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Lo strutturalismo e il funzionalismo
-Il grande precursore: Wilhelm Wundt (il padre, l’opera, campi d’indagine, volontarismo, le tre basi
della psicologia)
Wundt non fu un innovatore come Freud, ma seppe sintetizzare tutte le concezioni e tutti i risultati
empirici di carattere psicologico delle epoche passate e della sua contemporanea (pratica
sperimentale), grazie alla sua grande cultura (che non si limitava al mondo tedesco e comprendeva
la tradizione anglosassone), con la quale riuscì a fornire una base concettuale unitaria per la
fondazione della psicologia come scienza (teoria). È quindi, di quest’ultima, il padre fondatore.
L’opera monumentale alla quale affida il suo sapere è Elementi di psicologia fisiologica, la prima
opera sistematica della psicologia scientifica moderna, che ebbe ben sei edizioni (1873 la prima).
La città nella quale operò fu Lipsia, dove aprì il primo laboratorio sperimentale di psicologia, dove
continuarono a essere studiati i medesimi problemi di cui da anni si occupavano i laboratori di
fisiologia, ma la cui importanza stava nella denominazione ufficiale, che contribuiva a stabilire
l’indipendenza istituzionale della psicologia.
In questo laboratorio Wundt e i suoi studenti affrontano sperimentalmente soprattutto quattro campi
di indagine: 1) psicofisiologia dei sensi, in particolare vista e udito (tradizione helmholtziana); 2)
l’attenzione misurata con la tecnica dei tempi di reazione (Helmholtz e Donders); 3) la psicofisica
(Fechner); 4) le associazioni mentali (associazionismo anglosassone).
Le teorie psicologiche wundtiane sono oggi in gran parte improponibili per via di una loro spiccata
componente spiritualistica che si sottrae all’indagine scientifica modernamente intesa; ci riferiamo
soprattutto al «volontarismo» wundtiano, secondo tutti i processi psichici umani passano attraverso
4 fasi: stimolazione, percezione (che rende cosciente l’esperienza psichica), appercezione
(l’esperienza cosciente viene sintetizzata dalla mente), atto di volontà (che suscita la reazione
psichica).
Al di là di ciò, in Wundt c’è molto di ciò che costituisce la psicologia scientifica contemporanea: in
primo luogo la definizione dell’oggetto d’indagine, ovvero l’esperienza umana immediata (e non
mediata, oggetto delle scienze fisiche), in secondo luogo la codificazione del metodo sperimentale
nell’ambito della psicologia, e in terzo luogo il principio che ancora oggi caratterizza le
sistematizzazioni psicologiche, ovvero il principio del «parallelismo psicofisico». Secondo tale
principio i processi mentali e quelli fisici dell’organismo umano sono paralleli: né i primi causano i
secondi, né i secondi causano i primi, ma a ciascun cambiamento dei primi corrisponde un
cambiamento dei secondi.
Successori immediati di Wundt, strutturalismo e funzionalismo sono ambedue debitori dell’opera
del grande precursore: meno direttamente il secondo, assai più direttamente il primo, tanto che
alcuni classificano lo stesso Wundt come strutturalista.
-Lo strutturalismo: uno schizzo storico
Al laboratorio di Lipsia approdarono da ogni parte molti ricercatori, tra cui l’inglese Titchener. Egli
tradusse in inglese l’opera di Wundt, ma solo in parte, nascondendone di proposito le numerose
componenti non sperimentalistiche. La riflessione sull’opera wundtiana fu per lui il punto di
partenza verso l’elaborazione di un sistema personale chiamato «strutturalismo» o
«introspezionismo» e che trova il proprio manifesto in The postulates of a structural psychology,
del 1898.
Tornato negli Stati Uniti, Titchener lavorò nella sua università come in una torre d’avorio,
accerchiato dai suoi allievi (che contrassegna col nome di «sperimentalisti») e lontano dal
pragmatismo della nuova filosofia nordamericana. Con la sua morte, lo strutturalismo conclude la
sua parabola, benché rimasero alcuni allievi, fra cui Boring, padre della moderna storiografia
psicologica.
-La psicologia secondo gli strutturalisti (struttura, mente e coscienza, psicologia e fisica)
Prima di tutto va detto che il termine non ha nulla in comune con lo stesso termine nel suo uso
contemporaneo. Nel linguaggio titcheriano la «struttura» mentale è il complesso risultato della
somma di molteplici elementi coscienti semplici, come in una sorta di mosaico psichico; dunque, lo
scopo dell’indagine psicologica consiste nel descrivere i contenuti elementari della coscienza e
nell’evidenziare le leggi che presiedono al loro combinarsi, scomporre analiticamente i pezzi (cosa
che rende la psicologia di T. molto descrittiva). Importante è anche la distinzione tra «mente», che è
la somma di tutti i processi mentali che hanno luogo nella vita di un individuo, e «coscienza», che è
la somma di tuti i processi mentali che hanno luogo in un determinato momento presente della vita
dell’individuo.
La prima teoria di base che caratterizza questo movimento è l’associazione tra psicologia e fisica.
Secondo T., la psicologia ha per oggetto l’esperienza, come la fisica; e possiede pertanto la stessa
scientificità di quest’ultima. La sola differenza tra fisica e psicologia sta nel fatto che la prima
studia l’esperienza in quando indipendente dal soggetto esperiente, mentre la seconda studia
l’esperienza in quanto dipendente dal soggetto esperiente (il tempo passa lentamente per alcune
persone, psicologicamente).
-Il metodo: l’introspezione
Un’altra differenza che si nota tra psicologia e fisica, sta nel metodo di indagine. Come la fisica, la
psicologia procede mediante osservazione empirica, solo che, nel caso della fisica, quest’ultima è
un’«ispezione» rivolta ai contenuti del mondo esterno; nel caso della psicologia, è
un’«introspezione» rivolta ai contenuti della coscienza individuale. L’introspezione è l’unico
metodo che caratterizza la psicologia rispetto alle altre scienze.
A dispetto del termine, questa introspezione non ha nulla a che vedere con come la intendiamo di
solito: è analitica e disciplinata, sottoposta alle ferree regole del controllo sistematico; e distingue la
psicologia scientifica dalla psicologia prescientifica (per Titchener). Nel proprio procedere, lo
psicologo introspezionista deve seguire due norme fondamentali: adottare il criterio elementistico;
salvaguardarsi dall’incorrere nel cosiddetto «errore dello stimolo».
Il criterio elementistico implica che ogni dato cosciente sottoposto all’introspezione venga
scomposto nei suoi elementi più semplici (elementi non suscettibili di ulteriore scomposizione
psichica): l’esperienza cosciente di un fiore profumato non costituisce un elemento semplice, infatti
l’introspezione analitica rivela la presenza di due componenti irriducibili, cioè una sensazione di
odore e uno stato di piacere.
