Negli ultimi decenni la psicologia clinica è andata incontro ad una profonda trasformazione dal
punto di vista teorico e metodologico, volta al superamento dei modelli individualistici, delle
dicotomie mente-corpo, natura-cultura, biologico-psichico e nella ricerca di un approccio scientifico
rigoroso, ma rispettoso della complessità dell’umano.
Il lavoro psicologico-clinico è un ambito molto ampio in quanto include competenze e pratiche
anche molto diverse tra loro che vanno dalla psicodiagnostica al counseling, dagli interventi nelle
organizzazioni alle psicoterapie.
Ogni modello di ricerca utilizza un metodo di osservazione mai neutrale, in cui l’osservatore
costruisce attraverso il suo vertice di osservazione, la realtà che osserva e di conseguenza i dati sono
il risultato di quel particolare modo di interpretare la realtà e che trova spazio all'interno di un
determinato modello, costruito con determinati strumenti o variabili. Nel lavoro clinico, quindi,
anche la scelta degli strumenti non è mai neutrale: essa è ovviamente legata agli scopi della ricerca,
ma è anche più o meno implicitamente collegata ai criteri di guarigione, alla concezione della
malattia mentale, agli obiettivi del trattamento che appartengono al ricercatore e/o al clinico.
Ad esempio, se consideriamo risultati, la scelta di uno strumento di valutazione degli esiti anziché
un altro può modificare l'interpretazione dei dati di una ricerca, limitando la conoscenza dei
possibili effetti di una terapia a quelli previsti dal ricercatore, oppure inducendo erroneamente a
considerare equivalenti trattamenti che in realtà non lo sono. Non bisogna sottovalutare però la
ricerca, bensì bisogna prendere atto che la qualità e la verificabilità scientifica di una ricerca
dipende da quanto possono essere chiarite le questioni teoriche e metodologiche che la guidano, le
variabili osservate, le relazioni tra questi aspetti e il contesto osservato.
Già dalla sua nascita, la psicologia clinica ha dovuto affrontare quasi come un problema, l'essere
una sorta di modalità di approccio conoscitivo e trasformativo scientifico alla realtà psichica; in
realtà, già dai tempi di Freud se ne era a conoscenza, basti considerare come intitolòlo scritto sul
modello neuro-dinamico del funzionamento mentale: Progetto per una psicologia scientifica (Freud,
1895).
Secondo recenti formulazioni l’epistemologia della complessità ha messo in luce quale vasto
insieme di principi, relazioni e indicazioni metodologiche sottostia a un’apparentemente neutra
definizione di scientificità, e quale profonda influenza tale insieme eserciti sul modo stesso di
concepire la ricerca, in altre parole ha evidenziato i principi e gli strumenti per realizzarli. Di
conseguenza, oggi, ogni percorso di ricerca che preveda un'indagine scientifica, non può fare a
meno di esplicitare a quali principi e metodi si riferisca. È fondamentale dunque, sottolineare che
ciò che si pensava fosse solo teorico, ha ripercussioni sulle nostre concezioni, i nostri atteggiamenti,
e finanche i metodi e gli strumenti per la messa in pratica.
Con il termine epistemologia intendiamo sia “teoria della conoscenza”che “riflessione intorno ai
principi e al metodo della conoscenza scientifica”.
Come Lo Verso e Giannone sottolineano l'epistemologia ha origini molto antiche: “Fin dall'inizio
domande quali: che cosa è possibile conoscere, in che modo conosciamo, attraverso quali strumenti,
che cosa dà garanzia di validità alla nostra conoscenza ecc. sono state centrali nella storia del
pensiero filosofico e sono andate articolandosi nel corso del tempo, fino a costituire campi di
indagine sempre più specifici e definiti”.
Dal punto di vista della riflessione che riguarda i metodi della conoscenza scientifica,
l'epistemologia ha origini più recenti: essa nasce, sempre secondo Giannone e Lo Verso, agli inizi
del Novecento come filosofia della scienza, come pensiero critico sulla scienza e sulle sue
possibilità di conoscenza o, detto diversamente, come disciplina tendente alla consapevole
esplicitazione del metodo e delle condizioni di validità circa le asserzioni degli scienziati”.
Nell'accezione più ampia, dunque, con il termine epistemologia facciamo riferimento a quella
conoscenza che si rivolge a se stessa: che studia la propria genesi, che allargandosi e decentrandosi
slitta dallo studio delle conoscenze acquisite allo studio che mette in relazione tali conoscenze con
le loro radici e matrici (storiche, sociali, antropologiche, ecc.).
Le domande che si propone la materia circa la scienza e la sua veridicità ed esattezza, rimandano al
rapporto tra conoscenza e realtà, il ruolo dell'osservatore che compie la ricerca, la sua
interpretazione, i metodi usati; questioni che si intrecciano con i più comuni quesiti della filosofia.
Anche la psicologia clinica, pur mantenendo la specificità e gli obiettivi propri del suo particolare
campo disciplinare, ha incontrato questi stessi problemi, e con essi ha la necessità di farne i conti, in
quanto, questi problemi, hanno assunto una centralità senza precedenti nella riflessione
epistemologica contemporanea, aprendo nuovi scenari sul problema della conoscenza.
Il pensiero scientifico, così come è oggi comunemente inteso, nasce nel XVII secolo quando, con
Galileo, viene elaborato il metodo sperimentale e la ricerca sulle leggi della natura diventa
autonoma, costruendo nuovi strumenti di osservazione e abbandonando sia la speculazione
filosofica che i fondamentalismi biblici. Data la forte esigenza di scoprire la verità si arrivò alla
convinzione che l'essere umano, che stava compiendo incredibili scoperte scientifiche, avesse
finalmente trovato il metodo per ottenere la verità assoluta delle cose. Il metodo sperimentale era
così diventato il metodo oggettivo, l'unico strumento in grado di produrre conoscenza; e la scienza,
basata sul metodo sperimentale, si era proposta come luogo di conquista della verità.
Gli elementi basilari del metodo sperimentale secondo Morin:
La riduzione è il procedimento che poggia sul principio per cui la conoscenza degli insiemi
o sistemi deriva dalla conoscenza delle parti semplici, o unità elementari, che li
costituiscono;
La disgiunzione isola gli oggetti gli uni dagli altri, e anche dal loro ambiente e dal loro
osservatore; tramite lo stesso movimento il pensiero disgiuntivo isola le discipline tra loro e
isola la scienza dalla società;
La quantificazione è il procedimento regolato dal principio della necessità della
matematizzazione e della formalizzazione dei dati e dei rapporti tra i dati. Tale principio
sostiene l'affidabilità assoluta della logica per stabilire la verità intrinseca delle teorie. Ogni
contraddizione appare necessariamente come un errore;
La ripetibilità è legata al principio della generalizzazione, secondo cui può essere accordata
dignità scientifica soltanto a ciò che presenta ripetibilità “date certe condizioni”.
L'oggettività del metodo è data dalla separazione netta tra l'osservatore e la cosa osservata:
l'osservatore deve porsi fuori dal fenomeno che osserva e rintracciare le leggi ed i metodi che lo
regolano. Il laboratorio è l’unico contesto nel quale l'osservazione può avvenire correttamente.
Nonostante il metodo sperimentale si fosse imposto come un dogmatra tutti gli strumenti per
conoscere la verità, con il tempo si è resa necessaria una revisione dei principi classici del metodo,
l'introduzione di nuovi parametri di interpretazione del reale e anche l'introduzione di nuovi
approcci metodologici per l'organizzazione della ricerca scientifica.
L'epistemologia ha introdotto il paradigma della complessità e soprattutto ha messo in atto la
trasformazione di cui c'era bisogno identificando, cioè, le costruzioni, le decostruzioni e le
ricostruzioni dei modi di pensare e delle strategie di ordinamenti del sapere.
I punti chiave della trasformazione epistemologica sono:
1. La perdita dell'illusione che la conoscenza scientifica fosse una conoscenza cumulativa di
verità, quindi che la conoscenza scientifica proceda per eliminazione di errori, e non per
accrescimento di verità;
2. La scientificità non appare più come la pura trasparenza di leggi di natura: essa porta con sé
un universo di teorie, idee e paradigmi che si inscrivono nella cultura, nella storia e nella
società;
3. L'identificazione tra dati e fatti entra in crisi: i dati non esistono in quanto fenomeni
oggettivi, ma sono il risultato di un particolare modo di osservare la realtà;
4. Il soggetto viene reimmesso nella conoscenza scientifica, l'osservatore viene reintrodotto
nell'osservazione: in quanto portatore o interprete di una teoria, l'osservatore crea il campo
dell'osservazione ed è dunque profondamente implicato in esso;
5. Il modello semplificatore di spiegazione basato sulla riduzione, la disgiunzione, la
matematizzazione e la ripetibilità ha mostrato i suoi limiti, mentre ha acquistato sempre più
rilievo la necessità di cogliere la complessità dei fenomeni, esplicitando le relazioni che li
definiscono.
Bisogna segnalare la difficoltà di semplificare scomponendo e isolando gli oggetti dell'analisi,
poiché invece è proprio la loro relazione con “dell'altro” a definirli. Al fine di rimarcarne
l'importanza, potremmo quindi concludere riformulando il principio della relatività nel modo
seguente: principio della necessità di esplicitare le relazioni; il che, come è chiaro, va nella
direzione esattamente opposta rispetto ai principi su cui poggiava il metodo sperimentale.
La revisione sistematica dei criteri di intelligibilità previsti dalla scienza classica e l'introduzione di
nuovi principi, sintetizzati nel paradigma della complessità, costituiscono la struttura portante di una
nuova architettura del pensiero, che possiamo sintetizzare operando una sorta di aggregazione per
nuclei tematici differenziati tra i principi proposti da Morin, definendoli nuclei trans-disciplinari:
1. l'idea di realtà (cosmologica/individuale);
2. le problematiche relative alle possibilità di conoscenza, con particolare riferimento
all'osservazione e al rapporto osservatore-osservato;
3. le modalità dell'osservazione e la “strumentazione” concettuale e metodologica che essa
utilizza.
L'idea di realtà: tale principio può essere descritto come il passaggio da un'idea di realtà
sostanzialmente unica e indivisibile, retta da un ordine univoco e atemporale, una realtà
immodificabile, data una volta per tutte e per questo esprimibile in leggi anonime, impersonali e
assolute, a un'idea di realtà in continuo cambiamento, in un continuo movimento di
riorganizzazione. Oggi, assistiamo all’ampliamento del reale in oggetti, sfere, livelli di contesti
differenti, e lo facciamo consapevoli che questo ampliamento è sempre tradotto nel linguaggio di un
osservatore. L'epistemologia contemporanea e la ricerca scientifica si sono dunque realmente
modificate. Un universo cangiante poiché lontano dagli stati d'equilibrio e, piuttosto, in continua
trasformazione.
Morin identifica nei concetti di ordine, disordine, sistema e organizzazionei punti cardine del
mutamento paradigmatico che negli ultimi decenni ha coinvolto tutti gli ambiti del sapere e, non
ultimo, l'ambito della psicologia clinica. Sostanzialmente Morin ha ridefinito il concetto di ordine e
disordine, in quanto il primo non indica più qualcosa di supremo e inconfutabile, e allo stesso modo
per il secondo il concetto viene allargato, sottolineandone l'importanza a livello creativo e
produttivo. I due concetti vengono connessi, rispetto alla loro funzione, all'interno delle idee di
sistema e di organizzazione.
Il sistema è definito da Morin come una unitas multiplex, macrounità complessa, regolata da
particolari modalità di rapporto del tutto e delle parti, ragion per cui esso è, al tempo stesso,
produttore di unità e di diversità. Ciò che definisce il sistema è la sua organizzazione, che lo regola
e struttura. L'organizzazione, quindi, produce ordine e disordine ed è in rapporto continuo con
l'ambiente esterno al sistema, che fornisce anch'esso potenziale organizzativo e, dunque, potenziale
disordine. L'organizzazione è pertanto qualcosa di attivo. ( Ad esempio: il nostro universo).
La realtà, dunque, non è data una volta per tutte, ma è un sistema in trasformazione costante,
caratterizzato da particolari vincoli e da particolari relazioni, all'interno di una particolare
organizzazione, che attraverso laconnessione con ildisordine, con ilcasuale, dell'evento
costantemente si riorganizza e si modifica.
L'osservazionee il rapporto osservatore-osservato. Secondo Morin, il sistema è un concetto a
doppia entrata: physis –psiche; fisico alla base, psichico al vertice. È un principio d'arte; un
principio di riflessione e di incertezza, che nella sua totalità provoca una reazione nel campo della
conoscenza, del rapporto osservatore/osservato, divenendo una questione centrale nella pratica
clinica.
Il paradigma della complessità fissa alcuni principi rispetto alla questione dell'osservazione:
a) principio di relazione tra l'osservatore/concettore e l'oggetto osservato/concepito;
b) principio di introduzione del dispositivo di osservazione o di sperimentazione e, attraverso
questo, dell'osservatore/concettore in ogni osservazione o sperimentazione fisica;
c) necessità di introdurre il soggetto umano, situato e datato culturalmente, sociologicamente,
storicamente in ogni studio antropologico o sociologico;
d) necessità (e possibilità) di una teoria scientifica del soggetto.
L'epistemologia, come risposta ai dubbi provocati fino a qui, ha risposto con la riconsiderazione
della questione del pregiudizio. Ceruti, infatti, sottolinea quanto i pregiudizi non siano
necessariamente immotivati e portatori di falsità, tali cioè da alterarela realtà, tutt'altro: la storicità
della nostra esperienza fa sì che proprio i pregiudizi costituiscano il sensoiniziale di tutta la nostra
capacità di esperienza. Secondo lui, i nostri modi di pensare sono condizionati dalla storicità
dell'osservatore, dal suo modo di vedere le cose e come egli stesso si approccia alla realtà.è
inevitabile che tutto ciò influenzi la psicologia clinica fino alle sue fondamenta e la trasformi
profondamente. Da questo punto di vista basti pensare a come anche il pilastro fondamentale della
tecnica analitica classica, l'interpretazione, si sia rivelata una co-costruzione il cui significato, come
dirà Gabbard, è “contemporaneamente costruito e scoperto”. L'interpretazione, infatti, secondo le
impostazioni più interattive, si configura come un'attività di selezione ed elaborazione delle
informazioni che paziente e terapeuta si scambiano reciprocamente (sia pure a livelli differenti di
consapevolezza).
Maturana e Varela (1985) evidenziano, invece, il processo cognitivo iniziale che un osservatore
esegue, la percezione della distinzione, e sostengono l'idea che tutto ciò che è detto è detto da un
osservatore. Secondo gli autori, infatti, con la percezione della distinzione l'osservatore
sottolineaun'unità come dato distintoda uno sfondo e uno sfondo come il dominio dal quale
l’oggetto si differenzia. La percezione della distinzione diventa il risultato di unpassaggio tra
l'osservatore e il mondo osservato. Percezione, questa, che si inscrive in un dato. E da qui che si
sottolineano gli aspetti individuali, specifici, dai quali i pregiudizi non vengono più visti come un
errore, perchè divengono le consizioni iniziali per costruire la conoscenza. Quindi, se un tempo i
criteri della scientificità erano attenti alle strategie di neutralizzazione del soggetto, oggi uno dei
risultati più significativi del rapporto tra l'epistemologia e la scienza è proprio l'inclusione
dell'osservatore nelle proprie osservazioni.
Secondo Kuhn (1962), l'evoluzione scientifica consiste in un'evoluzione della concezione stessa
delle cose e del reale: la scienza si sviluppa attraverso rivoluzioni paradigmatiche. I paradigmi sono
quei principi che associano o dissociano alcune nozioni fondamentali che guidano e controllano
tutto il discorso teorico. All'interno o al di sopra dei pensieri teoricisi trovano, inconsci o invisibili,
alcuni principi fondamentali che verificano e generano la conoscenza scientifica, organizzandola in
un certo modo. Secondo lui, infatti, il mutamento scientifico non è governato da regole razionali,
ma ricade nella psicologia della scoperta.inoltre bidogna considerare che il mutamento scientifico,
si adatta e si evolve con il passare del tempo e il progresso della società.
Il problema della conoscenza scientifica, pertanto, va posto oggi nei termini della necessità di una
grande attenzione critica alla propria ricerca: tutto ciò comportacheil sistema di osservazionedeve
essere anch'esso osservato, poiché la possibilità di osservare, percepire, concepire il sistema
osservato consente di affrontare il problema della conoscenza con minori rischi di riduzionismo e di
avviare un approccio conoscitivo più corretto, che integri gli elementi soggettivi e quelli oggettivi.
Le modalità dell'osservazione. I principi di Morin:
principio che stabilisce la necessità di legare la conoscenza degli elementi o parti a quella
degli insiemi o sistemi che essi costituiscono, ovvero il riconoscimento dell'impossibilità di
isolare le unità elementari e semplici alla base dell'universo fisico;
principio di distinzione ma non di disgiunzione tra l'oggetto o l'essere e il suo ambiente.
problematica delle limitazioni della logica, ovvero riconoscimento dei limiti della
dimostrazione logica in seno ai sistemi formali complessi.
necessità di pensare in maniera intersoggettivae per macro-concetti, tenendo insieme
anchenozioni e concetti in contrapposizione.
Ogni teoria, ogni metodo, ogni concetto vanno messi in relazione con le condizioni di osservazione
all'interno delle quali sono prodotti. Alla base di ogni conoscenza c'è sempre un atto soggettivo e la
verità scientifica si fonda essenzialmente sulla possibilità di comunicare e dialogare all’interno di
una comunità scientifica, contesto socialmente e culturalmente connotato. Come sostiene Popper, la
scienza è un campo aperto, dove sono in lotta non soltanto le teorie, ma anche i principi di
spiegazione, le visioni del mondo, i postulati metafisici ecc. Tale lotta possiede e mantiene delle
“regole di gioco”: il rispetto dei dati da un lato, e l'obbedienza a criteri di coerenza dall'altro.Proprio
l'obbedienza a queste regole, assicura la superiorità della scienza su qualsiasi altra forma di
conoscenza. Ovviamente bisogna contestualizzare e considerare che ogni affermazione è valida nel
sistema che l'ha prodotta. L'epistemologia della complessità suggerisce un altro modo di affrontare
il problema della conoscenza, per cui il metodo sperimentale diventa uno strumento metodologico
fondamentale, di convalida di una molteplicità di costrutti relativi alle condizioni dell'osservazione.
Con i nuovi sviluppi, non si intende cancellare l'importanza di questo metodo, ma affermare che
non è scientificamente corretto ridurre la quantificazione scientifica della ricerca ai procedimenti
della riduzione, della disgiunzione, della quantificazione e della ripetibilità. Sembra che oggi
possiamo dichiarare che la scientificità sia connessa alla possibilità di esplicitare i quadri teorici e
metodologici che guidano la ricerca e che la convalida delle conoscenze avviene attraverso: il modo
in cui concettualizziamo il problema, le operazioni che mettiamo in atto per conoscerlo e i risultati
che otteniamo all'interno di un dato contesto.
I principi più generali che orientano la ricerca possono essere individuati nell'idea che:
gli oggetti dell'osservazione sono complessi;
sono influenzati da molteplici variabili;
sono isolabili dai loro contesti solo per comodità di osservazione;
esistono in rapporto a specifici vertici teorico-metodologici e all'interno di specifiche
culture.
Le indicazioni metodologiche che risultano da tali principi riguardano il bisognodi:
1. chiarire in modo non riduttivol'oggetto;rintracciarein modo ampiole variabili che lo
compongono e influenzano il funzionamento;
2. mettere in relazione gli elementi o parti di un sistema tra loro, con l'insieme che
costituiscono e con il più ampio contesto in cui sono inseriti;
3. usare la logica e /e invece della logica o/o, per non escludere e disgiungere ma anzi per
connettere ipotesi e modelli differenti, verso una visione integrata delle molteplici
sfaccettature della realtà;
4. sottoporre a osservazione principi e modalità dell'osservare, la relazione tra osservatore e
osservato e lo stesso soggetto osservante;
5. procedere come se le variabili necessariamente “distinte” fossero effettivamente
rappresentative dell'oggetto in analisi;
6. accettare il criterio che la ricerca definisce verità molteplici, connesse agli specifici
dispositivi di osservazione adoperati;
7. aprirsial dialogo e allo scambio all’interno della comunità scientificapoiché la verità clinica
poggiasull'intersoggettività, e cioè sull'accordo traprofessionisti.Anch'essasocialmente e
culturalmente connotate;
8. privilegiare il concetto di connessione tra i fatti rispetto a quello di causa;
9. studiare ed esplicitare il dispositivo di osservazione in psicoterapia costruito per visualizzare
i dati che poi verranno studiati.
