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Lezioni Metodologia e Tecniche della Ricerca Sociale

Metodologia e tecniche della ricerca sociale (Università degli Studi di Trento)

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METODOLOGIA E TECNICHE DELLA RICERCA SOCIALE


22.02.2020 – lezione 1

“Without data you’re just another person with an opinion” (William Edwards Deming)

Ciò che dobbiamo fare quando ci occupiamo di ricerca sociale è lavorare e costruire con i dat in modo da
poter analizzare la realtà sociale sulla base di evidenze empiriche e non di opinioni personali o evidenze
aneddotiche.

Questo corso ci permette di costruire i dati, ci insegna a ragionare sulle procedure e le tecniche che ci
permettono di analizzare la realtà sociale e politica sulla base di evidenze empiriche e delle nostre opinioni
personali e dei nostri valori.

Cosa è la metodologia?
È lo studio del metodo: regole, principi, condizioni alla base della ricerca scientifica.

Quali sono le tecniche?


- specifiche procedure operative;
- tecniche di rilevazione e analisi dei dati.

23.02.2021 – lezione 2

I paradigmi e le tre “questoni” della ricerca sociale

Il concetto di paradigma, che deriva fondamentalmente dallo studio delle scienze naturali, è di difficile
applicazione nelle scienze sociali. Tuttavia, è comunque importante osservare, utilizzare e capire questo
termine perché ci permette di differenziare i diversi approcci che guidano la ricerca sociale stessa.

L’accezione più moderna del termine “paradigma” è stata data dal filosofo della scienza Kuhn nel libro “La
struttura delle rivoluzioni scientifiche” (1962), un volume che studia e analizza lo sviluppo storico della
scienza, come essa progredisce e avanza.

Come progredisce la scienza? Avanza in modo progressivo e lineare o ci sono altre dinamiche? La scienza è
un’accumulazione di sapere o ci sono altre interpretazioni?

Kuhn critica fortemente la visione lineare e progressiva sostenendo, al contrario, che nello sviluppo delle
discipline scientfiche si verifichino delle “rivoluzioni scientfiche” che rappresentano dei cambiament di
paradigma. Secondo la sua visione, dunque, attraverso le “rivoluzioni” si passerebbe da un tpo di
interpretazione dei fenomeni ad un altro, completamente diverso. In altre parole, si riscriverebbero i
confini dello studio di un determinato oggetto  passaggio da una visione teorica ad una nuova visione
teorica con la quale si accompagnano nuovi strumenti concettuali e analitici e, di conseguenza, una nuova
interpretazione dei fenomeni di riferimento

I paradigmi sono delle visioni coerent e interpretatve che permettono di identficare i problemi rilevant
all’interno di una disciplina e di spiegarli attraverso determinate tecniche.

“Cambiamento dei problemi da proporre all’indagine scientifica e dei criteri con i quali la professione
stabiliva che cosa si sarebbe dovuto considerare come un problema ammissibile o come una soluzione
legittima a esso” (Kuhn, 1962)

Quando cambia il paradigma cambiano anche l’oggetto e gli strument di indagine.

Cosa intende Kuhn per “rivoluzione scientifica”?

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Secondo Kuhn esistono due fasi della scienza: la prima, detta “scienza normale”, rappresenta quella in cui si
verifica un’accumulazione progressiva e lineare del sapere all’interno di un paradigma e i fenomeni
vengono interpretati seguendo una determinata griglia teorica. Poi, tramite una “rivoluzione scientfica”, si
ribaltano i modi con cui fino a quel momento si erano interpretat determinat fenomeni e si passa ad una
nuova visione teorica. Dopo la “rivoluzione scientfica”, però, si torna ad una fase di “scienza normale” in
cui la scienza accumula il sapere a partire dal nuovo paradigma portato dalla “rivoluzione scientifica”.

Che cos’è un paradigma?

È una prospettiva teorica e non è una teoria. Il paradigma, infatti, non ci dice nulla della relazione tra le
variabili, è qualcosa di più ampio e più generale.

Il paradigma racchiude più teorie e, per questo, può essere concepito come una sorta di griglia
interpretatva.

Il paradigma che è una prospettiva teorica condivisa e riconosciuta dalla comunità di scienziati di una
determinata disciplina deve rappresentare qualcosa che non deve essere messo in discussione (es. in
medicina nessuno mette in discussione il fatto che il sistema circolatorio pompa il sangue a partire dal
cuore).

Le prospettive teoriche (= paradigmi), ovviamente, sono fondate su acquisizioni precedent: si studiano le


conoscenze e le acquisizioni precedenti con l’obiettivo di portare avanti le nuove scoperte e mettere in
discussione quelle precedenti.

Il paradigma opera indirizzando la ricerca in diversi aspetti: individua e sceglie i temi e i fatti rilevanti da
studiare, formula le ipotesi per spiegare il fenomeno osservato e definisce le tecniche di ricerca empiriche
necessarie allo studio del fenomeno d’interesse.

Il paradigma è una sorta di quadro teorico, una prospettiva ampia all’interno della quale possiamo trovare
sia spiegazioni sia oggetti interessanti da studiare e rilevanti per la disciplina stessa.

A cosa serve il paradigma?

Il paradigma rappresenta una sorta di guida per la scienza perché permette di individuare i problemi, le
tecniche e le ipotesi rilevant.
Il paradigma è una visione del mondo che abbraccia un aspetto di una disciplina e ne determina lo sviluppo.

* Una delle maggiori “rivoluzioni scientifiche” nella storia della scienza è il passaggio dal paradigma
Tolemaico a quello Copernicano. Il passaggio dalla visione geocentrica a quella eliocentrica ha modificato
radicalmente la nostra concezione dello spazio e dei moti degli astri (da quel momento lo studio dei copri
celesti non è stato più lo stesso).

Quando avviene una “rivoluzione scientfica” all’interno di una determinata disciplina cambiano le lent
attraverso le quali guardiamo alla disciplina stessa, cambiano gli strument concettuali (e non solo quelli
tecnici) che vengono utilizzati per studiare la disciplina.

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Una volta superata la fase rivoluzionaria la disciplina torna ad una fase di “scienza normale”. In questa fase
la scienza procede in modo lineare e cumulativo: non ci sono scoperte, si approfondiscono gli aspetti che il
paradigma ritene interessant. Come sostenuto da Kuhn, infatti, il compito principale della scienza sociale
non è quello di scoprire nuovi generi di fenomeni ma, piuttosto, quello volto all’articolazione dei fenomeni e
delle teorie già presenti. Le fasi rivoluzionarie sono rare, quello che accade normalmente nella scienza è
un’accumulazione progressiva e lineare.

“Il compito della scienza normale non è affatto di scoprire nuovi generi di fenomeni […] la ricerca nell’ambito
della scienza normale è invece rivolta all’articolazione di quei fenomeni e di quelle teorie che sono già fornite
dal paradigma” (Kuhn, 1962)

Kuhn, però, sostiene che il concetto di paradigma possa essere applicato soltanto alle scienze mature,
ovvero scienze che hanno una grandissima storia (scienze naturali e sociali).
Da sempre l’uomo si interroga, in modo filosofico (e non sistematico), sui fenomeni sociali. Lo studio dei
fenomeni sociali, infatti, avviene attraverso argomentazioni, senza l’utlizzo di dat empirici.
Nel momento in cui le scienze sociali hanno introdotto dei metodi specifici per indagare e studiare i
fenomeni di cui si occupano sono diventate discipline con un carattere scientifico maggiore rispetto a prima.

Qual è la differenza tra scienze naturali e scienze sociali? Le scienze sociali, a differenza di quelle naturali,
nascono a cavallo tra il XIX e il XX secolo e studiano le azioni e i comportament umani con le loro
conseguenze.

Possiamo applicare il concetto di paradigma alle scienze sociali? - Esiste un approccio condiviso nelle
scienze sociali?

Kuhn sostiene che le scienze sociali, ad eccezione dell’economia, siano scienze pre-paradigmatche, ovvero
non siano ancora arrivate a quel grado di maturazione che permette loro di essere studiate in modo
univoco, attraverso un paradigma riconosciuto dai membri della comunità che permetterebbe loro di
identificare i problemi rilevanti da studiare e le ipotesi di ricerca.
Le scienze sociali possono anche non essere considerate necessariamente pre-paradigmatiche ma mult-
paradigmatche, seguendo l’idea in base alla quale non esiste un’unica prospettiva teorica condivisa ma ve
ne sono più di una (es. paradigma struttura-funzionalista e paradigma marxiano).
* Mentre il paradigma struttural-funzionalista utilizza i concetti di struttura e di funzione per spiegare
come le società sono organizzate e i fenomeni sociali, il paradigma marxiano applica l’idea del conflitto ad
una serie di fenomeni sociali e politici (dal rapporto di classe al rapporto tra gli Stati [Stati dominanti e Stati
subordinati che entrano in conflitto tra loro]).

I paradigmi nelle scienze sociali possono essere visti come prospettive teoriche globali all’interno dei quali
troviamo una spiegazione generale di fenomeni che può essere declinata e approfondita in base all’oggetto
specifico che si sta studiando.

Cosa fanno questi due paradigmi nelle scienze sociali?


I paradigmi nelle scienze sociali orientano lo studio, ovvero indirizzano e organizzano la riflessione teorica
ed empirica.

Perché all’interno del paradigma troviamo delle tecniche e una metodologia?

Da dove nasce la metodologia? E da dove nascono le procedure operative?

Se consideriamo il paradigma come una visione che struttura il mondo e orienta la ricerca allora potremmo
scegliere tra un determinato approccio metodologico e un altro. Sono le visioni del mondo (= lenti
interpretative) che abbiamo, infatti, a determinare il metodo. Se pensiamo che la natura dell’essere umano

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sia conoscibile, interpretabile e sia di un determinato tipo questo influenzerà la scelta delle tecniche che
utilizzeremo per raccogliere i dati, studiare ed interpretare la realtà.
La scelta del paradigma determina indirettamente la scelta degli strument che si andranno ad utilizzare.

“Ogni procedura o strumento di ricerca è inestricabilmente intrecciato con particolari interpretazioni del
mondo che il ricercatore ha e con i modi di conoscere quel mondo che il ricercatore ha e con i modi di
conoscere quel mondo di cui il ricercatore fa uso. Usare un questionario o una scala d’atteggiamento,
assumere il ruolo di osservatore partecipante o costruire un campione casuale […] equivale ad accettare
delle concezioni del mondo che permettano l’uso di questi strumenti per gli scopi stabiliti. Nessuna teoria o
metodo d’indagine […] si giustifica da sé: la sua efficacia, la sua stessa qualifica di strumento d’indagine […]
dipende in ultima analisi da giustificazioni di tipo filosofico” (Hughes, 1982)

Quali sono i paradigmi fondativi della ricerca sociale?

Quando si ha a che fare con i problemi di metodo si hanno due paradigmi: prospettiva A e prospettiva B.

La prospettiva A fonda le sue radici nell’empirismo, nell’oggettivismo e nel positvismo. Si basa sul dato
empirico, sulla ricerca di generalizzazioni e sulla ricerca probabilistca della realtà.

La prospettiva B, invece, fonda le sue radici nell’umanismo, soggettivismo e interpretatvismo. Con questa
prospettiva si pone l’uomo (essere umano) al centro dello studio e non lo si tratta come un oggetto delle
scienze naturali. Quando si studia l’uomo, infatti, non si sta studiando un atomo, una particella ma un
soggetto che ha un suo contesto culturale, un suo bagaglio valoriale e caratteriale, che vive in un
determinato ambiente e che si relaziona con gli altri.

Queste due prospettive sono alternatve e non ve ne è una più importante dell’altra, partono
semplicemente da assunti diversi, utilizzano lenti interpretative diverse che rispecchiano la visione di
ciascuno relativamente alla natura della realtà sociale.

Per comprendere queste due prospettive dobbiamo porci tre domande fondamentali che riguardano la
realtà sociale: 1. La realtà sociale esiste?; 2. È conoscibile?; 3. Come è conoscibile?.

Si tratta di tre domande estremamente collegate tra loro che pongono delle questioni in merito all’ essenza,
alla conoscenza e al metodo di studio della realtà sociale.

1. La realtà sociale esiste? Quello che vedo è ciò che è o nasconde qualcos’altro che deve essere
indagato ulteriormente?
2. È conoscibile o è talmente complessa da non poter essere compresa in toto?
3. In che modo è conoscibile? Come viene studiata?

Quando riflettiamo su essenza, conoscenza e metodo della realtà sociale ci focalizziamo su tre questoni:
questone ontologica, epistemologica e metodologica.

Questone ontologica

La questione ontologica riguarda il “Che cosa?” e, quindi, l’essenza della realtà, la natura della realtà sociale
e la sua forma.

Il mondo dei fatti sociali è oggettivo o soggettivo?


Il mondo dei fatti sociali è autonomo e interpretabile?
I fenomeni sociali sono cose in sé o rappresentazioni di cose?

Questone epistemologica

La questione epistemologica riguarda il rapporto tra chi e il che cosa, ovvero il rapporto tra chi studia e chi
viene studiato, e l’esito del rapporto. Questo implica il fatto che siamo portati a porci un problema riguardo

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la conoscibilità della realtà sociale e, in particolare, riguardo la relazione tra l’oggetto studiato e colui che
studia.

Il rapporto soggetto studiato e studioso è un rapporto di dipendenza o indipendenza? Possiamo studiare


la realtà sociale in maniera distaccata oppure, dato che facciamo noi stessi parte della realtà sociale, è
impossibile separare soggetto studiato e studioso?

La risposta a queste domande dipende anche dalla posizione che assumiamo rispetto alla questione
ontologica: se riteniamo che la realtà sia esistente e autonoma possiamo studiarla in modo indipendente
e, quindi, con distacco; se, invece, assumiamo che la realtà sia qualcosa di complesso per avvicinarci
all’interpretazione degli individui che studiamo dovremmo avvicinarci al soggetto stesso.

Questone metodologica

La questione metodologica riguarda il “Come?”

Anche la questione metodologica è determinata dalle due questioni precedenti: se assumo di poter
studiare la realtà sociale-politca come un qualcosa di indipendente allora utilizzerò le cosiddette
“tecniche manipolatve”; se, invece, assumo che ci sia interdipendenza tra soggetto studiato e studioso
utilizzerò delle tecniche più interattive che analizzano i processi che stanno dietro la realtà sociale.

Queste tre questoni determinano l’identificazione di due prospettive che derivano una dalla posizione
empirica-oggettivista-positivista e una da quella umanista-soggettivista-interpretativista. Si hanno, quindi,
due visioni opposte riguardo al modo in cui si può studiare la realtà sociale.

Il modo in cui possiamo studiare la realtà sociale dipende dal modo in cui intendiamo la natura della realtà
sociale stessa:

- posizione A secondo cui la realtà è oggettiva, conoscibile con distacco e con tecniche manipolatve;
- posizione B secondo cui la realtà è soggettiva, interpretabile attraverso tecniche interattive.

01.03.2021 – 3 lezione

Positvismo

Il positvismo, una corrente di pensiero nata a metà dell’Ottocento, vede come maggiore esponente della
prima ondata nel campo delle scienze sociali lo scienziato sociale Comte.
Comte ha come modello centrale per le scienze sociali quello delle scienze naturali. In altre parole, ritiene
che la società sia qualcosa di assimilabile ai fenomeni della natura e che, per questo, possa essere studiata
con gli stessi strument utilizzati nello studio di fenomeni fisici e naturali.

L’approccio positivista classico ha una grande fede nei confronti dei metodi delle scienze naturali. I
positivisti, infatti, sostengono che i fenomeni sociali possano essere studiati con gli stessi strumenti delle
scienze fisiche e che gli oggetti di studio siano assimilabili a quelli del “mondo naturale”.

Concetti utilizzati nell’approccio positivista:

- concetto di legge naturale;

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Una legge è una proposizione che afferma una relazione tra un fenomeno e un altro in maniera
deterministca (quando si è in presenza di un determinato evento questo produrrà una data conseguenza
in maniera assoluta). Si tratta di una concezione basata sul principio “causa-effetto” secondo il quale ogni
qualvolta che si riesce ad identificare una causa questa produrrà un determinato effetto. Secondo questa
prospettiva l’applicazione di leggi permette di identficare delle regolarità all’interno della società e di
spiegare diversi fenomeni sociali.

- concetto di verifica empirica.


I positivisti sostengono che senza l’utilizzo dei dati non siamo in grado di argomentare, di portare evidenza
empirica a favore di ciò che vogliamo testare. Secondo la loro visione, quindi, è necessario spiegare la
realtà sociale attraverso l’uso di dat (misurazione, tecniche di osservazione, variabili).

Un’altra caratteristica del positivismo è l’utlizzo di variabili, e cioè oggetti che sono la realizzazione
empirica dei concetti che vogliamo misurare. Se vogliamo misurare dei concetti che non sono direttamente
osservabili dobbiamo utilizzare delle procedure di operazionalizzazione, ovvero delle procedure che ci
permettono di rendere misurabili concetti non direttamente osservabili (intelligenza, devianza). Lo scopo
finale è quello di misurare i fenomeni sociali in modo più oggettivo possibile.

La conseguenza di questo approccio è che l’elaborazione dei dat è un’analisi di tpo statstco, basata su
modelli di tipo matematico. Esiste una serie di modelli che ci permettono di testare le relazioni tra variant
e, quindi, di trovare associazioni tra fenomeni, e cioè associazioni tra concetti misurati empiricamente.

L’assunto di fondo di questo paradigma (positivista) è che la scienza è universale/unica. Secondo questa
prospettiva, infatti, gli strument utilizzati nelle scienze sociali non sono diversi da quelli che usano fisici e
biologhi. La società è semplicemente un altro aspetto del mondo naturale.

Le scienze della società non sono diverse dalle scienze della natura

Le numerose scoperte e innovazioni scientifiche dell’Ottocento hanno portato gli studiosi a sostenere che gli
strumenti applicati alle scienze naturali potessero essere applicate anche al mondo sociale per produrre gli
stessi risultati.

In sostanza: i fenomeni sociali sono fenomeni naturali che possono essere studiat con gli stessi strument
e che, attraverso la loro analisi, possono portare alla scoperta di diverse regolarità e leggi in grado di
mettere ordine all’apparente caos.

Questa concezione è stata sviluppata anche da un altro scienziato sociale: Emile Durkheim.

Uno dei maggiori contributi di Durkheim in questo campo è l’aver considerato i fatti sociali come cose.

“Modi d’agire, di pensare, di sentire che presentano la [...] proprietà di esistere al di fuori delle coscienze
individuali [...]. Quando assolvo il compito di [...] marito o di cittadino [...] io adempio doveri che sono
definiti – al di fuori di me e dei miei atti – nel diritto e nei costumi. Anche quando essi si accordano con i miei
sentimenti, e io ne sento interiormente la realtà, questa non è perciò meno oggettiva: non li ho fatti io, ma li
ho ricevuti mediante l’educazione. Analogamente per ciò che riguarda le credenze e le pratiche della vita
religiosa, [...] il sistema di segni del quale mi servo per esprimere il mio pensiero, il sistema monetario che
impiego per pagare i miei debiti [...] le pratiche seguite nella mia professione” (Durkheim, 1895).

Cosa significa che un fatto sociale esiste al di fuori delle coscienze individuali?
Significa assumere che i fatti sociali non siano determinati dalla volontà e dall’azione umana ma che
esistano indipendentemente dall’uomo e che, per questo, possano essere studiat come fenomeni
naturali.
Alla base di questo approccio vi è la convinzione che esista una serie di fenomeni, assimilabili ai fenomeni
delle scienze naturali, che possono essere studiati in modo indipendente. Il fatto che il ricercatore si

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interessi a queste questioni non ne modifica l’aspetto, le caratteristche, il rapporto tra chi studia e l’oggetto
studiato.

Assumendo che i fatti sociali siano delle cose, assumeremmo anche che i fatti sociali abbiano le proprietà
delle cose del mondo naturale, cioè funzionino secondo regole proprie che devono essere scoperte.
Sapendo che un determinato fenomeno fisico accade in conseguenza di un altro allora, allo stesso modo,
potremmo pensare che un determinato fenomeno sociale accada in conseguenza ad un altro fenomeno
sociale. Ciò che dobbiamo fare è semplicemente cercare di capire come questi fenomeni siano collegati tra
loro e nel farlo dovremmo utilizzare gli strument delle scienze naturali poiché, secondo questa
interpretazione, i fenomeni sociali non sono soggetti alla volontà dell’uomo. L’uomo non è in grado di
modificarne il corso, ciò che può fare è studiarne le caratteristiche e cercare di scoprire una struttura
deterministca, ovvero le leggi che governano questi fenomeni.

Il mondo sociale è governato da leggi che noi non conosciamo e che gli scienziati sociali hanno il compito
di scoprire (gli scienziati sociali sono uno strumento di conoscenza).

La società è deterministca nella misura in cui ad ogni causa corrisponde un effetto, ovvero un fenomeno
sociale.

Ci sono tre conseguenze di questo pensiero:

1. la realtà è fuori dall’individuo;


2. la realtà si può studiare oggettivamente;
3. la realtà si può studiare con i metodi delle scienze naturali, per cui lo scienziato sociale deve
vestirsi da scienziato (naturale), non deve avere un atteggiamento diverso da quello che ha quando
studia un fenomeno fisico-naturale.

Come si colloca il positivismo relativamente alle tre questioni (ontologica, epistemologica, metodologica)?

Dal punto di vista ontologico il positvismo assume una posizione che è stata definita del “realismo
ingenuo” poiché non è possibile studiare la società come se fosse una realtà oggettiva e conoscerla
completamente nella sua essenza. Non è possibile di identificare una serie di leggi che governano il mondo
sociale che permettano di prevedere ciò che accade nella realtà sociale.

Dal punto di vista epistemologico il positvismo assume una posizione dualista e oggettivista. Si dice
dualista perché lo studioso e il soggetto studiato sono assunti come indipendent. Il fatto di studiare un
determinato oggetto non provoca alcuna reazione perché l’analisi viene fatta attraverso strument che si
assume non abbiano conseguenze sull’oggetto che si sta studiando, l’oggetto non viene influenzato nel
momento in cui viene studiato.

La metodologia, invece, utilizza strument di tpo induttivo


Che cos’è una logica di tipo induttivo? È una logica conoscitiva basata sull’osservazione empirica dei
fenomeni: osservando la realtà verifichiamo che esistano delle regolarità.
La metodologia del paradigma positvista è basata sulla formalizzazione, e cioè sull’utilizzo di strument di
tpo matematco e la creazione di modelli statstci che permettono allo studioso di manipolare e
controllare le variabili. Quello che si studia, infatti, è qualcosa di misurabile e riducibile a misurazioni
quantitative. Gli strumenti matematici permettono di identificare le regolarità sotto forma di coefficienti,
statistiche, parametri che possono essere riportati nelle analisi per riassumere i fenomeni sociali in termini
numerici.

Il metodo induttivo è uno strumento che va dal partcolare all’universale: si cercano generalizzazioni e
regolarità. Se la realtà è governata da leggi quello che dobbiamo fare è identificare le regolarità per poter
descrivere la realtà in modo deterministco.

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Quali sono i limiti del positivismo? Il positivismo è un paradigma sostenibile?

Il positvismo si è evoluto. I suoi limit sono stati riconosciuti già agli inizi del Novecento quando molti
scienziati, anche nel campo delle scienze naturali, iniziarono a riconoscere che l’approccio positivista non
era sostenibile. Alcuni sviluppi delle scienze naturali, infatti, misero in discussione la visione deterministca
della scienza (es. gli avanzamenti nel campo della fisica ottica mostrarono che le particelle di luce
modificano il loro comportamento nel momento in cui vengono osservate. Ma se non siamo in grado di
studiare le particelle di luce senza modificarne il comportamento come possiamo studiare la realtà sociale
senza modificarla?).

Neopositvismo o positvismo logico

Il neopositvismo vede le sue origini nel cosiddetto “circolo di Vienna”, un insieme di filosofi e scienziat
che iniziarono a riflettere sul ruolo della scienza e sui problemi metodologici, con un’attenzione particolare
alle procedure (La strumentazione utilizzata è adeguata? I concetti sono adeguati?).

“Il senso di un’affermazione dipende dalla sua verificabilità empirica”

Questa nuova visione positvista (neopositivismo) assume che ciò che siamo in grado di definire e
affermare dipende dal fatto di poterlo osservare e misurare empiricamente. Sappiamo, però, che non tutto
può essere misurato empiricamente per cui è necessario prestare un’attenzione particolare per concetti
che nelle scienze sociali sono particolarmente oscuri.

Vi è una grande attenzione per quella che viene definita “definizione operatva”, e cioè per il modo in cui
tendiamo a definire operatvamente i concetti. I concetti, infatti, sono visti come qualcosa che va studiato
in termini di attribut.
Come definiamo i concetti, quanti e quali attributi includiamo nei concetti che studiamo ha come
conseguenza la misurazione degli oggetti.

L’attenzione alla misurazione è maggiore rispetto a prima (positivismo classico) perché c’è una concezione
diversa della realtà che non è più concepita come qualcosa di semplice e di simile alla realtà della natura,
come qualcosa di molto più complesso.

La conseguenza di questo nuovo approccio è un linguaggio maggiormente orientato alle variabili


(caratteristiche che variano) e alla misurazione empirica degli oggetti.
Noi misuriamo i fenomeni sociali in base agli attribut che riusciamo ad identificare dei concetti. Se, invece,
definiamo un concetto in base alle sue caratteristiche significa che misureremo il fenomeno in maniera un
po’ più complessa.

L’approccio positivista concepisce la società come una serie di fenomeni (variabili) messi in relazione tra
loro.
Le variabili sono gli strument che utilizziamo per rendere il più possibile oggettiva l’analisi della realtà.
All’interno di questo approccio neopositvista si mantengono ls visione oggettivistca, che mira alla
quantficazione dei fenomeni, e l’utilizzo di modelli causali ma vi è una maggiore attenzione alle procedure
di operatzzazione che permettono allo studioso di studiare i concetti in modo proprio rispetto alla natura
dei fenomeni stessi. Lo studioso sostenitore di questo approccio non misurerà gli atteggiamenti attraverso
un metro ma tramite scale, costrutti complessi e attraverso l’ attribuzione di caratteristche ai concetti.
Questo pensiero, dunque, mantiene un atteggiamento di spersonalizzazione della ricerca e conserva la
convinzione secondo la quale la materia può essere studiata in modo oggettivo ma con la consapevolezza
che la realtà sociale è qualcosa di diverso da quella dei fenomeni naturali.

Cosa cambia?

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Innanzitutto cambia l’idea che si ha riguardo alla concezione di società, si passa da una concezione
deterministca a una concezione probabilistca della realtà sociale, il che significa che non si è più convinti
dell’esistenza di leggi ma, piuttosto, di leggi di tpo probabilistco per le quali in presenza di un fenomeno è
possibile che accada un altro fenomeno ma non è certo.
La messa in discussione delle leggi deterministiche avviene a seguito della consapevolezza che la società
non è più spiegabile in modo oggettivo.

Con l’approccio neopositivista entra in gioco anche la visione della falsicabilità, accezione secondo la quale
non è possibile una verifica empirica positva (se troviamo una relazione tra x e y non vuol dire che
essi siano necessariamente associati tra loro perché ogni scoperta può essere falsificata. Una scoperta è
vera fino a quando non viene messa in discussione). Le ipotesi non sono mai definitvamente valide. Ciò,
però, non significa che dobbiamo mettere in dubbio tutto ma che attraverso l’applicazione di strumenti
scientifici e con il corretto uso di strumenti metodologici possiamo essere in grado di smentire ciò che è già
stato analizzato.

Se dovessimo analizzare il neopositivismo attraverso le stesse questioni utilizzate con il positivismo


potremmo dire che la questone ontologica è una questione che cambia in un realismo critco e non più
ingenuo. La realtà rimane esterna all’individuo ma ciò che cambia è che si pensa che la realtà esterna sia
imperfettamente conoscibile, e cioè che non sia possibile conoscere la realtà in modo oggettivo. Ciò che ne
deriva è una concezione di tpo probabilistco secondo la quale è possibile mettere in relazione x e
y ma non in modo deterministico. Più specificatamente questa concezione sostiene che è possibile che
x sia legata ad y ma questo non sempre è vero (è possibile ma non certo).
Il neopositivismo assume una posizione diversa da quella del positivismo anche per quanto riguarda
l’epistemologia. Esso, infatti, assume che non ci sia più indipendenza tra oggetto studiato e studioso perché
nel momento stesso in cui lo studioso cerca di misurare l’oggetto di studio ne sta, in un certo senso,
modificando l’aspetto/l’azione. Esistono, quindi, secondo questa visione degli element di disturbo tra
oggetto studiato e studioso. Le scienze sociali, dunque, possono essere misurate ma con
un’approssimazione perché esiste un errore tra ciò che accade realmente e ciò che siamo in grado di
misurare (tutti i fenomeni sociali sono misurati con errore).

Dal punto di vista metodologico, invece, la visione rimane per lo più invariata: c’è sempre una visione di
tipo sperimentale e manipolatva. L’unica differenza è che con l’approccio neopositvista vi è un’apertura
nei confronti degli altri approcci, ovvero nei confronti degli approcci di tpo qualitatvo.

Il paradigma neopositvista, però, non è senza limiti, ci sono, infatti, degli aspetti che rimangono
problematci. Si tratta infatti di un approccio che, spesso, mette in primo piano il dato e la tecnica, che è
molto interessato allo sviluppo della tecnica, alla ricerca e alla raccolta dei dati, alla costruzione di modelli di
tipo statistico e un po’ meno, invece, alla costruzione di teorie e all’analisi dei concetti.
Un’altra critica che viene rivolta all’approccio neopositivista sostiene che il metodo utlizzato si confonde un
po’ con il contenuto, e cioè che ciò che si studia è, spesso, il risultato del metodo e non della costruzione
teorica.
Con questo approccio viene mantenuta la contrapposizione tra teoria e validazione empirica, che spesso è
maggiore rispetto all’elaborazione teorica. Per molti questa contrapposizione, però, rappresenterebbe il
motivo per cui all’interno di questo paradigma ciò che non si riesce a misurare o non è immediatamente
testabile (come approfondimenti marginali) tende a non essere studiato.
Un altro problema è che, nonostante questo paradigma si sforzi moltissimo nel costruire e raccogliere dati,
molto spesso, questa la rilevazione dei dat si rivela essere poco coordinata tra i vari ent e gruppi che si
occupano di ricerca.

RICERCA QUANTITATIVA

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La ricerca quanttatva prende ispirazione e origina dal paradigma positvista e, poi, dalla sua evoluzione
neopositvista.

Che cos’è la ricerca quantitativa? Quali sono le sue caratteristiche? Come la distinguiamo dalla ricerca
qualitativa?

Una delle caratteristiche principali della ricerca qualitatva è l’utilizzo dell’approccio “Large-N” (tant casi).
Questo tipo di ricerca, infatti, necessita di un numero elevato di casi (almeno 50 casi anche se non esiste
una sogli specifica) soprattutto perché l’obiettivo è l’inferenza che non può essere raggiunta con pochi casi.
L’inferenza è il processo con cui noi si possono conoscere e ottenere informazioni su una popolazione di
cui non si hanno informazioni.

Noi, infatti, siamo in grado di conoscere una realtà più ampia rispetto alle mere osservazioni che facciamo
e possiamo passare dal “partcolare” al “generale” attraverso l’utilizzo di una serie di tecniche che si
raccolgono in termini di inferenza. Facciamo inferenza, ad esempio, attraverso l’osservazione e la
misurazione di 50 casi di cui disponiamo arriviamo a conoscere qualcosa in più sulla popolazione di cui
quest casi fanno parte . In altre parole, facciamo inferenza quando dall’osservazione partcolare
impariamo qualcosa della popolazione generale  procedura di campionamento: a partire da un
campione si apprendono delle informazioni della popolazione generale (caratteristiche comuni alla
popolazione)

Facciamo analisi quanttatva quando utilizzando un elevato numero di casi siamo in grado di imparare
qualcosa della popolazione da cui essi provengono.

Quando il numero dei casi aumenta possiamo analizzare i dati in maniera più precisa.
Quando si ha un numero elevato di casi si possono fare tre cose: 1. determinare quanto l’effetto tra le
variabili sia esterno e, quindi, quanto sia generalizzabile; 2. studiare quanto è forte l’effetto tra le variabili
e, quindi, studiare la natura dell’effetto; 3. studiare quanto l’effetto non sia dovuto soltanto al caso e,
quindi, capire quanto l’effetto sia statstcamente significatvo.
Quando si ha un numero elevato di osservazione la precisione delle stime e delle associazioni sarà
maggiore e si potrà dire con un grado di approssimazione minore se la variabile x è associata alla
variabile y , in che termini e quanto questa associazione sia diffusa.

I dat che utilizziamo sono di tpo quanttatvo, il che significa che il valore che viene raccolto è un valore
numerico, basato su scale. Il dato quanttatvo è un dato che proviene dall’utlizzo del campionamento
perché campionare ci permette di essere più efficienti e di risparmiare risorse (la ricerca quantitativa basa la
maggior parte delle sue ricerche sull’uso del campionamento). Quando campioniamo estraiamo
informazioni da una popolazione a partre da un’osservazione più ridotta.

Una volta raccolte le informazioni dobbiamo analizzarle.

Un’altra caratteristica propria della ricerca quanttatva è che i dat hanno un aspetto partcolare, e cioè
hanno la forma di matrici. Più specificatamente, le matrici di dati sono composte righe e colonne: le
colonne rappresentano le variabili, le righe rappresentano i casi che osserviamo. L’incrocio tra colonne e
righe ci dà il valore dell’osservazione che deriva da una procedura di codifica che ci consente di
trasformare la risposta ad una domanda in un numero. Le matrici di dati sono qualcosa di difficile
comprensione se non accompagnati da un codebook, e cioè da un documento che riporta al suo interno
tutta una serie di informazioni relatve al modo in cui le variabili sono state recuperate.

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Matrice di dati Codebook

Nella ricerca quantitativa le variabili possono essere dipendent o indipendent.

Le variabili non sono solo dipendenti e indipendenti, possono differire anche in base al modo in cui
misuriamo le variabili quantitative e qualitative. Le variabili qualitatve, infatti, possono essere variabili
nominali, ordinali, dicotomiche; quelle quanttatve possono avere numeri cardinali, quasi cardinali.

In base al tpo di variabili che si hanno si utilizzano tecniche di analisi diverse. Saper riconoscere le variabili
un aspetto fondamentale nella ricerca quantitativa perché ci permette di capire quale tipo di analisi
utilizzare.

La misurazione delle variabili è basata su procedure di operatvizzazione che permettono di trasformare i


concetti che non sono direttamente osservabili in misure (la maggior parte dei concetti che utilizziamo
nelle scienze sociali non è direttamente osservabili).

Quando utilizziamo gli strument della ricerca quanttatva abbiamo a che fare con le unità di analisi che
fanno riferimento ai casi che stiamo misurando e alle categorie alle quali questi appartengono (es. se
analizziamo le caratteristiche delle province l’unità d’analisi sarà la provincia)

I casi sono specifiche enttà su cui andiamo a misurare le variabili, mentre le unità sono le categorie di
appartenenza dei casi.

Nell’analisi quantitativa possiamo misurare le variabili a diversi livelli d’analisi. Possiamo, ad esempio,
misurare le caratteristiche degli individui ma anche quelle di entità superiori come i gruppi (associazioni,
comuni, province, Regioni, Paesi, aziende, organizzazioni). Esistono moltissime possibilità nella misurazione
dei fenomeni sociali che dipendono dal livello di aggregazione che si vuole utilizzare: più si va nello
specifico e più si utilizzerà un livello di aggregazione basso (livello di disgregazione); più si va in alto, più
aumenterà l’aggregazione e più l’attenzione verrà focalizzata sulle caratteristche delle enttà poste ad un
livello superiore. Le caratteristiche delle entità superiori possono derivare dall’aggregazione (es. numero di
abitanti di una provincia) o possono essere proprie dell’unità presa in analisi (es. costruzione territoriale).

Molti degli elementi che vengono utilizzati nell’analisi quantitativa derivano da una strumentazione che ha
lo scopo di misurare le caratteristche di ciò che si sta studiando per poterle, poi, mettere in relazione tra
loro. Nel momento in si trovano dei pattern, delle regolarità nelle osservazioni che si compiono si possono
fare delle considerazioni di tpo probabilistco, delle ipotesi che si vogliono verificare.
L’analisi quanttatva, dunque, ha come obiettivo quello di mettere in relazione le variabili, misurate in
modo quantitativo, attraverso strument che trasformano i fenomeni sociali in numeri. La ricerca
quantitativa, in particolare, utilizza la statstca, applicata allo studio dei fenomeni sociali, per giungere alle
proprie conclusioni. Si utilizzano parametri, statistiche, coefficienti, stimatori.

In base allo scopo che si vuole raggiungere si possono utilizzare gli strument della statstca descrittiva o
inferenziale. I primi permettono di descrivere le osservazioni attraverso una serie di parametri che

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forniscono un riassunto del valore di tali osservazioni; i secondi, invece, consentono di andare oltre le
osservazioni stesse e, quindi, di includere nei parametri anche un errore che permette di avere
un’informazione sulla popolazione da cui si sono estratte le osservazioni.

Tutto questo viene fatto per rispondere alle domande:

- Quanto la relazione è significativa?

- Quanto la relazione è forte?

- Quanto la relazione è diffusa?

02.03.2021 – 4 lezione

Paradigma interpretatvista

Dal paradigma interpretatvista deriva la cosiddetta ricerca qualitatva.

Il paradigma interpretativista è un’etichetta ampia che contiene al suo interno diversi approcci. La
caratteristica principale che fa sì che questi approcci siano collocati in questa macro-categoria è la critca nei
confronti dello scientsmo. Questi approcci, infatti, non mostrano alcuna fiducia nei confronti della scienza
e, in particolare, degli strumenti delle scienze naturali utilizzati per lo studio della società. In altre parole,
all’interno di questo paradigma vi è la convinzione che le scienze umane siano autonome rispetto a quelle
naturali.

Il modo in cui studiamo la società non è assimilabile allo studio dei fenomeni naturali. La società, infatti,
ha caratteristiche proprie e non è governata da leggi: è frutto di una costruzione dell’uomo.

Un’altra caratteristica importante è che cambia il rapporto tra il ricercatore e la realtà (oggetto di
interesse). Chi studia la società, infatti, è parte della società stessa e per questo non si può parlare di totale
indipendenza rispetto all’oggetto studiato. La realtà non è non è esterna, non è qualcosa di
oggettivamente rilevabile, misurabile. Seguendo questo approccio, dunque, non si studieranno i fenomeni
sociali attraverso relazioni di causa-effetto e l’utilizzo di modelli esplicativi ma attraverso la cosiddetta
comprensione. L’obiettivo è quello di comprendere l’esperienza umana, le ragioni per cui si compiono
determinate azioni (non tutte le azioni sono prive di senso per cui quello che si deve tentare di fare è
comprendere le ragioni che stanno alla loro base).

Diversi filosofi già nell’Ottocento proposero una distnzione cruciale, ricorrente quando si distingue tra
interpretetavismo e positvismo e, quindi, tra ricerca quantitativa e ricerca qualitativa.

Dilthey, per esempio, distingueva tra scienze della natura e scienze dello spirito. Windelbamd tra scienze
nomotetche, e cioè le scienze che hanno come obiettivo la ricerca di leggi, e scienze idiografiche, quelle
scienze che cercano di investigare la specificità dell’individuo e le ragioni dell’azione.
Si tratta di scienze che, secondo questi filosofi, sono diverse in base al campo di applicazione: se il campo
di applicazione è quello delle scienze naturali si ricercheranno leggi, se, invece, gli oggetti di interesse sono
l’uomo e la società si cercherà di comprendere ciò che avviene, le caratteristiche e come si produca
l’esperienza di ognuno.

Il personaggio che, però, ha contribuito con maggiore enfasi alla concezione della comprensione è Max
Weber. Egli, nello specifico, cercò di porre l’attenzione sul fatto che all’interno di questo campo di studi sia
estremamente importante comprendere le ragioni dell’azione umana.

Ovviamente, porsi in questa prospettiva significa correre un enorme rischio: essendo l’obiettivo quello di
comprendere, infatti, c’è sempre il rischio di assumere una posizione altamente individualista, e cioè
cercare di comprendere le azioni del singolo slegate dalla generalità all’interno della quale queste

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avvengono. In altre parole, il rischio è quello di diventare degli individualisti che cercano di spiegare la
specificità di alcune azioni senza cercare di giungere ad una generalizzazione. Le scienze sociali, infatti,
sappiamo avere il ruolo di cercare di individuare una certa regolarità e ricorrenza nei comportament
umani.
Il rischio di individualità, inoltre, ci porta anche ad un altro potenziale rischio, e cioè alla perdita di
oggettività. A tal proposito, Weber rifletté su come non perdere oggettività.