Per quanto concerne l’errore dello stimolo, esso consiste nell’attribuzione di significati o di valori
ai dati dell’esperienza cosciente, che vanno invece riportati nella loro cruda esistenzialità
(esistenzialismo titcheneriano): il soggetto, allenandosi, deve riferire esclusivamente la propria
esperienza cosciente immediata scindendola dai pesi socioculturali e linguistici in cui essa è
ingabbiata. Così, di fronte a una tavola, l’osservatore profano dice «vedo una tavola»;
l’introspezionista dice «vedo un colore grigio, una luminosità poco intensa», perché non descrive
l’oggetto, ma gli elementi che lo costituiscono.
-I tre elementi della coscienza
Un altro ambito d’interesse dell’esistenzialismo titcheriano è lo studio dei tre elementi della
coscienza. L’interesse analitico dello psicologo è rivolto:
agli elementi semplici delle percezioni, ovvero le sensazioni;
agli elementi semplici delle idee, che sono le immagini mentali;
agli elementi semplici delle emozioni o dei sentimenti, che sono gli stati affettivi.
Dei tre elementi, la sensazione è quello più importante e ricorrente, e corrisponde allo stato di
coscienza concomitante alla stimolazione di un organo sensoriale. Oltre quelle relative ai cinque
sensi, T. sottolinea l’esistenza delle sensazioni cinestetiche, che provengono da muscoli, tendini o
giunture.
L’elemento immagine compare nei processi mentali relativi a esperienze non attuali (ricordi o
anticipazioni del futuro), risultando dunque più «vaporosa» della sensazione. Il rapporto con
quest’ultima è diretto: quando un organo sensoriale è stato stimolato più volte, si instaura nel
cervello uno stato di eccitazione centrale che può sostituire la stimolazione periferica e produrre
l’immagine al posto della sensazione (vediamo il colore blu con la mente dopo che l’abbiamo visto
tante volte).
L’elemento stati affettivi (emozioni e sentimenti come amore, odio, gioia, tristezza ecc.) è, come
l’immagine, simile alla sensazione; in particolare, tanto gli stati affettivi quanto le sensazioni si
stemperano qualora vengano ripetuti (se teniamo la mano immersa in una bacinella di acqua
tiepida, la sensazione di calore inziale pian piano svanisce; se ascoltiamo una canzone che amiamo
più volte, pian piano lo stato affettivo di piacere scompare).
Per quanto semplici, gli elementi della coscienza hanno degli attributi. Quelli della sensazione e
dell’immagine sono quattro: 1) la qualità (freddo, salato, verde); 2) l’intensità (una scampanellata
forte); 3) la durata (una scampanellata lunga); 4) la chiarezza (voce chiara). Quanto agli stati
affettivi, essi possiedono solo i primi tre attributi perché, se concentrandoci sulle sensazioni o sulle
immagini riusciamo a rendere queste più chiare, al contrario se lo facciamo con gli stati otteniamo
l’opposto, li dissolviamo. D’altronde, tra sensazioni e immagini, e stati c’è anche un’altra
differenza: i secondi sono sempre necessariamente o piacevoli o spiacevoli.
-La fine
Alla fine lo strutturalismo ebbe vita breve e finisce con la morte del suo fondatore (1927). Le
ragioni sono molteplici: esso si autolimitava allo studio dell’uomo bianco, adulto, psichicamente
normale, l’uomo generalizzato; l’elementismo titcheneriano fu messo in crisi dal globalismo della
Gestalt; l’elementismo è crollato anche sul piano metodologico perché gli esperimenti condotti
mediante introspezione non sono mai esattamente replicabili con soggetti diversi. Tuttavia, lo
strutturalismo ha dato un contributo prezioso, essendo stato il sistema psicologico più organico e
rigoroso, rappresentando il punto di riferimento obbligatorio di quasi tutte le altre
concettualizzazioni psicologiche. A ciò si aggiunge il marcato rifiuto del metodo filosofico, al fine
di un riconoscimento dell’indipendenza della scienza psicologica.
-Il funzionalismo: uno schizzo storico
Espressione della nuova cultura nordamericana, ha come ispiratore William James, il cui pluriedito
Principi di psicologia rappresenta il simbolo della nascente indipendenza americana nei confronti
della psicologia tedesca, e in cui per la prima volta in modo esplicito veniva fatto riferimento alla
rilevanza per la psicologia delle teorie evoluzionistiche. Rispetto allo strutturalismo, il
funzionalismo si presentò come un sistema assai più composito ed eterogeneo, eclettico e tollerante
nei confronti delle altre prospettive psicologiche.
-La psicologia secondo i funzionalisti (Darwin e l’interrogativo, dualismo, comportamento adattivo,
oggetto della ricerca)
Facendo esplicito riferimento alle concezioni di Darwin, i funzionalisti considerano l’organismo
umano come l’ultimo stadio del processo evolutivo. In questa prospettiva, i processi mentali sono
quelli che sono perché hanno aiutato l’organismo a sopravvivere, gli sono stati utili nel suo adattarsi
all’ambiente circostante. L’interrogativo principale per la psicologia diventa allora non tanto cosa
sono i processi mentali, ma a cosa servano e come funzionino i processi mentali.
L’accento è adesso posto sulle operazioni dell’intero organismo anziché sui contenuti della mente
umana isolata dal corpo. Scompare il tradizionale dualismo mente-corpo del parallelismo
psicofisico: i processi mentali sono direttamente espressi dal medesimo organismo che esprime i
processi biologici.
Oggetto della ricerca psicologica sono le attività fondamentali individuate dai funzionalisti, ovvero
quelle relative all’acquisizione, all’immagazzinamento, all’organizzazione e alla valutazione delle
esperienze, e alla loro successiva utilizzazione nella guida del comportamento. Ciò che è centrale in
questa definizione è il concetto di «comportamento guidato verso», ovvero comportamento
adattivo. Esso è caratterizzato da tre componenti: una stimolazione motivante interna o esterna
all’organismo, una situazione sensoriale, una risposta che soddisfi le condizioni motivanti. Ad es.,
un uomo affamato che si procura del cibo e mangia fino a essere sazio pone in atto un
comportamento adattivo: la fame è la stimolazione motivante, il cibo è una parte della situazione
sensoriale, la fame è la risposta che soddisfa. Naturalmente non tutti i comportamenti sono adattivi:
se mi allontano da un incendio e starnutisco, lo starnuto non è adattivo. È solo il risultato di stimolo-
risposta.
