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Introduzione

-L’approccio storico alla psicologia; com’è fatta questa storia di Legrenzi


L’approccio storico permette di ridurre il pericolo che una legge o una previsione, se creduta vera,
divenga di fatto verosimile, ovvero le prese di posizione unilaterali, perché presenta vari punti di
vista senza privilegiarne uno in particolare.
Abbiamo chi considera la psicologia al pari delle altre scienze naturali, cercando di trapiantarvi
criteri e metodi dei rami del sapere più consolidati (come ad es. la biologia); ma abbiamo anche chi,
al contrario, ritiene che essa non abbia modelli precostituiti di scientificità. La prospettiva
storiografica tradizionale sosteneva che la disciplina fosse nata come scienza autonoma quando si
era cominciato a portare i fenomeni in laboratorio così da poterli analizzare. In base a questo
criterio, si riconosce a Wundt (e si insiste molto su di esso per la ricerca di un’autonomia della
psicologia) il merito di aver fondato la psicologia, poiché è il primo ad aver creato un laboratorio di
psicologia (Lipsia, 1879). Tuttavia, non si coglierebbero tutte quelle psicologie dei grandi pensatori
(da Aristotele a Kant), basate sulla semplice osservazione dei nostri processi psicologici nel corso
del loro svolgimento, che ci sono state prima: quella di Wundt è semmai la nascita di un settore di
ricerca della disciplina che prevede la progressiva applicazione del metodo sperimentale a tutti gli
aspetti del comportamento – c’è però chi continua a tenere in considerazione le psicologie e la
«psicologia del senso comune» (insieme di conoscenze e credenze sul comportamento altrui che
guida il nostro agire pur ignorando del tutto la scienza psicologica), le prospettive ingenue,
integrandole con la scientificità dei tempi recenti.
Questa storia di Legrenzi fonde le due ipotesi storiografiche secondo cui: 1) i nodi teorici della
psicologia sono già stati formulati in sede filosofica e lì vanno rintracciati; 2) l’adozione del metodo
sperimentale è il punto di partenza per l’autonomia scientifica della disciplina. Le fonde però non
con un compromesso, ma scegliendo una terza via: Legrenzi prende in considerazione il passato
filosofico, ma non come anticipazione di temi e teorie, ma come momento in cui cadono i vincoli
nei confronti di un’autonoma scienza dell’uomo. Fatto ciò, Legrenzi ha poi deciso di non analizzare
la psicologia nei suoi vari settori separatamente, ma per nuclei teorici.
-I laboratori e la storia della psicologia sperimentale (la divisione del lavoro, l’avvento del
computer)
L’adozione del metodo sperimentale, però, viene ancora considerata dagli storici classici della
psicologia (Boring, 1950) lo spartiacque tra i due millenni di psicologia filosofica e cento e passa
anni di psicologia scientifica.
Se si accetta la tradizione che va da Wundt a Titchener (maestro di Boring), il laboratorio è quel
luogo dove si misurano le prestazioni di un individuo connesse al funzionamento dei suoi organi di
senso o della sua mente. In tal caso, abbiamo avuto laboratori prima che venissero fondati
istituzionalmente. Tutto inizia col caso dell’osservatorio di Greenwich e il famoso episodio del
licenziamento di Kinnebrook: era un ambiente artificiale, creato cioè da scienziati per scopi
specifici; in cui ci sono apparecchi che integravano i sensi umani (vista e udito); l’operazione
sfociava in una misurazione resa possibile dall’interazione uomo-macchina.
Bessel, confrontando i propri tempi di osservazione con quelli ottenuti da altri illustri astronomi,
rileva differenze sistematiche tra le varie persone nella rilevazione, sviluppando il concetto di
«equazione personale», ovvero il tipo di errore sistematico che compie ogni osservatore che, se
conosciuto, avrebbe potuto depurare le osservazioni da errori individuali. Negli osservatori
dell’epoca si realizzano così molte delle condizioni dei veri e propri laboratori di psicologia
sperimentale: possibilità di controllo in condizioni create artificialmente; misura precisa di
prestazioni psicologiche; possibilità di ripetere le prove su più soggetti e di confrontarle.
