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INTRODUZIONE
1. CHE COSA VUOL DIRE “PENSIERO ORGANIZZATIVO”?
Per rispondere a questa domanda bisogna andare ad esaminare le parole che formano il titolo:
ORGANIZZATIVO: è un aggettivo che deriva dal nome organizzazione, ed è da questo nome che
incominciamo ad esaminare il nostro esame.
ORGANIZZAZIONE: la parola organizzazione è usata in due modi:
1. ENTE SOCIALE: fondato sulla divisione del lavoro e delle competenze
(impresa economica, partito politico, associazione sportiva, ecc..). Come
ad esempio quando si sente espressione “la nostra organizzazione” in
questo caso sta parlando di una specifica impresa economica, partito
politico, di una associazione sportiva, ecc...
2. ENTE ORGANIZZATO: in cui è determinato. Si possono essere
organizzazioni (imprese, partiti, servizi pubblici, ecc..) che sono bene,
mediocremente o male organizzate.
Pensiero:
che riguarda le organizzazioni e la loro organizzazione nel doppio significato che
abbiamo appena analizzato.
Si può parlare di pensiero politico, economico, sociologico, e cosi via.
Essa indica un corpus di teorie e di dottrine consolidate per connotare una
disciplina o una materia di studio.
PENSIERO ORGANIZZATIVO:
è una nuova espressione,
precedentemente usate sono state teorie e analisi
organizzativa, sociologia dell’organizzazione o psicologia
dell’organizzazione.
Questa espressione fa riferimento a un’area molto vasta di
contributi che nascono in campi disciplinari diversi come le
teorie manageriali, la teoria di impresa, la microeconomia
aziendale e la sociologia dell’organizzazione.
CONTRIBUTI PRESCRITTIVI: che discutono e propongono modelli reputati ottimali per progettare il
modo concreto di organizzare un’organizzazione. Essi appartengono alle teorie manageriali e
d’impresa.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Ovvero lo sviluppo della conoscenza scientifica appare come un susseguirsi e intrecciarsi di dibattiti.
Un dibattito nasce quando uno o più interventi contestano lo stato dominante del sapere in un campo
disciplinare, e si sviluppa con l’apporto di altri interventi.
Il libro Storia del pensiero organizzativo evoca il susseguirsi di teorie e conoscenze esposte in modo
cronologici, per due motivi:
Il primo motivo: è che il modo in cui teorie e conoscenze nascono e si succedono costituisce di per
sé materia di riflessione, dal momento che una nuova teoria può essere compresa solo alla luce di
ciò che è stato detto in precedenza.
Il secondo motivo: riguarda i criteri con cui le teorie e conoscenze sono state scelte e organizzate in
questa storia, in modo da suggerire l’idea di alcuni percorsi organici.
La prima indicazione è che un discorso conoscitivo, quanto più si avvicina al rigore di un sapere disciplinare
istituzionalizzato, tanto più strutturato in, e alimentato da dibattiti all’interno di comunità scientifiche
formate da addetti ai lavori.
Il dibattito appare come forma privilegiata attraverso cui procedere la conoscenza scientifica.
Un dibattito nasce allorché uno o più interventi contestano lo stato dominante del sapere in un campo
disciplinare.
Ogni dibattito ha una traiettoria temporale che connota una specifica epoca storica.
Questo modo di intendere lo sviluppo di una disciplina scientifica si associa a diverse considerazioni:
La prima è che nessun modello o ipotesi di ricerca nasce dal rapporto immediato con i fenomeni
oggetto di studio, ma sempre e solo da quanto altri membri della comunità scientifica hanno già
detto. La stessa considerazione vale per le scienze sociali: il referente ultimo degli scienziati sociali
non è la società né lo sono i suoi vari aspetti come le classi sociali o le organizzazioni, ma ciò via
hanno scritto sulla società, sulle classi sociali, sulle organizzazioni. Il modello agisce come un
orientamento gestaltico ovvero come una configurazione totalizzante che consente all’osservatore
di organizzare l’insieme delle osservazioni in un quadro plausibile. Nel modello interpretativo non
basta che sia contraddetto da dati empirici.
Questo modo di intendere lo sviluppo delle scienze sociali ha almeno tre dirette conseguenze sul modo in
cui affronteremo temi e problemi interni al pensiero organizzativo.
La prima è più evidente conseguenza è che un approccio critico alla materia non può che avere una
dimensione storia, con l’individuazione dei principali dibattiti che hanno caratterizzato le varie
epoche della disciplina.
La seconda conseguenza è che questi dibattiti nascono in seno a paradigmi o modi di pensare che
portano a individuare quelli che KUHN chiama problemi rompicapo, ossia problemi che per un
certo tempo sono centrati nella comunità scientifica ma che poi decadono, non tanto perché siano
risolti quanto perché si esaurisce l’interesse dei ricercatori.
La terza conseguenza è che la conoscenza specifica delle organizzazioni tende con il tempo a
divenire sempre più scaltrita e raffinata, ma con una erosione progressiva dell’oggetto di studio,
fino alla sua tendenziale coincidenza con lo stesso apparato concettuale predisposto per studiarle.
La storia del pensiero organizzativo procede per linee tematiche e ricostruendo i dibattiti intorno ad
alcune questioni centrali.
Si possono individuare tre questioni in cui si articola il pensiero organizzativo nel XX secolo, ma per
spiegare questa divisione in materia bisogna affermare che non sono le realtà empiriche indagate a
definire un’area disciplinare, ma i problemi che si mettono a fuoco usando determinate categorie di
ricerca.
QUESTIONE BUROCRATICA: in cui temi portati sono funzioni delle norme e strategie dei
soggetti.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
1. PRIMO PUNTO: il successo storico del taylorismo ha fatto entrare tale espressione nell’uso
corrente, tanto che parlare di taylorismo oggi significa parlare di lavori ripetitivi e standardizzati.
Tale uso corrente nasce da una schematizzazione che non tiene conto della sua ambivalenza,
radicata nella sua stessa portata innovativa rispetto alle precedenti condizioni di lavoro industriale.
Queste condizioni vengono portate via dal taylorismo. Le persone che hanno vissuto l’ordine, vanno
a ricordare solo l’aspetto negativo e oppressivo, senza apprezzare il carattere razionalizzatore.
2. SECONDO PUNTO: si ha un dibattito sul suo superamento che è avvenuto tra gli anni 40 e gli anni
80 del 900. Questo favorisce la presa di coscienza della storicità del taylorismo, ovvero che esso è
stato solo un episodio della storia dell’industria. Bisogna dire che il taylorismo ha presentato una
molteplicità di forme, da quelle più autoritarie a quelle più sofisticate e sottili.
Ciò porta a due forme:
Non si parla più di taylorismo perché è stato superato
3. TERZO PUNTO:
Dunque:
Il successo che ebbe il taylorismo all’interno del movimento fu la determinazione di perseguire in modo
intransigente tre obiettivi:
3. USARE: la scienza non solo come criterio di azione, ma anche come base legittimante delle nuove
proposte.
All’epoca di Taylor l’industria presentava molti requisiti materiali che avrebbero permesso di imboccare la
strada per una modernizzazione della produzione.
Verso la fine dell’800 scienza e tecnica fornivano macchinari più potenti e veloci, ma che
permettevano anche di andare verso tre linee importanti della produzione industriale moderna:
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
3. IL TIPO DI MANODOPERA OFFERTA DI FORZA LAVORO NON QUALIFICATA E ALTA MOBILITA’:
I figli del proletariato industriale cominciavano a scansare a non essere più sufficiente e si ricorse
dunque al reclutamento di masse contadine.
Negli Stati Uniti ad esempio affluirono milioni di immigrati, masse di ex contadini che davano luogo
a un’imponente offerta di lavoro.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
JACOBY afferma:
che per l’operaio, il caporeparto era una persona autoritaria, che decideva la politica del personale
di sua iniziativa.
Quando l’azienda assumeva e la folla si accalcava di fronte alla fabbrica per avere lavoro, il
caporeparto decideva i lavoratori più adatti, oppure i parenti o amici di persone già assunte, oppure
con scelte di tipo etnico.
Accadeva che alcuni operai offrissero denaro, whisky o sigari per entrare a lavorare, fenomeno
molto comune.
Il sistema era conosciuto come:
DRIVE SYSTEM (SISTEMA DELLO SPINTONE): era un sistema di abuso e minacce, con la spinta
continua a lavorare in modo più duro e veloce.
CONTRACTORS (CONTRATTISTI): erano operai di esperienza che lavoravano in fabbrica sia con
ruolo di dipendenti che di piccoli imprenditori.
Veniva stabilita una determinata somma di denaro e l’impresa forniva ai contrattisti locali,
materiali, macchine e energia, e questi si impegnavano a eseguire una determinata quantità di
lavoro ad un prezzo fisso entro una determinata data.
I contrattisti assumevano manovali e aiutanti che diventavano così dipendenti diretti nel
contrattista e non dell’impresa.
Tale sistema perpetuava l’ignoranza del management sugli aspetti economici e tecnici del processo
produttivo.
I contrattisti toccavano trovare soluzioni tecniche e umane per abbassare i costi.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
La risposta che spiega cosa è questa nuova concezione teorica riguarda la natura del rapporto tra:
gli uomini
e il loro lavoro.
Taylor spiega che fino ad ora l'attenzione degli uomini si è soffermata sulla divisione del surplus:
gli operai rivendicavano tale surplus tramite salario,
gli imprenditori volevano trattenerlo sotto forma di profitto.
I conflitti sociali sono sempre stati provocati dalla limitatezza delle risorse disponibili.
Taylor assicura che tali conflitti sono superabili:
né mediante la repressione violenta
né col collasso economico, ma utilizzando l'Osl.
Per Taylor l'Osl è una rivoluzione mentale, che deve coinvolgere tutte le componenti sociali del
lavoro di fabbrica.
Questa rivoluzione consiste nel:
distogliere l'attenzione dalla divisione del surplus e
collaborare per aumentare la quantità di surplus,
fino a farlo diventare tale da non essere più necessario lottare per la sua divisione.
Dunque l'inizio di un'era di abbondanza sancisce la fine dei conflitti sociali.
Per avere abbondanza è necessario:
aumentare la produttività,
e il rendimento della manodopera affidandosi all'Osl.
Gli uomini non hanno capito che la via del benessere e del progresso:
è la collaborazione tra le parti per ingrandire il surplus,
e non la lotta di classe per dividersi risorse scarse.
Taylor vede l'espressione quotidiana della lotta nel cosiddetto soldiering, il rallentamento
intenzionale del lavoro.
Egli ne individua 3 cause:
1. L'ERRATA CONVINZIONE: che un aumento della produttività provochi la perdita del lavoro per un
notevole numero di persone.
2. I SISTEMI IMPERFETTI DI ORGANIZZAZIONE: che costringono gli operai a lavorare a un ritmo più
lento per salvaguardare i propri interessi.
3. L'INEFFICIENZA DEI METODI EMPIRICI: usati nelle aziende che portano allo spreco di gran parte
dello sforzo produttivo.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
1. IGNORANZA DELLA NATURA UMANA E METODI ORGANIZZATIVI: Dunque Taylor imputa il
rallentamento del lavoro all'ignoranza della natura umana, ma anche agli inadeguati metodi
organizzativi.
L'aumento della produttività invece comporta:
una riduzione dei prezzi e un maggiore assorbimento sul mercato, dunque la maggiore
produttività è la premessa per raggiungere un nuovo equilibrio tra domanda e offerta, con
un conseguente aumento nel consumo di beni prima ristretti a una certa élite.
L'argomento di Taylor può essere letto come uno scambio politico:
da un lato: si promette un maggior benessere grazie al consumo di beni prima riservato a
una élite,
dall'altro: si richiede il consenso ad una struttura autoritaria di produzione, legittimata
dalla sua efficienza.
2. LAVORAZIONE A COTTIMO: Nella seconda causa adottata per cercare di spiegare il rallentamento
del lavoro è stata ricercata in motivi inerenti alla natura umana che interagiscono con l'inefficienza
dei metodi organizzativi. Taylor capisce che nella natura umana vi è la tendenza a "prendersela
comoda", e ciò si traduce nel rallentamento della produzione.
Poiché le imprese non riescono a stabilire i tempi richiesti dalle varie lavorazioni, esse si affidano
dunque all'empiria.
Ad esempio spesso pensano di risolvere il problema con il cottimo (retribuzione basata su una
determinata quantità di prodotto lavorato), ma è una soluzione illusoria: infatti una volta che i
lavoratori riescono a raggiungere la quota stabilita nel cottimo, esse decidono di aumentarla.
Ma quest'aumento può essere fatto solo in modo arbitrario, dunque porta a proteste e a un
rallentamento dei ritmi in modo tale che non vi siano altri aumenti.
Nel sistema di cottimo che germoglia l'arte del rallentamento produttivo.
3. METODO ORGANIZZATIVO: Una terza causa adotta per spiegare il rallentamento della produzione
è organizzativa, e nasce dal fatto che "fare il lavoro" è ritenuto più importante del come farlo, che
è visto come aspetto secondario.
Taylor ritiene che bisogna capovolgere tali pratiche: il lavoro operaio è totalmente complesso che
occorre uno studio apposito da condurre con metodologie scientifiche.
Una moderna direzione di impresa non si può più limitare a sollecitare la produzione con metodi
tradizionali lasciando che gli operai la organizzino a proprio piacimento.
Deve invece assumere su di sé gran parte dei compiti che fino all'ora venivano lasciati agli operai.
Gli operai devono solo limitarsi a eseguire tutto ciò che la direzione ha stabilito.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Taylor in linea generale raccomanda che l'operaio compia quotidianamente il lavoro programmato e
per il cui svolgimento egli riceva istruzioni dettagliate che precisino il suo operato.
Linea importante di questo metodo è la netta separazione:
tra progettazione
e esecuzione.
Tale separazione ha provocato:
una dequalificazione assoluta degli operai di mestiere,
e la parziale qualificazione della manovalanza semplice.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Il risultato è stata la formazione di una larga fascia di operai semi qualificati (semiskilled):
capaci di alimentare le macchine,
controllarle, accenderle e
spegnerle.
Taylor sa che il Task management porta alla protesta della manodopera di mestiere:
per far accettare il nuovo metodo egli propone una politica di alti salari,
proposti per chi non lavora più in fretta (come accadeva col cottimo),
ma per chi esegue per intero la produzione fissata e con i metodi previsti.
In caso di mancato raggiungimento del task il lavoratore subirà una diminuzione che può prendere
la forma di una multa.
Taylor è favorevole a tale sanzione che ritiene lo strumento più efficaci e per scoraggiare la
trasgressione rispetto all'Osl.
Il task management presenta una contraddizione:
da un lato: il task management favoriva l'omogeneizzazione della manodopera nella categoria
dei semi qualificati,
ma dall'altra: tale omogeneizzazione poteva divenire la base per proteste collettive.
Per questo Taylor sottolinea l'importanza di lavori individuali e non di gruppo, con paghe
personalizzate secondo diversi indicatori.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
In questo modo Taylor restituisce una dimensione umana al lavoro disumanizzato dai metodi
scientifici.
Taylor auspica che tali contatti facciano parte di una politica volta a favorire contratti di
lavoro individuali e a evitare la contrattazione collettiva col sindacato.
All'epoca di Taylor infatti era molto comune il closed shop:
in base al quale i sindacati che organizzavano gli operai di mestiere riuscivano a imporre
alle aziende di assumere solo i propri iscritti.
Taylor, in generale contro i sindacati, si contrappone a tale pratica che non permette una
selezione scientifica del personale.
Si può desumere che quindi Taylor ha ancora in mente fabbriche non grandissime con un
padrone personale che conosce direttamente ciascun dipendente.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Le richieste di intervento di Taylor devono essere regolate secondo:
il “principio di eccezione”: con cui estende ai livelli superiori l'eliminazione di tempi
superflui che operava nell'esecutivo.
Nelle fabbriche tradizionali infatti il direttore si trova inondato di lettere e rapporti da
timbrare:
in realtà ci dovrebbe essere un assistente che esamini attentamente le richieste di
intervento, in modo tale da far intervenire il direttore solo per gli incidenti in cui non è
prevista una competenza a livello inferiore.
Ricapitolando la fabbrica taylorizzata si basa su una burocrazia interna concepita come
strumento di efficienza e conformità alle direttive dall'alto (su questo si avvicina a
Weber).
La divisione del lavoro si determina su 3 livelli:
al livello più basso: l'esecuzione materiale della produzione.
al livello intermedio: l'analisi dettagliata delle procedure lavorative e la ricerca di
miglioramenti tecnici.
al terzo livello: vi è la massima dirigenza, che non deve occuparsi del funzionamento
ordinario dell'impresa ma interviene solo in casi eccezionali, perché il suo compito
principale è dedicarsi a problemi di strategia aziendale.
L'Osl si presenta come una costruzione organica volta ad affermare il primato dell'organizzazione
di impresa.
Questo primato trova la sua legittimazione nel ricorso alla scienza e nel postulato:
one best way: consiste nel presupposto che per ogni problema vi è una soluzione ottimale, e che
tale soluzione può essere raggiunta solo con l'adozione di metodi scientifici di ricerca.
A causa della superiorità sulle soluzioni "non scientifiche", quelle suggerite dell'one best way
possiedono un’autorità che le fa apparire come soluzioni superiori agli interessi di parte e dunque
neutrali.
L'one best way è:
n imperativo cui devono sottostare sia gli operai sia i datori di lavoro.
In questo modo arbitrio e potere personale scompaiono.
La pretesa di Taylor di fondare tutto sulla scienza è stato oggetto di critiche:
Ad esempio la scienza non può essere inoppugnabile poiché la scienza procede con la continua
messa in discussione dei suoi risultati;
Il fatto che la scienza può dare solo indicazioni di carattere tecnico ma non di ordine strategico, che
restano materia di scelte politiche e di valore.
Ma l'obiettivo della battaglia di Taylor era far passare il principio che per condurre un'impresa in
modo moderno occorre affermare la sovranità dell'impresa sugli interessi personali di chi vi lavora,
e per raggiungere questo obiettivo Taylor si appella alla scienza come unico principio presentabile
come superiore agli interessi di parte.
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Nella prima parte del 20 secolo, va a interessare il mondo manageriale degli USA e dell’Occidente.
Nel pensiero di Barnard si riflettono due cambiamenti:
1 Il primo cambiamento: attiene alla storia delle idee e consiste nel progressivo declinare
dell'individualismo utilitaristico a favore di una filosofia che considera la società come
un'entità cooperativa regolata da principi morali.
