significato e una
legittimazione a delle situazioni sostanziali che in larga misura sfuggono al suo controllo.
Quanto maggiori sino i vincoli esterni nell'allocazione delle risorse, tanto più importante diventa l'azione
simbolica.
L’azione simbolica ha una funzione di supplenza nei confronti delle risorse sostantive che sono scarse.
Tale azione ha comunque dei limiti in quanto si svolge secondo norme e credenze istituzionalizzate.
Pfeffer riprende la tesi di Thompson:
 la quale afferma che in ogni organizzazione è possibile individuare un nucleo centrale di certezze
tecnologiche riguardanti l’efficacia della connessione causa-effetto.
 Nei casi in cui queste certezze sono più consolidate e diffuse si può parlare di un "paradigma
organizzativo istituzionalizzato".
Il grado di istituzionalizzazione di un paradigma può essere:
 Forte:
Quanto più il paradigma è forte ed accettato, tanto più estesa è l’area dei giudizi dove il consenso è
facile e le comunicazioni sono ridotte ai minimi contenuti tecnici necessari
 Debole:
viceversa là dove il paradigma è debole, l'area dei giudizi di valore è più estesa e quindi i conflitti
sono maggiori.
Porre l'accento sul differente grado di istituzionalizzazione di un paradigma organizzativo (il grado
di convinzione sulla bontà dei fini e l'adeguatezza dei mezzi) ha conseguenze importanti per comprendere
l'azione simbolica della leadership.
La tesi di Pfeffer è che esiste una connessione tra la mancanza o la debolezza di un paradigma e il
ricorso a strumenti simbolici di governo.
Si ricorre al simbolico quando le risorse sono limitate e quando mancano criteri precisi e accettati per
giudicare la realtà.
Ma atti simbolici possono produrre nuove forme di consenso e mobilitazione, che possono essere investire
per raggiungere risultati sostanziali.
Da una buona gestione del simbolico dunque si può ritornare alla sostanza.
Pfeffer sviluppa un percorso di ricerca che sottolinea come l'analisi degli aspetti simbolici dell'azione
organizzativa acquista maggior forza quando è maggiormente inserita in un modello che interpreta quegli
aspetti alla luce delle risorse sostanziali.
La conoscenza organizzativa non si può limitare alla dimensione simbolica.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

6. KARL WEICK E I PROCESSI COGNITIVI


Il pensiero di Weick può considerarsi antitetico a quello di Schein.

A differenza di:

 Schein (per cui l'oggetto di studio è la cultura organizzativa come patrimonio oggettivamente dato
dall'esterno),

 secondo Weick l’oggetto di studio sono i processi cognitivi attraverso cui i soggetti danno senso ai
loro flussi di esperienza.
Di conseguenza la cultura, come qualsiasi altra realtà esterna, prende senso solo attraverso
processi cognitivi dei soggetti.
Per Weick non esiste nulla al di fuori dei flussi di esperienza e le categorie interno/esterno e
dentro/fuori hanno una natura puramente logica, di scansione della realtà per darle significato.

La tesi di Weick:

 è che il mondo esterno non possiede un suo senso intrinseco: ha sempre e soltanto il senso che noi
gli attribuiamo.

 Alla nostra mente arriva un flusso di esperienza caotico ed informe, al quale noi diamo ordine e
forma man mano che procede il processo cognitivo.

In questo processo sviluppiamo delle deduzioni che vengono sistemate in “mappe casuali” cioè in
costruzioni dotate di senso e di ordine logico.
Tali mappe, dette anche mappe cognitivo-normative predispongono il nostro comportamento futuro e
sono a loro volta a modificate dall’ininterrotto flusso la nuova esperienza.

Da ciò derivano due conseguenze:


 la centralità dell’analisi dei processi di creazione di senso (sensemaking).
 a totale equivalenza tra processi di creazione di senso e processi di organizzazione (organizing).

Dare senso e organizzare sono due facce della stessa medaglia, sono uno la metafora dell'altro,
dunque sono la stessa cosa.
Per capire questa equivalenza bisogna ripercorrere l'analisi che Weick fa dei processi di creazione di senso.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
All’interno dei processi di creazione di senso, si possono individuare tre fasi:

 ATTIVAZIONE:
in questa fase il soggetto interagisce con il materiale grezzo della sua esperienza, individua in esso
strutture e connessioni, e così facendo gli conferisce un senso (ambiente attivato). Non è detto che
però l'attivazione dell'ambiente porti alla chiarezza assoluta.
Qualsiasi ambiente attivato conserva sempre dei margini di ambiguità, così la creazione entra nella
fase successiva.

 SELEZIONE:

in questa fase vengono eliminate molte delle ambiguità, confusioni e incertezze interpretative
prodotte durante l’attivazione dell’ambiente.
Esiste il rischio di una selezione eccessiva, in quanto se l'ambiguità venisse totalmente eliminata si
otterrebbe un ambiente rigido e scomparirebbe ogni spazio per l'innovazione.
Dunque affinché ci sia innovazione, occorre che nell’ambiente attivato permanga un margine di
ambiguità perché solo così possono nascere delle interpretazioni alternative a quelle prevalenti e
più conosciute.

 RITENZIONE:

in questa fase la mente sviluppa una duplice attività:


o da un lato elabora e ordina le informazioni in arrivo in modo da confermare le mappe
mentali già esistenti,
o dall’altro il materiale già esistente subisce una riorganizzazione e un adattamento.
I processi di ritenzione si manifestano in operazioni di accredito e discredito degli ambienti attivati
in precedenza:
o c'è un accredito quando le nuove informazioni confermano quelle precedenti,
o e c’è un discredito quando le smentiscono.

L'accreditare porta a conservare e ricordare;


il discreditare a distruggere e dimenticare.

Anche queste due operazioni non sono mai totali:


o infatti un discredito totale delle esperienze precedenti porterebbe alla distruzione
dell'identità,
o mentre l'accredito totale porterebbe alla chiusura all'innovazione.

Tutte queste ambivalenze mostrano quanto sia problematico il processo di creazione di senso e di
organizzazione.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

7. ALCUNE PROPRIETA’ DELL’AMBIENTE ATTIVATO

Weick afferma che tutto ciò che siamo abituati a pensare come una realtà esterna a noi non esiste se non
all’interno dell’esperienza dei soggetti che le esperiscono.
L'organizzazione non è un'entità dotata a priori di strutture formali che esistono al di fuori dei soggetti.

Altri tre punti integranti fanno parte del pensiero di Weick:

1. Il primo punto:
Il fatto che la realtà è prodotta dal conferimento di senso da parte dei soggetti non significa che la
realtà stessa sia plasmabile dai soggetti stessi.
L'ambiente attivato infatti:
o retroagisce potentemente sui soggetti che lo hanno attivato,
o li obbliga a prendere atto dei suoi vincoli e a comportarsi di conseguenza.
Quell’ambiente ci condiziona per il semplice fatto che l'abbiamo attivato sulla base delle nostre
mappe cognitive.
La retroazione dell’ambiente sui soggetti che hanno attivato ha una diretta applicazione anche
nelle organizzazioni formali.
L’ambivalenza dell’ambiente attivato suggerisce Weick considerazioni particolari penetrati sulla
tecnologia.
La tecnologia è la capacità umana di ottenere da quel computer prestazioni insospettate ai suoi
stessi costruttori.
2. Il secondo punto:
Alcune persone dotate di particolare potere possono attivare ambienti che sono poi proposti come
lettura della realtà anche ad altre persone.
La possibilità di una lettura comune della realtà si basa sull’esistenza di centri di potere
sufficientemente autorevoli da fornire alle persone tanto specifiche mappe cognitive quanto
ambienti attivati in conformità a quelle mappe.
3. Il terzo punto:
È importante il concetto di connessione lasca (loose coupling) tra le varie parti di un processo
organizzativo.
Per lasca si intende una connessione che ammette un certo grado di autonomia tra le varie parti
che compongono un sistema.
Le connessioni lasche offrono molti vantaggi per la persistenza delle organizzazioni:
 possono modificare delle parti senza che l’intero sistema sia coinvolto nel cambiamento.
Le connessioni lasche possono essere combattute e negate dalle autorità ufficiali ma ciò che
conta è il loro persistere di fatto nell’esperienza dei soggetti.
Ma l’aspetto più notevole è che tanto più i legami sono laschi, tanto più i soggetti sono portati a
impegnarsi in uno sforzo di costruzione della realtà sociale.
Quanto più laschi sono i legami tra:
 le varie parti di un sistema,
 tanto più è probabile osservare uno sforzo per conferire un significato retroattivo alle varie
parti lascamente collegate.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