Ciò che manca, rispetto a Wundt, non è però tanto lo scopo istituzionale (gli osservatori astronomici
sono chiaramente costruiti per altri fini), quanto il modo di lavorare tipico del laboratorio: in quello
di Wundt si divide sistematicamente il lavoro dello sperimentatore da quello del soggetto. Tutto è
dovuto a una rivoluzione dell’interpretazione delle risposte fornite dal soggetto, cioè al fatto che le
risposte date dal soggetto sperimentale agli stimoli presentanti non vengono interpretate solo come
effetti del variare degli stimoli che colpiscono l’organismo, ma, al contrario, le risposte fanno
emergere i modi in cui l’individuo elabora tali stimoli (tali input). L’oggetto di studio diventa la
coscienza dell’individuo, le cui risposte devono essere liberate da tutti i potenziali effetti distorcenti
e dovevano essere le più immediate possibili. È chiaro che per tali motivi era difficile far coincidere
soggetto e sperimentatore, far sì che il soggetto rilevasse i dati su sé stesso: il compito di fornire le
risposte in queste condizioni di immediatezza e di manipolare gli strumenti non poteva essere svolto
dalla stessa persona.
Il laboratorio di psicologia è dunque radicalmente diverso dagli altri laboratori delle scienze
naturali: in quest’ultime la divisione del lavoro non interferisce con la relazione tra lo
sperimentatore e il fenomeno indagato (in chimica una persona si occupa del processo di
distillazione e un’altra pesa il residuo, ma la collaborazione delle due persone non cambia il
processo chimico sotto osservazione); negli esperimenti di psicologia invece la divisone è
necessaria e fondamentale, una persona deve necessariamente funzionare come sorgente dei dati
dell’indagine, mentre l’altro agisce da osservatore. Solo così è permesso un controllo accurato delle
variabili, nonché la costruzione di condizioni di stimolazione del tutto artificiali. Nel tempo la
divisione del lavoro sarà sempre meglio codificata, ma le regole sviluppate man mano realizzeranno
sempre due principi: la garanzia che lo sperimentatore non influenzi quanto osserva; la garanzia che
il soggetto non venga influenzato dalla conoscenza di ciò che si studia.
Chiaramente, insieme alle nuove regole, nascono anche nuovi strumenti, nuove macchine che
fungano sia da stimolatrici sia da sperimentatori (registrazione delle risposte). Con determinate
conseguenze all’interno del laboratorio: la disumanizzazione (la tradizionale divisione wundtiana
del lavoro viene riassorbita dal computer), la simulazione (il sapere viene sempre più spesso
ricostruito con la simulazione del fenomeno indagato), creazione artificiale dei fenomeni (le
risposte vengono fornite da un sistema artificiale che simula un processo e non più da una persona o
un animale). Il luogo di osservazione diventa così un luogo di creazione degli eventi, in cui il
laboratorio psicologico diventa, grazie al computer, come qualsiasi altro laboratorio scientifico.
L’ultima tappa di questa nuova psicologia è l’immissione dei dati in rete.

Le origini della psicologia


-Quando e come può nascere la psicologia (definizione, storia del termine)
La psicologia è la scienza della mente e del comportamento: la mente si riferisce alla nostra
personale esperienza interiore (percezioni, pensieri, ricordi, sentimenti); il comportamento alle
azioni osservabili degli esseri umani, alle cose che facciamo nel mondo da soli o con altri.
Il termine psicologia significa ‘scienza dell’anima’ secondo l’etimo greco, è un’invenzione
relativamente recente ed è ancor più recente il significato che a tale termine oggi si attribuisce.