-Il funzionalismo come antielementismo
Il funzionalismo vede ogni attività dell’organismo come un processo globale e continuo, tuttavia è
lecito distinguere fra stimolo e risposta perché l’uno e l’altra svolgono ruoli diversi nella
coordinazione totale relativa al raggiungimento dello scopo. Assolvono cioè funzioni diverse
nell’adattare l’organismo alla situazione: la distinzione stimolo-risposta è funzionale (ciò che essi
fanno), non esistenziale (ciò che essi sono). Dunque, l’antielementismo è in due sensi: da un lato le
funzioni mentali sono attività globali, non scomponibili; dall’altro, esse si distinguono per la loro
funzione e non l’essenza.
-Le funzioni mentali
Oggetto della ricerca funzionalistica sono in parte i processi mentali già studiati da Titchener, ma
ridefiniti in termini di «funzioni», e in parte processi mentali nuovi. I primi sono la sensazione e
l’emozione (in termini globali, non spezzettata in stati affettivi), i secondi la percezione, la
motivazione, l’apprendimento e il pensiero.
La sensazione, oggetto centrale della ricerca strutturalistica, è per i funzionalisti oggetto marginale
della ricerca; tuttavia, ne riconoscono il valore adattivo, in particolare mediante l’abilità spaziale
(localizzare gli oggetti nello spazio e capirne le dimensioni).
Dell’emozione è sottolineato il carattere adattivo. Ad es., quando l’organismo è ostacolato nella
propria libertà di movimento, può manifestarsi l’emozione ‘collera’ che, mediante una
mobilitazione di energie e l’accelerazione di battito e respiro, aiuta l’organismo a reagire più
efficacemente contro l’ostacolo. I funzionalisti tuttavia ammettono l’esistenza di molte emozioni
‘gratuite’, non direttamente funzionali e addirittura antifunzionali alla sopravvivenza.
La percezione, nell’approccio funzionalista, è un processo mentale a sé stante, non una somma di
sensazioni elementari (approccio strutturalista), e sarebbe la cognizione di un oggetto presente.
La motivazione è fondamentale per i funzionalisti ed è definita come qualsivoglia stimolo
persistente (fame, sete, pulsione sessuale, dolore) che domina il comportamento dell’individuo fino
a quando quest’ultimo non reagisce in moto tale da soddisfarlo.
L’apprendimento è l’oggetto principale della ricerca funzionalistica (come la sensazione è per lo
strutturalismo). Funzione adattiva per eccellenza, consiste nell’acquisizione da parte dell’organismo
di appropriate modalità di risposta a situazioni problematiche, ovvero modalità di risposta che
hanno valore di sopravvivenza. La spiegazione dei meccanismi interni dell’apprendimento non è
però originale, e riprende la tradizione associazionistica, in particolare la famosa «legge
dell’effetto» (apprendimento per prove ed errori): ogni atto che in una data situazione produce
soddisfazione finisce con l’essere associato a quella situazione, dunque, quando la situazione si
ripresenta, l’atto ad essa relativo ha maggiori probabilità di ripetersi. Tuttavia, per i funzionalisti
non è così per prove ed errori, perché l’organismo si comporta spesso non già in modo casuale,
bensì in modo selettivo e analitico.
Del pensiero infine si sottolineano gli aspetti adattivi o strumentali: il pensiero di un esame da fare
può indurre nel soggetto una preparazione più adeguata, svolgendo così una funzione adattiva.
-Il metodo del funzionalismo
Sebbene fondamentalmente soggettivistico come lo strutturalismo, il funzionalismo esclude
l’introspezione (funzioni mentali e non contenuti, impossibilità del metodo elementistico). In
generale, si può parlare di eclettismo metodologico dei funzionalisti. Valorizzano la
sperimentazione di laboratorio, ma essa è praticata a differenza di Titchener in modo meno
sistematico e rigoroso, finendo spesso per essere sostituita dal metodo osservazionale puro, più
idoneo a cogliere le funzioni mentali nel loro contesto naturale.
Come Wundt e al contrario di T., i funzionalisti accettano i contributi della filosofia, della storia,
della letteratura, dell’antropologia comparata. E come Wundt e al contrario di T., integrano talvolta
l’osservazione soggettivistica con quella comportamentale.
Infine, i funzionalisti aprono la psicologia allo studio delle differenze individuali, dello sviluppo
infantile, del comportamento animale.
-La polemica fra strutturalisti e funzionalisti
Intorno al 1910 la psicologia americana conobbe un ampio dibattito fra T. e i suoi allievi da un lato,
e i rappresentanti della scuola di Chicago dall’altro. Strutturalisti e funzionalisti, pur polemizzando
fra loro, sanno di appartenere alla medesima grande famiglia soggettivistica. Al funzionalismo T.
rivolge due critiche: 1) contrappone il proprio sperimentalismo sistematico alle componenti
filosofiche dei funzionalisti, le quali tendono secondo lui a riportare la psicologia allo stadio
prescientifico; attaccando dunque il vitalismo teleologistico (le cause finali) che i funzionalisti
vanno applicando alla psicologia; 2) sostiene che non ha senso cercare di capire cosa fanno per
l’organismo i processi mentali, se prima non si è capito cosa sono.
Quanto ai funzionalisti, la loro critica principale allo strutturalismo è quella secondo cui i momenti
di coscienza rilevati mediante introspezione sono transitori e cessano subito dopo, mentre le
funzioni mentali sono persistenti e continuative.
Dalla polemica scaturì inoltre un altro disaccordo problematico ancora oggi, ovvero quello relativo
all’utilità della psicologia. T. si erige a difensore di una scienza psicologica pura, circoscritta al
laboratorio accademico (come la fisica ad es.) e avente per oggetto i fatti della coscienza umana,
conoscere l’uomo generalizzato. Dall’altro i funzionalisti, influenzati dal pragmatismo (vero=utile)
giustificano la scienza psicologica sulla base del valore sociale dei suoi risultati: scoprire le
differenze interindividuali che tanta importanza hanno nella vita di tutti i giorni.
La scuola di Chicago tramonta in coincidenza dell’ascesa del comportamentismo, subito dopo il
celebre manifesto watsoniano del 1913, il quale integra in un sistema unitario e coerente più
suggestivo le tematiche originali del funzionalismo (apprendimento, utilitarismo) e denuncia con
intransigenza le componenti filosofiche del funzionalismo.