CAPITOLO 19. L’ECONOMIA DEI COSTI DI TRANSAZIONE: MERCATO, GERARCHIA


E CLAN NELLE ANALISI DI OLIVER WILLIAMSON E DI WILLIAM OUCHI.
1. L’ECONOMIA DEI COSTI DI TRANSAZIONE E LA RIDEFINIZIONE DEL CAMPO
DELL’ANALISI ORGANIZZATIVA.
L'economia dei costi di transazione e la ridefinizione del campo dell'analisi organizzativa.
L'economia dei costi di transazione (ECT) di Oliver Williamson nasce:
 sul terreno economico della macroeconomia d'impresa,
 ma ebbe comunque un impatto sull'intero dibattito organizzativo.
L'ECT ha infatti fatto avvicinare economisti e sociologi, che in precedenza camminavamo sullo stesso
terreno procedendo però su strade parallele che non si incontravano.
L'ECT:
 non vede poi l'impresa come una funzione della produzione,
 dove il problema principale è utilizzare al meglio la tecnologia disponibile,
 ma la vede come una struttura di governo (governance) il cui problema fondamentale è quello di
gestire contratti (transazioni) affidabili ed efficienti.
Di conseguenza l'unità elementare di analisi per l'ECT non è più il bene prodotto, ma diventa la transazione,
ovvero qualunque forma di contratti che abbia una rilevanza economica per l'impresa.
L'assetto interno dell'impresa risulta così definito dall'insieme di contratti che essa stipula e dalle
conseguenti strutture di governo per controllarne l'esecuzione.
Con tale rivoluzione l'analisi economica si occupa di tematiche organizzative che prima dell'ECT apparivano
terreno riservato alla sociologia.
Gli assetti organizzativi non sono più qualcosa di esterno alla logica economica, e divengono elemento
cruciale per capire il funzionamento economico dell'impresa.
L'ECT tuttavia non spodesta la sociologia del suo terreno tradizionale, ma propone una ridefinizione del
campo dei problemi sociologici legati all'impresa.
Vengono posti sul tappeto problemi nuovi come le condizioni socio-culturali:
 che favoriscono lo stabilirsi di relazioni di fiducia nei contratti e nelle relazioni interpersonali,
 le reti organizzative che si stabiliscono su un dato territorio etc.
La novità eccezionale che propone l'ECT consiste in definitiva nel superare l'equivalente tra:
 organizzazione
 e burocrazia.
L'organizzazione diventa nell'ECT un concetto più ampio rispetto alla burocrazia, perché contempla la
possibilità:
 che le imprese abbiano al loro interno assetti non solo gerarchici ma anche di mercato;
 che l'organizzazione non riguardi una sola impresa, ma i rapporti tra due o più imprese.
Tale allargamento del concetto di organizzazione è reso possibile dal fatto che organizzazione e
mercato sono concepiti come i due poli di un continuum.
 L'organizzazione nella sua forma pura è un ordine sociale basato sull'intenzionalità e sulla
mancanza assoluta di esiti casuali.
 Il mercato nella sua forma più pura è un ordine di tipo probabilistico basato unicamente
sull'equilibrio naturale della domanda e dell'offerta, dove è assente un'intenzionalità regolatrice.
Tuttavia nella realtà non esistono mai organizzazione e mercati in forma pura.
Il mercato per funzionare ha sempre bisogno di un minimo di organizzazione, così come in ogni
organizzazione è probabile che esista un minimo di mercato (infatti si può parlare di organizzazione di
mercato o anche mercati interni all'impresa).
Con tale allargamento del concetto di organizzazione si abbandona lo scenario Weberiano
secondo cui l'organizzazione è sempre regolata da principi di burocrazia e delimitata da confini
naturali basati sulla tecnologia utilizzata.
Infatti secondo l'ECT la burocrazia e il lavoro dipendente sono una possibilità, una variante degli assetti
organizzativi dell'impresa.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

2. I PRESUPPOSTI: RAZIONALITA’ LIMITATA ED OPPORTUNISMO


Le assunzioni da cui parte Williamson sono due:
 gli esseri umani sono dotati di razionalità limitata.
 gli esseri umani possono agire in modo opportunistico.
Con il concetto di razionalità limita Williamson si rifà a Simon per sottolineare i limiti del cervello
umano e quindi delle conoscenze umane.
Tali limiti sono particolarmente evidenti quando gli esseri umani si confrontano con realtà complesse. Il
principio di razionalità limitata prevede che gli uomini agiscono come soggetti intenzionalmente razionali,
anche se dentro confini che rendono imperfette le loro azioni.
Williamson sottolinea che tale principio ha due conseguenze importanti:
 La prima è quella di poter costruire una teoria economica basata sul presupposto che l'impresa
persegue razionalmente degli scopi di efficienza.
 La seconda è quella di diventare parte integrante della ricerca economica lo studio delle scelte di
soluzioni più facilmente controllabili da una razionalità limitata.
Il concetto di opportunismo serve a Williamson:
 per ammettere che nei rapporti sociali le persone possono cercare di fare i propri interessi usando
mezzi illeciti come l'inganno e la frode.
Il concetto di opportunismo non va distinto da quello di utilitarismo.
Analizziamo la distinzione:
 UTILITARISMO: significa fare i propri interessi mediante mezzi illeciti in un senso quanto meno
legale se non morale.
 OPPORTUNISMO: significa fare “minacce” o promesse false o vuote, assume impegni in cui non si
crede al fine di perseguire illegalmente i propri interessi.
L'opportunismo si manifesta essenzialmente in quello che Williamson definisce blocco delle
informazioni:
 non fornire le informazioni necessarie oppure fornirle incomplete o sbagliate, abusare della fiducia
in modo da trarre in inganno la controparte dell'accordo.
L'opportunismo però è possibile quando sono coinvolte poche persone nello scambio:
 infatti allargandosi il numero dei soggetti interessati a un possibile contratto aumenta la
competizione, e dunque anche le informazioni circolanti, e quindi diminuisce il rischio di inganno.
Gli esseri umani devono fare i conti con la propria razionalità limitata, ma anche con la possibilità della
disonestà degli altri.
Queste sono le premesse da cui Williamson parte per sostenere l'importanza centrale del problema dei
contratti nell'attività economica delle imprese.
Se la razionalità umana non fosse limitata e non ci fosse rischio di comportamenti disonesti, stipulare
contratti non sarebbe un problema:
 i contratti prevederebbero ogni eventualità con precisione e sarebbero totalmente rispettati.
Invece i limiti della razionalità e la disonestà fanno sì che i contratti non possano essere perfetti e che i
costi da sostenere per il loro rispetto possano diventare onerosi o addirittura proibitivi.
Nell'attività economica bisogna distinguere due diversi tipi di costi:
 i costi di produzione, considerati dall'economia neoclassica.
 i costi di transazione, considerati dall'ECT.
Questi costi possono essere antecedenti o successivi al contratto.
 Sono antecedenti i costi per cercare la controparte, condurre il trattarci e stipulare il contratto.
 Sono successivi i costi per far osservare il contratto.
I costi di transazione possono essere molto variabili, ma si applicano alla compravendita di
qualsiasi tipo di risorsa (merci, energia, servizi etc).
L'esigenza di economizzare sui costi di transazione si pone come un problema centrale per comprendere
governo e assetto di un'impresa.
Dunque diventa l'oggetto della disciplina che è l'Economia dei costi di transazione.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

3. IL DILEMMA FONDAMENTALE: COMPRARE O PRODURRE?


Per spiegare la sua teoria Williamson ipotizza che:
 "all'inizio vi era solo il mercato.
Un'impresa compera tutto all'esterno a prezzi definiti dell'equilibrio tra domanda e offerta e con contratti
istantanei, e poi rivende a terzi quanto comprato con altri contratti istantanei.
Ciò è un'ipotesi astratta perché suppone che l'impresa non impieghi neppure un dipendente e non
possieda neppure un bene.
La purezza del ragionamento però consente di porsi un quesito:
 fino a che punto all'impresa conviene rivolgersi al mercato e poi da quale punto le conviene
produrre per conto proprio?
Per rispondere a questo quesito Williamson considera due variabili:
 la tecnologia utilizzata per ottenere il bene o il servizio richiesto.
 la salvaguardia necessaria perché il contratto sia rispettato.
La tecnologia può essere distinta in due tipi:
a) GENERICA: quando non richiede competenze e investimenti particolari.
Il suo carattere standard la rende facilmente disponibile sul mercato e i fornitori sono sostituibili
senza difficoltà.
b) SPECIALIZZATA: quando risponde ad esigenze particolari, richiede maggiori investimenti in assetti
durevoli e serve a esigenze stabili nel tempo.
Il tipo di tecnologia da scegliere dunque è un dilemma per le imprese.
Se utilizzano:
 tecnologie generiche scelgono di rivolgersi al mercato;
 se scelgono la tecnologia specializzata le imprese si trovano ad affrontare un secondo dilemma
rappresentato dalla presenza o assenza di salvaguardie per l'osservanza del contratto.
Le salvaguardie:
 Le salvaguardie non sono necessarie quando il contratto è istantaneo e occasionale, e i suoi
contenuti sono di immediato controllo, come avviene nella compravendita di un bene subito
consumabile.
In questi casi le normali istituzioni giudiziarie sono sufficienti per dirimere eventuali controversie
tra compratore e venditore.
 Le salvaguardie diventano necessarie quando esistono delle incertezze dovute alla complessità
della transazione, specialmente se questa si sviluppa nel tempo, ma dovute anche al timore di
opportunismo.
Le imprese con tecnologia specializzata che scelgono di non avere salvaguardie:
 operano una scelta ibrida,
 mentre quelle che scelgono di avere salvaguardie optano per una gerarchia.
Ma tuttavia è assai probabile che le transazioni rappresentate dalla scelta ibrida siano
contrattualmente instabili:
 infatti esiste un'intima contraddizione tra la scelta di una tecnologia specializzata
 e l'assenza di salvaguardie,
 sicché la scelta ibrida è più un caso teorico che una opportunità reale.
Così le scelte forti sono il mercato:
 dunque comprare (tecnologia generica senza salvaguardie),
 e la gerarchia, ovvero creare (tecnologia specializzata con salvaguardie).
Le diverse tecnologie:
 Con una tecnologia generica senza salvaguardie il mercato è l'ideale.
Il mercato cioè conviene quando tutte le informazioni necessarie al buon esito della transazione si
concentrano nel prezzo, non c'è rischio di controversie e il contratto è relativamente semplice.
 Con una tecnologia specializzata con salvaguardie invece il mercato farebbe lievitare i costi per la
tutela del contratto a livelli proibitivi.
La soluzione dunque diventa porre la transazione sotto una struttura stabile di governo, e produrre in
casa.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Al principio della contrattazione sul mercato dunque si sostituisce la situazione i cui l'impresa si da
una struttura di governo per garantire un controllo diretto che le prestazioni già pattuite siano
effettivamente eseguite.
Williamson tuttavia avverte che tra mercato e gerarchia vi siano delle situazioni intermedie:
 dove la specificità delle tecnologie
 si combina con diversi tipi di salvaguardia contrattuale.
In questi casi le transazioni assumono forme ibride, come sub-commesse con parziale autonomia di
mercato, franchising etc.
Nel sistema capitalistico contemporaneo i contratti ibridi sono quelli più numerosi.
Mercato puro e gerarchia pura infatti sono sempre più casi limite.