L'individualismo concepiva la società come l'area di una lotta per la sopravvivenza tra individui
isolati, che agiscono in base a calcoli utilitaristi.
La lotta per l'esistenza si presentava dunque come il presupposto per giustificare:
sia la ricerca del successo
sia il totale dominio sulla manodopera considerata come una massa ostile.
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Moventi personali:
Infatti anche quando i moventi di un membro partecipante coincidono con il
raggiungimento del fine dell'organizzazione, il significato da attribuire al
raggiungimento del fine dell'organizzazione come entità complessiva va distinto dal
movente personale di quel membro.
Dalla distinzione tra fini organizzativi e moventi individuali consegue che non ci si può limitare a
perseguire solo fini impersonali dell’organizzazione ma vanno tenuti presenti anche i moventi dei
singoli membri.
A tal fine è necessario riuscire a mobilitare consensualmente un insieme di individui per un fine che
non è loro e di offrire allo stesso tempo a tali individui, incentivi sufficienti a soddisfare la loro
motivazione personale a partecipare.
La distinzione:
tra fini dell'organizzazione e
moventi dell'individuo
non passa solo tra organizzazione e individui, ma passa anche all'interno degli individui.
Ogni partecipante ad una organizzazione può essere infatti visto come dotato di una duplice
personalità:
Personalità organizzativa: è rilevante per l'analisi del funzionamento organizzativo e riguarda
le modalità delle prestazioni che l’individuo svolge.
Personalità individuale: è rilevante per analizzare i moventi del soggetto nell’equilibrio tra il
suo contributo all’organizzazione e i benefici che ne ricava.
La personalità individuale può essere diversa o anche opposta da quella organizzativa.
Il riconoscimento di questo possibile contrasto tra le due personalità apre la via a un'analisi sulla
complessità dell'agire umano, dove spesso il soggetto è costretto a distinguere i principi personali da
quelli dell'organizzazione in cui partecipa.
La conciliazione di tali ambiti è un problema universale per qualsiasi organizzazione formale.
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3. L’EFFICACIA ED EFFICIENZA
EFFICIENZA:
- di un'organizzazione è sempre definita dal grado con cui essa coordina le risorse umane
e tecnologiche per garantire giorno per giorno quelle specifiche prestazioni.
- si intende la misura in cui i moventi individuali a cooperare sono soddisfatti.
- L'efficienza di un'organizzazione dunque si misura nel modo in cui si soddisfano le
motivazioni individuali a far parte di un sistema cooperativo.
- Retribuzioni, profitti e gratificazioni morali che si traggono dal cooperare sono tutte
categorie empiriche che Barnard colloca nel concetto di efficienza.
Efficienza ed efficacia sono due dimensioni del sistema cooperativo che non sono però per forza
collegate.
Vi possono essere organizzazioni efficaci ma non efficienti o viceversa.
Quando un'organizzazione è efficace ma non efficiente l'organizzazione raggiunge i propri obiettivi
ma non soddisfa gli individui che partecipano;
Quando l'organizzazione è efficiente ma non efficace soddisfa gli individui partecipanti ma a scapito
del raggiungimento del fine per cui essa è sorta.
Ma la situazione che si presenta di più nella realtà ė quella in cui il perseguimento di efficacia ed
efficienza da luogo a tensioni.
La mediazione tra i due termini è per Barnard il problema di fondo delle funzioni direttive, e si pone
dunque la questione della sua analisi.
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5. LA TEORIA DELL’AUTORITA’
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Un buon dirigente è quello che garantisce l'equilibrio attraverso atti discreti e poco visibili piuttosto
che quello che decide con atti di imperio.
in un senso di responsabilità superiore alla media: per dominare questa situazione provvede il
senso di responsabilità, cioè una sorta di meta-codice che negli inevitabili conflitti garantisce
l’affidabilità della persona e la sua coerenza ad un principio.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Barnard affronta il problema della personalità che deve avere un dirigente all’altezza del suo compito.
Il primo punto:
trova la sua espressione nell’agire cooperativo e non ha bisogno di altri commenti.
Il secondo punto:
Barnard non affronta in modo esplicito l’avvento dei manager non proprietari, ma il problema
posto questa novità storia si scorge della filigrana di tutto il suo pensiero.
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La distinzione:
tra fini organizzativi e
moventi personali
può essere considerato come l’espressione in termini generalizzati e attratti della riflessione
sull’esperienza concreta di un management che si impegna nel successo di un’impresa che non
possiede, con tutta la complessità che ne deriva dalla tensione professionale tra identificazione in
quanto personalità organizzativa e distacco in quanto personalità individuale.
Barnard sa che il manager non proprietario:
può scontrarsi non solo con i dipendenti ma con la proprietà.
Il management ha bisogno di una legittimazione per portare avanti le sue ragioni, la sua autonomia.
Barnard sviluppa un modello teorico che pretende di essere valido per qualsiasi tipo di organizzazione.
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Nel dibattito sui modi con cui uscire dall'afflizione taylorista si possono individuare due
Schieramenti:
a) SCHIERAMENTO VOLONTARISTA:
ebbe il maggior successo negli anni 60-70, e
vede il tratto saliente dell'afflizione taylorista nel fatto di obbligare le persone a lavori stupidi
e privi di motivazione.
Di conseguenza propone una riorganizzazione del lavoro:
tale che i compiti affidati alle persone siamo più intelligenti, responsabili e dotati di senso di
quanto previsto dal taylorismo.
Vi sono due presupposti di tale posizione:
lavori più ricchi di contenuti intelligenti e responsabili che procurano maggiore
soddisfazione e consentono una crescita della personalità di chi li compie.
Ciò permette anche un maggiore coinvolgimento dei soggetti nelle organizzazioni.
la tecnologia non predetermina un solo modo in cui lavorare, ma consente dei margini
di libertà.
Questi margini vanno scoperti e sfruttati in modo da ridisegnare le mansioni con contenuti più
ricchi del passato.
b) SCHIERAMENTO TECNOLOGICO:
vede il tratto saliente dell'afflizione taylorista nella continua erogazione di sforzo in
condizioni disagiate,
e ritiene che la via per superare tale afflizione sia offerta dal progresso tecnologico,
piuttosto che dalla ricerca volontaristica di modelli alternativi all'interno delle
tecnologie tradizionali.
Il progresso tecnologico viene introdotto:
per lo scopo di una maggiore produttività e
la riduzione della forza lavoro,
non certo il miglioramento delle condizioni lavorative.
Questo risultato viene raggiunto:
come effetto,
con indubbi benefici
dunque anche nelle relazioni sul luogo di lavoro.
Le innovazioni tecnologiche costituiscono la base che rende possibile ed economicamente
conveniente:
il trapasso da una fase di meccanizzazione dove era massima l'afflizione tayloristica,
a una fase di automazione dove tale afflizione si attenua fino a non costituire più un problema
sociale.
Le caratteristiche della scuola motivazionista sono quelli di impostare in termini favorevoli all'uomo i
Rapporti tra:
organizzazioni e
soggetti che vi lavorano.
Maslow distingue cinque grandi ordini, o di livelli di bisogni che è possibile collocare in una
scala gerarchica.
l'ordine gerarchico dei bisogni stabilisce anche l'ordine di priorità nella loro soddisfazione.
Chi non ha ancora soddisfatto un bisogno collocato a un livello inferiore non ente la necessità
di soddisfare un bisogno a livello superiore.
Ad esempio in una fabbrica con salari bassi e frequenti infortuni sul lavoro, offrire un ambiente
sociale favorevole o un lavoro più stimolante non desterebbe interesse e apparirebbe come un
modo di eludere il bisogno reale di paghe più alte e condizioni di lavoro più sicure.
È in queste situazioni che secondo Maslow il problema più sentito diventa quello di riprogettare le
mansioni e più in generale l'intera struttura organizzativa, in modo da arrivare a un equilibrio tra
bisogni umani e motivazioni all'agire.
La scala dei bisogni di Maslow si presta anche ad essere letta come una interpretazione
evoluzionistica dei bisogni sul lungo periodo.
una prima fase in cui i problemi erano una carenza di beni materiali e di precarietà del lavoro.
Qui i bisogni erano salari più alti e maggiore sicurezza di impiego.
Quando questi bisogni cominciarono ad essere soddisfatti, emersero altri bisogni di
adattamento sociale.
Dunque si ha un evolversi dei bisogni umani.
Ciò spiega perché l'obiettivo di dare al lavoro contenuti più gratificanti sia divenuto un
problema sentito solo recentemente.
Tuttavia ė difficile che nella vita dell'uomo fai siamo fasi caratterizzate da un livello dominante di
bisogni.
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Sensi di frustrazione, progetti di breve periodo, diffusione di stati di rivalità e propensione al conflitto.
Per uscire da questo stato di cose, la prospettiva indicata da Argyris è una ridefinizione dei compiti
lavorativi, che non può avvenire per via gerarchica, ma attraverso la creazione di gruppi informali
di lavoro che si autogestiscono in modo democratico.
Le direzioni aziendali:
non devono distruggere la propria organizzazione formale,
ma devono consentire lo sviluppo di spazi autogestiti,
con forme di leadership non autoritaria elette dagli stessi dipendenti.
Si deve sviluppare dunque una sensibilità nuova alle esigenze umane, sulla base dell'assunzione
che quanto più quelle esigenze sono soddisfatte, più aumenta la qualità delle prestazioni umane e
il potenziale dell'organizzazione.
Questa però era la prima formulazione della sua tesi, che sottopose a recisione.
Negli anni 70 Argyris matura una teoria dell'apprendimento organizzativo, che rappresenta
un'evoluzione del suo approccio.
Egli concepisce l'organizzazione come una struttura:
dove i soggetti non sono solo soggetti d'azione ma anche agenti di apprendimento
organizzativo, ovvero contribuiscono a modificare il modo di vedere la realtà usato
nell'organizzazione.
Tale impostazione porta alla distinzione tra:
-APPRENDIMENTO INDIVIDUALE: quando la scoperta e la correzione di un errore resta
esperienza dei singoli soggetti e non diventa oggetto di apprendimento collettivo.
L'apprendimento individuale previene alla sua concreta realizzazione quando si trasforma in
apprendimento organizzativo.
Argyris fa un’ulteriore distinzione:
APPRENDIMENTO A GIRO SEMPLICE: quando la scoperta e la correzione
dell’errore consentono di mantenere gli aspetti centrali della mappa cognitiva
dell’organizzazione.
APPRENDIMENTO A GIRO DOPPIO: quando la scoperta e la correzione dell’errore
conducono a modificare la mappa cognitiva.
APPRENDIMENTO ORGANIZZATIVO, quando la scoperta e la correzione di un errore diventa
oggetto di apprendimento collettivo, con la modifica della mappa cognitiva utilizzata
dall'organizzazione.
Argyris con questa distinzione cerca di superare definitivamente l'antitesi tra:
arricchimento della personalità e organizzazione che caratterizzava la prima parte della sua
attività.
Lo scopo però rimane quello di creare modelli che favoriscano il più possibile la formazione di
personalità mature secondo la definizione iniziale.
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Distingue poi le persone sulla base di due diversi atteggiamenti rispetto al lavoro:
RICERCATORI DI MOTIVAZIONE: che cercano soprattutto una soddisfazione intrinseca al
lavoro, che gli dia la gioia di una crescita psicologica.
RICERCATORI DI IGIENE: che non si curano della gioia intrinseca del lavoro, ma sono sensibili
solo ad aspetti esterni come la remunerazione e l'ambiente.
Herzberg ritiene che solo i ricercatori di motivazione possono trarre soddisfazione dal lavoro,
mentre i secondi possono solo essere meno insoddisfatti.
Per i ricercatori di motivazione la situazione ideale è quella di un lavoro che soddisfa:
sia le esigenze di crescita di sé
sia le esigenze igieniche: infatti se vengono soddisfatte solo le prime esigenze si è infelici,
perché si combatte con la voglia di continuare quel lavoro e la necessità di lasciarlo.
Per i ricercatori di igiene:
la presenza o assenza di motivazioni non è un problema: possono essere o inadatti, quando
fanno lavori provvisti di motivazioni che però non apprezzano, o
come soggetti in condizione di sofferenza mentale quando sono costretti a svolgere lavori
stimolanti ma privi dei requisiti igienici che desiderano.
Vi è poi il cosiddetto "monastico", che corrisponde alle situazioni in cui il soggetto trascura sia la
soddisfazione intrinseca del lavoro che le condizioni igieniche.
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I REQUISITI DELLA CRESCITA PSICOLOGICA
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Le teorie motivazioniste:
si reggono sul giudizio di valore che lavori con un senso, con un clima di collaborazione e con
una leadership non autoritaria sono un bene in quanto favoriscono la crescita della personalità
umana.
Ma affinché tale giudizio ottenga ascolto dagli ambienti manageriali, occorre dimostrare che i lavori
con tali caratteristiche sono una soluzione conveniente anche per le imprese in quanto migliorano il
clima interno, diminuiscono l'assenteismo, turnover e conflitti, e favoriscono prestazioni migliori.
Dimostrare la connessione tra il senso del lavoro, la leadership democratica e l'efficienza
aziendale appariva tra gli anni '40 e '60 una proposta suggestiva per la ricerca sociale americana.
In questo ventennio si andò alla ricerca di conferme empiriche di quelle convinzioni. Un'indicazione era
venuta da una ricerca di Kurt Lewin su tre gruppi di studenti. Il primo gruppo era guidato con criteri
autoritari, il secondo con criteri democratici, e il terzo con criteri del tutto
permissivi.
- il primo gruppo aveva raggiunto in breve tempo un rendimento soddisfacente ma in seguito le
pressioni autoritarie avevano bloccato i progressi.
- il terzo gruppo aveva dato risultati negativi, con un rendimento insufficiente.
- solo il secondo gruppo condotto con criteri democratici aveva ottenuto buoni risultati e durevoli
nel tempo.
Tuttavia il proseguo delle ricerche aveva rivelato che i contenuti del lavoro e lo stile di leadership
non erano sufficienti da solo a spiegare la complessa fenomenologia dei rapporti tra atteggiamenti
e rendimento.
In alcuni casi infatti si constatò che si poteva raggiungere un alto rendimento anche senza
soddisfazione dei dipendenti, o al contrario l'alta soddisfazione dei dipendenti non raggiungeva per
forza soddisfacente.
Il rapporto tra soddisfazione e rendimento appariva dunque troppo problematico perché le aziende
potessero convincersi ad impegnarsi in programmi di riprogettazione delle mansioni.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Questi gruppi devono essere collegati tramite:
perni connettori: membri che fanno parte contemporaneamente di due diversi gruppi
sovrapposti in modo gerarchico.
I soggetti appartengono allo stesso tempo a un gruppo superiore e a un gruppo inferiore:
partecipano al gruppo superiore in qualità di membri coinvolti nelle decisioni e sono
responsabili anche del gruppo gerarchico più basso.
La formula dei perni connettori consente secondo Likert di raggiungere due obiettivi:
la specializzazione dei gruppi e
la loro interconnessione con il continuo scambio di comunicazione.
Questo modello rappresenta un management massimamente:
democratico e
partecipativo.
L'osservazione degli stili di leadership adottati nelle aziende permette a Likert di classificarli in 4
modelli:
autoritario-sfruttatorio.
autoritario-benevolo.
consultivo.
partecipativo.
Via via che dal modello autoritario-sfruttatorio ci si avvicina al modello partecipativo si ha una
crescente democratizzazione, un maggiore coinvolgimento dei dipendenti e dei risultati superiori.
Il problema di ogni azienda dovrebbe essere dunque quello di avvicinarsi maggiormente al modello
partecipativo.
Likert capisce che avvicinarsi a tale modello sia impegnativo e difficile.
È un processo delicato che si può effettuare solo attraverso uno sviluppo organizzativo a tutti i livelli
aziendali.
La pluralità dei modelli di leadership viene approfondita la Likert nell'opera successiva:
attraverso nuove analisi conclude che i modelli più autoritari hanno maggiore possibilità di
raggiungere soddisfacenti standard di rendimento in tempo minore, ma tale standard tende a
decrescere col tempo, mediamente due anni;
con il modello partecipativo invece il rendimento comincia ad aumentare fino a superare
anche il livello del modello autoritario.
Tuttavia anche nel ragionamento di Likert vi è un equivoco.
All'inizio della sua analisi distingue i
lavori ripetitivi dove vige l'organizzazione tradizionale dai lavori variati dove possono valere le
sue proposte.
Ma le sue proposte possono essere applicate solo a una privilegiata minoranza di situazioni.
Inoltre se le organizzazioni disposte a cambiare sono quelle dove la direzione è favorevole al
mutamento, dove i rapporti sono ispirati a una reciproca fiducia e dove i dipendenti sono già
soddisfatti, è segno che le cose vanno già bene e dunque non si vede il bisogno di drastici
cambiamenti.
Si può però supporre che le proposte di Likert possano essere applicate anche a situazioni dove
il lavoro precedentemente ripetitivo è stato trasformato in lavoro variato.
Ma allora la trasformazione importante è quest'ultima, e non quella del management
partecipativo che ne sarebbe un'ovvia conseguenza.
Ma Likert non affronta tale problema.
Tali obiezioni permettono di rivedere l'obiettivo di Likert: egli non voleva mutamenti universali in
ogni fascia di lavori, ma riguardava solo la fascia medio alta dei dipendenti, dove le funzioni
manageriali si trasformano in amministrazioni.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Le differenze tra:
TAYLORISMO: riguarda l'organizzazione del lavoro esecutivo che viene standardizzato al fine di
aumentare l'intensità delle prestazioni.
FORDISMO: è un termine che ha più significati:
Risale agli anni ’10 quando Ford adottò nelle sue officine la catena di montaggio
semovente.
Tratti tipici del fordismo sono le grandi dimensioni dei complessi industriali e la
produzione di massa di beni standardizzati.
Negli anni ’70 questo modello entrò in crisi per la troppa rigidità del processo
produttivo, dei costi della manodopera e delle prestazioni.
Al suo posto subentrava un modello definito post-fordista caratterizzato dalla
flessibilità dei processi produttivi e dell’impiego della manodopera.
Precisando:
IL TAYLORISMO: può essere considerato come un modello che rientra nel più vasto sistema
Fordista di produzione.
Tuttavia:
Taylorismo e fordismo hanno dato vita a due dibattiti marginalmente connessi:
infatti chi si focalizza sul Taylorismo evidenzia la dequalificazione,
l'alienazione e le condizioni per il suo superamento;
chi si focalizza sul fordismo invece si riferisce a un processo produttivo entrato in crisi
per la troppa rigidità e al conseguente passaggio a regimi di produzione più flessibili.