Le due condizioni per mantenere l’oggettività secondo Weber sono:

1. Avalutatvità.
Per mantenere l’oggettività il ricercatore deve astenersi da giudizi di valore, mantenere costante la
distnzione tra conoscere e valutare.
Quando si vuole di analizzare un fenomeno bisogna stare attenti a non valutarlo (i valori, i principi e le
convinzioni devono essere il più possibile esclusi dal lavoro di analisi). Nonostante i valori non debbano
avere nessun ruolo nello studio della società, tuttavia, possono avere il ruolo di orientare la ricerca,
possono cioè aiutare il ricercatore nella selezione di ciò che vuole e può studiare, nella selezione
dell’oggetto di studio (ruolo orientatvo dei valori).

È possibile conoscere senza valutare? Oppure i valori entrano sempre in gioco nello studio dei fenomeni
sociali?

2. Generalità.
Per mantenere l’oggettività è necessario anche cercare di raggiungere la generalità, e cioè formulazioni
dotate di una qualche forma di generalità. È necessario spiegare la realtà cercando di produrre delle
formulazioni che valgono al di là del caso specifico che si sta studiando.

Ciò che distingue le scienze naturali da quelle sociali non è soltanto l’oggetto di studio ma anche il metodo
che consente di giungere all’interpretazione dei fenomeni. L’interpretatvismo, nello specifico, ha come
aspetto caratteristico proprio quello di avere come obiettivo la comprensione dei fenomeni attraverso
l’interpretazione di quest.

Per comprendere e conoscere la realtà è necessario un atto di interpretazione. Una strategia per
comprendere l’individuo è immedesimarsi nell’altro, e cioè porsi la domanda “Cosa avrei fatto io al suo
posto?”. Rispondere a questa domanda significa aver compreso razionalmente le motvazioni dell’azione.
Il ricercatore deve porsi al posto dell’attore che sta studiando per comprendere le motivazioni del suo agire
(immedesimarsi nell’altro).

L’assunto è che qualunque azione ha una motvazione.

Perché un individuo si è comportato in un determinato modo?

Per comprendere l’azione umana, infatti, è necessario comprendere le motvazioni che hanno portato un
determinato individuo a comportarsi in un certo modo. Per compiere questa operazione di analisi è utile
mettersi al posto dell’attore che si sta studiando, cercare di rilevare le informazioni che rivelano le
condizioni all’interno delle quali la persona ha agito.
Quello che si deve fare, però, non è partire dal presupposto che solo alcune azioni hanno senso perché
anche azioni apparentemente illogiche possono avere un senso. Quello che si deve fare è cercare di capire
qual è il senso, immedesimandosi nell’attore studiato.

Come si fa? Raccogliendo informazioni. Non si possono capire le motivazioni dell’agire se non si
conoscono, ad esempio, il contesto in cui l’azione è avvenuta, le condizioni individuali del soggetto
studiato, le caratteristiche che possono aver spinto l’individuo a comportarsi in un determinato modo.

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Nel momento in cui si giunge alla conclusione che, date le stesse condizioni e circostanze, ci si sarebbe
comportat nello stesso modo del soggetto studiato, si può dire di aver compreso le azioni e le motvazioni
(razionali) dell’azione.

A questo punto quello che bisogna fare è ricostruire le motvazioni apparentemente non osservabili.
Quando si osserva un’azione, infatti, quella è soltanto la manifestazione dell’azione e delle condizioni (e non
le condizioni stesse). L’azione manifesta non indica esplicitamente quali sono le condizioni che l’hanno
portata ad essere tale. Quello che si deve fare, dunque, attraverso la raccolta di informazioni, è ricostruire
le motvazioni per svelarne la natura. Lo si fa attraverso un intreccio di informazioni, utilizzando più fonti
(es. intervistando l’individuo, raccogliendo informazioni del contesto). Si compie un lavoro ampio e
approfondito perché il numero di casi che si studia è inferiore rispetto al numero di casi che si utilizza nella
ricerca quanttatva. Un minor numero di casi permette di approfondire maggiormente informazioni che
possono essere utli a comprendere le motvazioni non direttamente osservabili.

Esempio Diabolik

C’è una razionalità anche nell’azione di soggetti o gruppi di persone che apparentemente possono
sembrare non razionali. Ciò che si deve fare quando si studia un determinato fenomeno è cercare di
immedesimarsi in quel fenomeno e, quindi, nei soggetti che sono manifestazione di quel fenomeno: se si
studia una banda criminale non bisogna giudicarla secondo le lenti dei propri valori, ma mettersi al posto di
quei soggetti per cercare di capire il motivo per il quale hanno agito in quel determinato modo e cercare, in
questo modo, di giungere ad una generalizzazione a partire dallo studio di pochi casi).

Come si può a giungere ad una generalità se il punto di partenza è individuale?

Esiste uno strumento che permette di generalizzare le osservazioni su un caso individuale: il “tpo-ideale”.
A partire dalle informazioni ricavate dall’analisi si cerca di trovare delle ricorrenze, e cioè dei fenomeni
osservabili in maniera ripetuta, per giungere alla conclusione che quelle caratteristche sono tpiche di
quel fenomeno. Analizzando il fenomeno e raccogliendo le informazioni necessarie si compie un processo
di astrazione che permette di costruire un “tipo-ideale” di soggetto, una sorta di griglia interpretativa, di
modello concettuale per analizzare la società.
Il tpo-ideale è qualcosa di coerente e ordinato ma astratto che permette di identificare una serie di
caratteristche proprie del fenomeno che si sta studiando e di studiare fenomeni simili.

“Il tipo ideale è ottenuto accentuando uno o alcuni punti di vista, e mediante la connessione di una quantità
di fenomeni particolari, diffusi e discreti, esistenti qui in minor e là in maggior misura, e talvolta anche
assenti, corrispondenti a quei punti di vista unilateralmente posti in luce, in quadro concettuale in sé
unitario. Nella sua purezza concettuale esso non può mai essere rintracciato empiricamente nella realtà;
esso è un’utopia e al lavoro storico si presenta il compito di constatare in ogni caso singolo la maggiore o
minore distanza dalla realtà da quel quadro ideale [...] esso ha il significato di un puro concetto-limite
ideale, a cui la realtà deve essere misurata e comparata, al fine di illustrare determinati elementi
significativi del suo contenuto empirico” (Weber 1998)

Esempio tavolo

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Chiamiamo “tavolo” quasi tutti questi oggetti


anche se non sono uguali.

Li definiamo “tavolo” perché si avvicinano


all’immagine ideale che abbiamo di questa
categoria di oggetti. Abbiamo, in altre parole,
un’idea generale che utilizziamo per riconoscere
se un oggetto si conforma o meno ad essa.

Anche nelle scienze sociali si hanno delle idee generali


dei fenomeni (tpi-ideali) che vengono costruite attraverso l’estremizzazione delle caratteristiche di questi
fenomeni e che consentono di analizzare la realtà attraverso “categorie”. Sarà impossibile trovare dei casi
che combacino perfettamente con il tipo ideale ma esso è particolarmente importante perché ci consente di
identificarne le caratteristiche.
Il tpo-ideale è un’immagine mentale, una costruzione astratta di un concetto puro che non esiste nella
realtà empirica ma che permette di studiarlo.

Ciò che bisogna fare è cercare di non confondere la realtà con il tpo-ideale. La funzione del tpo-ideale è di
tpo euristco, il che significa che esso è uno strumento d’analisi che indirizza nella ricerca della conoscenza,
è un modello teorico che serve per interpretare la realtà ma non è la realtà.

Il tpo-ideale è una costruzione coerente, pura e ordinata che non ha contraddizioni. Esso permette di
mettere ordine nel disordine che si osserva nella società e nei fenomeni studiati.

Il tipo ideale non si applica a un solo tipo di oggetto di studio, può essere applicato a diverse categorie, a
diversi livelli di generalità: dagli individui fino alla società nel suo complesso (tipo ideale di individuo, di
partito, di Stato, di democrazia).

L’utilizzo del tipo ideale ha delle conseguenze

L’utlizzo del tpo-ideale non è un utilizzo di tipo deterministico ma è un utlizzo di tpo probabilistco. Si
abbandona la concezione deterministica della società per abbracciare una visione probabilistica che utilizza
enunciat di possibilità: “se accade A il più delle volte accade B” e non “se accade A accade B”). È una
visione che si discosta dalla visione determinista del positivismo il cui obiettivo è quello di trovare generalità
attraverso enunciati di tipo obbligatorio, e cioè leggi.

Weber studia l’azione e costruisce due principali tpi-ideali di azione: 1. azione razionale e 2. azione non
razionale.

1. L’azione razionale vede, al suo interno, due azioni: l’azione razionale rispetto allo scopo e l’azione
razionale rispetto al valore. La prima è la tipica azione determinata dalla valutazione mezzi-fine; la
seconda, invece, è determinata dai propri valori, dalle proprie convinzioni e credenze (es. azione di un
kamikaze).

2. L’azione non razionale, invece, vede al suo interno l’azione non razionale affettiva e l’azione non
razionale tradizionale. La prima è quella determinata da affetti, emozioni e stat del sentre; la seconda,
invece, è determinata da abitudini acquisite e applicate con regolarità.

Secondo Weber l’azione degli individui viene studiata cercando di capire quanto questa si avvicini di più al
tipo di azione razionale o a quello non razionale.

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La realtà, secondo questa prospettiva, viene concepita come complessa, contraddittoria e disordinata
mentre il tpo-ideale come uno strumento con caratteristche opposte: si tratta di una costruzione
razionale, coerente e priva di ambiguità che permette di mettere ordine nella complessità e nel disordine
della realtà.

Come si colloca l’interpretativismo rispetto alle tre questioni (ontologia, epistemologia, metodologia)?

Questone ontologica

La realtà è una costruzione che, in quanto tale, necessita di essere conosciuta attraverso i significat,
l’esperienza degli individui e dei gruppi sociali che, però, non sono uguali.

Questone epistemologica

L’interpretatvismo ha una visione non-dualista e non-oggettivista. Oggetto studiato e studioso, infatti,


non sono indipendenti: vi è un rapporto di interdipendenza. L’obiettivo di questo rapporto è scoprire le
motivazioni dell’azione, comprendere i fenomeni che si stanno studiando attraverso enunciat di possibilità.

Questone metodologica

La metodologia utilizza tecniche che permettono l’interazione. Si tratta di una metodologia di tpo
induttivista, che deriva dall’osservazione del partcolare per giungere a considerazioni generali, in cui
l’interpretazione è lo strumento principale per giungere alle conclusioni. L’analisi, inoltre, viene fatta per
soggetti, si utilizzano, cioè, tecniche che cercano di andare in profondità come interviste, osservazioni,
utilizzo di documenti e artefatti.

Critche all’approccio interpretatvista

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Il paradigma interpretatvista tende ad un cero soggettivismo, e cioè ad osservare situazioni molto


specifiche, soggettive ed individuali, ad analizzare motivazioni, spesso, di difficile generalizzazione. Questa
tendenza deriva dal fatto che l’orientamento si focalizza maggiormente sull’individuo piuttosto che sulla
società o sulla politica in generale.

Un altro problema riguarda una certa difficoltà nel raggiungere una conoscenza oggettiva data dal rapporto
di interdipendenza e il coinvolgimento che ci può essere nello studio del soggetto studiato.

Un’altra critica riguarda il fatto che, spesso, il paradigma interpretatvista studia interazioni e fenomeni
della vita quotdiana senza concentrare l’attenzione sulle isttuzioni che, invece, hanno una certa influenza
sul comportamento sociale degli individui.

Il paradigma dell’interpretatvismo genera la ricerca qualitatva.

“Il termine ricerca qualitativa è utilizzato per descrivere un insieme di tecniche e processi non-statistici per
raccogliere dati su fenomeni sociali. I dati qualitativi si riferiscono a collezioni di parole, simboli, immagini o
altri dati non-numerici, materiali o artefatti che sono raccolti dal ricercatore sono dati rilevanti per il gruppo
sociale studiato. L’utilizzo di questi dati va oltre la descrizione di eventi e fenomeni; piuttosto, sono utilizzati
per comprendere, per la comprensione soggettiva e l’analisi critica” (McNabb 2020)

Caratteristche ricerca qualitatva

La ricerca qualitatva è una ricerca che ha un setting naturale. I soggetti e i fenomeni di interesse, infatti,
vengono studiati all’interno del loro setting naturale, e cioè del contesto in cui quest vivono o avvengono.

Nella ricerca qualitativa il ricercatore ha un ruolo chiave: la sua capacità di comprensione e di raccolta di
dati sono caratteristiche fondamentali per il successo dell’analisi.

Nella ricerca qualitativa si utilizzano font di dat multple (intervista, osservazione, documenti, etc.).

Nella ricerca qualitativa si utilizza l’induzione, si cerca, cioè, di raccogliere informazioni a partire dal
particolare per di giungere a delle generalizzazioni (dal particolare al generale).

Un’altra particolarità della ricerca qualitativa è che i disegni della ricerca (setting), che vengono utilizzati per
studiare l’oggetto di studio, non sono predeterminati ma qualcosa che emerge durante la ricerca.

Infine, un altro aspetto importante è quello della riflessività, una posizione che tende a mettere al centro il
ruolo di chi fa ricerca utilizzando un approccio olistco, e cioè un approccio che tene conto del contesto
nel quale l’azione o l’oggetto studiato è collocato. Si cerca di considerare, dunque, il più ampio numero
possibile di fattori che può essere utile a comprendere il fenomeno che si sta studiando.

08.03.2021 – 5 lezione

Teoria, domanda di ricerca e ipotesi

Quando si parla di teoria, domanda di ricerca e ipotesi si entra nel mondo del “fare ricerca”.

Quali sono le strategie di ricerca?

Per tradizione e per sue caratteristiche il paradigma quanttatvo è quello più semplice da formalizzare
poiché segue uno schema di ricerca e delle procedure più facilmente riassumibili in fasi. Al contrario, la
ricerca qualitatva è più complessa.

I costrutti teorici sono costrutti astratti che non hanno una ricaduta empirica immediata e necessaria. Essi,
infatti, spesso non hanno una misurazione diretta e, dunque, non possono essere colti empiricamente e
nell’immediato. Per fare ricerca, però, è necessario di avere a che fare con dei casi empirici esistent che

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non siano delle entità astratte. Per questo motivo nella ricerca si seguono delle fasi codificate secondo degli
schemi che semplificano la realtà ma, allo stesso tempo, ci permettono di studiarla.

Come si costruisce un progetto di ricerca?

Per costruire un progetto di ricerca è necessario partire da una teoria che nasce da una domanda di ricerca,
un interrogativo a cui si vuole dare una risposta e che permette di giungere ad una spiegazione dei
fenomeni sociali e politici che si vogliono studiare. La risposta a questa domanda, nello specifico, deriva
dalla validazione empirica delle aspettatve (ipotesi) sulla relazione tra le variabili utilizzate.

Per passare dalla teoria alla pratca si devono trasformare le ipotesi teoriche in operazioni di ricerca
empirica.

Studiando la letteratura su un determinato fenomeno si possono identificare delle aspettative sulla realtà, si
ipotizzano una connessione tra variabili. Il punto fondamentale, però, è che si deve essere in grado di
testare queste aspettative. Se non si è in grado di testare le aspettative e verificare le ipotesi non si sta
facendo ricerca sociale e si rimane a livello teorico.

Come si misurano i concetti che fanno parte delle aspettative? Ci si deve porre una serie di questioni che
hanno a che fare, prima di tutto, con la definizione dei concetti e, cioè, con i mattoni della ricerca sociale. Si
tratta di una fase fondamentale nella quale si prendono scelte che hanno conseguenze importanti nell’esito
della ricerca.

Nell’ambito della ricerca quanttatva si ha a che fare con un approccio formalizzato che si ispira, in
generale, a quello della ricerca scientfica e che può essere considerato come un processo creatvo di
scoperta che si sviluppa secondo un itinerario prefissato e procedure prestabilite. Ci si muove, dunque,
all’interno di un ambito le procedure operatve e quelle di misurazione e analisi sono condivise all’interno
della comunità scientfica delle scienze sociali.

La scelta delle procedure, ovviamente, non viene decisa esclusivamente a partire dalla lettura di un
manuale. Entrano, infatti, in gioco anche la sensibilità, l’esperienza, gli interessi e l’affinità con alcune
tecniche del ricercatore.

Nella ricerca quantitativa ci si muove in un contesto di ricerca che utilizza procedure condivise e strument
la cui validità è stata approvata pubblicamente. La scienza, inoltre, segue un percorso di controllo empirico
e di cumulabilità che consente di compiere scelte anche in base a ciò che è stato scelto in passato nella
nostra comunità accademica di riferimento (scienza come accumulazione sistematica di conoscenza).

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Le fasi della ricerca in un approccio formalizzato sono: teoria, ipotesi, raccolta dat, analisi dat, risultat,
teoria.

Tra le fasi di ricerca avvengono dei processi: dalla teoria si giunge alle ipotesi attraverso un processo di
deduzione, un passaggio che si sposta da proposizioni generali a proposizioni più specifiche (la teoria ha un
livello di astrazione maggiore rispetto all’ipotesi); tra la definizione delle ipotesi e la raccolta dat si verifica
un processo di operazionalizzazione, e cioè una fase in cui le ipotesi vengono trasformate in qualcosa di
empiricamente rilevabile.

Per raccogliere i dati è, innanzitutto, necessario costruire delle misure che permettano di misurare i
concetti della teoria. Poi, una volta raccolti i dat, questi devono essere analizzat. L’obiettivo, infatti, è
quello di rispondere alla domanda di ricerca al fine di capire il funzionamento del fenomeno preso in
esame.

Questa procedura di analisi necessita di un’organizzazione dei dat: la forma che assume il dato
quanttatvo è quella della matrice dei dat, uno strumento che ci permette un alto grado di
standardizzazione.

Una volta analizzati, i dat devono essere interpretat e commentat. È necessario capire se i dati raccolti
sono in grado di dare evidenza empirica all’ipotesi e portare a dei risultati o se sia, invece, necessario
tornare al punto di partenza. È possibile, infatti, che l’evidenza empirica non combaci con l’aspettativa
teorica.
Il processo di ricerca sociale è un processo di tpo ricorsivo che non finisce nel momento in cui si giunge ai
risultati. È necessario, infatti, confrontare i risultati con la teoria e non è detto che questi combacino.

Qual è l’uso quotdiano che viene fatto del termine teoria?

Definire una teoria significa definire una spiegazione, e cioè mettere insieme i pezzi di una spiegazione.
La teoria è una forma coerente per organizzare le proposizioni che permettono di spiegare un fenomeno.

Nel linguaggio comune la teoria si contrappone ai fatti. Il termine “teoria”, infatti, viene utilizzato per
indicare qualcosa di astratto. Anche nelle scienze sociali la teoria è qualcosa di astratto e non qualcosa di
empiricamente rilevabile e testabile.

La teoria è un insieme di proposizioni coerent tra loro che si dice avere un alto livello di astrazione, un
insieme di proposizioni che non direttamente applicabili ad un caso, uno specifico periodo storico o
gruppo di individui.

La teoria è “un insieme di proposizioni organicamente connesse, che si pongono a un elevato livello di
astrazione e generalizzazione rispetto alla realtà empirica, le quali sono derivate da regolarità/uniformità
empiriche e dalle quali possono essere derivate delle previsioni empiriche”.

Esempio Suicidio (Durkheim)

Una teoria classica è la Teoria sul suicidio di Durkheim, la cui proposizione generale è: “più elevato è il tasso
di individualismo in un determinato gruppo sociale, maggiore sarà il tasso di suicidi in quel gruppo”. Si tratta
di una teoria perché astratta e generale e perché deriva da uniformità empiriche, e cioè mette in relazione
due variabili (c’è un’aspettativa riguardo al fatto che se osserverò maggiore individualismo troverò un
maggior numero di suicidi).

Perché questa proposizione è generale? Perché non si specifica l’ambito/il contesto di applicazione. Se
questa teoria fosse corretta potrebbe essere applicata a qualsiasi gruppo sociale e a qualsiasi tempo.

Perché è astratta? Perché vengono utilizzati concetti che non sono direttamente rilevabili. L’individualismo
è un concetto astratto: nel momento si definisce in maniera più precisa il concetto di “individualismo” e se

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ne specificano gli attributi, mettendo in relazione una specifica parte della teoria con il fenomeno oggetto di
studio, ne deriva una proposizione non più teorica ma ipotetica, e cioè meno astratta, più precisa e, di
conseguenza, rilevabile empiricamente.

* L’individualismo è una situazione sociale e culturale nella quale la persona è pienamente libera nelle
scelte
di vita.
* La coesione una situazione nella quale l’attività di una persona è continuamente sottoposta a controlli
sociali e le scelte sono in gran parte determinate da norme collettive.

Esempio Teoria economica della democrazia (Downs)

La Teoria economica della democrazia di Anthony Downs parte da due asssiomi: 1. gli attori si muovono
seguendo la razionalità; 2. l’azione degli attori è riferita al raggiungimento dei propri interessi (auto-
interesse).
Quella di Downs è una teoria che mira a spiegare l’azione di diversi attori politici all’interno dei sistemi
democratici.

 Cosa fanno i governi? I governi operano mossi dalla massimizzazione del consenso tra gli elettori;
 Cosa fanno i politici? I politici fanno le scelte in base alle potenziali ricadute in termini di benefici
elettorali;
 Cosa fanno i partiti politici? I partiti politici cercano di accedere, attraverso le elezioni, agli apparati di
governo, definendo programmi capaci di intercettare il più ampio livello di consenso;
 Cosa fanno gli elettori? Gli elettori sono periodicamente chiamati a selezionare i governi. Le scelte
elettorali sono orientate a favore dei partiti politici e dei candidati che presentano i programmi
maggiormente congruenti con le rispettive preferenze (e interessi);
 Cosa fanno i gruppi di interesse? I gruppi di interesse agiscono sullo scenario politico effettuando
pressioni orientate a ottenere, dai governi in carica, politiche a loro gradite, in cambio di consenso;
 Cosa fanno i burocrati? I burocrati premono per incrementare la dimensione degli apparati
amministrativi in cui operano, la dotazione di risorse, il prestigio.

Sono tutte proposizioni astratte che non indicano dove accadono.

Una volta definita la prospettiva teorica, la relazione tra ciò che si vuole spiegare e ciò che si vuole utilizzare
come spiegazione, si può fare un passo indietro e chiedersi: “Da dove partire nella ricerca?”, “Perché si
studiano alcuni fenomeni rispetto ad altri?”. Non c’è una risposta precisa, spesso si parte da interessi
personali (1). Si può partire, però, anche da altre teorie (2), e cioè da teorie già esistenti, che sono già state
definite e testate. Partendo dalla letteratura e, quindi, da teorie definite in precedenza si può cercare di
spiegare un fenomeno nuovo, non ancora studiato, o un fenomeno a cui non è ancora stata data una
risposta. In questo modo, dunque, si può cercare di affrontare questioni legate ai nuovi sviluppi della società
e della politica o a problemi sociali (es. negli ultimi dieci anni molta della ricerca sul comportamento
elettorale si è spostata verso lo studio del voto per i partiti populisti).

Come si fa a partire nel percorso di ricerca? Si parte da una domanda di ricerca attorno alla quale si
focalizza l’attenzione della ricerca stessa. Si tratta, per lo più, di domande che pongono un interrogativo
riguardo la spiegazione di un fenomeno e che permettono al lettore di comprendere lo scopo della ricerca
stessa.

Domanda di ricerca

La domanda di ricerca deve essere sufficientemente precisa da fornire una risposta in uno spazio limitato.
Se questa domanda deve essere precisa non può essere lunga e deve utilizzare dei concetti chiari.

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Una domanda di ricerca che abbia senso deve essere una domanda la cui risposta è un semplice sì o no.
Ovviamente questa domanda deve avere un senso, e cioè deve mettere in relazione dei fenomeni
utilizzando dei meccanismi che abbiano un senso nell’ambito in cui si lavora (es. “Qual è la relazione tra il
numero di gelati venduti e il tasso di omicidi?”, non ha senso).

Le risposte alle domande di ricerca devono avere una predisposizione al dibattito, e cioè non devono
essere domande la cui risposta è definitva perché nella ricerca sociale si contribuisce offrendo
dell’evidenza che può essere soggetta a revisione.

Come si definiscono le domande di ricerca? Le domande di ricerca devono essere chiare e ricercabili, il che
significa che devono utilizzare concetti che possono essere misurat e avere una relazione con le teorie
esistent (non si parte mai dal nulla).
Inoltre, se ci si pone più di una domanda di ricerca queste domande devono essere connesse logicamente
tra loro.
Le domande devono fornire, nei limiti del possibile, un contributo (se ci si pone una domanda a cui è già
stata data più di una risposta non si contribuirà in modo originale al dibattito) per cui è necessario cercare di
scavare, a partire dalla ricerca esistente, per capire se esistono aspetti di domande di ricerca precedenti che
non sono stati affrontati in maniera adeguata o a cui si possono dare risposte differenti.

Le domande di ricerca non devono essere né troppo ampie (perderebbero di capacità applicativa,
diventerebbero difficili da testare empiricamente), né troppo specifiche (diventerebbero delle ipotesi).

Per capire se le nostre domande di ricerca abbiano un senso ci si può chiedere se siano rilevanti, e cioè
chiedersi il motivo per il quale porle.

Perché le domande di ricerca sono rilevanti? Innanzitutto permettono alla ricerca di avere inizio, guidano il
ricercatore nelle prime fasi della ricerca, determinano il disegno della ricerca, e cioè il processo che
definisce le strategie operative dell’analisi, e guidano in alcune scelte (metodi, analisi, dati).

“Dal mio punto di vista, formulare domande di ricerca è la parte più critica e, forse, la più difficile di un
progetto di ricerca […] definire domande di ricerca rende possibile selezionare strategie e metodi di ricerca
con sicurezza. In altre parole, un progetto di ricerca è costruito sulla base di domande di ricerca” (Blaikie,
2000).

Come si possono sviluppare le domande di ricerca?

 Si deve scegliere un tema interessante e generale, cercare di pensare a qualcosa che abbia una
rilevanza sociale, politica e che sia di interesse comune sia per il pubblico più ampio che quello più
specializzato;
 si deve fare un po’ di ricerca su quel tema (riviste accademici o libri che trattano quel tema);
 ci si deve chiedere qual è il pubblico (se specializzato o ampio e generalista);
 ci si deve iniziare a porre delle domande e auto-valutare le domande (La domanda è chiara? È
specifica? È complessa? È rilevante? È originale? È possibile rispondere alla domanda?);
 se le domande non sono chiare, specifiche, sono complesse, se la domanda non è rilevante o originale
dobbiamo tornare indietro e cercare di ridurre il focus ridefinendo le domande per renderle più
specifiche, chiare e intellegibili.

Consigli

È consigliabile evitare di utlizzare forme valutatve (la ricerca deve essere avalutativa). Nelle domande di
ricerca, dunque, non dovrebbero essere utilizzati termini come “il migliore”, “il peggiore” o chiedere “la

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democrazia consociativa è migliore di quella maggioritari?”. Bisogna mantenere un linguaggio il più


possibile oggettivo e neutrale.

Le forme di domande di ricerca possono essere varie: descrittive (“Quali sono le caratteristiche di x?”);
comparatve (“Quali sono le differenze tra x e y?”); correlazionali (“Qual è la relazione tra x e y?”);
esplicatve (“Qual è il ruolo di x nello sviluppo di y?”); valutatve (“Quali sono i vantaggi (o svantaggi) di x su
y?”).

Esempi

1. Come possiamo spiegare l’importante declino nella valutazione della democrazia (Spagna)?

2. Perché gli elettori chiudono un occhio di fronte alla corruzione?

3. Come rispondono i partiti all’aumentare dell’euroscetticismo in Europa? E cosa spiega l’aumento


dell’euroscetticismo?

4. Gli elettori dei partiti radicali di sinistra votano per questi perché sono insoddisfatti dell’economia?
In altre parole, c’è una correlazione tra insoddisfazione economica e voto dei partiti della sinistra
radicale in Europa?

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5. Perché alcuni elettori decidono di non votare più per i partiti main stream e decidono di votare per i
partiti challender?

Che cos’è un’ipotesi? Un’ipotesi è una proposizione che implica una relazione tra due o più concetti. A
differenza della teoria, però, si pone a un livello di astrazione e di generalità inferiore.
L’ipotesi permette una traduzione della teoria in termini empiricamente controllabili. In altre parole,
l’ipotesi può essere vista come un’artcolazione parziale della teoria (la teoria è generale, le ipotesi più
specifiche).

Le ipotesi hanno una minore astrazione, sono provvisorie perché possono essere contraddette o
aggiornate, non sono generali e astratte per cui si applicano a contest e situazioni più specifiche.

Le ipotesi devono essere controllate il che significa che devono essere trasformabili e tramutabili in
qualcosa di empiricamente controllabile.

Distnzione tra generalizzazione empirica e teoria

- Generalizzazione empirica = proposizione isolata che riassume uniformità relazionali osservate tra due o
più variabili (Merton, 1949);

- Teoria = uniformità che vengono collegate fra loro e sussunte in un sistema concettuale che si colloca a
un livello superiore di astrazione.

Ronald Inglehart spiega il cambiamento dei valori nella società contemporanea nel libro “The Silent
Revolution: Changing Values and Political Styles Among Western Publics”. La sua è una spiegazione di tipo
generale teorica. Inglehart, in particolare, sostiene che i valori cambino nel momento in cui si raggiunge un
determinato livello di sicurezza materiale e quando c’è un cambio generazionale.
Il suo ragionamento è basato su una scala di valori:

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La sua teoria spiega perché il passaggio da valori materialisti a valori post-materialisti. Secondo la sua
visione questo accade perché le società raggiungono un livello di benessere maggiore e perché si verifica un
cambiamento generazionale.

Le ipotesi di questa teoria sono più specifiche:

- differenza di valori tra giovani e meno giovani, in media, presente in tutte le nazioni;
- differenza di valori tra giovani e meno giovani maggiore nelle nazioni in cui condizioni di vita sono
cambiate
maggiormente;
- valori post-materialisti maggiormente presenti nelle nazioni più ricche;

Si passa, quindi, da una teoria generale, applicabile a diversi gruppi sociali, che non dice nulla sulle
aspettative, a ipotesi più specifiche che mettono in relazione variabili come, ad esempio, l’età e il
cambiamento valoriale.

09.03.2021 – 6 lezione

Concetti e unità di analisi

I concetti sono un elemento fondamentale nella ricerca sociale senza i quali non saremmo in grado di
identficare gli oggetti della ricerca . Senza i concetti non saremmo nemmeno in grado di rendere
empiricamente rilevabili le proprietà e le caratteristche degli oggetti d’interesse.

Per prima ci si deve chiedere: “Che cosa sono i concetti? Come vengono usati? Quali sono le relazioni con gli
attributi?”.
Il passo successivo è quello di trasformare i concetti in qualcosa di rilevabile empiricamente: si tratta di un
processo complesso che richiede una serie di passaggi che vanno dall’ambito teorico a quello empirico.

Il concetto può essere assimilato ad un’immagine di un qualcosa che noi, come individui, facciamo
rientrare in una determinata categoria. La formazione dei concetti, infatti, è il modo in cui mettiamo in
ordine la nostra esperienza. Quest’operazione concettuale necessita di una riflessione su come sezionare le
caratteristiche di un oggetto in modo da riuscire a collocarlo in una determinata categoria piuttosto che in
ad un'altra.
La formazione di concetti, sia nell’esperienza quotidiana che nelle scienze sociali, permette di produrre dei
raggruppament cognitvi, e cioè di raggruppare gli oggetti in categorie.

In generale, il concetto è “qualcosa concepita nella mente, un pensiero o una nozione” oppure “un’idea
astratta generalizzata da casi particolari”.

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Il concetto non è soltanto uno strumento per osservare empiricamente i casi ma anche per identificarli, e
cioè capire a quali categorie appartengono le nostre osservazioni.

Definire che cos’è propriamente un concetto non è semplice e dipende anche dal campo di applicazione.

Definizioni:

Un concetto è “l’unità basilare del pensiero. Si può dire di avere un concetto di A (o di essere A) quando noi
possiamo distinguere A da qualunque cosa non sia A” (Sartori, 1984)  la definizione non ci dice che cos’è
un concetto ma a cosa serve

I concetti sono “il modo principale attraverso cui diamo senso alla nostra esperienza” (Lakoff, 1987)

“Teorie circa gli elementi fondamentali costitutivi di un fenomeno” (Goertz, 2006)

“I concetti sono la nostra unità basilare dell’azione (linguistica) [...] Abbiamo bisogno di concetti per
assumere ruoli. Abbiamo bisogno di essi per afferrare realtà astratte […] Se i concetti sono strumenti di
azione, il loro significato non deriva dalla loro corrispondenza a realtà oggettive, ma dai loro ruoli pratici
nella comunicazione linguistica” (Schedler, 2010)

“L’essenza dei concetti scientifici si trova nella loro capacità di fornire significato” (Davies, 2005)

Il concetto è qualcosa che ha un contenuto di significato (che significa qualcosa) e che si riferisce a dei
segni ai quali viene attribuito un senso. Nello specifico, il segno linguistco che viene attribuito ai concetti è
la parola, il termine. Nella nostra lingua applichiamo un’etichetta alle cose, diamo loro dei nomi grazie ai
quali si riconosce un determinato contenuto. Il contenuto è tutta quella serie di caratteristche e attribuit
che ci permettono di riconoscere un determinato oggetto, identificato con un determinato termine.

Nelle scienze sociali i concetti sono definiti come i “mattoni della teoria”.

La teoria è qualcosa che rimane ad un livello di astrazione e di generalizzazione elevato. Definendo i


concetti si va, man mano, a rendere più precisa la definizione della teoria, mentre attraverso
l’operatvizzazione dei concetti si va a tradurre empiricamente la teoria.

Quando si definiscono i concetti delle teorie, di fatto, si dissezionano le parti dei concetti stessi in attribut
che verranno poi rilevati attraverso degli indicatori.

Se si è di fronte ad una teoria complessa, che mira a spiegare una realtà che ancora nessuno è riuscito a
spiegare e non è nemmeno traducibile empiricamente, allora essa non potrà essere testata e non potrà
essere effettuato il passaggio dalla teoria alle ipotesi e dalle ipotesi all’analisi. In altre parole, non si potrà
portare a compimento il ciclo di ricerca.

“La teoria ha un senso per la scienza empirica solo nella misura in cui riesce a connettersi proficuamente con
il mondo empirico; i concetti sono gli strumenti, e gli unici strumenti, per stabilire una tale connessione ”
(Blumer, 1969)

In fondo, teorie e ipotesi sono connessioni tra concetti.

Le categorie, che possono essere un qualcosa di assimilabile ai concetti, rappresentano una sorta di insiemi
nei quali possiamo includere o escludere i nostri oggetti. Più precisamente, procediamo in
quest’operazione attraverso la comparazione delle caratteristche degli oggetti di studio . Si tratta di
un’opera non soltanto di classificazione ma anche di misurazione.

Triangolo semantco

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Il segno simbolizza il pensiero che è il


contenuto del concetto.

Il concetto, e cioè il contenuto dello stesso,


si riferisce ad un oggetto.

Il segno (o termine) rappresenta un oggetto.

Esempio

Se volessimo studiare e misurare la relazione tra status socioeconomico e partecipazione politica


dovremmo essere in grado di tradurre empiricamente il concetto di status socioeconomico. Questo
concetto ha un segno che è “status socioeconomico”; un pensiero, ovvero il concetto stesso, che può essere
definito in base a istruzione, reddito, livello culturale, che si applica ad un oggetto, e cioè ad un individuo.

Perché i concetti sono importanti?

“Per considerare che sia le mele che le pere appartengono alla categoria della frutta, dobbiamo comparare
la frutta con la non-frutta nella più grande categoria delle piante, e così via (fase di comparazione).
Una volta che abbiamo definito la categoria della frutta, possiamo giungere alla conclusione che un’arancia
è anche un frutto, comparando le proprietà di un’arancia con quelle di una mela e di una pera.
Pur essendo un frutto, un’arancia condivide alcune caratteristiche specifiche con i limoni e i pompelmi.
Quindi arance e limoni, da una parte, e mele e pere, dall’altra, appartengono a due diversi sotto-tipi di
frutta.” (Rihoux and Ragin, 2008)

“Prima di investigare la presenza o l’assenza di alcuni attributi o prima di ordinare oggetti e misurarli in
termini di variabili, dobbiamo formare il concetto di quella variabile” (Lazarsfeld and Barton, 1951)

“L’attenzione rivolta a un concetto è inversamente proporzionale all’attenzione rivolta alla misurazione


quantitativa” (Goertz, 2006)

Spesso l’attenzione tende a cadere con più forza sulla fase di misurazione e venire un po’ meno durante la
fase di concettualizzazione. Tuttavia, bisogna tenere bene a mente che la fase di concettualizzazione è
fondamentale perché indirizza verso una migliore misurazione dei concetti stessi.

Definizione di democrazia

Una democrazia è un “sistema politico in cui esistono delle elezioni, a cui partecipano liberamente i cittadini
con lo scopo di indirizzare l’attività politica attraverso l’elezione di una maggioranza incaricata a formare un
governo”.
Gli attributi di questo concetto (presenza di elezioni e scopo delle elezioni) si applicano a: Turchia, Stati Uniti
d’America, Brasile, Norvegia, Federazione Russa, Messico, Taiwan, Corea del Sud, Nuova Zelanda e India.
Una concettualizzazione del genere, utilizzata in un determinato contesto empirico, però, non può essere
molto utile perché non permette di distinguere molto tra i casi a disposizione.
Se venissero aggiunti ulteriori attributi come, ad esempio, la necessità di elezioni libere, corrette,
competitive e frequenti, ovviamente si restringerebbero i casi considerati “Paesi democratici”.

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La procedura di concettualizzazione consente di identficare i casi.

In base al concetto di democrazia che si utilizza si possono avere molti o pochi casi.
“Il Paese x è o no un caso di democrazia?”: se non si definisce il concetto non si sarà nemmeno in grado
di definire i casi.

Il modo in cui si definiscono i concetti permette di distnguere e di rilevare empiricamente gli attribut dei
casi che si stanno studiando.
Una volta definito il concetto ci si deve chiedere
quali sono le relazioni tra gli attribut del
concetto. Per avere un concetto non è sufficiente
mettere in fila gli attributi, è necessario chiedersi
se siano tutti necessari per osservare l’oggetto di
studio o ne bastno solo alcuni.

Una prima struttura semplice è quella che viene


definita “struttura classica”: permette di
identificare un determinato oggetto se, e solo se, n caratteristche sono present. Si tratta di una
struttura che coinvolge la necessità e la sufficienza delle caratteristiche.

se, e solo se, n caratteristche sono present


Element necessari e sufficient

“A democracy is a system where fully contested elections with full suffrage and the absence of massive fraud
are held, and where effective civil liberties and association are guaranteed” (Collier & Levitsky, 1997)

La seconda struttura è la cosiddetta “family resemblance”: permette di identificare un determinato oggetto


se n di m caratteristche sono present. Non ci sono elementi necessari, gli attributi individuali sono
sufficienti per il concetto).

se n di m caratteristche sono present


Non ci sono element necessari, gli attribut individuali sono sufficient per il concetto

“A democracy is a system where fully contested elections with full suffrage and the absence of massive fraud
are held, or where effective civil liberties and association are guaranteed” (Collier & Levitsky, 1997)

Nella concettualizzazione non basta identificare gli attributi, bisogna anche indicare come essi sono collegati
tra loro: in un caso questo collegamento è costituito dalla presenza di elementi necessari e sufficienti, in un
altro caso gli attributi sono soltanto sufficienti.

Applicazione

Se si vuole utilizzare una struttura di tipo “necessaria e sufficiente” si possono assumere di avere due
attribut ( x 1 e x 2 ) e utilizzare quella che viene chiamata “tavola di verità”. Ci si troverà di fronte ad
un caso del concetto studiato soltanto se entrambi gli attribut sono present ( x 1 e x 2 ), se uno dei
due attributi è assente non saremmo in presenza di un caso di quel concetto.

Nel caso della family resemblance è sufficiente che


soltanto uno dei due attribut sia presente per essere in
presenza di un caso di quel concetto.

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Il modo in cui si mettono in relazione gli attribut del concetto porta ad avere più o meno casi: nel caso di
utilizzo di una struttura di necessità e sufficienza i casi saranno in numero inferiore, nel caso di una
struttura di family resemblance, invece, i casi saranno in numero maggiore.