L'epistemologia della complessità ci permette di avere una visione complessa del mondo, ci aiuta ad
indivisuare i principi e i metodi del sapere secondo l'evoluzione del tempo, delineando le
problematiche connesse alla conoscenza scientifica.riusciamo attraverso di essa a sostenere che la
scientificità del qualitativo è possibile, se si considera di trattare il proprio oggetto nel modo più
preciso possibile, indicando i vari procedimenti attraverso i quali si vuole conoscere, specificandone
le procedure.
Tutto questo in riferimento alla problematica generale dell’esperienzae ricerca scientifica vale
ugualmente nei campi di ricerca e di applicazione clinici e psicoterapeutici.Si pensi, per esempio, a
come le diverse teorie psicologiche esplorino aspetti differenti di quell'unica e complessa realtà che
è la psiche, mettendo a fuoco di volta in volta “verità” strettamente connesse agli specifici impianti
teorici e osservativi. (terapeuti diversi danno diagnosi differenti). Procedere “come se” il proprio
modello fosse vero non è, in sé, un male, anzi a volte può essere utile per padroneggiare parti più
definite e semplificate della complessità del reale; l'importante è procedere con la consapevolezza
del “come se”, che aiuta a contenere eventuali riduttivismi; a questo sarebbe opportuno riconoscere
che è un bene valutare tutte le possibilità, anziché affermarne una sull'altra.La relazione aiuta anzi, a
comprendere il senso e l’organizzarsi dello psichico.
Sul rapporto osservatore-osservato possiamo sottolineare quanto sia importaneil
coinvolgimentodello psicologo, dello psicoterapeuta nelrapportoclinico: dal suo essere presente con
le proprie teorie psicologiche, con i propri strumentiprofessionali, con la teoria della tecnica, al suo
partecsiparecon le proprie caratteristiche personali e con le proprie emozioni.Per una riuscita
ottimale, lo psicoterapeuta dovrebbe, a sua volta, porsi a osservazione, quindi questa
consapevolezza, si traduce nella disponibilità da parte del terapeuta a “pensare” la propria pratica
psicoterapeutica, la quale si estrinseca in primo luogo nella predisposizione dei vari tipi di setting.
I punti di convergenza tra l'epistemologia della complessità e la pratica clinica (in particolare la
pratica clinica gruppoanalitica) riguardano:
1. l'idea di realtà in continua trasformazione proposta dall'epistemologia della complessità, che
richiama l'idea di una vita psichica umana in continuo farsi;
2. l'idea di sistema come unitas multiplex, prodotta dal rapporto dal rapporto tra ordine,
disordine e organizzazione, che richiama l'idea di individuo come molteplicità, la cui
dinamica psichica è articolata dall'intreccio tra elementi di continuità ed elementi di rottura,
di discontinuità;
3. l'importanza attribuita alla funzione della storia e dell'evento per la comprensione di un
soggetto;
4. la funzione dell'evento nell'epistemologia della complessità e la funzione dell'incontro che
rimandano entrambi alla funzione strutturante e potenzialmente trasformativa del disordine.
Il lavoro con i gruppi, le famiglie ele organizzazioni, in campo clinico e in campo psico-sociale, ha
rappresentato il terreno privilegiato nel quale si era fatta strada l'esigenza di chiavi di lettura
complesse, e rispetto al quale il confronto con il complesso mutamento, veicolato dal paradigma
della complessità, ha offerto possibilità di sviluppi e applicazioni teorico-metodologiche.
Se partiamo, come ormai è generalmente accettato, dal presuppostoche la psicoterapia è
essenzialmente una ricerca-azione che si svolge tramite rapporti umani, diventa intuitivo ed
evidente quante difficoltà il metodo sperimentale classico incontri come strumento di verifica in
questo campo: basti pensare al tentativo di purificare le variabili e a quello di mirare a una verifica
quanto più possibile depurata dalla individualità e specificità dei partecipanti all'esperimento. Non è
possibile, né in alcun modo utile, utilizzare metodi nati per certi scopi e certi oggetti per studiare
oggetti completamente diversi. Infine bisogna considerare che è l'oggetto stesso che spinge un
osservatore a guardare verso una direzione, a maggior ragione quando si stratta di esseri umani. La
soggettività del ricercatore, le teorie a cui fa riferimento, i soggetti osservati (i pazienti), con le
rispettive precondizioni, le relazioni tra loro e con il contesto in cui si svolge l'osservazione sono
dunque, per la clinica come per l'epistemologia, elementi fondamentali per la definizione dei
parametri di scientificità.
4. utenza (pazienti), committenza e sociale entrano a far parte del campo, influenzando in vario
modo i processi che in esso avvengono.
Queste sono aree variabili che bisogna necessariamente considerare per tenere in
considerazione la relazione terapeutica sia in gruppo, che individuale, di coppia, ecc.Il set è la
struttura organizzativa, dove si costruisce la situazione terapeutica, ma tutti gli elementi hanno una
valenza anche psichica, e non solo strutturale, come ad esempio il numero dei partecipanti, la
stanza, la durata, ecc. Vengono considerati elementi separati per facilità di analisi, ma in realtà la
doppia valenza non è scindibile. Il setting è la base indispensabile per la creazione della situazione
terapeutica e costituisce la precondizione perché questa possa essere concepita, fondata, pensata.
Esso è il sistemateorico-metodologicodel terapeuta, che genera la situazione clinica, un impianto
complesso, nel quale sono riconoscibili principi teorici, affermazioni, dati oggettivabili, ma anche
pensieri, emozioni, valori. La riflessione su di esso e la sua analisi non sono un compito semplice,
anche perché, in quanto legato alla soggettività del terapeuta, all'incontro col paziente o con il
gruppo dei pazienti, al dibattito scientifico-culturale cui fa riferimento, il setting è qualcosa che
evolve, si co-costruisce e si trasforma.
Come afferma Lo Verso: il set(ting) è un “organizzatore psichico di carattere
transpersonale, campo mentale condiviso che consente di pensare i fenomeni e i sintomi e di dare
significato a essi, e di creare nuove connessionie relazioni”. Diviene possibile restringere le
variabili e concentrare l'osservazione sugli eventi comunicazionali interni al set(ting), definire
alcune variabili che almeno in parte e per un certo periodo possono essere costanti o quasi nel
lavoro di uno psicoterapeuta e situare nello stesso luogo e in un tempo determinato il lavoro
operativo e la ricerca: in questo senso, seppure in modo del tutto particolare, è possibile considerare
il set(ting) come un tipo particolare di laboratorio esperienziale.
Nei disturbi dell’affettività, dell’umore, cosi come nelle nevrosi sembra convincente l`ipotesi di una
sintomatologia collegata a una mente individuale situata “altrove”: nel proprio passato, nei legami
con esso e, quindi, con il mondo familiare, a prescindere da come siano stati vissuti qialitativamente
questi rapporti.
La clinica gruppoanalitica, in particolare Menarini e Pontalti, hanno approfondito le caratteristiche
delle “matrici familiari patogene”, che essi definiscono “sature”, cioè caratterizzate dal non riuscire
ideologicamente e/ o emotivamente a concepire i propri membri come portatori di identità e bisogni
soggettivi. Recentemente si è prestata attenzione alla definizione di fondamentalismo, indicando
con esso tutte quelle realtà collettive, familiari o individuali che non riuscendo a concepirel’alterità
e la differenza come un potenziale valore sono a rischio di pensiero e prassi “inquisitori”. Secondo
queste dinamiche, ciascuno considera il proprio “noi” come il bene, e il “loro” il male. Quasi
sempre, poi, ciò che definisce e rappresenta questo “noi" si colloca a un livello di entità
sovrapersonale (la religione, il partito, la razza, la nazione) come verità non sottoponibile al
pensiero, pena la perdita dell’identità, l`isolamento o il rischio della follia. Ovviamento un
preesistente noi, limita la vita stessa del soggetto e le relazioni fuori dallo stesso spettro familiare.
Nelle culture tradizionali l'Io è influenzato dal noi familiare, mentre in quella occidentale, si esalta
maggiormente la figura che l'Io ha Iniziato ad acquisire e conquistare sempre maggiormente.
Generalemte anche nelle terapie questi due fattori sono connessi. La gruppoanalisi, come anche altri
orientamenti (psicoanalisi, cognitivismo), pone l’attenzione agli aspetti interni, affettivi o cognitivi
che siano, lavorando pero sull’asse Io-Noi con l’obiettivo di rendere il soggetto più libero nel suo
mondo relazionale, sia interno sia esterno. Questo asse Io-Noi su cui si basa il lavoro è
prevalentemente interno nelle nevrosi e nei lievi disturbi di personalità, mentre diviene almeno
parzialmente esterno nelle patologie più gravi.
L’esperienza clinica della modernità si costituisce nella riorganizzazione dello spazio strutturale in
cui il visibile e l’invisibile della malattia si definiscono a vicenda: una “grammatica dei segni”
sostituisce una “botanica dei sintomi”, una riarticolazione della malattia nell’organismo porta alla
sua nuova visibilità nello spazio corporeo.
La settecentesca medicina della specie classificava la malattia gerarchicamente in famiglie, generi e
specie. Specie che erano insieme naturali e ideali. Il medico guarisce il malato nella misura in cui
conosce questo quadro ideale della malattia. Nell'epoca moderna al centro invece ci sono i vari
sintomi, che permettono al medico di definire l’ordinamento naturale della malattia, attraverso
l’osservazione delle loro differenze o simultaneità, successioni e frequenze.
All’inizio del XIX secolo s`impone un altro modello: quello dell’operazione chimica che, isolando
gli elementi costitutivi, consente di definire la composizione, di fissare i punti comuni, le
somiglianze e le differenze con altri insiemi e di fondare cosi una classificazione che non si basa più
su tipi specifici, ma su forme di rapporti” (Foucault, 1963). La clinica si apre quindi alla
descrivibilità assoluta delle malattie: la medicina dello sguardo si confronta e si integra
dialetticamente con quella dell’anatomia patologica, delle lesioni, degli organi e delle cause. La
clinica delle osservazioni delle manifestazioni patologiche, delle frequenze e cronologie, volta alla
classificazione e apparentamento dei sintomi, cede il passo a quella dei corpi dei cadaveri: si passa,
afferma Foucault, dalla storia alla geografia. Nella medicina clinica, il segno poteva garantire la
certezza della malattia in base alla propria frequenza all’interno di una serie: adesso il segno
rimanda sempre e solo alla lesione organica e si può arrivare alla verità tramite la malattia.
Bisogna a questo punto chiedersi se ogni malattia abbia il correlato nelle lesioni: Bichat sosteneva
che “tolte certi generi di febbri o d’affezioni nervose, quasi tutto rientra allora nel campo di questa
scienza (l’anatomia patologica). Ritorna la questione del fondamento oggettivo della malattia (la
lesione dell’anatomia patologica) che diventerà poi centrale nella definizione delle malattie e
disturbi psichici.
All’inizio della sua carriera, Freud si muoverà in un ambiente medico ancora legato a questo
modello e cioè la lesione organica era il focolaio della malattia. La malattia ha trovato il proprio
fondamento nell`organo sofferente.
Il pensiero positivistico ottocentesco, legato alla fiducia in un’esplicabilità e prevedibilità totale
degli eventi, affascina la nascente psichiatria, la quale fonda nel cervello la sede della malattia
mentale e nella lesione la causa del male. Lettura che si giustappone a quella, altrettanto radicata,
che vede la causa della malattia mentale nelle deviazioni dalle leggi morali e nell’influenza negativa
delle passioni sull’intelletto (Follia = malattia dell'intelletto). La psichiatria si autorizza come
disciplina scientifica autonoma basandosi sull’adozione degli stessi metodi della medicina generale,
l’osservazione e il metodo anatomo-clinico, che paradossalmente individuano nelle patologie senza
lesione, funzionali o psichiche, l’oggetto della propria indagine. Il pensiero di quel tempo affermerà
il legame tra follia e malattia mentale che intacca l'organo più prossimo all'anima dell'individuo.
Nella ricostruzione operata da Foucault, la psichiatria scientifica dell’Ottocento diviene poi
possibile quando la malattia mentale diviene “l’effetto psicologico di una colpa morale". Si
abbandona lentamente il corpo del malato per interessarsi ai rimedi morali: si guarisce se si riceve
una punizione. È un passaggio dal mondo della Riprovazione a quello del Giudizio, che però
permette l’ingresso della patologia mentale all’interno dei fenomeni positivamente conosciuti dalla
scienza.
La dimensione psicologica della patologia torna a fare il suo ingresso in psichiatria grazie allo
sviluppo delle tecniche ipnotiche nelle scuole di Nancy e Parigi, con Bernheim e Charcot e la
riscoperta del potere terapeutico della suggestione e dell’immaginazione. Alla fine dell’Ottocento,
la psichiatria si trova ancora a scontrarsi, come la clinica di Bichat di un secolo prima, con la
necessità di differenziare i fenomeni patologici che non presentano un disturbo organico del sistema
nervoso centrale, elaborando la categoria di disturbi funzionali o dinamici, entro cui rientrano
svariati disturbi psichici.
Con l’opera pionieristica e sistematica di Freud si scioglie il nodo epistemologico che legava
indissolubilmente la lesione organica alla malattia: nel corso del XX secolo si affermerà l'ipotesi
che per curare disturbi psichici sarà necessario utilizzare mezzi psichici; il disturbo mentale è
riconosciuto e se ne tracciano teorie e metodi. Il Novecento, oltre a essere il secolo della
psicoanalisi, corrisponde anche al periodo in cui emerge l’analisi critica della scienza psichiatrica
tradizionale e dei suoi metodi oggettivanti nella conoscenza del disturbo mentale. Accanto alla
psichiatria di matrice biologica vi è stata la prolungata riflessione della psichiatria fenomenologica.
L’idea di tornare ai fenomeni, al mostrarsi delle cose per come queste si manifestano, attuando una
epoche, una messa tra parentesi delle sovrastrutture razionali e teoriche che guidano le spiegazioni
dei fenomeni osservati, è stata foriera di un accrescimento delle possibilità di leggere i fenomeni
clinici nell’interesse generale. Contro la spiegazione della malattia mentale Jaspers nel 1913,
propose il concetto di comprensione come strumento interpersonale capace di poter leggere la
sofferenza umana manifestata nella psicopatologia attraverso una sintonia emotiva, empatica tra i
vissuti del terapeuta e quelli dei pazienti. La fenomenologia consente di descrivere i “fenomeni
vissuti" 1egati alla sofferenza psichica e una loro comprensione “in analogia” alle proprie
esperienze interiori. Da questa impostazione, critica sia verso la psichiatria ufficiale sia verso la
psicoanalisi, sarebbe inoltre nata la Daseinanalyse di Binswanger (1963), con la sua lettura del
soggetto sofferente influenzata dalle concezioni heideggeriane di Essere e tempo (1927), in cui il
paziente è prima di tutto considerato in quanto essere umano, differente dagli altri solo perché
diverso è il proprio “progetto di mondo”. Un ritorno alla filosofia dopo il fallimento della medicina.
Mentre la corrente fenomenologica opera un viraggio volto alla comprensione del senso più intimo
della sofferenza psichica, relegando sullo sfondo qualunque indagine classificatoria di tipo
nosografico, una corrente “sociale" inizia, con le opere di Sullivan (1940) a spostare il focus clinico
sulle più ampie relazioni interpersonali del singolo individuo, considerandole esplicative dei
percorsi che possono determinare sofferenza psichica. Questa visione analizza tutto il gruppo in cui
vive e agisce l'individuo malato, analizzando anche e soprattutto le distorsioni comunicative
all'interno delle sue relazioni e la terapia mirerà, conseguentemente, al miglioramento del sistema di
comunicazione del paziente e della propria famiglia. Dall’altro canto, in una lettura politico-sociale
della scienza psichiatrica conduce al movimento dell’antipsichiatria, che vede nella malattia
mentale non tanto una struttura patologica di tipo medico, quanto una forma di esclusione sociale
che il sistema di potere vigente mette in atto verso i deboli e i diversi, coloro che non sono
normalizzati entro i canoni politico-economici del sistema capitalistico.
Da un lato, quindi, la sofferenza psichica troverà senso e possibilità di cura all’interno della rete
familiare del soggetto, spostando il focus dell’intervento dal singolo individuo al sistema di cui
questo fa parte; dall’altro diverrà il nodo di una complessa rete di intervento, considerando la cura
come possibilità di un reinserimento entro il contesto comunitario di appartenenza, favorendo un
processo di inclusione sociale.
L'idea di malattia e salute, ovviamente, è l'aspetto più complesso: la questione della definizione
della salute rimanda inoltre a quella di normalità e alle sue relazioni con la patologia. Il pensiero
medico, fino al XVIII secolo, ha presentato un carattere dualista volto a raffigurare salute e malattia
come due entità che si contendono la vita dell’uomo.l'idea di salute è legata all'idea di salvezza,
sacro, anche perchè il legame sofferenza, colpa e male morale è stato sempre raccontato.
Recentemente Derrida, in un lavoro sul sacro e la religione, riprende la concezione sacrale della
salute, nel suo legame con la salvezza, sulla scorta di quanto elaborato da Benveniste che diceva
come: “Il carattere santo e sacro si definisce in una nozione di forza esuberante e fecondante,
capace di condurre alla vita". Derrida, nel suo lavoro sulla religiosità, legge in queste
corrispondenze un legame tra il sacro religioso e la salute, guarigione, salvezza, immunità. Il sacro è
ciò che rimanda alla salvezza, salute e guarigione: Chi possiede la ‘salvezza’, cioè la qualità
corporea intatta, è anche capace di conferire salvezza". Il sacro/salvezza possiede quindi
etimologicamente questo vettore positivo, cui però fa riscontro, come già notava Benveniste, anche
un significato negativo, nel greco hagios come nel latino sanctus. Sanctus è ciò che è difeso e
protetto dall’oltraggio degli uomini. La salute non consiste dunque tanto in uno stato opposto alla
malattia: i due termini sembrano intrecciarsi in un complesso gioco dialettico, similmente a quanto
accade con il termine pharmakon, cura e veleno al tempo stesso.
La World Health Organization (Organizzazione Mondiale della Sanità) a livello contemporaneo,
definisce classicamente la salute come “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e
non solamente l’assenza di malattia”, indicando come questa sia una dimensione molto più
complessa dall’assenza di manifestazioni sintomatiche. Sembra quasi una dimensione utopica da
raggiungere, piuttosto che un vero e proprio status. Nelle società occidentali, la promozione della
salute è divenuto un obiettivo primario, da perseguire ben al di là del singolo trattamento sanitario e
terapeutico, e investe sia l`ambito organico sia quello psichico. Si promuove la salute per
incrementare la qualità della vita ed eliminare condizioni di disparità nelle condizioni di salute tra la
popolazione.
Foucault colse lucidamente come la salute fosse divenuta, non a caso, un tema culturale primario
nelle società europee moderne, attraverso la creazione di un dispositivo volto a una nuova
definizione dell`individuo all’interno del corpo sociale che si caratterizzava per la centralità
attribuita al tema della salute e alle “tecniche per ottimizzare la vita”. Sempre secondo lui,
nell'Europa moderna, c'era un'organizzazione politica della vita si focalizza sui saperi di un corpo da
curare, da educare, da proteggere, da preservare da tutti i pericoli. La determinazione delle forme
della malattia nasce, in un alternarsi e continuo rimando tra scienze mediche, giuridiche e politiche,
in un travaso tra discipline della natura e discipline dello spirito che ha caratterizzato la nostra
modernità. Questa complessità di rapporti si aggrava maggiormente quando si parla di psiche, in
quanto la salute della psiche non consiste tanto nell’assenza di sofferenze psicologiche e conflitti,
ma più generalmente nelle capacità di affrontare e gestire nel corso del proprio ciclo vitale i
cambiamenti, le sofferenze o gli eventi dolorosi che possono intercorrere nell’esperienza di vita.