I fautori della specializzazione flessibile affermano:
che lo sviluppo produttivo avrebbe potuto essere diverso da come è stato,
e oggi può imboccare una strada diversa da quella percorsa.
Nell'800:
l'industria mondiale ha perso l'occasione di svilupparsi secondo un modello diverso da quello
che portò alle concentrazioni fordiste,
Oggi:
la crisi economica di queste concentrazioni rende attuale la possibilità di uno sviluppo diverso,
fondato su un sistema specializzato
e flessibile di piccole e medie industrie.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Piore e Sabel arricchiscono la discussione:
sulla pluralità delle forme industriali introducendo la variabile della dimensione d'impresa.
Secondo Piore e Sabel:
le piccole imprese:
garantiscono una produzione flessibile e
articolata in piccoli lotti,
cioè non di serie,
le grandi imprese:
organizzate secondo criteri fordisti
possono offrire solo una produzione rigida
e di massa che non va incontro alle crescenti esigenze di
personalizzazione del consumo.
nei sistemi lavorativi:
esistono delle differenze:
il lavoro operaio: proprio perché variato e svolto in ambienti
piccoli è più ricco di opportunità professionali e meno
anonimo che non nella grande industria.
Il distretto industriale:
è l’espressione socio-economica in cui più tipicamente si
realizza il modello alternativo alla grande impresa.
Nonostante queste critiche le tesi della specializzazione flessibile hanno avuto il merito di
alimentare il dibattito sull'organizzazione industriale proponendo un modello diverso da quello
dominante.
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Negli anni ’80 fece il suo ingresso un nuovo regime produttivo, né taylorista né fordista:
IL MODELLO GIAPPONESE.
La novità di tale modello consiste in una serie di soluzioni organizzative che non si limitano alla sfera
produttiva, ma investono l'intera strategia di impresa.
Il modello giapponese dimostrò che:
la produzione flessibile: può essere attuata anche in seno a grandi imprese, correggendo le tesi
di Piore e Sabel secondo cui questa è una prerogativa della piccola industria.
Si può uscire dal taylorismo e dagli aspetti gerarchici burocratici che lo hanno caratterizzato in
occidente e coinvolgendo gli operai nella esecuzione responsabile dei compiti affidati.
la cooperazione e la fiducia reciproca sono fattori fondamentali di successo.
In modello giapponese:
nasce negli anni ’40, dopo la seconda guerra mondiale,
la allora piccola casa produttrice di automobili della Toyota stava attraversando una crisi,
con scarsi capitali,
macchinari inadeguati e spazi ristretti.
Secondo i criteri fordisti fabbricare auto in quelle condizioni era impossibile.
Tajichi Ohno era il direttore della Toyota:
riuscì a risollevare l’azienda abbassando il punto di profitto dall’economia di scala tipica delle
produzioni di grande serie
a un’economia di flessibilità basata su produzioni di breve serie.
Egli capì che bisognava trasformare i vincoli in risorse:
in quanto non era possibile tenere testa alla concorrenza con vecchi macchinari,
sì dovevamo usare quei macchinari in maniera diversa rispetto al passato.
si doveva abbandonare la pratica di allestire i macchinari per produzioni destinate a rimanere
uguali per settimane e mesi,
si doveva cominciare a cambiare frequentemente gli allestimenti per produrre lotti brevi
inseguendo anche le più piccole opportunità di mercato.
Moltiplicare gli allestimenti significa però abbreviare i tempi di tali operazioni.
Se nelle fabbriche tradizionali gli allestimenti, che venivano cambiati massimo 2-3 volte
all'anno, richiedevano diverse ore di lavoro, le variazioni quasi giornaliere di produzione
imponevano che il tempo per gli allestimenti si riducesse a meno di un'ora.
Ohno per raggiungere tale obiettivo:
poteva contare sull'unica risorsa abbondante della Toyota, ovvero le maestranze:
la Toyota utilizzando la pratica degli allestimenti veloci ridusse i tempi da qualche ora a 15-20
minuti.
La pratica degli allestimenti veloci portò a superare la tradizionale distinzione tra gli operai addetti
all’allestimento dei macchinari e gli operai addetti alla produzione.
Gli allestimenti veloci risultarono congruenti anche con un altro vincolo della Toyota, ovvero di
disporre di poco spazio per i magazzini.
Il frequente cambio di produzione faceva infatti venir meno il bisogno di accumulare grandi riserve di
materiali, ma imponeva un sistema di trasporti perfetto così che le consegne arrivassero giusto in
tempo per essere lavorate.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Procedendo in tal senso si scoprirono altri due vantaggi:
la produzione a lotti piccoli e diversificati permetteva alla Toyota di rispondere alle variazioni
di mercato e alle richieste personalizzate dei clienti con un tempismo ed una flessibilità ignote
alle fabbriche di grande serie.
il secondo vantaggio provenne dalla scoperta che la produzione a piccoli lotti permetteva un
controllo della qualità estremamente più efficace a quello ottenuto nella produzione di massa.
Si constatò la convenienza di fermare la produzione immediatamente per eliminare i difetti
scoperti piuttosto che lasciar scorrere il flusso produttivo per intervenire sui difetti a fine linea,
come prescriveva il modello fordista.
Ohno e i suoi collaboratori scoprirono:
così che le loro scelte si concatenavano così da formare un modello alternativo a quello
fordista.
Tra gli anni '50 e '60 la Toyota ottenne successi così grandi da diventare una delle più
importanti e innovative imprese del mondo del settore automobilistico, è il suo modello si
impose anche sulle altre imprese.
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La ricerca dell'essenzialità ė perseguita anche attraverso un altro elemento:
la tecnologia frugale:
si intendono impianti il più possibile semplici e conoscibili dal personale che li
usa che può dunque suggerire anche miglioramenti.
Per frugale dunque non si intende arretrato.
La frugalità favorisce la diffusione di robot e macchine a controllo numerico,
ma suggerisce cautela nei confronti di impianti più complessi che costano
molto e non sono familiari ai lavoratori, obbligando così a dipendere dalla
consulenza esterna di chi li ha forniti.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Il coordinamento orizzontale per funzionare presuppone:
l'interiorizzazione nei singoli reparti di obiettivi coerenti con l'obiettivo globale
dell'impresa.
l'autonomia di ogni reparto nell'individuare e affrontare i problemi interni.
l'integrazione delle capacità possedute dai membri del gruppo in modo da consentire
un uso efficace di tutta l'informazione disponibile localmente.
L'espressione più avanzata del coordinamento orizzontale è il kanban:
un sistema di cartellini posti su carrelli che svolgono la funzione di moduli d’ordine e
notifiche di consegna.
Su ogni cartellino viene scritto il fabbisogno dei pezzi necessari ad una data posizione di
lavoro e questi pezzi vengono prelevati dalla posizione precedente del processo
produttivo.
Nel carrello viene attaccato un cartellino in cui viene scritto il materiale che si necessita.
In discendenza arriva il carrello col materiale necessario.
Si ottiene in tal modo un meccanismo che coordina le operazioni delle varie posizioni
lavorative attraverso informazioni che muovono da monte a valle senza bisogno di
ricorrere a sistemi centralizzati di controllo.
d) LA COLLABORAZIONE CON I FORNITORI SOSTITUISCE IL PRINCIPIO DEL DIVIDE ET IMPERA
Le imprese fordiste costruiscono e assemblano la maggior parte del prodotto all’interno dei
propri stabilimenti e per la quota restante si rivolgono a fornitori esterni ma non hanno nessun
contratto con uno di loro in particolare riservandosi la possibilità di scegliere altri fornitori in
occasioni future.
Il rapporto tra i fornitori e l'impresa madre dunque è di forte diffidenza.
Le imprese ispirate al modello giapponese:
scelgono i fornitori in base alla capacità di collaborare con l’impresa madre in piani di
lungo termine.
L'impresa madre favorisce la collaborazione tra fornitori con l'interscambio informazioni e
aiuti.
Si forma così una fitta rete cooperativa basata su rapporti di fiducia e su contratti di lungo
periodo.
L’aspetto più visibile di tale rete è rappresentato dall’insediamento dell’impresa madre a breve
distanza da quelle fornitrici in modo da garantire rapide e frequenti consegne.
e) L'OBIETTIVO DELLA QUALITÀ TOTALE SOSTITUISCE IL PRIMATO DELLA QUANTITÀ
Nelle fabbriche fordiste:
la produzione di massa impone di dedicare attenzione alla regolarità dei flussi
programmati e di considerare la qualità dei prodotti come un problema separato.
Di conseguenza si avrà una qualità insoddisfacente e costosa perché occorre dedicare
tempo e risorse per eliminare difetti in una fase successiva della produzione.
Il modello giapponese invece assume la qualità come una caratteristica obbligatoria dei
prodotti, è tutta la produzione deve puntare sull'ideale dello zero difetti.
Le fabbriche giapponesi infatti si basano sull’espressione Qualità Totale:
essa indica che la ricerca della qualità deve essere presente lungo tutto il processo
lavorativo.
L'autonomazione rappresenta emblematicamente questa pratica.
Se si eliminano subito i difetti nel momento della loro comparsa, i prodotti arrivano a fine linea
già garantiti sul piano della qualità, così da rendere meno importante la revisione e il controllo
e da diminuire gli addetti ai collaudi finali e impegnarli in lavori più produttivi. Qualità però non
significa solo che il prodotto è privo di difetti per il consumatore. Qualità è anche lavorare
senza sprechi e senza costi economici aggiuntivi che possono essere eliminati. Infatti
l'insegnamento più profondo del modello giapponese sta nel collegare la qualità all'essenzialità.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Tra gli anni 80 e 90 in occidente è nato un dibattito sulle conseguenze sociali che ha provocato il sul
modello giapponese.
Il modello giapponese trae una doppia ambiguità dal fatto che un sistema produttivo che culmina:
Just in Time è efficiente se le cose vanno
Just in Time non è efficiente se sorge qualche intoppo.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Oliver e Wilkinson notano un’altra ambiguità nella condizione di:
fragilità dell'impresa in JIT: rinuncia alla sicurezza fornita dalle risorse eccedenti per avere
successo questo sistema richiede che tutte le risorse impiegate nel processo produttivo siano
prevedibili e affidabili.
In particolare occorrono lavoratori non solo flessibili ma anche disposti a prestazioni straordinarie
per affrontare una criticità.
Oliver e Wilkinson notano che questo requisito provoca due conseguenze ambivalenti:
da un lato il JIT esige che i lavoratori siano asserviti alle esigenze produttive,
dall'altro il suo successo dipende dalla disponibilità dei lavoratori a collaborare.
Infatti basta un rifiuto o un rallentamento perché gli effetti sulla produzione siano immediati.
Con il JIT dunque l'impresa fa una scommessa:
sguarnendo le difese storiche erette contro la conflittualità vista come destino inevitabile della
produzione industriale.
Si ha così la prospettiva di un cambiamento dei rapporti umani in fabbrica.
Non è dunque possibile dare un giudizio univoco sul modello giapponese.
Esso supera il fordismo:
sia sul piano della produzione che diventa flessibile
sia sul piano umano dove il coinvolgimento dei lavoratori sostituisce i controlli burocratico.
Ma ciò non significa che il lavoro diventi più libero e rilassato.
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Negli anni 90 alcune imprese europee dell’auto (Fiat, Ford, Renault, Peugeot, Volkswagen) hanno
imboccato la strada della produzione snella, con elementi comuni:
esteso uso di tecnologie avanzate che consentono di evitare o attenuare lo sfruttamento
intensivo della manodopera praticato nel modello giapponese.
la ricerca di accordi con il sindacato per il coinvolgimento consensuale della manodopera in
proposte di miglioramento.
il ricorso a forme di organizzazione modulare della produzione adatte a gestire con rapidità e
flessibilità le anomalie di processo e prodotto.
sensibili miglioramenti nei valori tipici della produzione snella.
Questi elementi consentono di parlare di una via occidentale alla produzione snella, che si
differenzia dalla via giapponese per il modo graduale con cui procede e per l'ibridazione con
approcci di altra origine.
La produzione snella dimostra che non vi è una sola via di uscita dal fordismo, ma ve ne sono due:
LA VIA OCCIDENTALE CHE PRIVILEGIA LA TECNOLOGIA.
LA VIA GIAPPONESE CHE PRIVILEGIA L'ORGANIZZAZIONE.
Tale duplicazione può essere rappresentata in un diagramma in cui:
LA DIMENSIONE TECNOLOGICA: che può essere alta o bassa
LA DIMENSIONE DELLA PRODUZIONE: che può essere snella o grassa.
Esistono 4 caselle:
Casella 1: corrisponde alla fabbrica fordista tradizionale, con prodotti di massa e automazione
rigida.
Casella 2: uscita occidentale dal fordismo, basata sulla convinzione che l'innovazione
tecnologica fosse l'unica strada per aumentare produttività e flessibilità.
Casella 3: uscita giapponese dal fordismo, avvenuta con l'innovazione organizzativa dell'officina
minima.
Casella 4: il secondo processo di allontanamento dal fordismo, in cui vi sono sia organizzazione
snella che innovazione tecnologica.
Alla quarta tappa si arriva sia da un percorso occidentale che da un percorso taylorista.
Il diagramma rappresenta il percorso compiuto dalla Fiat per arrivare a quella che è chiamata la
Fabbrica Integrata, termine con cui esprime la sua interpretazione di produzione snella.
La fabbrica integrata:
non nasce per superare la produzione rigida fordista,
ma per superare gli inconvenienti della Fabbrica ad Alta automazione, che originavano dal
contrasto tra le tecnologie avanzate e la formula organizzativa di tipo tradizionale.
Si compì il primo passo per superare questi inconvenienti quando nella Fiat le vecchie squadre di
produzione dell’epoca fordista erano state sostitute dalle UTE (Unità Tecnologiche Elementari), le
quali funzionavano come delle mini fabbriche dotate di tutte le risorse tecniche e umane necessarie
per svolgere in autonomia i compiti assegnati.
Un aspetto da tenere in considerazione riguarda le ragioni del consenso operaio alla realizzazione
della Fabbrica Integrata.
Questo è un punto importante, perché una fabbrica a produzione snella non può avere una
manodopera ribelle.
Verso la fine degli anni '80 la Fiat comprese:
che l'Alta Automazione non era in grado a migliorare da sola la qualità del prodotto.
Per raggiungere questo obiettivo era importante coinvolgere gli operai: solo così ci può essere
una produzione più snella e orientata anche alla qualità.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Ma come si poteva ottenere il loro consenso a lavorare in modo più impegnativo e a suggerire
miglioramenti?
La risposta si trova nelle conseguenze della fase ad Alta Automazione con cui la Fiat cercò di
uscire dal fordismo.
Le grandi innovazioni tecnologiche:
non portarono solo ad aumentare la produttività e la flessibilità,
ma cambiarono anche il modo di lavorare in officina,
migliorando le condizioni ambientali,
aumentando la trasparenza del lavoro umano con i controlli incorporati nelle tecnologie,
e rendendo le prestazioni più conformi agli standard in quanto le tecnologie lasciano meno
spazio alle variazioni umane.
Tali novità trasformano il dibattito sul superamento del Taylorismo:
diminuire la fatica non significa aumentare i contenuti intelligenti nel lavoro.
Il caso Fiat dimostra che la tappa del neotaylorismo informatizzato è stata la premessa necessaria
perché qualche anno dopo diventasse possibile chiedere agli operai la loro intelligenza e i loro
suggerimenti.
Prima dell'automazione vi era una stretta connessione tra quantità del prodotto e quantità del
sforzo:
in questa condizione gli operai si difendevano dallo sfruttamento e cercavano di custodire
gelosamente le astuzie con cui amministravano il lavoro quotidiano.
Il venir meno del nesso tra produzione e sforzo fisico pone le premesse affinché gli operai condividano
le loro astuzie, soprattutto se le aziende propongono incentivi in cambio.
la Toyota ha puntato sul coinvolgimento umano e poi sulla tecnologia,
la Fiat ha puntato prima sulla tecnologia e solo dopo ha scoperto l’importanza del
coinvolgimento umano (lo stesso percorso della Fiat è riscontrabile anche nelle case
automobilistiche prima citate).
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Per spiegare, gli investimenti negli anni 80 e 90 hanno avuto una redditività modesta o a volte
anche inferiore rispetto ai capitali investiti.
Ciò ha spinto le imprese a cercare un aumento della redditività concentrandosi sulle attività
individuate come propria competenza essenziale (core competence).
Le attività non core:
vengono cedute insieme agli impianti necessari ad altre imprese per cui quelle attività sono
core.
Le imprese subentranti tuttavia non sino vincolate a servire solo l'impresa madre con gli impianti da
questa ceduti, ma una volta soddisfatti gli impegni previsti da contratto possono servire anche altri
clienti.
Tra le dirette conseguenze di questo cambiamento vi è che:
la gerarchia della fabbrica modulare deve imparare a far funzionare il sistema produttivo non
solo mediante ordini ma anche mediante
la gestione di contratti stipulati con le imprese terze.
Per capire come questo principio funzioni nella realtà, Bonazzi ha fatto una nuova ricerca presso gli
stabilimenti Mirafiori di Fiat Auto.
Emerge una realtà differenziata:
vi sono casi di collaborazione con imprese esterne che non pongono problemi,
altri che invece danno luogo a continue controversie tra le imprese coinvolte.
La difficoltà dipende dal grado di intreccio delle attività e dalla complessità dei rapporti lavorativi tra i
dipendenti delle diverse imprese che si trovano a
collaborare.
La ricerca conferma che uno dei maggiori problemi organizzativi della Fiat Auto negli ultimi anni è stato
come innestare la Fabbrica Modulare su quella integrata senza traumi.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Nel 20 secolo, Weber, espone il problema che era al centro del dibattito tra:
POSITIVISTI: ritenevano che bisognava ricondurre le scienze sociali al modello delle scienze
naturali, in modo che esse spetti il compito di scoprire le regole universali che presiedono allo
sviluppo della società umana.
STORICISTI: ritenevano che non vi sono leggi del divenire umano è che ciò riguarda l’uomo va
studiati col metodo storico, senza stabilire tendenze universali.
era l’oggetto di conoscenza delle scienze storico sociali e quale metodo bisognava adottare.
Weber rifiuta il positivismo e riformula la tesi storicistica.