Scala di astrazione

La scala di astrazione permette di identificare la relazione


tra intensione ed estensione, anche conosciute come
connotazione e denotazione.

L’intensione si riferisce al numero di attribut utlizzat per definire un concetto . Nel caso della struttura di
necessità e sufficienza, avendo due attributi entrambi necessari e sufficienti, si avranno meno casi, nel caso
della struttura di family resemblance, invece, si avranno più casi. Più attribut si includono nella
concettualizzazione meno casi si osserveranno.

L’estensione si riferisce alla varietà di casi. Esiste un rapporto diretto e inverso tra il numero di attribut
utlizzat in un concetto e il numero di casi osservabili per quel concetto. Più basso sarà il numero di
attribut e più alto sarà il numero di casi. Viceversa, più alto sarà il numero di attribut e più basso sarà il
numero di casi.

Attributi del concetto di partito politico

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Come si può definire un concetto?

Esistono alcune strategie: 1. ancoraggio storico che consiste nell’andare a osservare come storicamente
veniva utilizzato quel concetto; 2. ancoraggio terminologico che indaga sull’etimologia del concetto al fine
di identificarne gli elementi costitutivi; 3. strategia che utlizza concetti affini a quello che è il proprio
concetto di interesse (confronto, comparazione tra concetti); 4. Indagare sul modo in cui un determinato
concetto è stato utilizzato nella letteratura, o meglio, nell’ambito di ricerca in cui ci si sta muovendo (simile
alla strategia dell’ancoraggio storico).

Una volta conclusa la fase della concettualizzazione si passa alla fase di operatvizzazione, e cioè
all’applicazione dei concetti a casi concret. In questa fase si passa dai concetti generali e astratti agli oggetti
della ricerca identificando le proprietà di questi ultimi, e cioè cercando di capire se gli attribut del concetto
utlizzato sono caratteristche degli oggetti di studio.
Quando le caratteristche degli oggetti variano tra loro queste proprietà diventano variabili.

La fase successiva è quella della definizione operatva. Una volta stabiliti quali sono gli attributi di un
concetto, infatti, è necessario stabilire delle regole per tradurre in operazioni empiriche il concetto stesso.
Se si vuole, ad esempio, misurare lo status socioeconomico lo si può fare attraverso il titolo di istruzione, e
cioè rendendo operativo il concetto di status socioeconomico attraverso il titolo di studio. Nel momento in
cui si applica il titolo di studio al concetto di status socioeconomico si stanno definendo e applicando delle
regole a dei casi concreti.
È proprio attraverso la fase di operatvizzazione che si è in grado di cogliere empiricamente le proprietà
degli oggetti (traduzione empirica della teoria).

Questa procedura è quella che ci porta dai concetti alle variabili.

Che cos’è una variabile? Una variabile è una proprietà operatvizzata dell’unità di analisi che si rileva
attraverso una procedura detta “definizione operatva”.

Esempio: possiamo operativizzare la proprietà ‘pratica religiosa’ attraverso la domanda ‘Con che frequenza
lei va in chiesa?’

Una variabile è detta tale perché varia e assume modalità diverse tra i casi di studio.

Le variabili assumono valori che possono essere dei simboli numerici o dei termini.

Esempio: la variabile ‘pratica religiosa’ operativizzata con la domanda ‘Con che frequenza lei va in chiesa?’,
ha le seguenti modalità: “mai”, “due-tre volte l’anno”, “una volta al mese”, “due-tre volte al mese”, “una o
più volte la settimana”; i cui rispettivi valori sono 1, 2, 3, 4, 5.

Il processo di operatvizzazione è qualcosa di assimilabile alla misurazione. La misurazione, infatti, è la


procedura attraverso la quale si assegnano dei valori numerici alle proprietà. Per parlare propriamente di

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misurazione, però, si deve avere un’unità di misura. Nelle scienze sociali, non avendo delle specifiche unità
di misura, è meglio parlare di quantficazione perché ciò che si cerca di fare è rendere quantficabili i
fenomeni sociali e politci che si vogliono studiare. È fondamentale ricordare, inoltre, che la fase di
quantficazione avviene soltanto dopo la definizione dei concetti.

Si parte da un concetto, definito attraverso le sue proprietà, e, attraverso una procedura di


operativizzazione, si giunge alla variabile.

Una volta definiti i concetti operativizzati si dev’essere in grado di distinguere gli oggetti ai quali afferiscono
le proprietà studiate.

Quando si definisce una teoria non si ha necessariamente bisogno di definire quali sono le unità di analisi
perché, essendo le teorie generali e astratte, si possono applicare a diversi contesti e a diverse unità di
analisi. I concetti, invece, devono essere applicat a delle osservazioni. Essere in grado di identificare le
osservazioni e il loro gruppo di unità di analisi è un passo fondamentale della ricerca.

Esistono diversi tpi di unità di analisi: individuo, aggregato di individui, gruppo/organizzazione/istituzione,


evento, prodotto culturale o una combinazione di questi.

 L’individuo è l’unità naturale. Spesso si studiano i comportamenti e le opinioni individuali per cui, nella
stragrande maggioranza dei casi, le unità di analisi sono gli individui in senso generico, gli individui
come entità.
 Un’altra unità di analisi spesso utilizzata è l’aggregato di individui o collettività. Si può trattare anche di
aggregazioni territoriali come Comuni, Province, Regioni, Stat.
Le caratteristiche di queste unità possono essere il risultato di aggregazione (di operazioni
matematiche) o caratteristche proprie.
 Un’altra unità di analisi è il gruppo, che rappresenta un collettivo. La differenza, in questo caso, è che la
caratteristica che si cerca di misurare è un dato raccolto a livello collettivo (scuole, partt, industrie,
famiglie, governi).
 Un’altra unità di analisi sono gli event come episodi violenza, sbarchi, elezioni, campagne elettorali,
scioperi, le cui caratteristiche sono proprie (luogo, frequenza, durata, partecipanti).
 Altra unità di analisi sono i prodotti culturali, spesso, utilizzati per studiare il contenuto. Molto spesso
le unità di analisi assimilabili al prodotto culturale sono i test (articoli di giornale, dichiarazione
pubbliche, posts, tweets, programmi politici dei partiti).

15.03.2021 – 7 lezione

Variabili, indicatori e indici

Cosa si misura nelle scienze sociali? Come si rendono empirici e, quindi, osservabili le proprietà e i concetti
che si vogliono utilizzare nella ricerca?

Che cosa sono le variabili?

Le variabili sono proprietà operatvizzate di un concetto che possono essere misurate.

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Esempio

Assumiamo di voler misurare il concetto di partecipazione politica. Il concetto di partecipazione politica è un


concetto ampio che riguarda diverse dimensione. Una proprietà della partecipazione politica potrebbe
essere, ad esempio, la partecipazione istituzionale. Potremmo, quindi, rendere operativa la proprietà del
concetto di partecipazione politica attraverso l’osservazione di una serie di comportamenti che riguardano
la partecipazione istituzionale come, ad esempio, il voto, l’aver contattato politici, l’essere membri o
volontari di organizzazioni politiche o l’aver dato contributi in denaro a organizzazioni di tipo politico.

Le modalità con le quali i valori delle variabili variano permettono di osservare se una variabile varia o
meno. Se le modalità delle variabili non variano allora la variabile non varierà e si parlerà di costante,
anziché di variabile.

Le variabili possono variare sia tra modalità che nel tempo e nello spazio.

Variazione nello spazio Variazione nel tempo

Le variabili assumono un’accezione diversa in base


al contesto in cui le si utilizzano. Il più delle volte,
nel contesto delle scienze sociali, si ha a che fare
con una variazione che viene osservata tra gli
individui. Un altro tipo di variazione è la variazione
nelle osservazioni. Si tratta di un tipo di variazione
utilizzato frequentemente nell’ambito delle scienze
sociali ma meno in quello delle scienze naturali. Queste ultime, infatti, potendo utilizzare lo strumento
dell’esperimento sono in grado di manipolare le osservazioni (osservarle prima o dopo il trattamento).

Una delle distinzioni principali quando si parla di variabili riguarda la possibile manipolazione delle
variabili. Si possono cambiare i valori delle variabili che si osservano nei soggetti e nelle osservazioni
imponendo una sorta di trattamento?
Nel campo delle scienze sociali non sempre è possibile perché alcune variabili non sono manipolabili. In
altre parole, lo strumento dell’esperimento che si associa all’ambito delle scienze naturali non è applicabile
a quello delle scienze naturali perché non tutte le variabili sono manipolabili.

Oltre alla manipolabilità, ci sono altri criteri di distinzioni tra le variabili. Esse si possono distinguere in base
alla loro relazione nella catena causale; in base alla loro osservabilità (direttamente osservabili o
indirettamente osservabili); in base al carattere individuale o collettivo.

Essere in grado di distinguere tra le varie variabili permette anche di identificare la strategia di trattamento
(delle variabili) più adeguata.

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Manipolabilità

Le variabili si possono in base alla loro manipolabilità o non manipolabilità.


Una variabile manipolabile è una variabile che può essere modificata da chi conduce la ricerca. Il
ricercatore, ad esempio, può intervenire assegnando, attraverso delle procedure ben determinate, i valori, e
cioè le modalità della variabile. È il ricercatore a decidere come varia la variabile presa in esame
(manipolazione artficiale).
Esistono, però, anche variabili non manipolabili che non possono essere decise a priori dal ricercatore
(età, genere, istruzione).

Relazione causa-effetto

Un altro criterio di distinzione per identificare le variabili è la loro posizione nella catena causa-effetto.

Che cosa, nella catena, avviene prima? Qual è la causa e qual è l’effetto?
La variabile che causa viene definita variabile indipendente; quella che, invece, rappresenta l’effetto viene
definita variabile dipendente (variabile che deve essere spiegata).
In una catena che coinvolge una causa e un effetto non si ha sempre ed esclusivamente la presenza di una
sola variabile indipendente, spesso per spiegare una variabile dipendente si necessita di più variabili
indipendent (relazioni multvariate). Quando si utilizza una sola variabile indipendente per spiegare la
variazione nella variabile dipendente si parla di relazione bivariata che, però, è spesso insufficiente perché
non permette di tenere conto del ruolo di altre variabili.

Un altro modo di vedere la relazione causa-effetto è vederla in termini di stmolo e risposta: si introduce
uno stimolo e si osserva la risposta a questo stimolo.

Per spiegare i fenomeni sociali è fondamentale distinguere tra variabili dipendent e indipendent perché le
prime rappresentano ciò che si ha intenzione di spiegare, mentre le seconde spiegano la variazione delle
variabili dipendent.

Osservabilità

Si può distinguere anche tra variabili manifeste e variabili latent. Le prime sono variabili direttamente
osservabili (genere, livello di istruzione, età, numero dei figli), le seconde sono variabili indirettamente
osservabili, ossia variabili che mirano alla misurazione di concetti che non si possono osservare
empiricamente (status socioeconomico). Le variabili latenti molto spesso si riferiscono a concetti complessi,
ad atteggiamenti e a costrutti teorici complicati come, ad esempio, la democrazia.

Si può utilizzare tutta una serie di tecniche di analisi per costruire le variabili latenti a partire da quelle
direttamente osservabili (variabili manifeste).

Carattere individuale o collettivo

Quando si parla di variabili collettive si può distinguere tra variabili aggregate o variabili globali. Per
quanto riguarda le prime (variabili aggregate) si possono osservare proprietà che derivano da operazioni di
aggregazione, e cioè proprietà individuali aggregate a livello di gruppo (es. il tasso di disoccupazione di un
Paese è una caratteristica che deriva da una proprietà individuale). Esistono, però, anche variabili collettive
esclusive del gruppo (variabili globali) che non derivano da operazioni di aggregazione delle proprietà dei
membri che lo compongono (legge elettorale).

Quando si attribuiscono agli individui le caratteristche del gruppo si può parlare di variabili contestuali. Si
va ad osservare, cioè, se le caratteristiche del contesto hanno un qualche effetto sulle variabili individuali.
Quando si utilizza questo genere di strategia si è di fronte a quella che è conosciuta “analisi multlivello”,

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un’analisi che prende in considerazione caratteristche di più livelli di analisi (livello individuale e livello
collettivo-aggregato-contestuale).

Nella ricerca quanttatva le variabili sono un aspetto essenziale.

“Le variabili sono i termini essenziali, gli elementi fondamentali, il ‘vocabolario’ delle scienze sociali”
(Boudon e Lazarsfeld, 1965)

“Noi possiamo descrivere il mondo del sociale per mezzo di un complesso di variabili e studiare poi le
interrelazioni fra di esse” (Lazarsfeld e Rosenberg, 1955)

Esempio studio di Ingelhart

Quello che Ingelhart cercò di studiare è il cambiamento valoriale. Di fatto, però, è molto difficile osservare i
valori e capire cosa sono (Sono delle disposizioni? Degli atteggiamenti?). Cosa ancora più complessa, poi, è
distinguere tra valori. Ingelhart, in particolare, aveva come scopo quello di distinguere tra valori materialisti
e valori post-materialisti, entrambi variabili latenti. Ciò che egli fece per rilevare queste due tipologie di
valori fu distinguere tra due aree: bisogni relativi all’area materialista (bisogni di sostentamento e sicurezza,
di appartenenza e stima) e bisogni relativi all’area post-materialista (bisogni di autorealizzazione estetica e
intellettuale), ovvero ad un’area più distaccata dalle esigenze fisiologiche, di sostentamento e sicurezza.
Per ogni area ideò alcune domande e pose ai rispondenti una batteria di domande, ovvero una serie di
domande poste in sequenza che rilevano degli aspetti particolari di un concetto.

Ingelhart, infatti, sosteneva che si potessero rendere osservabili i valori materialisti e post-materialisti a
partire da domande osservabili: poneva delle domande agli individui riguardo a cose concrete che fornivano
un’indicazione riguardo la loro posizione riguardo i valori. Gli individui che davano più importanza alle
domande riferite all’area dei bisogni sociali e di autorealizzazione avevano, secondo lo studioso, valori più
post-materialisti e, quindi, un atteggiamento maggiormente post-materialista rispetto agli individui che,
invece, ponevano la loro attenzione in misura maggiore sulle domande relative all’area dei bisogni
fisiologici, di sostentamento e sicurezza.

Si rendono osservabili costrutti non direttamente osservabili attraverso domande che permettono di
avvicinarsi in maniera più precisa al concetto che si vuole analizzare.

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Limit

Le definizioni operatve, ovvero il modo in cui si rendono osservabili i concetti, non sono completamente
oggettive. Permane sempre, infatti, un aspetto di discrezionalità del ricercatore. Si tratta di un aspetto
inevitabile dal momento che non è possibile misurare in maniera univoca gli atteggiamenti sociali e politici o
i comportamenti degli individui. Questo si scontra anche con un’ infattibilità tecnica che riguarda
l’impossibilità di porre agli intervistati centinaia di domande e il limite di tempo.

Si tratta, quindi, di un processo parziale. Per diverse ragioni, infatti, non si riescono a cogliere interamente
tutte le dimensioni di un concetto che non è direttamente osservabile. Qualunque tentativo sarà parziale e
andrà a misurare soltanto un aspetto di quel concetto.

Questo limite pone di fronte ad una serie di problemi.


Se non si misura un concetto nella sua totalità, ovviamente, lo si impoverirà. Lo si misurerà in maniera
approssimativa e, di conseguenza, se ne ridurrà la complessità (operazione arbitraria e riduttiva). Un altro
problema è che spesso si misurano i concetti dell’indagine con indicatori specifici incapaci di coprire parte
del concetto stesso.

La definizione operatva nelle scienze sociali rappresenta un criterio di scientficità, e cioè il criterio
attraverso il quale si rende misurabile tutta una serie di caratteristche sociali che hanno a che fare con
l’individuo e con i prodotti dell’individuo.

Definendo esplicitamente le procedure attraverso le quali si sono resi operativi i concetti che si utilizzano, si
opererà nel campo delle scienze sociali. Rendere esplicite le definizioni operative permetterà, inoltre, di
rientrare in un ambito di oggettività perché esplicitando le proprie scelte queste potranno essere utilizzate
da chi verrà dopo nel tentativo di migliorare, controllare, aggiornare o replicare la ricerca fatta in
precedenza.

Esistono anche altre caratteristiche che permettono di distinguere in maniera più precisa le variabili
utilizzate nelle scienze sociali e di scegliere gli strumenti più appropriati per l’analisi delle stesse. Saper
distinguere le variabili utilizzate, quindi, è fondamentale anche per capire come analizzarle.

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Per classificare le variabili, infatti, si possono utilizzare anche le caratteristche logico-matematche delle
variabili stesse, rappresentate dal tipo di operazioni ad esse applicabili: operazioni logiche (= o ≠) o
operazioni matematche (+, -, × o ÷).

In base al tipo di operazione effettuabili sui valori delle variabili si può distinguere tra variabili nominali,
ordinali e cardinali.

Variabili nominali

Le variabili nominali sono variabili che assumono stat discret non ordinabili . Uno stato discreto è uno
stato finito che vuol dire che non esistono stat intermedi tra le diverse modalità (es. genere – donna o
uomo, non esistono stati intermedi). L’altra caratteristica è che gli stat non sono ordinabili, non esiste, cioè,
una gerarchia tra i diversi stati (non si può dire che essere uomo è maggiore di essere donna o che essere
cristiano è maggiore di essere musulmano).

Ne consegue che ad una variabile nominale possono essere applicate soltanto operazioni di tpo logico (= o
≠).

 genere, nazionalità, religione, professione, status occupazionale, adesione partitica, preferenza di voto

Le modalità della variabile sono gli stat che essa assume. Se si parla di genere, ad esempio, le modalità
saranno uomo e donna, se si parla di preferenza partitica, invece, le modalità saranno i diversi partiti
politici.

I valori che queste variabili assumono sono dei nomi, dei termini assegnat alle modalità (e non dei
numeri).

Queste variabili vengono operatvizzate attraverso una procedura di classificazione. In altre parole, si
classificano le proprie osservazioni in base all’appartenenza o meno a determinate categorie. In
particolare, per appartenere a queste categorie devono essere rispettati due criteri: esaustvità e mutua
esclusività. Per quanto riguarda l’esaustvità è necessario che ogni caso possa essere collocato in una delle
categorie previste, per quanto riguarda la mutua esclusività, invece, è necessario che un caso non possa
essere classificato in più di una categoria.

Quando il numero di modalità è pari a due le variabili nominali sono conosciute anche come variabili
dicotomiche.

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Variabili ordinali

Le variabili ordinali sono stat discret orinabili. Si tratta di variabili simili a quelle nominali con la differenza,
però, che gli stati discreti sono ordinabili. Non c’è un valore intermedio tra le diverse categorie ma gli stat
che le variabili assumono sono ordinabili gerarchicamente (livello di istruzione, classe sociale).

A queste variabili oltre alle operazioni di uguaglianza (=) e di disuguaglianza (≠), possono essere applicate
anche quelle di maggiore e minore (> e <). Come per le variabili nominali, anche con le variabili ordinali non
possono essere svolte operazioni algebriche poiché non si conosce la distanza tra le categorie.

Queste variabili vengono operatvizzate assegnando le osservazioni a modalità ordinate.

In questo caso le modalità (o stati) possono assumere sia nomi che numeri, anche se non si conosce la
distanza, ad esempio, tra avere la licenza elementare e non avere alcun titolo di studio. I numeri, dunque, in
questo caso sono soltanto un simbolo/un’etchetta e non hanno alcun valore numerico.

Variabili cardinali

Nelle variabili cardinali in numeri hanno un significato numerico che permette di ordinare gli stat della
variabile. Il numero, infatti, ha una proprietà cardinale, e cioè un valore proprio.

Le variabili cardinali non sono così diffuse nelle scienze sociali (età, reddito).

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Con le variabili cardinali possiamo svolgere anche le operazioni algebriche (+, -, × o ÷ e > o < e = o ≠).

Le variabili cardinali vengono operatvizzate attraverso due procedure: procedura di misurazione e


procedura di conteggio.

- La procedura di misurazione si utilizza quando si vuole misurare una variabile contnua, ovvero una
variabile che può assumere stat infinit (reddito, età). Questa procedura si utilizza, però, quando si ha
un’unità di misura prestabilita. Nelle scienze sociali, non essendoci molte unità di misura prestabilite come,
ad esempio, il metro, questa procedura è di difficile utlizzo.

- La procedura di conteggio, invece, è la procedura attraverso la quale è possibile contare le proprietà di


un’osservazione (numero di figli, numero di volte che un individuo ha partecipato ad una manifestazione
pubblica, numero di iscritti ad un partito). In questo caso l’unità non è convenzionale ma naturale. Quando
si conta, però, si deve tenere a mente che la proprietà che sta misurando è discreta (es. una persona che ha
due figli non può averne 1,5 figli), non ci sono, cioè, stat intermedi tra i diversi stat della variabile.
Ovviamente, aggregando i valori di queste variabili ad un numero superiore (es. calcolo del numero medio
di figli per famiglia italiana) si potrà avere una variabile non discreta, e cioè una variabile in cui i valori
possono assumere posizioni intermedie.

Poiché le variabili cardinali sono difficili da identificare nelle scienze sociali, si parla di “variabili quasi
cardinali”. Non sempre esistono strumenti di misurazione convenzionali per cui si utilizzano delle strategie
per rendere continue delle proprietà che non sono propriamente cardinali (misurazione di atteggiamenti,
comportamenti attraverso scale).

Il problema nelle variabili che vengono utilizzate nelle scienze sociali è che non sempre siamo in grado di
misurare ciò che si vuole misurare in maniera perfetta e oggettiva. Esistono, infatti, dei grossi difetti di
operazionalizzazione: a. reazione dell’essere umano alla misurazione; b. interazione tra osservatore e
osservato; c. irriducibilità del soggetto umano; d. complessità delle variabili sociali.

Per questi motivi vengono applicate delle tecniche (tecnica delle scale) attraverso le quali si misurano gli
atteggiament con misure di posizionamento relative all’opinione degli intervistati riguardo una serie di
questioni.

16.03.2021 – 8 lezione

Indici, dat e disegni di ricerca

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Esiste una serie di concetti molto diversi tra loro. Esistono concetti semplici come, ad esempio,
l’occupazione, l’interesse per la politica, il partito votato ma anche concetti complessi (o costrutti) non
direttamente rilevabili come la democrazia, lo status socioeconomico, la partecipazione politica, il potere.
Essendo quest’ultimi concetti non direttamente misurabili devono essere scompost nelle loro componenti
per permettere al ricercatore di individuare le proprietà che possono essere operazionalizzate e
trasformate in variabili.

Nelle scienze sociali si può avere a che fare con concetti, più o meno complessi, ordinabili anche su un
continuum ideale. Questo continuum può essere concepito come una scala di generalità che va da concetti
più specifici a concetti più generali che coinvolgono dimensioni più complesse e difficilmente rilevabili. Un
concetto di questo tipo può essere la religiosità che può essere rilevata attraverso la specificazione del
grado di specificità che si vuole applicare al concetto stesso. La religiosità, infatti, può essere vista come
qualcosa di generale, come credere nell’esistenza di una divinità, o come qualcosa di via via più specifico,
fino a rilevare questo concetto come un comportamento, e cioè come l’andare a messa tutte le domeniche.

Quali sono le sub-componenti dei concetti (attraverso cui si conoscono i concetti latenti)?

Le sub-component dei concetti, conosciute anche con il nome di “indicatori”, rappresentano dei concetti
più semplici, più specifici e, quindi, più facilmente traducibili empiricamente. Per questo motivo quando si
ha un concetto complesso si cerca di collegarlo alla realtà empirica attraverso degli indicatori. Quello che si
fa, di fatto, è rendere meno generale il concetto per cercare di costruire uno strumento in grado di cogliere
l’attributo specifico del concetto.
Quando si cerca di scomporre in componenti i concetti più complessi si vanno ad identificare dei sotto-
concetti e si cerca di rilevarli attraverso degli strumenti conosciuti con il nome di “indicatori”. Si deve, però,
considerare il fatto che un indicatore può non misurare interamente un concetto (può sovrapporsi solo
parzialmente al concetto per il quale è stato scelto) e un concetto non può essere esaurito completamente
da un solo indicatore. Esiste, cioè, un rapporto parziale tra concetto e indicatore. In altre parole, un
concetto può essere misurato con più indicatori e gli indicatori possono riferirsi non soltanto a quel
concetto, ovvero possono avere rapporti con più concetti (parte indicante e parte estranea dell’indicatore)
Possiamo, quindi, vedere i concetti come composti da più dimensioni che possono essere rilevati attraverso
più indicatori.

Come si trasformano in misure empiriche i concetti che si vogliono utilizzare? Attraverso quattro fasi: 1.
artcolazione del concetto in dimensioni; 2. scelta degli indicatori; 3. operazionalizzazione; 4. formazione
degli indici.

Le prime due fasi sono definite “fasi teoriche” perché non hanno a che fare direttamente con la raccolta dei
dati, mentre la terza e la quarta fase sono “fasi operatve” che hanno a che fare con i dati e, quindi, con la
costruzione delle misure che si vogliono utilizzare.

1. Artcolazione del concetto


F
A Durante la prima fase si riflette sul concetto, si cerca, cioè, di identficare le component di significato, gli
SI attribut e le dimensioni del concetto. Quello che si fa in questa fase è artcolare la struttura del concetto
per identficarne le dimensioni e i significat degli attribut che compongono il concetto stesso.
T
E
O
2. Scelta degli indicatori
R
I Il secondo passo è quello di scegliere gli indicatori. Una volta identificate le dimensioni del concetto si cerca
C di identificare gli indicatori con i quali rilevare empiricamente il concetto stesso. Si tratta di una fase ancora
H
teorica in cui si sviluppa l’articolazione, e cioè la divisione e l’analisi, del concetto stesso che consente di
E
identificare gli indicatori o, in altre parole, concetti più specifici.

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F 3. Operazionalizzazione
A
SI In questa fase si devono trasformare le sotto-component del concetto che si vuole misurare in variabili. Si
devono, quindi, trovare delle misure che permettano di cogliere empiricamente le sotto-dimensioni.
O
P
E
4. Costruzione degli indici
R
A Quello che si deve fare in questa fase è ricomporre le informazioni ottenute, attraverso l’utilizzo di più
T indicatori, in una misura in grado di rappresentare la molteplicità delle informazioni. Si deve costruire un
I
V
indice in grado di riassumere le informazioni rilevate attraverso le molteplici variabili che misurano gli
E attributi delle dimensioni di un concetto. Si possono costruire indici unidimensionali, multdimensionali o
classificazioni.

Il concetto viene scomposto in più dimensioni (concetti più specifici) che a loro volta vengono rilevat da
indicatori (concetti ancora più specifici). Ogni indicatore viene rilevato da uno strumento empirico, e cioè
da una la variabile, che permette di assegnare dei valori agli stat delle proprietà che le osservazioni
assumono. Una volta identificati questi valori le informazioni ottenute devono essere ri-assemblate in un
indice che, quindi, rappresenta la misura (parziale) del concetto complesso.

Esempio concetto di partecipazione politica

* Differenza tra indicatore e variabile.


La variabile è lo strumento operatvo che permette di rilevare e assegnare un valore ad ogni osservazione
(“Quanto spesso discuti di politica?”). È ciò che permette di cogliere empiricamente il valore associato allo

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stato della proprietà del concetto in analisi. L’indicatore, invece, rimane su un livello concettuale collegato
ad una dimensione che ha una complessità maggiore.

Il passo successivo, dopo aver definito il concetto, è quello di rilevare i dat. Il ricercatore può raccogliere
direttamente i dat o utlizzare quelli raccolt da altri . Ovviamente, raccogliere i propri dati è qualcosa di
estremamente complesso che include non pochi problemi. Il problema principale è quello delle risorse:
condurre un’indagine scientificamente accettabile, che rispetti tutte le regole del metodo, infatti, è
un’operazione estremamente costosa non solo in termini economici ma anche in termini di tempo e
complessità. Per questo motivo, un’alternativa non meno affidabile è quella di utilizzare dati raccolti in
precedenza da altri. Nella nostra epoca la disponibilità e l’accessibilità di dat raccolt da altri (dat
secondari) sono tali da portare a preferire questa seconda strada.

Dat secondari

L’analisi dei dat secondari è “un’analisi di dati precedentemente raccolti, disponibili e organizzati in modo
sistematico rispetto a una unità di analisi individuale o aggregata, provenienti da una o più fonti
statistiche, con lo scopo di rispondere a una domanda di ricerca definita indipendentemente dalle finalità
per cui i dati sono stati originariamente raccolti” (Biolcati Rinaldi e Vezzoni, 2012)

Si tratta di dati che devono essere già stati raccolti e accessibili. Essi, inoltre, devono essere organizzati in
modo sistematico, il che significa che devono essere disposti ordinatamente in una matrice di dati o un
dataset, esistente materialmente.
I dati devono essere organizzati rispetto ad un’unità di misura individuale o aggregata. Molto spesso l’unità
di analisi è quella dell’individuo ma è possibili avere anche dati che misurano proprietà di unità di analisi che
rappresentano dei collettivi.
I dati secondari possono provenire da una o più fonti statistiche. Si tratta di un elemento estremamente
interessante perché suggerisce il fatto che non si debbano utilizzare necessariamente dati provenienti da
un’unica fonte statistica ma, al contrario, si possano combinare e armonizzare informazioni (compatibili)
derivanti da fonti di dati diversi. Questi dati, vengono utilizzati per rispondere alla domanda di ricerca
definita, indipendentemente dalla motivazione per cui questi sono stati raccolti. Spesso, infatti, vengono
raccolti con finalità diverse perché i gruppi di ricerca hanno interessi e scopi diversi tra loro.

I dat secondari hanno dei grandissimi vantaggi: sono economici (nella maggior parte dei casi non si
pagano); hanno un aspetto di cumulatvità, cioè migliorano col tempo; possono essere analizzati su un
livello comparatvo per cui, ad esempio, possono essere analizzati gli atteggiamenti e i comportamenti degli
individui in società diversi o lontani nel tempo; vengono prodotti e resi disponibili con metodi e strument
affidabili da isttuzioni che hanno un’ottima reputazione; forniscono una visione della società e della
politca molto prossima alla realtà.

I dati secondari, però, hanno anche dei limit: innanzitutto vi è una limitazione negli interrogatvi e, in
secondo luogo, un problema legato al fatto che spesso i ricercatori tendono ad utlizzare dat che portano
alla definizione delle domande di ricerca, anziché partre dalla domanda di ricerca per cercare i dati per
definire le domande di ricerca.

I dat secondari si possono suddividere in dat individuali (surveys, sondaggi, indagine di mercato); dat
aggregat che forniscono informazioni su unità collettive come Comuni, Province, Regioni, Stati; dat
testuali che raccolgono informazioni su discorsi politci o programmi dei partiti politici.

Cosa si può fare con i dati secondari? Si può partire da una teoria e svilupparla in ipotesi a partire da un
problema che si è identificato e, poi, usare i dat secondari per testare le ipotesi. Possono essere utilizzati
per analizzare un cambiamento nel tempo, per studiare un problema in modo comparato oppure per
migliorare i dati stessi cercando di trovare nuovi strumenti di misurazione, nuovi indici di ricerca.

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Una volta scelto il percorso legato ai dati secondari ci si deve chiedere quale sia il disegno della ricerca in
modo da riuscire ad identificare la base empirica che si vuole utilizzare analizzare i dati ed esporre i risultati.
I disegni della ricerca, ovviamente, dipendono dal tipo di domanda di ricerca a cui si vuole dare una
risposta.

Per identificare i possibili disegni di ricerca si deve capire quali siano le dimensioni di analisi (tempo, spazio,
livello).

Una prima dimensione di analisi è quella temporale. Si può svolgere un’analisi sincronica (trasversale) o
diacronica (longitudinale), il che significa che si può analizzare una sezione trasversale, e cioè un momento
specifico dell’esistenza dell’unità di analisi, oppure il cambiamento delle unità di analisi.
Una seconda dimensione è quella dello spazio, secondo la quale si può studiare un contesto (caso singolo)
o più contest (più casi).
Un’altra dimensione è quella del livello, secondo la quale si possono studiare gli individui oppure le
collettività, e cioè delle unità di analisi aggregate.

Se si considerano tutte e tre queste dimensioni si arriverà ad identificare diversi disegni di ricerca con
caratteristiche che dipendono dalla scelta sull’analisi del tempo, dello spazio e dei livelli.

Analisi trasversale

Analisi longitudinale

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La matrice longitudinale è diversa da quella trasversale perché l’osservazione viene misurata nel tempo. Si
misura la caratteristica dell’osservazione più volte nel tempo.

Incrociando la dimensione del tempo, dello spazio e del livello di analisi si possono identificare otto tpi di
disegni di ricerca.

1. Studio sincronico non-comparato individuale

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Le unità di analisi sono gli individui, le informazioni vengono rilevate in un momento preciso nel tempo e
in un solo contesto.

Esempio: studio del comportamento di voto alle elezioni politiche italiane del 2018 – indagine post-
elettorale)

2. Studio sincronico non-comparato aggregato

L’unità di analisi è un aggregato/collettivo (es. Paese o organizzazione). Le caratteristiche del fenomeno


prescelto (volatilità, frammentazione, disproporzionalità, astensionismo, turnover) vengono analizzate in un
momento preciso del tempo (studio di caso).

Esempio: studio delle elezioni politiche italiane del 2013

3. Studio sincronico comparato individuale

Si tratta di un’estensione del primo studio (studio sincronico non-comparato individuale). Quello che si fa in
questo caso è analizzare comportament, atteggiament, opinioni individuali verificatsi in più contest,
nello stesso momento. Si utilizzano dati che provengono da indagini individuali svolte in più contesti nello
stesso momento (usato spesso in molte indagini).

Esempio: studio del comportamento di voto alle elezioni europee del 2019

Questo genere di disegno di ricerca è conosciuto anche come analisi mult-livello. Esso, infatti, mira a
studiare come un fenomeno venga influenzato sia da variabili misurate a livello individuali che da variabili
misurate a livello contestuale (rapporto micro-macro).

4. Studio sincronico comparato aggregato

Si tratta di un’estensione del secondo disegno di ricerca (studio sincronico non-comparato aggregato). In
questo caso, anziché considerare gli individui, si considerano i contest analizzandoli in un preciso momento
temporale.

Esempio: studio della variazione del numero di donne nei Parlamenti dei diversi Paesi

5. Studio diacronico non-comparato individuale

Questo genere di studio può richiedere dat che provengono da inchieste campionarie ripetute o da
inchieste campionarie panel. La differenza tra le due è che, mentre la prima non intervista gli stessi
individui, la seconda comprende gli stessi individui, e cioè segue il comportamento o l’atteggiamento degli
stessi individui nel tempo. In questo modo, dunque, è possibile studiare il cambiamento aggregato nel
tempo o il cambiamento individuale. Tutto ciò, però, viene fatto considerando un solo contesto.

6. Studio diacronico non-comparato aggregato

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La versione non individuale di questo studio è lo studio diacronico non-comparato aggregato con il quale si
osservano le caratteristche di un aggregato in un solo contesto nel corso del tempo. Si studiano, ad
esempio, il cambiamento della popolazione di un Paese, il cambiamento dei consumi, dei prezzi, della
partecipazione elettorale, della natalità (studio dei trend, delle serie storiche).

7. Studio diacronico comparato individuale

Si tratta di uno studio che permette di studiare il cambiamento negli individui in più contest (indagine
campionaria ripetuta o indagine panel in più contesti). In questo caso, il livello di complessità aumenta
perché si hanno più font di variazione: i dat possono variare tra contest, nel tempo e tra gli individui.

8. Studio diacronico comparato aggregato

Si tratta di un’estensione dello studio diacronico non-comparato aggregato, in cui si studiano gli aggregat in
maniera comparata nel tempo. Si può studiare, ad esempio, la variazione di una certa caratteristica dei
Paesi nel tempo tra Paesi diversi. Si parla anche di “time-series-cross-sectional desing” (sezione trasversale
ripetuta nel tempo).

Come scegliere i dati secondari?

Innanzitutto bisogna cercare di scegliere i dati in base alla conformità della domanda di ricerca, ci si deve
chiedere, cioè, se quei dati possano essere utili nel rispondere alla domanda. In secondo luogo, ovviamente,
i dat che si selezionano devono avere una certa qualità. Si deve indagare sul modo in cui sono stati raccolti,
sulla procedura di rilevazione (faccia a faccia, Internet, telefono), sul modo in cui è stato costruito il
campione e su quale sia l’istituzione che ha portato avanti la raccolta per capire se si tratti di dati affidabili o
meno. Infine, bisogna capire se i dat siano pubblici e in quale misura lo siano. Bisogna, cioè, cercare di
capire come accedere ai dati, capire se siano posseduti da archivi, da istituzioni e gruppi di ricerca, se siano
gratuiti o meno e se siano di facile accesso.

Come ottenere i dati secondari?

La difficoltà di accesso dei dat secondari può essere ordinata su un continuum:

- archivio online senza registrazione;


- archivio online con registrazione dell’utente;
- archivio online/offline con invio di richiesta firmata parte dell’utente;
- archivio offline che richiede la presentazione di una richiesta formale da parte di un membro di un gruppo,
o istituzione di ricerca, riconosciuto a cui si allega una proposta di ricerca.

L’accesso dipende dalla fonte.

Dove si trovano i dati?

Ci sono tre possibilità: 1. contenitori di dat, ovvero dei sit all’interno dei quali sono contenuti i dati; 2.
archivi che distribuiscono dat prodotti da una sola fonte/isttuzione; 3. respositories che raccolgono dat
che provengono da più font anche molto diverse tra loro.

* Differenza tra unità di analisi e unità di rilevazione.


L’unità di analisi non è sempre uguale all’unità di rilevazione. Si può, ad esempio, avere a che fare con un
aggregato (Paese) che rappresenta l’unità di analisi e allo stesso tempo con un’unità di rilevazione
rappresentata dall’individuo (anziché dal Paese). Nel caso dell’analisi del “tasso di disoccupazione di un
Paese” il risultato è costruito a partire da un dato individuale. L’unità di rilevazione è l’individuo ma il dato
(del tasso di disoccupazione) è aggregato.

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L’unità di analisi e l’unità di rilevazione corrispondono alla stessa unità quando la caratteristca
dell’aggregato è misurata direttamente sull’aggregato stesso e, quindi, è una caratteristica propria di
quell’aggregato.

22.03.2021 – 9 lezione

Inchiesta campionaria

Cosa si fa per conoscere un fenomeno? Quali sono lo strumento e la strategia che possono essere utilizzare
per conoscere un determinato fenomeno?

Per conoscere un fenomeno si possono fare due cose: chiedere e osservare. Da un lato, cioè, si può avere
un dialogo con le persone intervistate e chiedere direttamente loro cosa pensino riguardo determinati temi;
dall’altro lato, osservare i comportamenti degli individui.

Quando si parla di indagine campionaria si fa riferimento ad uno strumento che si pone come obiettivo
quello di conoscere attraverso di la rilevazione, tramite interrogazione, di informazioni. In altre parole, con
l’inchiesta campionaria si rilevano informazioni chiedendole alle persone intervistate.
Nell’inchiesta campionaria non viene utilizzato lo strumento dell’osservazione, se non per piccoli e limitati
casi. La strategia principale, infatti, è quella della rilevazione delle informazioni attraverso l’interrogazione.

Mentre l’osservazione permette di rilevare soltanto i comportament manifest, e cioè le interazioni e i


dialoghi, lo strumento dell’interrogazione consente di rilevare le motvazioni, i valori, atteggiament,
credenze, opinioni, e cioè manifestazioni latent non direttamente rilevabili attraverso l’osservazione.

L’interrogazione è un tipo di strategia di ricerca utilizzata di frequente (inchiesta giornalistica, ricerche di


mercato, sondaggi elettorali, censimento). Si tratta, infatti, di uno strumento che non ha a che fare soltanto
con la ricerca sociale ma anche con altri tipi di inchiesta e di rilevazione delle informazioni.
Una conoscenza di un fenomeno è qualcosa che non può essere ridotto soltanto alla ricerca accademica o
all’ambito universitario.

Origine dell’inchiesta campionaria

Le origini di questo strumento di ricerca risalgono già ai tempi di Marx e Weber, due autori che utilizzarono
forme embrionali e rudimentali dell’indagine campionaria. Marx, nel 1880, inviò un grandissimo numero di
questionari ai lettori di una rivista con lo scopo di cogliere informazioni riguardo le loro condizioni di vita. In
modo molto simile agì anche Weber.

L’indagine campionaria, in particolare, nasce con uno scopo conoscitvo riguardo le condizioni di vita,
lavoratve, sociali delle popolazioni intervistate.