Il comportamentismo
-Le origini (comportamentologia, sperimenti, animali, Thorndike e le leggi)
Movimento nordamericano (1930-1950), nasce ufficialmente nel 1913 quando Watson pubblica un
articolo dal titolo La psicologia così come la vede il comportamentista, ma verrà conosciuto in
Europa solo negli anni ’50 a causa dell’americanizzazione della cultura europea. Essenzialmente,
per più di duemila anni la psicologia era stata intesa nel suo senso etimologico di «studio
dell’anima», ma già con Wolff (distinzione razionale ed empirica) si presupponeva una possibile
diversa analisi, un diverso metodo d’indagine. Il comportamentismo fa ciò, afferma che, poiché la
mente è una black box all’interno della quale non sappiamo e non possiamo osservare cosa accade,
gli psicologi devono limitarsi allo studio scientifico del comportamento oggettivamente osservabile.
Di fatto, esso è quasi una nuova disciplina che propone un differente oggetto di studio, una
comportamentologia, se non ci fosse l’ambizione di spiegare quanto affrontato dalla vecchia
psicologia: i contenuti psicologici (emozione, apprendimento soprattutto ecc.) devono essere adesso
studiati attraverso la loro manifestazione osservabile nei termini dei comportamenti.
Il comportamentismo coincide con un momento di forte cambiamento per la psicologia mondiale:
se fino al 1915 i rapporto fra industria e psicologia erano stati piuttosto fievoli, durante la guerra si
assiste invece a un boom della psicologia, utilizzata per testare i soldati da selezionare, nonché
classificarli in vista dell’assegnazione dei ruoli; gli psicologi delle università, così, finirono
progressivamente col collaborare nella pubblicità, nell’organizzazione industriale, dell’esercito ecc.
indipendentemente dal loro orientamento teorico.
Importante è che i comportamentisti abbiano fatto praticamente la storia della psicologia
sperimentale, in quanto, a causa del fatto che il comportamentismo aspira a dare una fondazione
scientifica alla psicologia in maniera da collocarla fra le scienze biologiche, lo scienziato
comportamentista è sempre prima scienziato che comportamentista.
Watson prende molto dal funzionalismo e dalla teoria darwiniana, come dimostra l’influenza
esercitata sul comportamentismo da parte della sperimentazione sugli animali (l’evoluzionismo
darwiniano aveva chiarito che fra l’uomo e le altre specie non vi era una differenza radicale tale per
cui l’uomo ha l’anima e gli animali no: era dunque plausibile fare ricerca psicologica anche con gli
animali). Su quest’ultimi Watson affermava come se ne dovesse studiare solo il comportamento.
Per spiegare l’approccio comportamentista Legrenzi definisce la legge dell’effetto di Thorndike,
che allo studio degli animali molto si dedicò per capire l’apprendimento: metteva dei gatti in una
gabbia (problem box) e gli fa cercare la maniera di uscire per poter raggiungere il cibo
osservandone trials and error, che è quella di premere una leva; Thorndike nota che le risposte non
corrette tendono a essere abbandonate mentre quelle corrette a essere ripetute. La legge, allora, dice
che «un’azione accompagnata o seguita da uno stato di soddisfazione tenderà a ripresentarsi più
spesso, mentre se seguita da uno stato di insoddisfazione tenderà a ripresentarsi meno spesso».
La legge, oltre che chiaramente rendere necessarie poche ipotesi su cosa succeda dentro l’individuo,
sottolinea il carattere adattivo e utilitaristico dell’azione umana. Inoltre, poiché il tempo necessario
a un gatto per uscire da una gabbia decresceva regolarmente (legge dell’esercizio), indica come
l’apprendimento sia graduale, totalmente al contrario di quanto postulato dai gestaltisti. Infine,
Thorndike ha notato come una risposta acquisita in una situazione verrà effettuata in altre situazioni
nella misura in cui queste ultimi sono simili alla prima (legge del trasferimento). [Skinner
riprenderà Thorndike ampliandolo con il concetto di rinforzo].
-Il comportamentismo watsoniano
Per quanto riguarda Watson, anzitutto egli polemizza fortemente contro l’introspezione, ritenendola
non scientifica: l’osservazione introspettiva era compiuta da una persona che parlava di cose che gli
altri non potevano vedere direttamente, perché i dati introspettivi sono privati e non pubblici come
quelli delle scienze naturali. Contribuisce dunque a segnare la fine della psicologia precedente, visti
anche i fermenti storici (antigermanismo accademico, potenziamento statunitense, diffusione delle
applicazioni della psicologia). Il suo comportamentismo si sviluppa fra il 1913 e il 1930 e non si
presenta come un sistema organico e definito una volta per tutte. È però chiaro che la sua
osservazione psicologia sia centrata sul comportamento nel senso di azione complessa manifestata
dall’organismo. Comportamenti dunque che non si identificano nelle singole reazioni psicologiche
dell’organismo (contrazione di un singolo muscolo), le quali sono però esistenti in quanto reazioni
semplici (vanno studiate da altre scienze quali medicina e fisiologia) e compongono l’unità
complessa.
Il condizionamento comincia a occupare un posto centrale nella teoria comportamentista verso il
1916, in cui Watson appare decisamente influenzato non solo da Pavlov ma anche da Secenov e
Bechterev. Il principio del condizionamento dice che ci sono risposte incondizionate a stimoli
incondizionati, e che altri stimoli che siano stati associati a quest’ultimi provocheranno anch’essi la
reazione incondizionata pur non avendo per sé stessi alcuna relazione con essa. La ricerca sul
condizionamento era di particolare importanza per Watson perché individuava precise unità-stimolo
e precise unità-risposta, e inoltre offriva un principio chiave per spiegare la genesi dei
comportamenti complessi: potevano essere il risultato di una lunga storia di condizionamenti.
Per questo motivo, assunse particolare importanza per Watson lo studio dell’apprendimento a
cominciare dalle prime acquisizioni infantili. Secondo Watson, per quanto riguarda le emozioni,
paura rabbia amore erano le emozioni elementari, definite sulla base degli stimoli ambientali che le
provocavano; e a partire da queste emozioni si costruivano le altre. Un caso famoso di
apprendimento delle emozioni è il caso del piccolo Albert, bimbo di 9 mesi, suddividibile in 4 fasi:
1) il bimbo gioca solitamente con un topolino senza alcun timore; 2) viene associata la
presentazione del topolino con un forte rumore; 3) successivamente all’associazione
(apprendimento per condizionamento) il bambino manifesta una grande paura per i topi; 4) per il
meccanismo di generalizzazione dello stimolo, la paura è generata anche da altri oggetti aventi
simili caratteristiche. Insomma: il rumore è lo SI legato direttamente alla RI di paura; SI+S
(topolino)=SC. Watson tenterà di applicare l’apprendimento emotivo a quello del linguaggio,
anch’esso dunque acquisito per condizionamento: il bambino sente associare a un oggetto il suo
nome e di conseguenza il nome finisce per evocare la stessa risposta evocata dall’oggetto.