Un problema centrale dal punto di vista clinico è stato e in parte ancora rimane la definizione di un
confine tra salute psichica e malattia, tra normalità e patologia. A livello descrittivo si può partire
dall`intensità e pervasività della manifestazione sintomatica e dalla possibilità di organizzarla entro
un quadro diagnostico-nosografico, ma ciò non risolve la differenza tra normalità e patologia.
La tradizione positivista del XIX secolo fece proprio il “principio di Broussais”, secondo il quale la
malattia è una variazione quantitativa rispetto alla condizione di salute, un valore in eccesso o in
difetto.
Classicamente la fisiologia si è posta come disciplina medica capace di indagare lo stato di salute,
cosi come la patologia si occupava dello stato di malattia, però mentre in laboratorio si è potuto
scoprire sicuramente qualcosa per l'organismo, così non è stato per la psiche, non si è ancora
costruita una fisiologia sperimentale per la mente.
Il lavoro teorico di Canguilhem é stato prezioso in quanto ha posto di nuovo l’esperienza del
soggetto malato al centro del pensiero medico, notando come sia il patologico a definire il normale
e non viceversa: “La vita di un vivente, fosse anche un’ameba, non riconosce le categorie di salute e
malattia se non sul piano dell’esperienza”, specificando la dimensione della normalità e della salute
secondo una prospettiva biologica. La salute corrisponde a una capacità di essere creativo rispetto
alla propria organizzazione vivente, mentre la malattia uno scacco che la vita può incontrare nel suo
percorso. Il concetto di normalità invece, andrebbe legato ad una norma individuale, cioè relativa al
singolo soggetto in questione., non mescolando questa idea a più soggetti, perchè rispondono a
criteri differenti tra loro. Essere sano infatti non significa soltanto essere normale in una specifica
situazione, ma anche essere normativo. Ciò che definisce lo stato di salute è la possibilità di
superare la norma che definisce il normale momentaneo, la possibilità di tollerare deviazioni alla
media abituale e di istituire norme nuove in contesti nuovi. La normalità risiede nella relatività
specifica di ciascun organismo vivente, così come la patologia risiede nella presenza di altre norme,
meno adeguate alle possibilità adattive del singolo. È per questo che nella specie umana, si rimanda
alla biologia, comprendendo una variabilità di caratteri e parametri all`interno della specie,
consentendone la sopravvivenza, adattabilità, funzionalità. È proprio questa efficienza che può
essere definita salute e quindi la malattia è solo un calo di questa efficienza.
La fisiologia ottocentesca, invece, ha riconosciuto nel concetto di media un equivalente oggettivo
del concetto di norma e normalità: il rischio che una frequenza statistica esprima una normatività
sociale è molto forte, tanto che Canguilhem asseriva “un tratto umano non è normale in quanto
frequente, ma frequente in quanto normale, vale a dire normativo in un genere di vita dato”. Le
ricerche cliniche dell’etnopsichiatria approfondiranno e confermeranno questa intuizione, insieme a
una prospettiva biologica e antropologica secondo la quale, sempre riprendendo il filosofo francese,
“il vivente e l’ambiente non sono normali presi separatamente, ma è la loro relazione che rende tali
l’uno e l`altro”, soprattutto se si considera la specie umana. In questo senso la salute può essere
concettualizzata come un momento di equilibrio, spesso provvisorio, all’interno di un percorso
esistenziale che continuamente, da un punto di vista biologico, si fonda sulle capacità auto-
organizzative del singolo (e della sua cultura) di superare il disordine in modalità nuove e creative:
dal punto di vista psichico non esiste tanto uno stato di salute come assenza di conflitti e sofferenze,
ma la possibilità di affrontare crisi e cambiamenti in maniera funzionale per l’individuo e il proprio
gruppo di appartenenza. Non si deve quindi pensare che lo stato di salute venga alterato perchè
sopraggiunge una malattia, ma ciò avviene a causa di momenti di crisi legati a momenti significativi
per il soggetto stesso, sia come singolo che nei suoi gruppi di appartenenza. Di conseguenza se ci
legiamo a questo un momento di cura si potrebbero provare due differenti situazioni: da una parte la
riorganizzazione di vita del soggetto, dall'altra un periodo si stallo, identificato appunto come la
malattia. E' per questo che è fondamentale la modalità di trattamento di questo periodo di crisi. Da
un punto vista clinico, questo momento critico è quello in cui interviene la scienza medica, con le
sue capacita diagnostiche, nello sforzo di definire e classificare il malessere, al fine di programmare
un trattamento capace di ristabilire l’ordine perduto. In psicologia clinica e in psicoterapia questo
modello è stato oltrepassato e l’idea medicalistica della diagnosi è diventata sempre più complessa
all’interno di una più ampia dimensione di progettualità terapeutica.
Purtroppo è, come abbiamo visto, difficile definire delle categorie di malattie in ambito psichico,
per questo si sono sviluppati numerose tecniche e modalità di intervento, anche perchè il problema
della malattia e della sua cura hanno condizionato il pensiero psicologico-clinico.
La storia della psicologia clinica può essere vista come un lento allontanarsi dai modelli medici
della psichiatria, con l’obbiettivo di rintracciare una propria specificità teorica e operativa, in grado
di fondare un modello teorico psicologico della patologia non copiato da quello medico. L'interesse
della clinica, come già indica il termine, si rivolge direttamente al paziente, l'oggetto di indagine è
appunto il soggetto sofferente che manifesta un disagio o un disadattamento di tipo psicologico,
ascrivibile ai diversi domini concettuali della sofferenza, del disturbo, della malattia. Quindi questa
disciplina si pone un duplice obiettivo: sia di definire dei modelli capaci di comprendere o
interpretare il funzionamento psichico (normale e patologico) del soggetto, sia di gestire interventi e
trattamenti efficaci e pertinenti con il proprio modello di riferimento. Ovviamente la strada per
separarsi dalla discplina medica è stata lunga e anhe a tratti dolorosa, comportando a lungo una
lettura della sofferenza psichica legata a una riduttiva classificazione del disagio in categorie
classificatorie di tipo sintomatico. La ricerca psicologico-clinica italiana ha evidenziato una delle
differenze fondamentali tra pratica psicologico-clinica e pratica medica, cioè la specificità
dell’analisi della domanda che è un processo differente da quello medico. Non si tratta cioè
semplicemente di riconoscere e catalogare i segni ed i sintomi di una malattia, ma di mettere in atto
un processo relazionale che inizia dalla comprensione del tipo di richiesta di aiuto, dall’analisi del
contesto in cui il problema nasce e dall’accordo sulle scelte da effettuare e ovviamente per questo
c'è necessità di una specifica formazione professionale. Inoltre con il termine soggettualità, la
gruppoanalisi ha approfondito e cercato di sistematizzare la centralità del concetto di relazione
come specifico della psicologia clinica: riferendosi sia alla relazionalità del mondo interno degli
individui sia a quella relativa ai campi mentali familiari ed evidenziando come in questa prospettiva
i “campi psichici relazionali” siano interni ed esterni alla psiche soggettiva. La psicologia clinica e
la psicoterapia si rivolgono alla comprensione e alla cura del disagio psichico, come il modello
medico si occupa della cura di un disturbo a base organica. Ciò che differenzia profondamente i1
modello medico da quello psicologico è il mettere in atto una pratica di cura rivolta a una sofferenza
psichica attraverso dei mezzi psichici. Nel modello medico di intervento, la diagnosi e la prognosi
della malattia permettono di definire un protocollo chiaro di trattamento, con l’obiettivo primario di
intervenire sulle cause della condizione patologica, mentre la terapia invece si concentra sulla
rimozione delle cause che generano quel tipo di disturbo nell’organismo.
In linea generale, si può affermare che la sofferenza psichica, il motivo spesso addotto a giustificare
la domanda rivolta allo psicologo clinico, è di fatto costituita da un vissuto emozionale e con questo
si vuole sottolineare il fatto che non è possibile ricondurre allo stesso processo la domanda rivolta al
medico e quella allo psicologo clinico.
In sintesi, quindi:
la patologia si rivela attraverso dei sintomi, di tipo comportamentale, cognitivo
o affettivo, che non rinviano ad una problematica di tipo organico-corporea;
6. la lettura di questo disagio psichico ha bisogno di modelli capaci di chiarire, tramite dati
clinici ed empirici, il funzionamento psichico che guida l’attività mentale dell’individuo.
Questi modelli non rifacendosi al modello medico propongono una propria
sistematizzazione teorica con costanti verifiche che provengono tanto dai dati ottenuti
dall’esperienza clinica quanto dalle conoscenze della ricerca;
7. il tipo di trattamento efficace per la cura della sofferenza psichica si basa sulla coerenza con
i principi del proprio modello di riferimento, così come la verifica della guarigione.
La definizione delle caratteristiche dei disturbi psichici è stabilita entro uno specifico modello
interpretativo, guidandone gli stessi criteri di cura e guarigione. Negli ultimi venticinque anni, la
clinica dei disturbi mentali ha generato un sistema classificatorio in grado di garantire una lingua
comune agli operatori della salute mentale, che risulta oggi largamente diffuso nel mondo
occidentale. Si tratta di un manuale che fonda sulla descrittività statistica e sintomatica un modello
nosografico della patologia mentale, rinunciando a qualsivoglia definizione teorica della
psicopatologia. Questo però non deve divenire l'unica forma di lettura sulla dofferenza mentale,
perchè sarebbe riduttivo e non aiuterebbe comunque nella reale e continua ricerca della definizione
di un trattamento del disturbo stesso e nella comprensione della sua genesi. Si può cioè essere
d’accordo sul definire alcune caratteristiche sintomatiche come tipiche di un determinato disturbo,
ma non poi sulla lettura clinica del caso e sul migliore trattamento terapeutico possibile. Il gap tra
questi due momenti sembra essere indicativo della riduttività di una classificazione della patologia
che tenga conto soltanto delle manifestazioni sintomatiche.
Una sempre più consistente corrente teorica e di ricerca sta tentando di creare alcune possibilità di
integrazione dei modelli psicoterapeutici, basandosi sul riconoscimento di diversi fattori comuni
alle differenti psicoterapie, riferiti sia al terapeuta sia al paziente e all’alleanza terapeutica, per
cercare di trovare un linguaggio comune che permetta il dialogo e il confronto tra le parti. Purtroppo
però gli ostacoli sono numerosi e fanno mantenere una situazione di forte autoreferenzialità sui
modelli di lettura dei disturbi psichici e sui metodi di cura disponibili.
Rispetto alla lettura della psicopatologia, permane una differenza sostanziale tra sistemi diagnostici
nosografico-descrittivi e interpretativo-esplicativi: il primo è volto alla classificazione dei
comportamenti sintomatici del soggetto; nel secondo sistema, invece, il sintomo è solo un punto di
partenza o di comunicazione di un disturbo interiore, “perché la potenza del sistema si esprime
proprio nel ‘leggere dietro’ il materiale osservativo per costruire un’interpretazione eziologica”. A
livello clinico quindi nel primo caso il clinico si muove in uno spazio di pensiero volto
all’individuazione e alla classificazione dei comportamenti sintomatici, al fine di individuare da
quale disturbo sia affetto l’individuo; nel secondo caso l’attenzione è rivolta alla totalità della
situazione relazionale dell’incontro tra clinico e individuo sofferente.
Il binomio individuo-malattia, tipico del pensiero medico, sembra quindi mostrare parecchi limiti
nel caso della comprensione della sofferenza psichica, la quale acquista un senso (e una possibilità
di cura) all`interno di una rete relazionale, sincronica e diacronica, attuale e generazionale, interna
ed esterna, in cui si è sviluppata in un tempo storico specifico e irripetibile, e che nell’incontro con
il clinico può trovare una possibilità di ri-significazione o di rischiosa patologizzazione. Tutto
questo con l'obiettivo di allargare l’orizzonte di lettura e comprensione della sofferenza psichica in
una direzione che sappia andare anche oltre i confini corporei e intrapsichici dell’individuo,
osservando sia la dimensione interna legata alla situazione psichica del soggetto sia quella esterna e
contestuale presente nella vita e nel setting di cura, nella convinzione che tale passaggio possa
consentire una più ampia possibilità di presa in carico dei pazienti e un più efficace lavoro di
trasformazione e cura.
Negli ultimi anni la pratica psicoterapeuta è decisamente e profondamente cresciuta, sia a livelli di
modelli che di formati di somministrazione e trattamenti integrativi. Questa complessa articolazione
consente, oggi, di curare un numero più esteso di persone e in maniera più appropriata, con
maggiore consapevolezza dei propri limiti, e pertanto con interventi adeguatamente combinati.
Per approfondire il discorso sulla cura dobbiamo distinguere la nevrosi e la psicosi. Nel caso della
nevrosi possiamo dire che gli strumenti delle psicoterapie analitiche, cognitive, supportive,
individuali e di gruppo possono dare una risposta, sia pure abbastanza diversificata, riguardo a
obiettivi, tempi e risultati. In questo caso, molto spesso, il paziente è autonomo e capace di lavorare
sul suo disturbo e sicuramente, a seconda di come svolgerà la cura, supererà i sintomi. Inseriamo
in questo gruppo anche patologie, oggi sempre più diffuse, quali i disturbi d’ansia, i lievi disturbi di
personalità, i disturbi del comportamento alimentare, le situazioni con nuclei psicotici o narcisistici
limitati e non travolgenti la personalità, le situazioni in cui sono presenti difficoltà a vivere una vita
relazionale affettivamente coinvolgente. Particolare attenzione deve essere posta alle fasi iniziali
della psicoterapia, calibrando il setting in funzione dei problemi psicopatologici del soggetto.
Prima di parlare della psicosi, invece, bisogna soffermarsi sulla comprensione di quanto il mondo
della salute mentale ritenga che queste patologie siano più o meno curabili e comprensibili, tanto è
vero che molto spesso i pazienti vengono rimbalzati da un sistema di cura all'altro, senza un vero
progetto, o solo parziale, con la convinzione che non se ne possa mai “guarire”. Con i pazienti che
presentano una patologia psichiatrica grave, invece, soprattutto se cronicizzata, gli obiettivi più
importanti dell’intervento sono: la rivitalizzazione, l’integrazione sociale e/o lavorativa, il
contenimento farmacologico, la permanenza nel familiare ecc.
Nell’ambito della clinica gruppoanalitica italiana interessanti risultati sono stati ottenuti con
trattamenti integrati e progressivi. La gestione di questi casi richiede una serie di condizioni
preliminari che, se ottemperate, consentono di perseguire miglioramenti anche significativi. In
primo luogo, è necessaria la disponibilità di un terapeuta esperto, disponibile a mettersi in
discussione, a tollerare le difficoltà, capace di coordinare tramite scambi e supervisioni una rete
curante. È necessaria, altresì, la presenza di un gruppo di operatori e psichiatri disponibili a un
autentico scambio relazionale con l`umiltà di sapere che da solo nessuno può farcela. Determinante,
inoltre, è la tempestività del trattamento che, possibilmente, dovrebbe essere intrapreso nelle fasi di
esordio della malattia, quando un trattamento adeguato è ancora in grado di contenere la psicosi e di
restituire al paziente la possibilità di esserci e di pensare, attraverso una psicoterapia, alle emozioni,
al terrore che hanno prodotto, all’esperienza di considerarsi “matto e distruttivo", e a superare la
convinzione che egli non potrà mai vivere come gli altri. Decisiva, infine, è la disponibilità della
famiglia ad affrontare i costi non solo economici ma soprattutto emotivi di tutto ciò. Il timore di una
famiglia che ha vissuto i momenti terrificanti della follia e, a volte, anche della violenza può
colludere con il timore, anch`esso comprensibile, di una psichiatria pessimista per la quale l’unica
speranza, in effetti spesso importante, è tenere “le cose calme”. Anche in questo ambito buone
possibilità sono date dai trattamenti di gruppo e con alta interconnesione con ogni sistema, sia
medico che relazionale. I maggiori risultati sono ottenuti proprio da quei pazienti che hanno
affrontato cure così intersecate tra loro e per una parte di essi si può addirittura parlare di
guarigione.I costi di questi interventi, che richiedono ai curanti competenze elevate, tenacia e una
forte etica della cura, sembrano apparentemente elevati, ma a pensarci bene essi sono irrilevanti
(anche in termini economici) rispetto ai costi individuali, familiari e sociali di una vita fatta di
disperazione e angoscia, segnata dal ricorso continuo ai farmaci, dalle ripetute e drammatiche
esperienze di ricovero, dal mancato lavoro, dalle pratiche di sussidio, nonché dalla diffusione
dell’angoscia della malattia psichiatrica a tutta la famiglia.
Una lettura multipersonale della sintomatologia, ci può quindi aiutare a comprendere la necessità di
calibrare gli interventi sui molteplici livelli della relazionalità e a pensare progetti che non
frammentino (ulteriormente) la realtà mentale e socio-relazionale del paziente psicotico, l’Io dal
Noi e che nel caso delle nevrosi aiutino il paziente a sciogliere le maglie dei familiari e/o
interpersonali che lo costringono dentro legami mortiferi ostacolando il sano sviluppo e
l’indipendenza.
La gruppoanalisi, sganciandosi da una visione individualistica della persona e della patologia,
propone una lettura relazionale della sofferenza come evento che acquista senso solo all’interno
delle relazioni familiari, istituzionali, culturali, comunitarie ecc. in cui il paziente è inserito. Per
questo ha rilievo la cura di gruppèo che si è sviluppata negli ultmi anni e che accresce il valore della
relazione oltre che diversificarlo dall'unico clinico-paziente. Negli ultimi vent’anni, inoltre,
l’evoluzione dei diversi dispositivi gruppali (gruppi focali, a breve termine, a tempo determinato,
monosintomatici ecc.) ha ampliato molto l’applicabilità di questo modello a diversi contesti, anche
istituzionali e con obiettivi differenti da quelli terapeutici in senso stretto. Molte volte, nei pazienti
più gravi, la psicoterapia è l'ultima spiaggia, un punto di arrivo, quando il resto dei rapporti, anche
familiari, e altri metodi hanno già o anche fallito. La guarigione in questo senso, è possibile solo
attraverso un progetto costruito sull'individuo stesso e su cioò che ha intorno.
MODULO 3. LA CURA MULTIPERSONALE: PRENDERSI CURA DELLE RELAZIONI
3.1. La cura e la guarigione in Freud
La possibilità di una cura dei disturbi psicologici attraverso metodi psicologici ha inizio, solo con
l`opera freudiana, che fonda un metodo di trattamento basato sulla relazione tra:
paziente
terapeuta.
Questa relazione è oggi un punto di confronto essenziale per tutte le terapie che si rifanno a un
orientamento psicodinamico.
Inizialmente Freud vedeva il lavoro dell’analista come quello dell’archeologo o dell’ermeneuta e
cioè colui capace di riportare alla luce tutto il materiale che il paziente aveva rimosso. Infatti il
lavoro della cura psicoanalitica viene paragonato a “un’arte dell’interpretazione” in quanto:
da una parte vi era la produzione inconscia del paziente;
dall’altro l’interpretazione dell’analista volta a chiarificare il senso della produzione del
paziente.
Il mezzo privilegiato della terapia psicoanalitica è la “parola”: attraverso il potere e il sapere che
questa veicola diviene possibile una nuova modalità di curare i pazienti con disturbi psichici.