La caratteristica predominante delle prime forme di indagine campionaria riguarda il fatto che l’aggettivo
“campionario” non esisteva ancora. Per questo motivo le indagini fatte prima della Prima Guerra Mondiale
non utlizzavano forme di campionamento e, per questo motivo, non avevano una struttura di legittimità
che consentisse di selezionare chi intervistare. Ovviamente, questo portò grandi problemi per quanto
riguarda l’affidabilità dei dat. Soltanto dopo la Prima Guerra Mondiale, grazie allo statistico Fisher, si
definirono meglio le strategie di campionamento e, di conseguenza, le strategie per rendere più affidabile
la rilevazione dell’informazione utilizzando un campione che fosse rappresentatvo della popolazione di
interesse.

Lo strumento dell’indagine campionaria si sviluppò ulteriormente negli Stati Uniti dove vennero condotte
diverse indagini sui poveri, sui consumatori, sulle condizioni di salute e sulle elezioni. Gli Stati Uniti, insieme
al Regno Uniti, rappresentavano un contesto favorevole per la ricerca. Si tratta, infatti, di contesti,

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caratterizzati da scarsità di statistiche ufficiali, nei quali l’indagine campionaria rappresentava lo strumento
in grado di raccogliere dati che non venivano raccolti dallo Stato.

Un’altra caratteristica che rese possibile lo sviluppo dell’indagine campionaria in questi contesti è la cultura
individualista che spostò l’interesse nei confronti delle dinamiche individuali. Nell’indagine campionaria,
infatti, è l’individuo l’oggetto della rilevazione e non la collettività. Inoltre, in questi contesti, e in
particolare negli Usa, vi era una certa avversione nei confront dello Stato , incapace di raccogliere
informazioni direttamente sulla popolazione. Per questo motivo, indagini portate avanti da soggetti privati o
istituzioni rappresentavano alternative più favorevoli e ben viste rispetto a quelle proposte dallo Stato.

Un’altra caratteristica che portò allo sviluppo di questo strumento negli Stati Uniti, e in misura minore nel
Regno Unito, fu un grande interesse per l’opinione pubblica, e cioè per ciò che le persone pensassero
riguardo ad una serie di temi, unito ad un livello di scolarizzazione superiore e una grande diffusione di
mass-media.

In modo opposto, lo sviluppo dell’indagine campionaria andò in maniera più lenta nell’Europa continentale
per la grande quantità di statistiche ufficiali disponibili.

Che cos’è un’inchiesta campionaria?

L’inchiesta campionaria può essere definita come uno strumento utlizzato per rilevare informazioni
attraverso l’interrogazione di individui che sono al contempo oggetto della ricerca e parte di un campione
rappresentatvo.

La rilevazione avviene mediante una procedura standardizzata di interrogazione (strumento uguale per
tutti) e il suo scopo è quello di studiare le relazioni le variabili (caratteristica che permette di distinguere
l’inchiesta campionaria dal sondaggio).

L’interrogazione avviene mediante l’utilizzo di domande. Nello specifico, le domande possono essere rivolte
in forma orale o in forma scritta (se vengono poste in forma orale l’intervistato risponderà in forma orale,
se vengono poste in forma scritta l’intervistato risponderà in forma scritta). A seconda della forma, orale o
scritta, si possono avere diverse forme di interazione: faccia a faccia, via web, via posta o via telefono.

L’oggetto dell’indagine è l’individuo, inteso come qualcuno che può dare conto della sua condizione
individuale e non della condizione degli altri. Per questo motivo nell’indagine campionaria si tende a non
intervistare osservatori privilegiati, e cioè persone in grado di fornire informazioni su altri.
La prospettiva è individuale: l’interesse è nei confronti dell’opinione, comportamento, credenze e
atteggiamenti dell’individuo intervistato.

Esistono, però, delle indagini che intervistano espert per chiedere informazioni riguardo alcuni oggetti.
Accade spesso, infatti, che vengano intervistati i rappresentanti di alcune organizzazioni per chiedere
informazioni sulle organizzazioni stesse. Un altro esempio ancora è quello delle interviste ai docenti
universitari.

L’indagine “Chapel Hill expert survay”, portata avanti ormai da alcuni anni, intervista degli individui
considerati esperti (spesso docenti universitari o soggetti che hanno una reputazione riguardo la politica)
riguardo la posizione dei partiti nei loro Paesi e altre questioni.

Esempio

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Quello che è rilevante sottolineare è il fatto che gli individui che vengono intervistati nell’inchiesta fanno
parte di un campione.

Il campione è un sottoinsieme di una popolazione ben definita da cui si estraggono dei soggetti che vanno
a formare, appunto, il campione. Il campione viene utlizzato per evitare di dover raccogliere le
informazioni da tutta la popolazione. Esso, infatti, è rappresentatvo, su una scala ridotta, delle
caratteristche della popolazione. Si tratta di uno strumento che è, sostanzialmente, una versione in scala
ridotta della popolazione e che viene utilizzato per conoscere le caratteristiche della popolazione stessa.
Anziché intervistare tutti gli individui di una determinata popolazione se ne intervistano un sottoinsieme di
dimensioni ridotte che ne riproduce le caratteristche (rappresentativo).

L’inchiesta campionaria mira a rilevare delle informazioni ponendo ai soggetti intervistat le stesse
domande, poste con la stessa formulazione e nello stesso ordine. Attraverso l’utilizzo di uno strumento e
una procedura standardizzat, infatti, è possibile comparare le risposte.

Partendo dalle risposte date dagli intervistati, l’obiettivo dell’indagine è quello di definire le variabili,
metterle in relazione tra loro e vedere se esistono delle associazioni (procedura standardizzata). La
capacità di mettere in relazione le variabili attraverso l’analisi statistica, però, dipende dalla capacità di
ordinare e organizzare le informazioni raccolte utilizzando la matrice dei dati.

Una matrice dei dat è, sostanzialmente, uno schema di classificazione che ha una forma specifica,
rettangolare, dove le righe rappresentano i casi o le osservazioni e le colonne rappresentano le variabili. Le
celle, date dall’unione di righe e colonne, rappresentano il valore della variabile per un determinato caso.

La possibilità di mettere in relazione le variabili è una caratteristica che permette di distnguere l’inchiesta
campionaria dal sondaggio. Si sostiene, infatti, che questi due strumenti abbiano fini diversi. Il sondaggio è
un’indagine puramente esploratva che si utilizza per descrivere un fenomeno o per portare evidenza
riguardo la sua consistenza o esistenza. L’indagine campionaria, invece, va oltre la semplice descrizione di
un fenomeno. Con l’indagine campionaria, infatti, si vanno a controllare empiricamente delle ipotesi e si va

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verso lo studio dell’influenza tra variabili. Si è interessati, in altre parole, a capire se vi sia o meno una
relazione tra variabili.
Mentre le inchieste campionarie tendono ad avere un numero ampio di variabili perché lo scopo è quello
di avere la possibilità di testare ipotesi diverse, il sondaggio, al contrario, include un numero ridotto di
domande perché lo scopo è quello di descrivere un determinato fenomeno in maniera circoscritta (es. nei
sondaggi elettorali l’obiettivo è soltanto quello di capire quali sono le intenzioni di voto)

Altre definizioni

“Inchiesta su un grande numero di persone, selezionate attraverso rigorose tecniche di campionamento,


condotta in una normale situazione di vita, utilizzando procedure standardizzate, in grado di produrre
misurazioni quantitative” (Hyman, 1973)

“Ricerca che ponga a un gruppo di intervistati selezionati in modo sistematico una serie di domande
relativamente standardizzate, e che comporti una successiva analisi dati mediante tecniche statistiche”
(Verba, 1969)

“L’inchiesta comporta la richiesta di informazioni orali... Nel senso scientifico del termine implica uno sforzo
per quantificare le informazioni raccolte... L’inchiesta cerca di scoprire la distribuzione delle variabili e le
relazioni tra variabili... Il termine si utilizza anche in senso lato, riferendosi ad analisi e descrizioni in cui
risultati non sono quantificati” (Pinto, 1964)

“Consiste nel porre domande a una sezione della popolazione ritenuta rappresentativa... Le domande
possono essere spedite ai soggetti, sottoposte da un intervistatore... possono essere poste telefonicamente,
o consegnate all’intervistato che deve restituirle compilate... Il sondaggio è condotto su un campione,
semplicemente perché non è possibile intervistare tutti i membri della popolazione scelta” (Bailey, 1980)

“Studio in cui: siano condotte misurazioni su una serie di casi inseriti in una matrice di dati; la raccolta sia
sistematica, cioè si riferisca a più casi dei quali vengono rilevati gli stati su tutte le proprietà; si ricerchino
relazioni tra variabili” (Marsh, 1982)

Una caratteristica che viene utilizzata per distinguere tra indagine campionaria e sondaggio è il fatto che
nella prima (inchiesta campionaria) ci sia dietro una maggiore problematzzazione teorica: i dati, cioè,
vengono rilevati non soltanto per conoscere un fenomeno ma per spiegarlo, per capire quali siano le
variabili che lo spiegano. Le inchieste campionarie si diversificano dal sondaggio anche perché rilevano
informazioni su temi ampi, utilizzano interviste di maggiore durata, più complesse e che comprendono un
maggior numero di domande. Dall’altro lato, il sondaggio pone un numero di domande molto inferiore, è
molto più rapido e non permette di spiegare, ad esempio, la variazione dei fenomeni e la relazioni tra
variabili. In altre parole, si limita ad un’analisi descrittiva e non multivariata o causale.

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Il sondaggio è soltanto un modo per raffigurare la realtà come un’istantanea descrittiva (fotografia della
realtà). Si tratta, in altre parole, di una rappresentazione della realtà che, però, non spiega la realtà.

L’inchiesta campionaria si differenzia anche dal test.


Il test, utilizzato spesso nell’ambito della psicologia, è qualcosa che ha lo scopo di misurare delle capacità.
In un test l’individuo viene posto davanti a dei problemi che deve cercare di risolvere. Il test, infatti, chiede
al soggetto di dimostrare le sue capacità relatvamente ad un determinato ambito (test matematici, test
della personalità).
Il problema è che spesso gli intervistat di un’indagine campionaria percepiscono le domande come un
test e, quindi, si sentono esaminati. Nell’inchiesta campionaria, però, si è interessati alla risposta qualunque
essa sia e non alla sua correttezza. La maggior parte delle domande inserite all’interno di un’ inchiesta
campionaria non prevede una risposta corretta (o sbagliata) perché lo scopo è semplicemente quello di
cogliere un’opinione, un atteggiamento, una credenza, un comportamento.

In alcuni casi, però, si possono introdurre all’interno di un’inchiesta campionaria delle domande che hanno
una risposta corretta o sbagliata se si è interessati a rilevare, ad esempio, la capacità degli intervistati
relativamente ad un determinato tema.

Esempio: conoscenza di alcuni meccanismi della politica costituzionale del nostro Paese

L’inchiesta campionaria non è un test ma può avere al suo interno delle domande che rilevano una
performance, ovvero una capacità.

Una caratteristica dell’inchiesta campionaria è che le domande vengono poste con un alto livello di
standardizzazione, e cioè vengono poste nello stesso modo.

Esempio

Domanda: “Lei è favorevole all’aborto?”;


Risposte possibili: “molto favorevole”, “favorevole”, “sfavorevole”, “molto sfavorevole”. Si tratta di una
domanda a risposta chiusa che prevede un numero limitato di risposte. Le risposte, però, potrebbero essere
anche aperte come, ad esempio, “Dipende...”. Nel caso di domande a risposte aperte il grado di
standardizzazione diminuisce perché le risposte possono essere molto varie nel contenuto, nell’opinione e
nella lunghezza.

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Ci si trova nell’ambito della ricerca quanttatva (inchiesta campionaria) quando sia le domande che le
risposte sono standardizzate: le domande vengono poste nello stesso modo e le possibilità di risposta sono
le stesse e uguali per tutti. Ci si trova nell’ambito della ricerca qualitatva, invece, quando si hanno risposte
libere e domande standardizzate o libere.

Non esiste alcun approccio in cui le domande sono libere e le risposte standardizzate.

Quando si utilizza lo strumento dell’indagine campionaria in che genere di paradigma si opera? Si opera
all’interno del paradigma post-positvista in cui l’elemento principale è quello di portare avanti un
atteggiamento il più possibile oggettivista, in contrasto all’atteggiamento soggettivista. Lo scopo
dell’indagine campionaria è quello di misurare, di rilevare la realtà nel modo più oggettivo possibile.

L’assunto principale è che l’indagine campionaria deve rilevare una realtà che esiste all’esterno del
ricercatore e che è conoscibile. La realtà viene conosciuta attraverso la rilevazione del dato. La rilevazione,
nello specifico, avviene attraverso uno strumento standardizzato che fa leva sull’invarianza dello stmolo,
ovvero sul principio secondo il quale bisogna porre agli individui le stesse domande in modo da poter
comparare le risposte.

In questo tipo di indagine il rapporto tra intervistato e intervistatore deve essere il più limitato possibile
per diversi motivi. Innanzitutto, in un’indagine campionaria gli intervistatori sono moltssimi. Il loro ruolo è
molto delicato perché devono rendere la rilevazione delle informazioni il meno personale possibile e porsi
come mero strumento di rilevazione delle informazioni. Nella realtà dei fatti, però, gli intervistatori sono
degli individui con delle loro emozioni, reazioni, opinioni, percezioni e aspettatve. Per questo motivo è
molto difficile spersonalizzare completamente il rapporto intervistato-intervistatore. L’oggettivismo è un
mito che non è completamente raggiungibile.

L’approccio che utilizza l’indagine campionaria è un approccio uniformità perché cerca di trovare delle
regolarità nella realtà per mettere in relazioni delle variabili e, quindi, spiegare la realtà con delle
procedure standardizzate e di classificazione. L’approccio qualitativo, invece, è un approccio più
individualista per cui si crede che le differenze individuali siano importanti e irriducibili. Secondo questo
approccio, infatti, non si può studiare la realtà sociale considerandola alla sua media, ovvero mettendo in
relazione delle variabili per cercare di trovare dei fenomeni medi.

Non è forse il questionario un vincolo nell’inchiesta campionaria? Un questonario standardizzato che ha


domande e risposte uguali per tutti, infatti, può essere un problema perché parte dall’assunto che gli
individui abbiano le stesse capacità, sensibilità, modi di guardare la realtà. La società, però, non è uguale
perché le persone hanno diverse esperienze e diverse capacità, anche di comprendere le domande stesse. Il
problema del questionario è che non sono consentite risposte al di fuori di quelle che sono stabilite. Il
questonario è uno strumento rivolto ad un soggetto medio, il che significa che non sarà ideale per soggetti
che si pongono al di fuori di una certa media e che, ad esempio, hanno una capacità di comprensione scarsa

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o troppo elevata. Ciò che il questionario fa è “chiudere l’orizzonte teorico” perché non si riesce ad andare
oltre a ciò che è già previsto dal questionario stesso e, quindi, non permette di problematizzare,
comprendere e andare oltre le categorie che sono già state fissate da chi ha redatto il questionario.

Un’altra questione è che il questonario lascia fuori la cosiddetta “marginalità sociale”, e cioè non permette
di rilevare le informazioni per una serie di soggetti che non si riescono a raggiungere , soggetti che vivono
ai margini della società e che potrebbero, invece, fornire informazioni molto rilevanti riguardo le loro
condizioni.

Vi è l’assunto che le domande standardizzate, e cioè l’uniformità dello stimolo produca anche
un’uniformità dei significat. Si assume che le domande poste in un determinato modo abbiano lo stesso
significato per tutti. Tuttavia le domande vengono poste in un contesto in cui ad una stessa domanda
possono essere attribuit significat diversi . Il significato che deriva da determinate domande può
dipendere dalle circostanze in cui la domanda viene posta.

Le domande, in ogni caso, vengono poste da un soggetto che non è interamente neutrale per cui anche il
modo in cui l’intervistatore si pone può avere una conseguenza per il tipo di informazione che si sta
cercando di rilevare.

“Le domande standardizzate a risposta chiusa forniscono una soluzione al problema del significato
semplicemente ignorandolo” (Cicourel, 1964)

Nel momento in cui si chiedono delle informazioni ci si deve porre il problema dell’affidabilità del
comportamento dell’altro. Quando si chiede un’informazione si assume che la risposta data sia sincera e,
quindi, che la risposta sia effettivamente in linea con l’opinione o il comportamento dell’intervistato. Si sa,
però, che spesso gli intervistat non rispondono in maniera sincera e in linea con i loro comportament e
opinioni (es. le indagini campionarie riguardo la partecipazione elettorale riportano risultati molto diversi
dalla partecipazione elettorale effettiva. Questo avviene perché votare è visto come qualcosa di positivo e
come un dovere). Ci sono anche casi in cui gli intervistat non hanno opinioni e, quindi, tendono a
rispondere a caso.

Lo strumento del questonario non permette di capire quale sia l’intensità di un’opinione, ovvero quanto
sia radicata e importante un’opinione negli individui.

Si possono superare i problemi di affidabilità utilizzando delle tecniche/strategie che permettono di capire
quanto un concetto sia traducibile in una variabile, ad esempio, ripetendo l’operazione di misurazione o
cambiando lo strumento di rilevazione in modo da capire se le diverse formulazioni delle domande
producono o meno gli stessi risultati. Ovviamente non esiste una strategia per capire se l’intervistato ha
risposto in maniera sincera o meno per cui questa cosa deve essere sempre tenuta a mente.

23.03.2021 – 10 lezione

Ci sono alcune questioni metodologiche riguardo il comportamento verbale che devono essere trattate con
particolare attenzione perché si deve assumere che le informazioni date dai rispondenti che partecipano
all’indagine campionaria siano vere. Allo stesso tempo, però, si deve tenere a mente che le risposte date
possono essere influenzate da una serie di fattori contestuali e individuali.

Un aspetto che di deve considerare è quello della desiderabilità sociale, e cioè una valutazione socialmente
condivisa che, in una certa cultura, viene data ad un certo atteggiamento o comportamento individuale.
Questo significa che potrebbero esserci risposte determinate da quello che la società, in generale, pensa
riguardo un determinato tema. Riguardo determinate questioni, quindi, verranno dati giudizi positivi o
negativi coerenti al “pensiero comune”. Si tratta per lo più di questioni che toccano aspetti morali, valoriali,
normatvi del comportamento.

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Discostandosi dalle norme presenti nella società, infatti, si potrebbe subire un giudizio. Per questo motivo il
rispondente potrebbe tendere a rispondere in linea con il giudizio della società e non con il suo pensiero o
comportamento. Ad esempio, quello delle droghe è un argomento sensibile per cui un individuo che ne fa
uso potrebbe tendere a non rispondere in linea con il suo comportamento. Al contrario, il “pagare le tasse”
è concepito come un comportamento doveroso e positivo per cui anche colui che non le paga tenderà a
dichiarare il contrario.

La desiderabilità sociale delle risposte introduce una distorsione: essendo l’intervistatore uno sconosciuto,
l’intervistato tenderà a non voler fare brutta figura e, quindi, a rispondere in linea alla media o alla norma
riguardo un determinato atteggiamento o comportamento. In questo modo si può distinguere tra: opinioni
private, e cioè quelle che le persone tengono per sé, e opinioni ufficiali, e cioè quelle che vengono
dichiarate nell’indagine campionaria.

Il problema della desiderabilità sociale delle risposte dipende anche dalla dinamica intervistato-
intervistatore. Essendo l’intervistatore uno sconosciuto, infatti, spesso l’intervistato non sa come
comportarsi e tende a pensare che il suo interlocutore si aspetti determinate risposte.

Il problema della desiderabilità delle risposte avviene principalmente quando si ha a che fare con la
rilevazione di atteggiament e comportament che violano norme riconosciute o che sono in contrasto con
ciò che generalmente si pensa sia corretto seguire o pensare.

Quello della desiderabilità sociale, però, non è un problema costante o particolarmente frequente: è un
rischio possibile. A tal proposito, vi è la possibilità di compiere esperimenti come, ad esempio, la
manipolazione di comportamenti e opinioni per cercare di inserire il rispondente in uno scenario che gli
permetta di dire ciò che realmente pensa riguardo determinati atteggiamenti o comportamenti.

Vi è anche un altro aspetto che rientra nella buonafede dei rispondenti, e cioè la menzogna inconscia.
Spesso, infatti, le risposte date non sono volontariamente false ma rielaborate attraverso un processo di
razionalizzazione.

Esempio

Spesso, infatti, la domanda “Con quale frequenza lei va alla messa?” viene interpretata come
“identificazione religiosa” per cui una persona che si identifica fortemente con la religione dichiarerà di
andare molto spesso a messa anche se nella realtà dei fatti non è così.

Il problema della desiderabilità sociale, inoltre, ha a che fare anche con i problemi di memoria. Se si
chiedono informazioni su fatti accaduti in passato, infatti, il rispondente che non ricorda quell’opinione o
comportamento potrebbe rispondere in linea alle norme sociali e, quindi, fornire una risposta non veritiera.

Un altro problema relativo all’interrogazione è che non sempre le informazioni che si cercano di rilevare
sono effettivamente present negli individui intervistat. Si può chiedere agli intervistati, ad esempio, che
cosa pensino delle liberalizzazioni nel settore delle telecomunicazioni ma bisogna tenere presente che non
tutti hanno un’opinione a riguardo. Se il rispondente non ha un’opinione a riguardo può rispondere “Non
so”, qualora sia consentita una risposta di questo tipo. Se il rispondente non ha un’opinione non è un
problema perché non c’è una risposta giusta o sbagliata. È necessario rendere naturale e accettabile il fatto
che si possano non avere opinioni (non è un test). Nel caso in cui molti degli intervistati non avessero
opinioni riguardo una determinata opinione non sarebbe possibile rilevare la posizione dei rispondenti
riguardo un determinato tema.

Il problema di mancanza di opinioni si verifica spesso quando vengono poste batterie di domande. Le
batterie di domande sono domande poste in successione che hanno la stessa strutture e che, quindi,

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possono provocare una certa pressione nel rispondente e indurlo a rispondere in maniera non veritiera e a
non dichiarare la mancanza di opinioni.

A volte le opinioni nascono anche nel momento dell’intervista stessa.

Il problema della mancanza di opinioni può essere legato anche al fatto che il questonario può essere
percepito come un test. A tal proposito, dunque, è necessario far in modo che il questionario venga
percepito come un test che mira a rilevare la conoscenza degli intervistati riguardo determinati temi.
Bisogna rendere chiaro il fatto che si è interessati all’opinione e che la mancanza di opinione è legittima
quanto la presenza.

Per verificare se gli intervistati rispondono “a caso” si possono porre domande su fatti inesistenti per
osservare se essi rispondono anche in merito a questioni che non che non esistono e, quindi, non sono in
grado di riconoscerne l’inesistenza.

L’inchiesta campionaria è uno strumento per predire l’opinione? Fornisce informazioni sul pensiero delle
persone e della popolazione? L’indagine campionaria è basata su un campione (che non è la popolazione)
che viene utilizzato per capire cosa pensa la popolazione (sondaggi elettorali). Un altro aspetto è che
questo tipo di strumento può rilevarsi utile per predire comportament o opinioni del futuro.

Tipi di intervista e domande

Come si pongono le domande?

Ci sono diversi modi di porre le domande e questo dipende dal tipo di intervista che si sta effettuando. Si
possono avere: interviste in profondità, interviste semi-strutturate e interviste standardizzate (o
strutturate).
Il primo tpo di intervista (intervista in profondità), che fa parte della tradizione qualitativa, ha come
obiettivo quello di comprendere; con il secondo tpo (intervista semi-strutturata) le domande vengono
prestabilite anche se vi è una certa flessibilità nella loro struttura; il terzo tpo (intervista strutturata) fa
riferimento alle indagini campionarie in cui le domande sono standardizzate e strutturate. Con l’intervista
strutturata si ha un questonario contenente le stesse domande poste a tutti gli intervistati nello stesso
modo.

Le domande possono essere aperte o chiuse. Nel caso di domande con risposte aperte si lascia agli
intervistati la libertà di dare la loro versione dei fatti, di esprimere a parole loro la loro visione del mondo. Le
domande nel questonario di un’indagine campionaria sono chiuse e le risposte codificate, il rispondente,
cioè, non può rispondere a parole sue ma deve indicare una delle possibili risposte fornite.

Il questonario riguarda uno strumento standardizzato che pone, a tutti, una serie di domande poste nello
stesso modo. Il questionario, però, non deve essere inteso come una semplice lista di domande che rileva
informazioni su atteggiamenti, comportamenti e opinioni in maniera casuale. Esso ha un obiettivo preciso:
raccogliere informazioni che permettano di testare le ipotesi dei ricercatori. Il questionario, quindi, deve
essere composto da domande rilevant per la ricerca e, in qualche misura, anche per l’intervistato.

Quando si formulano le domande che andranno a comporre il questionario si deve considerare anche il
modo in cui verranno analizzati i dati, le tecniche e i modelli statistici che si vogliono utilizzare per
rispondere alla domanda di ricerca.

Scrivere un questionario è un lavoro molto complesso che spesso viene fatto da un gruppo di ricerca i cui
componenti con esperienza contribuiscono alla formulazione delle domande. Nella stesura di un
questionario, in particolare, sono fondamentali tre requisiti: 1. esperienza del ricercatore; 2. conoscenza
della popolazione alla quale viene somministrato il questonario; 3. chiarezza nella definizione delle
ipotesi di ricerca.

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Alcuni questionari non sono interamente originali. Possono, infatti, essere consultati questionari di altre
indagini da cui prendere spunto per le domande oppure essere utilizzate domande “standard” usate in
moltissime indagini (es. la domanda che rileva la posizione ideologica degli intervistati è quasi sempre posta
nello stesso modo).

Per capire come formulare le domande ci si deve chiedere che tipo di domande si vogliono utilizzare ma
soprattutto che tipo di informazione si vuole rilevare. A tal proposito, infatti, esistono diverse informazioni
potenzialmente rilevabili:

- proprietà sociodemografiche;
- esperienze di vita;
- cognitive;
- atteggiamenti, opinioni, valori;
- comportamenti.

Domande relatve a proprietà sociodemografiche

Nel rilevare proprietà sociodemografiche si misurano, sostanzialmente, le caratteristche del rispondente


che possono essere permanent (genere, età, luogo di nascita, caratteristiche ereditarie) o non permanent
(professione, stato civile, dimensione comune di residenza). Le caratteristiche sociodemografiche sono
caratteristiche che vengono sempre chieste attraverso domande semplici.

Domande sulle esperienze di vita

Le domande sulle esperienze di vita mirano a rilevare mutament nelle caratteristche strutturali del
rispondente. Questo genere di domande si sovrappone parzialmente a quelle che rilevano caratteristiche
sociodemografiche non permanenti che rilevano dei passaggi di stato (cambio stato civile, residenza,
mobilità professionale, mobilità sociale, nascita dei figli). Si tratta, in questo caso, di domande che
permettono di capire se un determinato cambiamento o passaggio di stato abbia potuto avere degli effetti
su altri fenomeni (es. se andare a vivere con qualcuno cambia la distribuzione del tempo che si dedica ad
una certa attività domestica)

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Domande cognitve

Le domande cognitve indagano sulla conoscenza e/o percezione dei fatti. Esse possono riguardare la
percezione di sé (condizione personale) o di altro (politica, società, etc.)

Domande su atteggiament, opinioni, valori

Domande con cui si chiede agli intervistat di esprimere giudizi, fornire valori, dare informazioni riguardo
credenze e norme, dare giudizi su persone. Quello che si cerca di rilevare con queste domande sono
informazioni riguardo a che cosa pensano gli intervistat su determinat temi . Sono le domande tipiche
dell’indagine campionaria. Sostanzialmente si chiede agli intervistati di fornire la loro posizione riguardo
una serie di fenomeni e questioni o di valutarli (“Cosa ne pensa dell’attività di governo?”, “È soddisfatto del
sistema di istruzione?”, “È soddisfatto della sua vita?”).
Le domande sugli atteggiamenti sono diverse da quelle sui comportamenti perché il comportamento è
qualcosa di manifesto mentre l’atteggiamento qualcosa di più latente. Per questo motivo la rilevazione degli
atteggiamenti è qualcosa di complesso che molto spesso ha a che fare con la multidimensionalità. Le
domande su atteggiamenti, comportamenti e valori sono di difficile formulazione e altrettanto difficile è
cogliere quanto sia radicato nella società quel determinato comportamento, atteggiamento o valore.

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Domande relatve a comportament

Le domande relatve ai comportament sono diverse da quelle relative agli atteggiamenti. In questo caso si
chiede cosa fanno, hanno fatto o hanno intenzione di fare gli intervistat (campo dell’azione). In questo
caso le domande sono più facilmente osservabili rispetto a quelle sugli atteggiamenti. Più difficile, invece, è
rilevare la frequenza dei comportament perché le domande poste sul passato sono più complesse da
rispondere. Esistono, poi, anche domande sugli standard di azione, ovvero su cosa sarebbe giusto che le
persone facessero in alcune situazioni, e domande sul comportamento futuro.

Le risposte alle domande delle indagini possono essere aperte o chiuse. Nel campo della
standardizzazione, in particolare, esse tendono ad essere chiuse, all’intervistato, cioè, viene presentato un
ventaglio di possibili risposte entro le quali deve scegliere quella che ritiene più appropriata. Le domande
chiuse, nello specifico, permettono di codificare al meglio le risposte, e cioè riportare le informazioni in
forma di matrice.
Nelle domande a risposta aperta, invece, l’intervistatore lascia piena libertà all’intervistato nella
formulazione della risposta.

Le domande a risposta chiusa hanno diversi vantaggi e svantaggi. I vantaggi riguardano il fatto che si
fornisce a tutti gli intervistat lo stesso quadro di riferimento, fornendo già le risposte si facilita il ricordo, si
stmolano analisi e riflessioni attraverso risposte predeterminate e, allo stesso tempo, si rimuovono
vaghezza e ambiguità. Per quanto riguarda gli svantaggi, invece, bisogna tenere a mente che, fornendo agli
intervistat delle risposte predeterminate, essi potrebbero voler fornire risposte diverse. Bisogna
considerare anche che le alternatve di risposta potrebbero influenzare le risposte stesse e, infine, che le
risposte possono essere interpretate da ognuno in modo diverso (non hanno lo stesso significato per tutti).

Come si formulano le domande?

La formulazione delle domande è una questione difficile. Non esistono, infatti, regole precise, esistono
soltanto indicazioni e suggerimenti (si possono guardare altri questionari, fare dei test o dei studi
preliminari per capire come porre le domande).

Le domande contano più delle risposte (una domanda mal posta porterà a risposte non precise). È
importante, quindi, formulare le domande nel modo più preciso e chiaro possibile. L’utilizzo delle
espressioni verbali e il modo in cui si formula la domanda stessa sono fondamentali per ottenere delle
risposte adeguate.

Esempio: “ammettere” è diverso da “proibire”.


Una parola, paragonata ad un’altra, può avere un framing negatvo o positvo. La parola “proibire”, ad
esempio, ha un framing negativo. A tal proposito esiste un meccanismo psicologico, detto “negativity bais”,

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che sostiene che quando le persone osservano un elemento di negatvità tendono ad esserne attratti (“È
giusto ammettere la prostituzione?” è diverso dal chiedere “È giusto proibire la prostituzione?”).

Le domande devono essere semplici e avere un linguaggio accessibile e comprensibile a tutti. Devono
essere adeguate alle caratteristche dell’intero campione.

La semplicità e la chiarezza sono aspetti rilevanti soprattutto per i questonari auto-compilat, ovvero i
questionari che vengono compilat dagli stessi intervistat senza l’ausilio dell’intervistatore . Se il
questionario è auto-compilato, dunque, ci deve essere una maggiore cura dell’accessibilità del linguaggio
utilizzato.

Le domande non devono soltanto essere semplici ma anche brevi. Le domande lunghe, infatti, sono di più
difficile comprensione e distolgono l’attenzione riguardo a ciò che viene chiesto. Ci sono, però, degli studiosi
che sostengono che le domande lunghe possano avere degli effetti positivi, e cioè dare all’intervistato la
possibilità di pensare e raccogliere il ricordo.

Quando si parla di “domanda” non si fa riferimento soltanto alla domanda stessa ma anche alle alternatve
di risposte. Le alternatve di risposta non devono essere moltssime: se ne vengono fornite molte, infatti,
l’intervistato potrebbe avere difficoltà ad identificare quella giusta e a ricordarle tutte. Quando, durante
l’intervista, è presente l’intervistatore può essere utilizzato il cartellino, uno strumento che facilita
l’identificazione delle possibilità di risposta.

Oltre che semplici e brevi le domande devono essere non ambigue. Si devono utilizzare, cioè, concetti
chiari che abbiano significati univoci anziché termini e concetti con un significato emotivo o negativo. È
necessario evitare l’utilizzo di frasi con doppia negazione, frasi negative e domande multiple, ovvero
domande all’interno delle quali vengono citati più soggetti o più oggetti.

Le domande devono essere poste in modo da poter riuscire a distinguere gli intervistati. Se le domande che
vengono poste non sono in grado di discriminare tra gli intervistati allora sono domande poco utili o poste
male. Inoltre, se il 95% degli intervistati risponde nello stesso modo la domanda non farà capire molto sul
campione che si sta analizzando e potrebbe significare che la domanda è stata posta male, è stata pilotata o
sono state omesse delle alternative.

Quando si formulano le domande bisogna evitare di dare per scontati che non lo sono. Esistono domande
filtro e domande condizionate che permettono di distinguere tra coloro che hanno tenuto un determinato
comportamento e coloro che non lo hanno tenuto.

Quando si espongono le domande si deve considerare anche la questione temporale. Nel cercare di rilevare
comportamenti che hanno una certa frequenza (“Quante volte…?”, “Quanto frequentemente…?”), infatti, si
deve evitare di spingere il rispondente a rispondere sulla base di aspetti normativi, e cioè al “dover essere”.

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29.03.2021 – 11 lezione

Come si dispongono le domande in questionario? Qual è il loro ordine?

Non bisogna intendere il questionario come una semplice sequenza di domande, bisogna tenere a mente,
infatti, che si tratta di una lista di domande ordinate secondo criterio.

Il primo aspetto da considerare è la dinamica intervistatore-intervistato. La relazione che si instaura tra


intervistatore e intervistato è di tpo asimmetrico, il che significa che l’intervistatore non ha lo stesso ruolo
dell’intervistato: l’intervistatore è un professionista dell’intervista che svolge questo compito abitualmente,
conosce il questionario, le finalità e lo scopo dell’indagine, conosce come si svolgono le interviste e, quindi,
si trova in una posizione di maggiore “comodità” rispetto all’intervistato. L’intervistato viene interrogato su
questioni di cui spesso non conosce o comprende le finalità, non comprende le motivazioni per cui è stato
scelto rispetto a qualcun altro, non conosce se le sue risposte possano essere considerate giuste o sbagliate
e non sempre conosce lo strumento dell’indagine campionaria per cui capita spesso che possa sentirsi
“sotto esame” e non si senta completamente a suo agio.

Considerando la natura del rapporto tra intervistatore e intervistato uno degli accorgimenti da prendere è
quello di mettere a proprio agio l’intervistato. Per questo motivo bisogna pensare a domande semplici che
non siano troppo personali e che non richiedano un impegno cognitivo gravoso.

Un altro aspetto da considerare è l’esistenza di una curva di attenzione che sale e scende durante
un’intervista. L’intervistato, soprattutto se l’intervista non è breve, infatti, potrebbe avere dei cali
d’interesse o un aumento della stanchezza e, quindi, una maggiore disattenzione. Per questo è importante
porre le domande dell’intervista in modo da tenere viva l’attenzione e l’interesse dell’intervistato. Nello
specifico, è stato dimostrato che l’attenzione dell’intervistato dura fino a metà dell’intervista circa.

Un altro aspetto importante è quello per il quale le domande devono seguire una certa logica, devono
essere sequenziali. Le domande non devono toccare temi scollegati tra loro ma seguire un “filone” che
permetta di collegare logicamente i diversi temi che vengono toccati. Se si salta da un tema all’altro sarà più
difficile far seguire il senso dell’intervista all’intervistato. Una tecnica che può essere utilizzata per facilitare
la definizione dell’ordine delle domande è utilizzare la cosiddetta “tecnica a imbuto” che prevede che
all’inizio vengano poste domandi generali e poi domande via via più specifiche.

Il modo in cui si decide di ordinare le domande può avere un effetto sulle domande successive. In altre
parole, le risposte che vengono date alle domande potrebbero essere influenzate dalle domande
precedent.

Le domande possono essere poste, in una successione particolare, con le cosiddette batterie di domande,
ovvero delle sequenze di domande che vengono poste e formulate nello stesso modo e che possono avere
oggetti diversi. Le domande vengono poste in blocco con lo scopo di risparmiare spazio e tempo, facilitare
la comprensione del meccanismo di risposta, migliorare la validità della risposta e costruire indici sintetici.

Le domande che vengono incluse nella batteria vengono chiamate anche “items”.

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L’utlità delle batterie è che gli items vengono utlizzat per costruire degli indici e, quindi, per rilevare
concetti non direttamente osservabili. L’utilizzo di una batteria permette di cogliere dei costrutti latenti e,
attraverso l’utilizzo di indicatori e variabili, di sintetizzare un’informazione rendendola empiricamente
osservabile.

Le domande delle batterie possono essere postulate in termini assolut (domande autonome e
autosufficienti) o in termini relatvi (domande dipendent da altre domande).

Data la presenza di molte domande spesso vengono utilizzati i cosiddetti “ cartellini”, dati fisicamente in
mano agli intervistati, per facilitare la comprensione delle risposte possibili. Nel momento in cui si
pongono delle domande che hanno la stessa struttura e lo stesso meccanismo di risposta, infatti, si può dare
in mano all’intervistato un cartellino nel quale vengono riportate le categorie di risposta o la scala utilizzata
per rispondere.

Domande relative o dipendenti

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Domande autonome

Le batterie di domande hanno i loro vantaggi ma non sono senza rischi. In particolare, i rischi sono
rappresentati dagli errori di risposta. Un possibile errore di risposta è la presenza di pseudo opinioni, e cioè
il fatto che gli intervistat possano rispondere a caso pur non avendo una reale posizione o opinione sul
tema. Un altro problema è quello del response set, problema per il quale gli intervistat rispondono nello
stesso modo a tutte le domande. È questo, però, un problema risolvibile attraverso l’inversione della scala
delle modalità di risposta così da indurre l’intervistato a prestare una maggiore attenzione.

Rilevazione

Ci sono delle fasi precedent alla formulazione molto importanti che vanno svolte prima della rilevazione
dei dati e, quindi, prima di sottoporre i questionari ai rispondenti:

1. studio esploratvo;
2. pre-test;
3. formazione e supervisione degli intervistatori;
4. contatto iniziale;
5. forma grafica del questonario.

Fase dello studio esploratvo

Durante la fase dello studio esploratvo è necessario approfondire il problema di ricerca, e cioè definire
che cosa si vuole rilevare e quali sono le informazioni che si vogliono raccogliere. Bisogna conoscere molto
bene il problema di ricerca perché il questonario è uno strumento rigido: si devono sì formulare le
domande ma anche conoscere le possibili risposte. Nella fase dello studio esplorativo, infatti, si intervistano
degli individui per identificare quali possono essere le possibili risposte. In questa fase si utilizzano delle
domande aperte per identficare la varietà di risposte che gli intervistat potrebbero dare. Non si utilizzano
tecniche quantitative ma diverse tecniche qualitative come, ad esempio, questionari mono-strutturati, che
non pongono agli intervistati le stesse domande nello stesso ordine, o interviste di osservatori privilegiati.
Si tratta di una fase esplorativa che permette di definire meglio il focus di ricerca e, quindi, del questionario.

Fase della stesura del questonario (pre-test)

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Dopo aver definito le domande si deve mettere alla prova il questonario, vedere se funziona e come svolge
il suo lavoro. Si tratta di una fase necessaria perché il questonario è uno strumento rigido: non si possono
cambiare le domande, introdurre nuove modalità di risposta, cambiare l’ordine delle domande, inserirne
delle nuove o toglierne alcune una volta iniziata la rilevazione dei dati. Cambiando la struttura del
questionario, infatti, si andrebbe a cambiare anche lo stimolo (domande) e non riuscirebbero più a
comparare le risposte date. Per questo di deve avere uno strumento che funziona. Se questo non funziona
perché le domande sono poste male, non vengono comprese, si sono dimenticate delle categorie di risposta
importanti, allora questo rappresenterà un problema. La rilevazione dei dat attraverso il questonario ,
infatti, è molto costosa per cui avere a disposizione uno strumento adeguato e funzionante è
fondamentale. Attraverso la fase del pre-test viene intervistato un numero limitato di individui per capire
se in questonario strumento funziona o ha problemi risolvere e aspetti da limare. Ovviamente gli individui
intervistati in questa fase devono avere le stesse caratteristiche del campione del questionario definitivo per
non rischiare di avere un esito parziale. Il pre-test ha anche lo scopo di testare la durata l’intervista.
La fase di pre-test ha un costo molto basso ma ha una grande resa.
La fase di pre-test è seguita da una fase di ri-collaudo con cui si verifica che il questionario aggiornato
funzioni.