-L’esperienza e le grandi teorie dell’apprendimento, ovvero il neocomportamentismo (Tolman,
Hull, Skinner)
Con un’affermazione rimasta famosa, Watson dichiarò che se gli avessero dato una dozzina di
bambini sani, ne avrebbe potuto fare a piacimento buoni dottori, magistrati, artisti
indipendentemente dalle loro ipotizzate ‘tendenze, inclinazioni’. Secondo questa posizione, l’uomo
era dunque totalmente il prodotto delle sue esperienze. Conseguentemente assumeva importanza
centrale lo studio dell’apprendimento, cioè della maniera in cui l’uomo acquisisce attraverso
l’esperienza un repertorio di comportamenti che saranno poi gli elementi costitutivi della sua
personalità complessiva.
Ecco allora che gran parte delle teorie dell’apprendimento elaborate fra il 1920 e il 1960 è
riconducibile al comportamentismo, ma sviluppa, definendosi come neocomportamentista, lo
schema del comportamento classico che era riassunto nella formula S-R, ampliandolo inserendo tra
Stimolo e Risposta l’organismo.
Tra queste c’è quella di Tolman, noto neocomportamentista nonché precursore del cognitivismo,
che si differenzia dalla posizione ‘molecolaristica’ di Watson (che rischiava di identificare il
comportamento con le «contrazioni muscolari» e di rimandarne lo studio alla fisiologia) per il
concetto di specifico psicologico, di natura comportamentale (non psichica) e caratterizzato per la
sua irriducibilità. L’argomentazione di Tolman si spiega meglio se la si intende come un
comportamentismo intenzionale, ovvero lo studio del comportamentismo sulla base degli scopi: il
comportamento rivela intenzionalità, è rivolto a uno scopo (non è meccanico stimolo-risposta di
Watson), dunque non c’è apprendimento se non c’è scopo da realizzare. Egli, con esperimenti sul
comportamento dei ratti, ha descritto la problematica inerente all’intenzionalità del comportamento,
affermando come perché l’individuo sappia che quella risposta porta allo scopo desiderato, la
connessione deve essersi verificato in passato e l’individuo deve averla appresa. Inoltre, lo scopo è
descrittivamente presente quando è presente almeno una delle seguenti condizioni in rapporto allo
scopo dell’azione: la costanza dell’oggetto-meta a dispetto delle variazioni degli ostacoli; la
cessazione dell’attività quando un determinato oggetto-meta è tolto. Tolman, infine, parla di
variabile interveniente, riconoscendo come un metodo oggettivo riconosce solo la variabile
rappresentata dal comportamento quando in realtà ce n’è può essere una mentale che inferisce e
interviene (esperienza precedente, stato pulsionale, stimoli ambientali ecc.).
In ultimo, Tolman sviluppa il concetto di apprendimento latente: si apprende anche senza rinforzi.
Per verificare tale ipotesi seleziona tre gruppi di ratti e osserva i loro comportamenti in un labirinto:
nota così che i topi apprendono nei primi 10 giorni la struttura del labirinto (mappa spaziale) senza
la necessità di alcun rinforzo, ma commettevano molti errori, che si riducono drasticamente all’11
giorno quando c’è il rinforzo; dunque, il rinforzo è utile perché si manifesti un comportamento e
non perché lo si apprenda; e dunque la conoscenza appresa può rimanere latente in mancanza di
motivazione specifica. La mappa cognitiva, infatti, ovvero la rappresentazione mentale dello
spazio e della meta che i topi hanno creato, e che permette di raggiungere la meta col percorso più
semplice (principio del minimo sforzo), è utilizzata sistematicamente quando il rinforzo si palesa,
quando si profila uno scopo da realizzare.
La variabile interveniente è centrale anche in Hull, che la considera un fattore interno (pulsione è
fattore interno per lui) che si colloca tra stimolo e risposta, passando da una visione S-R a una S-
O(organismo: fattore interno)-R. Peccato che Hull costruisce una teoria ipotetico-deduttiva simile
a quella delle scienze fisiche: consta infatti di definizioni, postulati, teoremi ecc. che tentano di fare
previsioni non solo sulla direzione (Federico risponderà al telefono?) ma anche sugli aspetti
quantitativi (quanto tempo ci metterà?) del comportamento. Rimane però, proprio per questo, molto
campata in aria e con poche situazioni sperimentali.
Se Hull credeva nell’utilità della teoria, Skinner si mostra invece contrario. È interessato
all’osservazione del comportamento e alla sua relazione con le contingenze di rinforzo, cioè delle
occasioni in cui a una determinata risposta ha fatto seguito una ricompensa, che è chiaramente una
conseguenza positiva. La sua idea è che questo tipo di analisi possa essere sufficiente a spiegare
ogni forma di apprendimento, incluso quello linguistico – anche perché il riferimento ai processi
che si verificano nella mente sarebbe solo inutile, fuorviante, oltre che difficilmente osservabile
oggettivamente.
Egli estrapola le sue analisi dallo studio del comportamento di ratti e piccioni immessi in una
gabbietta (Skinner-box), tra le cui risposte possibili ne viene scelta una (la pressione di una leva ad
es.) a cui far seguire uno stimolo rinforzante (granello di cibo). Si osserva dunque che la risposta
seguita da rinforzo tenderà a presentarsi con sempre maggiore frequenza, produce un aumento del
comportamento. Questo paradigma è detto condizionamento operante, e si differenzia da quello
studiato da Pavlov (condizionamento classico) per il fatto che la risposta precede piuttosto che
seguire lo stimolo: nel caso del cane di Pavlov, lo stimolo incondizionato (cibo) o condizionato
(campanella associata al cibo) provoca necessariamente la risposta incondizionata; nel caso del ratto
di Skinner, l’organismo emette sempre più spesso quella risposta cui ha fatto seguito un rinforzo, la
ricompensa (stimolo) è sempre successiva al comportamento.
Il paradigma del condizionamento tipo R (così chiama il suo Skinner) è maggiormente adatto a
spiegare apprendimenti complessi, non spiegabili sulla base del condizionamento tipo S (Pavlov).
Infatti, mentre il classico si fondava sull’esistenza di reazioni incondizionate (che sono poche) e
sulla formazione di condizionamenti di second’ordine (cibo-campanella), ebbene la possibilità di
condizionamenti di quarto, quinto ecc. ordine appariva indimostrata. Quello operante invece si
applica a qualsiasi tipo di risposta perché ciascuno di essi può essere seguito da rinforzo.