4. FATTORI DESTABILIZZANTI. CRISI DEL MERCATO E CRISI DELLA GERARCHIA.


La scelta di una delle varie forme di contratti descritte non è stabile, ma può variare nel tempo.
Ciò può accadere per instabilità intrinseche al fatto stesso di utilizzare una data forma di contratto in
modo continuativo.
Si può verificare dunque:
1. SIA UNA CRISI DEL MERCATO:
Si suppone che l'impresa I. dovendo comprare un bene/servizio e scelga tra i vari fornitori il
fornitore F., e che sia soddisfatta dalle sue prestazioni.
Si suppone che poi dopo in certo tempo I abbia nuovamente bisogno di prestazioni di quel genere,
e F ha maggiore possibilità di essere di nuovo scelto.
La scelta ripetuta farà sì che F si specializzi capendo esattamente le esistenze di I.
Williamson però osserva che si generano in questo caso situazioni contrattuali di piccolo numero:
o ovvero pochi soggetti fidati diventano i fornitori abituali di I, escludendo a priori la
concorrenza di altri.
In tal caso può avvenire che:
o L'impresa sia portata a intensificare sempre di più il ricorso alle prestazioni di F, con
contratti di lunga scadenza, richiesta di specializzazione crescente, passaggio di
informazioni tecniche.
Si creano così le condizioni di un incorporamento di F in I, che può avvenire anche
formalmente mediante l'acquisto di F.
o F tenda ad approfittare del suo vantaggio avendo capito esattamente le esigenze di I, e
temendo dunque sempre meno la concorrenza dei competitori.
Può così avvenire che F peggiori la qualità dei prodotti, che non rispetti i tempi di
consegna, o che apra controversie sui prezzi.
Ad I tuttavia non conviene ritornare al mercato perché F ha completamente acquisito le
sue esigenze, e non può trovare lo stesso servizio altrove.
La scelta più efficiente è acquistare F e porla sotto il controllo diretto della sua gerarchia.
Il vecchio proprietario di F così diventa dipendente di I.
2. UNA CRISI DELLA GERARCHIA:
Si parte da una crisi del mercato.
Si possono però verificare anche crisi della gerarchia.
Tali crisi in genere sono provocate dalla eccessiva rigidità di utilizzo della manodopera assunta, da
una crescita abnorme dei costi di direzione, dal manifestarsi di atteggiamenti burocratici che
portano il personale a deresponsabilizzarsi e a perseguire sub-obiettivi personali che si discostano
dagli interessi dell'impresa.
In questi casi all'impresa conviene inserire al suo interno elementi di mercato e di competizione.
La trasformazione delle imprese da:
o una struttura unitaria funzionale
o a una struttura decentrata multi divisionale
è di norma una strategia decisa appositamente per combattere gli inconvenienti provocati da
eccesso di burocrazia.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

5. DUE PRIME CONSEGUENZE PER LA RICERCA: RIDEFINIZIONE DEI CONFINI


DELL’IMPRESA E CONCEZIONE NON DETERMINISTICA DELLA TECNOLOGIA
IDIOSINCRASIA E FIDUCIA.
Dalle linee fondamentali del modello di Williamson si possono trarre delle conseguenze per il
pensiero organizzativo:

 RIDEFINIZIONE DEI CONFINI DELL'IMPRESA:


Come si accennava prima né il mercato né la gerarchia vengono applicati nelle imprese nelle loro
forme pure:
o molto più probabili sono forme intermedie variamente intrecciate a seconda dell'esigenza
costante di massimizzare l'efficienza.
In linea di principio l'impresa tenderà:
o a governare con la gerarchia le transazioni in condizioni di incertezza, che sono le più
diffuse;
o utilizzerà invece a strumenti misti di mercato e gerarchia per le altre forme di transazione.
In ogni caso il concetto di organizzazione non coincide più con quello di gerarchia, non è più
l'insieme di dipendenti che prestano stabilmente lavoro, ma diventa un modello stabile di
transazione.
Si pongono così le basi teoriche per superare la tradizionale immagine tayloristica di
organizzazione, con confini netti tra ambiente interno ed esterno.
Al suo posto subentra un'immagine di impresa flessibile, i cui confini sono stabiliti sulla base di
criteri nuovi e più problematici rispetto al passato.
Strettamente collegato a tale ridefinizione è il concetto di rete di imprese.
La rete si può costituire di un'impresa leader con i veri sub-fornitori, oppure anche da numerosi
operatori semi-indipendenti.

 CONCEZIONE NON DETERMINISTICA DELLA TECNOLOGIA:

La ridefinizione dei confini dell'impresa si accompagna alla conseguenza di attenuare la concezione


deterministica della tecnologia.
La tecnologia non appare più legata all'esigenza di concentrarsi fisicamente in un dato
stabilimento, ma viene decisa in base alla logica delle transazioni più convenienti, e queste a loro
volta vanno conciliate con il vincolo di minimizzare i costi di produzione.
Si potrà così scegliere di produrre per mezzo di reti quasi organizzate di mercato, mentre in altri
casi si opterà per la soluzione di tecnologie concentrate in un solo luogo fisico e controllate con
gerarchia diretta.
Nella teoria dei costi di transazione:
 la struttura organizzativa non deve essere più concepita in funzione della tecnologia,
 in quanto questa può essere esportata ed entro certi limiti scelta in funzione delle
transazioni più convenienti.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

6. IDIOSINCRAZIA E FIDUCIA.

Nell'ECT un posto rilevante è occupato dal concetto di transazioni idiosincratiche.


Se il compratore:
 uno vuole acquistare il bene
 2 che è offerto solamente dal venditore
 3, e a sua volta il venditore 3 può vendere quel bene 2 solo al compratore 1, allora si dirà che tra 1 e
3 si instaura un monopolio bilaterale e che le transazioni tra i due sono idiosincratiche.
Questo termine è usato da Williamson per indicare che il prezzo del bene scambiato è indicato non
solo dall'equilibrio tra domanda e offerta, ma in larga misura da fattori legati all'identità dei due
contraenti e il tipo di interazione tra loro.
Le transazioni idiosincratiche non si limitano alla formazione del prezzo, ma giocano un ruolo
determinante anche nel definire la qualità del bene o servizio fornito.
Qualsiasi tipo di bene può essere oggetto di transazioni idiosincratiche.
Le applicazioni più interessanti del concetto riguardano però i rapporti di lavoro.
In un rapporto di lavoro totalmente idiosincratico:
 i prestatori di lavoro hanno abilità tecniche
 e professionali che possono essere ben utilizzate solo da uno specifico datore di lavoro,
 e se i dipendenti cambiassero impresa potrebbero ambire solo a lavori meno qualificati.
Al tempo stesso anche il datore di lavoro non può trovare sul mercato esterno dei sostituti di pari abilità.
Si instaura anche in questo caso un monopolio bilaterale.
Le relazioni di lavoro idiosincratiche conducono ai concetti di sviluppo delle risorse umane e di
mercato interno del lavoro.
Le specificità tecnologiche e professionali di una data impresa comportano un addestramento prolungato.
Più a lungo un soggetto lavora in un'impresa più egli diventa specializzato sulle esigenze di quell'impresa, e
sempre meno probabile diventa il suo passaggio ad altri tipi di imprese.
Ma anche il passaggio a un'impresa dello stesso tipo è scoraggiato con lo sviluppo di relazioni fiduciarie
basate su principi di fedeltà e senso di appartenenza.
Ma l'idiosincrasia non riguarda solo i rapporti tra impresa e dipendenti.
Possono essere idiosincratici anche rapporti che l'impresa intrattiene con prestatori di opera
contrattualmente indipendenti.
Basta che vi sia un rapporto più o meno specializzato tanto da renderlo esclusivi nei
due sensi.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

7. ALCUNE CRITICHE AL MODELLO DI WILIAMSON

Quello che è apparso il limite maggiore del modello di Williamson è stato individuato nel proposito
del modello di spiegare gli assetti organizzativi esclusivamente in termini di efficienza.