Weber:
ritiene che non esistano leggi universali nella storia umana, ma si discosta anche dalle tesi
storicistiche che,
affermando il carattere unico e irripetibile dei fenomeni umani, negano alla sociologia uno
spazio autonomo rispetto alle discipline storiche.
Infatti il fatto che non esistano leggi universali che presiedono allo sviluppo della storia umana non
significa che l'unica conoscenza possibile sia quella di singoli eventi storici.
È possibile fare anche:
generalizzazioni e confronti sistematici di epoche storiche,
forme di governo,
convinzioni religiose etc.
Secondo Weber la sociologia studia:
l’agire dotato di senso: definito come l’atteggiamento umano a cui l’individuo che agisce
attribuisce un suo senso soggettivo, in riferimento all’atteggiamento di altri individui.
L’AGIRE SOCIALE di una o più persone in modo da pervenire a conclusioni il più possibile oggettive e
hanno lo scopo per la sociologia quello di:
COMPRENDERE: significa rendere evidente il senso di un dato agire umano;
SPIEGARE: significa trovare le cause che si suppone abbiano provocato quell’agire.
I concetti di “comprendere” e “spiegare” non si contrappongono, ma devono integrarsi in un
unico processo di “spiegazione comprendente”, dove le relazioni di causa diventano anche
relazioni di senso.
La spiegazione comprendente: deve fare riferimento alle cause oggettive che hanno indotto gli
individui ad agire in quel modo, sia alle motivazioni soggettive che gli individui danno al loro
agire.
La spiegazione comprendente si avvale di due metodi:
Metodo individualizzante, usato dagli storici per la ricostruzione dei singoli eventi oggetto di
studio,
Metodo generalizzante, che consente giudizi generali e confronti tra le varie forme dell’agire
sociale.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
1. I tipi di agire individuati da Weber sono delle distinzioni analitiche che permettono di vedere come l'agire
umano delle singole persone può essere ricondotto a una o a un'altra determinante.
Questi 4 fondamenti dunque designano dei tipi puri o tipi ideali di azione, che nel comportamento effettivo e
osservabile di un soggetto sono sempre mescolati anche se talvolta prevale un tipo d’azione rispetto alle
altre.
Alcuni tipi di agire possono essere allo stesso tempo razionali rispetto allo scopo e al valore: es. uno
scienziato è razionale rispetto allo scopo di valutare una determinata ipotesi e rispetto al valore di
testimoniare amore per le verità.
2. L'agire razionale rispetto allo scopo può essere anche del tutto irrazionale rispetto al valore. Il contrasto tra le
due razionalità emerge quando lo scopo che si persegue razionalmente è privo di senso o quando è
addirittura in totale contrasto con il valore (es: sterminare razionalmente una popolazione).
Weber sostiene che tra tensione tra questi due tipi d’azione caratterizza l’epoca moderna, conferendo
mancanza di senso ultimo alle conquiste umane.
3. La razionalità dell’agire è definita in base alla valutazione del soggetto che agisce.
Dunque se un soggetto adotta un rituale magico per avere un vantaggio, quello è agire razionale rispetto allo
scopo, nonostante il rituale sia lontano dalla razionalità scientifica.
4. L’individuazione dei tipi puri di agire è necessaria per capire il senso che i soggetti danno al loro agire
rispetto alle istituzioni che operano nella vita sociale.
I tipi puri dunque forniscono un'indicazione sul percorso da seguire per analizzare le istituzioni formali:
queste devono essere studiate non come strutture in sé, ma sempre in riferimento all'agire sociale delle
persone che hanno contatti con esse.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
3. IL TIPO IDEALE
La base su cui Weber fonda la specificità del sapere sociologico rispetto a quello storico è la
possibilità di fare generalizzazioni e confronti:
ciò è possibile attraverso la costruzione dei tipi ideali.
Nella realtà storico-sociale non esistono i tipi ideali:
in quanto sono soltanto delle costruzioni mentali,
punti di riferimento che l’uomo costruisce a suo rischio per potersi accostare alla realtà e
conferirle un senso comprensibile se pur limitato.
I tipi ideali individuano uniformità di comportamento e vengono utilizzati per poter fare connessioni e
confronti.
La costruzione di un tipo ideale consiste in un procedimento di astrazione composto da tre fasi:
a. seleziona gli elementi che appaiono più significativi e caratterizzanti;
b. trascura gli elementi che appaiono accidentali e irrilevanti;
c. collega tra loro gli elementi selezionati e li coordina in un quadro privo di contraddizioni.
Il tipo ideale così costruito è sempre un concetto-limite e trova la sua giustificazione nell’essere un
modello concettuale orientativo per la ricerca: riscontra delle uniformità di comportamento e
permette di fare comparazioni.
Si possono creare un numero indefinito di tipi ideali a seconda delle esigenze di ricerca.
POTERE CARISMATICO.
Per carisma si intende una qualità eccezionale attribuita a una persona che per tanto viene
riconosciuta come capo.
I seguaci giustificano la loro disponibilità all'ennesima incondizionata e a volte totale in base
alle qualità eccezionali del capo.
Il potere carismatico non per forza però è durevole, in quanto ha bisogno di continue
conferme, altrimenti rischia di scomparire.
Il potere carismatico è irrazionale nel senso che manca di regole ed è rivoluzionario in quanto
rovescia il passato.
Esso nasce da una rottura radicale con le istituzioni vigenti e si afferma come predicazione di
un ordine nuovo o come ritorno alle origini di un’istituzione di cui si accusa la progressiva
degenerazione nel corso del tempo.
L’apparato amministrativo del potere carismatico è rudimentale, formato discepoli, uomini di
fiducia che stanno a contatto con il loro capo carismatico in quanto gli son stati vicini nelle
prove più ardue o hanno dato prova di dedizione ed eroismo.
Tali seguaci non ricevono stipendi né benefici.
Il rischio tipico del potere carismatico puro, è che a seguito della morte o del ritiro del capo, e
successivamente dell’elezione del nuovo capo, il carisma finisca per diventare un potere
burocratico-tradizionale.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
POTERE TRADIZIONALE.
Il potere è tradizionale quando la sua legittimità è accettata sulla base di antichi ordinamenti e
poteri di signoria.
Dunque il capo ė determinato in base a regole tradizionali, e non può avere qualità specifiche
di comando.
Nonostante ciò i sottoposti sono tenuti a obbedienza in virtù di ciò che rappresenta per la
tradizione.
Il potere tradizionale ha conosciuto due forme tipiche prevalenti:
La forma patrimoniale, in cui il sovrano ha il diritto di comando su qualsiasi subordinato
e il diritto di proprietà su qualsiasi cosa appartenente ai suoi sottoposti, che sono
sudditi e non cittadini.
I funzionari dell’apparato amministrativo dipendono dal sovrano per una
remunerazione e sono al suo servizio personale.
La forma feudale, in cui l’apparato amministrativo gode di un’ampia autonomia nei
confronti del sovrano, e non sono dipendenti personali ma alleati uniti da un
giuramento di fedeltà.
Essi possiedono un proprio dominio amministrativo che viene trasmesso in eredità
(feudo), non dipendono dal signore, ma sono tenuti a fornirgli risorse tratte dal feudo.
Il rischio tipico del potere tradizionale è l’instabilità, in quanto tale potere è sempre
minacciato dall’insorgere del carisma locale di capi che si ribellano alla tradizione.
POTERE LEGALE.
La legittimazione di questo tipo di potere si basa sul presupposto della credenza nell'equità
della legge.
Nel potere legale si obbedisce al superiore perché si presume che egli eserciti la carica in virtù
di una nomina legale, che sia competente e che i suoi comandi siamo conformi agli
ordinamenti legali.
Si presume inoltre che questi ordinamenti siano stati istituiti razionalmente rispetto a un
determinato valore o scopo, che costituiscano un insieme di regole universali e non emanate
per regolare casi specifici con intenti arbitrari, e che anche il detentore del potere sia tenuto a
rispettare quegli ordinamenti.
L’apparato amministrativo tipico è la burocrazia.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Tali caratteristiche implicano delle conseguenze sulla posizione interna ed esterna dei funzionari:
1. L’ufficio è una professione e pertanto è necessario aver conseguito un corso di studi, prove di
qualificazione come condizioni preliminari per l'assunzione o passaggio a mansioni superiori,
ed essere fedeli all’ufficio, cioè leali ad uno scopo oggettivo impersonale e obbedienti ai
superiori.
2. La condizione di funzionario si accompagna a un prestigio di ceto, rilevante nei confronti dei
dominati.
3. La carica ha durata vitalizia e si configura in una carriera che porta il funzionario a ricoprire
posizioni sempre più alte per motivi di merito e anzianità.
4. La carica è ricompensata da uno stipendio monetario fisso pagato dall’amministrazione per cui
lavora il funzionario.
Nella burocrazia pura infatti il funzionario non riceve compensi economici
dagli utenti dell'organizzazione, ma questi pagano l'amministrazione che a sua volta paga il
funzionario tramite stipendio.
5. Il funzionario non possiede gli strumenti del suo lavoro, ma gli sono dati in dotazione
dall'amministrazione.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Le caratteristiche citate definiscono la forma pura della burocrazia moderna, ma Weber individua
manifestazioni imperfette di burocrazia nei grandi imperi dell'antichità.
Per Weber vi sono due condizioni che resero possibile il sorgere di quegli apparati:
Prima di tutto lo sviluppo di un’economia monetaria è la premessa indispensabile per la
costituzione di una burocrazia,
e la comparsa di un ceto di funzionari liberi e remunerati ad hoc a cui affidare lo svolgimento di
determinati compiti.
Poi l'esistenza di problemi tecnici da risolvere è a sua volta il presupposto materiale che
sollecitò la creazione di apparati amministrativi dotati di caratteristiche burocratiche.
Weber parla delle burocrazie degli antichi stati imperiali come burocrazie patrimoniali, dove i
funzionari sono dignitari nominati non solo in base alla competenza ma anche in base al censo e
alla nascita, e remunerati col prelievo legale di tangenti sui servizi pagati dai sudditi:
si trattava di forme miste di potere legale e tradizionale.
Le ragioni storiche del processo di burocratizzazione sono indicate da Weber in due fattori
principali:
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
2. BUROCRAZIA E SPERSONALIZZAZIONE.
La burocrazia è tanto più perfetta quanto più rende i rapporti impersonali ed anonimi
escludendo sentimenti e risentimenti.
Ma tale obbiettivo non può essere raggiunto senza pagare costi umani.
Infatti l'organizzazione burocratica richiede ai suoi dipendenti di limitare la libera espressione
della propria personalità, e di conseguenza di essere affettivamente neutrali di fronte agli
ordini superiori.
Ciò porta all'esecuzione di qualsiasi comando che sia formalmente legale, e ciò è un problema
in caso di ordini di sopraffazione o morte.
3. BUROCRAZIA E RAZIONALITÀ.
L'epoca moderna ė caratterizzata da un contrasto tra la tendenza a una sempre maggiore
razionalità rispetto allo scopo e la richiesta di una razionalità secondo il lavoro.
La razionalità secondo lo scopo può essere vista come espressione della diffusione di una mentalità
scientifica e di "disincantamento" rispetto al sacro.
La scienza contribuisce a disincantare il mondo con lo svanire di vecchie credenze, ma non è in
grado di offrire all'uomo nuovi valori e scopi.
La scienza offre all’uomo soltanto la conoscenza fisica del mondo, lo aiuta a conquistare la natura,
ma non può dirgli in cosa credere e dove dirigere le sue forze.
Di conseguenza, la vita moderna secolarizzata, tecnologica e burocratizzata diventa sempre più
razionale e al tempo stesso sempre più ansiosa di alcune certezze che ineriscano al piano della
razionalità rispetto ai valori.
Tale angoscia spiega la comparsa di nuovi movimenti carismatici.
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La domanda da cui Crozier prende le mosse nasce da un tratto caratteristico della sociatà moderna,
l’avvento delle grandi organizzazioni.
Crozier è interessato ad alcuni aspetti che sono:
La sicurezza,
La regolarità,
L’impersonalità del funzionamento.
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UN MODELLO DI PRODUZIONE INDUSTRIALE:
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Anche se le attività svolte dall'istituto contabile e dal monopolio industriale sono differenti, i
tratti comuni dei due organismi sono:
dominio di regole impersonali e astratte e diffusa debolezza gerarchica;
mancanza di contatti organici tra le varie categorie professionali e tendenza di queste a
diventare dei compartimenti stagni;
mancanza di competizione in termini di competenza professionale;
diffusa incapacità di mutamento, di adattamento al nuovo.
Quando i valori principali in un luogo di lavoro sono la giustizia è l'equità, diventa
difficile potersi impegnare in un programma di rinnovamento e progresso, poiché la
paura di leder quei due principi porta alla conservazione degli equilibri esistenti.
Il quadro di Crozier dunque è diverso da quello di Weber.
Weber descrive la burocrazia:
come un apparato potente, efficiente e razionalmente orientato allo scopo;
la pericolosità della burocrazia sta nella sua possibilità di servire qualunque scopo senza
porsi problemi di valori, con i dipendenti che non si pongono il problema del significato
etico di ciò che fanno.
Crozier invece la pone come:
un apparato impersonale e privo di carisma, rigido, inefficiente e meschino.
Essa nasce come organismo rigido e privo di fascino ma che concede a chi le sa sfruttare
nicchie di indipendenza privata.
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Una conseguenza inattesa dei processi di razionalizzazione nelle grandi organizzazioni moderne è che
la prevedibilità del comportamento diventa una prova di inferiorità.
Chi invece riesce a conservare aspetti non prevedibili dell'esplicazione del suo ruolo è in una posizione di
superiorità.
Dunque l'imprevedibilità:
è libertà
ma anche potere.
Quanto più rigida è la gabbia burocratica, tanto più gli atti umani che sfuggono alla predeterminazione
assumono significato di potere.
Crozier fa un esempio:
quella che per A è la discrezionalità di scegliere il suo comportamento,
per B è un elemento di incertezza nel prevedere il comportamento di A.
Dunque il potere che ha A su B dipende dal grado con cui A riesce a prevedere il comportamento di
B, ma B non quello di A.
Crozier dunque definisce il potere come controllo dei margini di incertezza nelle relazioni con il
prossimo.
Il potere è essenzialmente:
scelta,
iniziativa,
strategia,
possibilità di condizionare il comportamento altrui al di fuori delle regole previste;
in un’organizzazione burocratica il vero potere tra i soggetti si radica in quegli interstizi delle
strutture formali che si sottraggono alla prevedibilità del regolamento.
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L'origine di questi caratteri va ricercata in due elementi che nascono nella storia francese:
L'interiorizzazione nelle coscienze di un'autorità assoluta e diffusa.
l'incapacità di sopportare la subordinazione diretta.
La tensione tra questi due elementi viene risolta attraverso la centralizzazione e le norme
impersonali.
In tal modo di mantiene una concezione assolutistica dell'autorità e si eliminano i rapporti diretti di
dipendenza.
Ma Crozier non si concentra solo su questi tratti culturali, ma cerca di cogliere le analogie tra gli
organismi da lui studiati e altre istituzioni della società francese (es. sistema scolastico), in cui
trova sempre gli stessi tratti (impersonalità delle norme, centralizzazione delle decisioni, rigidità del
sistema...).
Questi tratti suggeriscono due indicazioni:
l'importanza della burocrazia nel sistema francese,
e l'ipotesi che l'amministrazione pubblica di un paese è l'istituzione dove più
fedelmente si rispecchiano i tratti di quel paese.
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La peculiarità del sistema amministrativo francese e l’originalità della demarche adotta fanno della scuola
originata da Crozier una voce dell’attuale dibattito sulle possibilità di superamento della burocrazia
tradizionale.
Questa scuola:
a) Ha esteso il campo di studio all’intero sistema politico- amministrativo francese fino a chi studia i
vari aspetti del funzionamento delle scuole superiori che formano i pubblici funzionari.
b) Ha arricchito e reso più complesso il quadro fornito il fenomeno burocratico. Emerge al tempo
stesso la loro peculiare capacità di negoziare con funzionari e uomini di altre amministrazioni, con
gli organismi di rappresentanza degli interessi locali.
Dupuy e Thoenig sostengono la necessità di distinguere tra la rigidità delle strutture burocratiche
formali che formano la cornice d’insieme e la flessibilità della pratica amministrativa che si svolge
secondo sottili regole di contrattazione incrociata all’interno di quella cornice.
1. Il primo fattore: è il fatto di avere esteso l’indagine a rami, livelli e ruoli della pubblica
amministrazione dotati di responsabilità professionali maggiori di quelle riscontrate nell’istituto
contabile e nel monopolio industriale.
3. Il terzo fattore: sta nell’affinamento degli stessi strumenti di indagine con una maggiore attenzione
agli aspetti informali e riservati, ma non per questo meo regolati della contrattazione incrociata tra
i vari comportamenti della pubblica amministrazione.
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Stabilire un obiettivo vuol dire attivare un processo pratico e conoscitivo che Drucker articola in cinque
punti:
1. spiegare e inquadrare l’intera gamma dei fenomeni connessi all’attività aziendale in un piccolo
numero di proposizioni;
2. sottoporre tali proposizioni alla verifica dell’esperienza concreta;
3. predire il comportamento aziendale;
4. valutare la validità e l’opportunità delle decisioni nel momento in cui vengono prese;
5. mettere i manager in grado di analizzare la propria esperienza e di valutare il proprio operato.
Per Drucker gli obiettivi sono necessari in tutti quei campi in cui il livello di attività e i risultati hanno
un’influenza vitale e diretta sulla sopravvivenza e sulla prosperità dell’azienda, quindi quei campi in cui
l'azienda è visibile sotto un profilo economico, sociale e finanziario.
Gli obiettivi devono essere a loro volta:
Concreti, cioè realistici, credibili e verificabili.
Gli obiettivi non sono fissati in modo unilaterale dai capi, ma emergono in una serie di riunioni
allargate anche ai dirigenti inferiori.
In tali riunioni vengono individuate le “aree strategiche” di sviluppo dell’azienda, e per
ciascuna area i problemi esposti dai capi responsabili vengono discussi collegialmente da tutti i
partecipanti cercando di superare le divisioni specialistiche e gerarchiche del lavoro;
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Il più possibili quantificabili: per ogni area strategica la direzione centrale contratta con vari
responsabili dell’area i piani d’azione di gruppo ed individuali da raggiungere entro date
scadenze.