-L’apprendimento sociale e la formazione della personalità
A partire dai contributi di Miller e Dollard (1941) osserviamo un impulso dei comportamentisti a
studiare le interazioni sociali. Nelle loro elaborazioni teoriche trovano ampio spazio fenomeni come
frustrazione, aggressività, ricompense sociali, si esalta molto il principio d’apprendimento per
imitazione sociale. Secondo loro, infatti, il bambino acquisisce una tendenza a imitare (soprattutto
modelli psicologicamente attraenti) poiché è stato rinforzato nelle prime risposte di carattere
imitativo. Ma i modelli e i rinforzi possono agire anche per inibire le risposte, non solo incentivarle.
Psicoanalisi
-Le origini e il senso della psicoanalisi (clima scientifico e culturale)
Il clima scientifico e culturale in cui nasce la psicoanalisi è particolare. La vicenda la si può far
cominciare quando Freud si iscrive alla facoltà di medicina di Vienna nel 1873, tempo in cui il
clima scientifico s’interessava molto di Darwin. Così, Freud segue due corsi non previsi dal suo
piano di studi, quello di anatomia comparata di Claus, il cui intento era quello di confermare
mediante l’osservazione l’ipotesi della continuità esistente tra le varie specie animali, e quello di
fisiologia di Brucke, principale esponente della Scuola fisica di Berlino (anche Helmholtz).
Quest’ultima si proponeva di abolire qualsiasi tentativo di pensiero non scientifico e di richiamarsi a
una disciplina di base che potesse garantire un rigore sperimentale e teorico: la fisica.
A Freud, dunque, si prospettava un futuro di fisiologo e di neurologo, ma egli rinunciò pian piano
all’impostazione meccanicistica e naturalistica dei suoi maestri. Fondamentale in questo senso è la
frequentazione delle lezioni dello psichiatra Meynert, che molto si occupava del sistema nervoso
centrale, inserendo nelle sue teorie, oltre ai dettami della fisiologia fisica, anche la filosofia di
Herbart. Quest’ultimo credeva che la psicologia fosse preminente sulla fisiologia, e che grande
importanza rivestissero le idee inconsce nei processi psichici.
A queste esperienze personali si sommava il clima culturale: come la spinta all’innovazione della
scienza empirica, ai fatti certi fu protagonista sin dai primi decenni dell’Ottocento, adesso una crisi
delle scienze naturali dava l’avvio a un generale ripensamento – anche se in molti, soprattutto
nell’ambito psicologico, Wundt e Titchener ad es., prediligendo il lavoro in laboratorio non
consideravano tali aspetti oggetto di indagine appropriato per la psicologia scientifica –: i modelli
naturalistici che assegnavano regole immutabili ai fenomeni di tutti i tipi non erano più ritenuti
sufficienti, soprattutto a spiegare fenomeni psichici. Freud fu proprio fra quelli che cominciarono a
dubitare delle certezze basate sulla riduzione della spiegazione di tutti i fenomeni al discorso fisico.
-L’opera di Freud e il suo sviluppo (maestri e Breuer, libìdo)
Egli infatti, grazie all’osservazione dell’isteria, si andò convincendo che alla base di determinate
alterazioni funzionali (cecità temporanea, convulsioni ecc.) non era riscontrabile un’alterazione
organica, e quindi vi doveva essere una causa di origine psichica, non somatica. Questa convinzione
veniva corroborata dalle teorie di Charcot (Janet), un medico francese assai noto al tempo che a
Parigi conduceva ricerche nel campo dell’ipnosi applicata alla cura dell’isteria (perdita temporanea
delle funzioni cognitive o motorie, di solito dopo esperienze emotivamente sconvolgenti). Freud
frequentò a Parigi (1885) le lezioni di Charcot, e, tornato a Vienna l’anno dopo mise in pratica
quanto appreso: che l’isteria fosse originata da determinati traumi psichici che si traducevano in
manifestazioni somatiche, e che l’ipnosi permetteva di far scomparire i sintomi isterici. Freud
intraprese i suoi studi allora, ma si rese conto presto che tale metodo incideva solo sul sintomo
senza interessare le cause di esso. Nei successivi 8 anni, allora, egli, insieme a Breuer, adattò una
variante del metodo ipnotico consistente sempre nel mettere in stato ipnotico il soggetto, ma
invitandolo contemporaneamente a ricordare quelle particolari esperienze dolorose che venivano
ipotizzate come la causa dei sintomi. Era il metodo catartico e consentì ai due studiosi di giungere
a due risultati: che i sintomi isterici sono i sostituti di processi psichici normali non verificatisi
(quelle reazioni emotive che sarebbero state adeguate) e, nel contempo, un ricordo del motivo che
l’ha originata; che i ricordi traumatici rimossi, riattivati nella coscienza (riportare la mente del
paziente all’evento che aveva innescato il tutto), consentivano la scomparsa/attenuazione dei
sintomi.
Curioso è il caso di Anna O., paziente di Breuer che soffriva di sintomi gravi quali paralisi e
disturbi della visione e della parola. Breuer comincia ad applicarle il metodo catartico. Purtroppo il
rapporto fra paziente e terapista si fece più intenso e la conduzione del caso divenne impossibile per
il manifestarsi della passione di transfert, a causa della quale la paziente aveva iniziato a provare
sentimenti d’amore per il medico.
Dal punto di vista pratico, il metodo catartico aveva però dei limiti notevoli: i sintomi scomparivano
per un certo periodo, per poi fare la loro ricomparsa una volta che la cura veniva sospesa; si
verificava una forte dipendenza da parte dei pazienti nei confronti del terapeuta. Non mancarono
inoltre dissidi teorici tra i due psicologi: Freud si convinse sempre più che l’incompatibilità di
determinati pensieri o desideri con la vita cosciente dipendeva dal fatto che essi erano fortemente
associati alla vita sessuale e in particolare con ricordi ed esperienze vissute riconducibili
all’infanzia; Breuer, invece, la pensava come la pensava la scienza ufficiale, rifiutò dunque
l’impostazione freudiana della libìdo, cioè appunto l’energia psichica che presiede gran parte delle
relazioni dell’individuo.
All’inizio del secolo, dunque, Freud formulò la sua celebre concezione dell’attività onirica,
rendendo l’analisi dei sogni il cardine dell’interpretazione psicoanalitica (L’interpretazione dei
sogni). Essenzialmente, la scena onirica è costituita da desideri e tendenze rimossi durante la veglia
che, entrando in contatto con i resti diurni, pongono le condizioni per l’appagamento dei desideri
inconsci. Ciò però avviene in maniera pazzesca perché i pensieri onirici latenti che agiscono al di
sotto della scena manifesta (ciò che il dormiente vede) vengono trasformati con procedimenti
poetici dal lavoro onirico che presiede e manipola i pensieri rimossi, a cui si unisce la censura.