Ciò porta a due ordini di critiche:

1. La prima critica obietta che se si ammette unicamente:


o il principio di efficienza ne deriva che si è portati a giustificare l'esistenza di qualunque
assetto organizzativo in base alla presunzione che sia efficiente.
Quest'argomento si basa su una petizione di principio che assume per dimostrato ciò che si
dovrebbe dimostrare.
Gli assetti organizzativi possono dipendere da logiche diverse dell'efficienza e sono spesso il
risultato di fattori legali, storici e politici.
Williamson risponde che:
o l'efficienza va vista come il risultato di una selezione, in quanto le forme meno
efficienti escono dal mercato, e che il suo modello ha valore di previsione teorica.
Ma si può replicare a ciò che la selezione vale principalmente per piccole e nuove imprese, ma
molto meno per imprese grandi e consolidate che si muovono su una logica prevalente di
potere.
Williamson dunque viene accusato di trascurare l'importanza del potere come fattore
esplicativo delle strategie d'impresa.
In base a queste critiche molte scelte strategiche dell'impresa obbediscono poi alla logica di
massimizzazione del potere piuttosto che di massimizzazione dell'efficienza.
Assumere come fa Williamson che l'impresa si muove unicamente in base a preoccupazioni di
efficienza rischia di essere la legittimazione ideologica di diverse motivazioni che sino la ricerca
del potere e del lavoro subalterno.
2. La seconda variante della critica descritta è quella sviluppata da Dow:
o riguarda la funzione dell'autorità nel determinare le transazioni.
Williamson giustifica l'autorità come istituto che diminuisce l'opportunismo tra i subordinati e
garantisce transazioni ottimali.
Ma secondo Dow è data poca attenzione al fatto che coloro che occupano posizioni di autorità
possono approfittare della propria posizione imponendo soluzioni opportunistiche a proprio
vantaggio.
Infatti l'opportunismo può esserci anche dal vertice nei confronti dei dipendenti, non solo al
contrario.
A tali critiche Williamson risponde che possono esistere relazioni sociali di potere, ma nega
che la categoria di potere abbia capacità esplicativa.
Williamson insiste affermando che il criterio fondamentale per comprendere la logica d'azione
è la ricerca dell'efficienza e non del potere in quanto tale.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

8. EFFICIENZA E POTERE. I PROBLEMI POSTI DAL CASO DEL VILLAGGIO


AZIENDALE.
Il caso esposto da Williamson di un villaggio aziendale (Company Town):
 è un esempio del modo in cui egli argomenta la superiorità della categoria di efficienza rispetto a
quella di potere nel comprendere le transazioni tra datori di lavoro e lavoratori,
 e mostra il mercato come condizione strutturale più efficace per tutelare i lavoratori.
Williamson si domanda perché:
 i villaggi aziendali suscitano un ricordo penoso di abusi padronali nella storia
dell'industrializzazione,
 e perché risultava meglio lavorare in una normale impresa.
Per rispondere a tali domande Williamson applica il suo modello a un caso immaginario.
Si suppone che una compagnia mineraria scopra un giacimento da sfruttare in una zona disabitata
e lontana, e che ciò avvenga in un'epoca in cui non vi sono ancora le automobili.
L'unico modo per sfruttare il giacimento è mandare stabilmente in zona un tot di minatori, costruire un
villaggio e dotarlo di servizi essenziali.
Le abitazioni e lo spaccio impongono scelte contrattuali.
Le abitazioni:
 possono essere affittate a breve termine o a lungo termine,
 essere vendute ai dipendenti o
 l'azienda può chiedere ai dipendenti di costruirsi la propria casa.
L'affitto a breve termine non è una buona soluzione perché si presuppone che i minatori
rimangano a lungo e perché manca del tutto un mercato regolato dall'equilibrio di domanda e
offerta.
Però è anche chiaro che se i dipendenti comprano o si costruiscono la casa fanno un
investimento destinato a durare nel tempo e specifico per lavorare presso la compagnia:
 ma ciò è possibile solo se si hanno degli incentivi creditizi,
 sicurezza d'impiego e soprattutto se si ha la garanzia che l'impresa ricomprerà l'abitazione a prezzo
equo nel caso il lavoro dovesse cessare.
Però se la compagnia non fornisce queste garanzie la sola soluzione per attirare i dipendenti a
vivere nel villaggio è l'affitto a lungo termine senza penalità in caso di cessazione anticipata del
contratto.
Gli stessi problemi si pongono per lo spaccio.
Lo spaccio può essere di proprietà della compagnia che lo gestisce monopolisticamente, dato in gestione a
un'altra società o di proprietà dei dipendenti che lo gestiscono in cooperativa.
Le forme più favorevoli ai dipendenti sono:
 la cooperativa
 o la gestione affidata a terzi.
Williamson sostiene che qualunque sia la soluzione:
 il patto salariale dipenderà dal modo in cui si risolve il problema delle case e dello spaccio.
La compagnia si trova nella condizione di poter imporre un monopolio integrale, che determina il livello
salariale e il livello di spesa dei suoi dipendenti.
Si suppone ora che il villaggio entri nell'era moderna con la possibilità di spostamenti rapidi sul
territorio, e con tecnologie che permettono di superare l'isolamento forzato.
I dipendenti possono scegliere negozi diversi dallo spaccio e possono abitare altrove.
Mutamenti della tecnologia e mercato provocano ripercussioni che attenuano le asimmetrie a favore della
compagnia.
Williamson ritiene che se viene fatta e rispettata una contrattazione integrale di salario, abitazione
e gestione dello spaccio si sarebbe avuta una configurazione soddisfacente anche prima dell'epoca
automobilistica.
Dunque ci si chiede cosa provoca il malcontento nei villaggi aziendali quando non sono possibili
spostamenti veloci sul territorio.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Williamson trova la risposta nel fatto che raramente si realizzano dei contratti integrali ed esaustivi, specie
nel mercato del lavoro.
Williamson dunque riconduce il problema degli abusi padronali nel villaggio aziendale a una questione di
impossibilità di negoziare prima in modo esaustivo tutti gli aspetti del contratto di lavoro di lunga durata.
Se vi fosse più mercato i lavoratori avrebbero più garanzie perché si aprirebbe la possibilità di occupazioni
alternative a quella della compagnia mineraria.

9. WILLIAM OUCHI: IL CLAN COME ALTRA FORMA DI GOVERNO DELLE


TRANSAZIONI.

Un'integrazione del modello di Williamson è offerta da Ouchi.


A che Ouchi parte dalla premessa che l'impresa va vista come una struttura di governo delle
transazioni con altri soggetti economici, e che esistono differenti meccanismi per governare tali
transazioni.
Ma a differenza di Williamson, Ouchi:
 non considera solo il mercato e la burocrazia, ma anche un terzo meccanismo di governo che è
il clan.
Ouchi dunque passa:
 a uno schema tripolare,
 e il criterio che stabilisce la convenienza di una forma di governo rispetto alle altre due è il
grado di complessità delle transazioni da governare.
Tutte e 3 le forme di governo dell'impresa richiedono per funzionare che siano soddisfatte alcune
esigenze sociali e informative.
Il mercato è la forma di governo più semplice, perché per funzionare richiede solo il rispetto delle
norme sociali di reciprocità e l'informazione sui prezzi.
È la forma più adatta a governare transazioni istantanee e discrete, quelle cioè dove ogni bene o
contributo fornito all'impresa può essere direttamente valutato o compensato in modo proporzionale
al suo valore.
Ma non tutte le transazioni sono di questo tipo:
 gran parte riguarda un insieme concatenato di prestazioni dove non è possibile distinguere e
valutare ogni atto.
In questo caso interviene la burocrazia:
 forma di governo più complessa del mercato perché il suo funzionamento non richiede solo
norme di reciprocità ma anche il rispetto di un'autorità legittima (la gerarchia),
 oltre che la conoscenza di regole e procedure.
Ciò comporta costi amministrativi ignoti al mercato.
Infine c'è il clan:
 che è la forma di governo più complessa perché implica oltre che il rispetto di norme di
reciprocità e conoscenza di procedure, anche la condivisione di valori, credenze e tradizioni.
Il clan è un'entità collettiva non necessariamente economica, che sviluppa negli individui un senso di
appartenenza e identità, che può svolgere un ruolo importante nel mondo degli affari.
La tesi di Ouchi è:
 che la forma del clan è adatta a governare le transazioni di lungo periodo.
La socializzazione che lega le persone appartenenti al clan favorisce il formarsi della fiducia reciproca
necessaria affinché le transazioni che nel breve periodo sono squilibrate a vantaggio di una parte
possano essere riequilibrate nel lungo periodo.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Il clan è un dispositivo di gestione che tiene conto dei sacrifici:
 a breve termine di alcune parti in uno scambio,
 e poi compensa adeguatamente gli individui in modo che venga ripristinato l'equilibrio a lungo
termine tra incentivi e contributi di tutte le parti.
Il clan si pone come la forma di governo più adatta per fronteggiare situazioni di ambiguità dove
altrimenti potrebbero sorgere tentazioni di comportamento opportunistico.
L'appartenenza allo stesso clan rende possibili, sulla base di una fiducia da onorare in futuro, delle
transazioni di lungo periodo che non sarebbero possibili in un governo di semplice mercato o semplice
burocrazia.
In un governo di clan la più grave sanzione sociale è perdere la reputazione di fronte agli altri
membri della comunità.
In questi casi un soggetto che ha trasgredito le regole del clan difficilmente può recuperare la propria
primitiva reputazione ed è di fatto cacciato dal mondo degli affari.
Per concludere bisogna sottolineare due punti:
1. Il primo punto, specifico dell'analisi organizzativa è che:
o mercato,
o burocrazia
o e clan
o possono coesistere nella medesima impresa.
Ouchi fa l'esempio di un'azienda in cui il reparto acquisti è regolato:
o da meccanismi di mercato,
o il magazzino da meccanismi di burocrazia
o e le carriere interne da meccanismi di clan.
2. Il secondo punto pone una questione più generale e riguarda il fatto che con la teorizzazione
del clan Ouchi non si limita a integrare il modello di Williamson.
Egli ci avverte che forme di capitalismo altamente sviluppato possono essere favorite da
requisiti tipici di società tradizionali in modo non previsto dal pensiero classico.
Weber indicava la ragione della superiorità della burocrazia sulle gestioni premoderne nella
universalità delle sue regole di funzionamento.
Il clan, strumento sofisticato di governo degli affari, avverte che l'universalità dei diritti non è un
requisito necessario per il successo economico.
Il fatto che l'efficienza economica possa prescindere dal criterio weberiano dell'universalità dei diritti e
doveri pone interrogativi sull'assetto ottimistico del pensiero occidentale che un’economia sviluppata
trova la sua forma istituzionale congruente nella democrazia politica.
L'analisi di Ouchi segnala che è possibile un altissimo sviluppo economico non accompagnato
dall'uguale sviluppo di una democrazia universalistica.
Ciò pone problemi sul rapporto tra efficienza e democrazia che trascendono il pensiero organizzativo,
investono il pensiero politico e saranno sicuramente al centro del dibattito economico e politico dei
prossimi decenni.