Nel percorso che porta alla definizione di un nuovo modello di cura, Freud tornerà diverse volte sui
propri passi, abbandonando teorie precoci che non trovava più utili nella sua pratica clinica. Il
modello dopo venne arricchito dalle risonanze emotivamente coinvolgenti che le pazienti isteriche
stimolavano in lui (come prima nel collega Breuer). La scoperta della dimensione transferale nei
colloqui psicoanalitici fa entrare nella relazione terapeutica affetti e passioni. Il transfert diviene il
maggior alleato della cura. La terapia psicoanalitica si centrerà progressivamente al superamento
di difese e resistenze. Il transfert del paziente sul terapeuta
da un lato rappresenta un alleato capace di facilitare il processo di cura
dall’altro è anche “a resistenza più forte al cambiamento che ostacola il lavoro analitico.
Nelle esperienze terapeutiche di Freud il tema della cura è il sapere: il malato “soffre di
reminiscenze” e il sapere dell’analista su questi ricordi conduce alla guarigione.
Lacan afferma che l’analista è colui che ha il sapere, che possiede ciò di cui il malato si ritiene
mancante, il sapere sulla propria malattia. Proprio l’esperienza terapeutica con le pazienti isteriche
renderà più complesso e controverso il rapporto tra conoscenza di sé e guarigione nell’analisi.
Questo a partire da una rivisitazione del significato del sintomo rispetto alla malattia. Il sintomo,
nelle pazienti freudiane, non sembra essere solo la manifestazione di un malessere del quale il
soggetto vuole liberarsi, ma ha con esso un rapporto quantomeno ambiguo: un paziente può
essere motivato a ricercare una cura per guarire dai sintomi della malattia, ma, una volta iniziato il
trattamento, mostra verso questi una resistenza ad affrontarli e verso la guarigione.
Perciò il rapporto tra soggetto e sintomo ci porta a rileggere i concetti di malattia e salute.
A partire dalla psicoanalisi il sintomo recede quasi sullo sfondo, per lasciare emergere in figura
quella che è la produzione inconscia del soggetto, attraverso la quale sarà poi possibile attribuire
un significato al sintomo stesso. Il fine del trattamento diverrà la guarigione pratica del malato, il
recupero delle sue capacità di prestazione e di godimento. La guarigione si lega al funzionamento
delle strutture di personalità interne all’individuo. Il processo di cura e l’esito della guarigione
divengono variabili legate al modello specifico che le ha prodotte non essendoci, nel campo delle
teorie psicologiche, la possibilità di una definizione condivisa dell’eziologia e della patogenesi del
disturbo psichico. Così come per la psicoanalisi, ogni modello di intervento psicoterapeutico
possiede dei propri criteri in base ai quali stabilire come un soggetto vada curato e quando possa
considerarsi guarito.
La psicoanalisi apre il discorso scientifico sulla cura a prospettive nuove rispetto a quelle mediche
degli inizi del XX secolo.
da un lato la guarigione non segue un percorso oggettivo, ma un processo che acquista
senso dentro una determinata prospettiva teorica che stabilisce i confini del normale e del
patologico.
Il processo di cura diviene un dialogo ermeneutico che coinvolge il terapeuta e quella del
soggetto sofferente.
La lettura ermeneutica di Trevi è stata una delle più stimolanti nel panorama psicoanalitico italiano
degli ultimi anni. In psicoterapia, la personalità del terapeuta risulta come fattore determinante
per la guarigione, essa rappresenta il massimo risultato da lui raggiunto.
La psicoterapia non è una prospettiva unilaterale come sosteneva Jung.
Storicamente, i due grandi teorici fondatori dei gruppi terapeutici, Bion e Foulkes, hanno attribuito
un peso differente al rapporto individuo/gruppo, fondando anche due metodi differenti per
leggere i processi evolutivi e trasformativi del gruppo e i suoi fattori terapeutici:
Bion é legato all’immagine del gruppo come totalità dinamica;
per Foulkes il gruppo è costituito dalla molteplicità di relazioni tra i suoi membri.
Il gruppo è il contesto in cui l’esperienza personale del singolo trova spazio e significato nel
rapporto con gli altri membri. Questo scambio relazionale avviene secondo modalità specifiche che
si differenziano dall’esperienza relazionale vissuta nella relazione duale.
Un paziente racconta in gruppo una propria esperienza dolorosa. Da tale narrazione può esserci:
una condivisione del dolore, basata sull`avere vissuto esperienze simili, che attiva un
senso di vicinanza ed empatia, rafforzando il legame con il gruppo;
una condivisione negativa e che attiva in un partecipante un allontanamento mentale da
quell’emozione dolorosa, rabbia, fastidio, aprendo però, al contempo, possibilità di
generare nuovi spazi di riflessione su di sé in relazione all’altro.
Il gruppo, in questo senso, è un grande spazio teatrale, in cui le figure e i personaggi presenti nella
propria esperienza si trovano a venire fuori, interagendo e relazionandosi con l’altro. A differenza
della terapia duale, le proprie modalità relazionali si attualizzano nella relazione con gli altri,
diventano visibili al singolo e al gruppo.
Da qui il fenomeno del rispecchiamento (mirroring) di gruppo relativo al vedere rispecchiati e
riflessi nell’altro i propri comportamenti, gesti, parole, atteggiamenti. Gli altri sono potenziali
specchi riflettenti (e deformanti) i propri contenuti emotivi, positivi e negativi, che rimandano al
singolo un’immagine delle impressioni da lui suscitate negli altri. Lo specchio permette una
visualizzazione immediata nell’altro di emozioni o modelli relazionali più o meno consapevoli e
accettati.
Se il gruppo è ormai riconosciuto come un potente agente terapeutico con pazienti con una salda
struttura del Sé e con pazienti psichiatrici gravi, ancora dubbi ci sono rispetto al suo utilizzo con
pazienti con gravi disturbi di personalità, che hanno forti difficoltà nello scambio e nelle relazioni
con l’altro. In questi casi il gruppo può essere:
un alleato
un impedimento alla terapia.
Compito del terapeuta è pensare quale specifico paziente può trarre giovamento da un
determinato tipo di gruppo. La cura del disagio psichico non corrisponde solo alla guarigione dai
sintomi della malattia, ma all’acquisizione di modalità relazionali sane che permettano al paziente
di potere esperire rapporti gratificanti all’interno del proprio ambiente di vita e dei gruppi di
riferimento significativi, per cui il gruppo terapeutico diviene strumento di trattamento specifico,
proprio perché si fonda sulla condivisione e scambio dell’esperienza con l’altro.
Nel modello gruppoanalitico la concezione del prendersi cura non è più, come nel pensiero
foulkesiano delle origini, relativo soltanto alla tecnica del trattamento in gruppo, ma si è aperta alla
complessità della definizione multipersonale di un progetto terapeutico.
Tesi di base delle terapie gruppoanalitiche è che la sofferenza psichica è una aspetto che attiene al
mondo relazionale interno ed esterno dell’individuo paziente e non qualcosa relativo alla
dimensione individualistica. La sofferenza psichica può essere pensata come qualcosa che riguarda
i rapporti tra soggetti. La guarigione è perciò la una trasformazione che riguarda proprio le
modalità relazionali del soggetto.
Lo Verso afferma che la cura consiste nel prendersi cura delle relazioni del soggetto e non di un
organo malato.
Se il disturbo psichico è qualcosa che riguarda le relazioni del soggetto, la terapia deve essere
pensata come un processo che regola le relazioni del soggetto.
La sofferenza psichica è spesso condizionata dalla rigidità e dal restringimento di senso delle
connessioni tra i propri livelli di esperienza, fino a divenire angoscianti.
Esistono diversi gradi e livelli di patologia e sofferenza psichica i cui estremi sono:
il disturbo nevrotico
quello psicotico.
Più è grave e acuta la sofferenza, minori sono le possibilità e le risorse a disposizione del soggetto
di poter essere aiutato in una relazione duale chiusa in sé. Se un soggetto che presenta un livello di
disturbo “nevrotico”, con una buona struttura dell’lo e un’integrata percezione di sé, sarà in grado
di acquisire consapevolezza del proprio problema, richiedere un aiuto terapeutico e.
Non è facile che ciò avvenga con soggetti con un livello di sofferenza maggiore. È molto più difficile
che ciò avvenga per esempio con soggetti con gravi disturbi della personalità o psicotici. In questi
casi la relazione terapeuta-paziente non può essere sufficiente. Perciò diventa essenziale una
competenza alla cura che non si risolve, come nel modello medico, nella prescrizione di una
terapia, ma che prevede inizialmente un progetto terapeutico. E questo è qualcosa di molto più
complesso della semplice diagnosi in quanto necessita della capacita del clinico di definire quale
setting di cura possa essere più adeguato per la specifica situazione.
Nella fase iniziale di un progetto di cura può essere utile contattare le diverse figure che possono
aiutare il clinico nella definizione dell’intervento: familiari, colleghi che in passato hanno svolto un
lavoro terapeutico con quel soggetto.
Alla terapia non può essere applicata un rigido modello ma ha bisogno di un piano di lavoro idoneo
alla situazione clinica. perciò imodelli integrati di trattamento si rivelano sempre maggiormente
utili nel lavoro di cura con soggetti gravi o medio-gravi. Da questo punto di vista si evince come stia
cambiando il mondo della cura dei disturbi psicotici.
La cura della malattia mentale grave ha sempre prodotto percorsi di esclusione sociale. Questi
temi, in Italia furono per esempio portati avanti da Basaglia. Il problema si è spostato in questi
decenni dall’attribuzione di colpa alla società che esclude il malato di mente, marginalizzandolo,
dai processi di produzione, per aprirsi alla comprensione del perché le pratiche di cura psicologico -
psichiatriche possano contribuire a generare esclusione sociale.
Recentemente sono stati condotti esperimenti di psichiatria di territorio capaci di progettare una
possibilità di guarigione del paziente schizofrenico attraverso un intervento complesso prevedesse
un percorso di inclusione sociale e sviluppo locale. Si tratta di un percorso che prova a spostare sul
sociale alcuni terreni di cura finora ritenuti ascrivibili solo alle mura delle strutture psichiatriche,
psicoterapeutiche e legate alla persona del terapeuta.
L’obiettivo del percorso di cura è quindi ben differente dalla guarigione dalla malattia schizofrenica.
Questo percorso è lungo e difficile: ma l’ostacolo non è solo, sociologicamente, nel sociale che lo
impedisce, ma spesso nell’incapacità professionale a creare setting di cura capaci di porsi un
obiettivo terapeutico più complesso di quello della guarigione sintomatica (spesso transitoria) dalla
malattia, legata a un qualche agente causale, sia psichico, inconscio o neurotrasmettitoriale.
Nel lavoro di cura la questione cruciale e difficile consiste nell’elaborazione di setting specifici per i
singoli pazienti e la costruzione di una progettualità terapeutica. In questo senso, il setting
comprende anche l’assetto mentale del terapeuta o dell’istituzione curante.
La terapia di gruppo costituisce lo strumento elettivo di trattamento del modello gruppoanalitico.
La centralità della terapia di gruppo è basata sulla ricerca empirica e clinica, legati all’efficacia, ai
costi, ai tempi, ma anche alle potenzialità di vivere un’approfondita e autentica possibilità
relazionale e di pensiero su di sé e sull’altro. A questo si aggiunge la possibilità per i professionisti
nel privato o nel pubblico di trovare un “senso curante” che coniughi il soggettivo con il
multipersonale e il transpersonale.
Naturalmente non tutti possono trarre giovamento da questa terapia: per esempio i casi di gravi
disturbi cognitivi, paranoidei, narcisistici o depressivi, di situazioni familiari o sociali molto
problematiche o delle psicosi strutturate.
In linea generale però essendo il gruppo un’esperienza terapeuticamente efficace, ricca in termini
umani e relazionali e meno costosa rispetto ad altri trattamenti, non si vede perché, quando è
possibile, non debba essere una terapia diffusa.
La Psicoterapia a Tempo-Limitato di James Mann delinea un trattamento che dura per 12 sedute
La terapia ha un limite di tempo di 16 sedute che è comunicato al paziente prima dell’inizio del
trattamento. Altre psicoterapie brevi non sono così specifiche, ma tutte generalmente informano il
paziente che la terapia durerà per alcuni mesi ma non più di un anno. Lo scopo del sollievo dal
sintomo e alcuni cambiamenti del carattere sono ottenuti rivolgendosi ad uno, e solo uno, aspetto
o segmento importantissimo dello stile caratteriale disadattivo del paziente. La PPB è caratterizzata
dall’abilità del terapeuta di identificare un’area significativa, importantissima e cruciale. Attraverso
piccoli cambiamenti in un'area circoscritta si verificano cambiamenti nel funzionamento.
Vi sono vari tipi di psicoterapia breve:
Psicoterapia focale breve: elaborata dal gruppo di Michael Balint alla clinica Tavistock di Londra
negli anni 50. Daniel Malan, un membro del gruppo, fu il primo a descrivere i risultati di questa
terapia delineandone i criteri di selezione: la chiara valutazione della psicopatologia del paziente e
la capacità del paziente di riflettere sui problemi in termini emozionali, di affrontare argomenti
minacciosi, di rispondere alle interpretazioni e di sopportare lo stress della terapia. Malan mostrò
che una forte motivazione al trattamento si correlava con un esito positivo. Indicò come
controindicazioni al trattamento i tentativi di suicidio, la dipendenza da sostanze, l'abuso cronico di
alcool, i sintomi ossessivi cronici incapacitanti, i sintomi fobici cronici incapacitanti e le gravi
manifestazioni distruttive o autodistruttive.
Psicoterapia a tempo limitato Un modello psicoterapeutico di 12 sedute focalizzate su un tema
centrale specifico elaborato all'università di Boston da Mann e dai suoi collaboratori nei primi anni
70. I punti principali, che Mann considera importanti, sono la determinazione di un conflitto
centrale, le crisi di maturazione con vari disturbi psichici e somatici. Mann ha stabilito anche alcune
criteri di esclusione che riguardano il disturbo depressivo maggiore che interferisce con l'accordo
sullo scopo e le modalità del trattamento, lo stato psicotico acuto e i pazienti disperati che
necessitano di relazioni oggettuali, ma non le sanno tollerare.
Psicoterapia dinamica a breve termine: la psicoterapia dinamica a breve termine comprende tutti i
tipi di psicoterapia breve e di intervento sulla crisi. I pazienti nelle sedute di Davanloo sono
classificati come soggetti con conflitti psicologici prevalentemente edipici, con conflitti non edipici e
con conflitti con più di un elemento focale. Inoltre Davanloo elaborò una specifica tecnica
psicoterapeutica per pazienti con problemi nevrotici gravi e persistenti, soprattutto se affetti da
disturbi ossessivo-compulsivi e fobie incapacitanti. I criteri di selezione di Davanloo sottolineano la
valutazione di quelle funzioni dell'ego che sono di fondamentale importanza per il lavoro
psicoterapeutico come l'individuazione di un focus psicoterapeutico, la formulazione psicodinamica
del problema psicologico del paziente, la capacità di essere coinvolti nell'interazione emozionale
con chi elabora la valutazione, la storia di una relazione di compromesso con una persona
significativa nella vita del paziente, la capacità del paziente di avvertire e gestire l’ansia, il senso di
colpa e la depressione, la motivazione del paziente al cambiamento, la sensibilità del paziente ai
problemi psicologici e la sua capacità di rispondere all'interpretazione e di collegare il clinico con
persone del presente e del passato. Sia Malan che Davanloo pongono l'accento sulla risposta del
paziente all'interpretazione e la considerano sia un importante criterio di selezione sia un criterio
prognostico.
Psicoterapia a breve termine generatrice d'ansia: sviluppata inizialmente al Massachusetts
General Hospital da Sifneos negli anni 50. Sifneos utilizza diversi criteri di selezione per i pazienti
come la capacità di circoscrivere il disturbo principale ; la presenza di una relazione significativa o
di compromesso nella prima infanzia; la capacità di interagire in modo flessibile con il clinico e di
esprimere i propri sentimenti in modo adeguato; un grado di raffinatezza psicologica superiore alla
media (ciò implica non solo un'intelligenza superiore alla norma, ma anche la capacità di
rispondere alle interpretazioni); una nucleo psicodinamico specifico (di solito una serie di conflitti
psicologici alla base delle difficoltà del paziente e centrate su un focus edipico); un contratto tra
paziente e terapeuta per lavorare sul focus specifico e la formulazione di aspettative minime di
risultato; una motivazione buona per il cambiamento e non solo per ottenere un sollievo
sintomatico.
Psicoterapia interpersonale. Un tipo specifico di psicoterapia a breve termine, descritta da
Weissman e Klerman, che tratta disturbi depressivi. La terapia consiste di sedute settimanali di 45-
50 minuti con una durata di 3-4 mesi. Il comportamento interpersonale è considerato come causa
di disturbi depressivi e come metodo di cura. Si insegna ai pazienti a valutare realisticamente le
proprie interazioni con gli altri e a diventare consapevoli di come si isolano. Il terapeuta offre
indicazioni specifiche, aiuta il paziente a prendere decisioni e lo aiuta a chiarire aree di conflitto.
Gli elementi comuni di tutti questi tipi di psicoterapia breve superano di gran lunga le loro
differenze. Questi comprendono l'alleanza terapeutica o il rapporto dinamico tra il terapeuta e il
paziente, l'uso del transfert, l'interpretazione attiva di un focus terapeutico o nucleo centrale, i
legami tra problematiche parentali e di transfert e il termine precoce della terapia. I risultati di tali
trattamenti brevi sono stati studiati ampiamente in termini di ricerca più che in ogni altra forma di
psicoterapia. Contrariamente alle idee secondo cui i fattori terapeutici nella psicoterapia sono
aspecifici, studi controllati e altri ricerche di valutazione indicano l'importanza delle tecniche
specifiche usate.
Malan descrisse i risultati ottenuti con la psicoterapia breve attraverso cinque generalizzazioni:
La capacità di reale guarigione in certi pazienti è molto più ampia di quanto si pensasse.
Un certo tipo di paziente sottoposto a psicoterapia breve può trarre beneficio dall’esame
pratico del suo conflitto nucleare nel transfert.
Tali pazienti possono essere individuati preventivamente attraverso un processo di
interazione dinamica, poiché sono responsivi, motivati e in grado di affrontare sentimenti
disturbanti, e per essi è possibile definire un focus circoscritto.
Quanto più la tecnica è forte in termini di transfert, profondità di interpretazione e
collegamento all'infanzia; tanto più forti saranno gli effetti terapeutici.
All’interno di un gruppo si possono distinguere tre fasi che ne caratterizzano il suo funzionamento:
la fase iniziale in cui i vari membri del gruppo si conoscono e si riconoscono dove si costruisce il
senso di appartenenza al gruppo. La fase centrale di stabilità del gruppo in cui si evidenziano le
dinamiche di potere che si sviluppano nel gruppo. Infine la fase terminale, molto delicata, in cui si
ci si impegna nell’elaborazione della separazione dal gruppo.
Il gruppo presenta specifiche caratteristiche che facilitano lo sviluppo di relazioni, la nascita di
legami identificativi, la creazione di una cultura comune e potenti meccanismi trasformativi. Il
gruppo, infatti, non è la semplice somma degli individui che lo compongono, è attraversato da
dinamiche che hanno un effetto moltiplicatore delle energie umane in esso presente. Il gruppo è,
infatti, al tempo stesso, sia un contenitore, sia un’esperienza. Di conseguenza i gruppi
psicoterapeutici hanno proprietà curative proprie che superano il senso di alienazione,
l’isolamento sociale e la possibilità di condividere il proprio disagio con altre persone.
L’elaborazione delle vicende soggettive avviene in relazione a quanto accade nel gruppo e ai
fenomeni che nello stesso si manifestano, pertanto ogni evoluzione e crescita personale diviene un
elemento utile e potenzialmente trasformativo per tutti.
La terapia di gruppo, infatti, non si basa unicamente sulla relazione tra terapeuta-gruppo ma
prende in esame il gruppo familiare, il gruppo di lavoro, il gruppo di amici, il gruppo allargato della
società che ogni paziente ha interiorizzato dentro di sé. In psicoterapia di gruppo la relazione è
stabilita direttamente con “l’alterità” cioè con il gruppo. “Il setting di gruppo offre la possibilità ai
partecipanti di ricreare in una sorta di microcosmo le relazioni parentali e significative ed è
possibile vederle nel “qui ed ora”, dal vivo. Ciò costituisce una forte spinta al cambiamento, che
attraversa i piani di esperienza di sé, della propria storia familiare, relazionale e culturale”.