La fissazione degli obiettivi:
dunque avviene con una trattativa in cui i superiori e i responsabili diretti discutono le
possibilità di raggiungere obiettivi misurabili e specifici (es. un tot di fatturato).
Raggiungibili in un arco di tempo determinato: i responsabili di area e i loro superiori tengono
delle riunioni periodiche di valutazione su quanto è già stato raggiunto dei risultati che i
responsabili si erano impegnati a realizzare.
Nel corso di queste riunioni si contrattano in modo aperto e trasparente le eventuali modifiche
da apportare alle strutture organizzative.
Con questo metodo:
o non si stabiliscono solo gli obiettivi con un patto concordato tra superiori e responsabili diretti
degli obiettivi,
o ma si ha anche la formazione sul campo di nuovi dirigenti.
Infatti il modo più efficace di formare i dirigenti adatti a gestire obiettivi sono quelli di affidare compiti
limitati ma organicamente completi a persone che hanno già anche partecipato all'attività collegiale di
individuazione degli obiettivi.
Ogni area strategica dunque ha sub-obiettivi sempre più specifici affidati ad un responsabile.
In tal modo i dirigenti di livello inferiore non si limitano solo a obbedire ordini ricevuti, ma gestiscono
obiettivi assegnati.
Così si ridefinisce la disciplina, non più vista come obbedienza diligente e passiva agli ordini ma
come un coinvolgimento responsabile.
In conclusione:
o mentre nella burocrazia tradizionale vigeva il principio che tutto ciò che non è permesso è
vietato,
o nell'azienda di Drucker vige il principio opposto, ovvero che tutto ciò che non è espressamente
vietato è permesso.
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Mentre i primi 3 gradi di efficienza rispondono all'esigenza di adeguarsi a mutamenti relativamente
prevedibili, il quarto criterio pone l'azienda nella condizione di saper affrontare una molteplicità
continua di cambiamenti strutturali non prevedibili a priori.
È soprattutto quando si impone il quarto criterio che si ricorre alla direzione per obiettivi.
L’ipotesi di Ansoff e Brandenburg è Infatti che esista una generale corrispondenza tra:
- i criteri di efficienza
- e i quattro modelli puri di organizzazione.
IL MODELLO FUNZIONALE:
Il modello funzionale è il più antico, ed è detto così perché ogni ruolo di comando corrisponde
ad una funzione presente nel processo produttivo.
Sotto la direzione generale vi sono tre direzioni:
degli acquisti,
della produzione
e delle vendite.
Alle loro dipendenze vi sono altre aree di comando via via più ristrette ma sempre
corrispondenti a specifici momenti funzionali del processo produttivo.
All'interno di ciascuna di queste articolazioni vige il principio della corrispondenza tra area di
responsabilità e livello di autorità.
Accanto alle posizioni direttamente collegate al processo produttivo (o linea) sono previsti
ruolo di staff, privi di autorità diretta ma con compiti di ausilio tecnico.
Il modello è caratterizzato dall’accentramento delle decisioni al vertice, ripetitività e analogia
delle funzioni affidate ai vari uffici e reparti.
Tale modello è ancora oggi il più diffuso nella gestione di aziende:
di dimensione medio-piccole,
tecnologia poco sofisticata,
controlli personali
o burocratici
e mercato stabile.
Il modello funzionale entra in crisi quando lo sviluppo dell'azienda impone una più complessa
articolazione.
Dall'impresa costituita da un solo stabilimento con pochi prodotti si passa a imprese formate
da più stabilimenti, a volte distanziati geograficamente, con una gamma di produzioni
crescente e l'esigenza di una maggiore elasticità nel decidere le variazioni di quantità dei
prodotti.
Diventa importante anche la contabilità industriale interna.
MODELLO DIVISIONALE:
Alle esigenze descritte corrisponde il modello divisionale, che venne applicato negli anni 20 presso
la General Motors.
Il modello divisionale raggruppa” in divisioni” le varie attività in base alla linea dei prodotti (e non
in base alle attività produttive), e decentrerà il potere di gestione a livello di ogni divisione.
Le divisioni vengono affidate a dirigenti responsabili delle decisioni strategiche, amministrative e
operative riguardanti la loro area.
Rispetto a quello funzionale dunque questo modello introduce un momento gerarchico-
amministrativo in più, costituto dalla direzione completa di un prodotto o di una linea di prodotti.
Con tale modello non si ha solo un cambiamento dell'organigramma, ma anche problemi nuovi
che riguardano la ridefinizione dei rapporti i massimi dirigenti e la relazione tra linea e staff.
La proliferazione dei gruppi di staff garantisce competenze particolari e flessibili ma aumenta la
probabilità di conflitti nelle aree di comando.
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Mintzberg tenta di sistemare in un quadro unitario le varie indicazioni scaturite dal dibattito sulla
burocrazia, e di formulare un modello che indichi le logiche e i vincoli da rispettare quando si
vogliono progettare le strutture interne di organizzazioni complesse.
Il quadro di Mintzberg può essere definito da delle acquisizioni particolari:
la burocrazia teorizzata da Weber è la struttura più adatta per garantire un'amministrazione
regolare e standardizzata.
la burocrazia è anche affetta da varie patologie di funzionamento date dalle strategie dei
soggetti.
si deve distinguere tra due forme di burocrazia: quella che concerne lavori esecutivi e quella
che concerne lavori con contenuti professionali.
un modo per Iside dalle patologie burocratiche è progettare metodi di direzione non gerarchici,
basati sul raggiungimento di obiettivi e sulla soluzione di particolari problemi.
tali formule non possono essere applicate in modo uguale su qualsiasi tipo di lavoro, e la loro
validità è limitata alle aree più innovative e finalizzate a risultati specifici.
molteplici forme organizzative possono coesistere nella stessa impresa: in particolare le
organizzazioni per progetto e per matrice si sovrappongono alle strutture più tradizionali che
persistono.
Da questo quadro emergono 3 elementi che ispirano l'intera opera di Mintzberg:
la pluralità delle forme organizzative;
l’impossibilita di sbarazzarsi completamente della burocrazia tradizionale;
la necessità di scoprire un ordine generale regolatore dei processi di progettazione
organizzativa.
Egli fa propria l’impostazione che ha ispirato un recente filone di pensiero sulle organizzazioni, il
cosiddetto approccio basato sullo studio delle contingenze organizzative.
Tale approccio venne:
sviluppato in varie ricerche tra gli anni ’60 e ’70 e stabilisce che la struttura organizzativa di
un’impresa varia in funzione del variare di una serie di fattori strategici come dimensione,
complessità della tecnologia e grado di prevedibilità dell’ambiente.
Dalle ricerche contingentistiche risulta inoltre che le imprese che si danno l’assetto più conforme alle
condizioni tecnologiche ed ambientali in cui si trovano ad operare sono anche quelle più efficienti.
In conclusione la progettazione di un'azienda per essere ottimale deve essere fatta nel rispetto di
alcune contingenze riconosciute come strategiche.
Mintzberg costruisce la sua analisi sulla base di queste indicazioni.
Da un lato occorre superare il principio per il quale vi è un solo modo ottimale di organizzare
l'azienda;
dall'altro bisogna anche rifiutare la tesi che le forme organizzative possono essere scelte in
modo libero e arbitrario.
Mintzberg afferma che la scelta delle forme deve obbedire ad una logica sistematica e rigorosa
basata sulla ricerca della coerenza tra le varie parti. Rispettando questa coerenza si arriva alle
configurazioni organizzative, ovvero modelli completi in cui i parametri della progettazione
organizzativa corrispondono alle situazioni in cui l'organizzazione opera.
Secondo Mintzberg le configurazioni organizzative sono 5:
1. struttura semplice:
2. burocrazia meccanica:
3. burocrazia professionale
4. soluzione divisionale:
5. adhocrazia:
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1. STRUTTURA SEMPLICE:
il meccanismo di coordinamento è quello della supervisione diretta eseguita dal vertice che
accentra le varie funzioni.
Tale struttura non ha bisogno di burocrazia né di organi di staff, ed è diffusa nelle aziende più
piccole, in quelle nuove, ma anche in quelle altamente carismatiche e nelle organizzazioni
“sintetiche”, ovvero fortemente accentrate che coordinano gli sforzi in una situazione breve ed
eccezionale.
2. BUROCRAZIA MECCANICA:
3. BUROCRAZIA PROFESSIONALE:
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4. SOLUZIONE DIVISIONALE:
5. ADHOCRAZIA:
6.
Il meccanismo di coordinamento è quello dell’adattamento reciproco, un meccanismo non
gerarchico ed estremamente immediato e informale.
La semplicità di tale adattamento è particolarmente funzionale nelle organizzazioni più
complesse con compiti non di routine.
L'adhocrazia è caratterizzata da un nucleo di specialisti ad alta sofisticazione, con
comportamenti non formali e attitudine all'esportazione di soluzioni su percorsi non definiti.
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Mintzberg è un contingentista.
Quindi ritiene che le cinque configurazioni non sono altro che la risposta coerente che le organizzazioni
danno alle varie contingenze situazionali in cui operano.
Le aziende con compiti stabili e ripetitivi avranno molta tecnostruttura e molta burocrazia meccanica.
Le grandi aziende con forte competitività di mercato avranno un ampio sviluppo delle linee intermedie
divisionalizzate.
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2. Si arriva così al secondo punto dell'analisi di Perrow, ovvero la corruzione di una tipologia di
organizzazioni e lavori basata sul concetto di routine.
Perrow ritiene troppo semplicistica la contrapposizione tra:
lavori burocratici considerati di routine e
lavori non burocratici con minore presenza di routine.
Esaminando il termine routine è utilizzati per definire due situazioni distinte:
è routine vi è poca varietà nei compiti e porca incertezza sui metodi da adottare;
non è routine quando vi è un'alta varietà di compiti e un'alta incertezza sui metodi da
adottare.
La varietà dei compiti e la certezza dei metodi sono sempre apparsi connessi, ma in realtà
sono cose diverse, e la distinzione deve essere recuperata:
infatti vi sono anche lavori che presentano varietà e anche certezza,
e lavori che presentano poca varietà e anche incertezza.
La dimensione relativa all'uniformità o varietà dei compiti può essere anche definita come
presenza di poche eccezioni o molte eccezioni;
la dimensione relativa al grado di certezza o incertezza può essere definita come maggiore o
minore possibilità di analizzare la ricerca di procedure da seguire.
Le due variabili possono essere incrociate in una tabella 2x2 con 4 situazioni tipo distinte.
1. La prima cella definisce situazioni più tradizionali dove l'abilità di mestiere e la professionalità
degli operatori sono i requisiti per raggiungere un dato scopo, e riguarda dunque l'artigianato
classico e le attività affidate all'esperienza sul lavoro.
Le attività non sono variate ma i metodi e le tecnologie richieste consentono margini di
discrezionalità.
2. La seconda cella definisce lavori esecutivi richiesti per prodotti standard su larga scala. I lavori
sia manuali che amministrativi sono ripetitivi e programmati secondi procedure predefinite e
analizzabili.
3. La terza cella definisce le situazioni più critiche e più creative. Qui il lavoro non è ripetitivo ed è
caratterizzato da un elevato numero di problemi da risolvere unitamente a processi decisionali
non analizzabili in base a procedure pre- codificate.
4. La quarta cella infine definisce lavori tecnici in presenza di alta tecnologia.
In questi lavori la professionalità sta nel saper scegliere tra molte procedure predefinite quelle
più appropriate alla situazione da affrontare.
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4. Lo schema di Perrow consente di distinguere tra la dimensione della responsabilità e quella
dell'autonomia, dimensioni spesso confuse tra loro.
Si dà per scontato che al crescere del grado di autonomia nell'esecuzione di un lavoro cresca la
responsabilità per il lavoro eseguito e viceversa.
Ma oggi nei lavori ad alta tecnologia non è più così: maggiore responsabilità nella gestione di
apparecchiature non comporta maggiore autonomia, al contrario diminuisce perché
l'operatore è tenuto a seguire rigorosamente le procedure previste in modo da evitare guasti e
incidenti.
La tabella precedente può anche essere rappresentata in questo modo:
Tanto più la freccia è spessa tanto meno analizzabili sono le procedure adottate;
quanto più sono gli alberi di scelta, tanto più frequenti sono le eccezioni.
Le diverse celle:
1. La cella 1 rappresenta lavori con poche eccezioni e procedure non analizzabili. Non vi sono
molte varianti, e sono interne al flusso gestito dall'operatore in base alla sua esperienza.
2. La cella 2 rappresenta lavori con poche eccezioni e procedure analizzabili.
L'operatore è tenuto a seguire una gamma ristretta di operazioni previste da una routine
specifica, e ha la sola scelta tra proseguire o interrompere (go and stop).
3. La cella 3 descrive lavori con molte eccezioni e procedure non analizzabili.
Le diverse frecce spesse con diverse varianti indicano l'esistenza di una pluralità di metodi che
richiedono scelte precise, e rilevanti margini di discrezionalità e improvvisazione.
Esistono delle routine ma non dettagliate da prescrivere ogni singolo atto.
4. La cella 4 descrive lavori con molte eccezioni e procedure analizzabili.
È la situazione di lavori tecnici con apparecchiature complesse, in cui l'operazione deve
memorizzare una quantità di routine dettagliate che non prevedono discrezionalità.
L'operatore deve scegliere tempestivamente le routine più appropriate alle situazioni da
fronteggiare.
Il modello di Perrow ha il merito di individuare alcune variabili che consentono di inserire diverse
situazioni lavorative in un solo schema concettuale.
Si superano così gli approcci che si limitano a esaminare preci e difetti della burocrazia classica.
Il suo modello è l'antefatto per comprendere il passaggio ai più recenti filoni di ricerca sulle comunità
di pratiche e sui lavori emozionali.
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Se nel filone delle comunità di pratiche la novità consiste nel portare l'attenzione sulle interazioni
quotidiane con cui le persone lavorano, nel filone del lavoro emozionale:
a) la novità consiste nel portare l'attenzione sulle interazioni dirette tra chi lavora in
organizzazioni di servizio e i clienti che necessitano di quei servizi.
L'espressione lavoro emozionale è usata per la prima volta dalla sociologa americana:
b) Arlie Hochschild nel libro The managed heart, che esponeva i risultati di una ricerca
sulle assistenti di volo in una compagnia aerea.
Con l'espressione lavoro emozionale Hochschild intende sottolineare un aspetto peculiare in tutti i
lavori di servizio a contatto con il pubblico.
Lei parte dalla premessa che bisogna superare la concezione ingenua secondo cui sentimenti ed
emozioni non si possono controllare ma solo reprimere.
Ma in realtà i sentimenti e le emozioni sono socialmente modificabili e mutevoli nel
tempo, sono educabili nel senso che si possono amministrare.
La gestione dei sentimenti non è una questione privata del singolo ma è regolata dalle norme sociali:
sono queste a suggerire quali emozioni provare o non provare,
quali sono appropriate o non appropriate in specifiche situazioni.
La premessa antropologica sulla natura sociale e gestibile delle emozioni permette alla Hochschild
di esaminare la gestione delle emozioni sul lavoro.
In un aereo di linea il passeggero può decidere se sorridere i no, ma le assistenti di volo sono tenute a
sorridere ma anche ad esibire un certo calore nel loro sorriso, anche se il passeggero è sgarbato.
Ciò avviene perché le assistenti hanno imparato a trasformare il sistema emozionale, ovvero a porre
un nesso tra un atto privato come un sorriso e un atto pubblico come sorridere a uno sconosciuto in
un contesto di lavoro.
Ciò richiede di porre i nostri sentimenti sotto il dominio di un'organizzazione.
Hochschild distingue tra due tipi di azione:
a) AZIONE DI SUPERFICIE: consiste nell'avere un comportamento conforme a certe regole, ma
dove si capisce subito che sorrisi e buone maniere non sono sentimenti reali, sono convenzioni
che non richiedono intima adesione da chi li compie.
Al di là del sorriso di circostanza non vi è nulla.
b) AZIONE IN PROFONDITÀ: comporta un lavoro su sé stessi fino a immedesimarsi totalmente nel
proprio ruolo.
Le assistenti di volo devono andare dunque oltre sorrisi e parole di circostanza, devono
dimostrare reale premurosità, interpretando le esigenze dei passeggeri.
Ciò non è facile, e per questo la compagnia aerea sottopone le hostess a dura selezione.
La Hochschild tuttavia è anche consapevole che la sfrenata competizione tra compagnie aeree
richiede un impegno di lavoro prolungato che rende sempre più difficile gestire i viaggiatori con
la gentilezza personalizzata che si richiede.
Così la routine prende il sopravvento e il mestiere delle hostess diventa banale.
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Tra le tante ricerche nate nel solco della Hochschild è da segnalare quella di Leidner:
per il modo in cui sviluppa l'esame di quelli che chiama i lavori di servizio interattivo e le strategie
attuate dai soggetti coinvolti.
Leidner si distingue dalla Hochschild per due motivi:
a) Il primo motivo: è che Leidner non si limita a indagare il modo in cui una burocrazia inculca ai suoi
dipendenti le tecniche per gestire i sentimenti, ma compie un'indagine su due differenti luoghi di
lavoro:
un ristorante McDonald
e una compagnia di assicurazione col nome fittizio di Combined
Insurance.
Pur essendo due organizzazioni diverse condividono il fatto di lavorare in contatto diretto con i
clienti.
L'ipotesi di Leidner è che la gestione delle emozioni sia perseguita con metodi differenti e ottenga
risultati diversi.
b) Il secondo motivo è che Leidner è molto più critico della Hochschild nell'esaminare come si
controllano le emozioni, perché sottolinea soprattutto gli aspetti manipolativi volti a ottenere
uniformità di comportamento.
Leidner parte dal concetto di routine nel lavoro.
In ottica tayloristica:
il lavoro operaio o comunque tutti i lavori esecutivi sono un susseguirsi di routine;
anche la burocrazia di ufficio prevede il rispetto di rigorose routine,
e anche quando si occupa di persone la burocrazia tende a trattarle non come soggetti ma come
pratiche.
Questo concetto di lavoro burocratico entra in crisi con l'avvento di una società dove i lavori di
servizio a contatto con i clienti crescono.
Le persone non sono più semplici pratiche, ma soggetti che entrano in interazione diretta con le burocrazie
e pretendono trattamenti personalizzati, e possono protestare per l'eventuale inefficienza.
1. La prima conseguenza è che diventa più problematico parlare di routine.
Nei lavori di servizio interattivo il problema maggiore diventa quello di inserire i clienti provenienti
dall'esterno dentro le routine della burocrazia che li accoglie.