115
BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

CAPITOLO 21. LA SCUOLA NEO-ISTITUZIONALISTICA


1. NOVITA’ E RILEVANZA DELLA SCUOLA
Negli anni 70 sono stati un modello di felice vitalità per il pensiero organizzativo.
Caduto il predomino unificante della Teoria della contingenza, la disciplina conobbe il fiorire di tante
prospettive di ricerca.
Da qui si parla della scuola neo-istituzionale.
A questa scuola va dato un posto di rilievo per almeno 3 buone ragioni:
1. La prima: è che la sua fortuna è andata crescendo negli anni verso la fine del 20 secolo:
La scuola neo- istituzionale studia:
 i processi di istituzionalizzazione: ovvero il sorgere e l’operare sul lunghissimo periodo di
attività socialmente legittimate e persiste che caratterizzano l’organizzazione di specifici
aspetti della vita civile.
Ad esempio negli Usa sono state condotte ricerche in chiave neo-istituzionale sono:
 il sistema sanitario,
 il sistema di relazioni industriali,
 il servizio civile,
 le associazioni professionali,
 l’organizzazione dei musei.
La scuola neo-istituzionale è sviluppata negli Usa è comprensibile che i suoi studi riguardano
fenomeni americani.
Alla scuola è stato avviato un inteso programma di ricerche sulle istituzioni che caratterizzano:
 molti paesi dell’ESTREMO ORIENTE,
 nonché sull’effetto che tali istituzioni hanno avuto e tuttora hanno sullo sviluppo
economico di quei paesi.
Abbiamo uno spostamento del focus.
Mentre:
 GLI APPROCCI TRADIZIONALI: mettevano in primo piano le singole organizzazioni e
lasciavano il contesto sullo sfondo.
 L’APPROCCIO ISTITUZIONALE: mette in primo piano il contesto sociale e tende a concepire
le singole organizzazioni come semplici conseguenze di quel contesto.
2. La seconda ragione di rilievo della scuola neo-istituzionale consiste:
o in questo spostamento del focus.
L’allargamento del suo campo di indagine conduce a perdere la specificità di un approccio
organizzativo tradizionalmente inteso.
Il fatto che l’oggetto di analisi:
o non siano più le singole organizzazioni
o ma interi settori sociali dotati di un’organizzazione diffusa
o fa sì che l’analisi organizzativa tenda a diventare tutt’uno con l’analisi del modo in cui intere
società sono variamente organizzate.
3. La terza ragione di rilievo va cercata nella tensione tra approccio:
o oggettivo
o e soggettivo.
Il dilemma tra una fondazione oggettiva e una soggettiva della conoscenza costituisce una delle
più importanti dimensioni lungo le quali collocare le varie scuole sociologiche.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Questa dimensione interessa direttamente anche la scuola neo-istituzionale:
o ma più che collocarsi in un campo piuttosto che nell’altro,
o la scuola mostra nel complesso una singolare ambivalenza.
 Per un verso la sua attenzione ai fattori e ai vincoli istituzionali la fa apparire sul versante
oggettivista;
 per un altro verso la scuola conosce anche dei momenti di fondazione soggettivista.
La scuola neo-istituzionale è ricca di autori, di ricerche e di dibattiti interni che non è possibile
farne un esame completo.

2. I CONCETTI DI CAMPO ORGANIZZATIVO E DI ISOMORFISMO

Powell e Di Maggio sono due autori che illustrano le ragioni del neo- istituzionalismo, pur collegandosi alla
tradizione classica della sociologia weberiana, individua oggetti di analisi innovativi rispetto al passato.
Essi spiegano che il prefisso neo-istituzionalismo riprende alcuni temi dell’approccio adottato da Selznick
negli anni ’50.
Selznick:
 aveva assistito sul fatto che forze locali esterne condizionano le organizzazioni
 e che per sopravvivere queste ultime devono accettare dei compromessi che le allontanano dal
perseguire razionale degli scopi per cui furono costituite.
Powell e Di Maggio ritornano a Selznick, ma in un contesto sociale diverso.
Il loro presupposto e che oggi non viviamo in una società popolata:
 da istituzioni pubbliche e private
 come agenzie di governo centrale e locale,
 associazioni professionali,
 organismi di rappresentanza e tutela di interessi, c
 entri di diffusione del sapere come scuole e società di consulenza,
 reti di mass media.
Nel loro insieme questi enti formano un campo organizzativo:
 ossia un’area riconosciuta di vita istituzionale che svolge un’ininterrotta azione di normazione e di
controllo sull’attività di altri enti.
Le organizzazioni oggi operano in un tessuto strutturato e riconosciuto di vincoli e di sostegni e questa
condizione di normalità toglie all’azione delle forze esterne in quell’area conflittuale e drammatica che
accompagna l’analisi di Selznick.
L’aspetto su cui Powell e Di Maggio e i neo-istituzionalisti:
 insistono non è più come per Selznick, il tradimento delle finalità originarie dell’organizzazione ad
opera di forze esterne,
 ma sono le capillari e diffuse pressioni per conformarsi a standard riconosciuti,
 il crescente isomorfismo che permea le attività sociali e le conseguenze positive e negative che ne
derivano nella struttura produttiva di un’impresa come nelle procedure bancarie per l’affidamento
di un credito, nei programmi di una stazione televisiva come nella carriera di un professionista.

Isomorfismo è un concetto che abbiamo incontrato nella teoria ecologica delle popolazioni organizzative,
ma nella scuola neo-istituzionalista assume un significato differente.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Secondo Powell e Di Maggio si possono assumere due tipi di isomorfismo:

1. QUELLO GENERATO DA COMPETIZIONE:

La scuola ecologica ha elaborato il concetto di isomorfismo da competizione nel senso che lo


concepisce come una conseguenza del fatto che nelle società moderne esiste una pluralità di
ambienti in cui determinate popolazioni organizzative sono più adatte di altre a sopravvivere
sfruttando risorse e mercati scarsi.
La competizione elimina i soggetti meno adatti, quelli che restano finiscono con l’avere forme
simili, perché sono ottimali alla sopravvivenza in un dato ambiente.
La scuola ecologica collega l’isomorfismo da competizione all’esistenza di una pluralità di ambienti,
ciascuno dei quali abitano da una specifica popolazione organizzativa isomorfa al suo interno.

2. QUELLO ISTITUZIONALE:

L’isomorfismo istituzionale non nasce dalla competizione tra le organizzazioni per conquistare
risorse e mercati scarsi, ma dalla preoccupazione di ottenere legittimazione sociale e appoggi
politici.

Nell’osservazione empirica sociale non è sempre possibile distinguere i due tipi di isomorfismo, dato che la
tendenza ad uniformarsi a spinte esterne si mescola facilmente con la lotta per accaparrare risorse scarse.
Powell e Di Maggio difendono l’opportunità di mantenere la differenza concettuale tra i due isomorfismi
con l’argomento che l’isorfismo istituzionale è uno strumento utile per comprendere i più recenti processi
di burocratizzazione della società.
Tali processi rendono le organizzazioni più simili tra di loro senza renderle più efficienti.

Powell e Di Maggio distinguono ulteriormente:

 ISOMOFISMO COERCITIVO:
quando un’organizzazione è sottoposta a pressioni esterne che la obbligano a confrontarsi,
tipicamente vincoli di legge o clausole contrattuali da parte di organizzazioni più potenti.
Come ad esempio quelle impresse madre impone alle imprese fornitrici che lavorano su commessa.

 ISOMORFISMO MIMETICO:
quando le organizzazioni di fronte all’incertezza dell’ambiente iniziano spontaneamente dei
processi imitativi.
In questi casi il non sapere come si svilupperà un dato processo induce un processo di imitazione
come surrogato di certezza (secondo il tipico ragionamento che se tutti fanno così, vorrà dire che
c’è una ragione ed è bene conformarsi).

 ISOMORFISMO NORMATIVO:
nasce da processi di professionalizzazione.
I soggetti che guidano l’organizzazione apprendono in centri o in reti specializzate l’esistenza e la
convenienza di nuovi metodi di conduzione o di nuove tecnologie.