Succede spesso che il gruppo si integri con una psicoterapia duale, in tal modo i pazienti possono
vivere e comprendere meglio alcune caratteristiche delle loro relazioni in una situazione che è al
tempo stesso naturale e complessa rispetto alla all’interazione a due tipica della psicoterapia
classica. Secondo Yalom, esistono dei fattori terapeutici universali che vanno al di là degli approcci
teorici usati dallo psicoterapeuta:
universalità: il paziente prova sollievo nel capire che tutti i suoi sintomi possano essere
condivisi;
instillazione di speranza: l’incoraggiamento tra i vari componenti del gruppo mobilità
l’ottimismo tra i partecipanti e la sensazione di potercela fare;
cambiamento del copione familiare: i pazienti nel gruppo possono rielaborare la storia del
proprio gruppo originario, la famiglia, e di compiere riflessioni, valutazioni mai tentate
prima, attraverso il costante confronto tra gruppo terapeutico e gruppo familiare;
altruismo: tutte le azioni altruistiche che si verificano nel gruppo consentono un aumento
dell’autostima e di reciproco aiuto che risultano essere fattori terapeutici;
sviluppo di tecniche di socializzazione: il gruppo svolge una fondamentale funzione di
specchio. I partecipanti attraverso feedback e risposte aiutano e sono aiutati
nell’acquisizione di una più accurata autopercezione;
comportamento imitativo: ogni paziente ha la possibilità di osservare e prendere a
modello gli aspetti positivi del comportamento degli altri partecipanti e del terapeuta;
apprendimento interpersonale: ogni partecipante, per migliorare la propria patologia, deve
attraversare diversi stadi. In primo luogo è indispensabile rendersi conto delle proprie
modalità di interazione sociale e delle conseguenze che esse hanno sugli altri e su se
stesso, quindi, deve modificare tali modalità, attraverso la sperimentazione, nel gruppo, di
nuovi comportamenti e infine deve verificare se essi risultano effettivamente più adeguati e
rispettosi per tutti;
coesione di gruppo: i partecipanti sperimentano la sensazione che qualcosa di importante
sta per avvenire all’interno di un contesto protetto e accogliente. La coesione di gruppo
altro non è che la percezione dell’esistenza di un setting o un contenitore le cui “pareti”
sono formate dai vari membri e dalla loro voglia di far parte del gruppo;
catarsi: il contesto gruppale sviluppa la potenzialità liberatoria attraverso
l’immedesimazione nell’altro e nelle sue problematiche;
fattori esistenziali: non costituiscono di per se un fattore di cambiamento ma una
consapevolezza necessaria affinché gli eventi avversi della vita possano essere vissuti con
meno drammaticità. Essi comprendono la responsabilità, la solitudine, il senso
dell’esistenza, la morte.
Tipologie di Gruppi
Esistono diverse tipologie di gruppi:
Gruppi direttivi/gruppi non direttivi: nel primo il clinico organizza la comunicazione tra i
membri stabilendo tempi e ritmi delle domande e delle risposte.
Nei gruppi non direttivi la comunicazione tra le persone è abbastanza libera, il terapeuta
interviene solo quando lo ritiene necessario, o per evidenziare alcuni contenuti.
Gruppi chiusi/gruppi aperti: gruppo chiuso cioè una volta che il gruppo si è fondato non
possono entrare nuovi pazienti ed il numero dei partecipanti può diminuire se si verifica
qualche abbandono ma non può aumentare; il lavoro ha una data di inizio ed una di fine
prestabilite, che tutti i partecipanti devono rispettare. Nel gruppo semi-aperto nel caso in
cui qualche membro abbandona, il gruppo insieme al terapeuta accetta di far entrare
nuove persone nel gruppo, ciò al fine di mantenere invariato il numero rispetto all’inizio.
Infine il gruppo aperto che può prevedere nuovi ingressi e quindi il numero dei partecipanti
non è rigido ma fluttuante, sia pure obbedendo ad un criterio di funzionalità circa il numero
globale dei partecipanti per non mettere in crisi la capacità di lavorare del gruppo.
Gruppi omogenei/gruppi disomogenei: i gruppi omogenei sono composti da persone che
presentano uno stesso problema, in quelli disomogenei, invece, ci sono persone con
problematiche diverse.
Gruppi verbali/gruppi agiti: nei gruppi verbali le emozioni si esprimono attraverso la
parola, nei non verbali, invece, le emozioni possono essere messe in atto tramite giochi di
ruolo.
Gruppi di mutuo-aiuto: la caratteristica principale di tali gruppi è che non c’è uno
psicoterapeuta a guidare il gruppo ma un facilitatore, ossia una persona che ha già trattato
e elaborato in gruppo lo stesso problema e lo ha superato (es. alcolisti anonimi).
Lo Psicodramma Analitico: i partecipanti “drammatizzano” un evento di vita di un membro
del gruppo, che è emerso durante la discussione collettiva. Ciascuno recita uno dei
personaggi, il protagonista recita sia se stesso che il ruolo antagonista. Al termine
dell’esperienza in gruppo ognuno rimanda i propri vissuti per poi dare spazio ad un
dibattito collettivo.
I gruppi possono essere di 3 tipi, classificati in basi alle quantità numeriche:
piccoli gruppi (fino a 10 persone )
gruppi medi (fino a 20 persone )
grandi gruppi (oltre le 20).
La psicoterapia di gruppo, nelle sue varie accezioni, si muove su tre dimensioni principali:
l’analisi di gruppo (Bion, Ezriel): Nel primo caso, le dinamiche interattive ed il materiale
clinico portato dai componenti del gruppo analitico si concentrano sull’analisi del gruppo in
quanto tale (più che dei suoi componenti);
l’analisi in gruppo (Slavson, Wolf): nel secondo, il focus è sull’analisi individuale dei singoli
componenti, facilitat o dai processi interattivi del gruppo;
l’analisi attraverso il gruppo (Foulkes): nel terzo, l’analisi si pone in una posizione
intermedia, in cui si approfondiscono sia i processi individuali attraverso il gruppo, sia quelli
del gruppo attraverso i contributi dei suoi componenti.
Esistono, infine, gruppi che non hanno obiettivi terapeutici, ma sono gruppi di confronto e
esplorazione vengono chiamati gruppi di discussione o gruppi tematici.
Ci sono differenti modelli terapeutici di intervento nei gruppi, tra cui il modello gruppoanalitico.
La gruppoanalisi è una tecnica terapeutica psicoanalitica che si sviluppa nel contesto culturale
della psicologia di gruppo e che si arricchisce del contributo psicoanalitico essenzialmente dopo la
Seconda Guerra Mondiale.
Trigant Burrow a coniò il termine di gruppoanalisi, definendola l’analisi del gruppo immediato nel
momento immediato. Per Burrow “l’enfasi è posta sull’analisi del “qui ed ora”, ed ogni membro del
gruppo, incluso l’analista, è allo stesso momento osservatore dei suoi stessi processi e osservato
dagli altri membri del gruppo; l’analista quindi non gode di una posizione privilegiata”.
La gruppoanalisi prende come punto di partenza il gruppo e sviluppa a partire da esso la propria
teoria e tecnica.
Il primo a parlare in questi termini fu Foulkes che definì l’analista come “primo paziente del
gruppo” e la psicoterapia gruppoanalitica, come “una forma di psicoterapia praticata dal gruppo
nei confronti del gruppo, ivi incluso il suo conduttore”.
La situazione gruppoanalitica è descritta da Foulkes come un insieme di persone, in genere otto,
che periodicamente si incontrano in presenza di un conduttore o terapeuta e che possono
produrre e analizzare i propri sintomi e i propri modi di interagire, allo scopo di giungere a una
risoluzione di conflitti e a forme di esistenza più adeguate e soddisfacenti. A tale scopo vanno
rispettati il numero dei membri, la durata e la frequenza delle sedute, il luogo del trattamento. Il
fatto che il conduttore debba tenersi sullo sfondo non presuppone passività, ma come obiettivo
centrale l’analisi del gruppo e la conduzione dello stesso. Foulkes introduce due concetti
fondamentali:
il primo è quello di rete,
il secondo di matrice.
La rete è formata da tutti quei collegamenti consci ed inconsci che vengono a crearsi tra gli
individui, un intreccio di relazioni che formano la trama della nostra vita e che ne sono il sostegno
ed anche il limite. In tutti i contesti esistono delle reti, siano esse di natura affettiva, economica,
comunicativa ecc. Ciascuna rete, a sua volta, genera una matrice, ossia un insieme di pre-
concezioni consce ed inconsce di ciascun elemento rispetto agli altri membri della rete e alla rete
nella sua totalità.
Foulkes, ha definito le caratteristiche del piccolo gruppo terapeutico e solo successivamente, a
partire da tale base, si è evoluto ed esteso nelle forme allargate di gruppo intermedio e grande
gruppo.
Generalmente si distinguono i gruppi a finalità terapeutica rispetto alla loro composizione
numerica: si parla di gruppo grande, intermedio e piccolo.
Il grande gruppo (Large group) è composto da 30 fino a 100 o più soggetti; le persone
riunite in gruppo sperimentano tutti quei meccanismi che la dimensione relazionale
allargata può attivare.
Il gruppo intermedio (Median group) è di dimensione compresa tra i 12 e i 30 membri, e
l’origine risale a De Marè; l’enfasi è posta sull’outsight che sull’insight e l’oggetto della
terapia è il contesto socio-culturale, quindi di fondamentale importanza è il conflitto
individuo-gruppo.
Il piccolo gruppo (Small group) è composto dai 7 ai 12 membri ed è la tipologia di gruppo
utilizzata nella pratica clinica di Foulkes.
Secondo Foulkes, il numero ottimale dei pazienti può variare da sette a nove e il modello di
disposizione ideale del gruppo è a cerchio, con il posto del terapista fisso al contrario di quello dei
pazienti. Elementi specifici degli incontri gruppoanalitici mantenuti tuttora, sono la frequenza di
una seduta a settimana, con una durata di circa un’ora e mezza e con una durata del trattamento
che varia dai due ai sei anni in base alla condizione clinica dei pazienti. La regolarità dei soggetti è
essenziale ed importante, ma è molto significativa anche l’irregolarità in termini di assenze, ritardi,
silenzi, che possono far trasparire una determinata accettazione o meno, nei riguardi del
trattamento.
In gruppoanalisi l’individuo viene preso in considerazione in base contesto socio-culturale di cui fa
parte, tanto che i disturbi dei singoli vengono considerati come espressione di problemi sociali e
culturali. Foulkes descrive l’individuo come un piccolo punto nodale in una rete sociale che può
essere considerato in maniera isolata, dato che mantiene legami sia orizzontalmente (con le altre
persone e la comunità) che verticalmente (con la sua eredità biologica).
In gruppoanalisi viene considerata di primaria importanza l’individualità di ciascun membro, la
considerazione delle sue specificità, dei suoi bisogni e delle sue esigenze, tanto è vero che più di
ogni altra cosa è raccomandato come stile del conduttore del gruppo quello non direttivo che
lascia spazio alla scelta personale.
In gruppoanalisi il ruolo e lo stile di conduzione è di primaria importanza nell’esaltare le naturali
capacità terapeutiche della situazione di gruppo; il terapeuta ha il compito di attivare e alimentare
il processo di comunicazione maturativo a cui partecipa tutto il gruppo e che si traduce nella
crescita individuale. Dunque qualsiasi situazione che ponga dei limiti o vincoli al gruppo, ostacolerà
l’evoluzione del gruppo stesso e rappresenterà una controindicazione al trattamento
gruppoanalitico.
Concludendo con le parole di Foulkes tratte dalla Introduzione alla Psicoterapia Gruppoanalitica, “i
principali compiti del conduttore sono:
1. svezzare il gruppo dall’essere guidato,
2. astenersi dagli argomenti preordinati, dai programmi o dalla discussione sistematica,
3. rimanere, come persona, distaccato sullo sfondo”.
Nel corso della storia, viene identificato un vero e proprio passaggio dallo studio nelle relazioni a
due (la coppia) alle relazioni a tre e più (il gruppo) e ciò risulta uno dei fatti più rivoluzionari nella
storia della psicologia moderna. Viene appreso dalla psicologia clinica che con il rapporto di
relazione a più persone, è superato il modello di lavoro uno a uno all'interno del quale un
professionista attraverso un quadro teorico/tecnico opera una ricerca semiologica su un
oggetto/corpo e, se ci riesce, stabilisce una interpretazione/soluzione del disagio anche attraverso
l`uso decisivo di strumenti tecnici specifici. Lo Verso infatti definiva riguardo alla relazione, un
modello, affermando che: “I problemi su cui si interviene vengono trattati come se fossero
largamente indipendenti dalla contestualizzazione socio-culturale del rapporto domanda/offerta;
l’efficacia della prestazione è fondata su una concezione del cambiamento di tipo lineare e cioè, un
intervento sul "disturbo" al fine di realizzare e ripristinare un modello univoco di salute, in modo
tale che viene praticata una modalità relazionale che presuppone una dipendenza integrale al
committente/ utente dal tecnico/specialista; la relazione tra problemi e prestazioni, in quanto si
suppone fondata su leggi scientifiche e su regole del gioco , consolidate dalla tradizione, si esprime
attraverso una logica della prescrizione. Tale modello tuttavia nella pratica psicologico-clinica,
sembra falsificato dalla rilevanza e diffusione di una operatività di lavoro con coppie, gruppi,
famiglie, istituzioni, dai trattamenti combinati e multimodali, operatività tutte nate all'interno di
una dimensione multi personale della vita psichica.
La scoperta delle forme collettive dello psichismo ha permesso il passaggio da una cultura basata
sulla coppia ad una cultura basata sul gruppo:
La cultura di coppia si fonda su una concezione individualistica del sociale; l'individuo
singolo con le sue caratteristiche è il valore centrale; è il regno dell’oggettività, della ricerca
dello stabile, del permanente, dell'identico; è la cultura che favorisce gli imperialismi che si
fondano sulla soggettività dei più forti che diventa oggettività per i più deboli.
La cultura di gruppo è la cultura della soggettività e dei processi di relazione tra soggettività
diverse; è centrata sulle relazioni, sui processi di influenzamento, sul contesto, sul campo e
cerca di cogliere i percorsi del mutevole e del divenire. È nella cultura di gruppo che affonda
le sue radici la psicopatologia psicologica all'interno della quale nasce l’analisi della
domanda, che favorisce ed agevola il chiarimento delle dinamiche collusive. L’analisi della
domanda introduce nella psicologia clinica un “orientamento pragmatico di tipo
esplorativo” regolato da un processo di contestualizzazione che aiuta a superare i limiti, di
fatti, il principio base dell'analisi della domanda è quello di restituire al soggetto che fa la
richiesta la sua capacità di comprendere e dare un nuovo significato specifico alla sua realtà
psichica. La dimensione gruppo ha aperto, la strada ad una teoria della soggettività del
rapporto clinico come campo condiviso e co-costruito all'interno di una causalità circolare e
non più mono lineare. Benessere e salute diventano, allora, concetti relativi da definire e
costruire continuamente, mediante l`analisi della domanda, e che non necessariamente
coincidono con il concetto di sanità.
E proprio a partire dal vertice gruppale che i servizi possono gestire la loro transizione di strutture
deputate“all'intrattenimento/contenimento assistenziale/farmacologico”, all’assunzione di
strategie relazionali che diano significato e possibilità di trasformazione alla psicopatologia.
Il lavoro psichiatrico e psicologico-clinico può allora cominciare a definirsi e a praticarsi più in
termini di competence che di performance, prestando attenzione:
- alla co-presenza del versante sociale e a quello della soggettività nel confronto con gli
accadimenti psicologici e psicopatologici perché, come ci ricorda Foulkes: “ciò che è
all’interno è all'esterno, il sociale non è esterno ma pure profondamente interno, e penetra
l`essere più interno della personalità individuale. La realtà obiettiva esterna è inseparabile
dall'essere”;
- ad un nuovo modo di concepire sia la personalità sia la psicopatologia, sfuggendo alle
dicotomie dentro/fuori, singolare/plurale, natura/cultura, biologia/ambiente, considerando il
concetto di Polis centrale e fondante la mente luogo della nascita del transpersonale a partire
dai suoi livelli più primitivi ed arcaici; e, pertanto, la consapevolezza che le relazioni vanno
intese come infrastrutturali e non sovrastrutturali rispetto alla persona;
- alla soggettività nelle sue differenti dislocazioni (individuale, gruppale, organizzativa,
istituzionale) e ai vissuti emozionali legati alla relazione, intesa come evento fondamentale
del vivere umano.
La scoperta del campo gruppale costringe a ridisegnare il ruolo, la funzione, la pratica operativa,
dei servizi psicologico - psichiatrici. Il campo gruppale è campo mentale nel senso che fondando
ulteriori spazi nella nostra mente ci costringe all'accoglimento di pensieri nuovi.
Il pensiero gruppale nasce come capacità di contenere e analizzare la pluralità degli eventi di
relazione, ed anche come struttura organizzativa nel momento in cui gli operatori arrivano ad
interrogarsi sulle loro posizioni.
Sì crea un auto-osservazione ossia un percepirsi all'interno della relazione stessa e della rete di
relazioni; infatti l’utente e l'operatore, entrambi e insieme, sono sempre all'interno di una rete
affettiva e sociale che mobilita e rende attive le loro gruppalità interne. Gruppi interni, gruppi di
lavoro, organizzazione, istituzione sono continuamente presenti nel campo mentale dell’operatore
e nel setting. Il servizio psicologico-psichiatrico deve essere considerato un campo, una rete, una
polis all'interno della quale agiscono relazioni sociali e mentali estremamente complesse. Emerge
la necessità, da parte delle strutture di servizio di considerare se stesse come un network tra vari
livelli (terapeutico, organizzativo, relazionale, politico, ambientale, ecc.).
Negli anni passati le diverse teorie psicologiche venivano applicate rigidamente all’interno delle
varie scuole, le quali costituivano una sorta di “isole culturali” dando luogo cosi ad un fenomeno di
segregazione fra i diversi modelli. Oggi invece, il lavoro nel Servizio Sanitario Nazionale ha posto,
invece, a lavorare fianco a fianco operatori di diverse formazioni, e di fatti, colleghi psicanalisti,
cognitivisti, relazionali, trovandosi a condividere uno spazio di lavoro, hanno potuto verificare nella
realtà concreta dei servizi, la validità e l’efficacia d`interventi condotti con una metodologia
differente dalla propria e basati su di un`opposta teoria della personalità.
Il risultato di tale comunicazione tra esponenti di varie scuole di pensiero all’interno dei servizi, è
un aumento della conoscenza reciproca tra i vari modelli di intervento psicologico e una maggiore
curiosità ed esplorazione degli esiti degli stessi interventi. All’interno di questa nuova apertura
culturale si è realizzata una progressiva confluenza delle varie teorie verso un comune focus di
osservazione: “l’ambito relazionale” ove si lavora in maniera da poter operare in modo coordinato
e vicariante, in funzione dei vincoli posti dal mondo esterno e dai propri obiettivi.
In base a quanto detto, l’integrazione delle diverse competenze all’interno dell’equipe e de diversi
servizi è riconosciuta come l’unica soluzione metodologica possibile per affrontare le complessità,
quindi l’intervento del servizio è efficace solo se è globale, non quindi come sommatoria di
interventi in settori diversi, ma inteso come una serie di attività integrate e come risposta
all’insieme di bisogni della persona in difficoltà e quindi, alla base di ciò, diventa necessario
realizzare un contesto di collaborazione paritaria tra le varie professionalità, mantenendo
l’apertura al confronto con professionisti di formazione diversa dalla propria. Nessun modello può
avere la pretesa, infatti, di proporsi come riferimento unico ed esaustivo. I presupposti di base
perché si possa raggiungere una soddisfacente integrazione tra operatori, seguendo il senso
comune, sembrano i seguenti:
riconoscimento reciproco,
disponibilità all’ascolto tra le varie professionalità e formazioni,
capacità di traduzione di linguaggi.