A contestare la routine infatti non possono più essere solo i dipendenti, ma nei servizi interattivi è
sempre più frequente che siano i clienti a contestarle.
2. La seconda conseguenza è che mentre nei lavori manuali i dipendenti devono confrontarsi solo con
il management, nei lavori di servizio interattivo i soggetti in gioco diventano 3:
i dipendenti,
il manager
e i clienti esterni.
Il quadro si complica aprendo prospettive nuove.
L'ipotesi di Leidner e che quando i clienti contattano l'organizzazione per un servizio i loro interessi
convergono con quelli dei dipendenti:
all'aspettativa dei clienti di ricevere un servizio soddisfacente corrisponde la professionalità dei
secondi a offrirlo.
Però il management, preoccupato per i costi, sollecita i dipendenti a standardizzare il servizio e
accorciare i tempi.
Quando invece sono le organizzazioni a cercare i clienti avviene il contrario:
i dipendenti e i management hanno l'interesse di convincere clienti diffidenti ad accettare il
servizio.
Il modo diverso di comportarsi nei confronti delle routine porta Leidner ad affrontare il problema di come
le persone accettino di essere routinizzate, agendo in conformità di direttive della burocrazia interessata a
raggiungere la massima efficacia e prevedibilità del servizio.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Leidner individua 3 tipi di servizi interattivi distinti in base alle personali qualità del lavoratore e alla
natura delle interazioni che si sviluppano nel corso del servizio.
1. Nel primo tipo rientrano i servizi in cui l'interazione è inseparabile dal prodotto fornito (es.
rapporto tra studente e insegnante).
2. Il secondo tipo è formato da servizi in cui il prodotto è separabile dall'interazione, ma questa è
importante per determinare la qualità del servizio offerto: es. guide turistiche, assistenti sociali,
medici.
3. Il terzo tipo è formato da servizi in cui la qualità dell'interazione è cruciale per vendere il prodotto
ma non fa parte del prodotto stesso: es. assicuratori, intervistatori.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Leidner intende esaminare anche come le due organizzazioni inducono i clienti a cedere alle loro
Disposizioni:
il grado di successo che ottengono nel controllare il comportamento dei dipendenti e come
questi ultimi concilia il loro senso di indennità con l'identità imposta dalle organizzazioni.
Quando scende sul campo però Leidner si accorge che i comportamenti sono più complessi di
quelli attesi.
Al McDonald gli addetti cercano ogni occasione per discostarsi dalla routine e per
personalizzare il servizio in una tacita alleanza con i clienti che affollano il locale;
nella compagnia di assicurazione invece gli agenti vanno di casa in casa per indurre chi vi abita
a stipulare dei contratti, e seguono meticolosamente la routine predisposta dalla compagnia,
in quanto ritengono che sia il miglior modo per persuadere i clienti e ottenere un risultato che
beneficia dalla compagnia per cui lavorano.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
1. IL PRIMO PUNTO:
Simon ritiene che per studiare il comportamento umano nelle organizzazioni non occorre partire
dall'organizzazione intesa come una struttura che prescrive dei ruoli, ma dagli uomini che agiscono
all'interno e che sono visti come soggetti che decidono continuamente.
La decisione è l’oggetto fondamentale della conoscenza organizzativa.
Ma capire il modo in cui si decide e dunque in cui si agisce, occorre assumere come unità di analisi
le premesse delle decisioni umane.
Simon afferma che la premessa è un'unità di analisi più piccola del ruolo perché:
“ogni decisione dipende da molte premesse che sono numerose nella definizione di un
solo ruolo”.
Studiare il comportamento di un gruppo umano all’interno di un’organizzazione significa:
vedere l’organizzazione come uno schema che “fornisce a ogni appartenente al gruppo
buona parte dell’informazione, delle premesse, degli obiettivi e degli atteggiamenti che
influenzano le sue decisioni”.
L’organizzazione è un luogo dove gli uomini decidono secondo una certa programmazione e un
certo coordinamento.
2. IL SECONDO PUNTO:
è che Simon ritiene che sia sbagliato ritenere che l'uomo sia un soggetto perfettamente razionale.
L’uomo dispone di una razionalità limitata.
I limiti oggettivi della conoscenza, l’impossibilità di considerare contemporaneamente troppe
variabili, l’incertezza interna a ogni gerarchia delle preferenze, la disposizione mentale, le
convinzioni dovute alla formazione culturale e i vari condizionamenti sociali fanno sì che nella
maggior parte dei casi le decisioni vengano prese secondo un criterio di sufficienza e di
soddisfazione minimale.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
3. IL TERZO PUNTO:
della rivoluzione di Simon consiste nel riprendere il modello proposto da Barnard sull’equilibrio
tra incentivi e contributi come principio generale di funzionamento di un’organizzazione, e nel
rileggerlo sulla base dei due punti precedenti.
Tale equilibrio appare come la risultante nel tempo, di un complesso di decisioni tutte
limitatamente razionali.
Esse riguardano il flusso delle attività interne all’organizzazione, le procedure che regolano tali
flussi e le scelte che gli individui compiono in rapporto all’organizzazione.
In tale prospettiva l’oggetto centrale dell’analisi è rappresentato:
dalle forme
e dall’intensità dell’identificazione dei soggetti
con l’organizzazione complessiva
e sue sub-unità.
Anche Parsons si era rifatto a Barnard per trarne l'argomento che il consenso dei membri è il
presupposto indispensabile per il funzionamento di un sistema organizzativo.
Ma il modo in cui Simon si riallaccia a Barnard è diverso:
il consenso rimane problematico perché l'identificazione dei soggetti con l'organizzazione
non è scontata
e in ogni caso non obbedisce mai alla logica della massimizzazione ma a quella della
sufficienza.
Di conseguenza bisogna studiare le condizioni che rendono possibili le forme di cooperazione, ma
anche le cause e le forme dei conflitti.
Per Simon un'organizzazione può sopravvivere indefinitamente anche in modo conflittuale.
Inoltre Simon non reifica l’organizzazione:
non è un contenitore dotato di scopi e di una vita indipendente, ma va vista come il
risultato delle azioni di una moltitudine di uomini.
Simon inizia la sua opera effettuando una critica radicale dei principi di amministrazione presentati
dalla scuola classica come delle verità universali e inoppugnabili.
I principi stabiliscono che l’efficienza tende ad aumentare se:
si specializzano i compiti in senso al gruppo di lavoro;
si assegnano i componenti del gruppo a una sola gerarchia di autorità;
si restringe l’ambito del controllo ad un piccolo numero di dipendenti;
si raggruppano quest’ultimi secondo criteri coerenti come fine, procedimenti, clientela e
luogo di lavoro.
Simon analizza tali principi per dimostrarne l’inconsistenza.
IL PRINCIPIO DI SPECIALIZZAZIONE
stabilisce che l’efficienza aumenta se i dipendenti vengono specializzati.
Tale affermazione è valida secondo 2 criteri:
a) il primo è in base alle funzioni svolte, in modo che i dipendenti devono occuparsi di tutti i problemi
attinenti a una data funzione a prescindere dal luogo in cui essi si verificano;
b) il secondo è su base territoriale in modo che i dipendenti collocati in una data area devono
occuparsi di tutto ciò che avviene in quell’area.
La scuola classica non dice quale di questi due criteri sia migliore, quindi la grande teoria
amministrativa non offre alcuna soluzione concreta.
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Lo studio del comportamento organizzativo equivale quindi per Simon ad un'analisi delle decisioni.
Il primo passo è la distinzione di due categorie di giudizi.
Simon distingue tra:
GIUDIZI DI FATTO: sono “descrizioni del mondo sensibile e del modo nel quale esso opera".
Sono dunque giudizi empirici di cui è sempre possibile verificare se sono veri o falsi.
GIUDIZI DI VALORE: esprimono l’opzione per uno stato di cose ritenuto desiderabile, e hanno
un valore etico e ottativo.
A differenza dei giudizi di fatto non possono essere giudicati come veri o falsi in quanto non
esistono mezzi per verificare empiricamente la loro correttezza, ma possono essere accettati o
rifiutati in base ad altre premesse di valore e non in base a criteri di verificabilità scientifica, in
quanto scienza ed etica rappresentano per Simon due dimensioni concettualmente distinte
dell’agire umano.
Distinguere questi due tipi di giudizi è semplice, ma diventa più complesso nel l'osservazione
concreta dei comportamenti umani, dove i due tipi di giudizi sono sempre compresenti e intrecciati.
Tale intreccio appare in modo particolare nelle decisioni.
Simon vede le decisioni come un processo in cui certi mezzi vengono scelti per raggiungere dati fini:
l’adeguatezza dei mezzi è oggetto di giudizi di fatto,
mentre la desiderabilità del fine è oggetto di giudizi di valore.
Un esempio può essere in campo militare: si può dare un giudizio tecnico sull'efficacia dei
mezzi militari per un attacco a sorpresa prescindendo dal giudizio di valore sulla liceità morale
di quell'azione.
Come in Weber alla razionalità rispetto allo scopo corrisponde la burocrazia, in Simon ai giudizi di
fatto corrisponde la scienza dell’amministrazione:
in entrambi i casi si prescinde dai giudizi di merito sulle finalità ultime dell'azione.
Weber vede una profonda tensione tra:
la razionalità rispetto allo scopo e quella rispetto al valore, e tale tensione è destinata ad
aggravarsi nel mondo moderno a causa della crescente potenza dei mezzi tecnologici.
Simon invece pone:
in relazione mezzi e fini, quindi giudizi di fatto e di valore:
nei concreti comportamenti umani esiste sempre un continuum mezzi-fini.
Ogni azione ha sempre 2 facce:
è al contempo un fine dell’azione precedente e un mezzo per l’azione successiva;
in quanto mezzo essa è soggetta a dei giudizi di fatto sulla sua idoneità a raggiungere un dato
fine, ed in quanto fine è soggetta a dei giudizi di valore.
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Così Simon opera una sottile distinzione:
ordini eseguiti sospendendo le proprie facoltà critiche.
ordini eseguiti in base al convincimento che sono opportuni perché si ha stima nei confronti di chi li
dà.
ordini eseguiti perché si è autonomamente convinti della loro opportunità di merito.
Tale distinzione è importante per comprendere il grado più o meno autoritario o democratico partecipativo
di un'organizzazione.
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Per dare un'idea della capacità esplicativa di questo modello bisogna esporre 3 punti.
a) Il primo punto è che vi è la possibilità che il fine dell’organizzazione sia cambiato.
Ciò può avvenire quando la coalizione maggioritaria dei membri che ricoprono ruoli direttivi decide
di migliorare il rapporto tra contributi e incentivi o quando si percepisce che il fine non corrisponde
più alle richieste dei clienti.
b) Il secondo punto è che esistono contributi diretti e indiretti:
sono diretti se i fini dell’organizzazione hanno un valore immediato e personale per i
membri che contribuiscono;
sono indiretti se sono risarciti con ricompense diverse dal raggiungimento del fine
organizzativo in sé.
La distinzione trova un facile riferimento nelle imprese dove:
il lavoro svolto dai proprietari è un contributo diretto,
Il lavoro svolto dai dipendenti è in prevalenza un contributo indiretto.
c) Il terzo punto riguarda la possibilità che gli incentivi alla partecipazione provengano non dal fine
generale perseguito dall’organizzazione, ma da un suo sub-obiettivo.
Anche questa possibilità appare scontata nelle organizzazioni economiche, dove varie persone sono
preposte a sub-obiettivi lontani dall'attività principale ma diventano per esse l'obiettivo primario.
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Tra il finire degli anni ’70 e i primi anni ’80 aumentarono le pubblicazioni dedicate a temi come:
la cultura organizzativa,
le cerimonie,
i simboli
e il senso che i soggetti attribuiscono alle proprie azioni.
Tali pubblicazioni rispecchiavano la nascita di un nuovo movimento di pensiero dove vi erano una pluralità
di scuole con nomi, origine teoriche e indirizzi di ricerca differenti.
L'unica opzione comune a tutto il movimento era la diffidenza per:
le conoscenze basate sugli aspetti quantitativi delle organizzazioni,
e la conseguente scelta degli approcci qualitativi o etnografici.
Si possono dunque chiamare:
morbidi: quegli approcci incentrati su aspetti culturali e cognitivi,
e duri gli approcci incentrati su fattori e interessi più materiali.
Bisogna tenere presente che il carattere duro o morbido degli approcci non coincide necessariamente con:
l'adozione di metodologie quantitative o qualitative:
METODI QUANTITATIVI: ci possono essere ricerche sulla cultura di una data popolazione fatte con
metodi quantitativi (es. interviste su un grande campione),
METODI QUALITATIVI: così come ricerche incentrate su condizionamenti strutturali e agire
strategico dei soggetti, condotte con metodi qualitativi.
Vi sono due tipi di approcci morbidi:
a) CULTURALISMO - FUNZIONALISMO NORMATIVO: concentra l'attenzione sulla cultura organizzativa
vista come la principale spiegazione dei fenomeni organizzativi.
b) COGNITIVISMO - FENOMENOLOGIA: concentra l'attenzione sui processi cognitivi e sul
conferimento di senso da parte dei soggetti.
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A partire da tale definizione, vi sono 3 aspetti fondamentali:
1. Il primo aspetto consiste nel concetto di cultura come un insieme di assunti fondamentali.
Schein intende affermare che la conoscenza di una cultura organizzativa si sviluppa mediante
un’analisi condotta a differenti livelli di profondità.
Al livello più visibile ci sono i cosiddetti artefatti (es. architettura, tecnologia o anche le espressioni
visibili del modo di comportarsi), ossia i prodotti osservabili che caratterizzano una data
organizzazione, ma che pur essendo visibili non per questo sono facilmente decifrabili.
Per Schein l'osservazione attenta degli artefatti è il primo passo dell'analisi organizzativa:
o si raccolgono le prime impressioni,
o si formulano le ipotesi di lavoro,
o si prepara il terreno per passare a un secondo e più approfondito livello di analisi.
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Tutti questi problemi hanno specificità che riflettono la storia dell'organizzazione e l'ambiente in cui opera.
Per affrontarli l'organizzazione sviluppa assunti che devono funzionare abbastanza bene da poter essere
considerati validi.
Questi assunti formano la cultura dell'organizzazione, di cui bisogna sottolineare due aspetti:
1. La cultura è sempre il risultato finale di un processo basato sulla ripetizione del successo, e ciò
porta a dare certe cose per scontate;
2. Gli assunti non garantiscono mai un funzionamento perfetto e definitivo, ma ricordano la
razionalità limitata di Simon:
o sono perfettibili e si evolvono continuamente perché mutano i problemi e si escogitano
delle soluzioni che risultano più efficaci di quelle precedenti.
Secondo Schein:
la cultura è sempre in continua formazione perché è sempre in atto qualche tipo di apprendimento
circa il modo di porsi in rapporto con l’ambiente e il modo di gestire gli affari interni.
Si crea così una tensione tra l'esigenza di conservare il patrimonio degli assunti formatisi con
l'esperienza precedente e l'esigenza di verificarli e adattarli alle novità che li sfidano.
Tale tensione è presente in ogni cultura organizzativa ed è compito della leadership gestirla.
La cultura non è soltanto un patrimonio condiviso dai membri già presenti nell'organizzazione.
Un requisito fondamentale per la sopravvivenza del gruppo è la trasmissione della sua cultura ai nuovi
membri.
La trasmissione può essere semplice di nuovi membri sono ancora giovani e non ancora
formati, mentre è più difficile se portano con sé idee e valori già acquisiti in altre esperienze.
In questi casi è possibile che siamo i nuovi membri a provocare cambiamenti nella cultura
dell'organizzazione in cui entrano.
Si pone così il problema di studiare i processi di adattamento reciproco tra:
o la cultura preesistente dell'organizzazione
o e i cambiamenti apportati dai nuovi membri.
Schein non dà una risposta preventiva perché sono dinamiche da studiare caso per caso.
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L’analisi deve essere integrata da un approccio che metta a fuoco tre aspetti:
1. I processi di socializzazione dei nuovi membri, ovvero come la cultura organizzativa viene
trasmessa, recepita e adattata.
2. Le risposte date ad eventi critici nella storia dell’organizzazione, risposte che formano un patrimonio
di ricordi che concorrono a formare l'identità collettiva dell'organizzazione.
3. Le anomalie o i tratti sorprendenti osservati o scoperti man mano che la ricerca procede.
Una cultura organizzativa può essere messa meglio a fuoco se si esaminano:
le irregolarità,
le devianze
e le tensioni latenti che in essa producono.
Infine va tenuto presente che questi elementi vanno ricondotti al modo in cui viene esercitata la leadership:
leadership
e cultura infatti sono due aspetti della stessa realtà.
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In questo quadro essi forniscono vari strumenti concettuali:
1. LA DISTINZIONE TRA EFFICACIA ED EFFICIENZA.
Sono due concetti già utilizzati ma a cui i nostri autori hanno dato un nuovo significato.
L’EFFICIENZA è definita come una misura interna di performance e riguarda il rapporto tra
la somma delle risorse utilizzate e i risultati che si ottengono, e non considera le valutazioni
di merito circa i beni prodotti o i servizi svolti.
L’EFFICACIA invece è una misura esterna di natura socio-politica e riguarda l’abilità
dell’organizzazione nel raggiungere risultati o nel compiere azioni accettabili dall’ambiente
in cui opera.
Misura il grado in cui l’organizzazione soddisfa le domande che le sono rivolte da altre
organizzazioni o da gruppi esterni.
L'efficacia di un'organizzazione si manifesta nel farsi socialmente accettare e approvare,
pone un problema di legittimità nel produrre ciò che si produce e nell'agire come si agisce.
Efficacia ed efficienza sono due dimensioni indipendenti l’una dall’altra.
Un’organizzazione può avere:
un’alta efficienza e una bassa efficacia quando i suoi profitti sono alti ma con una forte
opposizione al suo operato;
può avere inoltre un’alta efficacia e una bassa efficienza se compie attività socialmente
approvate ma con bassi profitti.
2. L'AMBIENTE IN CUI UN'ORGANIZZAZIONE opera è formato da altri enti e organi che formulano
domande nei confronti dell'organizzazione in questione.
Ma le domande sono spesso contrastanti, e l'organizzazione deve scegliere quali domande
soddisfare, con una scelta non casuale ma connessa all'esigenza di reperire le risorse necessarie
alla sopravvivenza.
Un’organizzazione dunque non può sopravvivere se non è capace di acquisire le risorse necessarie:
ma non può sopravvivere neanche se non è capace di soddisfare almeno una parte delle
domande che le provengono dal contesto in cui opera.