Fase di formazione e supervisione degli intervistatori

Una volta testato il questionario e verificato che non ci siano problemi si devono preparare e
supervisionare gli intervistatori. Si tratta di una fase non necessaria perché si può avere anche il caso di
interviste che non prevedono la presenza di intervistatori. Gli intervistatori, infatti, sono presenti soltanto
nel caso di intervista faccia-a-faccia o di intervista al telefono.
Gli intervistatori potrebbero già aver fatto delle interviste in passato ma ogni indagine ha le sue
caratteristiche, tocca temi diversi, ha scopi diversi e viene finanziata da enti diversi.

La fase di formazione degli intervistatori è detta fase di briefing. Viene organizzato un incontro tra il team
di ricerca, e cioè i ricercatori che si occupano dell’indagine, e gli intervistatori con lo scopo di illustrare il
disegno di ricerca, la popolazione di riferimento, come è stato effettuato il campionamento, come sono stati
identificati i nominativi delle persone inserite nel campione, come deve avvenire l’intervista e attraverso
quali strumenti. Ovviamente, questo incontro serve anche a illustrare il questionario stesso. In altre parole,
quello che si cerca di fare è definire una sorta di linea comune per effettuare l’intervista.

Nella fase di preparazione ci sono anche degli altri soggetti che entrano in gioco, ovvero i supervisori,
persone che possono essere contattate per svolgere un servizio di consulenza. Essi, però, svolgono anche
una funzione di controllo seguendo il lavoro degli intervistatori, il numero delle interviste, i contatti che gli
intervistatori hanno effettuato in un determinato periodo di tempo.

Fase del contatto iniziale

La questione cruciale in questa fase è convincere l’intervistato che è importante collaborare, che l’opinione
che si sta cercando di rilevare è utile per comprendere un determinato processo. Bisogna spiegare che la
persona scelta è stata selezionata secondo una certa logica e bisogna sottolineare che l’anonimato viene
garantto. È importante anche illustrare il committente della ricerca, spiegare l’autorevolezza dell’ente e gli
obiettivi della ricerca.

La prima fase di contatto è quella di un contatto preliminare. Chi si occupa dell’organizzazione della ricerca
può contattare preliminarmente gli intervistati prima che lo facciano gli intervistatori stessi, attraverso, ad
esempio, l’invio di una lettera che preannuncia agli intervistati che saranno contattati dagli intervistatori (le
lettere possono essere inviate anche dalle forze dell’ordine).

Fase della forma grafica del questonario

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Quello della grafica del questonario è un aspetto che potrebbe sembrare di poco conto ma che invece è
molto importante dal punto di vista pratico perché facilita il lavoro dell’intervistatore o dell’intervistato
qualora si trattasse di un questionario auto-compilato.

Bisogna tenere conto della distinzione tra questonari cartacei e questonari elettronici anche se la forma
grafica del questionario si applica ad entrambi i casi. Il questonario cartaceo, come indica il nome stesso, è
un questionario stampato su carta su cui vengono riportate le risposte, quello elettronico, invece, ha una
forma molto simile a quella di un sito web. Nel secondo caso gli intervistatori vengono forniti di tablet o
portatili. Il questionario scorre nello schermo dello strumento elettronico in modo programmato e
automatico.

Quello che è rilevante è che il testo per l’intervistatore deve essere ben distnto dal testo da leggere.
Devono essere ben indicati i passaggi per le domande successive, le domande da saltare o eventuali filtri.
Inoltre, la forma grafica del questionario deve essere compatta in modo tale da non estendersi in molto
spazio o in molti fogli.

Quando si definisce la forma grafica del questionario è importante inserire dei codici di risposta in modo da
facilitare il passaggio alla matrice dei dat.

Questonari auto-compilat

I questonari auto-compilat sono questonari che vengono compilat direttamente dall’intervistato. Essi
devono avere delle caratteristiche “aggiuntive” perché non c’è l’intervistatore, e cioè qualcuno che è stato
istruito per svolgere quella attività. Questi questonari devono, pertanto, essere auto-esplicatvi, chiari e
avere delle caratteristiche per le quali l’intervistato deve essere in grado di rispondere alle domande
semplicemente leggendo le istruzioni. Le domande devono essere semplici e brevi.
Il questionario auto-compilato elettronico è, ovviamente, il più semplice da sottoporre all’intervistato.

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30.03.2021 – 12 lezione

POP QUIZ

12.04.2021 – 13 lezione

Inchiesta campionaria

L’inchiesta campionaria è uno degli strumenti più utilizzati nelle scienze sociali.

Quando si parla di rilevazione di dat si sta ponendo la questione della raccolta delle informazioni. Nello
specifico, nell’inchiesta campionaria vi sono quattro possibili modalità di rilevazione dei dat: intervista
faccia-a-faccia, intervista telefonica, questonario auto-compilato, questonario via web.

Il primo caso è quello più facilmente identficabile e distnguibile mentre, negli altri tre casi, ci sono
element di sovrapposizione e dei cambiament tecnici avvenut nel corso del tempo che richiedono
particolare attenzione nel loro studio.

Le quattro modalità di rilevazione non sono interscambiabili, non possono essere considerate alternative o
equivalenti perché presentano problemi, costi e condizioni di intervista diversi. Anche la struttura del
questionario e la formulazione delle domande sono diverse.
Il tipo di rilevazione condiziona anche la struttura del questionario stesso. Un questionario faccia-a-faccia,
ad esempio, può essere complesso, lungo e anche interrotto, cosa che invece non può essere fatto nelle
interviste telefoniche.

Intervista faccia-a-faccia

Classicamente l’intervista faccia-a-faccia avveniva in questo modo: l’intervistatore contattava l’intervistato,


riusciva ad ottenere un appuntamento, si recava presso la sua abitazione con il questionario, poneva le
domande, rilevava a penna le informazioni, e cioè le risposte (tutte le informazioni raccolte vanno, poi,
trasformate in una matrice di dati).
Con il passare del tempo sono stati introdotti dei migliorament tecnici anche se, in realtà questa modalità
di rilevazione non esiste quasi più. Quello che si fa, oggi, è utilizzare strument digitali che consentono
all’intervistatore di far scorrere il questionario su un tablet o un portatile. Non esiste quasi più la rilevazione
carta e penna, è stata sostituita dalla rivelazione CAPI (Computer Aided Personal Interviewing). Questo

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nuovo metodo ha grandissimi vantaggi: le domande del questionario scorrono sul video, l’intervistatore
legge le domande, rileva le informazioni e registra istantaneamente la risposta (click) mentre un software
registra l’intervista evitando incongruenze e risposte a domande non congruenti. Un altro vantaggio è
quello per il quale l’informazione viene trasmessa direttamente a chi si occupa dell’organizzazione dei
dat.

In ogni caso, sia che l’intervista sia fatta carta e penna sia che sia fatta con modalità CAPI, l’intervistatore
rimane centrale.

Effetto intervistatore

Essendo l’intervistatore una persona e, quindi, ponendosi in un’interazione con l’intervistato deve seguire
un certo standard di comportamento. In particolare, si deve limitare l’effetto dell’intervistatore, e cioè
evitare che l’intervistatore possa assumere espressioni di approvazione o disapprovazione o gesti ambigui.
Gli intervistatori, infatti, devono standardizzare il loro comportamento il più possibile.

Per limitare l’effetto dell’intervistatore esiste una fase in cui gli intervistatori vengono formati. Anche se un
intervistatore ha esperienza dovrà comunque essere formato perché ogni indagine ha delle caratteristiche e
delle peculiarità diverse. Ogni intervistatore dovrà: 1. evitare espressioni di approvazione /
disapprovazione; 2. evitare gest ed espressioni ambigue; 3. cooperare con l’intervistato (atteggiamento
amichevole ma neutrale).

Nella pratica dell’intervista ci sono anche delle preferenze per alcuni tipi di intervistatori, soprattutto negli
Stati Uniti, per cui spesso si valutano genere, ceto sociale, età, istruzione, tempo disponibile, etnia, lavoro
temporaneo, abbigliamento.

Aspettatve dell’intervistatore

Il problema dell’intervistatore è importante perché, essendo una persona, ha delle aspettatve, dei valori e
delle credenze. Le aspettatve che gli intervistatori hanno possono influenzare le risposte. Esistono, in
particolare, due tpi di distorsioni: distorsioni prodotte da valori e distorsioni prodotte da aspettatve. Le
prime si hanno quando l’intervistato dà risposte ambigue o incerte e l’intervistatore registra le
informazioni in linea con le proprie opinioni o, in altre parole, fa assumere all’intervistato la propria
opinione. Le distorsioni prodotte da aspettatve, invece, accadono quando l’intervistatore si aspetta
risposte in linea alle risposte date alle domande precedent.
Un altro problema si verifica quando l’intervistatore pensa che la domanda posta sia difficile, è stato
dimostrato, infatti, che in casi come questo il tasso di non risposte è maggiore.
Per questi motivi le convinzioni e i valori dell’intervistatore devono essere il più possibile mitigati e tenuti
sotto controllo.

Ovviamente, quando l’intervistatore introduce delle distorsioni non lo fa consapevolmente, si tratta di


dinamiche inconsce. Egli, però, deve avere a mente che questo può accadere e, per questo, tenere un tono

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di voce neutrale, limitare la mimica facciale e segni di approvazione e disapprovazione, evitare di porre
maggiore enfasi su alcune domande piuttosto che in altre.

Per evitare questi problemi si cerca di formare l’intervistatore. Non si tratta di una preparazione che mira a
fornire uno schema assoluto di comportamento ma di una formazione che ha l’obiettivo di rendere gli
intervistatori consapevoli dell’interazione con l’intervistato e fornire loro uno schema di comportamento
entro il quale comportarsi.

Il momento di formazione degli intervistatori è anche un momento per fornire tutta una serie di chiarimenti,
per spiegare e risolvere eventuali dubbi (non solo istruzioni).

Quello che è importante è che l’intervistatore deve avere un atteggiamento positivo ed essere consapevole
dell’importanza del suo ruolo, di ciò che sta facendo e delle conseguenze del suo lavoro in ambito
accademico e di ricerca pubblica e privata. Deve essere convinto e motivato.

Come si formano gli intervistatori?

Esempi di materiali di formazione

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Esempi di materiali di contatto

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Nella maggior parte dei casi vengono contattati anche il sindaco del Comune e il comandante dei vigili
urbani.

Una cosa utile che la rilevazione faccia a faccia consente di fare è la rilevazione di dati non verbali:
l’intervistatore non rileva le informazioni soltanto ponendo delle domande all’intervistato, può rilevare delle
informazioni anche dal contesto il rispondente vive. 2 motivi: Questo innanzitutto può fornire informazioni
supplementari (di tipo socio-demografico) e, in secondo luogo, per capire se chi rifiuta il contatto ha
caratteristiche diverse da chi, invece, lo accetta.

Questonari auto-compilat

I questonari auto-compilat sono questionari che vengono compilat direttamente dall’intervistato senza
l’intervento dell’intervistatore. Non essendoci l’intervistatore i cost di rilevazione si abbattono.
Si tratta, però, di questionari non esenti da limit. È possibile, infatti, che le informazioni vengano mal
rilevate o che le domande non siano comprese correttamente. Inoltre, il più delle volte le caratteristche di
coloro che scelgono di rispondere al questonario sono molto diverse da quelle di chi non risponde.
Spesso, infatti, chi risponde sono soggetti motivati e interessati a quel genere di indagine.

I questonari auto-compilat devono essere chiari e comprensibili a tutti perché non c’è la presenza di un
intervistatore che chiarisce eventuali dubbi e supporta la comprensione dell’intervista.

Esistono due modalità di rilevazione: rilevazione di gruppo e rilevazione individuale. La prima prevede la
presenza di un incaricato che porta i questonari e li fa compilare agli intervistat senza il suo ausilio (es.
classi scolastiche). La seconda modalità di rilevazione, quella individuale, non prevede la presenza di un
incaricato: l’individuo riceve il questonario, lo compila e lo resttuisce. In questo secondo caso, la
resttuzione può essere vincolata (ISTAT) o non vincolata.

Questonari postali/mail

Il questonario auto-compilato in passato avveniva frequentemente via posta, oggi si riceve principalmente
via mail. Questo genere di questionario ha cost ridotti, è molto comodo per l’intervistato perché può
rispondere, seppur entro un limite, secondo i tempi che preferisce, garantisce l’anonimato e consente di
accedere a segment della popolazione che altriment potrebbero essere difficilmente contattabili. Questo
genere di questionario, ovviamente, comporta anche degli svantaggi: i tassi di resttuzione non sono molto
alt quando il questionario non è vincolato, al questionario rispondono solamente le persone che sono
interessate (auto-selezione) per cui le informazioni che si ottengono sono distorte. Inoltre, non si sa chi
risponde.
I questonari devono essere semplici, chiari e non particolarmente lunghi.

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Un modo per favorire un tasso di restituzione accettabile è quello di sottolineare e rendere visibile
l’istituzione che promuove l’indagine. Ovviamente, un questionario breve avrà un tasso di restituzione più
alto rispetto ad uno più lungo.

Inoltre, alcuni target della popolazione sono più facilmente contattabile rispetto ad altri (giovani).

La riuscita dipende anche dal tipo di sollecito che può essere una lettera di accompagnamento o un
sollecito telefonico.

Interviste telefoniche

Le interviste telefoniche sono diventate dominant. Si tratta di interviste molto rapide, non solo perché
avvengono attraverso il telefono, ma anche perché rilevano meno informazioni e utilizzano questonari più
semplici. In questo modo si riescono a raggiungere anche le periferie senza il bisogno di mandare un
intervistatore.
Nelle interviste telefoniche, spesso, si utilizza uno strumento di software conosciuto come CATI (Computer
Aided Telephone Interviewing) che gestisce l’intervista.

Questo tipo di intervista ha degli svantaggi perché manca il contatto personale, non si riesce a stabilire una
cooperazione e un livello di attenzione adeguato. Per questi motivi spesso le risposte sono superficiali e
date senza troppa cura. Utilizzando il telefono, inoltre, non si possono cogliere dat non verbali . Con
l’intervista telefonica c’è anche il problema della sotto o della sovra rappresentazione poiché oggigiorno il
telefono fisso è molto meno utlizzato e i telefoni mobili non è detto che siano della persona che ha
registrato il contratto. Esistono, infine, anche problemi di tempo e di semplificazione delle domande.

Le interviste telefoniche spesso sono utilizzate per i sondaggi elettorali.

Web surveys

L’indagine campionaria condotta via web si distingue in indagini condotte via mail e indagini condotte via
web (web surveys). Nel primo caso la mail (contenente il link del questionario) è solo lo strumento di
contatto. Le surveys, invece, non utilizzano questa modalità di contatto, il web è solo lo strumento di
rilevazione (es. ISTAT – il contatto avviene tramite una lettera in cui viene indicato un sito).

Si tratta di una forma di rilevazione simile al questionario auto-compilato, la differenza è che lo strumento
di rilevazione è basato su un software che permette di avere tutti i vantaggi del CAPI , come la grafica
elegante, l’auto-save e risposte scaricate automaticamente.

Il problema principale è quello dell’accesso a Internet. Un altro problema è la definizione della popolazione
perché non si può avere un elenco di tutte le persone che hanno accesso ad Internet.

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13.04.2021 – 14 lezione

Tecniche di scaling

Le tecniche di scaling sono delle procedure che permettono di misurare atteggiament e comportament
utilizzate nell’indagine campionaria e nell’analisi secondaria. Non avendo a disposizione nelle scienze sociali
delle misure naturali, esistono delle tecniche di scaling, e cioè delle tecniche per misurare atteggiamenti e
comportamenti e riassumere informazioni di tpo complesso.

Come si utilizzano le tecniche di scaling?

Queste tecniche possono essere utlizzate sia nell’analisi secondaria che nell’indagine campionaria. Il
primo tipo di analisi utilizza dati già esistenti e disponibili, la seconda permette al ricercatore di raccogliere
in prima persona i dati e le informazioni. Nonostante le diversità, ciò che questi due approcci hanno in
comune è il fatto che, spesso, devono rilevare concetti complessi e non direttamente rilevabili che
richiedono di essere operatvizzat.
La procedura di operazionalizzazione permette di rendere più sistematica l’operazione trasformando i
concetti non rilevabili in misure empiriche. La tecnica delle scale, in particolare, permette di formalizzare
questa procedura e, quindi, di passare da concetti generali a misure empiriche . Le scale, più nello
specifico, permettono di assegnare un punteggio ad un determinato concetto. Il punteggio indica dove un
individuo o un’unità di analisi si posiziona dallo spazio rappresentato dal concetto stesso.

Una scala è un insieme coerente di element (items) che sono considerati indicatori di un concetto più
generale. In altre parole, gli items vengono utilizzati perché esplicitano e rendono osservabili sotto-concetti
appartenenti ad un concetto più generale.

Gli items sono, generalmente, delle domande che cercano di rilevare, ad esempio, la posizione di un
individuo rispetto ad un’affermazione, la risposta relatva ad una domanda, i comportament. Quando
l’individuo risponde a questi stimoli, a partire dalle risposte agli items (domande), si possono costruire delle
scale e, quindi, capire qual è il punteggio dell’individuo nella scala che rappresenta il concetto latente di
riferimento. È l’unione coerente delle domande (più domande) che permette di esplicitare il concetto non
direttamente osservabile.

La principale applicazione della tecnica delle scale mira alla misurazione degli atteggiament, e cioè alla
rilevazione della posizione dell’individuo nei confronti di un determinato atteggiamento.
L’atteggiamento è “quell’insieme di tendenze e sentimenti, pregiudizi e nozioni preconcette, idee, timori,
apprensioni e convinzioni di una persona nei confronti di un particolare argomento”.

Mentre l’atteggiamento è qualcosa di astratto, l’opinione è qualcosa di rilevabile per cui si cercherà di
rilevare l’opinione che permette di osservare l’atteggiamento. In un certo senso, dunque, si può dire che
l’opinione sia l’indicatore dell’atteggiamento (non si osserva l’atteggiamento ma si chiede l’opinione).

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Come si rileva l’opinione? Per rilevare l’opinione si pone all’individuo una serie di affermazioni sull’oggetto
o il fenomeno studiato. Le risposte date ai diversi items consentono di ottenere un punteggio. Il punteggio
individuale fornisce una stima della posizione del soggetto sull’atteggiamento o il fenomeno da rilevare
(opinione).

Come si costruisce una scala?

Quando si vogliono rilevare delle proprietà continue si può utilizzare un insieme coerente di elementi in
modo da costruire uno strumento di misurazione. Non essendoci un’unità di misura per misurare
determinati atteggiamenti, infatti, è necessario costruirla.

La scala è unidimensionale. Essa, infatti, andando da un minimo ad un massimo coglie soltanto un aspetto
del fenomeno studiato. Il concetto in esame, dunque, può essere rappresentato come un continuum, e
cioè una dimensione che due polarità: una polarità minima (minimo atteggiamento) e una polarità
massima (massimo atteggiamento). Una scala unidimensionale ha lo scopo di determinare il grado di un
concetto e, quindi, il posizionamento dell’individuo (all’interno della scala) su un determinato tema.

Gli indicatori vengono rilevati attraverso domande che possono essere prese da indagini campionarie
precedenti o costruite per l’occasione. Ogni risposta data rappresenta un valore, la somma di tutte le
risposte fornisce la posizione del soggetto sull’atteggiamento o il comportamento preso in analisi. Il
punteggio, e cioè l’insieme delle risposte alle domande, rappresenta un indice. L’indice riassume le
risposte date alle affermazioni fornite. L’indice è la misura del concetto in analisi che fornisce il punteggio
dell’individuo su una determinata scala.

Le scale non rilevano soltanto atteggiament (efficacia politica), possono rilevare anche comportament
(partecipazione politica) o abilità (conoscenza politica).

L’applicazione della tecnica delle scale, però, non è esclusiva dell’indagine campionaria. Essa, infatti, non
deve essere applicata necessariamente soltanto all’individuo: si possono costruire anche scale che hanno
unità di analisi macro come, ad esempio, enttà territoriali.

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Quali variabili (latenti)?

Quando si costruisce uno strumento di misurazione ci si deve porre il problema della natura dello strumento
stesso. Se lo strumento produce un punteggio che può essere collocato su un continuum ci si avvicina ad
una variabile cardinale. Spesso, infatti, quando si producono i punteggi non si producono scale a variabili
cardinali ma a variabili quasi-cardinali.

Esistono, però, anche delle tecniche e dei modelli che permettono di ottenere delle classificazioni che
posizionano le osservazioni in categorie mutualmente esclusive e non ordinabili.

Come si costruisce una scala?

Una scala è un insieme coerente di element costruito a partire da una batteria di domande, ovvero una
serie di domande, con una struttura simile, utilizzata per semplificare le risposte quando cambia l’oggetto su
cui il rispondente deve fornire una valutazione. Quando si costruisce una batteria di domande ci si deve
porre il problema del formato delle domande. Si possono, infatti, utilizzare domande “prese” da altre
indagini o costruirne di nuove. In particolare, si hanno tre tpi di domande: domande che hanno modalità
di risposta semantcamente autonome; domande con modalità di risposta a parziale autonomia
semantca e domande con categorie di risposta “auto-ancorant”.

Domande con modalità di risposta semantcamente autonoma

Le domande con modalità di risposta semantcamente autonoma hanno categorie di risposte con
significato autonomo. Il che significa che ogni categoria di risposta non ha bisogno di altre categorie di
risposta per essere scelta. Ciascuna risposta ha un suo intrinseco significato che non necessita di essere
messo in relazione con il significato delle altre alternative presenti nella scala. L’individuo rispondente non
ha bisogno di rispondere in base alle altre categorie di risposta e, quindi, di posizionarsi in relazione alle
altre risposte (risposte autonome).

Tra queste modalità di risposta esiste un ordine per cui, solitamente, si tratta di variabili ordinali, variabili
per le quali non è possibile conoscere la distanza tra le modalità di risposta.

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Domande con modalità di risposta a parziale autonomia semantca

In questo caso il significato di ogni categoria di risposta è solo parzialmente autonomo dalle altre.
L’individuo che risponde alle domande, infatti, ha bisogno delle altre categorie di risposta per decidere
dove posizionarsi.

Anche in questo caso esiste un ordine tra le categorie di risposta, il che significa che non si conosce la
distanza tra le diverse modalità. Attraverso questo tipo di domande si chiede all’individuo di fornire il suo
grado di accordo/disaccordo riguardo un determinato tema ma per poter rispondere egli deve sapere
quali sono le altre categorie di risposta (“abbastanza d’accordo”, “molto d’accordo”, “per niente d’accordo”).
Il rispondente, dunque, sceglie non perché identifica una modalità di risposta ma in base alle altre modalità
di risposta (risposte a parziale autonomia).

Domande con categorie di risposta “auto-ancorant”

Le scale auto-ancorant permettono di posizionare le risposte del rispondente su un continuum. In altre


parole, vengono fornite due categorie estreme dotate di significato entro le quali il soggetto si posiziona. Il
continuum è graduato, e cioè presenta una suddivisione graduata dello spazio semantico, in parti uguali, fra
i due estremi.

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Non esiste un’unità di misura naturale, l’unità di misura è la scala stessa.

Questo genere di domande viene spesso utilizzato quando si vogliono rilevare valutazioni, e cioè quando si
vogliono valutare persone, istituzioni, eventi indicati da espressioni, comportamenti simili tra loro.
Si chiede all’individuo se è d’accordo con una data affermazione oppure come reputa il comportamento di
un determinato gruppo. Il rispondente risponde nel continuum e dà come risposta un numero presente
nella scala. La valutazione, dunque, avviene mediante una sequenza numerica o grafica in cui sono
interpretat solo gli estremi.

Lo spazio semantco tra i due estremi è occupato da una serie di posizioni intermedie che sono
rappresentate da segni grafici o cifre con autonomia semantca minima. Il posizionamento, e cioè la
valutazione, avviene in relazione agli estremi.

Il formato di questa suddivisione graduata permette di avere più o meno sensibilità: maggiore è la distanza
tra gli estremi e maggiore sarà la sensibilità della scala.

Scala di Cantril

La scala che va da 0 a 10 (o da 1 a 10) è conosciuta come scala di Cantril. Si tratta


di una comune pratica di valutazione, molto semplice e conosciuta dalle persone.
Attraverso questo metodo si sottopone l’individuo ad una serie di valutazioni
che espresse in termini di giudizi negatvi e giudizi positvi.

Graficamente può essere rappresentato da un segmento orizzontale o vertcale.

La cifra rappresenta la posizione dell’individuo.

Si parla di variabili quasi-cardinali.

Di solito, gli indici vengono espressi calcolando la media delle risposte.

Esempio

Termometro dei sentment

Uno strumento simile alla scala di Cantril è il cosiddetto termometro dei sentment, uno strumento che ha
lo scopo di rilevare il grado di sentmento di favore/non favore verso un oggetto (valori, istituzioni) o un
personaggio su una scala da 0 a 100 (riferimento alla scala Celsius).

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Altre forme

Esiste un’altra forma, non assimilabile alle categorie precedenti, in cui vi è una contrapposizione di due
aspetti di uno stesso problema. In questo caso le polarità non sono minima e massima soddisfazioni ma
due affermazioni logicamente contrapposte. L’individuo si posiziona tre queste due alternatve.
L’individuo, dunque, decide dove posizionarsi all’interno del continuum che rappresenta due polarità che si
contrappongono in termini di significato o di logica.

In tutti questi formati di domande può esserci anche l’opzione centrale neutrale e, dunque, la possibilità di
rispondere “non so”, di non esprimere una posizione (soprattutto nelle domande con parziale autonomia
semantica).

Un’altra questione è quella che riguarda il numero di categorie di risposta.

Scala di Likert

Un modo per aggregare i punteggi delle batterie di domande è utilizzare delle scale di tpo additvo,
ovvero delle scale che sommano i punteggi delle risposte date ai singoli items. Ogni items ha lo stesso
punteggio.

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Quando si costruisce una scala additiva si deve pensare alla formulazione delle domande, alla loro selezione
e somministrazione, alla determinazione del grado interno della scala e, poi, anche ai controlli di valenza.

Le domande devono essere costruite in modo tale da poter rilevare il concetto che si vuole misurare. Ogni
domanda, inoltre, deve avere un solo oggetto cognitivo (un gruppo, un fenomeno, un’istituzione, una cosa)
in modo tale da evitare ambiguità.

La domanda che ci si deve porre è: “La scala funziona?”. Non è detto, infatti, che tutte le domande rilevino
informazioni sulla proprietà latente che si vuole rilevare o che colgano gli stessi aspetti del concetto latente.
Una volta somministrata la scala, quindi, ci si deve chiedere se gli element della scala stessa siano o meno
collegat al concetto latente. Per farlo esiste un controllo empirico che si effettua calcolando le correlazioni

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tra le risposte date ai singoli items e la scala, ovvero la somma dei punteggi delle singole risposte. La
correlazione viene calcolata su una scala che va da 0 a 1.

Si tratta di una procedura piuttosto semplice e molto efficace (correlazione elemento-scala) che permette di
identficare gli items che non sono coerent con la scala e, quindi, di escluderlo.

La coerenza interna della scala può essere valutata anche attraverso il calcolo dell’Alpha di Cronbach, in
una misura che va da 0 a 1. Se la misura è maggiore di 0,7 la scala è costituita da items coerent tra loro.

Questo controllo, però, non è sufficiente: esistono anche il controllo di validità e di unidimensionalità. Il
primo permette di capire se la scala misura effettivamente ciò che vuole misurare. Per capire, invece, se
una scala è multdimensionale o unidimensionale si utilizza un’analisi fattoriale. Questo tipo di analisi,
infatti, permette di verificare se esistono più fattori (dimensioni) sottostant ad un concetto, se esistono
delle sotto-scale che riguardano il concetto in esame.
La multidimensionalità viene colta studiando dei coefficienti che si chiamano factor loadings, ovvero delle
correlazioni tra le diverse risposte date ai singoli items e la dimensione stessa.

Dimensioni molto diverse tra loro per cui non si può pensare di costruire una scala unidimensionale

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Cinque fattori (dimensioni) che misurano istituzioni diverse tra loro

19.04.2021 – 15 lezione

Campionamento

Cosa significa campionare?

In generale, campionare significa osservare una “parte” per ottenere informazioni sul “tutto”. In altre
parole, significa porre l’attenzione su un piccolo aspetto di un problema generale per cercare di trarre
informazioni su tutto ciò che compone ciò che si vuole studiare.

Il campionamento è un’attività quotdiana (quando si assaggia ciò che si sta cucinando, quando si fa un
esame, quando si fa la revisione dell’auto).

Per conoscere la realtà sociale si hanno due alternative: rilevare le informazioni in maniera esaustva
(rilevamento delle informazioni sul “tutto”) oppure rilevare le informazioni attraverso la rilevazione
campionaria (rilevamento delle informazioni su una “parte”). Se ci si muove verso la rilevazione
campionaria si rileveranno le informazioni da un sotto-insieme della popolazione. In base a come si
seleziona il sotto-insieme della popolazione si può essere in grado di conoscere le caratteristiche del tutto. Il
tipo di campionamento, e cioè il tipo di procedura utilizzata, infatti, consente di conoscere il tutto in
maniera più o meno precisa. Più le regole sono sistematizzate e precise e più si è in grado di dire che le
informazioni che vengono rilevate attraverso il campione sono simili a quelle della popolazione intera.

Il campione è uno strumento per conoscere le caratteristche della popolazione che non si conosce.

Quando si affronta la questione del campionamento all’interno dell’ambito delle scienze sociali si devono
introdurre i concetti di “caso” e di “casualità”. Si tratta di due concetti fondamentali quando si parla di
campionamento perché è soltanto attraverso essi che si è in grado di estrarre il sotto-insieme dalla
popolazione. Quello che si fa, in sostanza, è scegliere ed estrarre casualmente le unità. Questa, però, non è
una scelta “a casaccio” ma una scelta casuale perché si utlizzano le regole del caso, e cioè le regole della
probabilità. Si applicano, in altre parole, delle regole ben precise e codificate per poter estrarre
informazioni in maniera sistematica dalla popolazione.

“Il campionamento è un procedimento attraverso il quale si estrae, da un insieme di unità (popolazione)


costituenti l’oggetto dello studio, un numero ridotto di casi (campione) scelti con criteri tali da consentire la
generalizzazione all’intera popolazione dei risultati ottenuti studiando il campione”.

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Il campionamento nelle scienze sociali è una scelta ovvia perché, altrimenti, con la rilevazione esaustiva si
dovrebbero andare a rilevare le informazioni per tutti i membri di una determinata popolazione.

Campionare è una “obbligata” banale perché permette di abbattere cost, risorse organizzatve e tempi
della raccolta dei dat. Il campionamento, infatti, permette di studiare popolazioni anche molto ampie con
risorse limitate.

Il campionamento non è nato con le scienze sociali, si è tentato di introdurlo in queste discipline soltanto
alla fine dell’Ottocento anche se con scarsi risultati. Il primo tentativo fu quello di Anders Kiaer (1895) che
presentò una proposta per evitare la rilevazione esaustiva, ma questa non fu ben percepita perché era
l’epoca in cui si stavano iniziando a diffondere i primi censimenti (forma di rilevazione esaustiva). Un
tentativo successivo fu quello di Arthur Bowley (1936) che introdusse quello che oggi conosciamo come
“campionamento casuale semplice”. Infine, Jerzy Neyman (1934) introdusse il campionamento
probabilistico. Sono questi tentativi iniziali di proposte che, poi, sono state sistematizzate in modo più
preciso dagli istituti di sondaggi di opinione, e cioè organizzazioni che traggono vantaggio dall’utilizzo di
campioni.

Lo sviluppo maggiore, nella fase di nascita dell’indagine campionaria, è legato al caso del Literary Digest
che, in concomitanza delle elezioni presidenziali del 1936, inviò circa 10milioni di questionari postali ai
cittadini statunitensi, utilizzando i registri automobilistici e gli elenchi telefonici. Il tasso di restituzione fu
relativamente alto ma non riuscì a predire il vincitore delle elezioni e, anzi, lo sbagliò completamente.
Perché? Innanzitutto vi era un errore di copertura perché chi poteva permettersi un telefono e un’auto
all’epoca rappresentava una definita e piccola parte della popolazione. In secondo luogo, vi era anche un
errore di non risposta, poiché chi rispose al questionario aveva sicuramente interesse per il sondaggio e
caratteristiche diverse rispetto a chi non rispose.

A seguito di questi errori, vennero sviluppate sempre di più tecniche che consentissero l’utlizzo di campioni
rappresentatvi della popolazione: non basta estrarre un sotto-insieme dalla popolazione, questo deve
essere rappresentatvo della popolazione stessa. In questo modo, si possono utilizzare anche campioni
piccoli, non proporzionali alla dimensione della popolazione, con cui ottenere informazioni sulla
popolazione intera (campioni probabilistci).

Errori di selezione dei casi: errore di copertura (riguarda le liste e, quindi, chi si è in grado di reperire),
errore di campionamento (errore legato alla procedura stessa di campionamento), errore di non risposta.

Popolazione

La popolazione (solitamente indicata da N ) è un insieme N (ampiezza della popolazione) costtuito


da unità (dette anche unità statistiche o unità di analisi) che costtuiscono l’oggetto dello studio.

Attraverso il campionamento si studiano le caratteristche delle unità. Quando si studiano le caratteristiche


del campione si è interessati a conoscere le caratteristche della popolazione (parametri). In altre parole,
per conoscere i parametri, e cioè i valori delle caratteristiche delle unità che fanno parte della popolazione,
si utilizza il campionamento.

Campione

Il campione è l’insieme delle n (ampiezza del campione) unità campionarie (o casi) selezionate tra le
N unità che compongono la popolazione, allo scopo di rappresentarla (“campione rappresentativo”).
La procedura che si utilizza per passare dalla popolazione al campione è detta procedura di
campionamento. In base a come vengono scelte le unità n dal complesso delle unità N si può di
identificare il tipo di campionamento. Da una parte, dunque, si ha la popolazione che è l’oggetto generale

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dello studio e dall’altra si ha il campione che deve essere visto come uno strumento per conoscere le
caratteristche della popolazione, ovvero l’oggetto di studio.

Svantaggi del campione

Se per conoscere la popolazione si utilizza un campione i valori che si identificheranno non saranno esatti
ma delle stme (valori approssimat). Ad ogni stima basata su un campione si associa un errore per cui ciò
che si ottiene attraverso lo studio di un campione è un’informazione non certa ma probabile.

Errore di campionamento

L’errore di campionamento è il margine di incertezza che circonda il valore di un parametro ottenuto in un


campione e il valore effettivo (sconosciuto) del parametro nella popolazione. Il parametro della
popolazione è incognito.

Il valore relatvo alle caratteristche della popolazione è dato dalla somma della stma basata sul campione
e l’errore o, in alternativa, dalla loro differenza.

 Si può conoscere l’errore soltanto se il campionamento ha delle caratteristiche. In particolare, è


necessario
che il campione sia probabilistco.
Un campione probabilistco è un campione le cui unità hanno una probabilità nota e diversa da zero.
Questo significa che tutte le unità della popolazione di riferimento hanno la possibilità di essere incluse
in questo tipo di campione. Riprendendo l’esempio del Literary Digest, gli individui senza auto e/o
telefono
avevano 0 probabilità di essere estratti.

Il campionamento viene detto casuale-semplice se le unità della popolazione hanno la stessa probabilità
di essere estratte e, quindi, di essere incluse nel campione.

Se non si ha la lista della popolazione e, quindi, l’elenco di tutte le unità che fanno parte della popolazione
non si potrà calcolare la probabilità delle unità di essere incluse in n . Se si possiede la lista di tutti i
membri della popolazione si è in grado di assegnare ad ogni unità parte della popolazione la probabilità di
entrare a far parte del campione.

Se si dispone della lista della popolazione si potrà stmare anche l’errore di campionamento.

s
e=z √1−f
√n
z = coefficiente dipendente dal livello di fiducia della stima
s = deviazione standard campionaria della variabile studiata. La deviazione standard indica quanto varia
una variabile, ovvero quanto è dispersa. Una deviazione standard piccola indica che le unità che si stanno
studiando variano poco su quella variabile, viceversa per una deviazione standard grande.

n = ampiezza del campione


1−f = fattore di correzione per popolazioni finite

F = frazione di campionamento (= n/ N )

L’errore di campionamento è direttamente proporzionale al livello di fiducia che si vuole avere nella stima
e alla variabilità del fenomeno studiato, mentre è inversamente proporzionale all’ampiezza del campione.

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Esempio

Come si calcola l’errore di campionamento?

Il reddito, preso in analisi in questo esempio, è una variabile cardinale.

Se, invece, si ha a che fare con variabili nominali (o categoriali) la formula per calcolare l’errore di
campionamento è diversa:

e=z
√ pq
n−1
√1−f
p = proporzione nel campione per la categoria in esame

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q = 1– p

Esempio

L’ampiezza del campione è importantissima per determinare l’errore.

Quando deve essere grande il campione? Perché è rilevante? Non è rilevante soltanto perché ci permette di
avere un errore più o meno grande ma anche perché ci permette di rilevare i cost dell’indagine: maggiore è
il campione maggiori saranno i costi, minore è il campione minori sono i costi.

A partire dalle equazioni precedenti, si può calcolare l’ampiezza del campione.

Come si calcola l’ampiezza (media)?

zs 2
¿
e
n=¿
L’ampiezza del campione è direttamente proporzionale al livello di fiducia desiderato per la stma e alla
variabilità del fenomeno studiato, mentre è inversamente proporzionale all’errore che il ricercatore è
disposto ad accettare.

z ed e sono parametri stabiliti dal ricercatore


Come si calcola l’ampiezza (proporzione)?

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2
z pq
n ≅n−1=
e2

Questione

Non è rilevante la numerosità della popolazione perché N non è contemplato nel calcolo della
numerosità campionaria. Quello che è importante è il rapporto tra la numerosità campionaria e la
numerosità della popolazione.

Utilizzare la deviazione standard relativa ad una sola variabile, però, non è sufficiente nelle scienze sociali:
si devono considerare più variabili.
Cosa si può fare? Considerare variabili diverse e scegliere l’ n (numerosità campionaria) maggiore nel
caso della media e, quindi, di variabili cardinali. Nel caso di variabili nominali il problema è minore perché
nel caso peggiore la deviazione standard sarà 0,5 ×0,5( p × 1− p) . La deviazione standard è più
elevata quando p=q , e cioè quando p=1 .

20.04.2021 – 16 lezione

Disegni di campionamento

Per determinare la dimensione del campione si possono applicare delle formule. Nel caso di variabili
nominali si ha una situazione più vantaggiosa, rispetto a quando si utilizzano variabili cardinali, perché la
dimensione del campione si può stmare grazie alla proprietà relativa al calcolo della deviazione standard.

La dimensione del campione, però, dipende anche da quanto errore si vuole “tollerare” e dalla fiducia che
si vuole includere nel calcolo dell’errore. Se la fiducia che si vuole inserire è pari al 95%, il valore z che
entra nella formula è uguale a 1,96.

Scenari

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In base all’errore che si decide di inserire nella formula (5%, 2%, 1%), si avrà una numerosità campionaria
diversa.

Nel caso del campione casuale semplice, in cui tutte le unità hanno la stessa probabilità (diversa da 0) di far
parte del campione stesso, per calcolare la probabilità è necessario avere a disposizione liste complete,
aggiornate e senza errori ed evitare situazioni per le quali si potrebbero ottenere non risposte o
irreperibilità dei soggetti.
Ovviamente, in una situazione reale, avendo a che fare con individui, non sempre si è in grado di avere liste
complete, corrette e aggiornate e individui disposti ad essere intervistati o che rispondono interamente al
questionario.

Realtà dell’inchiesta campionaria

Il campione casuale semplice è un campione che raramente si riesce ad applicare nell’ambito delle scienze
sociali.
Il problema del campionamento casuale semplice è che la selezione è casuale. Questa caratteristica
rappresenta un problema perché non si inseriscono informazioni note sulla popolazione che, invece, si
potrebbero utilizzare per rendere più efficiente il processo di campionamento.