L’effettiva integrazione nel lavoro di equipe va intesa come un processo che richiede molto tempo
e ha costi umani, economici ed organizzativi elevati. Infine, bisogna asserire che, ognuno ha una
sua professionalità e non bisogna mai prevalere sull'altro e di fatti un esempio che possiamo citare
è che: lo psicologo non deve pensare di andare a fare lo psicoterapeuta.
Possiamo dire che il rapporto che si crea con il paziente costituisce l’obiettivo ed al tempo stesso lo
strumento elettivo del lavoro riabilitativo e la stabilità della relazioni clinica deve accompagnare il
paziente lungo l’intero percorso terapeutico, la presa in carico del paziente non può riguardare solo
il rapporto individuale, ma deve necessariamente integrarsi con un lavoro di equipe svolto da
diverse figure professionali: psichiatri, psicologi, tecnici della riabilitazione psichiatrica, educatori,
terapisti occupazionali, infermieri, assistenti sociali, tecnici espressivi, psicomotricisti, e altre figure
operanti nel settore. Affinché l’equipe possa lavorare in modo efficace ed efficiente e secondo un
programma di lavoro gruppale è necessario che ogni operatore abbia una formazione culturale e
delle competenze trasversali su cui fondare il proprio operare.
Addestramento al lavoro di gruppo, capacità di dialogo, adattamento e integrazione, capacità
gestionali, capacità decisionali, empatiche sono gli elementi fondamentali per la riuscita di un buon
lavoro riabilitativo.
L’approccio integrato, è caratterizzato dall'integrazione dei tre ambiti fondamentali della terapia
psichiatrica: farmacoterapia, psicoterapia e riabilitazione. È possibile dire che gli interventi
riabilitativi possono essere di tipo:
supportivo-espressivo,
psicodinamico,
cognitivo-comportamentale.
Insieme a questi interventi elencati, possono essere presenti anche diverse attività che vengono
decise e strutturate a seconda del percorso clinico che il soggetto deve effettuare.
L’intervento riabilitativo deve tenere conto anche dell’ambiente familiare e del contesto sociale nel
quale il paziente è inserito e quindi deve articolarsi su due livelli:
1. potenziare le risorse e le abilità del soggetto in relazione alle sue esigenze, ai suoi bisogni, al
suo stile di vita;
2. aumentare le risorse e le abilità dell’ambiente perché supporti e rinforzi ciò che si è
modificato nel soggetto, in una prospettiva di reciproco adattamento.
Il processo riabilitativo si articola in diverse fasi:
1. la fase della valutazione che viene effettuata da tutti i membri dell’equipe in base ciascuno alla
propria professionalità e competenza;
2. la progettazione nella quale il paziente e l’equipe insieme elaborano il progetto riabilitativo;
3. l’attuazione che comporta la messa in atto delle attività previste dal progetto riabilitativo ed il
lavoro condiviso dal paziente e dallo psicologo per il raggiungimento degli obiettivi prefissati.
A questo fa seguito una valutazione inerente agli obiettivi che sono stati raggiunti e se il risultato è
positivo si procede con:
4. la pianificazione di nuovi interventi da realizzare insieme.
Quando l’intervento riabilitativo viene stabilito attraverso l’uso corretto degli strumenti e solo
attraverso l’applicazione rigorosa delle tecniche è destinato a fallire nella sua funzione
fondamentale. La tecnica da sola infatti non riesce a cogliere la persona nella sua complessità e
nella sua peculiarità. Come dice Heidegger: “la tecnica non pensa: essa è necessaria per lavorare
con metodo, per evitare facili approssimazioni senza farsi travolgere da una genericità confusiva,
ma alla condizione che essa si accompagni alla creazione di un’atmosfera psicologica e umana che
consenta alla persona di sentire intorno a sé non fredde applicazioni tecniche e strumentali, ma
presenze umane capaci di ascoltare e di fare contemporaneamente assistenza e terapia. Ogni
strumento tecnico in campo riabilitativo non può prescindere dalla dimensione relazionale in cui la
condivisione e la reciprocità costituiscono un plus valore, un valore aggiunto indispensabile e
irrinunciabile”.
La relazione, anche all’interno di un percorso di riabilitazione clinica, si fonda sulla riscoperta
dell’intersoggettività e, attraverso le esperienze fatte insieme, la persona può scoprire da sé
l’aggiustamento funzionale necessario a rispondere meglio a quanto l’ambiente le chiede.
La riabilitazione non può considerare il soggetto guardandolo dall’esterno ma è necessario
riconoscere il significato dell’intersoggettività come unica possibile modalità di scambio tra
persone con uguale diritto. L’intento del clinico, infatti, non è quello di cambiare una persona per
farla adeguare ad un modello di “normalità” e di efficienza, ma quello, attraverso uno scambio
reciproco, di favorire, in un cammino fatto insieme al paziente.
Il termine riabilitazione è inteso nell'accezione del prendersi cura della persona, persona intesa
nella sua peculiarità, complessità e soggettività, all'interno di una visione che non trascura così le
sue necessità, l'importanza delle sue relazioni nel contesto in cui è inserito, e che evita di attivare
dinamiche di dipendenza e cronicità.
Dunque la riabilitazione in psicologia clinica riguarda quell’insieme di interventi volti al
miglioramento della qualità di vita di persone con disabilità psichiche, in modo da ottenere
successo e soddisfazione nell’ambiente di vita scelto con il minor sostegno continuativo possibile.
Riabilitare in ambito psicologico dunque significa rafforzare tutte quelle funzioni e abilità che sono
compromesse nella persona a causa di una modalità disfunzionale di organizzazione
psicoambientale.
L’agire riabilitativo considera innanzitutto la persona come soggetto presente e partecipe della
propria cura in un’ottica di attenzione alla risorse e ai bisogni prima ancora che alla malattia. Il
lavoro riabilitativo si traduce principalmente nel recupero di una soggettività in cui, all’interno dello
scambio e dell’incontro, la dimensione umana della sofferenza può essere ascoltata ed accolta.
L’agire riabilitativo si differenzia in modo netto dall’assistenzialismo in quanto si pone come
obiettivo non solo la soddisfazione dei bisogni, ma soprattutto il potenziamento delle risorse,
perché l’individuo impari a soddisfare da sé i propri desideri.
GRUPPO
Nei primi periodi di fondazione, il gruppo è centrato soprattutto sulla narrazione del sintomo, sui
rituali attorno al cibo e sul corpo (si avvicinano ai gruppi per tossicodipendenti, con la
predominanza dei temi legati alla “roba”). Emergono abbastanza velocemente anche le narrazioni
sui propri vissuti, sul senso che ha il sintomo, su come fa sentire il suo offrire una possibilità di
benessere, ma anche sull’essere soprattutto malessere. Vi è ambivalenza soprattutto quando il
sintomo esce fuori dalla capacità di controllo, è un sintomo che parla di dipendenza, diventa una
barriera posta tra sé e l’altro, tra sé e il mondo esterno. Tutto questo a poco a poco diventa dicibile
in gruppo, in mezzo alle altre che vivono e provano le stesse cose. La comunanza del sintomo è
elemento forte che velocemente istituisce un clima gruppale di condivisione, che crea una rete
affettiva solida, visibile, una matrice dinamica inconscia molto coesa, centrata sull’essere uguali.
Il gruppo offre rassicurazione, supporto, però può essere anche vissuto in modo angosciante
perché è comunque anche il luogo dove il proprio malessere è reso visibile e può essere
amplificato, proprio ancora una volta per l’uniformità sintomatologica del gruppo.
La fase iniziale del gruppo si caratterizza per la centralità del sintomo, come oggetto privilegiato
degli scambi e delle comunicazioni in gruppo. Parlando del sintomo ci si sente uguali e non si corre
il rischio di confondersi e di perdere l’unico elemento di certezza che aiuta a non esporsi, a
nascondere le proprie fragilità e debolezze, che aiuta a camuffare i propri problemi. Gradualmente,
all’interno di un gruppo coeso, accogliente, supportivo, accudente e soprattutto capace di
contenere il dolore, si può abbandonare la certezza offerta dal sintomo e i partecipanti possono
raccontare la propria storia personale, connetterla al sintomo, provando a capirne il significato.
Diviene possibile mettere in relazione gli accadimenti e le dinamiche gruppali con la propria storia,
dirsi quello che si è provato e vissuto, ridare senso al proprio malessere, affrontare i nodi
problematici delle relazioni familiari. Parlare di sé significa affrontare i propri nuclei patologici,
prenderne consapevolezza e iniziare a rivelare le diversità in gruppo, aprendo la strada alla
trasformazione, la strada verso l’autonomia reale e la differenza, separazione dall’altro.
. Il gruppo quindi attraverserà delle fasi in cui facilmente si chiuderà su di sé identificando gli altri,
diversi, in quelli “cattivi”, incapaci di ascolto, a cui opporsi e da cui prendere le distanze, da cui
differenziarsi. Questo processo va adeguatamente gestito perché ripropone una modalità in cui il
gruppo è l’uguaglianza, è un noi sintomatologico e gli altri sono i diversi che non sanno
comprendere, verso i quali sono forti i sentimenti di rabbia. Il percorso terapeutico deve consentire
di attraversare tutto ciò e deve promuoverne un’elaborazione anche attraverso il processo e gli
accadimenti gruppali, il lavoro nel “qui e ora” del gruppo. Si potranno così cogliere sempre di più le
differenze in gruppo senza temerle e senza sentire il bisogno di aderire al pensiero gruppale,
potendo giungere alla separazione, al distinguersi dall’altro e affermarsi nella propria unicità. Le
pazienti sono intrappolate in un mondo familiare interno, incapace di concepire l’autonomia,
portatrici di una dipendenza interna che non consente la costruzione di un Io maturo e autonomo.
Il processo di trasformazione del proprio corpo, di sé, del modo di concepirsi ed essere percepiti
dagli altri, porta in primo piano problematiche inconsce profonde che determinano la chiusura alle
esperienze di vita. Il sintomo rappresenta, quindi, una modalità di espressione dei conflitti e
dell’angoscia ed è legato al mondo relazionale interno che ha una sua storicità fantasmatizzata e
simbolizzata, ma realmente esperita nel rapporto tra soggetto e campo mentale. Il sintomo entra
fortemente in gioco nelle dinamiche familiari, generando nuovi equilibri e modulando i rapporti
della famiglia, entrando nel circolo delle comunicazioni. Attorno al sintomo, quando esplode, ruota
tutta la famiglia che rischia di impazzire mettendo in atto un forte controllo su chi ne è portatore. Il
sintomo comunica relazioni di potere, controllo su sé e gli atri, ma anche richieste di attenzioni,
cure e di presenze e legami affettivi forti, simbiotici. La famiglia chiede spesso un ascolto, uno
spazio, portando una richiesta che non sempre rappresenta un attacco alla terapia ma che a volte è
una richiesta di aiuto che esprime il bisogno di contenimento delle proprie ansie e paure.
Nel corso della psicoterapia accade che i genitori chiedano un rimando sul lavoro delle figlie,
portando i loro dubbi o la loro approvazione; in questo caso occorre mantenere un grande
equilibrio, da un lato per preservare lo spazio delle figlie e dall’altro per offrire ai genitori un
ascolto. È abbastanza frequente che queste richieste provengano in un momento di crisi e di
cambiamento delle pazienti, che non sempre generano chiusure e rigidità ma che a volte, invece,
coincidono con trasformazioni nella coppia genitoriale e nella famiglia.
Bisogna sapere che il metodo corretto all’inizio della terapia è nell’essere maggiormente
accoglienti, supportanti; ciò implica da parte del terapeuta il doversi porre in un atteggiamento
rassicurante e per certi aspetti, anche di accompagnamento alle esperienze di vita che le pazienti
vanno compiendo. Il terapeuta facilita e promuove la comunicazione tra i membri del gruppo,
propone associazioni, sollecita interazioni, effettua molti interventi e limita i silenzi.
La specificità del setting, fondato sulla monosintomaticità, inevitabilmente porta a centrarsi sulla
dimensione del confronto sul sintomo, sulla comprensione e sull’elaborazione del suo significato, e
su un grosso lavoro sulle problematiche interne familiari a esso connesse.
Nelle fasi successive, pur rimanendo centrali quelli sopra indicati, saranno attivi anche fattori
terapeutici più analitici, come la risonanza e il rispecchiamento, intesi come esperienze inconsce di
comunicazione e identificazione tra i partecipanti di aspetti non conosciuti di sé.
Questi tre modelli di ricerca sono comunque essenziali per aumentare la qualità dei trattamenti
offerti ai pazienti e per porre una fondazione empirica della psicoterapia. Essi sono tra loro
complementari e spesso sovrapponibili, anzi la sinergia tra questi modelli sarebbe necessaria per
un rapido progresso scientifico e per migliorare gli esiti dei trattamenti.
Analizziamo…
Aspetti metodologici connessi alla ricerca sull’outcome.
In particolare: come si misura l’outcome, con quali strumenti, in quali disegni di ricerca.
Il primo problema è stabilire che cosa si intenda per outcome di una psicoterapia:
Eysenck ha rilevato che i pazienti delle ricerche esaminate non erano migliorati dopo un
trattamento psicoanalitico;
Bergin ha invece ravvisato un miglioramento significativo.
Altri autori, studiando l'outcome delle terapie di 16 pazienti maschi trattati per problemi di
impotenza secondaria psicologica, notarono come il disturbo dei pazienti potesse essere
considerato esclusivamente un problema di prestazioni oppure, in modo più realistico, una
tematica più ampia connessa alla qualità della loro vita sessuale. Seguendo un primo criterio gli
autori hanno valutato l’outcome dal punto di vista della prestazione: “Un significativo
miglioramento nel raggiungere e mantenere un’erezione al follow-up di un anno rispetto alle
valutazioni pretrattamento”. Secondo questo criterio, il 69% dei pazienti era significativamente
migliorato e la terapia poteva considerarsi efficace. È evidente che si tratta di un problema
condizionato dalle differenze tra modelli di psicopatologia, psicoterapia, salute e malattia.
È impossibile riassumere l’incredibile numero di strumenti che sono stati impiegati per valutare
l’outcome: Froyd e collaboratori, in una review di 348 studi, ne hanno contati 1430. La cosa che
più colpisce e che, 840 sono stati impiegati esclusivamente per una singola ricerca e la maggior
parte di questi non erano standardizzati. La prima domanda che un ricercatore si pone è se
utilizzare strumenti che valutino un singolo tratto del funzionamento del paziente, per esempio il
Beck Depression Inventory, o strumenti che valutino contemporaneamente più dimensioni, per
esempio il MMPI-2. Le misure multitratto sono utili quando si suppone che la popolazione
studiata non sia omogenea; inoltre, a sostegno della validità di questi strumenti, c’è un’ampia
letteratura, come nel caso della Symptom Check List-90. Tuttavia alcuni di essi risultano complicati,
lunghi o noiosi per i pazienti, e altri poco sensibili ai cambiamenti. D’altro canto, gli strumenti
monotratto sono più agili, ma anche più problematici dal punto di vista della validità statistica, e
puntano a rilevazioni spesso troppo ristrette per risultare interessanti al fine della valutazione
dell’outcome.
Tra gli strumenti per la valutazione globale del cambiamento ricordiamo la Goal Attainment
Scaling (GAS), che richiede, prima dell’inizio della terapia, una formulazione degli obiettivi del
trattamento. La prassi prevede poi la conversione in punteggi numerici degli indicatori del
raggiungimento degli obiettivi. Esempi più semplici ed efficaci di valutazione globale sono il Global
Assessment of Functioning (GAF, Asse V del DSM-IV) e la scala dell’alto funzionamento della
SWAP-200. Per ordinare gli strumenti di valutazione sull’outcome sono state prodotte diverse
concettualizzazioni. Per esempio
McLellan e Durrell (1996) indicano quattro aree di funzionamento globale che devono essere
valutate:
(a) la riduzione dei sintomi,
(b) l’incremento della salute, nel funzionamento personale e sociale,
(c) i costi della cura,
(d) il minor utilizzo di strutture di salute pubblica;
Docherty e Streeter (1995) descrivono sette dimensioni:
(a) la sintomatologia,
(b) il funzionamento sociale e interpersonale,
(c) il funzionamento lavorativo,
(d) il grado di soddisfazione,
(e) il ricorso a trattamenti successivi,
(f) la salute generale,
(g) la qualità della vita.
Ora analizziamo alcuni criteri di classificazione degli strumenti perla valutazione dell'outcome:
Contenuto Si può valutare il cambiamento nel mondo interno del paziente (intrapsichico), nelle sue
relazioni interpersonali più significative (interpersonale), nel suo funzionamento sociale (abilità
sociale generale).
Dimensione temporale La valutazione può essere fatta: una volta sola (post-therapy outcome);
all`inizio e alla fine della terapia; all’inizio, alla fine e in follow-up. Quest’ultima possibilità è
importante per monitorare il perdurare degli eventuali benefici ottenuti.
Fonte È auspicabile in questo caso, attuare il principio di triangolazione delle valutazioni, cioè la
possibilità di far convergere valutazioni derivate da fonti diverse sul medesimo oggetto, in quanto
le diversi fonti d’informazione possono non convergere nelle valutazioni.
Metodo di misurazione Interviste, questionari self-report, rating scales, Q-sort, indici globali e
sintomatologici.
Un altro problema da non trascurare è la sensibilità dello strumento al cambiamento della
variabile misurata. Come evidenziato da alcuni autori, nonostante gli strumenti costruiti per la
valutazione dell’outcome abbiano come scopo principale la valutazione del cambiamento, spesso
gli item che li compongono non sono abbastanza sensibili per valutare una trasformazione nel
paziente. Una buona eccezione è l’Outcome Questionnaire-45 (OQ45), un questionario self-report
che valuta, attraverso tre sottoscale, il funzionamento sociale del paziente, le sue problematiche
interpersonali e la sintomatologia.
Come si può notare, le variabili del processo correlate al risultato positivo della psicoterapia si
riferiscono non tanto a fattori specifici o legati alle varie scuole, quanto in generale alla “qualità”
della partecipazione del paziente alla terapia, al suo modo di sentirsi nel rapporto col terapeuta.
Proprio tenendo conto del fatto, ricordato dallo stesso Parloff che gli psicoterapeuti tendono a
svalutare i risultati che escono dagli studi sull’efficacia, “fatti nei laboratori o nelle torri di avorio”,
per il fatto che hanno poco valore pratico per il loro lavoro quotidiano, sarebbe utile la
partecipazione alla ricerca valutativa di terapeuti operanti nel pubblico o nel privato, interessati al
problema, i quali con il loro contributo attivo, possono farsi garanti della “validità ecologica” della
ricerca stessa.
Il requisito fondamentale perché una ricerca sul processo sia utilizzabile anche in termini di
validazione della psicoterapia è stato espresso dai ricercatori dell’Università di Vanderbilt nei
termini del principio di congruenza P-T-O la cui definizione suona pressappoco così:
“L’intelligibilità di una ricerca sulla psicoterapia è una funzione della similarità, dell’isomorfismo e
della congruenza tra il modo in cui concettualizziamo e misuriamo il problema clinico (P), i
processi del cambiamento terapeutico (T) e il risultato clinico (O) ”.
I modelli di ricerca finora elaborati da diversi autori in area psicodinamica hanno concentrato
l’attenzione sui primi due passaggi (che cosa cambia e come si verifica il cambiamento), è possibile
poi affermare che i metodi più frequentemente usati nella ricerca sul processo possono essere
divisi in gruppi:
Quantitativi
Nella ricerca quantitativa sul processo, i ricercatori usano stabilire misure e relazioni di numeri
per sommare e analizzare i risultati. I risultati possono essere comparati ed aggregati con studi
che utilizzano le stesse misure. Uno svantaggio è che la misura non potrebbe riflettere
l’interesse esatto del ricercatore, e che i numeri possono non rispecchiare accuratamente la
realtà. Un vantaggio dell’uso dei numeri è che l’analisi statistica può essere usata per
rispondere a delle domande specifiche. Una variazione nel metodo quantitativo è la ricerca
esploratoria, dove i ricercatori creano una misura dai dati per un particolare studio, così
permettendo ai ricercatori, di esplorare cosa esiste nei dati senza pregiudizi teorici. Una volta
che la misura è creata, i ricercatori formano una serie di giudici per verificarne l’attendibilità.