Questa visione del rapporto tra organizzazione e ambiente porta a varie conseguenze:
Il concetto di ambiente attivato (enacted environment), che Pfeffer è Salancik prendono
da Weick.
Se un'organizzazione porta avanti una politica, allora l'ambiente in cui opera non è una
realtà immodificabile ma è in larga parte plasmato dall'organizzazione stessa.
Le organizzazioni cercano di controllarsi a vicenda e l'effetto complessivo sono le loro
crescenti interdipendenze.
L'interdipendenza è ambivalente:
da un lato favorisce azioni coordinate e dunque aumenta il potere di intervento
sull'ambiente;
dall'altro impone mediazioni e impedisce ai singoli soggetti di ottenere risultati pienamente
conformi alle loro volontà.
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A differenza di:
Schein (per cui l'oggetto di studio è la cultura organizzativa come patrimonio oggettivamente dato
dall'esterno),
secondo Weick l’oggetto di studio sono i processi cognitivi attraverso cui i soggetti danno senso ai
loro flussi di esperienza.
Di conseguenza la cultura, come qualsiasi altra realtà esterna, prende senso solo attraverso
processi cognitivi dei soggetti.
Per Weick non esiste nulla al di fuori dei flussi di esperienza e le categorie interno/esterno e
dentro/fuori hanno una natura puramente logica, di scansione della realtà per darle significato.
La tesi di Weick:
è che il mondo esterno non possiede un suo senso intrinseco: ha sempre e soltanto il senso che noi
gli attribuiamo.
Alla nostra mente arriva un flusso di esperienza caotico ed informe, al quale noi diamo ordine e
forma man mano che procede il processo cognitivo.
In questo processo sviluppiamo delle deduzioni che vengono sistemate in “mappe casuali” cioè in
costruzioni dotate di senso e di ordine logico.
Tali mappe, dette anche mappe cognitivo-normative predispongono il nostro comportamento futuro e
sono a loro volta a modificate dall’ininterrotto flusso la nuova esperienza.
Dare senso e organizzare sono due facce della stessa medaglia, sono uno la metafora dell'altro,
dunque sono la stessa cosa.
Per capire questa equivalenza bisogna ripercorrere l'analisi che Weick fa dei processi di creazione di senso.
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All’interno dei processi di creazione di senso, si possono individuare tre fasi:
ATTIVAZIONE:
in questa fase il soggetto interagisce con il materiale grezzo della sua esperienza, individua in esso
strutture e connessioni, e così facendo gli conferisce un senso (ambiente attivato). Non è detto che
però l'attivazione dell'ambiente porti alla chiarezza assoluta.
Qualsiasi ambiente attivato conserva sempre dei margini di ambiguità, così la creazione entra nella
fase successiva.
SELEZIONE:
in questa fase vengono eliminate molte delle ambiguità, confusioni e incertezze interpretative
prodotte durante l’attivazione dell’ambiente.
Esiste il rischio di una selezione eccessiva, in quanto se l'ambiguità venisse totalmente eliminata si
otterrebbe un ambiente rigido e scomparirebbe ogni spazio per l'innovazione.
Dunque affinché ci sia innovazione, occorre che nell’ambiente attivato permanga un margine di
ambiguità perché solo così possono nascere delle interpretazioni alternative a quelle prevalenti e
più conosciute.
RITENZIONE:
Tutte queste ambivalenze mostrano quanto sia problematico il processo di creazione di senso e di
organizzazione.
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Weick afferma che tutto ciò che siamo abituati a pensare come una realtà esterna a noi non esiste se non
all’interno dell’esperienza dei soggetti che le esperiscono.
L'organizzazione non è un'entità dotata a priori di strutture formali che esistono al di fuori dei soggetti.
1. Il primo punto:
Il fatto che la realtà è prodotta dal conferimento di senso da parte dei soggetti non significa che la
realtà stessa sia plasmabile dai soggetti stessi.
L'ambiente attivato infatti:
o retroagisce potentemente sui soggetti che lo hanno attivato,
o li obbliga a prendere atto dei suoi vincoli e a comportarsi di conseguenza.
Quell’ambiente ci condiziona per il semplice fatto che l'abbiamo attivato sulla base delle nostre
mappe cognitive.
La retroazione dell’ambiente sui soggetti che hanno attivato ha una diretta applicazione anche
nelle organizzazioni formali.
L’ambivalenza dell’ambiente attivato suggerisce Weick considerazioni particolari penetrati sulla
tecnologia.
La tecnologia è la capacità umana di ottenere da quel computer prestazioni insospettate ai suoi
stessi costruttori.
2. Il secondo punto:
Alcune persone dotate di particolare potere possono attivare ambienti che sono poi proposti come
lettura della realtà anche ad altre persone.
La possibilità di una lettura comune della realtà si basa sull’esistenza di centri di potere
sufficientemente autorevoli da fornire alle persone tanto specifiche mappe cognitive quanto
ambienti attivati in conformità a quelle mappe.
3. Il terzo punto:
È importante il concetto di connessione lasca (loose coupling) tra le varie parti di un processo
organizzativo.
Per lasca si intende una connessione che ammette un certo grado di autonomia tra le varie parti
che compongono un sistema.
Le connessioni lasche offrono molti vantaggi per la persistenza delle organizzazioni:
possono modificare delle parti senza che l’intero sistema sia coinvolto nel cambiamento.
Le connessioni lasche possono essere combattute e negate dalle autorità ufficiali ma ciò che
conta è il loro persistere di fatto nell’esperienza dei soggetti.
Ma l’aspetto più notevole è che tanto più i legami sono laschi, tanto più i soggetti sono portati a
impegnarsi in uno sforzo di costruzione della realtà sociale.
Quanto più laschi sono i legami tra:
le varie parti di un sistema,
tanto più è probabile osservare uno sforzo per conferire un significato retroattivo alle varie
parti lascamente collegate.
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Al principio della contrattazione sul mercato dunque si sostituisce la situazione i cui l'impresa si da
una struttura di governo per garantire un controllo diretto che le prestazioni già pattuite siano
effettivamente eseguite.
Williamson tuttavia avverte che tra mercato e gerarchia vi siano delle situazioni intermedie:
dove la specificità delle tecnologie
si combina con diversi tipi di salvaguardia contrattuale.
In questi casi le transazioni assumono forme ibride, come sub-commesse con parziale autonomia di
mercato, franchising etc.
Nel sistema capitalistico contemporaneo i contratti ibridi sono quelli più numerosi.
Mercato puro e gerarchia pura infatti sono sempre più casi limite.
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6. IDIOSINCRAZIA E FIDUCIA.
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Quello che è apparso il limite maggiore del modello di Williamson è stato individuato nel proposito
del modello di spiegare gli assetti organizzativi esclusivamente in termini di efficienza.
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Williamson trova la risposta nel fatto che raramente si realizzano dei contratti integrali ed esaustivi, specie
nel mercato del lavoro.
Williamson dunque riconduce il problema degli abusi padronali nel villaggio aziendale a una questione di
impossibilità di negoziare prima in modo esaustivo tutti gli aspetti del contratto di lavoro di lunga durata.
Se vi fosse più mercato i lavoratori avrebbero più garanzie perché si aprirebbe la possibilità di occupazioni
alternative a quella della compagnia mineraria.
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Il clan è un dispositivo di gestione che tiene conto dei sacrifici:
a breve termine di alcune parti in uno scambio,
e poi compensa adeguatamente gli individui in modo che venga ripristinato l'equilibrio a lungo
termine tra incentivi e contributi di tutte le parti.
Il clan si pone come la forma di governo più adatta per fronteggiare situazioni di ambiguità dove
altrimenti potrebbero sorgere tentazioni di comportamento opportunistico.
L'appartenenza allo stesso clan rende possibili, sulla base di una fiducia da onorare in futuro, delle
transazioni di lungo periodo che non sarebbero possibili in un governo di semplice mercato o semplice
burocrazia.
In un governo di clan la più grave sanzione sociale è perdere la reputazione di fronte agli altri
membri della comunità.
In questi casi un soggetto che ha trasgredito le regole del clan difficilmente può recuperare la propria
primitiva reputazione ed è di fatto cacciato dal mondo degli affari.
Per concludere bisogna sottolineare due punti:
1. Il primo punto, specifico dell'analisi organizzativa è che:
o mercato,
o burocrazia
o e clan
o possono coesistere nella medesima impresa.
Ouchi fa l'esempio di un'azienda in cui il reparto acquisti è regolato:
o da meccanismi di mercato,
o il magazzino da meccanismi di burocrazia
o e le carriere interne da meccanismi di clan.
2. Il secondo punto pone una questione più generale e riguarda il fatto che con la teorizzazione
del clan Ouchi non si limita a integrare il modello di Williamson.
Egli ci avverte che forme di capitalismo altamente sviluppato possono essere favorite da
requisiti tipici di società tradizionali in modo non previsto dal pensiero classico.
Weber indicava la ragione della superiorità della burocrazia sulle gestioni premoderne nella
universalità delle sue regole di funzionamento.
Il clan, strumento sofisticato di governo degli affari, avverte che l'universalità dei diritti non è un
requisito necessario per il successo economico.
Il fatto che l'efficienza economica possa prescindere dal criterio weberiano dell'universalità dei diritti e
doveri pone interrogativi sull'assetto ottimistico del pensiero occidentale che un’economia sviluppata
trova la sua forma istituzionale congruente nella democrazia politica.
L'analisi di Ouchi segnala che è possibile un altissimo sviluppo economico non accompagnato
dall'uguale sviluppo di una democrazia universalistica.
Ciò pone problemi sul rapporto tra efficienza e democrazia che trascendono il pensiero organizzativo,
investono il pensiero politico e saranno sicuramente al centro del dibattito economico e politico dei
prossimi decenni.
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Questa dimensione interessa direttamente anche la scuola neo-istituzionale:
o ma più che collocarsi in un campo piuttosto che nell’altro,
o la scuola mostra nel complesso una singolare ambivalenza.
Per un verso la sua attenzione ai fattori e ai vincoli istituzionali la fa apparire sul versante
oggettivista;
per un altro verso la scuola conosce anche dei momenti di fondazione soggettivista.
La scuola neo-istituzionale è ricca di autori, di ricerche e di dibattiti interni che non è possibile
farne un esame completo.
Powell e Di Maggio sono due autori che illustrano le ragioni del neo- istituzionalismo, pur collegandosi alla
tradizione classica della sociologia weberiana, individua oggetti di analisi innovativi rispetto al passato.
Essi spiegano che il prefisso neo-istituzionalismo riprende alcuni temi dell’approccio adottato da Selznick
negli anni ’50.
Selznick:
aveva assistito sul fatto che forze locali esterne condizionano le organizzazioni
e che per sopravvivere queste ultime devono accettare dei compromessi che le allontanano dal
perseguire razionale degli scopi per cui furono costituite.
Powell e Di Maggio ritornano a Selznick, ma in un contesto sociale diverso.
Il loro presupposto e che oggi non viviamo in una società popolata:
da istituzioni pubbliche e private
come agenzie di governo centrale e locale,
associazioni professionali,
organismi di rappresentanza e tutela di interessi, c
entri di diffusione del sapere come scuole e società di consulenza,
reti di mass media.
Nel loro insieme questi enti formano un campo organizzativo:
ossia un’area riconosciuta di vita istituzionale che svolge un’ininterrotta azione di normazione e di
controllo sull’attività di altri enti.
Le organizzazioni oggi operano in un tessuto strutturato e riconosciuto di vincoli e di sostegni e questa
condizione di normalità toglie all’azione delle forze esterne in quell’area conflittuale e drammatica che
accompagna l’analisi di Selznick.
L’aspetto su cui Powell e Di Maggio e i neo-istituzionalisti:
insistono non è più come per Selznick, il tradimento delle finalità originarie dell’organizzazione ad
opera di forze esterne,
ma sono le capillari e diffuse pressioni per conformarsi a standard riconosciuti,
il crescente isomorfismo che permea le attività sociali e le conseguenze positive e negative che ne
derivano nella struttura produttiva di un’impresa come nelle procedure bancarie per l’affidamento
di un credito, nei programmi di una stazione televisiva come nella carriera di un professionista.
Isomorfismo è un concetto che abbiamo incontrato nella teoria ecologica delle popolazioni organizzative,
ma nella scuola neo-istituzionalista assume un significato differente.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Secondo Powell e Di Maggio si possono assumere due tipi di isomorfismo:
2. QUELLO ISTITUZIONALE:
L’isomorfismo istituzionale non nasce dalla competizione tra le organizzazioni per conquistare
risorse e mercati scarsi, ma dalla preoccupazione di ottenere legittimazione sociale e appoggi
politici.
Nell’osservazione empirica sociale non è sempre possibile distinguere i due tipi di isomorfismo, dato che la
tendenza ad uniformarsi a spinte esterne si mescola facilmente con la lotta per accaparrare risorse scarse.
Powell e Di Maggio difendono l’opportunità di mantenere la differenza concettuale tra i due isomorfismi
con l’argomento che l’isorfismo istituzionale è uno strumento utile per comprendere i più recenti processi
di burocratizzazione della società.
Tali processi rendono le organizzazioni più simili tra di loro senza renderle più efficienti.
ISOMOFISMO COERCITIVO:
quando un’organizzazione è sottoposta a pressioni esterne che la obbligano a confrontarsi,
tipicamente vincoli di legge o clausole contrattuali da parte di organizzazioni più potenti.
Come ad esempio quelle impresse madre impone alle imprese fornitrici che lavorano su commessa.
ISOMORFISMO MIMETICO:
quando le organizzazioni di fronte all’incertezza dell’ambiente iniziano spontaneamente dei
processi imitativi.
In questi casi il non sapere come si svilupperà un dato processo induce un processo di imitazione
come surrogato di certezza (secondo il tipico ragionamento che se tutti fanno così, vorrà dire che
c’è una ragione ed è bene conformarsi).
ISOMORFISMO NORMATIVO:
nasce da processi di professionalizzazione.
I soggetti che guidano l’organizzazione apprendono in centri o in reti specializzate l’esistenza e la
convenienza di nuovi metodi di conduzione o di nuove tecnologie.
ISOMORFISMO PROFESSIONALE:
la scelta della novità non deriva da costrizione né da incertezza, ma dalla libera e ragionata
consapevolezza della superiorità delle nuove pratiche rispetto alle vecchie.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Nell’approccio entomologico non c’è bisogno di ricorrere al postulato funzionalista della interiorizzazione
di valori per spiegare l’origine dell’ordine sociale.
Ciò interessa agli etnometodologici è la conoscenza ravvicinata di ordine sociale viene percepita e
trasmesso nella vita quotidiana, partendo dalla constatazione che nel senso comune le istituzioni sono
esperite come strutture oggettive e resistenti.
Temi tipici dell’etnometodologia sono le analisi microsociologiche dove si riflette sulle interazioni
discorsive:
tra i soggetti sulla contrattazione di significato
tra i soggetti coinvolti in specifiche circostanze.
La Zucker rifacendosi alla etnometodologia, respinge l’ipotesi funzionalista che si possono conoscere le
istituzioni indipendentemente dai soggetti che le sperimentano, e fa proprio l’assunto che il livello macro-
sociale delle istituzioni e quello microsociale dei soggetti sono sempre intrecciati.
Il suo interesse di ricerca non è tanto quello di svolgere analisi microsociologiche della vita quotidiana, ma
quello di conoscere il ruolo delle istituzioni nella trasmissione di cultura da una generazione all’altra.
La Zucker parte dal presupposto che i soggetti percepiscono e descrivono la realtà sociale come una realtà
esteriore e oggettiva, e in questo modo la comunicano ad altri.
Un soggetto è spinto a conformarsi a ciò che le istituzioni prescrivono dal semplice fatto che in caso
contrario le azioni sue e degli altri non potrebbero essere comprese.
Quando si tratta di atti istituzionalizzati sostiene la Zucker è sufficiente che una persona dica ad un’altra
che le cose stanno in quel modo, non c’è bisogno di altre giustificazioni o appelli a valori più grandi.
Ciò si osserva con la massima chiarezza nella trasmissione di conoscenza sociale da una generazione
all’altra, ogni generazione, trasmettendo la sua esperienza, crede di descrivere la realtà oggettiva.
Ma è sbagliato, Zucker, considerare l’istituzionalizzazione soltanto come una realtà che c’è o non c’è, essa
va vista come un fenomeno a intensità variabile.
Il significato di un atto può essere percepito come più o meno esteriore ed obiettivo a seconda della
situazione in cui l’atto è compiuto dal ruolo ricoperto dal soggetto che lo compie.
Ad esempio, atti compiuti da un attore unico e particolare hanno un basso grado di istituzionalizzazione,
come risulta nei processi di influenza personale.
Atti compiuti da una persona che occupa uno specifico ruolo formale hanno un altro grado di
istituzionalizzazione.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Ma come era possibile sperimentale una ipotesi come quella su esposta, dal momento che i processi di
trasmissione di conoscenza sociale da una generazione all’altra durano decenni se non secoli?
La Zucker risolve il problema con una simulazione in laboratorio.
Invitò una popolazione di 180 persone (tutte donne) a un esperimento di percezione visiva e le divise in
quattro gruppi di 45 soggetti ciascuno.
Un gruppo venne impiegato come un gruppo di controllo, mentre gli altri tre gruppi servirono per
l’esperimento vero e proprio.
In tal modo tutti i gruppi furono sottoposti al medesimo esperimento, ma di volta in volta venivano aggiunti
elementi che rafforzavano il contesto formale del compito da svolgere.
Nel gruppo di prova i soggetti erano soli nella stanza dell’esperimento, non c’era nessun altro di cui
potessero osservare le risposte.
Nel primo gruppo i soggetti si limitavano ad assistere alle risposte di chi li aveva preceduti, e ciò
avrebbe potuto costituire un fattore di semplice influenza personale nel momento in cui toccava a
loro sottostare all’esperimento.
Nel secondo gruppo entrava in gioco un fattore istituzionale debole perché ai soggetti era detto
che formavano un team paritario con chi le precedeva.
Il terzo gruppo entrava in gioco un fattore istituzionale forte perché ai soggetti era detto che erano
inseriti in una struttura gerarchica di ufficio con responsabilità formali ben stabilite da trasmettere
da un soggetto all’altro.
L’esperimento si proponeva di verificare se man mano che si rafforzava il contesto istituzionale in cui si
svolgevano le prove, aumentava nei soggetti la tendenza ad imitare le risposte fornite da chi li aveva
preceduti.