Da qui, Freud si dedica a molteplici trattazioni: il complesso edipico, il narcisismo, principio di
piacere e di realtà, l’estensione dell’indagine psicoanalitica ai vari campi del sapere ecc.
Il movimento cognitivista
-Lo scenario (il dominio del comportamentismo, Hebb e il realismo logico)
Negli anni ’50 vi era una scuola psicologica che esercitava un assoluto predominio sulla psicologia:
il comportamentismo. Tale predominio era iniziato nel corso degli anni ’30, con lo scomparire delle
varie scuole che potevano contrastarlo: lo strutturalismo si era esaurito con la morte dei suoi capi
storici (Wundt e Titchener), il funzionalismo era proprio confluito nel comportamentismo e la
Gestalt aveva subito un duro colpo con l’avvento del nazismo in Germania. Certo, sfugge a questo
dominio la psicologia dell’età evolutiva, che arriverà in America negli anni ’60. Tutto ciò aveva
determinato il fatto che per molti anni la mente e i processi mentali erano stati ignorati. Arriva così
la rivoluzione cognitivista, pronta a interessarsi dei processi cognitivi (percezione, memoria,
linguaggio, cretività) che erano stati trascurati dai comportamentisti.
Paradossalmente, il cognitivismo è una diretta filiazione del comportamentismo, che rimane, sia
pure per distinguersene, il punto di riferimento. Anche il nome del movimento risente di questa
origine, poiché i primi cognitivisti non esitavano prima della metà degli anni Sessanta a definirsi
comportamentisti, pensando di vivere una nuova fase del comportamentismo, dopo il
neocomportamentismo, detta «cenocomportamentismo». La fase era iniziata con Hebb, il quale si
era posto il problema delle variabili intervenienti, introdotte dai neocomportamentisti come
costrutti ipotetici per spiegare quei fenomeni che non potevano essere interpretati direttamente con
semplice corrispondenza stimolo-risposta. Hebb in particolare era interessato ai processi di
mediazione, cioè a quei processi che consentono all’individuo di non rispondere immediatamente
allo stimolo, ma che, creando delle strutture interne («assembramenti») al suo sistema nervoso,
fanno sì che egli possa comportarsi avendo a disposizione stimoli e risposte interne. Aveva dunque
cominciato a porre le condizioni perché nella cultura psicologica nordamericana si uscisse dalle
angustie dei modelli stimolo-risposta: l’interesse per la prima volta si rivolgeva ai processi che si
svolgono all’interno dell’individuo, ma non più sul piano del puro costrutto ipotetico, bensì su
quello del modello logico dello svolgimento dei processi mentali. Bisogna infine chiarire che con
Hebb si introduce una modalità di concettualizzare i fenomeni che diventerà tipica del cognitivismo,
ovvero la creazione di modelli di idealizzazione del sistema nervoso la cui preoccupazione non è
quella di essere realistici nel descrivere la mente, ma di rappresentare realisticamente le funzioni
svolte dalla mente per mezzo di uno schema valido sul piano logico, e questo perché l’interesse è
sempre rivolto ai processi mentali, questi sì visti con occhio realistico. Insomma, l’autore del
modello non pretende che vi sia nel cervello un organo deputato a una determinata funzione, ma
afferma con esso che la funzione è logicamente necessaria, quale che sia la parte del sistema
nervoso che la svolge.
-Il mentalismo dei cognitivisti
Il cognitivismo può essere considerato sotto molti aspetti una psicologia mentalistica. Non è però un
mentalismo di tipo metafisico, bensì sempre realistico. Inoltre, i modelli che i cognitivisti utilizzano
sono in origine derivati dai modelli cibernetici, cosa che consente l’utilizzo della simulazione
mediante calcolatore elettronico (che però rimane spesso solo a livello di progetto).
Dal punto di vista epistemologico, dunque, esso prende le distanze dai fondamenti epistemologici
del comportamentismo, e, in particolare, dall’empirismo logico. Negli anni ’50, infatti, anche quella
che era stata la prima liberalizzazione dell’empirismo – passaggio da un sistema in cui si riteneva
che di ogni concetto teorico si potesse dare una definizione contestuale, a un sistema in cui si
comprese come vi fossero eventi fisici osservabili solo in determinate circostanze, e se ne poteva
dunque dare solo una definizione per riduzione – mostra le sue angustie e si ha la seconda
liberalizzazione dell’empirismo, cioè la consapevolezza che vi sono termini primitivi nel sistema
teorico che vanno introdotti indipendentemente dall’osservazione.
È in questo momento di crisi che emerge il cognitivismo, quando cioè il comportamentismo non è
più in grado di bollare come ascientifico tutto ciò che non è direttamente osservabile, e si rendono
necessari dei concetti mentalistici.
-Lo sviluppo storico del cognitivismo (Craick, mente e computer, memoria,TOTE)
Fornito un abbozzo dei presupposti del cognitivismo e individuatone il clima culturale, bisogna
adesso delineare le tappe più significative per l’affermazione del movimento. Va però subito detto
che esso non è una scuola e non vi è mai stato un manifesto vero e proprio (c’è Psicologia cognitiva
di Neisser, ma è uscito quando il movimento era già affermato da un decennio).
Mancando una data ufficiale di inizio, la storia del movimento può essere fatta cominciare dalla
seconda guerra mondiale, quando Craick iniziò a Cambridge (città cardine del cognitivismo) delle
ricerche sul comportamento di tracking. Il tracking è un compito in cui vi è un bersaglio mobile
che si sposta su uno schermo e al soggetto viene chiesto di tenere allineato un segnale (spesso una
penna) col bersaglio (spesso una pista che scorre). Craick scopre così che il soggetto umano non
appare in grado di operare più di una correzione ogni mezzo secondo; e ipotizza che all’interno
dell’organismo vi sia un meccanismo decisore che doveva impiegare almeno mezzo secondo per
elaborare le informazioni in arrivo. (Con la riscoperta dell’enorme importanza del tempo impiegato
a compiere le azioni, come indicatore dei processi mentali sottostanti alle azioni stesse) si affermava
per la prima volta che: l’uomo poteva essere concepito come un elaboratore di informazioni, un
servomeccanismo di tipo cibernetico; l’uomo aveva un tipo di funzionamento discreto; il
meccanismo decisore era unico e non potevano essere eseguite più cose alla volta.