Qualitativi
Nella ricerca qualitativa, i ricercatori usano tecniche come le interviste, le griglie osservative, e
poi sviluppano categorie per organizzare i dati; per sommare i risultati, in questo modello di
ricerca, vengono usate le parole piuttosto che i numeri. Un grande vantaggio del metodo
qualitativo è che i ricercatori possono investigare fenomeni clinicamente ricchi o che accadono
infrequentemente, che sono spesso difficili da investigare attraverso i metodi quantitativi.
Similmente alla ricerca esploratoria, uno svantaggio è la difficoltà ad aggregare i risultati tra gli
studi ed a determinare la validità e l’attendibilità dei dati e dei giudizi.
Michael Lambert e Clara Hill riportano un elenco di alcune “dimensioni”, attraverso cui diviene
possibile distinguere le misure del processo. Le dimensioni descritte sono fondamentalmente otto
a) il tipo di misura,
b) la prospettiva di valutazione,
c) il focus di valutazione,
d) l’aspetto del processo,
e) l’orientamento teorico,
f) l’unità di studio,
g) il livello di inferenza richiesta,
h) i materiali stimolo richiesti.
I ricercatori possono usare queste dimensioni per descrivere le loro misure e chiarificare l’intento
del loro studio, la teoria del cambiamento, le assunzioni circa il processo.
Analizziamo le 8 dimensioni:
a) Tipi di misurazione
Le misure del processo possono distinguersi innanzitutto in relazione al tipo di osservazione che
viene utilizzato e possono essere usati due tipi di misure: le misure dirette e le misure indirette.
Kiesler definì misure dirette quelle che codificano o valutano i comportamenti nel vivo delle
sedute terapeutiche o attraverso trascrizioni, audioregistrazioni o videoregistrazioni.
Lo stesso autore definisce misure indirette quelle che si servono di un questionario per rilevare le
esperienze globali del terapeuta o del paziente durante le sedute (piuttosto che momento per
momento).
b) Prospettiva di valutazione
I ricercatori, nella fase di progettazione della ricerca, possono scegliere di concentrarsi sulla
descrizione dei fatti così come viene riportata dal terapeuta, dal paziente, oppure di servirsi del
resoconto di osservatori non partecipanti.
In passato si è ritenuto, infatti, che i giudici fossero obiettivi nel valutare il processo perché non
partecipavano personalmente alla terapia, adesso si è più consapevoli del fatto che i giudici sono
influenzati come i pazienti e i terapeuti, sebbene i loro pregiudizi differiscono sul livello e tipo di
influenzamento nel processo terapeutico.
c) Focus di valutazione
Nello studio del processo, diventa importante, isolare uno specifico oggetto da osservare, quello
che Lambert e Hill definiscono “focus”.
Il focus o target di investigazione può coincidere con lo studio del comportamento del paziente,
del terapeuta, della diade terapeuta-paziente o della relazione terapeuta-supervisore.
e) Basi teoriche
Non tutte le misure del processo possono essere applicate per studiare qualsiasi tipo di
trattamento psicoterapeutico. Alcune di loro, sono state sviluppate specificatamente per valutare
i costrutti di una particolare teoria. Per esempio, la Scala Esperienziale della Klein M. et al. fu
creata per misurare i costrutti fondamentali della teoria centrata sul paziente e del coinvolgimento
del paziente al processo terapeutico. Atre misure sono state costruite per essere panteoretiche o
per valutare i comportamenti osservati nelle diverse terapie, come per esempio il Q-Set
Psychotherapy Process di Jones. Dunque è possibile distinguere le misure del processo anche in
“specifiche” o “panteoretiche”.
f) L’unità studiata
Il processo terapeutico può essere diviso in unità in base al tempo (esempio 5 minuti per seduta),
alla grammatica (parole, frasi), alle interazioni interpersonali (turni nel parlare), ai significati
(eventi o episodi). Le unità possono essere organizzate in gerarchia: parole, frasi, discorsi, pensieri,
e i turni nel parlare sono incastrati in episodi terapeutici, i quali sono incastrati nella relazione
terapeutica, la quale è incastrata nella vita esterna al trattamento del paziente. I ricercatori, se
scelgono di usare queste misure, somministrano immediatamente dopo le sedute o il trattamento,
dei questionari.
Un aspetto fondamentale della ricerca in psicoterapia riguarda il ruolo giocato dai fattori specifici
e aspecifici rispetto all’outcome.
I fattori specifici possono essere sistematizzati in molti modi. Lambert (2004) ha proposto di
dividerli in:
-fattori supportivi (identificazione con il terapeuta, calore del terapeuta, empatia, alleanza
terapeutica ecc.),
-di apprendimento (esperienza emotiva correttiva, insight, assimilazione dell’esperienza
problematica ecc.),
- di azione (regolazione del comportamento, abilita cognitive, test di realtà ecc.).
Per valutare quanto un elemento specifico sia responsabile dell’outcome si confronta l’efficacia in
un gruppo di pazienti (gruppo A) di una terapia caratterizzata dalla presenza dell’elemento
specifico (per esempio le interpretazioni di transfert ecc.) all’efficacia del medesimo intervento
senza l’elemento specifico ritenuto responsabile dell’outcome (gruppo B). Se si riscontrano
differenze a favore del gruppo A, tale differenza sarà spiegabile come dovuta all’effetto
dell’elemento specifico presente in A ma assente in B. Ma i vari studi a riguardo, le varie ricerche
sembrano indicare che i fattori aspecifici contribuiscono all’outcome in modo significativamente
maggiore rispetto a quelli specifici.
Anche nella ricerca in psicoterapia le polarizzazioni finiscono per minare la possibilità di nuove
scoperte: tutte queste ricerche sembrano ignorare l’interazione dei fattori relazionali con gli
elementi specifici, e il loro potenziamento reciproco. Un esempio è l’interpretazione di transfert,
che è allo stesso tempo un fattore tecnico (specifico), ma anche relazionale (aspecifico), in quanto
dipende dal modo in cui il terapeuta vive 1a relazione con il paziente. Studiare l’influenza
reciproca dei diversi fattori (terapeuta, paziente, interventi del terapeuta, empatia, alleanza,
aderenza alle indicazioni terapeutiche ecc.) può meglio aiutarci a comprendere, a livello empirico,
ciò che davvero capita in una psicoterapia. Probabilmente i fattori aspecifici rappresentano una
condizione essenziale per permettere il cambiamento, ma da soli non possono spiegare l’outcome.
Fattori specifici e aspecifici, quindi, si rinforzano e influenzano a vicenda.
Area della rappresentatività. Devono essere rispettati i medesimi criteri di rappresentatività dei
campioni e delle variabili che abbiamo indicato per la ricerca quantitativa.
In particolare, va verificata la possibile presenza di uno o più bias relativi ai ricercatori, che, in
ambito qualitativo, assumono una forma particolare: poiché le ricerche di questo tipo sono spesso
condotte in tempi relativamente lunghi, può accadere sia che il ricercatore influenzi l`ambiente di
ricerca, sia viceversa. Per esempio, un ricercatore prestigioso che esplori la presenza di un
determinato costrutto nella diagnosi psicopatologica di un campione di soggetti consecutivi,
raccolto per un tempo lungo da un gruppo di clinici, può influenzare questi ultimi a rilevare la
presenza di segni e sintomi congruenti con il suo oggetto di ricerca. Al contrario, le ricerche sul
campo si traducono talvolta in una sorta di indottrinamento, che il ricercatore (soprattutto se é
giovane) subisce suo malgrado da parte dell’ambiente nel quale sta svolgendo la ricerca e di
alcune figure che lo rappresentano. I dati qualitativi, poi, in genere, non possono essere tutti
ugualmente rilevanti: alcuni sono più deboli di altri. L’indicazione di una certa gerarchia è il
segnale di una capacità di “ponderazione”, che è fra i requisiti di una ricerca affidabile.
Area del controllo dei risultati. Si riassume nel motto “verificare i casi atipici, estremi,
sorprendenti e cercare spiegazioni alternative”. Nella ricerca qualitativa, la specifica natura dei dati
si prestano particolarmente all’approfondimento di risultati disomogenei, proprio come accade
nella clinica, dove la discrepanza (fra i dati di un processo diagnostico, fra le osservazioni di due
operatori diversi) è spesso un’evenienza preziosa ai fini della migliore comprensione del
funzionamento di un paziente. Spesso, leggendo il rendiconto di una ricerca, vengono in mente
interpretazioni dei dati differenti da quelle fornite dagli autori, oppure ci si accorge che, sebbene
decisamente suggestivi, siano stati confinati fra i risultati non presi in considerazione alcuni eventi
occorsi più raramente di altri.
Area del testing dei risultati. È il tema della replicabilità della ricerca, che in ambito qualitativo,
assume un significato particolare. “Andare a fare un ricerca simile in un altro sito (un altro campo,
un altro terreno)” è un’ottima tattica di conferma dei risultati già raggiunti. Ovviamente, per poter
essere replicato, il disegno della ricerca deve essere esplicito e descritto dettagliatamente. Alcuni
metodologi suggeriscono la pratica della “verifica di replicabilità”: un collega prende in esame il
disegno della vostra ricerca e valuta se egli potrebbe replicarla e con quante e quali difficoltà.
Possiamo dire successivamente che, la ricerca in psicoterapia si è sviluppata lungo tre principali
direzioni
(a) lo studio dell’esito dei trattamenti (outcome research), il cui scopo è verificare se il paziente o il
gruppo sperimentale siano cambiati, e come;
(b) lo studio dell’efficacia della psicoterapia (Psychotherapy efficacy and effectiveness research),`
che si propone di rispondere alla domanda se effettivamente la psicoterapia, e non i fattori
extraterapeutici, sia responsabile del miglioramento;
(c) lo studio del processo di cambiamento (psychotherapy change process research), mirato a
individuare quali fattori specifici della terapia siano responsabili del cambiamento.
Secondo la ricostruzione storica di Wallerstein possiamo identificare, soprattutto nell’ambito della
psicoterapia analitica, quattro generazioni di ricercatori.
La prima (dagli anni Dieci alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso), dedita allo studio
dell’outcome, si è limitata a raccogliere informazioni retrospettive di terapie riuscite, senza
esplicitarne i criteri.
La seconda (dagli anni Sessanta agli anni Ottanta) ha prodotto studi prospettici più sistematici su
gruppi di pazienti definiti con criteri operazionalizzati.
La terza generazione ha cercato di studiare i processi che conducevano a un dato outcome
terapeutico, attraverso lo studio intensivo e longitudinale di ciascun caso clinico.
La (nostra) quarta generazione, infine, si è focalizzata sullo studio dettagliato del processo e sulla
sua influenza sull’outcome, utilizzando strumenti sempre più complessi e in gran parte applicati a
trascrizioni di audio registrazioni di sedute campionate o di interi trattamenti.
La ricerca sul caso singolo ha raccolto negli ultimi dieci anni un consenso sempre maggiore da
parte di studiosi con formazioni diverse. Per Fonagy e Moran, si tratta del metodo più appropriato
per sostituire i “classici” resoconti clinici. La ricerca single case rappresenta dunque, un’alternativa
al resoconto clinico classico, ma ne é anche una diretta discendenza. Ricordiamo poi che, per ogni
ricerca vi sono dei limiti:
(a) le osservazioni riportate non sono pubbliche, ma rilevabili solo da chi conduce il trattamento;
(b) il modo in cui vengono gestite tende a riflettere le idiosincrasie e i pregiudizi dell’analista;
(c) i resoconti sono soggetti alle distorsioni mnestiche più volte evidenziate dalla stessa letteratura
psicoanalitica;
(d) vi è la tendenza a generalizzare basandosi su osservazioni di un solo caso o di pochi casi.
A conclusione di quanto detto, si può evidenziare poi che l’uao del resoconto clinico come testo
unico per la ricerca ha sicuramente favorito la costruzione di teorie articolate e affascinanti,
espresse, però, in forma allusiva e metaforica piuttosto che come ipotesi da verificare, e spesso
con il risultato di non arrivare alla formulazione di spiegazioni convincenti sui meccanismi e i
processi sottostanti ai fenomeni osservati. E di fatto, a differenza dei disegni sperimentali e
naturalistici che si basano su osservazioni di gruppi di pazienti considerati nel loro insieme e nei
quali le valutazioni eseguite sui singoli partecipanti vengono aggregate in valori generali attraverso
il calcolo di medie, mediane ecc., negli studi singlecase ci si concentra su un soggetto su cui
vengono effettuate numerose osservazioni attraverso misure operazionalizzate, tentando di
valutare la consistenza e la qualità dei cambiamenti ottenuti nell’arco di un intervallo di tempo
stabilito dal ricercatore. La caratteristica principale di questi disegni é dunque la possibilità di
replicare le osservazioni attraverso l’uso di strumenti affidabili. La situazione clinica (fotografata
dalle trascrizioni di registrazioni di sedute campionate nelle diverse fasi del trattamento) si
propone come un laboratorio ottimale per questa tipologia di valutazioni, che possono essere
effettuate sul paziente, sul terapeuta o su variabili della loro relazione. Come sottolinea
Wallerstein, “il disegno single case é il metodo privilegiato della ricerca contemporanea in
psicoterapia poiché permette un’analisi macro e microanalitica che esprime in misure
confrontabili il funzionamento della personalità del paziente, il processo del trattamento e i
risultati raggiunti, nell’ottica del principio di congruenza Paziente- Terapeuta-Esito”.
MacKenzie poi rispose a quanto chiesto da Bednar e Kaul affermando che: “è comune per gli
articoli di ricerca sulla psicoterapia di gruppo essere pubblicati sotto l’etichetta del modello di
trattamento, che sia psicoterapia psicodinamica o comportamentale, o del tipo di malattia trattata,
ma non vi sono descrizioni del processo che avviene in gruppo”.
Anche un’ampia letteratura negli Stati Uniti supporta l’efficacia terapeutica generale della
psicoterapia di gruppo, e da decenni è evidente quanto la psicoterapia di gruppo sia potente
abbastanza da essere il solo o principale trattamento per pazienti che stanno soffrendo per un
disagio psichico.
Burlingame G., Furhiman e Mackenzie, propongono un modello che cerca di integrare queste
differenze e si focalizza sulle influenze operative multiple terapeutiche nel format gruppo. Questo
modello emerge da principi articolati nelle precedenti rassegne della letteratura sui gruppi
e tenta di costruire un ponte tra gli studi sull’esito e quelli sul processo. Spesso, le riviste sulla
psicoterapia di gruppo, presentano e discutono separatamente i loro studi classificandoli in due
gruppi: quelli che verificano l’efficacia del trattamento di gruppo in trminidi esito (outcome studies)
e quelli che descrivono o prevedono i meccanismi teorici di cambiamento all’interno del gruppo
concentrandosi sul processo (process studies).
Aree
È possibile dire poi che vi è un Area detta “Teoria Formale del Cambiamento” che ingloba la
maggioranza degli studi sugli esiti della terapia di gruppo, che verifica l’efficacia generale o
l’efficacia specifica di alcuni trattamenti di gruppo. E’ importante notare che in questa grande area,
è presente tutta la maggior parte dei modelli della psicoterapia di gruppo (psicodinamica, cognitiva,
comportamentale, interpersonale, umanistica). Di uguale importanza è che il particolare modello
teorico è spesso applicato nello stesso modo nei trattamenti (individuale e gruppo).
La seconda area è quella della “Teoria dei Principi del Processo” del piccolo gruppo, che riflette le
uniche caratteristiche del format del gruppo, correlate in termini teorici o empirici all’esito del
paziente. I terapeuti che analizzano i processi del piccolo gruppo, si pongono con un approccio al
gruppo come un sostantivo e sottolineano i forti effetti sui membri che le proprietà collettive
gruppali possono avere. Esempi di processi nel piccolo gruppo includono:
- lo sviluppo,
- i fattori terapeutici,
- l’accordo e il tempo della struttura del gruppo,
- il feedback interpersonale.
I leaders (terapeuti) guidati dai principi dei processi del piccolo gruppo affermano che l’ambiente
terapeutico è una fonte potente per il cambiamento del paziente. Questa teoria, specificamente
gruppo analitica, sostiene che la terapia di gruppo non è la terapia individuale offerta nel contesto di
un gruppo. Il nesso tra la teoria del cambiamento formale e le teorie sui processi del piccolo gruppo
si trova nella terza forza che governa l’efficacia del trattamento di gruppo “il leader del gruppo”.
Una quarta componente associata con l’efficacia del trattamento del gruppo è “il paziente”.
L’identificazione delle specifiche caratteristiche del paziente ha fatto sì che si potessero individuare
i fattori che migliorano o peggiorano nel trattamento di gruppo. Per esempio, le capacità base di
ascolto e l’abilità a comprendere, ad empatizzare, aiutare gli altri sono state mostrate per essere
importanti fattori del paziente.
Piper argomenta che lo sviluppo promesso nel trattamento di gruppo, emergeva grazie agli studi
che verificano le interazioni tra le caratteristiche del paziente e il modello del trattamento.
Il parametro finale nella comprensione dell’impatto del trattamento di gruppo è rappresentato dai
fattori strutturali del gruppo. Le considerazioni come il numero e la lunghezza delle sedute, la
frequenza delle sedute (settimanale, mensile), la misura del gruppo, il setting, il bisogno di un
coterapeuta sono illustrativi di questa dimensione. Gli aspetti strutturali di un gruppo possono
influenzare la durata degli effetti di un trattamento. Per esempio, aggiungendo una seduta di
richiamo al protocollo del trattamento può aumentare significativamente l’effetto a lungo temine di
un trattamento di gruppo. Secondo il suddetto modello, la complessità del trattamento di gruppo è il
risultato dell’interazione delle forze precedentemente descritte.
Furhiman e Burlingame concludono che non esistono differenze notevoli sull’efficacia tra il
format individuale e quello di gruppo.
Esiste oggi una considerevole letteratura sui fattori terapeutici nella psicoterapia di gruppo.
Bloch e Crouch definiscono: uno specifico fattore terapeutico di gruppo come, un elemento della
terapia di gruppo che contribuisce a migliorare le condizioni di un paziente ed è una funzione del
conduttore, degli altri membri del gruppo e dello stesso paziente. Essi aggiungono che i fattori
terapeutici specifici di gruppo andrebbero distinti dai fattori che agiscono positivamente in tutti i
tipi di psicoterapia, quali per esempio l’empatia, mentre quegli elementi che agiscono
negativamente sui pazienti dovrebbero essere definiti separatamente come fattori anti-terapeutici.
Le formulazioni ed il numero dei fattori terapeutici specifici del gruppo variano da Wender (4
fattori) e Foulkes (5 fattori), i quali li trassero dalle osservazioni cliniche, da Corsini e Rosenberg
(10 fattori), a Yalom (9 fattori) e Bloch e Crouch (10 fattori), arrivativi attraverso la ricerca sulla
terapia di gruppo.
A proposito dei fattori terapeutici di gruppo, possiamo dire che vi sono variabili del processo di
gruppo queste variabili includono elementi dl trattamento ben noti come:
(1) la coesione di gruppo,
(2) la speranza,
(3) l’altruismo,
(4) il feedback interpersonale,
(5) gli stili e le caratteristiche della leadership,
(6) la struttura di gruppo e/o ambiguità,
(7) la catarsi,
(8) la composizione del gruppo,
(9) l’apprendimento su di sé, interpersonale,
(10) l’auto- rivelazione del terapista e del paziente,
(11) il rischio e la responsabilità personale.
Essi terminano la loro dissertazione sottolineando che la ricerca dovrebbe adesso focalizzarsi
sull’esplorazione profonda dei fattori terapeutici specifici di gruppo.