Ma il trucco dell’esperimento consisteva nel fatto che:
a) La persona che si trovava già nella stanza non era, come le persone reclutate per la prova
credevano, una di loro ma era una collaboratrice dell’Istituto in cui la Zucker svolgeva
l’esperimento;
b) Alla collaboratrice era stato detto di dare risposte in cui i movimenti della luce erano giudicati da
tre a quattro volte superiori a quelli reali.
Lo scopo dell’esperimento era quello di verificare la misura in cui una manipolazione culturale, che
contrastava con la percezione visiva dei soggetti sottoposti alla prova, veniva recepita da questi soggetti
come risposta giusta, e quindi limitata.
I responsabili dell’esperimento decisero anche che questa tendenza sarebbe stata misurata in una
concatenazione di tre prove:
dalla collaboratrice al primo soggetto,
dal primo al secondo,
e dal secondo al terzo che si succedono nella stanza.
Ogni prova stava a simboleggiare una generazione nel processo di trasmissione intergenerazionale di un
contesto culturale.
I risultati confermavano pienamente l’ipotesi teorica.
Dopo l’esperimento venne chiesto a tutte le partecipanti di rispondere a un questionario di tre domande:
La prima domanda riguardava il loro grado di sicurezza nell’avere risposto in modo accurato alle
prove compiute.
La seconda domanda riguarda il grado percepito di difficoltà nello stimare la distanza della luce.
La terza domanda riguarda l’opinione delle partecipanti sul grado in cui ogni persona sottoposta
alla prova aveva dato risposte uguali.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Le risposte ottenute confermano che quanto più forte era stato il contenuto istituzionale percepito, tanto
maggiore era la sicurezza di avere risposto bene, minori le difficoltà incontrate nel rispondere e più diffusa
l’opinione che tutte le partecipanti avessero dato risposte simili.
I risultati avevano una grande rilevanza teorica poiché dimostravano che:
1. La certezza di un soggetto non proviene dalle sue percezioni sensoriali, ma dal sistema di credenze
con cui interpreta quelle percezioni;
2. Quando più forte un contesto istituzionale, tanto più il suo contenuto culturale è trasmesso senza
scostamenti, fornendo ai soggetti il quadro in cui interpretare la propria esperienza sensoriale;
3. Non sono le difficoltà nella soluzione di un problema a generale incertezza, al contrario è la
certezza delle credenze fornite dal quadro istituzionale a ridurre le difficoltà;
4. Quanto più un soggetto percepisce solido il quadro istituzionale in cui si trova, tanto più egli si
attende che anche gli altri soggetti diano risposte conforme alle sue.
L’esperimento dimostra l’importanza di tenere in primo piano nelle analisi di Zucker la base teorica per un
vasto programma di ricerche in cui l’approccio a livello microsociale diventa parte integrante e
complementare dell’approccio a livello macrosociale.
Il contributo dato da Meyer e ROWAN nel 1977 nello sviluppo della scuola istituzionale può essere
considerato complementare a quello dato da Lynne Zucker.
Zucker studia:
il ruolo svolto dall’istituzionalizzazione nella persistenza dei modelli culturali quando questi
vengono trasmessi da un gruppo sociale a un altro.
Meyer e ROWAN esaminano:
il crescente conformarsi dell'organizzazione all'ambiente istituzionale circostante.
La loro tesi:
è che a causa di questo processo di isomorfismo
le organizzazioni si danno spesso delle strutture formali che non sono altro che mito e cerimonia.
Meyer e Rowan avevano appena concluso una ricerca sulla struttura del sistema scolastico americano.
In questa ricerca essi erano partiti dalla osservazione di WEICK che il concetto di connessione lasca (loose
coupling) è adatto a esprimere lo scarso coordinamento:
tra la sfera didattica
e la e la sfera amministrativa della scuola.
Questa separatezza riflette l'impossibilità di compere controlli di merito sugli effetti che l'insegnamento a
nella formazione degli studenti.
Si va a sopperire impossibilità dal sistema scolastico adottando procedure sostitutive nella presunzione che
queste garantiscano efficacia all’insegnamento.
L’istruzione osservata da Meyer e Rowan, diventa un’insegnante certificato che insegna un argomento
scandalizzato e ricorrente a uno studente registrato in una scuola accreditata.
La reale efficacia di quei parametri non potrà mai essere verificata, si deve riconoscere che essi
rispecchiano soltanto le convinzioni socialmente approvate su che cosa sia l'efficacia formativa.
Il criterio per valutare la qualità e l'efficacia di una data scuola non è allora altro che il grado in cui essa si
conforma al cerimoniale delle procedure socialmente stabilite per onorare il mito di ciò che si ritiene sia la
qualità e l'efficienza dell'insegnamento.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Quanto più è alta la conformità, tanto più la scuola ha probabilità di ottenere fondi sussidi,
riconosci la reale efficacia di quei parametri non potrà mai essere verificata, si deve riconoscere
che esci rispecchia non soltanto le convenzioni socialmente a provate su che cosa sia l'efficacia
formativa.
Il criterio per valutare la qualità e l'efficacia di una data a scuola non è allora altro che il grado in cui essa si
conforma al cerimoniale delle procedure socialmente stabilite per onorare il mito di ciò che si ritiene se la
qualità e l'efficienza degli insegnamenti.
Quanto più è alta la conformità, tanto tu la scuola a probabilità di ottenere fondi, sussidi,
riconoscimento è che i suoi allievi, una volta terminati di studi, sono i più richiesti sul mercato del
lavoro.
Mi sistema scolastico rappresenta per Meyer e ROWAN uno dei più chiari esempi in cui la fonte del della
legittimazione non si trova in una valutazione intrinseche dell'attività svolta ma criteri esterni condivisi.
Meyer e ROWAN si propongono di pervenire a un modello teorico più generale.
Il loro punto di partenza è la critica alla scuola classica da Weber a PARSONS, che la struttura
formale di un’organizzazione sia il modo più efficace di coordinare e controllare il complesso delle
attività lavorative che si svolgono al suo interno.
Le organizzazioni operano in contesti altamente istituti istituzionalizzati che stabiliscono i criteri di
razionalità al cui le organizzazioni devono attenersi.
I criteri di razionalità sono stabiliti all'esterno delle organizzazioni apre una prospettiva di ricerca
totalmente nuova sulle pressioni alla conformità che il contesto istituzionale esercita sulle organizzazioni
nonché sui possibili conflitti tra le regole di origine esterna e criteri interni di efficienza che l'organizzazione
dovrebbe seguire in rapporto alle sue specifiche caratteristiche.
Le pressioni istituzionali alle conformità:
hanno come risultato isomorfismo tra le organizzazioni e ambiente.
Nell'esame del sistema scolastico era già emerso che un fattore di isomorfismo e la convenienza di molte
organizzazioni ad incorporare le regole esterne come un proprio elemento strutturale.
Meyer e Rowan sviluppano l’argomento:
nella società moderna l’isomorfismo non nasce dalla tendenza delle organizzazioni esistenti ad
adattarsi all’ambiente esterno,
ma trova la sua radice nel fatto che l’ambiente stesso ad operare affinché nascano nuove
organizzazioni volte a perseguire fini che l’ambiente considera auspicabili.
Una caratteristica della società moderna:
da un lato le reti di relazione diventano sempre più complesse e
dall'altro si moltiplicano le regole istituzionali che apre scrivono sempre nuovi campi di attività
razionalizzata.
Meyer e Rowan ne trovano la ragione nella diffusione di alcune possenti:
regole istituzionali che fungono da MITI RAZIONALI.
Con questa espressione essi intendono MITI LEGITTIMATI:
dal presupposto di essere razionalmente efficaci,
o anche legittimati in base a mandati legati.
In genere i miti:
nascono da interessi che si perpetuano diventano regole istituzionali.
I miti indicano:
sia ai fini che è auspicabile raggiungere e
sia i mezzi razionali più adatti per raggiungerli.
Affermarsi di un mito porta così a creare nuovi campi di attività razionalizzata dove nuove organizzazioni
formali nascono per soddisfare i bisogni alimentari da quel mito.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
La crescente burocratizzazione della società può essere vista come l'effetto della diffusione:
DEI MITI RAZIONALIZZATI.
Meyer e ROWAN sono consapevoli che nella sua forma estrema l’approccio istituzionale porta a concepire
le organizzazioni non come unità autonome in rapporto con l’ambiente, ma come semplici manifestazioni
dei miti istituzionalizzati che pervadono le società moderne.
Esistono due tipi di organizzazioni:
le prime sono organizzazioni che non dispongono di criteri intrinseci di efficienza e che soprattutto
grazie alla capacità di adeguarsi alle esigenze cerimoniali prescritte dagli ambienti istituzionali.
Le seconde possiedono criteri intriseci di efficienza che devono essere in qualche modo rispettati e
soprattutto grazie alla capacità di gestire in modo autonomo le proprie reti di attività e di
relazione.
Sono le organizzazioni del secolo tipo a porre i problemi teorici più interessanti.
Il fatto è che debbano rispettare i criteri di efficienza interni non esclude che siano anche oggetto di
pressioni istituzionali per conformarsi a regole e cerimoniali di fonte esterna che spesso contrastano con la
logica dell’efficienza.
Meyer e ROWAN indicano tre vie:
la prima è di resistere alle esigenze cerimoniali, ma con il rischio che si perdano fonti di risorse e di
stabilità.
La seconda è di conformarsi alle prescrizioni esterne, ma con il rischio che l’impresa fallisca perché
le organizzazioni non devono soltanto conformarsi ai miti, devono anche preoccuparsi di
funzionare.
La terza via è quella di ammettere l’incoerenza tra la struttura formale e le esigenze tecniche, ma
con il rischio di minare la legittimità dell’organizzazione.
Meyer e ROWAN suggeriscono:
una quarta possibilità: Essa consiste nello sviluppare due strutture parallele:
o una formale: che serve a rispettare la facciata dei cerimoniali esterni
o una informale: che serve a far funzionare le cose nel retroscena seguendo le regole
dell’efficienza.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
La scuola neo-istituzionalista ha accumulato un vasto corpus di conoscenze sui più svariati aspetti della
società occidentale, privilegiando le analisi dei mutamenti istituzionali di lungo periodo e delle loro
interconnessioni con l’organizzazione sociale.
La scuola ha dimostrato la validità del suo approccio anche nell’analisi di società non occidentali, e di
particolare rilevanza è il lavoro svolto da un gruppo di ricerca.
È possibile individuare in questa ricerca tre assunti:
1. Il primo assunto: è che l’analisi istituzionale rifiuta spiegazioni monocausali, ovvero rifiuta il
privilegiare un fattore esplicativo rispetto agli altri.
Per capire lo sviluppo economico di un paese non è sufficiente invocare la sua cultura o un’astratta
competizione di mercato.
Il principio capitalistico universale dell’economia come azione razionale orientata al massimo
profitto non è in grado di spiegare la differente organizzazione economica.
Bisogna partire dal presupposto che i modelli di corretto comportamento economico sono
socialmente costruiti.
Woolsey Biggart indica quattro assunti dell’analisi neosituzionale, tutti di derivazione weberiana.
Bisogna tenere presente che:
L’azione economica è un’azione sociale;
È intessuta (embedded) nel quadro istituzionale;
La logica delle istituzioni ha un ruolo centrale per comprendere le azioni sociali;
L’analisi neo- istituzionale si sviluppa a molteplici livelli.
2. Il secondo assunto: è che considerare l’organizzazione economica come intessuta nel quadro
istituzionale di un dato paese equivale a sostenere il suo isomorfismo rispetto a quel quadro.
Ne discende che la scuola dello sviluppo economico piuttosto che le uniformità.
Essa sottolinea la varietà dei capitalismi.
3. Il terzo assunto: è che nonostante le differenze nazionali, la ricerca di Orrù e Coll trova in quei
paesi un tratto comune.
A differenza di quanto sostenuto da Meyer e Rowan per l’Occidente, non esiste contrasto tra la
logica dell’efficienza di mercato e la logica delle istituzioni.
Le logiche convengono armoniosamente nel plasmare le forme organizzative.
Gli adattamenti alle istituzioni non conducono le imprese a una perdita di efficienza, al contrario i
tratti istituzionali delle imprenditorie dei tre paesi rappresentano il principale fattore del loro
successo economico.
Queste premesse definiscono il quadro concettuale in cui i ricercatori sviluppano la loro analisi
empirica.
Si osserva un isomorfismo tra i gruppi di affari e paese d’appartenenza.
Il carattere comunitaristico del capitalismo giapponese nasce, secondo i ricercatori, dal fatto che tutti i
gruppi economici sono formati da un’impresa madre che integra verticalmente una rete di imprese minori
appartenenti allo stesso settore.
La ricerca di Orrù e Coll, è importante non solo perché illustra tre diverse forme di capitalismo asiatico, ma
anche il metodo di analisi.
Questo si basa sulla premessa che il metodo astratto del capitalismo non contiene in sé le indicazioni
sufficienti per predire i tipi di società che si formano storicamente e consente di ipotizzare l’esistenza di una
pluralità di capitalismi.
Per avviare una ricerca su questo problema occorre partire dall’assunto che un contesto di istituzioni
politiche sociali e culturali favoriscono lo sviluppo di alcune forme organizzative piuttosto che di altre.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Il mercato non esiste per legge di natura ma è socialmente costruito.
Le varie economie:
non si sviluppano secondo meri criteri di efficienza e di profitto,
ma secondo un particolare contesto istituzionale.
I rapporti d’affare rispecchiano specifiche strutture normative che sottostanno all’attività economica e che
garantiscono l’ordine del mercato.
Naturalmente le imprese operanti in economie capitalistiche ricercano il massimo profitto:
ma differenti principi di controllo,
non solo economico ma istituzionali come lo Stato,
le comunità intermedie e la famiglia operano in ogni società.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Il modello basato sulla diffusione presuppone:
una società omogenea,
centralizzata,
gerarchica,
dove le persone hanno un ruolo di trasmettitori passivi,
Il modello basato sulla traslazione presuppone:
una società aperta,
differenziata,
reticolare,
dove tutte le situazioni locali sono dei punti interconnessi a livello comunicativo.
Lo spazio/ tempo globale, scrive Czarniawska, non si contrappone agli spazi/tempo locali, esso è solo un
reticolo esterno di punti locali.
Le idee non viaggiano solo nello spazio, esse viaggiano anche nel tempo:
idee ferme: in vecchi testi possono tornare a viaggiare, non appena qualcuno riscopre, le aggiorna e
le reimmette in qualche punto del reticolo mondiale delle comunicazioni.
Le idee non viaggiano nella forma di concetti astratti.
La Czarniawska suggerisce che bisogna tenere presente l’etimologia del nome idea, che deriva dal verbo
vedere.
Ogni idea presa nel suo significato originario suggerisce:
una visione,
un’immagine.
Un’idea è tanto più forte quanto è più vivida l’immagine che essa evoca.
E queste immagini possono essere:
figure, suoni, modelli, qualunque artefatto mentale dotato di una forma, sia pure abbozzata.
Sono queste immagini ad attivare l’attenzione delle persone, a spingerle ad agire per materializzare
le idee in oggetti e in corsi di azione.
Il viaggio delle idee è un processo proteiforme:
nel tempo e nello spazio,
dove le immagini spostamenti da un ambiente all’altro si materializzano in oggetti,
in azioni,
e talvolta in istituzioni,
da cui nascono nuove immagini.
La spirale è la metafora che meglio suggerisce questo movimento.
Le idee non si muovono da sole:
a farle muovere sono le persone spesso legate in reti comunicative che sembrano assumere
dimensioni sovraumane.
Il cambiamento, dentro e fuori e organizzazioni, è l’effetto del viaggio delle idee.
Proprio per questa ragione il cambiamento è programmabile:
le idee materializzate procedono come valanghe.
Una caratteristica del viaggio delle idee è l’imprevedibilità.
Un’idea:
può nascere
o può essere scoperta
o riscoperta in qualsiasi posto,
può essere ripresa e rimbalzare altrove inserendosi in contesti diversi da quello originario.
Per viaggiare, non è necessario che l’idea si materializzi in un’azione:
talvolta essa si innesta in un corso di azioni già esistenti,
facendo cambiare significato a quelle azioni.
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BONAZZI – STORIA DEL PENSIERO ORGANIZZATIVO
Un potente aiuto al viaggio delle idee sono i grandi eventi:
anniversari di fatti storici importanti diventano spesso l’occasione di celebrazioni e festeggiamenti
in cui cospicui fondi vengono spesi per dare corpo a idee che non hanno nulla a che vedere con il
significato originario di quell’evento.
Il viaggio delle idee è connesso ai fenomeni della moda.
Nel campo del management sono noti i fenomeni di moda, come quando nuovi modelli organizzativi
vengono lanciati come i dernier cri, la soluzione definitiva ad annosi problemi di gestione:
salvo l’anno dopo scoprire nuove mode che rendono obsolete quelle che furoreggiavano l’anno
prima.
Barbara Czarniawska entra nel campo di Meyer e Rowan, ma vi apporta alcune modifiche rilevanti.
Meyer e Rowan sottolineano il fatto che le pressioni esercitate dalle istituzioni esterne portano
spesso le imprese ad agire in base a criteri di conformità all’ambiente piuttosto che di efficienza.
Ossia le imprese sono spesso portate ad adottare modelli, pratiche e tecnologie non perché siano
effettivamente utili ma per trovare legittimità e consenso nell’ambiente in cui si trovano ad agire.
Barbara Czarniawska approfondisce le argomentazioni di MEYER e ROWAN introducendo il
concetto di moda.
Le pressioni all’isomorfismo esercitate dall’esterno sono interrotte ma i suoi contenuti specifici cambiano
continuamente perché seguono la moda.
Le novità proposte dal mondo della consulenza pongono i management di fronte a un arduo compito,
perché se:
da un lato essi devono tenere aggiornate le proprie imprese,
dall’altro devono anche saper discendere il grano delle cose utili e durare dalla crusca delle mode
effimere.
In genere si suppone che tra istituzioni e mode non ci sia nulla in comune, perché la persistenza delle
prime appare diametralmente contraria alla fugacità delle seconde.
Barbara Czarniawska dimostra che non è così, mode e istituzioni sono intimamente interconnesse:
Da un lato alcune mode possono imporsi come delle idee- guida che persistono nel tempo fino a
trasformarsi in istituzioni.
Dall’altro sono le istituzioni stesse che per sopravvivere producono mode.
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