Nel campionamento casuale semplice il piano di rilevazione è costoso e si deve essere in grado di
intervistare tutti.
Essendo questa una situazione improbabile in questo campo esistono altri disegni campionari che vengono
applicati per superare questo scenario.

Campionamento sistematco

Tra le alternative vi è anche il cosiddetto campionamento sistematco che è equivalente, in termini di


risultato, al campionamento casuale semplice. Attraverso questa forma di campionamento si ottiene un
campione di individui o di osservazioni che hanno la stessa probabilità, nota e diversa da 0, di essere
inclusi nel campione stesso. Ciò che cambia è la modalità di estrazione delle unità: se si ha a disposizione
una lista si estrarrà da essa una unità ogni x altre unità o, in altre parole, una unità ogni dato intervallo.

Dato N e stabilita la numerosità campionaria che si vuole raggiungere, si sceglierà una unità ogni
k =N /n , dove k sta per l’intervallo.
Esempio: N = 7200, n = 5000  k = 7200/500 ≅ 14
Il disegno di campionamento presenta alcuni vantaggi. Innanzitutto, ha il vantaggio di essere equivalente al
campionamento casuale semplice. Ovviamente, però, non basta avere una lista: è necessario che essa non
abbia delle periodicità il che significa che i membri della popolazione non devono essere ordinat secondo
dei raggruppament perché altrimenti la probabilità non sarebbe uguale per tutti.
In secondo luogo, questo tpo di campionamento permette di estrarre campioni casuali anche se N è
sconosciuto e la lista della popolazione è mancante (es. exit polls).

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Per avere un campionamento che ha l’aspetto di un campione sistematico, però, si devono tenere due
condizioni precise, non semplici da rispettare: 1. tutte le unità devono avere la stessa probabilità di essere
estratte; 2. si devono evitare scelte diverse da quella determinata dall’intervallo di campionamento.

Campionamento stratficato

Un’altra possibilità è quella del campionamento stratficato. L’ampiezza del campione dipende dall’errore (
e ) e dal livello di fiducia. L’ampiezza del campione ( n ) sarà tanto maggiore quanto sarà maggiore la
variabilità ( s ) della variabile che si sta analizzando. La variabilità è data dall’entità della deviazione
standard, che fornisce un’informazione su quanto le osservazioni studiate siano simili o diverse tra loro:
tanto più sono diverse e tanto maggiore dovrà essere il campione da estrarre.

È possibile trarre vantaggio dalla variabilità e sfruttarla in modo da ridurre l’errore di campionamento.
Come si può sfruttare la variabilità? Si cercano di identificare, all’interno della popolazione, dei gruppi
omogenei per la variabile d’interesse. In questo modo si cerca di ridurre la variabilità della variabile a cui
si è interessati. Cercare di sfruttare l’omogeneità permette di rendere la procedura di campionamento più
efficiente perché si riesce a costruire un campione di dimensioni minori rispetto a quello che si sarebbe
ottenuto senza l’utilizzo dell’omogeneità.

Come si fa ad ottenere un campione stratificato?

Si devono ottenere degli strat, e cioè delle sotto-popolazioni presenti all’interno della popolazione. Di
solito, si identificano sotto-gruppi omogenei che, quindi, hanno un grado di variabilità minore rispetto alla
variabile che si vuole stmare. In altre parole, si identificano degli strat da cui estrarre le unità con una
tecnica di estrazione pari a quella utilizzata nel campione casuale semplice. Una volta estratte le unità dai
diversi strati si devono unire per formare il campione. In altre parole, si sfrutta la variabilità per ottenere
gruppi omogenei con variabilità interne minori.

Le variabili che guidano la stratificazione possono essere anche più di una (la variabilità si riduce ancora di
più).

Si hanno due forme di campione stratficato: il campione stratficato proporzionale e il campione


stratficato non proporzionale. Il primo riproduce la stessa composizione e le dimensioni degli strat della
popolazione, il secondo, invece, non è proporzionale alla dimensione degli strat della popolazione . Si
può, infatti, decidere di sovra-rappresentare alcuni strati.

Un’altra alternativa è quella dell’equa rappresentazione degli strat. Nel caso del campione stratficato
proporzionale gli strat hanno dimensione pari (in proporzione) a quelle della popolazione; in un campione
stratficato non proporzionale gli strat hanno n uguale, e cioè numerosità campionaria uguale. In
entrambi i casi gli strati non hanno dimensione pari a quella degli strati della popolazione per cui per
studiare la popolazione, in una seconda fase, si opererà utilizzando la tecnica della ponderazione, una
tecnica che consente di applicare dei pesi ai soggetti sovra o sotto rappresentat in modo da assegnare un
valore diverso all’osservazione stessa.

Un altro tipo di campione stratficato non proporzionale è il cosiddetto campione stratficato ottimale, un
campione in cui l’ampiezza degli strat è proporzionale alla variabilità della variabile oggetto di stma. Più
alta sarà la variabilità e maggiore sarà la dimensione dello strato.

Campionamento a stadi

Esiste, inoltre, il campionamento a stadi. Si tratta, in un certo senso, di un’alternativa simile al


campionamento stratficato ma con una diversa procedura di identficazione delle unità del campione.
Questo campione non è più efficiente di quello del campionamento stratificato ma è più semplice in

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termini di procedura e di cost. Questo tipo di campione è particolarmente utile se non si dispone della
lista della popolazione o se il territorio che si sta analizzando è troppo vasto o di difficile accesso.

Come si procede in questo tipo di campionamento? Si ha una popolazione divisa in più livelli ordinat
gerarchicamente (azienda-dipendente, scuola-studenti, comuni-abitanti). Si hanno, in altre parole, unità
che si collocano su livelli diversi. Questi livelli sono estratti in successione , ovvero in due stadi. In
particolare, se non si dispone della lista della popolazione per cui si può utlizzare il campionamento a
strat: si ha bisogno soltanto della lista delle unità primarie, e cioè quelle unità che si collocano a un livello
superiore (azienda, scuola, comuni). In una prima fase, dunque, si estraggono le unità primarie mentre
nella seconda fase si costruirà la lista delle unità secondarie appartenenti alle unità primarie estratte.

Il campionamento a stadi presenta dei chiari vantaggi. In primo luogo, non è necessaria la lista di tutta la
popolazione (che spesso non esiste). Si può sfruttare, infatti, il fatto che le unità a livello superiore (unità
primarie) siano unità appartenenti a delle liste. In secondo luogo, si dovranno costruire solo le liste delle
sub-popolazioni delle unità d’ordine superiore estratte. Infine, è importante sottolineare il fatto che la
rilevazione viene concentrata soltanto nelle unità estratte.
Questo tipo di campionamento presenta, però, anche degli svantaggi: innanzitutto, perde un po’ di
efficienza. Poi, vi è anche il problema che i casi appartenent a una stessa unità d’ordine superiore tendono
in parte ad assomigliarsi. Infine, bisogna tenere a mente che la teoria statstca che sta dietro a questa
tecnica di campionamento è particolarmente complessa.

Campionamento a grappoli

Una sorta di versione del campionamento a stadi è quello conosciuto come campionamento a grappoli, un
campionamento che sfrutta il fatto di avere una popolazione naturalmente suddivisa in unità
spazialmente contgue (famiglie, classi, sezioni di partito, associazioni). Si procede in modo simile al
precedente: si estraggono i grappoli ma, anziché estrarre in modo casuale i membri all’interno dei grappoli,
si includono all’interno del campione tutti i membri del grappolo stesso . In altre parole, tutte le unità
elementari sono incluse nel campione.

Questa procedura ha alcuni vantaggi. Innanzitutto, viene sfruttata la prossimità spaziale delle unità e
questo permette di ridurre i cost perché in questo modo si ha bisogno di contattare una sola unità del
grappolo (contatto unico). Il vantaggio non è soltanto di tipo economico ma anche teorico-empirico perché
si può sfruttare la continuità spaziale per studiare anche le relazioni tra i membri del grappolo. Inoltre, il
campionamento a grappolo può essere utilizzato assieme ad altre strategie.

La teoria dei campioni è di difficile applicazione nell’indagine campionaria perché la popolazione è


rappresentata da individui e lo strumento di rilevazione è il questionario. In aggiunta esistono tre possibili
errori di selezione: errore di copertura, errore di campionamento, errore di non risposta.

Errore di copertura

L’errore di copertura è un problema che ha a che fare con la lista della popolazione. Si ha un campione
probabilistico quando ogni unità è estratta con una probabilità nota e diversa da zero. Si ha un errore di
copertura quando le unità non sono note. In particolare, ci sono contesti in cui questo problema è relativo
e altri contesti in cui, invece, questo problema rappresenta un ostacolo al campionamento di tipo
probabilistico.
Nel caso italiano, ad esempio, se come riferimento si prende l’intera popolazione il problema risulta essere
limitato perché la lista della popolazione esiste ed è completa e aggiornata. Ovviamente, però, l’ accesso alle
liste è complicato e richiede una serie di procedure isttuzionalizzate.

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Il problema, invece, si pone quando si è interessati a sotto-insiemi della popolazione (disoccupati). Spesso,
infatti, in questi casi non esistono le liste della popolazione per cui non è possibile utilizzare tecniche di
campionamento probabilistiche.

Le liste possono avere anche altri tipi di problemi perché possono essere esistenti ma non aggiornate,
possono avere duplicati non aggiornati o possono essere incomplete.

Errore di campionamento

L’errore di campionamento può seguire una logica monovariata anche se le scienze sociali non sono
interessate ad una sola variabile. È necessario, infatti, seguire una logica multvariata e, cioè, utlizzare più
variabili per spiegare il fenomeno di interesse.

L’errore di campionamento aumenta quando diminuisce l’ampiezza del campione.

La dimensione del campione non può essere determinata a priori, essa dipende dal tipo di analisi e dalla
distribuzione delle variabili.

Errore di non risposta

L’estrazione causale segue una logica molto semplice: si seleziona l’entità e si estraggono informazioni da
essa. Anche assumendo di avere una lista completa da cui si estraggono le unità in modo casuale questo
non è sufficiente perché, per poter estrarre informazioni dagli individui, questi devono essere contattati.
Essendo esseri umani, però, può accadere che non vogliano rispondere al questonario. Spesso, infatti, non
si riescono ad intervistare tutti gli individui del campione per due ordini: per mancato contatto (difficoltà a
raggiungere il soggetto o problema di irreperibilità) o per rifiuto di farsi intervistare. Generalmente, chi
rifiuta di essere intervistato ha caratteristche diverse da chi, invece, decide di farsi intervistare e questo
rappresenta, ovviamente, un problema.
Quando ci si trova di fronte ad un rifiuto o a un mancato contatto si possono sostituire questi soggetti con
altri soggetti estratti casualmente. Ovviamente, si deve considerare che questa procedura può portare a
distorsioni perché i soggetti che si sostituiscono possono avere caratteristiche diverse tra loro.

* Nelle interviste telefoniche i tassi di non risposta sono molto più bassi rispetto che per quelle faccia-a-
faccia.

Si può utilizzare anche la procedura di ponderazione, e cioè attribuire un peso maggiore alle osservazioni
appartenent al gruppo che non si è riuscito a raggiungere interamente.

26.04.2021 – 17 lezione

Causalità ed esperiment

Spesso, quando si cercano di mettere in relazione due fenomeni lo si fa in termini di causa ed effetto. Le
cause, in particolare, sono considerate come spiegazioni per ciò che si verifica in seguito ad esse (effetti).
Il punto centrale è che per determinat effetti ci possono essere diverse spiegazioni e, quindi, diverse
cause.

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Mentre nella vita quotidiana si ha a che fare con problemi “banali” per cui è facile identificare la causa e
l’effetto, nelle scienze sociali ci si trova di fronte a questioni più importanti che consentono di spiegare i
fenomeni sociali stessi. Nelle scienze sociali, ad esempio, ci sono studi che mettono in relazione il benessere
emotivo e l’esercizio fisico (“L’esercizio fisico causa benessere psichico?”, “È soltanto l’esercizio fisico che
causa benessere emotivo o ci possono essere anche altre spiegazioni al benessere psichico?”, “Come si
spiega la variazione del benessere psichico?”), altri studi, invece, si interrogano sugli effetti dell’advertising
sulle scelte di voto.

Nelle scienze sociali quello della casualità è un problema molto importante perché è difficile isolare le
cause e, quindi, sostenere che un fenomeno è causato da alcuni fattori piuttosto che da altri.

Quando si cercano di studiare i fenomeni sociali e politici, quello che ci si chiede è: “Che cosa causa questi
fenomeni (sociali e politici)?”. Il problema nelle scienze sociali, infatti, è proprio la complessità nel ripulire le
cause, nell’isolare ciò che può spiegare in maniera alternatva i fenomeni che si stanno studiando. Per
identficare una causa si deve essere in grado di tenere sotto controllo e separare l’effetto del fattore di
interesse da altri eventuali fattori.

Come si trovano le cause nelle scienze sociali?

Una delle possibili risposte riguarda l’utlizzo dell’esperimento, uno strumento che non nasce nelle scienze
sociali ma che può essere applicato a queste discipline.

Il problema della difficoltà nell’identificare una relazione causale è il concetto stesso di causa. Questo
concetto, infatti, vede le sue radici in una riflessione più teorica che empirica, il cui punto centrale riguarda
il fatto che le leggi causali sono indimostrabili (non si può dimostrare empiricamente che x causa y
). Secondo questa prospettiva vi è, dunque, una grande differenza tra ciò che si può identificare come una
spiegazione a livello teorico e ciò che, invece, si è in grado di dimostrare con dat empirici.

Una semplice relazione di causalità assume la forma “Se C(ausa), allora E(ffetto)”.

Quale problema si trova in questa affermazione? Cosa manca a questa affermazione? Questa affermazione
non dice nulla, si deve ragionare in termini: “Se C, allora (e soltanto allora) E sempre”, affermazione che
indica che ogni volta che si incontra la causa C, allora si avrà anche E. In questo caso si ha un elemento di
condizionalità (se – allora), di successione (a seguito di C si avrà E), di costanza (relazione valida sempre) e
di univocità (C causa E e non viceversa). Ciononostante questa affermazione, dal punto di vista teorico, è
ancora parziale perché manca un’idea di produzione. La frase presa in analisi, infatti, non ci dice che è C a
produrre E, ci dice soltanto che quando appare C c’è anche E.
In una proposizione causale non si deve avere soltanto condizionalità, successione, costanza e univocità ma
anche un elemento di produzione: “Se C, allora (e soltanto allora) E sempre prodotto da C”.

Se si ragiona sulla casualità in questi termini e si cerca di immaginare l’applicazione di queste proposizioni
alle scienze sociali ci si renderà conto che questo concetto è inapplicabile. Nelle scienze sociali, infatti, non
si è in grado di dire che un determinato fenomeno causa un determinato effetto e che questo effetto è
sempre determinato dall’emergere del fenomeno in questone e da nessun altro fenomeno.

Nelle scienze sociali, dunque, non si è in grado di verificare le leggi causali. Dal punto di vista teorico si può
sostenere la veridicità di una relazione causale ma dal punto di vista empirico non si può dire che la
variabile indipendente produce la variabile dipendente presa in esame. Si può dire, piuttosto, che se si
osserva che una variazione di x è seguita generalmente da una variazione di y , allora si ha un
elemento forte per sostenere che x causa y . Ma questo non significa che si ha la certezza.
Questo avviene, però, soltanto se si è in grado di tenere costant tutte le altre possibili cause di y . Nelle
scienze sociali, dunque, l’elemento del controllo delle cause alternatve è fondamentale per identficare
una possibile relazione causale tra una variabile dipendente e una variabile indipendente.

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Come si identifica una relazione causale?

Ci sono tre passaggi: 1. deve esistere una covariazione tra variabile indipendente e variabile dipendente, e
cioè queste due variabili devono variare assieme; 2. si deve essere in grado di identficare la direzione della
casualità (è x a causare y e non y a causare x ); 3. si deve essere in grado di controllare le
altre possibili cause. Se si è in grado di passare attraverso questi tre passaggi allora si sarà in grado di
corroborare una relazione causale tra x e y .

Covariazione

Deve esistere una relazione tra x e y , il che significa che al variare di x varia anche y
(covariazione). Se al variare di x , y non varia allora non si avrà covariazione e questo significa che
x non spiega y . Se la variabile che si utilizza come variabile indipendente non varia, allora essa non
potrà spiegare nessun tipo di variazione. Non soltanto le due variabili devono covariare, ma anche la
variabile indipendente deve variare, altrimenti si parlerebbe di costante. Lo stesso vale per la variabile
dipendente: se essa non varia allora non ci sarà nulla da spiegare.

! ! ! La presenza di covariazione non implica necessariamente una causazione: se due variabili covariano
non vuol dire per forza che x causa y .

Esempio covariazione

Direzione

Il secondo punto riguarda la direzione della relazione causale.

Si sa che al variare di x varia anche y , ma chi dice che al variare di y varia x ? Come si può
sostenere che non sia il contrario e, quindi, che sia y a causare x ?

Per identificare la direzionalità si hanno due possibilità: la prima è quella di tentare di identficare una
successione temporale, la seconda è quella di manipolare la variabile indipendente. Il fatto di poter
manipolare implica il fatto che sono i ricercatori stessi a determinare i valori della variabile indipendente,
in modo tale da essere sicuri che al variare dei valori della variabile indipendente si ha qualcosa che
corrisponde ad una variazione nella variabile dipendente. In entrambi i casi esistono delle direzioni casuali
che sono illogiche, e cioè che non hanno senso.

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Controllo

Per identificare una relazione causale si devono tenere sotto controllo le altre potenziali cause della
variazione della variabile. Innanzitutto, si deve essere in grado di identificarle anche dal punto di vista
teorico. In altre parole, una volta identificato teoricamente il fattore che si ritiene più importante si devono
identificare tutti gli altri fattori per poter dire che questi non sono determinabili tanto quanto il fattore
fondamentale.

Anche se si osserva una covariazione, e cioè l’esistenza di una relazione tra variabile dipendente e
indipendente, stabile e consistente non si sarà comunque in grado di dire che è la variabile indipendente a
causare quella dipendente perché non si stanno tenendo sotto controllo tutte le altre possibilità. Una
covariazione non è mai una prova di relazione causale: si può essere in presenza di covariazione senza che
esista causazione (“correlation is not causation”).

Cosa fare per identificare una relazione causale e, quindi, dire che x causa y ?
Per identificare una relazione causale si hanno due possibilità: l’approccio naturale (osservazionale) e
l’approccio artficiale (sperimentale). L’approccio artficiale vede i ricercatori stessi manipolare il contesto
e la variabile indipendente per tenere sotto controllo tutte le altre possibili cause.

Esempio

Studio dell’effetto dell’esposizione televisiva (variabile indipendente) e voto (variabile dipendente)


Come varia y al variare di x ?
L’approccio osservazionale consente di utilizzare l’inchiesta campionaria, e cioè di costruire il questonario,
gli indicatori e le domande con i quali raccogliere le informazioni, analizzarle e, quindi, individuare
l’esistenza (o inesistenza) di una relazione tra esposizione televisiva e scelta di voto.
Si può affermare che l’esposizione televisiva causa il voto per un partito piuttosto che per un altro?
Non si può affermare perché non si è considerato il fatto che possano esserci altre variabili a spiegare la
variazione di voto (età, genere, classe sociale). In altre parole, le variabili risultano confuse e questo
impedisce di separare l’effetto dell’esposizione alla tv dall’effetto di altre possibili variabili.

Quando ci si trova in una situazione del genere si può dire di essere di fronte ad una relazione spuria, e cioè
una relazione ingannevole tra due variabili. In altre parole, non esiste una relazione tra x e y ma
esiste una terza variabile ( z ) che causa sia x che y (“non è l’esposizione alla tv a causare la scelta di voto
ma l’età a causare sia l’esposizione alla tv che il voto”).

La chiave per evitare relazioni spurie è tenere sotto controllo le altre variabili, il che significa trasformare le
variabili estranee in costant e depurare, in questo modo, gli effetti di altre variabili nella relazione che si
assume essere causali.

L’alternativa all’approccio osservazionale è la strategia artficiale che utlizza gli esperiment. Gli
esperiment, infatti, sono un modo per annullare il ruolo di altre variabili. Questi permettono di produrre i
dati che si vogliono analizzare e testare la relazione tra x e y , tenendo costant le altre possibili

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cause. Nello specifico, questa strategia prevede la selezione di un campione, la divisione casuale del
campione in due gruppi e il trattamento di un gruppo. Un gruppo viene sottoposto ad uno stmolo mentre
l’altro viene considerato il gruppo di controllo. Si compara l’effetto della variabile manipolata tra il gruppo
di controllo con il gruppo sottoposto ad uno stimolo. I gruppi sono mediamente uguali con caratteristiche
simili, il che significa che se si trova una differenza nella variabile dipendente quella differenza sarà
imputabile soltanto al trattamento e, cioè, alla manipolazione della variabile indipendente effettuata
attraverso la randomizzazione.

Sia nell’analisi della covariazione che negli esperimenti si studia una covariazione. Nell’esperimento, però, la
situazione è controllata perché è il ricercatore che determina lo stmolo attraverso delle procedure di
randomizzazione e di produzione del dato.

Tenendo costanti le caratteristiche dei due gruppi se si trova una differenza nella variabile dipendente quella
differenza sarà data solamente dalla variabile indipendente, manipolata precedentemente, che rappresenta
lo stimolo.

Il problema dell’esperimento, però, è che non tutte le variabili sono manipolabili (istruzione, età, classe
sociale) per cui non sempre questa strategia è applicabile.

Come si produce un esperimento?

Si ha una popolazione costituita da una serie di unità di analisi, una variabile indipendente ( x )
dicotomica che può assumere come valore 0 o 1, dove 0 è il non trattamento, e cioè il gruppo di controllo
( x=c ), e 1 è il gruppo di trattamento ( x=t ). Si ha, poi, anche la variabile dipendente ( y ).

È possibile rilevare il valore di y sulla stessa unità di analisi, sia con x=c che con x=t ? Non è
possibile perché non è possibile osservare le unità simultaneamente.
Si possono cercare delle soluzioni a questo problema detto problema fondamentale dell’inferenza causale:
non si possono osservare simultaneamente, sulla stessa unità, sia la variabile dipendente che la variabile
dipendente. Esistono delle soluzioni parziali a questo problema: la soluzione scientfica e la soluzione
statstca.

Soluzione scientfica

La soluzione scientfica ha due assunt:

1. assunto di invarianza. Si può assumere che il valore del controllo non cambia nel tempo e, quindi, che la
rilevazione non influenza le unità. Si tratta, però, di un assunto indimostrabile.

2. assunto di equivalenza. Si possono identificare due unità equivalent che hanno tutte le caratteristche
uguali tranne per il trattamento che viene applicato all’una e all’altra unità. Se si trova una differenza
nella variabile dipendente misurata tra due individui allora ci sarà un effetto causale ma, anche in questo
caso, si tratta di un assunto indimostrabile.

Soluzione statstca

La soluzione statstca segue la precedente sostenendo che non sia possibile dimostrare che due unità
sono equivalent ma sia possibile dimostrare che due gruppi sono equivalent dal punto di vista statstco .
In questo caso si hanno due gruppi con le stesse caratteristiche e soltanto su uno si introduce il trattamento.
La differenza nella variabile dipendente sarà determinata soltanto dal trattamento. In questo caso non si
troverà un effetto causale ma un effetto causale medio dato dalla media della variabile dipendente
misurata per il gruppo di controllo e dalla media della variabile dipendente misurata per il gruppo trattato
(sottoposto ad uno stimolo)

Nelle scienze sociali si possono trovare almeno tre tpi di esperiment:

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1. Esperimento di laboratorio

Gli esperiment di laboratorio sono esperimenti svolti in una situazione controllata in cui non ci sono
possibili fonti di distrazione. Il laboratorio consente di tenere sotto controllo fattori esterni indesiderabili.
L’unico stimolo a cui il soggetto è sottoposto è quello determinato dalla ricerca per cui ci saranno alcuni
soggetti che verranno stimolati e altri no. Con questo metodo si costruisce l’esperimento e si cercano di
stabilire le condizioni per trattare gli individui in un contesto che altrimenti sarebbe di difficile
implementazione.

Esempio Mutz & Reeves (2005)

“Does incivility in political discourse affect public regard for politics? [. . . ] Is watching politicians and
pundits hurl insults at one another on television merely a harmless pastime, or does it have consequences
for how people think about politics and government? In particular, does televised political incivility harm
levels of trust in government and politicians?”
Disegno di ricerca

 stimolo: esposizione ad un dibattito televisivo in cui politici (attori) violano tipiche norme del conflitto politico
faccia-a-faccia;
 gruppi di trattamento con due versioni diverse di dibattito: versione ‘civile’ e ‘incivile’ (candidati alzano il tono
della voce, di interrompono, non si scusano, etc.);
 gruppo di controllo: non esposto a nessun dibattito;
 variabile dipendente: fiducia politica (congresso, politici, sistema politico).

Risultato

2. Esperimento sul campo

Mentre l’esperimento di laboratorio tratta i gruppi in una situazione artificiale, quello sul campo permette
di unire la strategia sperimentale al setting naturale. L’analisi, cioè, è svolta in un contesto naturale, e cioè
dove le persone normalmente vivono. Quello che rimane è la manipolazione, ovvero la presenza di un
gruppo di controllo e uno di trattamento. Un’altra caratteristica è l’assegnazione casuale degli individui nei
gruppi.

Esempio Geber & Green (2000)

“The decline of personal mobilization has arguably contributed to the erosion of voter turnout in the United
States since the 1960s. [. . . ] Our hypothesis about declining turnout rates rests on the claim that personal
canvassing mobilizes voters more effectively than other modes of contact that have taken its place, such as
direct mail or telephone appeals”.

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Effetto del ‘personal canvassing’, delle telefonate e della posta sulla partecipazione elettorale

Risultati

3. Survey experiments

Il survey experiments consiste nell’unione di due strategie, ovvero l’indagine campionaria e l’esperimento.
Si utilizza l’indagine campionaria ma i soggetti dell’indagine vengono sottoposti ad una domanda posta in
modo diversa.

27.04.2021 – 18 lezione

Analisi monovariata

La prima fase dell’analisi dei dat è la cosiddetta analisi monovariata che va ad osservare una variabile alla
volta.

Una volta identificati i dati secondari e, eventualmente, anche i dati raccolti attraverso un’inchiesta
campionaria, si deve approntare la fase di organizzazione dei dat. Nel caso in cui i dati fossero stati raccolti
in prima persona questa fase sarà svolta dal gruppo di ricerca, nel caso in cui, invece, si utilizzassero dati
secondari, questi saranno stati organizzati in precedenza da chi li fornisce.

Nel caso in cui venissero utilizzati dati secondari, però, i ricercatori non avendo partecipato all’operazioni
non conosceranno le caratteristiche dei dati e, quindi, non sapranno cosa è in riga e cosa è in colonna o, in
altre parole, come sono disposti i dati all’interno della matrice.

Le informazioni fornite dagli individui vengono riportate sulle righe della matrice. Le colonne, invece,
rappresentano le variabili. Dall’incrocio tra riga e colonna si identifica una cella all’interno della quale è
riportato un valore che rappresenta la risposta dell’individuo ad una determinata domanda.

Per essere più precisi, però, si deve utilizzare un documento che consenta di risalire a quali variabili siano
convenute e in quali colonne: il codebook.

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La prima cosa da fare quando si procede con l’analisi di dati è andare a guardare il codebook per vedere non
soltanto quali sono le categorie di risposta o le modalità di campionamento ma anche quali sono le variabili
e come sono state operazionalizzate.

Tipi di variabili e analisi

Esistono diversi tpi di variabili che possono essere trattat con operazioni diverse. Queste operazioni, però,
non possono essere applicate a qualsiasi tipo di analisi e questo ha delle conseguenze per quanto riguarda il
tipo di analisi che si può applicare ad ogni tipo di variabili.

Le variabili possono essere nominali, ordinali e cardinali

Le variabili nominali possono essere trattate con operazioni logiche (= o ≠ ).

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A questi tpi di variabili si possono applicare degli indici (o misure) che permettono di capire le
caratteristche di un’osservazione empirica. Questi indici sono detti di “tendenza centrale”. Si hanno, poi,
degli altri indici che indicano quanto le osservazioni siano diverse o simili tra loro (indici di dispersione).

Le variabili nominali possono essere riassunte in termini di tendenza centrale utilizzando uno strumento
che si chiama “moda”, mentre per quanto riguarda l’indice di dispersione si parla di indice di omogeneità.

Per le variabili ordinali (livello di istruzione) l’indice di tendenza centrale è la mediana, mentre quello di
dispersione è la differenza interquartle. Per le variabili cardinali (reddito) l’indice di tendenza centrale è la
media, mentre quello di dispersione è la deviazione standard.

L’indice di tendenza centrale descrive qual è il valore per un’osservazione tpica del campione o del
gruppo di osservazione che si sta studiando. L’indice di dispersione, invece, indica quanto le osservazioni
studiate siano simili o diverse tra loro per una determinata variabile.
Ad ogni tipo di variabile corrisponde un indice di tendenza centrale e un indice di dispersione specifico.

Le fasi che si seguono nell’analisi dei dati riguardano l’identificazione dei dat che ci permettono di
rispondere agli interrogatvi di ricerca. Una volta identificati i dati è necessario osservare le distribuzioni di
frequenza che permettono di identficare quali sono i valori caratteristci delle variabili studiate e, quindi,
di osservare quali sono le frequenze con le quali le osservazioni sono misurate sulle diverse modalità delle
variabili.

L’operazione di analisi dei dati che riguarda lo studio di una sola variabile è una fase non solo conoscitiva ma
anche una fase in cui avviene un controllo dei dati stessi. Osservare come le variabili si distribuiscono sulle
osservazioni che si stanno studiando permette di verificare se i dati presentano dei valori che non
dovrebbero. Ogni strumento di analisi monovariata dipende dal tpo di variabile per cui si deve essere in
grado di identificare fin da subito quali sono le variabili che si stanno analizzando (nominali, ordinali,
cardinali).

Per poter dire con che tipo di variabile si sta lavorando è necessario tornare al codebook perché sono le
modalità di risposta che permettono di capire di che tpo di variabile si sta parlando.

Esempio

Si possono togliere alcune categorie di risposta

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Osservare le distribuzioni di frequenza permette di identificare: categorie residuali, categorie in cui la


domanda non sarebbe applicabile, persone che non sono in grado di rispondere o si rifiutano di rispondere,
dati errati o implausibili.

Controlli di congruenza

Questo tipo di analisi consente anche di effettuare dei controlli di congruenza, ovvero controlli che
permettono di far emergere eventuali incongruenze fra le variabili. Le incongruenze fra le variabili possono
emergere, ad esempio, quando si lavora con domande condizionate (o domande filtro), e cioè domande
che dividono il percorso del questionario (“Lei ha votato alle ultime elezioni politiche? Se si, per chi ha
votato?” Se il rispondente non ha votato non può avere indicato la scelta di voto).
Fare un controllo di congruenza, quindi, significa identificare i rispondenti che hanno risposto “No” alla
prima domanda ma hanno fornito una domanda sulla scelta di voto.

A che cosa serve l’analisi monovariata?

Serve ad analizzare la distribuzione delle variabili, e cioè a capire come si presentano i fenomeni di
interesse e descriverli. Quest’analisi permette, quindi, di capire come ogni variabile è distribuita fra i casi
rilevati.

L’analisi monovariata è un passo necessario per l’analisi bivariata e multvariata. Nello specifico, l’analisi
bivariata mette in relazione due variabili (una variabile dipendente e una indipendente) mentre l’analisi
multvariata utlizza più variabili indipendent per studiare una variabile dipendente.

L’analisi monovariata permette di osservare la distribuzione di frequenza che rappresenta la descrizione


completa di una variabile. Permette, cioè, di andare ad osservare come le modalità della variabile sono
distribuite nel campione. In altre parole, consente di osservare, per ogni categoria di risposta, quant
individui hanno dato quella risposta. Poiché più categorie si hanno davanti e più sarà difficile capire come si
distribuisce la frequenza, esistono degli indici che permettono di sintetizzare la distribuzione e di capire
quali sono i valori caratteristici della frequenza in esame.

Una distribuzione di frequenza ha due valori caratteristci: (1) la tendenza centrale e (2) la variabilità. Il
primo indica qual è il valore tpico della distribuzione, il secondo dà un’informazione su quanto le
informazioni sono più o meno simili tra loro.

Se si ha un indice di variabilità alto vorrà dire che i soggetti osservat per quella determinata variabile
saranno molto diversi tra loro e avranno dato risposte molto diverse, viceversa se l’indice di variabilità sarà
basso.

Come si ottiene una distribuzione di frequenza? Innanzitutto distnguendo tra frequenze assolute e
frequenze relatve. Le prime rappresentano semplicemente il conteggio per ogni categoria (= N ), le
frequenze assolute
seconde sono relatve alla numerosità campionaria: (× 100)  proporzione o
N
percentuale.

In un secondo momento, si può calcolare anche la frequenza cumulata, chiedendosi quant individui hanno
risposto ad una categoria o alle precedent. In altre parole, si sommano le frequenze relatve in termini di
proporzione o di percentuale per ogni categoria.

Le distribuzioni di frequenza possono essere rappresentate attraverso dei grafici.

Grafico a barre

Quando si utilizzano variabili nominali o ordinali il grafico che viene più spesso utilizzato è il grafico a barre.

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Alternative

Istogrammi

Nel caso di variabili cardinali si utilizzano principalmente gli istogrammi, un grafico a barre che divide la
distribuzione della variabile cardinale in categorie (età – da 18 a 24 anni, da 24 a 29 anni, da 30 a 35 anni).

Tendenza centrale

Gli indici di tendenza centrale forniscono un’informazione sulla modalità della variabile verso la quale i casi
tendono a gravitare, il che significa che essi danno informazioni su qual è il valore tpico della variabile
presa in esame. In base al tipo di variabile si trovano la moda (variabile nominale), la mediana (variabile
ordinale) o la media (variabile cardinale).

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La moda è la modalità di una variabile alla quale è associata la maggiore frequenza.

La mediana è un valore che divide la distribuzione in due parti.


Se la numerosità campionaria è dispari si avrà soltanto un’osservazione che è il punto centrale della
(n+1)
distribuzione 
2

Se, invece, la numerosità campionaria è pari, si avranno due osservazioni centrali per cui il punto centrale
cadrà in mezzo.

i=1

La media è
∑ xi
N
x́=
N
Variabilità

Le misure di variabilità, invece, dicono come si distribuiscono le variabili e, quindi, quanto esse siano
vicine (simili) o lontane (diverse) tra loro. Per le variabili nominali e ordinali si utilizza l’indice di
omogeneità dato dalla somma al quadrato delle frequenze relatve per ogni categoria di risposta. Questo
indice è tanto più elevato quanto è concentrata la distribuzione su poche modalità e tanto più elevato
quanto è minore il numero di modalità. L’indice di omogeneità è massimo quando una frequenza è 1 e
tutte le altre proporzioni sono 0, mentre è minimo quando tutte le proporzioni si equivalgono e, quindi,
quando la variabile si distribuisce in maniera uniforme tra le diverse categorie di risposta.

Si può calcolare anche l’indice di omogeneità relatva che tiene conto del numero di categorie di risposta.

k = numero di categorie
Esempio di omogeneità

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Quando si hanno variabili cardinali o quasi-cardinali si può studiare la variabilità in modi diversi. Uno di
questi modi è utlizzare i quantli che rappresentano valori che lasciano al di sopra o al di sotto una
determinata percentuale di valori:

- se si prende il 25esimo percentile o primo quartile, allora 25% dei valori della distribuzione sono inferiori;

- se prendiamo il 75esimo percentile o terzo quartile, allora 75% dei valori della distribuzione sono inferiori;

- la mediana è il 50esimo percentile o secondo quartile.

La differenza interquartile è la differenza tra il terzo e il primo quartile perché il secondo quartile è la
mediana.

Quartli

Un altro modo per studiare la variabile cardinale è quello di considerare la varianza o la deviazione
standard.

Il Boxplot è un grafico che può essere utilizzato assieme all’istogramma. Esso riporta informazioni
relativamente alla mediana, al primo e al terzo quartile e il campo di variazione.

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Serie storiche
È importante ricordare che si può avere a che fare anche con aggregat territoriali (comuni, regioni, Stati).
Quando si hanno indagini di tpo territoriale molto spesso si ha a che fare con serie storiche che
descrivono l’andamento del tempo di determinat valori. Si possono studiare diverse caratteristiche delle
serie storiche:

yt yt
Si possono utilizzare numero indice × 100 ma anche numero indice a base mobile ×100
y1 y t −1
Esempio

Il modo più semplice per studiare una serie storica, però, è quello di utilizzare un grafico.

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Si ha, poi, un altro tipo di dato territoriale, che deriva da dati aggregati, che sono le serie territoriali che
forniscono informazioni su dati aggregati che non sono dati temporali ma dati relativi a unità territoriali.

Anche questo genere di informazioni, però, sono più facili da riportare in forma grafica.

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Mappa (valori percentuali) Mappa (scarto dalla media) che permette di identificare le
Regioni che stanno sopra e sotto la media nazionale

03.05.2021 – 19 lezione

Analisi bivariata

L’analisi bivariata è quel tipo di analisi che cerca di


analizzare i fenomeni utlizzando una sola
variabile indipendente.

L’analisi monovariata è un tipo di analisi utle per


studiare la distribuzione delle variabili e capire, ad
esempio, come una variabile si distribuisce tra le
diverse categorie che si stanno studiando. È molto utile anche perché consente di studiare le caratteristiche
di un campione e di capire se i dati hanno problemi. Nella ricerca sociale, però, si cerca di spiegare i
fenomeni, capire perché questi variano e perché alcuni individui si comportano in un determinato modo
piuttosto che in un altro. In altre parole, quello che si cerca di fare nella ricerca sociale è mettere in
relazione le variabili. Per farlo, però, si deve avere almeno una variabile indipendente, e cioè almeno una
variabile che spiega la variabile dipendente (analisi bivariata).
Quando si mettono in relazione due variabili, e cioè una variabile dipendente e una indipendente, lo si fa
perché si vuole rispondere agli interrogatvi di ricerca (o domande di ricerche), ovvero interrogativi generali
che derivano da una serie di osservazioni e verranno sviluppate in ipotesi da testare.

Esempi:

- le persone più istruite ( x ) hanno una maggiore probabilità di partecipare alle elezioni ( y );
- gli elettori che hanno votato per un partito sconfitto ( x ) hanno meno fiducia nelle istituzioni ( y );
- nei Paesi in cui ci sono presenti leggi elettorali proporzionali ( x ) il numero di partiti è maggiore ( y ).

Il ruolo della variabile indipendente è quello di cercare di spiegare la variazione che si può trovare nelle
variabili dipendent.

Come si può testare empiricamente la validità di queste ipotesi? Quali strumenti si possono utilizzare?

Il tipo di strumento utilizzato nell’analisi bivariata dipende dal tpo di variabile (sia dipendente che
indipendente) che si sta studiando.

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 Nel caso di una variabile dipendente categoriale e una variabile indipendente categoriale lo strumento
è quello della tabulazione incrociata;
 nel caso di una variabile dipendente cardinale e una variabile indipendente categoriale lo strumento è
quello della regressione lineare;
 nel caso di una variabile dipendente cardinale e una variabile indipendente cardinale lo strumento è
quello della regressione lineare.

È la variabile indipendente che causa la variabile dipendente, o viceversa?


È la variabile indipendente, realmente indipendente, a causare la variabile dipendente. Ad esempio, ci
sono studi sul comportamento elettorale che mettono in relazione la residenza e la scelta di voto,
considerando la residenza la variabile indipendente e il voto una variabile indipendente. È possibile che il
voto influenzi la residenza? No, perché la relazione sarebbe abbastanza illogica.

Si deve, quindi, escludere che la variabile indipendente non sia in realtà la variabile dipendente. Lo si può
fare attraverso la logica, identificando cosa viene prima temporalmente o studiando la letteratura e le teorie
in modo da identificare gli argomenti che hanno spinto gli altri a individuare una determinata direzione
nella relazione tra le variabili.

Una volta identificata la direzione di una relazione si deve pensare all’analisi.

 Caso variabile dipendente categoriale e variabile indipendente categoriale

Nel caso di una variabile dipendente categoriale e una variabile indipendente categoriale lo strumento è
quello della tabulazione incrociata. Nello specifico, la tabulazione incrociata permette di studiare le
distribuzioni di frequenza congiunte e, in questo modo, di incrociare due distribuzione: la distribuzione
della variabile indipendente e quella della variabile dipendente.