Per quanto riguarda invece i fattori terapeutici-trasformativi gruppo analitici possiamo porre
l’accento sull’importanza della risonanza, del rispecchiamento (mirroring), dell’identificazione,
della comunicazione. Pines in un importante contributo sui fattori terapeutici nella psicoterapia
gruppo analitica sottolineava di fatto la centralità della comunicazione come fattore terapeutico: “Il
gruppo terapeutico stabilisce un’area comune, di cui tutti i suoi membri possono essere partecipi e
nella quale possono imparare a capirsi. All’interno di questo processo, i membri del gruppo
cominciano a comprendere il linguaggio dei sintomi, dei simboli e dei sogni, è necessario che
imparino attraverso l’esperienza, in modo che tutto ciò acquisti significato e divenga efficace in
senso terapeutico”.
Da quando gli psicoterapeuti hanno iniziato a trattare i pazienti nei gruppi, essi si sono trovati di
fronte tanto al problema della possibilità di comprendere le forze dinamiche che sono in atto,
quanto alla più spinosa questione di come usare queste forze in modo terapeuticamente
vantaggioso. La controversia, in questo campo non è stata centrata sull’esistenza delle dinamiche di
gruppo nei gruppi terapeutici, ma piuttosto sul modo in cui esse possono essere sfruttate
terapeuticamente.
Piper sosteneva che molti studi sui trattamenti di gruppo valutavano l’interazione tra modelli di
terapia e caratteristiche dei pazienti. Credo che valutare l’efficacia e l’effectiveness del lavoro di
gruppo, basandosi sulla tipologia di disturbo, sembri rappresentare uno dei modi più semplici per
analizzare la ricerca sui gruppi. Una precedente meta-analisi sulla effectiveness differenziale della
psicoterapia di gruppo fornisce, inoltre, dei riscontri ed evidenze per questo tipo di approccio.
La terapia di gruppo è la cura attraverso le molteplici relazioni che si sviluppano all’interno del
setting, obiettivo della ricerca è stabilire quali interazioni intercorrono tra i membri del gruppo e il
terapeuta e quali elementi possano facilitare una buona riuscita della terapia. Uno, infatti, dei più
importanti fattori generali curativi del gruppo include proprio la relazione terapeutica che avviene
nel setting gruppale. Le relazioni dentro il gruppo sono state trovate contribuire al miglioramento
dei pazienti e a bassi livelli di drop out.
La meta-analisi sugli studi riguardanti i disturbi dell’umore di Robinson, Barman, Neimeyer portò
ad alcune conclusioni:
1) un’ampia varietà di modelli di trattamento (cognitivo, cognitivocomportamentale, terapia verbale
in generale) ha mostrato un miglioramento piuttosto consistente in confronto a gruppi di controllo
non trattati con pazienti con diagnosi di disturbo depressivo;
2) i differenti modelli di trattamento hanno riportato risultati equivalenti;
3) le terapie di gruppo erano efficaci come le terapie individuali.
Una prospettiva equilibrata di questi risultati benefici è fornita da alcuni studi che hanno fornito
risultati non univoci sulla superiorità della terapia di gruppo, rispetto a trattamenti apparentemente
meno efficaci (come gruppi di auto-aiuto e para-professionali; vedi Burlingame, Mackenzie,
Strauss, 2004). Abbiamo così raccomandato come sia necessaria una ricerca più controllata sui
disturbi dell’umore, che tenga in considerazione le caratteristiche specifiche del trattamento di
gruppo.
In tre studi controllati i pazienti trattati in gruppi cognitivo-comportamentali (G-CBT) hanno
ottenuto miglioramenti significativi rispetto a quelli in lista d’attesa, su misure di ansia, paura,
depressione, frequenza e gravità degli attacchi di panico, evitamento agorafobico e pensieri di tipo
catastrofico. La teoria formale del cambiamento della CBT in questi studi si basava su:
a) educazione ed informazione sull’eziologia ed il mantenimento di questi disturbi;
b) ristrutturazione cognitiva, come ad esempio identificare la sensibilità alle minacce;
c) respirazione diaframmatica;
d) riconoscimento interocettivo.
Sei lavori di ricerca hanno, inoltre, supportato i “buoni” risultati del trattamento di gruppo per i
disturbi di panico. Vanno comunque sottolineati due punti critici:
Primo, due studi sostengono la possibilità che il cambiamento dei pazienti possa non essere
attribuito solo specificamente alla terapia di gruppo. Lindren et al. hanno trovato livelli di
miglioramento equivalenti per gruppi di auto-aiuto di biblioterapia e Oei et al. hanno mostrato
miglioramenti significativi nei pazienti sottoposti a workshop di tre giorni di terapia cognitivo-
comportamentale.
Secondo, la comorbilità nei pazienti con disturbi da attacchi di panico o agorafobici è molto
comune (ad esempio, con i disturbi depressivi o quelli dell’Asse II) e risulta nella effectiveness
differenziale della terapia di gruppo come unica forma di trattamento.
Fals-Stewart, Marks e Schafer hanno mostrato come la terapia individuale e di gruppo siano
equivalenti nel ridurre i sintomi in maniera significativa, dall’inizio alla fine del trattamento, nella
scala Ossessiva Compulsiva Yale-Brown (YBOCS). Tuttavia fino ad oggi, soltanto pochi studi
controllati hanno messo a confronto l’effectiveness della terapia di gruppo con quella individuale.
Per questo raccomandiamo che tali risultati vengano interpretati con cautela.
Complessivamente, cinque studi hanno valutato gli effetti del trattamento di gruppo per pazienti
con disturbi ossessivocompulsivi ed i risultati sembrano promettenti (Burlingame, Mackenzie,
Strauss, 2004).
TIPO DI UTENZA
Il tipo di utenza è quello capace di stare in un set(ting) gruppale e servirsene utilmente.
Tradizionalmente sono esclusi pazienti di livello culturale molto basso, con capacità di
mentalizzazione molto limitate dalla cronicizzazione, con disturbi narcisistici, paranoidei e
schizofrenici vistosi. Anche pazienti con disturbi di personalità e d’identità possono essere inseriti
in gruppo, anche se ciò implica una gestione più attiva e terapeutica del gruppo.
Inoltre oggi, a seconda del tipo d gruppo, non sembrano esservi quasi più limiti di età. I modelli
tradizionali prevedevano gruppi di pazienti nevrotici con l’inserimento di qualche paziente più
grave.
DOMANDA E SEDE
La domanda in un gruppo di terapia analitica è variabile. Essa è fatta in prima persona da chi
ritiene necessario fare l’esperienza. Ovviamente, la domanda può essere anche di aiuto psicologico
o psichiatrico. Dunque dipende:
dalla responsabilità del terapeuta
individuare il set(ting) più utile,
approfondire preliminarmente tale indicazione con il paziente e condividerla con lui.
Oggi solitamente la domanda è esplicitamente legata a esigenze terapeutiche. A volte, essa non è
legata a una precisa richiesta di fare una terapia di gruppo ma a una richiesta di aiuto
psicoterapico. Va anche tenuto in conto che non esiste domanda di cura, se non all’interno di un
contesto culturale determinato e questo influisce sul modo in cui viene portata avanti la domanda
stessa. Essa è influenzata anche dall’immagine veicolata dal contesto istituzionale curante cui ci si
rivolge, per esempio uno studio privato, un ambulatorio psichiatrico o altro. Questo si collega al
problema della sede in cui il gruppo terapeutico si svolge. Il problema non riguarda solo la
questione pubblico/privato ma per esempio anche il tipo di servizio in cui il gruppo si svolge, o il
fatto che il gruppo si tenga in una grande città o in un piccolo centro ecc.
FARMACI
La questione farmaci è un problema rilevante poiché vi è quasi sempre qualche paziente in gruppo
che li ha assunti o li assume. Essa non è rilevante solo perché i farmaci possono influenzare la vita
mentale del paziente o possono aiutare all’interno di trattamenti integrati, ma anche perché
l’assunzione di psicofarmaci è sempre anche una questione culturale, legata ai vissuti del paziente
e simbolica. A differenza del passato, può per esempio accadere che un paziente debba essere
aiutato a tollerare l’assunzione di farmaci non rifiutandola o deprimendosi; vi può essere anche il
problema che l’uso dei farmaci o l’atteggiamento medicalistico dello psichiatra venga usato per
capire i timori e le difficoltà ad affrontare i propri problemi.
Dunque, il farmaco viene spesso usato non come sostegno alla psicoterapia ma contro di essa.
L’assunzione di psicofarmaci ha quindi, sempre non solo effetti ma anche significati psicologici per i
pazienti, che diventano spesso un problema che richiede un’elaborazione analitica.
DURATA
La durata di un gruppo gruppoanalitico “classico” è lunga o medio lunga. Forme più brevi
richiedono un discorso a parte. Il lavoro di lungo periodo è una soluzione ottimale poiché consente
non solo maggiore consapevolezza e qualità della vita, oltre che cura, ma garantisce risultati più
stabili e convincenti nel tempo. Ciò non toglie che, soprattutto nel lavoro clinico-sociale e/ o
pubblico, vadano esplorate le possibilità offerte dai trattamenti più brevi.
FONDAZIONE E PROCESSUALITA’
La fondazione di un gruppo terapeutico parte
dall’analisi del gruppo;
dalle motivazioni del terapeuta;
dalla prefigurazione del set(ting); dagli obiettivi;
dagli utenti;
dal contesto istituzionale in cui esso si svolge.
Successivamente o contemporaneamente inizia la selezione dei pazienti. Oggi si ritiene che la
durata della preparazione debba essere calibrata alla possibilità del paziente di entrare in un
gruppo e restarvi. Vi è poi, anche la tendenza a pensare che sia terapeuticamente utile che il
contratto iniziale, rispetto a obiettivi, impegni reciproci, pagamenti, tempi, ecc., sia il più chiaro e
completo possibile. Nelle fasi iniziali di un gruppo di durata medio-lunga il lavoro iniziale è
concentrato sulla fondazione del gruppo stesso e, quindi, sull’attivazione della comunicazione
interpersonale, sulla possibilità di esserci nel nuovo spazio mentale costituito dal gruppo differente
e potenzialmente conflittuale con il campo mentale sintomatico-familiare, sulla costruzione della
matrice dinamica. Solo successivamente può essere avviata una reale esperienza interpretativa e
trasformativa e, quindi, profondamente terapeutica e maggiormente centrata sul gruppo. In
terapia di gruppo, inoltre, l’obiettivo resta legato alla cura del singolo paziente, ma ciò avviene in
maniera non solo superficiale, se vi è un adeguato lavoro sulla processualità del gruppo che
rappresenta un fattore terapeutico centrale di per sé.
OBIETTIVI
Gli obiettivi in un gruppo sono approfonditi e ambiziosi. Sono obiettivi terapeutici, cioè di cura, e
analitici, cioè di comprensione del mondo interno, di trasformazione rispetto ai problemi
psicopatologici, di personalità e relazionali profondi. Si tratta degli obiettivi tipici di una terapia
psicodinamica con maggiore attenzione rispetto al lavoro duale, sia agli aspetti corporei e
dell’istituzione set(ting) sia, naturalmente, agli aspetti relazionali. Questi ultimi vanno intesi:
sia in riferimento al mondo interno (gruppi interni, rapporto inconscio con le matrici e il
campo psichico familiare),
sia rispetto alle dinamiche attuali, esterne al gruppo (rapporti affettivi, sessuali,
interpersonali, lavorativi, familiari ecc.)
e interne al gruppo (processi comunicativi, di identificazione, risonanza, rispecchiamento
ecc.).
CORPO
Il corpo è diventato elemento sempre più centrale anche nei gruppi analitici che apparentemente,
non hanno un rapporto diretto con le tematiche biologiche. Il modello teorico della gruppoanalisi
soggettuale ha approfondito l’idea che ogni avvenimento umano e ogni pratica di cura siano,
contemporaneamente, un fatto mentale-biologico-relazionale. Si va, quindi, oltre il concetto di
somatizzazione. Non è strano, dunque, che la gruppoanalisi sia stata definita anche come una
terapia biologica. Ciò si basa sull’effettiva presenza nel gruppo del corpo come luogo dello sguardo,
della comunicazione non verbale, del sentire la relazione. Si basa anche sul fatto che ogni
accadimento psichico è vissuto nel corpo e viceversa e ciò risulta valido, anche, per ogni fatto
relazionale. La psicopatologia, inoltre, implica di per sé conseguenze corporee e ciò non vale solo
per le patologie in cui questo è più evidente, come i disturbi alimentari, la sessualità ecc., ma in
ogni caso, in psicoterapia, va oggi a nostro avviso praticata clinicamente un’epistemologia
complessa che possa tenere sistematicamente compresenti i fattori relazionali, mentali e corporei.
ISTITUZIONE
La dimensione istituzionale è centrale in ogni tipo di lavoro con i gruppi:
sia terapeutici;
sia psicosociali.
L’analisi degli aspetti istituzionali e la gestione di essi è compito di ogni conduttore di gruppo. Di
essa fa parte l’analisi e la gestione della cultura istituzionale, il lavoro con i colleghi e con le
gerarchie istituzionali ecc. Si può affermare che, in questo caso, la fase di fondazione del gruppo
debba essere largamente dedicata anche a questo; ciò vale anche per i gruppi di formazione in
contesti aziendali, educativi, sanitari ecc. Se il gruppo si svolge, invece, in un contesto privato la
questione istituzione riguarda in primo luogo il terapeuta e la risonanza che le sue istituzioni di
appartenenza (training, supervisori, società scientifiche, professionali ecc.) hanno dentro di lui. Il
gruppo è una micro-istituzione che sviluppa via via anch’essa le sue regole, la sua cultura ecc. In
questo lavoro sul rapporto gruppo - istituzione, la capacità etica, analitica ed ermeneutica di
interrogarsi deve essere massima, poiché risulta necessario approfondire e gestire non solo la
selezione dei pazienti ma, anche, il rapporto tra il gruppo e il contesto istituzionale. Dunque, le
supervisioni chieste da chi desidera iniziare a condurre gruppi debbano cominciare almeno 6-9
mesi prima della fondazione del gruppo stesso.
Le scale autosomministrate sono spesso molto più veloci e semplici da utilizzare e vengono
compilate dal paziente solitamente senza alcun disagio. Uno strumento autosomministrato,
ampiamente utilizzato, è la Symptom Check List Revised (SCL-90-R) di Derogatis, che valuta il
livello di psicopatologia in base a nove ambiti sintomatologici (somatizzazione, ossessività-
compulsività, sensibilità ai rapporti interpersonali, depressione, ansia, ostilità, ideazione paranoide,
ansia fobica, psicoticismo) a cui si aggiungono tre indici globali di sofferenza. La SCL-90-R è uno
strumento di semplice somministrazione, ampiamente diffuso, molto utile per la valutazione dei
sintomi psichici del paziente.
Però nelle scale autosomministrate, il paziente non sempre risulta affidabile; potrebbe infatti
tendere:
a migliorare le sue risposte con lo scopo di compiacere il terapeuta;
nascondere parte dei suoi sintomi oppure esasperarli per ottenere maggiore attenzione e
riconoscimento come persona sofferente.
Quest’ultimo aspetto è ovviato dalle scale eterosomministrate, dove il terapeuta è un valutatore
esterno che fornisce un parere. È il caso di uno strumento come la Defense Mechanism Rating
Scale (DMRS). La DMRS permette al clinico il riconoscimento, all’interno della seduta, delle
modalità difensive del paziente e una loro analisi differenziale. La valutazione pertanto spetta al
terapeuta che si occupa del trattamento.
Nella scelta del protocollo di ricerca da adottare, il ricercatore dovrà anche considerare i
presupposti epistemici a cui far riferimento. In questo senso potrà decidere se:
avvalersi di strumenti ad alto contenuto teorico
strumenti che integrano prospettive diverse.
Il Psychotherapy Process Q-Set di Jones ha tra i suoi punti di forza proprio quello di essere uno
strumento usato al fine di analizzare i processi terapeutici, di misurare la relazione tra processi e
risultati e per quantificare la natura dei cambiamenti dei processi nel tempo.
Gli strumenti atti alla valutazione di un costrutto come il transfert, concetto di origine prettamente
psicoanalitico, rendono necessario, infatti, esplicitare la cornice teorica a cui si riferiscono.
Fava e Masserini, nel loro lavoro sulla valutazione degli esiti, hanno proposto nove tipologie di
strumenti:
1. Strumenti autosomministrati e eterosomministrati (dai terapeuti o da valutatori esterni).
2. Strumenti relativi alle variazioni sintomatiche.
3. Strumenti relativi ai gradi di funzionamento in determinate aree o ai livelli della qualità
della vita.
4. Strumenti monodimensionali o strumenti multidimensionali.
5. Strumenti “uguali per tutti i tipi di trattamento” versus strumenti specifici per un certo tipo
di trattamento.
6. Strumenti che valorizzano la soggettività del paziente; strumenti orientati alla maggiore
obiettività possibile.
7. Strumenti facilmente applicabili su larga scala versus strumenti difficili da applicare.
8. Strumenti molto conosciuti e diffusi versus strumenti costruiti ad hoc, specifici per
determinate situazioni o gruppi di pazienti.
9. Strumenti adatti a valutare i risultati finali versus strumenti che misurano variabili di
processo.
3. Group Evaluation Scale: misura di 7 items sull’esperienza del paziente in terapia di gruppo.
Questa scala valuta i sentimenti generali del paziente riguardo il gruppo, sentimenti di
stabilità o instabilità, la capacità di spiegare i problemi di fronte al gruppo, l’utilità degli altri
membri del gruppo, ed i sentimenti di essere compreso, autonomo e responsabile. Il
calcolo dei punteggi fornisce un punteggio totale che varia tra 7 e 35, con i punteggi più alti
che indicano più grande beneficio dal gruppo.
3. Group Climate Questionnaire-Short Form (GCQ-S): la forma breve del popolare GCQ valuta le
percezioni del tono emozionale dell’interazione di gruppo da parte dei membri, specificamente nei
termini di coinvolgimento, conflitto ed evitamento. Con l’utilizzo del GCQ-S di 12 item possono
essere valutate tre dimensioni del clima di gruppo.
1) La sottoscala Coinvolgimento (Engaged) (5 item) riflette il grado di apertura di sé, feedback e
comprensione, confronto, presente nell’interazione di gruppo.
2) la sottoscala Conflittuale (Conflict) (3 item) riflette il grado di tensione e sfiducia interpersonale
tra i membri del gruppo.
3) la sottoscala Evitante (Avoiding) (4 items) riflette il grado in cui i membri evitano di prendersi la
responsabilità per il lavoro della terapia.
4. Cohesion Subscale of Therapeutic Factors Inventory (TFI). Il TFI è stato elaborato per la
valutazione dei fattori terapeutici formulati da Yalom. I nove item della sottoscala Coesione del TFI
riflettono il senso di appartenenza del membro di gruppo e le sue esperienze di accettazione,
fiducia e cooperazione nel gruppo. La coesione rappresenta un investimento consensuale e un
impegno verso il gruppo da parte dei membri. La ricerca ha mostrato che la scala Coesione del TFI
è correlata con un numero di altri fattori valutati dallo strumento di origine, indicando come la
coesione sia importante per l’attività di questi altri elementi dell’esperienza di gruppo. La ricerca
ha mostrato che la sottoscala Coesione del TFI può essere un indicatore attendibile dei
cambiamenti avvenuti nell’evoluzione del gruppo, così come un elemento per differenziare le
esperienze dei membri con stili interpersonali contrastanti.
5. Cohesion to the Therapist Scale (CTS). La ricerca empirica più recente ha suggerito che la CTS
può essere più appropriatamente considerata come un indicatore delle qualità percepite del
terapeuta come conduttore di gruppo. Il CTS di 9 item fornisce punteggi su tre sottoscale.
La sottoscala Qualità Positive riflette le percezioni dei membri riguardanti l’onestà e
simpatia del terapeuta.
La sottoscala Compatibilità Personale riflette le percezioni dei membri circa la similarità,
familiarità e amicizia potenziale del terapeuta.
La sottoscala Insoddisfazione per il Ruolo del Terapeuta riflette la percezione del membro di
gruppo circa i problemi riguardanti la conduzione, la concentrazione e l’efficacia espressiva
del terapeuta.