Per comprendere ciò, non si deve perdere di vista la situazione generale. Negli anni ’50 infatti la
comparsa del computer ebbe un enorme impatto concettuale sulla psicologia cognitiva, che sviluppò
un’idea generale secondo cui i computer sono sistemi di elaborazione delle informazioni nei cui
circuiti scorre il flusso di informazioni, e gli eventi mentali possono essere pensati come un flusso
di informazioni che percorre la mente, anch’essa appunto elaboratore. Il computer allora poteva
fungere da modello della mente umana, essendo entrambi elaboratori che registrano, memorizzano e
recuperano informazioni. In quest’ottica (modello HIP: human information processing),
cervello=hardware, mente=software, e tra input (stimolo esterno da elaborare) e output
(comportamento) c’era un processo cognitivo interno di elaborazione alquanto complesso e
dinamico, organizzato in stadi in cui entrano in gioco diversi elementi (percezione/linguaggio e
memoria; ragionamento ed emozioni). La mente è dunque concepita come elaboratore di
informazioni di tipo sequenziale che ha una capacità limitata di elaborazione. Inoltre, tutte le attività
che svolgiamo grazie ai processi cognitivi sono per la maggior parte consapevoli e attengono alle
nostre risposte volontarie più che involontarie. Infine, bisogna dire che grazie al modello HIP il
soggetto non è considerato passivo di fronte agli stimoli, ma attivo.
La memoria è un tema studiato dai cognitivisti, e specificamente la memoria a breve termine. Fu
questo, accanto alla vigilanza (abilità che dimostriamo in molte occasioni: prestare attenzione alla
posizione di un ago su un quadrante controllando quando si sposta), ai tempi di reazione e altri
processi mentali, uno dei temi principali di ricerca. La memoria era stata studiata dai
comportamentisti per i suoi stretti legami con il tema dell’apprendimento, ma per loro non aveva
senso distinguere tra diversi tipi di memoria a seconda dei tempi di memorizzazione: il processo era
unico. Ma dopo gli studi di Brown erano sorte fondamentali differenze tra memoria secondaria e
primaria: si dimostrò, ad es., che se la memoria secondaria è suscettibile ai processi di interferenza
sul piano semantico (memorizzando bene una lista di vocaboli, può capitare che si scambino i
significati), ciò non avviene in quella primaria, soggetta invece a interferenze di tipo fonologico.
Tornando all’analogia strutturale e funzionale tra mente e computer, l’opera che ne raccolse meglio
i risultati fu Piani e strutture del comportamento di Miller, psicolinguista, Galanter e Pribram. In
quest’opera gli autori tentarono di dare alla psicologia un’unità di analisi che potesse sostituire il
riflesso (comportamentismo), e ritennero di poterla individuare nell’unità TOTE (test-operate-test-
exit). Essenzialmente, ogni volta che un individuo deve compiere un’azione, in primo luogo verifica
nell’ambiente se la situazione è congruente con gli obiettivi dell’azione che deve svolgere (test): se
è congruente si avrà l’uscita (exit) dall’unità TOTE, se non è congruente dovrà operare (operate) per
modificare l’ambiente, quindi verificare (test) che adesso la situazione sia congruente e in caso di
risposta affermativa uscire, altrimenti continuare a operare e verificare. Supponendo che si debba
appendere un quadro al muro: controllo se il chiodo è già presente nella posizione voluta (test), se
non c’è lo pianto nella posizione (operate), verifico dunque se il chiodo risponde ai requisiti (test: è
dritto ad es.), se sì esco dall’unità per passare a un’altra (exit). Grazie al TOTE, si scoprì come il
comportamento non era l’epifenomeno di un arco riflesso (input-elaborazione-output motorio), ma
il risultato di un processo di continua verifica retroattiva (feedback).
Se gli anni ’50 furono quelli della rottura col comportamentismo, i ’60 e i ’70 non portarono a
risultati sostanzialmente nuovi, ma servirono ai cognitivisti per ‘riconoscersi’ (ricordiamo il non-
manifesto di Neisser). Tuttavia, furono anche gli anni in cui la teoria cominciò a frantumarsi verso
modelli troppo astratti.
-Prospettiva ecologica e scienza cognitiva (Neisser, modularismo e connessionismo)
Nove anni dopo il non-manifesto, nel 1976, Neisser criticò la metafora uomo-computer, resa col
tempo sempre più rigida e lontana dalla realtà, nel suo Conoscenza e realtà. Oltre appunto al
distacco dalla comprensione del funzionamento dell’uomo in nome di una ricerca che si ripiega su
sé stessa, Neisser critica fortemente anche il concetto di elaborazione delle informazioni.
Influenzato da Gibson, egli afferma che le informazioni che l’individuo elabora vanno viste
nell’ambiente, perché è lì che sono, è l’ambiente che le offre. Nasce così l’impostazione ecologica,
uno dei due filoni del cognitivismo tra gi anni ’80 e ’90, che ha maggior interesse per l’uomo e per i
suoi problemi quotidiani, rifiutando l’analogia uomo-calcolatore. L’altro filone è la scienza
cognitiva. Essa, in contrapposizione con la tendenza ecologica, nasce nel 1977 con la rivista
omonima e insiste sull’intelligenza artificiale e sull’utilizzo della simulazione, operando di nuovo
una saldatura tra il mondo dell’intelligenza artificiale e la psicologia dei processi cognitivi. I
paradigmi dominanti della scienza cognitiva sono due: modularismo e connessionismo.
Il modularismo distingue nella mente umana i sistemi di input (o moduli) che analizzano i dati
sensoriali, e i sistemi centrali deputati alle funzioni superiori (problem solving ecc.). Propone
dunque un’architettura cognitiva (struttura della mente) disposta in strutture verticali specializzate
(moduli) adibite all’analisi dell’input che trasformano questi ultimi in rappresentazioni che vengono
offerte ai sistemi centrali, i quali svolgono operazioni lente e sotto controllo volontario e cosciente,
per le elaborazioni più complesse. Fodor dà anche le caratteristiche dei sistemi di analisi di input:
sono scomponibili in sottocomponenti, sono altamente specializzati e differenziati, il loro
funzionamento è obbligato (devono entrare in azione quando si presenta l’input), sono incapsulati
(isolati da info provenienti da altre parti del sistema cognitivo) e indipendenti sebbene cooperino.
Il connessionismo propone un nuovo modello a fronte delle nuove scoperte neuropsicologiche,
grazie alle quali si è scoperto come esista una notevole incongruenza tra l’hardware del sistema
nervoso centrale e quello dei calcolatori: il sistema nervoso opera con elementi relativamente lenti,
ma massivamente interconnessi in parallelo, e non con elementi rapidi operanti serialmente. La
modellistica (interpretazione dell’azione del sistema nervoso) ha dunque elaborato modelli di
funzionamento a parallelismo massivo, in cui ogni attività mentale è vista come l’attivazione di
diversi sistemi posti in rete (rete neurale) che non operano in modo sequenziale/gerarchico, ma
parallelamente e interagendo tra loro.