 ISOMORFISMO PROFESSIONALE:
la scelta della novità non deriva da costrizione né da incertezza, ma dalla libera e ragionata
consapevolezza della superiorità delle nuove pratiche rispetto alle vecchie.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

3. LYNNE ZUCKER: UN APPROCCIO SOGGETTIVISTA ALLE ISTITUZIONI

Nel 1977 sulle riviste sociologiche americane, comparvero due articoli:


1. Il primo articolo era scritto da LYNNE ZUCKER e si intitolava Il ruolo dell’istituzionalizzazione nella
persistenza culturale.
2. Il secondo articolo era scritto da JOHN MEYER e BRIAN ROWAN si intitolano Le organizzazioni
istituzionalizzate: la struttura formale come mito e cerimonia.
Le ragioni che rendono importante il contributo della Zucker sono due:
 La prima: lei opera in una fondazione etnometodologica delle istituzioni e rivendica la necessità
che nello studio delle organizzazioni si parla dal punto di vista dei soggetti.
 La seconda: lei compie un esperimento di laboratorio per verificare le sue ipotesi sul ruolo delle
istituzioni.
La scuola funzionalista (nella versione parsoniana) aveva abituato a considerare:
 le istituzioni sociali,
 stato,
 chiesa,
 scuole,
 tribunali,
 imprese,
 ecc...
Quelle istituzioni:
 erano viste come fonti di norme e di valori che i soggetti interiorizzano nel processo di
socializzazione, ovvero nel processo di apprendimento delle regole per stare nel consorzio civile.
L’attenzione dei funzionalisti era rivolta al sistema sociale, considerato come entità che si autoperpetua
attraverso le funzioni svolte dalle sue varie istituzioni.
Queste esercitano un’azione costrittiva sulle condotte individuali e ai soggetti non è riconosciuto un ruolo
autonomo nel mantenere e trasmettere norme e valori.
Per i funzionalisti le condotte individuali conservano qualche rilevanza per la ricerca sono nei casi di anomia
o di devianza, interpretate come segno di un non riuscito processo di interiorizzazione delle norme e dei
valori prevalenti.
La Zucker:
 accetta l’importanza determinante delle istituzioni nel plasmare i comportamenti sociali,
 ma rifiuta l’impostazione che il funzionalismo ha dato al problema.
La Zucker sostiene:
 che non è sufficiente concepire l’ordine sociale come effetto dell’azione svolta dalle istituzioni sui
processi di socializzazione dei singoli individui.
Per conoscere come l’ordine sociale si mantiene e si trasmette nella vita quotidiana, bisogna mettersi dal
punto di vista dei soggetti ed esaminare la circostanza, gli atti discorsivi, i contesti quotidiani in cui le regole
vengono percepite e trasmesse (etnometodologica sta precisamente a significare metodo di osservazione
della gente comune).
In altri termini, non ha senso considerare le regole come entità in sé, vincoli dotati di una intrinseca
efficacia costrittiva perché proprio i comportamenti indicati come esempi del seguire una regola mostrano
il significato di quella regola per i soggetti che la seguono.
L’etnometodologica:
 può essere ricondotta al grande assunto fenomenologico che considera la realtà come costruzione
sociale, ovvero che gli oggetti della nostra esperienza non sono indipendenti dai metodi con i quali
li osserviamo e li comprendiamo.

119
BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Nell’approccio entomologico non c’è bisogno di ricorrere al postulato funzionalista della interiorizzazione
di valori per spiegare l’origine dell’ordine sociale.
Ciò interessa agli etnometodologici è la conoscenza ravvicinata di ordine sociale viene percepita e
trasmesso nella vita quotidiana, partendo dalla constatazione che nel senso comune le istituzioni sono
esperite come strutture oggettive e resistenti.
Temi tipici dell’etnometodologia sono le analisi microsociologiche dove si riflette sulle interazioni
discorsive:
 tra i soggetti sulla contrattazione di significato
 tra i soggetti coinvolti in specifiche circostanze.
La Zucker rifacendosi alla etnometodologia, respinge l’ipotesi funzionalista che si possono conoscere le
istituzioni indipendentemente dai soggetti che le sperimentano, e fa proprio l’assunto che il livello macro-
sociale delle istituzioni e quello microsociale dei soggetti sono sempre intrecciati.
Il suo interesse di ricerca non è tanto quello di svolgere analisi microsociologiche della vita quotidiana, ma
quello di conoscere il ruolo delle istituzioni nella trasmissione di cultura da una generazione all’altra.
La Zucker parte dal presupposto che i soggetti percepiscono e descrivono la realtà sociale come una realtà
esteriore e oggettiva, e in questo modo la comunicano ad altri.
Un soggetto è spinto a conformarsi a ciò che le istituzioni prescrivono dal semplice fatto che in caso
contrario le azioni sue e degli altri non potrebbero essere comprese.
Quando si tratta di atti istituzionalizzati sostiene la Zucker è sufficiente che una persona dica ad un’altra
che le cose stanno in quel modo, non c’è bisogno di altre giustificazioni o appelli a valori più grandi.
Ciò si osserva con la massima chiarezza nella trasmissione di conoscenza sociale da una generazione
all’altra, ogni generazione, trasmettendo la sua esperienza, crede di descrivere la realtà oggettiva.
Ma è sbagliato, Zucker, considerare l’istituzionalizzazione soltanto come una realtà che c’è o non c’è, essa
va vista come un fenomeno a intensità variabile.
Il significato di un atto può essere percepito come più o meno esteriore ed obiettivo a seconda della
situazione in cui l’atto è compiuto dal ruolo ricoperto dal soggetto che lo compie.
Ad esempio, atti compiuti da un attore unico e particolare hanno un basso grado di istituzionalizzazione,
come risulta nei processi di influenza personale.
Atti compiuti da una persona che occupa uno specifico ruolo formale hanno un altro grado di
istituzionalizzazione.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

4. LYNNE ZUCKER: UN ESPERIMENTO DI LABORATORIO SULLA TRASMISSIONE DI


CULTURA

Ma come era possibile sperimentale una ipotesi come quella su esposta, dal momento che i processi di
trasmissione di conoscenza sociale da una generazione all’altra durano decenni se non secoli?
La Zucker risolve il problema con una simulazione in laboratorio.
Invitò una popolazione di 180 persone (tutte donne) a un esperimento di percezione visiva e le divise in
quattro gruppi di 45 soggetti ciascuno.
Un gruppo venne impiegato come un gruppo di controllo, mentre gli altri tre gruppi servirono per
l’esperimento vero e proprio.
In tal modo tutti i gruppi furono sottoposti al medesimo esperimento, ma di volta in volta venivano aggiunti
elementi che rafforzavano il contesto formale del compito da svolgere.
 Nel gruppo di prova i soggetti erano soli nella stanza dell’esperimento, non c’era nessun altro di cui
potessero osservare le risposte.
 Nel primo gruppo i soggetti si limitavano ad assistere alle risposte di chi li aveva preceduti, e ciò
avrebbe potuto costituire un fattore di semplice influenza personale nel momento in cui toccava a
loro sottostare all’esperimento.
 Nel secondo gruppo entrava in gioco un fattore istituzionale debole perché ai soggetti era detto
che formavano un team paritario con chi le precedeva.
 Il terzo gruppo entrava in gioco un fattore istituzionale forte perché ai soggetti era detto che erano
inseriti in una struttura gerarchica di ufficio con responsabilità formali ben stabilite da trasmettere
da un soggetto all’altro.
L’esperimento si proponeva di verificare se man mano che si rafforzava il contesto istituzionale in cui si
svolgevano le prove, aumentava nei soggetti la tendenza ad imitare le risposte fornite da chi li aveva
preceduti.
Ma il trucco dell’esperimento consisteva nel fatto che:
a) La persona che si trovava già nella stanza non era, come le persone reclutate per la prova
credevano, una di loro ma era una collaboratrice dell’Istituto in cui la Zucker svolgeva
l’esperimento;
b) Alla collaboratrice era stato detto di dare risposte in cui i movimenti della luce erano giudicati da
tre a quattro volte superiori a quelli reali.
Lo scopo dell’esperimento era quello di verificare la misura in cui una manipolazione culturale, che
contrastava con la percezione visiva dei soggetti sottoposti alla prova, veniva recepita da questi soggetti
come risposta giusta, e quindi limitata.
I responsabili dell’esperimento decisero anche che questa tendenza sarebbe stata misurata in una
concatenazione di tre prove:
 dalla collaboratrice al primo soggetto,
 dal primo al secondo,
 e dal secondo al terzo che si succedono nella stanza.
Ogni prova stava a simboleggiare una generazione nel processo di trasmissione intergenerazionale di un
contesto culturale.
I risultati confermavano pienamente l’ipotesi teorica.
Dopo l’esperimento venne chiesto a tutte le partecipanti di rispondere a un questionario di tre domande:
 La prima domanda riguardava il loro grado di sicurezza nell’avere risposto in modo accurato alle
prove compiute.
 La seconda domanda riguarda il grado percepito di difficoltà nello stimare la distanza della luce.
 La terza domanda riguarda l’opinione delle partecipanti sul grado in cui ogni persona sottoposta
alla prova aveva dato risposte uguali.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Le risposte ottenute confermano che quanto più forte era stato il contenuto istituzionale percepito, tanto
maggiore era la sicurezza di avere risposto bene, minori le difficoltà incontrate nel rispondere e più diffusa
l’opinione che tutte le partecipanti avessero dato risposte simili.
I risultati avevano una grande rilevanza teorica poiché dimostravano che:
1. La certezza di un soggetto non proviene dalle sue percezioni sensoriali, ma dal sistema di credenze
con cui interpreta quelle percezioni;
2. Quando più forte un contesto istituzionale, tanto più il suo contenuto culturale è trasmesso senza
scostamenti, fornendo ai soggetti il quadro in cui interpretare la propria esperienza sensoriale;
3. Non sono le difficoltà nella soluzione di un problema a generale incertezza, al contrario è la
certezza delle credenze fornite dal quadro istituzionale a ridurre le difficoltà;
4. Quanto più un soggetto percepisce solido il quadro istituzionale in cui si trova, tanto più egli si
attende che anche gli altri soggetti diano risposte conforme alle sue.
L’esperimento dimostra l’importanza di tenere in primo piano nelle analisi di Zucker la base teorica per un
vasto programma di ricerche in cui l’approccio a livello microsociale diventa parte integrante e
complementare dell’approccio a livello macrosociale.