Se si analizzano le due variabili separatamente si potranno contare le osservazioni per ogni categoria.
Incrociando le due distribuzioni, invece, si potrà vedere quante persone residenti in centro hanno votato
per il partito A, B o C; quante persone residenti in periferia hanno votato per il partito A, B o C; quante
persone residenti in provincia hanno votato per il partito A, B o C. In questo modo, dunque, potrà essere
costruita una tabella con nove celle (possibilità).

Altro esempio

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Si parte da un’osservazione congiunta per osservare qual è la forma e la forza di una relazione tra variabili
categoriali. In base alla forma, e cioè al modo in cui le due distribuzioni si associano, si possono dire cose
diverse rispetto alla relazione tra variabile indipendente categoriale e la variabile dipendente categoriale.

Si hanno diverse forme di relazione, in base alle configurazioni che si possono trovare tra le diverse
categorie delle variabili studiati.

Quando ci si trova di fronte al caso di due variabili categoriali non si può parlare di segno della relazione
perché se si ha a che fare con variabili nominali l’unica cosa che si può fare è parlare di operazioni logiche
(= o ≠). Per parlare di segno della relazione, le categorie delle variabili categoriali che si utilizzano
dovrebbero essere ordinali o cardinali.
Per quanto riguarda il segno delle relazioni si possono avere due casi:

1. al crescere di x (variabile indipendente), cresce anche y (+);


2. al crescere di x , y diminuisce (−).
Quando la variabile indipendente cambia, quella dipendente cambia seguendo un segno o l’altro.

Oltre alla forma di una relazione, quando si utilizzano le tabulazioni incrociate, si può osservare la forza
della relazione.

In ( a ) e ( b ) la forma della relazione è uguale ma la forza è differente: in ( a ) è maggiore e in ( b


) è minore.

Tabella a doppia entrata

Per pensare a come costruire le frequenze relatve in una tabella a doppia entrata e, quindi, in una
tabulazione incrociata è necessario, prima di tutto, essere sicuri che le variabili siano categoriali e, poi,
identificare le variabili di riga e quelle di colonna che permettono l’identificazione di una serie di celle, ai
margini delle quali ci sono i totali di riga e di colonna (marginali).

Frequenze assolute

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Tabella 1: Frequenza alle funzioni religiose per età in Italia (frequenze assolute)

Guardando questa tabella risulta particolarmente difficile capire se esiste un’associazione tra le due
variabili perché frequenze assolute. Si devono relatvizzare le frequenze. Come si fa? Si devono calcolare
delle proporzioni o delle percentuali.

In base a dove si è posizionata la variabile dipendente rispetto alla variabile indipendente si calcoleranno le
percentuali di colonna o le percentuali di riga (non sono la stessa cosa!). nello specifico, si sceglie la
percentuale di colonna quando si vuole analizzare l’influenza che la variabile in colonna ha sulla variabile
in riga, mentre si sceglie la percentuale di riga quando si vuole analizzare l’influenza che la variabile in riga
ha sulla variabile in colonna.

Se variabile dipendente è in colonna si calcola percentuale di riga

Se variabile dipendente è in riga si calcola percentuale di colonna

Si determina la variabile indipendente e si calcola la percentuale all’interno delle sue modalità.

Frequenze relatve

Tabella 2: Frequenza alle funzioni religiose per età in Italia (frequenze assolute – a e frequenze relative – b).
La variabile indipendente è l’età, quella dipendente la frequenza alle funzioni religiose.

Vengono calcolate le percentuali di riga perché la variabile indipendente (età) è disposta in colonna.

Si possono raffigurare i risultati utilizzando dei grafici bivariat.

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Dallo studio di tabulazioni incrociate si è identificata l’esistenza di una relazione. È necessario capire quanto
sia forte questa relazione tra variabili categoriali e per farlo ci si deve porre la domanda: “Quale forma
assumerebbe la tabella in caso di indipendenza tra le variabili?”.

Per capire quanto sia forte la relazione tra variabili categoriali si comparano le percentuali costruite in
base alle frequenze osservate sulla tabella ipotetca costruita su variabili indipendent tra loro. In altre
parole, si comparano le frequenze attese con le frequenze osservate sul campione. Dalla comparazione di
2
( f −f )
queste due tabelle si troverà un valore, rappresentato da x =∑ 0 e
2
che consiste in un test
fe
statstco che permette di studiare quanto sono associate tra loro le variabili categoriali. Più questo valore
è alto, maggiore sarà la distanza tra frequenze attese e frequenze osservate e, quindi, indicherà che esiste
una relazione tra le variabili.

Esempio

Tabella 3: Frequenza alle funzioni religiose per età in Italia (frequenze osservate – a e frequenze attese – b)

Le relazioni tra variabili categoriali possono essere viste in termini di probabilità. Quando si parla di
probabilità si è di fronte a variabili binarie. Le variabili binarie, che assumono due stati, possono essere
viste anche in termini di successo o fallimento.

Quando si ha una tabulazione tra due variabili dicotomiche si ha un caso speciale che può essere sfruttato
per studiare la relazione tra le due variabili.

Esempio: Se si assume di voler studiare la fiducia che le persone hanno nei confronti dei social media, si
avranno come alternative l’“avere fiducia” e il “non avere fiducia”. La variabile indipendente è l’età (giovani

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e non giovani). Se queste due variabili hanno una relazione tra loro allora la distribuzione congiunta non
sarà omogenea. Nel campione preso in analisi un cittadino ha una probabilità (π) di avere fiducia nei social
media di 0.21 e una probabilità (1−π) di non avere fiducia nei social media di 0.79.
Questa fiducia è diversa tra rispondenti che hanno età diverse? I giovani hanno più fiducia nei social media
rispetto ai meno giovani?

Calcolo percentuali di riga

A questo punto ci si deve chiedere se esiste una relazione tra le due variabili e, quindi, mettere in rapporto
le probabilità ottenute. Mettendo in rapporto le probabilità si avrà a che fare con i rapport di probabilità.

Se si calcola il rapporto tra 0.28 e 0.72 si otterrà il rapporto di probabilità condizionato per un giovane di
avere fiducia piuttosto che non avere fiducia.

Gli odds sono non-negatvi, con valori > 1 quando il successo è maggiore del fallimento.

Poiché, però, si è interessati a studiare il ruolo dell’età si dovranno mettere in relazione due rapporti di
π 1,1 / π 0,1
probabilità. Il rapporto tra odds in una tabella 2 × 2 si chiama odds rato  ¿= .
π 1,0 / π 0,0

 Caso variabile dipendente cardinale e variabile indipendente categoriale

Se si hanno, invece, una variabile dipendete cardinale e una variabile indipendente categoriale si può
studiare l’associazione tra le due variabili utilizzando uno strumento che si chiama anova, ovvero l’analisi
della varianza. L’analisi della varianza permette di studiare differenze nella variabile dipendente cardinale
tra gruppi. Se i gruppi hanno valori medi diversi sulla variabile dipendente allora esiste una relazione tra
variabile dipendente e indipendente.

Varianza esterna
Si ottiene calcolando: F=
Varianzainterna

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La varianza esterna è la variabilità che esiste tra gruppi, quella interna è quella che si ottiene studiandola
all’interno dei gruppi stessi.

La varianza tra gruppi (esterna) è la variabilità tra la media dei gruppi e la media totale.

La varianza nei gruppi (interna) è la variabilità tra ogni valore all’interno del gruppo e la media di ogni
gruppo.

Dal rapporto tra queste due varianze ne deriva un valore (F) che permette di capire se almeno due gruppi
sono diversi tra loro e se questo sarà vero allora esisterà un’associazione tra variabile dipendente e variabile
indipendente.

Esempio

La posizione ideologica dipende dal livello di istruzione?

Se esiste una relazione tra il livello di istruzione e posizione ideologica si dovranno trovare delle medie sulla
variabile posizione ideologica diverse fra i tre gruppi che colgono le differenze nel livello di istruzione. Nello
specifico, i tre gruppi presi in analisi hanno medie sulla variabile dipendente diverse tra loro.

L’analisi della varianza permette di studiare formalmente la relazione tra una variabile indipendente
categoriale e una variabile dipendente cardinale.

Caso della regressione semplice

La regressione semplice è una famiglia di modelli che si utlizza quando la variabile dipendente è
contnua. Nel caso più semplice si ha anche la variabile indipendente continua.

Questo strumento permette di studiare la relazione tra una variabile dipendente contnua e una variabile
indipendente contnua o categoriale.

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 Caso variabile dipendente cardinale e variabile indipendente cardinale

Se si ha una variabile dipendente cardinale e una variabile indipendente cardinale un modo per studiare la
relazione tra le variabili è il cosiddetto scatterplot o diagramma a dispersione, un diagramma che permette
di visualizzare la posizione delle osservazioni su un piano bidimensionale. Sull’asse delle x si
posizionano le osservazioni per i valori della variabile indipendente, sull’asse delle y si posizionano le
osservazioni per i valori della variabile dipendente. In base ai valori della variabile indipendente e della
variabile dipendente si trova una coordinata che identfica l’osservazione.

Diagramma a dispersione

Uno strumento più formale per identificare questa relazione è la funzione lineare

Si tratta della retta che minimizza la somma degli errori.

Correlazione

La funzione lineare, però, ha il problema che non indica qual è la forza della relazione, e cioè quanto è
forte la relazione tra x e y . Per superare questo limite si può calcolare quello che è conosciuto come
coefficiente di correlazione.
Il coefficiente di correlazione fornisce un’informazione sulla strettezza della relazione tra x e y .
Ovviamente, avere un coefficiente di correlazione alto non permette di dire che esiste una relazione causale
tra le variabili, permette soltanto di dire che esiste una relazione tra le due variabili.

Il concetto di correlazione ha il vantaggio di avere un limite, e cioè di variare tra -1 e 1.

Un problema del coefficiente di correlazione è che tratta le variabili x e y in maniera simmetrica


ma, ciononostante, ha il vantaggio che il suo aspetto non dipende dalle unità di misura delle variabili.

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04.05.2021 – 20 lezione

Intervista qualitatva

L’intervista qualitatva (o intervista in profondità) si distngue dall’intervista condotta con il questonario.


La differenza maggiore che si trova tra questi due tipi di intervista è che quella qualitatva consente di
approfondire ciò che pensa l’intervistato, cosa che, invece, non si riesce a fare utilizzando un questionario
standardizzato.

Intervistare è qualcosa di naturale che avviene anche nella quotidianità perché è una modalità di
interrogare le persone. Il focus dell’attenzione si concentra sull’intervistato, su ciò che egli pensa, sulla sua
capacità di linguaggio, sull’interazione che instaura con l’intervistatore. L’obiettivo dell’intervista
qualitatva è quello di comprendere il punto di vista dell’intervistato, quali sono le sue categorie di
pensiero e le modalità con cui ordina e interpreta la realtà.

L’interrogazione è uno degli strumenti più utilizzati per raccogliere dati nelle scienze sociali. L’intervista
qualitativa (o in profondità) è una variante che viene spesso utilizzata e che ha caratteristiche differenti
rispetto all’intervista strutturata e standardizzata. La differenza tra l’intervista qualitativa e l’intervista
standardizzata sta proprio nell’attenzione posta nel cercare di far emergere l’individualità della persona che
si sta intervistando. Nell’intervista quantitativa, infatti, l’individuo rappresenta soltanto un caso da cui
rilevare le informazioni necessarie. Al contrario, nell’intervista qualitatva si è interessat all’individualità e
si cerca di accedere alla prospettiva della persona studiata: ogni soggetto può dire qualcosa di diverso.
Utilizzando questo strumento, dunque, non si impedisce al soggetto intervistato di esprimere la sua
visione e non si utlizzano domande che hanno un set prestabilito di risposte: l’intervistato può illustrare il
suo punto di vista attraverso una forma di conversazione che avviene tra una persona che ha un interesse
accademico e una persona disponibile ad esprimere il suo punto di vista anche su argomenti sensibili e
delicati.

L’intervista qualitatva può essere definita come una “conversazione provocata dall’intervistatore e rivolta
a soggetti scelti sulla base di un piano di rilevazione, in numero consistente, con una finalità di tipo
conoscitivo guidata dall’intervistatore sulla base di uno schema flessibile e non standardizzato di
interrogazione”.

Differenze tra intervista quanttatva e intervista qualitatva

La creatvità dell’intervistatore è un punto particolarmente rilevante perché non è semplice insegnare o


imparare come si conduce un’intervista qualitatva, è qualcosa che si impara con l’esperienza perché ogni
situazione è unica e difficilmente riducibile ad uno schema predefinito. Nell’intervista qualitativa, dunque,

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c’è un elemento di creatività molto maggiore rispetto a quello che si trova nell’intervista quantitativa, dove
l’intervistatore deve seguire dei precisi codici di comportamento.

Assenza di standardizzazione

Nell’intervista qualitatva non si utlizza nessun questonario. Il questionario ha il problema di chiudere


l’orizzonte teorico. Il questonario standardizzato, infatti, impedisce di andare oltre le domande incluse nel
questonario stesso. Se si ha un interesse che emerge durante la conversazione non si possono introdurre
delle nuove domande e non si può nemmeno cambiare la struttura delle domande o le modalità di risposta.
L’assenza di standardizzazione, che è una caratteristica dell’intervista qualitativa, permette di usare
domande aperte che non hanno risposte predeterminate e, quindi, consente all’intervistato di esprimersi
come meglio crede.

La possibilità di porre domande aperte permette di cogliere le categorie di pensiero degli individui
intervistati.

L’intervista qualitatva viene più spesso utilizzata nel contesto della scoperta. Si tratta, dunque, di uno
strumento esploratvo il cui scopo è quello di far parlare l’individuo senza un obiettivo predefinito. Si
utilizza, cioè, questo genere di conversazione per scoprire il punto di vista dell’intervistato. Per farlo, però, è
necessario avere a disposizione uno strumento flessibile che si adatti a soggetti diversi e che permetta di
comprendere l’intervistato “mettendosi al suo posto”.

Utilizzare l’intervista qualitativa come uno strumento di scoperta non porta alla quantificazione. Le risposte
che vengono fornite dagli intervistati, infatti, non vengono né quantficate, né poste su scale di
misurazione. Non viene utilizzata una procedura per rendere le risposte misurabili. Le risposte sono
soltanto strument per capire il punto di vista dell’intervistato.

Distnzione tra intensione ed estensione: l’intervista quanttatva tende all’estensione perché l’obiettivo è
quello di intervistare un numero il più ampio possibile di individui per generalizzare i risultat derivat ,
l’intervista qualitatva, invece, punta alla profondità e, quindi, all’intensione poiché preferisce intervistare
meno soggetti e raccogliere informazioni più approfondite.

Campionamento

Un altro aspetto molto rilevante è quello del campionamento. L’intervista qualitatva non viene condotta
su un campione rappresentativo, e cioè i soggetti non vengono estratti in maniera casuale. Gli intervistat, al
contrario, sono selezionat specificatamente perché devono coprire una varietà di situazioni sociali.
Piuttosto che utilizzare un tipo di campionamento probabilistico si utilizza un tpo di campionamento
basato su delle quote: incrociando le variabili si derivano delle celle (o categorie). Queste celle, però, non
sempre riproducono in maniera proporzionale le caratteristche della popolazione (rappresentatvità
sostantva).

Spesso, nelle interviste qualitative accade che venga prima identificato il tema oggetto della ricerca e, poi,
durante la ricerca stessa venga costruito il campione. Si tratta di una procedura è tpica del
campionamento a valanga o campionamento di convenienza. Il primo è un campionamento che avviene
attraverso i soggetti stessi. Si chiede, cioè, alle persone intervistate di indicare una o più persone di sua
conoscenza disposte a farsi intervistare sugli stessi temi. In questo modo, dunque, si crea un campione
sempre più numeroso man mano che si procede con le interviste. Il campionamento di convenienza,
invece, è un campionamento non rappresentativo con il quale si intervistano delle persone che sono più
facilmente disponibili ad essere intervistate.

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Il campione, in sostanza, non è qualcosa che viene strutturato o trovato attraverso modalità statistiche ma è
un qualcosa concepito in progress, in contnua evoluzione. Si evolve con la ricerca stessa e cambia in base a
ciò che viene scoperto durante le interviste.

L’approccio dell’intervista qualitativa è centrato sul soggetto, sugli individui e non sulle variabili. L’ obiettivo
dell’intervista quanttatva è quello di misurare delle proprietà e degli attribut, mentre nell’intervista
qualitatva gli intervistat non sono visti come variabili e, quindi, come individui che indicano la loro
posizione su un determinato attributo, ma come individui che esprimono il loro punto di vista attraverso
categorie proprie. L’approfondimento sull’individuo permette di ricostruire le loro categorie di pensiero e
dei modelli analitici che consentono di capire come una determinata categoria sociale vede il mondo.
L’obiettivo dell’intervista qualitativa è quello di interpretare l’esperienza, e cioè mettersi al posto
dell’intervistato per comprendere il suo punto di vista.
Quando si utilizza lo strumento dell’intervista qualitativa si è interessati a vedere il mondo con gli occhi del
soggetto intervistato. L’obiettivo, infatti, dovrebbe essere quello di assumere la sua prospettiva. L’obiettivo
dell’intervista qualitativa è quello di comprendere i fenomeni sociali nel contesto in cui avvengono e
sottolineare l’importanza dei contest sociali, delle sequenze temporali e dei processi che i soggetti hanno
percorso durante la loro esperienza di vita.

Quando si utilizza lo strumento dell’intervista qualitatva il disegno della ricerca è relativamente aperto e
non strutturato. Esso, infatti, non si preclude la possibilità di affrontare temi non previst e, soprattutto, non
prevede alcun interesse per il test delle ipotesi che, invece, è molto importante nell’intervista quantitativa.

Tipi di intervista qualitatva

Si possono distinguere diversi tpi di intervista qualitatva. Questa distinzione avviene attraverso il grado di
standardizzazione che si può applicare alle interviste: interviste strutturate, semi-strutturate e non
strutturate. Quando si è nel campo delle interviste semi-strutturate e non strutturate si può parlare di
interviste discorsive perché l’aspetto che assumono questi tipi di interviste è quello di una conversazione.

Intervista strutturata

L’intervista strutturata può essere anche qualitativa. In un’intervista qualitativa strutturata si pongono le
domande con la stessa formulazione e la stessa sequenza a tutti, in modo simile al questonario. La
differenza, però, è che in questo caso c’è libertà nella risposta. In sostanza, l’intervistato viene intervistato
attraverso un questionario a domande aperte.
Per sua natura, ovviamente, il questonario è rigido perché le domande sono formulate nello stesso modo,
sono poste nella stessa sequenza. L’intervista strutturata, quindi, mantiene degli elementi di rigidità che
pongono dei limiti alla flessibilità.
Questo genere di intervista viene fatto quando vi è l’obiettivo di codificare le risposte, quando vi è una
sorta di procedura, fatta a seguito dell’intervista, che permette, attraverso l’utilizzo di uno schema, di
misurare e rendere comparabili le risposte.
Questo strumento ha l’aspetto di uno strumento ibrido che non è propriamente qualitatvo ma nemmeno
quanttatvo. Si tratta di uno strumento che si adatta poco o male all’individualità delle situazioni, che non
sempre è in grado di consentire all’intervistatore di gestire la complessità delle situazioni che si vogliono

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studiare e che non consente di accedere alla cultura dell’intervistato, al suo linguaggio, alle sue categorie
di pensiero perché le domande sono poste allo stesso modo e con la stessa sequenza per tutti.

Esempio

Interviste semi-strutturate (o guidate)

Nelle interviste semi-strutturate e non strutturate, invece, vi è un maggiore grado di flessibilità.

Nell’intervista semi-strutturata si utilizza una traccia, e cioè uno schema che permette all’intervistatore di
passare attraverso una serie di temi. La traccia, però, non contene le domande: contene soltanto una
serie di temi che devono essere affrontat ma non indica nemmeno l’ordine con cui questo deve essere
fatto. La traccia, in altre parole, è una guida che permette all’intervistatore di passare attraverso i temi di
interesse per la ricerca.
L’intervista semi-strutturata assume una forma più vicina alla conversazione, una conversazione che viene
guidata dall’intervistatore e che cerca di rilevare delle informazioni riguardo i temi di interesse
dall’intervistato.

La traccia può avere più livelli di dettaglio e accuratezza: può essere molto specifica o essere piuttosto
vaga. La traccia, dunque, può essere vista come una sorta di perimetro entro il quale mantenere l’intervista.

Esempio

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Interviste non strutturate (o libere)

Si tratta di un tipo di intervista in cui non si stabilisce il contenuto dall’inizio, si stabiliscono soltanto dei
temi generali che si vogliono affrontare ma non si preclude la possibilità che si possano affrontare anche
altri temi. La conversazione che si cerca di instaurare in un’intervista non strutturata è quella più simile a
una sorta di flusso che si sviluppa e che permette all’intervistatore di far emergere i temi oggetto della
ricerca. Il ruolo che assume l’intervistatore in questo tipo di intervista è quello di incoraggiare l’intervistato
piuttosto che quello di porre domande vere e proprie. L’intervistatore deve avere la capacità di far
emergere temi e sotto-temi e di guidare l’intervistato per farlo parlare di punti interessanti. Le interviste di
questo tipo durano anche per tempi piuttosto lunghi che, però, non possono essere stabiliti a priori.

I tipi di intervista devono essere scelti anche in base al tipo di soggetto che si vuole intervistare.

Come scegliere tra i tre tipi di intervista a disposizione? La scelta dipende dagli obiettivi, dalle caratteristche
del fenomeno, dai soggetti che si vogliono intervistare, dall’interesse nel mettere o meno in relazione le
variabili, dal numero di interviste e dal ruolo di intervistatori.

Come si progetta una ricerca con intervista qualitativa?

Innanzitutto, si deve partire da una domanda di ricerca, e cioè da una domanda che pone un interrogativo
su un fenomeno sociale o politico rilevante a cui si intende rispondere relativamente a una popolazione che
possiede alcuni requisiti di interesse. La domanda di ricerca permette di identficare la popolazione, e cioè
i soggetti da intervistare. Una volta affrontato il tema della domanda di ricerca si devono identficare e
reclutare gli intervistat. Si deve, cioè, capire quali soggetti sono più appropriati per affrontare i temi della
ricerca e pensare all’aspetto più pratico, quello del reclutamento (Dove si trovano questi soggetti? Come si
contattano?). Una volta superato questo step si deve affrontare la questone del tpo di intervista. In base al
tipo di intervista scelto, infatti, si svolgerà un tipo di analisi diverso: l’intervista strutturata farà in modo di
procedere in un’analisi più standardizzata e vicina alla quantficazione mentre le interviste discorsive

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consentiranno di compiere un’analisi basata sul contenuto testuale della conservazione. È importante,
inoltre, sottolineare il ruolo dell’intervistatore, un soggetto estraneo che deve entrare in una sorta di
confidenza con l’intervistato. Per affrontare i temi in maniera approfondita, infatti, l’intervistato deve
sentirsi a suo agio con l’intervistatore e deve percepirlo come una persona di cui fidarsi (ruolo attivo
dell’intervistatore).

Condurre un’intervista qualitativa è difficile perché ci sono molte variabili che entrano in gioco e non si
segue uno schema obbligato. Si deve condurre questo tipo di intervista perseguendo l’obiettivo della
sincerità. Si deve, cioè, cercare di far parlare il soggetto in maniera da ottenere informazioni il più veritiere
possibili.

Esempio

Il modo in cui si pongono le domande è particolarmente importante per ricevere delle risposte affidabili:
bisogna utilizzare domande con una struttura sintattica semplice, domande parsimoniose, senza utilizzare
subordinate e bisogna riferirsi soltanto ad un oggetto. L’obiettivo, infatti, è quello di far comprendere le
domande per poter ottenere delle risposte sincere e affidabili.

Spiegazioni preliminari

L’intervista qualitativa segue comunque uno schema: anche l’intervista meno standardizzata inizia con un
antefatto, e cioè il momento dell’intervista in cui si forniscono all’intervistato delle spiegazioni
preliminari. Si fornisce, in altre parole, un contesto all’intervista al fine di alleggerire la tensione e costruire
un rapporto con l’intervistato. In questa fase si spiega all’interlocutore cosa si vuole sapere da lui, perché è
stato selezionato, qual è lo scopo dell’intervista, rassicurandolo soprattutto riguardo il tema della privacy.

Presentazione

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Per iniziare l’intervista è necessario presentarsi, illustrare l’istituzione di appartenenza, gli enti sponsor
dell’indagine, lo scopo e la durata della ricerca, come sono stati selezionati gli intervistati, qual è il grado di
anonimità garantito e, in alcuni casi, anche l’eventuale ricompensa prevista per gli intervistati.

L’intervista può essere vista come suddivisa in due fasi: fase di ingresso e fase di approccio. La prima è una
fase in cui si utlizzano le informazioni già raccolte dai document o dagli informatori per “aprire” la
conversazione, la seconda fase è quella in cui si affrontano le questoni più rilevant.

Nella fase di preparazione dell’intervista è bene non rivelare troppo gli obiettivi che si vogliono raggiungere
in modo da non stimolare eccessivamente l’intervistato. Allo stesso modo, durante l’intervista non bisogna
spingere eccessivamente per ottenere le informazioni: se un intervistato è reticente e non vuole affrontare
determinati temi non bisogna insistere.

Domande

Che tipo di domande fare durante un’intervista qualitativa?

Si può distnguere tra domande primarie e domande secondarie. Le domande primarie sono domande che
introducono un nuovo tema. Esse possono essere strutturali, descrittive o di contrasto. Le domande
descrittive, come indica il nome, sono domande che chiedono di fornire una descrizione (“Mi può parlare
di come è entrato a far parte dell’associazione x ?”); le domande strutturali sottolineano una sorta di
tpizzazione e cercano di identficare una sorta di struttura (“Mi può dire che tipo di attività svolge
l’associazione?”); le domande di contrasto, invece, mettono in contrapposizione aspetti, chiedono
all’intervistato di sottolineare differenze e similarità riguardo determinati aspetti (“Che differenza c’è tra
l’attività svolta dalla sua associazione e l’associazione z ?”).

Le domande secondarie sono domande che a partre dalle domande primarie mirano all’approfondimento
e all’artcolazione di determinate questoni. Per andare più nel dettaglio si possono porre domande sonda,
e cioè delle strategie per scoprire o approfondire le posizioni dell’intervistato. Questo tipo di domande può
essere visto anche come uno stmolo: per ottenere una risposta non si deve necessariamente porre una
domanda, si può anche stmolare e incoraggiare l’intervistato ad andare avant e approfondire.

Come si può ottenere un’informazione senza porre una nuova domanda? Si può ripetere la domanda;
utilizzare la risposta dell’eco, e cioè ripetere parte della domanda affinché l’intervistato possa riprenderla;
fare una pausa per permettere all’intervistato di prendere tempo; incoraggiare l’interlocutore ad andare
avanti. In questo modo non si pongono delle nuove domande ma si cerca di far proseguire la conversazione
a partire da ciò che era stato detto in precedenza.

Quando si pongono le domande un aspetto fondamentale è quello del linguaggio. Nell’intervista qualitativa
il linguaggio può essere adattato in base all’intervistato che si ha di fronte. Il linguaggio, in particolare, deve
essere visto come uno strumento per stabilire un clima di empata. Solitamente intervistato e intervistatore
non parlano lo stesso linguaggio per cui l’intervistatore può decidere di mantenere la differenza di
linguaggio oppure approfondire la conoscenza del mondo in cui vive l’intervistato e utilizzare il suo gergo in
modo da farlo sentire più a suo agio.

A questo punto si deve pensare all’elaborazione di una traccia. Come si costruisce una traccia? Nel caso
dell’intervista semi-strutturata e in quello dell’intervista strutturata è necessaria una guida, e cioè una
sequenza o uno schema che consenta di condurre l’intervista stessa. Per elaborare la traccia si devono
identficare i temi rilevant che si vogliono affrontare, organizzarli in maniera gerarchica e cioè passare
all’identificazione di una sequenza logica e ordinata e, poi, trasformare i temi considerati in domande o
stimoli provvisori e flessibili.

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La difficoltà sta proprio nel porre le domande. La formulazione delle domande è centrale ma non c’è un
ricettario che aiuta a “mescolare gli ingredienti” per formulare le migliori domande possibili.

“Non esistono domande magiche. Ogni domanda è una buona domanda se indirizza chi risponde verso il
materiale necessario per la ricerca, in un modo che renda facile, a chi risponde, produrre questo materiale.
Alcune volte la domanda migliore è quella che, in poche parole, stimola chi risponde a dare maggiori
dettagli o a colmare un vuoto” (Weiss, 1994)

“Ogni domanda è particolare: ce ne sono di buone, di meno buone, e di cattive, di centrali e di periferiche
[…] [di] mal costruite, troppo banali, troppo pompose, […] che producono indifferenza, silenzio, disagio”
(Kaufmann, 2009)

“Se l’intervistato non vuole rispondere, egli non diventerà collaborativo grazie al modo in cui è formulata la
domanda” (Weiss, 1994)

Ordine delle domande

Quando si pongono alcune domande piuttosto che altre? All’inizio si pongono le domande semplici
cosicché da instaurare un certo livello di fiducia con l’intervistato. Le domande difficili si pongono in mezzo,
né all’inizio né alla fine. All’inizio si pongono le domande che permettono di rompere il ghiaccio e di
tranquillizzare l’intervistato, di metterlo a suo agio. Una volta instaurato un rapporto di fiducia e di
collaborazione si può passare alle domande più complesse che sono quelle che permettono di raccogliere le
informazioni sui temi della ricerca. Alla fine, invece, si pongono le domande che mirano a rilevare le
informazioni demografiche.
Esempio

Consigli:

 evitare di porre due domande allo stesso tempo perché una delle due potrebbe essere trascurata o
non essere approfondita;
 se vengono poste domande delicate, è importante avere alcune versioni diverse di tali domande già
preparate in modo da essere pronti a porle senza esitazione o imbarazzo;
 ogniqualvolta sia possibile, evitare di interrompere una risposta;
 non avere paura delle pause;
 fare attenzione alla coerenza delle risposte;
 terminare con un argomento rilassante.

10.05.2021 – 21 lezione

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Osservazione partecipante

L’osservazione partecipante è una tecnica molto particolare utilizzata spesso in sociologia ma che vede le
sue origini nell’antropologia.

Ci sono diversi modi per osservare la realtà sociale e politica. L’osservazione partecipante è tale perché,
come si evince dal nome stesso, prevede una partecipazione. Chi fa ricerca con l’osservazione partecipante
non rimane distaccato e neutrale rispetto all’oggetto osservato: c’è un grado di coinvolgimento che può
essere più o meno intenso. Il grado di coinvolgimento non riguarda soltanto il contatto con l’oggetto ma
anche la capacità del ricercatore nel comprendere l’oggetto (si analizzano documenti, si cerca di capire la
condizione culturale del gruppo che si studia).

L’osservazione diventa partecipante nel momento in cui si entra in contatto con l’oggetto della ricerca, si ha
un certo grado di coinvolgimento e, attraverso un’interazione, si cerca di comprendere e mettersi al posto
di chi si sta studiando per cercare di capire il suo punto di vista sul mondo , come si producono le
interazioni e come si producono i significati che si vogliono analizzare. Chi fa ricerca cerca di partecipare
alla vita di chi studia.

L’obiettivo di chi fa ricerca con l’osservazione partecipante è quello di mettersi al posto di chi si studia per
cercare di capire come i soggetti che fanno parte dell’oggetto di studio guardano e comprendono il
mondo.

L’osservazione partecipante è diversa dalle osservazioni che si utilizzano in laboratorio. In laboratorio,


attraverso gli esperimenti, si può soltanto porre ai soggetti che fanno parte dell’oggetto sperimentale uno
stimolo e osservare le loro reazioni. L’osservazione in laboratorio non è partecipante: chi conduce
l’esperimento osserva le reazioni allo stimolo attraverso, ad esempio, un questionario. La rilevazione del
dato avviene in maniera distaccata.

L’elemento di coinvolgimento e di contatto è fondamentale per poter parlare di osservazione


partecipante, altrimenti ci si fermerebbe alla mera osservazione.

Per fare osservazione partecipante si possono seguire dei principi:

1. La conoscenza si realizza solo attraverso la comprensione del punto di vista dei soggetti studiat. Si tratta
di un principio particolarmente vicino al mondo della ricerca qualitativa. L’accento sulla comprensione fa
capire come non sia importante generalizzare ma, piuttosto, mettersi al posto di chi sta studiando per
cercare di comprendere il suo punto di vista.

L’osservazione è uno strumento che si utilizza per guardare ma anche per ascoltare, e cioè chiedere al fine
di raccogliere informazioni che non si riuscirebbero ad avere con la semplice osservazione.

2. La comprensione può avvenire soltanto attraverso la partecipazione alla vita di comunità dei soggetti
studiat. Il ricercatore che fa ricerca non può soltanto osservare ma deve calarsi nella realtà sociale che è
oggetto di studio (comunità, azienda, associazione, gruppo politico) e deve vivere la realtà come un
membro di essa.

3. L’osservazione partecipante una modalità di raccolta delle informazioni che, però, non si limita allo
sguardo e all’ascolto (utilizzo di altri strumenti). Durante le fasi di osservazione bisogna tenere presente che
il ricercatore non utilizza in maniera esclusiva l’osservazione partecipante. Egli utilizza anche altri strument.

L’osservazione partecipante si differenzia dalle interviste perché non chiede ai soggetti di riferire, spiegare e
illustrare la loro realtà sociale ma prevede un coinvolgimento nella fase di osservazione. Essa si differenzia
anche dall’analisi dei document perché durante l’osservazione partecipant questi vengono utlizzat come

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uno strumento ancillare, e cioè servono a comprendere meglio ciò che si sta studiando (verbali delle
riunioni, regolamenti).

Un’altra caratteristica importante dell’osservazione partecipante è l’immersione nel contesto. Chi fa


osservazione partecipante vive nel contesto che studia, spesso per molto tempo (mesi o addirittura anni).
L’immersione nel contesto porta chi fa ricerca a vivere come le persone che fanno parte della comunità
oggetto di studio. Condividendo con queste persone la quotidianità si cerca di comprendere la loro realtà
sociale.

L’osservazione partecipante può essere definita come “una strategia di ricerca nella quale il ricercatore si
inserisce in modo diretto, per un periodo di tempo relativamente lungo, in un determinato gruppo sociale
che è studiato nel suo ambiente naturale e in cui si instaurano dei rapporti di interazione personale con i
suoi membri, allo scopo di descriverne le azioni e di comprenderne, mediante un processo di
immedesimazione, le motivazioni”.

Chi fa ricerca con l’osservazione partecipante lo fa in modo diretto, cioè non sono previsti degli intervistatori
come nell’inchiesta campionaria.

Questa interazione avviene anche attraverso un rapporto personale. Chi fa ricerca, infatti, viene coinvolto
nelle dinamiche della comunità oggetto d’analisi. Questa interazione è fondamentale per conoscere
dall’interno i rapporti, le interazioni e i comportamenti che devono essere descritti al fine di comprendere le
motivazioni delle azioni stesse.

Il coinvolgimento nella comunità che viene studiata è qualcosa che va cercato e non evitato. Mentre
nell’inchiesta campionaria il coinvolgimento intervistatore-intervistato è qualcosa da evitare,
nell’osservazione partecipante il coinvolgimento e l’immedesimazione sono caratteristiche che vanno
ricercate. L’oggettività e la distanza non sono più valori che vanno ricercati.
Dal punto di vista epistemologico ci si pone in una sfera in cui non c’è distanza tra oggetto studiato e
ricercatore ma, anzi, una vicinanza che, secondo questo approccio, rappresenta un vantaggio.

Nell’osservazione partecipante il problema è riuscire a trovare un equilibrio. Quando si parla di


coinvolgimento, infatti, da una parte si deve evitare di essere eccessivamente coinvolt e, quindi, di essere
troppo integrati al gruppo ( atteggiamento del convertto) mentre dall’altra, si deve evitare un
atteggiamento di eccessivo distacco e diffidenza (atteggiamento del marziano). Il problema
dell’osservazione partecipante, dunque, è cercare di trovare un punto di equilibrio tra coinvolgimento e
distacco.

L’osservazione partecipante nasce nell’Ottocento nell’ambito dell’antropologia culturale, disciplina per la


quale numerosi studiosi occidentali si recavano all’estero con l’obiettivo di studiare società lontane e
primitive. L’antropologia si distinse inizialmente per il suo approccio particolare secondo il quale le società
primitive che si andavano a studiare dovevano essere educate perché non avevano lo stesso livello di
sviluppo di quelle occidentali. La vera innovazione nell’antropologia culturale, però, si verificò con
Malinowski, un famoso autore che, con lo studio di una piccola comunità del Pacifico, cambiò la prospettiva
di studio di questa disciplina. Egli, infatti, cercò di inserirsi in questa comunità, non con l’idea che i soggetti
studiati fossero dei selvaggi da educare alla vita occidentale, ma con l’obiettivo di studiarli per far emergere
il loro punto di vista. In altre parole, egli cercò di comprendere senza giudizi come si produceva e si
manteneva quella società, quali erano i prodotti culturali e le caratteristiche alla base. Cercò, quindi, di
immergersi nella realtà da studiare per comprendere una visione del mondo esotica.

Con il passare del tempo e la minore frequenza con cui si incontravano società meno sviluppate,
l’antropologia cambiò aspetto. Essa, infatti, non studia più soltanto le società primitive ma anche le società
moderne. Il metodo dell’osservazione partecipante, infatti, è stato trasferito dallo studio delle società

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primitive allo studio delle società moderne. Questo passaggio si può identificare con la cosiddetta “scuola di
Chicago”, una scuola di pensiero la cui idea fondamentale è che il comportamento dipende da strutture
sociali e ambientali e non da genetca o predisposizioni. Si tratta di un filone di pensiero per il quale per
comprendere le dinamiche sociali è necessario studiare le comunità guardandole dall’interno.

L’osservazione partecipante non ha un ambito di applicazione specifico, si possono studiare, ad esempio,


organizzazioni politiche, aziende, gruppi sociali. L’approccio di fondo, però, rimane lo stesso in tutti i casi:
chi fa ricerca cerca di accedere a questi mondi e cerca di comprenderli dall’interno, con un certo grado di
coinvolgimento e di partecipazione.

Quando si fa osservazione partecipante non si può soltanto osservare, bisogna anche intervistare, studiare
i document, i manufatti o, più in generale, la produzione culturale. L’osservazione partecipante, infatti, non
deve essere qualcosa che si intende esclusivamente come legato all’osservazione delle dinamiche
interpersonali, bisogna osservare anche altri tipi di oggetti che fanno parte del mondo che si sta studiando.

L’osservazione partecipante è un “flusso irregolare di decisioni, sollecitate dalla mutevole configurazione


degli eventi che si succedono sul campo” (Cardano, 1997)

Uno dei problemi dell’osservazione partecipante è che è una tecnica di ricerca non lineare, il che significa
che non procede a passi predeterminat. Difficilmente questo tipo di osservazione viene condotto per
testare delle ipotesi formalizzate, spesso, infatti, inizia da un interrogatvo vago o semplicemente perché
c’è interesse per quel determinato oggetto di studio. Spesso la domanda di ricerca nasce durante la ricerca
stessa.

La non linearità della ricerca condotta con l’osservazione partecipante fa sì che non sia facile insegnare
come svolgere questo tpo di ricerca. Si tratta, infatti, più di un’esperienza che di un insieme di procedure
coordinate.

Il modo in cui si fa ricerca è sì determinato dall’oggetto di studio ma dipende anche da ciò che accade
durante la ricerca stessa perché gli eventi che possono verificarsi sul campo sono di vario genere e possono
determinare l’esito della ricerca stessa. Fare ricerca attraverso l’osservazione partecipante, dunque, significa
tenere in considerazione il fatto che non esiste una serie di procedure che devono possono seguire per
arrivare alla definizione del punto di vista della comunità studiata ma l’esito dell’osservazione dipende dalla
capacità del ricercatore di interagire con i membri della comunità che si sta studiando e da come si evolve
il rapporto ricercatore-membri della società.

A cosa si può applicare l’osservazione partecipante?

L’osservazione partecipante può essere applicata a tutte le attività umane, non c’è un ambito privilegiato. Si
applica, in particolare, quando si vuole studiare una realtà sociale dal suo interno. Andando ad osservare la
letteratura che ha utilizzato questo tipo di osservazione emerge che esistono alcuni campi di applicazione
che non sono relativi ad aspetti o campi specifici. Quello che si può osservare è che l’ osservazione
partecipante è stata utilizzata quando si volevano studiare gruppi di cui si sapeva poco, quando il
fenomeno da studiare prendeva vita al riparo da sguardi estranei, e cioè qualcosa che avviene in maniera
coperta, quando esistevano delle fort differenze fra il punto di vista dall’interno e quello dall’esterno o
quando il fenomeno era deliberatamente occultato agli sguardi degli estranei. Il comune denominatore, in
ogni caso, è l’interesse per l’interazione sociale. L’osservazione partecipante, infatti, si presta
particolarmente bene a studiare le dinamiche tra gli individui e a capire come queste siano influenzate dal
contesto sociale e dalle isttuzioni.