5. JOHN MEYER E BRIAN ROWAN: LE ORGANIZZAZIONI TRA EFFICIENZA E MITI


ISTITUZIONALI.

Il contributo dato da Meyer e ROWAN nel 1977 nello sviluppo della scuola istituzionale può essere
considerato complementare a quello dato da Lynne Zucker.
Zucker studia:
 il ruolo svolto dall’istituzionalizzazione nella persistenza dei modelli culturali quando questi
vengono trasmessi da un gruppo sociale a un altro.
Meyer e ROWAN esaminano:
 il crescente conformarsi dell'organizzazione all'ambiente istituzionale circostante.
La loro tesi:
 è che a causa di questo processo di isomorfismo
 le organizzazioni si danno spesso delle strutture formali che non sono altro che mito e cerimonia.
Meyer e Rowan avevano appena concluso una ricerca sulla struttura del sistema scolastico americano.
In questa ricerca essi erano partiti dalla osservazione di WEICK che il concetto di connessione lasca (loose
coupling) è adatto a esprimere lo scarso coordinamento:
 tra la sfera didattica
 e la e la sfera amministrativa della scuola.
Questa separatezza riflette l'impossibilità di compere controlli di merito sugli effetti che l'insegnamento a
nella formazione degli studenti.
Si va a sopperire impossibilità dal sistema scolastico adottando procedure sostitutive nella presunzione che
queste garantiscano efficacia all’insegnamento.
L’istruzione osservata da Meyer e Rowan, diventa un’insegnante certificato che insegna un argomento
scandalizzato e ricorrente a uno studente registrato in una scuola accreditata.
La reale efficacia di quei parametri non potrà mai essere verificata, si deve riconoscere che essi
rispecchiano soltanto le convinzioni socialmente approvate su che cosa sia l'efficacia formativa.
Il criterio per valutare la qualità e l'efficacia di una data scuola non è allora altro che il grado in cui essa si
conforma al cerimoniale delle procedure socialmente stabilite per onorare il mito di ciò che si ritiene sia la
qualità e l'efficienza dell'insegnamento.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

 Quanto più è alta la conformità, tanto più la scuola ha probabilità di ottenere fondi sussidi,
riconosci la reale efficacia di quei parametri non potrà mai essere verificata, si deve riconoscere
che esci rispecchia non soltanto le convenzioni socialmente a provate su che cosa sia l'efficacia
formativa.
Il criterio per valutare la qualità e l'efficacia di una data a scuola non è allora altro che il grado in cui essa si
conforma al cerimoniale delle procedure socialmente stabilite per onorare il mito di ciò che si ritiene se la
qualità e l'efficienza degli insegnamenti.
 Quanto più è alta la conformità, tanto tu la scuola a probabilità di ottenere fondi, sussidi,
riconoscimento è che i suoi allievi, una volta terminati di studi, sono i più richiesti sul mercato del
lavoro.
Mi sistema scolastico rappresenta per Meyer e ROWAN uno dei più chiari esempi in cui la fonte del della
legittimazione non si trova in una valutazione intrinseche dell'attività svolta ma criteri esterni condivisi.
Meyer e ROWAN si propongono di pervenire a un modello teorico più generale.
 Il loro punto di partenza è la critica alla scuola classica da Weber a PARSONS, che la struttura
formale di un’organizzazione sia il modo più efficace di coordinare e controllare il complesso delle
attività lavorative che si svolgono al suo interno.
Le organizzazioni operano in contesti altamente istituti istituzionalizzati che stabiliscono i criteri di
razionalità al cui le organizzazioni devono attenersi.
I criteri di razionalità sono stabiliti all'esterno delle organizzazioni apre una prospettiva di ricerca
totalmente nuova sulle pressioni alla conformità che il contesto istituzionale esercita sulle organizzazioni
nonché sui possibili conflitti tra le regole di origine esterna e criteri interni di efficienza che l'organizzazione
dovrebbe seguire in rapporto alle sue specifiche caratteristiche.
Le pressioni istituzionali alle conformità:
 hanno come risultato isomorfismo tra le organizzazioni e ambiente.
Nell'esame del sistema scolastico era già emerso che un fattore di isomorfismo e la convenienza di molte
organizzazioni ad incorporare le regole esterne come un proprio elemento strutturale.
Meyer e Rowan sviluppano l’argomento:
 nella società moderna l’isomorfismo non nasce dalla tendenza delle organizzazioni esistenti ad
adattarsi all’ambiente esterno,
 ma trova la sua radice nel fatto che l’ambiente stesso ad operare affinché nascano nuove
organizzazioni volte a perseguire fini che l’ambiente considera auspicabili.
Una caratteristica della società moderna:
 da un lato le reti di relazione diventano sempre più complesse e
 dall'altro si moltiplicano le regole istituzionali che apre scrivono sempre nuovi campi di attività
razionalizzata.
Meyer e Rowan ne trovano la ragione nella diffusione di alcune possenti:
 regole istituzionali che fungono da MITI RAZIONALI.
Con questa espressione essi intendono MITI LEGITTIMATI:
 dal presupposto di essere razionalmente efficaci,
 o anche legittimati in base a mandati legati.
In genere i miti:
 nascono da interessi che si perpetuano diventano regole istituzionali.
I miti indicano:
 sia ai fini che è auspicabile raggiungere e
 sia i mezzi razionali più adatti per raggiungerli.
Affermarsi di un mito porta così a creare nuovi campi di attività razionalizzata dove nuove organizzazioni
formali nascono per soddisfare i bisogni alimentari da quel mito.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
La crescente burocratizzazione della società può essere vista come l'effetto della diffusione:
 DEI MITI RAZIONALIZZATI.
Meyer e ROWAN sono consapevoli che nella sua forma estrema l’approccio istituzionale porta a concepire
le organizzazioni non come unità autonome in rapporto con l’ambiente, ma come semplici manifestazioni
dei miti istituzionalizzati che pervadono le società moderne.
Esistono due tipi di organizzazioni:
 le prime sono organizzazioni che non dispongono di criteri intrinseci di efficienza e che soprattutto
grazie alla capacità di adeguarsi alle esigenze cerimoniali prescritte dagli ambienti istituzionali.
 Le seconde possiedono criteri intriseci di efficienza che devono essere in qualche modo rispettati e
soprattutto grazie alla capacità di gestire in modo autonomo le proprie reti di attività e di
relazione.
Sono le organizzazioni del secolo tipo a porre i problemi teorici più interessanti.
Il fatto è che debbano rispettare i criteri di efficienza interni non esclude che siano anche oggetto di
pressioni istituzionali per conformarsi a regole e cerimoniali di fonte esterna che spesso contrastano con la
logica dell’efficienza.
Meyer e ROWAN indicano tre vie:
 la prima è di resistere alle esigenze cerimoniali, ma con il rischio che si perdano fonti di risorse e di
stabilità.
 La seconda è di conformarsi alle prescrizioni esterne, ma con il rischio che l’impresa fallisca perché
le organizzazioni non devono soltanto conformarsi ai miti, devono anche preoccuparsi di
funzionare.
 La terza via è quella di ammettere l’incoerenza tra la struttura formale e le esigenze tecniche, ma
con il rischio di minare la legittimità dell’organizzazione.
Meyer e ROWAN suggeriscono:
 una quarta possibilità: Essa consiste nello sviluppare due strutture parallele:
o una formale: che serve a rispettare la facciata dei cerimoniali esterni
o una informale: che serve a far funzionare le cose nel retroscena seguendo le regole
dell’efficienza.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO

6. UN ALTRO ESEMPIO DI RICERCA NEO-ISTITUZIONALE: LA PRURALITA’ DEI


CAPITALISMI ASIATICI

La scuola neo-istituzionalista ha accumulato un vasto corpus di conoscenze sui più svariati aspetti della
società occidentale, privilegiando le analisi dei mutamenti istituzionali di lungo periodo e delle loro
interconnessioni con l’organizzazione sociale.
La scuola ha dimostrato la validità del suo approccio anche nell’analisi di società non occidentali, e di
particolare rilevanza è il lavoro svolto da un gruppo di ricerca.
È possibile individuare in questa ricerca tre assunti:
1. Il primo assunto: è che l’analisi istituzionale rifiuta spiegazioni monocausali, ovvero rifiuta il
privilegiare un fattore esplicativo rispetto agli altri.
Per capire lo sviluppo economico di un paese non è sufficiente invocare la sua cultura o un’astratta
competizione di mercato.
Il principio capitalistico universale dell’economia come azione razionale orientata al massimo
profitto non è in grado di spiegare la differente organizzazione economica.
Bisogna partire dal presupposto che i modelli di corretto comportamento economico sono
socialmente costruiti.
Woolsey Biggart indica quattro assunti dell’analisi neosituzionale, tutti di derivazione weberiana.
Bisogna tenere presente che:
 L’azione economica è un’azione sociale;
 È intessuta (embedded) nel quadro istituzionale;
 La logica delle istituzioni ha un ruolo centrale per comprendere le azioni sociali;
 L’analisi neo- istituzionale si sviluppa a molteplici livelli.
2. Il secondo assunto: è che considerare l’organizzazione economica come intessuta nel quadro
istituzionale di un dato paese equivale a sostenere il suo isomorfismo rispetto a quel quadro.
Ne discende che la scuola dello sviluppo economico piuttosto che le uniformità.
Essa sottolinea la varietà dei capitalismi.
3. Il terzo assunto: è che nonostante le differenze nazionali, la ricerca di Orrù e Coll trova in quei
paesi un tratto comune.
A differenza di quanto sostenuto da Meyer e Rowan per l’Occidente, non esiste contrasto tra la
logica dell’efficienza di mercato e la logica delle istituzioni.
Le logiche convengono armoniosamente nel plasmare le forme organizzative.
Gli adattamenti alle istituzioni non conducono le imprese a una perdita di efficienza, al contrario i
tratti istituzionali delle imprenditorie dei tre paesi rappresentano il principale fattore del loro
successo economico.
Queste premesse definiscono il quadro concettuale in cui i ricercatori sviluppano la loro analisi
empirica.
Si osserva un isomorfismo tra i gruppi di affari e paese d’appartenenza.
Il carattere comunitaristico del capitalismo giapponese nasce, secondo i ricercatori, dal fatto che tutti i
gruppi economici sono formati da un’impresa madre che integra verticalmente una rete di imprese minori
appartenenti allo stesso settore.
La ricerca di Orrù e Coll, è importante non solo perché illustra tre diverse forme di capitalismo asiatico, ma
anche il metodo di analisi.
Questo si basa sulla premessa che il metodo astratto del capitalismo non contiene in sé le indicazioni
sufficienti per predire i tipi di società che si formano storicamente e consente di ipotizzare l’esistenza di una
pluralità di capitalismi.
Per avviare una ricerca su questo problema occorre partire dall’assunto che un contesto di istituzioni
politiche sociali e culturali favoriscono lo sviluppo di alcune forme organizzative piuttosto che di altre.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Il mercato non esiste per legge di natura ma è socialmente costruito.
Le varie economie:
 non si sviluppano secondo meri criteri di efficienza e di profitto,
 ma secondo un particolare contesto istituzionale.
I rapporti d’affare rispecchiano specifiche strutture normative che sottostanno all’attività economica e che
garantiscono l’ordine del mercato.
Naturalmente le imprese operanti in economie capitalistiche ricercano il massimo profitto:
 ma differenti principi di controllo,
 non solo economico ma istituzionali come lo Stato,
 le comunità intermedie e la famiglia operano in ogni società.

7. BARBARA CZARNIAWSKA: COME VIAGGIANO LE IDEE TRA MODE E


ISTITUZIONI.
Barbara Czarniawska, sociologa polacca attualmente residente in Svezia, che ha fornito un contributo
teorico per lo studio dei processi di cambiamento organizzativo e di istituzionalizzazione.
Il quesito è:
 Ma come si formano le istituzioni e come cambiano nel corso del tempo?
Risposta:
 È sufficiente porre queste domande per rendersi conto che è possibile inserire una prospettiva
dinamica all’interno della divisione statica dell’istituzionalismo.
Questa è l’operazione compiuta da Barbara Czarniawska.
La Czarniawska comincia con il contestare l’idea comune:
 che la propaganda delle idee avvenga mediante diffusione.
La diffusione è un concetto di origine epidemiologica:
 è adatta per descrivere la propagazione dei germi di una malattia,
 dove gli esseri umani non sono che portatori involontari e spesso inconsapevoli.
Applicando ai rapporti sociali il concetto di diffusione presuppone:
 il caso limite di un potente supremo che emette verità destinate a circolare in modo indiscutibile,
 oppure situazioni altamente emotive dove gli stati d’animo si propagano in modo meccanico e
acritico, come il panico o l’euforia.
Per descrivere il viaggio delle idee occorre un modello diverso da quello basato sulla diffusione, e la
Czarniawska lo trova in quello di traslazione:
 è questo un modello elaborato in sede di sociologia della scienza e che comporta un ruolo attivo
dei soggetti nella trasmissione delle idee.
Il ruolo ineliminabile della soggettività degli esseri umani nel viaggio delle idee:
 le persone non recepiscono passivamente le idee né le trasmettono senza modificarle.
In misura maggiore o minore ogni persona quando recepisce un’idea nuova la trasla:
 la interpreta,
 la seleziona,
 la riformula,
 la collega ad altre idee,
 la adatta ai suoi scopi,
 ai suoi bisogni,
 ai suoi interessi.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Il modello basato sulla diffusione presuppone:
 una società omogenea,
 centralizzata,
 gerarchica,
 dove le persone hanno un ruolo di trasmettitori passivi,
Il modello basato sulla traslazione presuppone:
 una società aperta,
 differenziata,
 reticolare,
 dove tutte le situazioni locali sono dei punti interconnessi a livello comunicativo.
Lo spazio/ tempo globale, scrive Czarniawska, non si contrappone agli spazi/tempo locali, esso è solo un
reticolo esterno di punti locali.
Le idee non viaggiano solo nello spazio, esse viaggiano anche nel tempo:
 idee ferme: in vecchi testi possono tornare a viaggiare, non appena qualcuno riscopre, le aggiorna e
le reimmette in qualche punto del reticolo mondiale delle comunicazioni.
Le idee non viaggiano nella forma di concetti astratti.
La Czarniawska suggerisce che bisogna tenere presente l’etimologia del nome idea, che deriva dal verbo
vedere.
Ogni idea presa nel suo significato originario suggerisce:
 una visione,
 un’immagine.
Un’idea è tanto più forte quanto è più vivida l’immagine che essa evoca.
E queste immagini possono essere:
 figure, suoni, modelli, qualunque artefatto mentale dotato di una forma, sia pure abbozzata.
 Sono queste immagini ad attivare l’attenzione delle persone, a spingerle ad agire per materializzare
le idee in oggetti e in corsi di azione.
Il viaggio delle idee è un processo proteiforme:
 nel tempo e nello spazio,
 dove le immagini spostamenti da un ambiente all’altro si materializzano in oggetti,
 in azioni,
 e talvolta in istituzioni,
 da cui nascono nuove immagini.
La spirale è la metafora che meglio suggerisce questo movimento.
Le idee non si muovono da sole:
 a farle muovere sono le persone spesso legate in reti comunicative che sembrano assumere
dimensioni sovraumane.
Il cambiamento, dentro e fuori e organizzazioni, è l’effetto del viaggio delle idee.
Proprio per questa ragione il cambiamento è programmabile:
 le idee materializzate procedono come valanghe.
Una caratteristica del viaggio delle idee è l’imprevedibilità.
Un’idea:
 può nascere
 o può essere scoperta
 o riscoperta in qualsiasi posto,
 può essere ripresa e rimbalzare altrove inserendosi in contesti diversi da quello originario.
Per viaggiare, non è necessario che l’idea si materializzi in un’azione:
 talvolta essa si innesta in un corso di azioni già esistenti,
 facendo cambiare significato a quelle azioni.

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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Un potente aiuto al viaggio delle idee sono i grandi eventi:
 anniversari di fatti storici importanti diventano spesso l’occasione di celebrazioni e festeggiamenti
in cui cospicui fondi vengono spesi per dare corpo a idee che non hanno nulla a che vedere con il
significato originario di quell’evento.
Il viaggio delle idee è connesso ai fenomeni della moda.
Nel campo del management sono noti i fenomeni di moda, come quando nuovi modelli organizzativi
vengono lanciati come i dernier cri, la soluzione definitiva ad annosi problemi di gestione:
 salvo l’anno dopo scoprire nuove mode che rendono obsolete quelle che furoreggiavano l’anno
prima.
Barbara Czarniawska entra nel campo di Meyer e Rowan, ma vi apporta alcune modifiche rilevanti.
 Meyer e Rowan sottolineano il fatto che le pressioni esercitate dalle istituzioni esterne portano
spesso le imprese ad agire in base a criteri di conformità all’ambiente piuttosto che di efficienza.
Ossia le imprese sono spesso portate ad adottare modelli, pratiche e tecnologie non perché siano
effettivamente utili ma per trovare legittimità e consenso nell’ambiente in cui si trovano ad agire.
 Barbara Czarniawska approfondisce le argomentazioni di MEYER e ROWAN introducendo il
concetto di moda.
Le pressioni all’isomorfismo esercitate dall’esterno sono interrotte ma i suoi contenuti specifici cambiano
continuamente perché seguono la moda.
Le novità proposte dal mondo della consulenza pongono i management di fronte a un arduo compito,
perché se:
 da un lato essi devono tenere aggiornate le proprie imprese,
 dall’altro devono anche saper discendere il grano delle cose utili e durare dalla crusca delle mode
effimere.
In genere si suppone che tra istituzioni e mode non ci sia nulla in comune, perché la persistenza delle
prime appare diametralmente contraria alla fugacità delle seconde.
Barbara Czarniawska dimostra che non è così, mode e istituzioni sono intimamente interconnesse:
 Da un lato alcune mode possono imporsi come delle idee- guida che persistono nel tempo fino a
trasformarsi in istituzioni.
 Dall’altro sono le istituzioni stesse che per sopravvivere producono mode.

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