L’obiettivo dell’osservazione partecipante è, ovviamente, comprendere le comunità oggetto d’interesse


dall’interno ma anche ricostruire dall’interno il profilo culturale della società, e cioè studiare come queste
società si riproducono, come producono significato e come i membri costruiscono i significati che vengono

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condivisi dai soggetti parti della comunità ( Perché i membri di una comunità hanno determinati valori?). Si
tratta, dunque, di un strumento utilizzato per far emergere una conoscenza tacita nel gruppo rendendola
esplicita.

L’osservazione partecipante ha due grandi famiglie di oggetti di studio : studi di comunità e studi di
subculture.

Gli studi di comunità sono studi basati sull’osservazione partecipante in cui si vanno a studiare delle piccole
comunità sociali (comuni, isolati, comunità politiche localizzate). Questi studi, di solito, durano per molto
tempo perché il ricercatore va a vivere nella comunità oggetto di ricerca e diventa un membro di essa.
Uno studio classico di studio di comunità è quello di Banfield (1958), uno studioso statunitense che negli
anni ‘50 andò a vivere con la famiglia in un paesino della Basilicata per cercare di capire come una piccola
comunità assumesse le proprie caratteristiche politiche. Lo studioso a partire da questo studio coniò il
termine “familismo amorale”. Banfield delineò la cultura politica di questo paesino come familistica perché
non vi era alcun interesse da parte dei membri di questa comunità per il coinvolgimento nella comunità
stessa. Banfield attribuì lo scarso sviluppo di questa comunità al fatto che gli individui avessero un enorme
individualismo incentrato sulla famiglia tale per cui il loro obiettivo non era il bene comune ma il bene della
famiglia. Questo si traduceva in uno scarsissimo coinvolgimento nella comunità. Per avere sviluppo, però, si
sa che è necessario creare cooperazione. Il risultato di una quasi nulla cooperazione tra i membri di questa
comunità, dunque, fu il fattore individuato da Banfield come la causa dello scarso sviluppo sociale.

Un’altra famiglia di studi basati sull’osservazione partecipante è quella degli studi delle subculture, e cioè di
culture che fanno parte della cultura più generale ma che si delineano per delle loro caratteristche
partcolari. Da una parte si hanno gli studi sui “diversi”, e cioè sui deviant, sulle comunità criminali (Whyte
– Street Corner Society) e dall’altra gli studi sulla “normalità sociale”, e cioè sulle comunità normali come i
lavoratori o le organizzazioni (Roy – Quota restriction).

Un altro tipo di studi sono gli studi organizzatvi che studiano le organizzazioni in generale come istituzioni
sanitarie, istituzioni politiche, comunità di recupero o istituzioni che riguardano i bambini o, più in generale,
l’infanzia.

Argomento della ricerca

Come si fa un’osservazione partecipante? Come in tutte le ricerche si parte da interessi teorici e sostantvi,
e cioè si parte da una domanda di ricerca. Spesso, però, l’argomento non è ben definito per cui si parte da
un tema generale che si delinea, poi, nel corso della ricerca. In altre parole, studiando e accedendo al
campo si restringe il focus e si fanno emergere aspetti che non erano stati considerati precedentemente.
Ovviamente, in ballo c’è anche una questone di risorse perché il tempo che si utilizza nell’osservazione non
può essere infinito. Per questo motivo bisogna stare attenti ed evitare progetti troppo ambizioni o vast.

“La preoccupazione di ottenere, con una sola ricerca, il quadro completo di un fenomeno è la miglior ricetta
per far naufragare l’indagine” (Gobo, 2001)

Il disegno della ricerca in uno studio condotto con osservazione partecipante è cognitvamente aperto,
prevede, cioè, delle fasi prestabilite che bisogna attraversare ma concede anche la possibilità di esplorare
nuovi aspetti, pur tenendo sempre in considerazione il fatto che questi non devono condurre il ricercatore
verso ambiti troppo vasti da gestire.

Oggetto della ricerca

Gli studi condotti con osservazione partecipante iniziano solitamente con l’identficazione del campo, e cioè
con l’identficazione dell’oggetto di studio (Cosa di vuole studiare?). Questa identificazione può avvenire
attraverso due strategie: (1) partendo da una domanda di ricerca (o domanda cognitiva) per giungere

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all’oggetto o (2) partendo dall’oggetto per sviluppare una domanda che permetta di spiegare il fenomeno
stesso.

L’unico vincolo che si pone a chi fa ricerca è quello di avere un quadro teorico: o ci si muove all’interno di un
quadro teorico basato sulla letteratura precedente oppure si accede al campo senza questo vincolo,
cercando di costruire una nuova teoria durante l’osservazione stessa.

La scelta dell’oggetto di studio avviene secondo due criteri: 1. criterio di sostenibilità emotva, quando si è
in grado di sostenere emotivamente lo studio che si vuole fare, e cioè se si è disposti trasferirsi per un
determinato periodo di tempo, e 2. criterio di generabilità dei risultat.

Ruolo delle ipotesi

Le ipotesi nell’osservazione partecipante non sono spesso formulate precedentemente, non ci sono
posizioni precostituite per cui non ci sono aspettative o affermazioni che devono essere confermate.
Semplicemente, si osserva per comprendere la realtà che si studia. Per questo motivo più che di ipotesi si
parla di forme di ragionamento. Le ipotesi possono nascere durante l’osservazione stessa. In particolare, si
parla di ipotesi di lavoro e ipotesi guida. Le prime sono ipotesi più generiche che, generalmente, vengono
delineate all’inizio dell’osservazione, mentre le seconde sono caratterizzate da una maggiore precisione e
vengono generate in un secondo momento a partre da ipotesi precedent.

L’unità di analisi è l’insieme di element su cui viene fatta un’osservazione.


Cosa si vuole osservare? Quali sono gli oggetti di studio? Di cosa fanno parte? L’unità di analisi privilegiata
dell’osservazione partecipante è l’individuo e i prodotti dell’individuo come credenze, emozioni, opinioni,
comportamento, incontri, interazioni, cerimonie, prodotti culturali, regole, documenti, eventi.

Processo di indagine

Forme di osservazione

In base al grado di coinvolgimento si possono identificare diverse forme di partecipazione osservante

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Questo continuum permette di identificare il grado di copertura dell’osservatore. Si può essere, infatti,
osservatori copert, scopert o semi-scopert.

Osservazione coperta

Durante uno studio condotto con osservazione coperta gli attori sono all’oscuro di essere osservat. Il
ricercatore agisce in incognito, senza dichiararsi.

Questo tipo di osservazione ha alcuni vantaggi: si annulla la possibilità che i soggetti studiat reagiscono e
modifichino notevolmente il loro comportamento, si evita la negoziazione dell’accesso al campo di
osservazione. Ovviamente, però, c’è un’enorme varietà di svantaggi: si accede al campo con l’inganno, il
ruolo non sarà molto naturale, rischio di essere scopert, alcune dinamiche sono di difficile accesso, vi è un
ostacolo alla comprensione, spesso i soggetti non sono dispost a esplicitare un punto di vista senza
motvo, vi è il problema della pubblicazione momento in cui la comunità scoprirà di essere stata studiata.

Osservazione scoperta

Si tratta di un tipo di osservazione in cui il ricercatore dichiara la sua identtà e gli scopi della sua ricerca ai
membri della comunità studiata. In questo tipo di osservazione il rischio di reattività è presente ma, con
molta probabilità, con il passare del tempo il comportamento degli osservati tornerà normale (contro-
argomento). Una situazione tra osservazione scoperta e osservazione coperta è quella in cui si omette, e
cioè non si nasconde ma non si dichiara l’identità e ciò che si sta facendo.

Ovviamente, dichiarare la propria identità e i propri obiettivi ha lo svantaggio di dover negoziare con i
guardiani d’accesso al campo e quello per cui, conoscendo l’identtà di chi fa ricerca, si cerchi di
manipolarlo. I vantaggi, invece, riguardano la flessibilità e la facilità del distacco tra osservatore e
osservat.

Osservazione semi-coperta

L’osservazione semi-coperta è una sorta di via di mezzo perché rende esplicita l’identtà del ricercatore ad
alcuni membri (non a tutti).

Accesso fisico al campo

Il problema del grado di copertura porta a dover considerare il problema dell’accessibilità al campo. Per
entrare in una comunità ben definita si deve negoziare l’accesso, si devono dare delle garanzie ai membri
spiegando gli obiettivi e cosa si intende fare con i risultati. L’accesso al campo, spesso, avviene attraverso il
contatto con un mediatore o un intermediario, ovvero una persona che ha contatto sia con chi conduce la
ricerca che con i membri della comunità stessa. Questa persona fa da garante perché porta chi fa ricerca
all’interno della comunità e spiega ai membri della stessa gli obiettivi cercando di rendere affidabile il
ricercatore agli occhi della comunità. Il problema dell’accesso è particolarmente rilevante quando si
studiano le istituzioni perché alcune di queste non permettono l’accesso se non ai membri (problemi formali
di accesso). In ogni caso, i problemi di accessibilità dipendono dal grado di istituzionalizzazione della
comunità oggetto d’analisi.

Accesso sociale al campo

Una volta che si è riusciti ad accedere al campo si deve costruire la fiducia con le persone che si vogliono
studiare. Questa si costruisce, solitamente, utilizzando dei testmoni o degli interlocutori privilegiat, cioè
dei soggetti che hanno un punto di vista più approfondito sulla comunità studiata e che possono essere
soggetti in vista che ricoprono una posizione di rilievo all’interno della comunità che si sta studiando. Questi
informatori, in particolare, possono essere istituzionali o non istituzionali.

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Non necessariamente, però, le persone più collaborative sono anche le più informate per cui non è detto
che siano le più adatte a ricoprire il ruolo di informatore.

Fasi dell’osservazione

Si fa osservazione partecipante, non attraverso un percorso lineare, ma un percorso ciclico composto di


fasi che spesso si sovrappongono.

11.05.2021 – lezione 22

Sacro e secolare
Teorie e disegno della ricerca

Il testo “Sacro e secolare” è un buon esempio di come si fa ricerca su larga scala, di come si fa ricerca con
dat secondari e di come si fa ricerca quanttatva. Esso si applica a un problema molto interessante che
riguarda il perché del cambiamento dell’importanza della religione sia nel tempo che nello spazio.

Perché secondo gli autori di questo libro è rilevante studiare la religione? La religione è rilevante perché è
un fenomeno pervasivo a cui moltissimi studiosi hanno dedicato il loro interesse. In passato, oltre ad
identificare importanti rivoluzioni (burocratizzazione, razionalizzazione, urbanizzazione), si è pensato anche
alla secolarizzazione come un’importante rivoluzione. Si pensava, infatti, che con il tempo le società
sarebbero diventate sempre più urbanizzate a causa del passaggio dalla società pre-moderna, in cui la
religione era molto pervasiva nella vita delle persone, alla società moderna in cui, invece, la religione viene
via via ad indebolirsi.

La domanda di fondo che questo libro cerca di affrontare è “La religione è ancora importante nel mondo
contemporaneo?”. È importante, però, considerare che il fatto che il risultato non sarà uguale in tutti i
Paesi. Ci sono, infatti, Paesi in cui la religione è molto importante e sembra avere un ruolo sempre più
importante e Paesi in cui, invece, essa è fortemente indebolita.

L’argomento della secolarizzazione, che in passato sembrava essere dominante dal punto di vista teorico,
sembra non essere così solido perché il ruolo della religione sembra essere ancora presente e forte anche
in molte società contemporanee.

Quando si vuole sostenere una tesi, però, si devono utilizzare dei dat empirici perché altrimenti non ci
sarebbe evidenza dell’argomento portato avanti.

L’evidenza considerata in questo testo parte da casi che non sono esclusivamente gli Stat Unit o l’Europa
anche se, molto spesso, gli studiosi che si sono occupati di religione e secolarizzazione hanno considerato
soltanto i casi specifici degli Usa e dell’Europa. Nello specifico, se si guarda al caso degli Usa si vedrà che lì la
religione non è un fenomeno marginale e non ci sono fenomeni particolarmente marcati di

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secolarizzazione, mentre se si guarda all’Europa si avrà uno scenario più variegato e tendente la
secolarizzazione.
In ogni caso, quello che sostengono Norris e Inglehart è che sia necessario guardare oltre i Paesi
occidentali e considerare anche i Paesi meno sviluppat. Il loro argomento, infatti, si basa sulla
considerazione del livello di sviluppo. In altre parole, mettono in relazione il livello di sviluppo e la pratca e
l’importanza religiosa.

Il loro argomento si può riassumere così: “laddove ci sono condizioni di vulnerabilità, e cioè di scarso
sviluppo e di rischio, la religione continua ad essere importante e questo è ancor più vero se si vanno a
considerare i Paesi più poveri”.

L’argomento generale di questo testo è che la secolarizzazione avviene laddove c’è prosperità. Laddove non
c’è prosperità, invece, non ci sarà secolarizzazione. Norris e Inglehart sostengono che si tratti di un
problema di rischio: chi è soggetto a rischi egotropici (che minacciano l’individuo) e sociotropici (che
minacciano la comunità) è, probabilmente, più religioso di chi non è soggetto a quest rischi . In altre
parole, la religione è uno strumento per sostenere il rischio a cui si è potenzialmente soggetti in alcuni
contesti piuttosto che in altri.

Come si può testare un argomento del genere? Attraverso l’osservazione, non un’osservazione partecipante
ma un’osservazione basata sull’indagine campionaria. Si possono osservare i comportamenti e le opinioni
attraverso indagini campionarie internazionali. Esistono, infatti, delle indagini campionarie molto estese
che raccolgono dat su tant Paesi e che rilevano informazioni sui comportament religiosi e
sull’importanza della religione per gli individui. L’utilizzo di questi dati permette di comparare sia gli
individui che i Paesi e capire se l’argomento portato avanti da Norris e Inglehart sia valido o meno.

Utilizzando i dat di opinione pubblica si può capire se i cittadini dei Paesi nei quali viene condotta
l’indagine sono diventat più secolarizzat, considerando il fatto che nel tempo e nel mondo vivono sempre
più persone con valori tradizionali. La popolazione dei Paesi in cui la religione sembra essere più rilevante
cresce perché esiste un collegamento tra sviluppo, secolarizzazione e fertlità. Laddove la religione è più
importante si fanno più figli e questo fa in modo che le popolazioni in cui la religione è più rilevante
aumenti, viceversa le popolazioni più secolarizzate fanno meno figli e, quindi, sono meno numerose.

Per testare empiricamente l’argomento secondo cui esiste una relazione tra sviluppo e secolarizzazione,
Norris e Inglehart sono andati a vedere come studi precedenti hanno affrontato il tema della
secolarizzazione (procedura standard che permette di identificare la letteratura che riguarda studi
precedenti condotti su quel determinato tema).
Per quanto riguarda la rassegna della letteratura sul cambiamento dell’importanza della religione e sulla
secolarizzazione i due autori di riferimento hanno identificato due macro-teorie: teorie basate sulla
domanda (prospettiva bottom-up) e teorie basate sull’offerta (prospettiva top-down).

Teorie basate sulla domanda

Le teorie basate sulla domanda seguono una prospettiva bottom-up secondo la quale man mano che le
società diventano più industrializzate, indipendentemente da ciò che organizzazioni religiose e leader
tentano di fare, le abitudini religiose tendono a erodersi e l’opinione pubblica tende a essere indifferente
a richiami di tpo religioso.

Teorie basate sull’offerta

Le teorie basate sull’offerta seguono una prospettiva top-down secondo la quale la domanda per la
religione è costante. Secondo questa prospettiva la variazione cross-nazionale nella domanda dipende
dall’offerta delle organizzazioni religiose e dei leader all’interno dei mercat (religiosi). Queste teorie
sottolineano il ruolo fondamentale delle organizzazioni religiose e dei leader.

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Da un lato si assume che la domanda sia costante, dall’altro che la domanda vari a seconda del livello di
sviluppo.

Prospettiva bottom-up

Teoria della razionalità

Una prima teoria è quella della razionalità, una teoria di impostazione weberiana. Max Weber, infatti, si
occupò moltissimo di religione soprattutto nei volumi “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo” (1904)
e “Economia e società” (1933). Come indica il nome stesso, questa teoria spiega la secolarizzazione in
termini razionali sostenendo che la società industriale indebolisca i principi religiosi perché con
l’avanzamento della tecnica e del sapere scientfico ci si renderebbe conto del fatto che i fenomeni naturali
non possano essere spiegat se non in termini razionali . Un esempio di questo processo è quello che si
trova nella Teoria dell’evoluzione. Prima di Darwin, infatti, si credeva al fatto che il mondo fosse stato creato
dalle divinità, mentre il contributo di Darwin diede origine ad un pensiero, indipendente dalla divinità, che
spiega l’evoluzione in termini razionali, di selezione.

La prospettiva razionale viene favorita anche dall’espansione dell’istruzione. Le società industriali, infatti,
hanno sistemi educatvi migliori che formano più persone e spingono le persone a cercare delle
spiegazioni non più divine ma scientfiche-razionali. La conoscenza, dunque, passa dalle autorità religiose a
quelle scientifiche.

Teoria funzionalista

La teoria funzionalista, invece, prende avvio dagli studi di Durkheim. Questa teoria assume che, attraverso
la differenziazione delle società, il ruolo della religione viene assorbito da altre isttuzioni. Secondo questa
prospettiva la religione sarebbe un sistema di azioni che coinvolge rituali e cerimonie simboliche che
hanno un obiettivo e segnano il passaggio delle fasi di vita e delle stagioni. La religione, dunque, non
sarebbe un modo per fornire valori o modalità di azioni ma avrebbe uno scopo nella società, e cioè quello di
regolare i percorsi di vita e i passaggi important attraverso una serie di funzioni (funzione di coesione, di
solidarietà, di ordine, di stabilità).
Con il passaggio alla società industriale, però, queste funzioni verrebbero assorbite da nuove isttuzioni
come il Welfare State. Laddove tutti i compit di cura e assistenza sociale venivano assunti da associazioni
caritatevoli e dalla Chiesa, ora sarebbero stati, mano a mano, sostituiti con la creazione del Welfare State.
Con la creazione della società industriale e del Welfare State tutte queste funzioni in mano alle istituzioni
ecclesiastiche vengono meno e con loro anche il ruolo della religione stessa.

L’approccio funzionalista è criticato da molti perché si ritiene che la religione non debba essere vista
soltanto come una funzione ma anche per il ruolo spirituale che la contraddistingue. Non necessariamente,
infatti, la religione è scomparsa laddove sono nate istituzioni di Welfare State perché essa può essere una
guida, un conforto e questo riguarda non soltanto le religioni tradizionali ma anche i nuovi movimenti
spirituali.

Prospettiva top-down

Teoria dei mercat religiosi

La teoria dei mercat religiosi afferma che la domanda di religione è costante, e cioè che le persone hanno
un livello di religiosità costante, che non cambia. Ciò che cambia è l’offerta. Quando c’è maggiore offerta
allora gli individui saranno maggiormente attratti dalla religione . L’offerta è determinata dal grado di
libertà religiosa delle società e, quindi, da quanta competzione c’è tra organizzazioni religiose.
Se in passato il fatto che ci fosse troppa competizione tra organizzazioni religiose veniva visto come un
aspetto negativo, questa nuova prospettiva assume che la competzione tra organizzazioni religiose sia

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qualcosa di positvo e spinga le organizzazioni stesse a migliorarsi in una prospettiva di competizione di


mercato. Laddove ci sono più gruppi, organizzazioni e leader religiosi questi faranno in modo di attrarre il
più possibile gli individui perché la loro esistenza dipende dal numero di soggetti che riescono ad attrarre.
La vitalità della religione dipende dalla diversità della religione e, quindi, dalla concorrenza.

Un argomento portato a favore di questa tesi è che laddove esistono società in cui la competzione religiosa
è bassa e, quindi, vi è una sorta di monopolio religioso c’è poca innovazione all’interno della religione
stessa. Questa visione è fortemente criticata perché si ricorda che in società come la Spagna e l’Italia, di
religione monopolista, i livelli di religiosità sono molto più altri rispetto ad altri Paesi.

Teoria basata sulla sicurezza esistenziale

Quello che propongono Norris e Inglehart è una teoria basata sulla sicurezza esistenziale. Questa teoria
viene utilizzata per spiegare la variazione nel declino del ruolo della religione, cioè è una teoria che
permette di spiegare perché in alcuni Paesi la religione ha un’importanza sempre minore e in altri Paesi,
invece, questa variazione avviene in maniera più lenta. Ci sono, infatti, Paesi in cui il declino del ruolo della
religione accade in maniera più rapida e altri in cui la religione non ha perso importanza e, anzi, in alcuni
casi è aumentata. L’obiettivo di questa teoria è cercare di spiegare perché in alcuni Paesi la religione perde
importanza più rapidamente che in altri.

Norris e Inglehart fanno due premesse che sono due assiomi: assioma della sicurezza e assioma delle
tradizioni culturali.

 Assioma della sicurezza

L’assioma della sicurezza sostiene che esistano delle differenze tra i Paesi in termini di sviluppo. Lo
sviluppo determina la misura in cui i soggetti che vivono all’interno di questi Paesi sono espost a
condizioni di rischio: i Paesi con elevat livelli di sviluppo hanno migliori condizioni di vita e minori
esposizione al rischio, al contrario nei Paesi con bassi livelli di sviluppo i cittadini sono esposti condizioni di
vita peggiore e a rischi maggiori. Ciò che viene messo al centro di questa teoria, dunque, è il concetto di
sicurezza inteso come libertà da pericoli e rischi (militari, territoriali, ambientali, epidemiologici, sui diritti,
sulle crisi umanitarie, sulle povertà).

Nel momento in cui i Paesi diventano industrializzat e, quindi, aumentano il loro livello di sviluppo, i rischi
diminuiscono e le condizioni di vita migliorano. In particolare, esistono alcuni elementi come sanità,
istruzione, urbanizzazione, nutrizione, comunicazioni di massa, sviluppo della classe media che favoriscono
il livello di sviluppo stesso. In generale, si può affermare che nel momento in cui le società passano da un
livello pre-industriale a un livello industriale le condizioni di vita migliorano. Ciononostante è importante
sottolineare che questa non si tratta di una visione deterministica il che significa che quando si passa da
società pre-industriali a società industriali le condizioni di vita non necessariamente migliorano per tutti,
continuano ad esserci, infatti, enormi disuguaglianze. Lo sviluppo economico è un elemento necessario di
questa teoria ma non è sufficiente a spiegare la variazione dell’importanza della religione.

La visione che si propone in questa teoria è una visione di tipo probabilistco: “è più probabile che gli
individui in società più sviluppate siano meno religiosi ma non è detto che sia così”.

 Assioma delle tradizioni culturali

Norris e Inglehart sostengono che al di là dei rischi percepiti e, quindi, delle condizioni di vita a cui sono
soggetti gli individui siano important anche le traduzioni culturali, e cioè le visioni del mondo che
persistono nel tempo. Società che oggi sono secolarizzate, infatti, contnuano a trasmettere valori che
derivano dal passato tra cui l’importanza di alcuni aspetti che la religione aveva trasmesso attraverso la

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famiglia, la scuola, i media. In società secolarizzate anche negli individui che sono meno pratcant o
religiosi persiste l’importanza delle tradizioni culturali.

A partire dalla loro teoria, Norris e Inglehart sviluppano una serie di ipotesi

Ipotesi del valore della religione

1 ipotesi: L’esperienza di crescere in società poco sicure incrementa il valore della religione, l’esperienza di
condizioni più sicure fa diminuire il valore della religione.

La domanda di religiosità dipende dalle condizioni di vita legate all’esperienza di ognuno. Se, ad esempio,
si vive in condizioni rischiose la religione avrà un ruolo di rassicurazione. Le condizioni di vita, in ogni caso,
dipendono sia da un livello micro che da un livello macro, e cioè dipendono sia dalle caratteristche degli
individui che da quelle della società. Laddove i rischi sono inferiori, sia a livello individuale che collettivo, la
religione avrà un ruolo inferiore.

Ipotesi della cultura religiosa

2 ipotesi: Le tradizioni culturali religiose predominant hanno un effetto sulle credenze religiose e le
attitudini sociali e morali nelle società contemporanee.

Esiste una dipendenza nell’effetto delle tradizioni religiose sui comportamenti e sui valori che gli individui
assumono durante la loro esistenza.

Ipotesi della partecipazione religiosa

3 ipotesi: Il declino dell’importanza dei valori religiosi ha eroso la partecipazione alle funzioni religiose.

Ovviamente, società secolarizzate in cui i cittadini attribuiscono un’importanza minore alla religione hanno
tassi di partecipazione religiosa inferiore.

Un tempo, negli studi che Norris e Inglehart analizzarono emerse il problema di riuscire a trovare un
comune denominatore per tutte le forme di culto rintracciabili tra le varie religioni. Le indagini campionarie
che utilizzano questi due studiosi permisero di misurare la partecipazione trovando un comune
denominatore. Riuscirono, infatti, a misurare la partecipazione religiosa con uno strumento in grado di
adattarsi a religioni di tpo diverso, con funzioni religiose e di culto diverse.

Ipotesi della partecipazione civica

4 ipotesi: La partecipazione religiosa incoraggia la partecipazione sociale e politca e il supporto elettorale


per i partt confessionali.

Si tratta di un’ipotesi derivata dall’esperienza statunitense. Negli Stat Unit fu teorizzato, attraverso la
teoria del capitale sociale, che gli individui più religiosi che, quindi, partecipano maggiormente alla vita
religiosa della loro comunità sono più integrat nella comunità stessa e nella sua politca.
Questa teoria può essere esportata in Europa? In Europa la teoria che ha tentato di spiegare il
comportamento politco attraverso la religione è una teoria che ha a che fare più con le fratture (teoria dei
cleavages di Rokkan o teoria del de-alignment [disallineamento]), una teoria secondo la quale con
l’aumentare della secolarizzazione i cittadini votano di meno i partt confessionali.

Ipotesi demografica

5 ipotesi: Le società ricche diventano secolari e la loro popolazione diminuisce, mentre le società povere
rimangono religiose e le loro popolazioni aumentano.

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Gli autori identificano una relazione tra religione e famiglia che permette di identificare due strategie di
sopravvivenza: da una parte, le società ricche e secolari producono meno individui ma investono di più su
ogni individuo, dall’altra parte, le società povere producono più individui ma investono meno su ogni
individuo. Quale strategia è migliore?

Ipotesi dei mercat religiosi

6 ipotesi: Maggiore è il pluralismo religioso e la libertà religiosa e maggiore sarà la partecipazione


religiosa.

Si tratta di una visione secondo la quale più competzione c’è tra le organizzazioni religiose e più sarà la
partecipazione religiosa

Teoria

Come si può testare la teoria per la quale esiste una relazione tra sviluppo e religiosità e utilizza come
premesse sicurezza e cultura religiosa?

Si devono comparare Paesi, culture religiose, generazioni e strat sociali.

Cosa si compara? Con quali dati si compara? Si comparano informazioni che provengono da indagini
campionarie cross-nazionali, e cioè da indagini campionarie che rilevano informazioni su più Paesi. Questa
rilevazione avviene in poco tempo in modo da riuscire a rilevare informazioni comparabili tra loro. Queste
indagini, inoltre, hanno la caratteristica di essere ripetute nel tempo. Il fatto che siano ripetute, infatti,
consente di rilevare dei trend, e cioè dei cambiamenti che possono fornire delle informazioni empiriche sul
cambiamento stesso.

I dat che si utilizzano provengono da font diverse . Nello specifico, i dati provenienti da inchieste
campionarie sono dat individuali, raccolti attraverso interviste, che hanno una fonte precisa, e cioè WVS
(World Values Surveys) e EVS (European Values Surveys), due studi, parti di un progetto comune, che sono
nati per rilevare i valori nelle società europee e non europee. Queste due indagini hanno iniziato la
rilevazione dei dati all’inizio deli anni ‘80 e proseguono ancora oggi.

Paesi inclusi nello studio

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Come si misurano gli aspetti e i concetti rilevanti che vengono inclusi nello studio?

I concetti dominanti inclusi in questo studio sono il concetto di religiosità e quello di secolarizzazione. Si
tratta, però, di concetti particolarmente complessi che hanno costretto gli autori ad utilizzare indicatori di
religiosità già presenti nelle indagini campionarie precedenti.

Come viene misurata la religiosità? La religiosità viene misurata utilizzando tre dimensioni: (1) la
dimensione della partecipazione religiosa, (2) quella dei valori religiosi e (2) quella delle credenze
religiose. Ognuna di esse è rilevata empiricamente utilizzando degli indicatori.

Indicatori

Si tratta di indicatori imperfetti, che non rilevano perfettamente il concetto di religiosità, che, però, sono
quelli che si avvicinano il più possibile alla rilevazione di religiosità.

Gli indicatori rappresentano le variabili dipendent. L’obiettivo, infatti, è quello di spiegare la variazione
nella religiosità. Ovviamente bisogna identificare e misurare anche tutte le variabili indipendent e cioè le
culture religiose, lo sviluppo, le caratteristche degli Stat.

Per misurare le culture religiose Norris e Inglehart hanno tentato di identificare quali sono i gruppi religiosi
predominanti nelle varie società. Esiste una grande varietà di fonti che permette di rilevare questo genere di
informazione ma, ovviamente, ogni fonte ha dei difetti.

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Le società

Come viene misurato il livello di sviluppo? Il livello di sviluppo viene misurato in termini di
modernizzazione. L’indice che viene utlizzato è l’UNDP (Human Development Index), un indice che viene
prodotto dalle Nazioni Unite e che fornisce un’informazione sul livello di sviluppo e di modernizzazione di
un Paese considerando tre macro dimensioni: salute, conoscenza e condizioni di vita. Tre dimensioni che
vengono misurate con degli indicatori. Ogni dimensione produce un indice. Questi indici, relativi alle
dimensioni, vengono, poi, aggregat per produrre un indice globale, l’UNDP, che permette di misurare il
livello di modernizzazione dei diversi Paesi e, quindi, di distnguere tra società post-industriali, industriali e
agrarie.

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Ci sono società che hanno aumentato il loro


livello di sviluppo e altre in cui il livello di
sviluppo è rimasto basso o costante.

Un altro elemento che viene considerato sono le caratteristche degli Stat. Un aspetto rilevante per capire
quanta libertà religiosa c’è nei vari Stati, infatti, è andare ad osservare il livello di democrazia. I Paesi più
democratci consentono una libertà religiosa maggiore. Per misurare il livello di democrazia viene utilizzato
l’indice Freedom House Index che misura le libertà civili e politche all’interno dei Paesi utilizzando una
scala che va da 1 (bassa democrazia) a 7 (alta democrazia).

17.05.2021 – lezione 23

Risultat empirici

L’approccio di fondo della teoria di Norris e Inglehart sostiene che esiste una relazione tra modernizzazione,
che sostanzialmente rappresenta il livello di sviluppo dei Paesi, e valore della religione. Esiste, quindi,
secondo i due autori una relazione tra il declino del valore della religione e il livello di modernizzazione. In
particolare, i due ricercatori sostengono che il declino sia maggiore quando i Paesi entrano nel primo stadio
di modernizzazione, e cioè quando transitano da società agricole a società industriali.

Vi è poi l’assunto secondo il quale avendo, i Paesi con livelli di sviluppo e modernizzazione simili, traiettorie
simili ci si aspetta di osservare un declino simile dell’importanza che i cittadini danno alla religione.

Ovviamente si tratta di una concezione probabilistca del cambiamento, e non deterministica, perché non è
detto che laddove il livello di sviluppo sia alto la religione abbia, necessariamente, un basso valore per i
cittadini, e viceversa. È probabile che lo sia ma non è detto (approccio teorico probabilistico).

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Esistono anche altre condizioni che devono essere considerate come, ad esempio, il ruolo della cultura,
delle organizzazioni religiose e di fattori contingenti.

Ciò che è fondamentale portare avanti, in questo senso, è un disegno comparato. Se si vuole osservare la
relazione tra livello di sviluppo e il valore dato alla religione, infatti, si devono osservare società diverse
trovando differenze e similarità riguardo questi due aspetti (disegno di ricerca comparato).

Come si porta avanti questo genere di disegno di ricerca? Utilizzando dat “ufficiali” e survey, e cioè dati
provenienti da indagini campionarie. Lo schema di ricerca comparato mira alla comparazione non soltanto
tra Paesi ma anche alla comparazione nel tempo, per cui cercherà di studiare il cambiamento, e se questo
possa essere attribuito a differenze generazionali (comparazione tra generazioni).

La variabile dipendente di interesse in questo studio è la partecipazione religiosa: “Quanto spesso si reca a
funzioni religiose, a parte matrimonio, funerali e battesimi? (1 = mai; 7 = più di una volta alla settimana)”. È
questa, però, una domanda che ha prospettiva occidentale cristano centrica: non tutte le religioni
prevedono che i fedeli partecipino a delle funzioni religiose. Si tratta, quindi, di una domanda che si applica
male in alcune condizioni e bene in altre.

Gli autori di questo studio, rendendosi conto del problema, proposero anche un’altra variabile per cogliere
il valore della religione, e cioè l’importanza attribuita alla religione: “Quanto spesso si prega o si medita al
di fuori delle funzioni religiose?”. Si tratta, infatti, di una domanda che permette di cogliere quel significato
di religiosità che non verrebbe colto se fosse considerata soltanto la frequenza alle funzioni.

Ogni variabile permette di cogliere un aspetto differente. È necessario, inoltre, tenere a mente che le due
variabili sono fortemente collegate tra loro e colgono entrambe due sotto-concetti di un concetto generale:
sono indicatori del concetto di religiosità.

Avendo a disposizione le variabili, il primo passo dell’analisi è quello di comparare società di tpo diverso.
Se esiste una relazione tra livello di sviluppo e religiosità, ci si dovrà aspettare di trovare delle differenze
tra il livello di religiosità misurate e lo stato di sviluppo, e cioè il livello di modernizzazione.

Preghiera e partecipazione religiosa (grafico a dispersione)

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Ruolo della modernizzazione

Si tratta di una tabella che riporta i coefficienti di correlazione che riassumono qual è l’associazione tra una
serie di indicatori di sviluppo economico e i due indicatori di partecipazione religiosa e di frequenza con cui
si prega. Quando il coefficiente di correlazione è -1 la relazione tra le variabili sarà fortemente negatva,
quando è 1 l’associazione sarà completamente positva mentre quando è 0 non ci sarà associazione.

Si tratta di relazioni bivariate che utilizzano soltanto una variabile per spiegare la variabilità nella variabile
dipendente. Si analizza, cioè, l’associazione tra una variabile indipendente e una variabile dipendente.
Qual è il problema nello studio della relazione tra una variabile dipendente e indipendente? Ci possono
essere delle relazioni spurie per cui la variazione nella variabile dipendente potrebbe essere dovuta a
un’altra variabile che ha un effetto sia sulla variabile dipendente che in quella indipendente.
Sostanzialmente, dunque, questo tipo di analisi non tiene in considerazione fattori esplicativi alternativi.

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Un altro problema dell’analisi bivariata è che solitamente si tratta di un’analisi trasversale che non
permette di tenere sotto controllo la direzione della relazione causale. Potrebbe essere, infatti, che anche
il livello di religiosità ha un effetto sul livello di sviluppo. L’ipotesi che la religiosità possa causare il livello di
sviluppo non è stata portata avanti da Norris e Inglehart perché non ha una spiegazione valida, e cioè non
ha un meccanismo in grado di sostenere che il livello di religiosità a causare il livello di sviluppo.

Modelli di regressione lineare

I modelli di regressione lineare sono modelli che permettono di riassumere l’associazione tra variabili
dipendent contnue e un numero di variabili indipendent (continue o non continue). Attraverso questi
modelli si utlizzano più variabili individuali. Questo permette di tenere sotto controllo delle variabili
individuali di interesse potendo inserire nel modello spiegazioni alternatve. Se, quando si inseriscono
fattori alternativi che misurano spiegazioni alternative, l’effetto della variabile di interesse persiste allora va
controllato se il ruolo della variabile di interesse rimane significativo e rilevante.

L’analisi vista fino ad ora è un’analisi di tipo macro, e cioè un’analisi che ha come unità di analisi i Paesi, e
cioè unità di analisi ampie, territoriali, aggregate. Questa analisi può essere anche fatta a livello micro
tenendo in considerazione il livello individuale. Si può, cioè, andare ad osservare se esistono delle
differenze individuali in termini di religiosità. Anziché osservare le differenze tra Paesi si possono affrontare
quelle tra individui.

Ruolo delle caratteristche individuali e sociali

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Oltre a quello micro e a quello macro, un altro tipo di comparazione, portato avanti in questo studio, è la
comparazione longitudinale che va a comparare come un fenomeno cambia di anno in anno. L’unità di
analisi in questo caso, infatti, è l’anno (per ogni Paese considerato).

Trends in Europa

Trends nel mondo avanzato

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L’altra faccia della questione, oltre ai livelli di sviluppo, è la religiosità. Si può sostenere che la religiosità non
sia soltanto il partecipare alle funzioni religiose. Le indagini campionarie permettono, infatti, di considerare
la spiritualità come dimensione del fenomeno religioso.

Spiritualità

Esiste anche un aspetto legato alla differenza tra generazioni.


È possibile che il passare del tempo e, quindi, il ricambio generazionale possano spiegare il declino della
religiosità?

Differenze tra coort (classi di anni di nascita)

Gli Stat Unit sono un caso partcolare dal punto di vista della religione perché sono un Paese ricco e
avanzato in cui i livelli di religiosità sono alt. Per questo, ciò che si propone è andare a osservare altri Paesi,
soprattutto quelli europei, per cercare di capire se la teoria può essere applicata a contesti diversi, e cioè
andare ad osservare se casi simili dal punto di vista dello sviluppo producono risultati differenti.

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Anche in Paesi avanzat come gli Usa, l’Italia e l’Irlanda si possono osservare livelli di religiosità avanzat.

Trends nel mondo

Trends negli USA

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Trends negli USA dell’identità religiosa

Mercat religiosi nelle società post-industriali

La teoria sui mercat religiosi afferma che la religiosità dipende dall’offerta, e cioè dalla capacità delle
organizzazioni e dei leader religiosi di proporsi e attirare fedeli. Dove le religioni sono in competzione tra
loro saranno più efficient nell’attrarre fedeli e questo dipenderà anche da quanto gli Stati regolano la
religione e quanta libertà religiosa è presente. Più pluralismo religioso è presente in uno Stato, meno la
religione è regolata e più religiosità si potrà osservare.

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La teoria dei mercat religiosi sembra non avere un fondamento empirico. La compettvità, il pluralismo,
la regolazione sono elementi che non hanno nulla a che fare con gli indicatori necessari a comprendere il
grado di partecipazione religiosa.

Mercat religiosi nel mondo

Teorie funzionaliste

L’impianto teorico di questo studio considera diverse teorie, tra cui quelle funzionaliste. La teoria
funzionalista afferma che la religione perde importanza perché perde importanza la sua funzione nelle
società. Man mano che le società si sviluppano, infatti, funzioni che venivano tradizionalmente svolte da
organizzazioni religiose vengono ora affidate ad organizzazioni parti dello Stato (Welfare State).

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Sicurezza e disuguaglianza economica

Sicurezza e condizioni economiche

Offerta religiosa nell’Europa dell’Est

Se da una parte si possono osservare i Paesi sviluppati, dall’altro lato si possono analizzare anche Paesi al di
là del mondo occidentale. In particolare, il gruppo di Paesi europei che va al di là del mondo occidentale è
rappresentato dai Paesi post-comunist. Questi Paesi rappresentano casi estremamente interessanti perché,
mentre durante il regime comunista la religione fu completamente repressa, una volta caduto il regime
comunista, vi fu la liberalizzazione e una forte apertura. Da una parte, si tratta di Paesi con caratteristche,
come l’industrializzazione, di Paesi che dovrebbero essere secolarizzat, dall’altra la caduta del comunismo
potrebbe aver portato ad un ritorno alla religione anche perché i cambiamenti tendono sempre a creare
delle nuove insicurezze che possono, quindi, favorire il ritorno alla religione.

Generazioni e religione

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Culture religiose e valori politci

18.05.2021 – lezione 24

Esame

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