Coniato forse da Filippo Melantòne, il filosofo della Riforma collaboratore di Lutero, o da un
oscuro Rodolfo Goclenio, il termine nato a cavallo tra Cinquecento e Seicento vede il suo splendore
soltanto nel Settecento, quando viene ripreso dal filosofo razionalista allievo di Leibniz, Christian
Wolff, che lo utilizzò per designare una delle quattro parti (le altre tre sono ontologia, cosmologia e
teologia) in cui andava suddivisa la metafisica. Wolff inoltre distingueva una psicologia empirica,
che si doveva occupare dei fatti psichici fondati sull’esperienza, da una razionale, che si doveva
occupare dell’essenza dell’anima e delle sue facoltà.
Solo nella seconda metà dell’Ottocento, però, il termine psicologia comincia a essere utilizzato per
designare una disciplina scientifica autonoma dalla filosofia, con un’accezione più o meno analoga
a quella odierna – ma ben prima di quest’epoca vi erano stati dei tentativi, come quelli degli
idéologues francesi, di fondare una scienza che trattasse dei fatti psichici seguendo i principi delle
scienze naturali, anche se comunque non usavano tale termine e preferivano scienza del morale o
dell’uomo. Come scienza, la psicologia si afferma pienamente nel 1879 con Wundt, integrando
saperi già sviluppati come filosofia, fisiologia e biologia.
Ma perché la psicologia decolla così tardi come scienza? Il capitolo tenta di rispondere a questa
domanda.
-Le condizioni e il pensiero greco (l’uomo, Pitagora, Ippocrate, Aristotele, Platone)
Perché possa esservi una scienza dell’uomo occorre, come prerequisito, che l’uomo possa essere
oggetto di studio scientifico. Un prerequisito che sembra banale, ma che per diversi secoli è venuto
a mancare, costituendo il primo motivo del ritardato sviluppo della psicologia, poiché per molti
secoli il pensiero umano occidentale ha escluso che l’uomo potesse essere oggetto di indagine
scientifica. Questa impossibilità di studiare l’uomo è senza dubbio tipica del pensiero cristiano
medievale, ma non è sempre stato così. In particolare per il pensiero greco.
Solitamente la fonte della vita psichica è, per le antiche civiltà, nel cuore (scienza egiziana, cinese,
pensiero ebraico). Anche per i greci, con qualche eccezione che vedremo, era così, e in Omero i
riferimenti che lo confermano sono numerosissimi. Ma era frequente che, accanto al cuore, anche al
cervello venisse assegnato un certo ruolo. Così, Pitagora distingueva tre facoltà psichiche:
intelligenza, passione (comuni a uomo e animali) e ragione, che si trovavano nel cervello
(intelligenza e ragione) e nel cuore (passione).
Al di là delle opinioni dei presocratici o di Empedocle, ai fini del nostro discorso il rilievo più
importante lo ha indubbiamente Ippocrate, arcinoto per la medicina ma anche acuto filosofo che
fonda una scienza dell’uomo in cui confluiscono osservazioni sociologiche, psicologiche e
fisiologiche. È fondamentale per noi per la sua dottrina caratterologica, che sarà ripresa da Pavlov e
da Eysenck. Egli ritiene che vi siano quattro umori corrispondenti ai quattro elementi indicati da
Empedocle: il sangue, corrispondente all’aria (caldo e umido), la bile nera, corrispondente alla terra
(fredda e secca), la bile gialla, corrispondente al fuoco (caldo e secco), il flegma, corrispondente
all’acqua (freddo e umido). A seconda del prevalere di uno di questi umori, la persona svilupperà un
certo temperamento (sanguigno, melanconico, collerico, flemmatico). Ma Ippocrate è importante
anche per i suoi studi neurologici: afferma che il cervello è l’organo più potente del corpo e che gli
organi di senso agiscono in dipendenza di esso.
Con queste affermazioni, Ippocrate pone in evidenza una concezione che si sta affermando nel
pensiero greco e che trova la sua espressione più elevata in Aristotele (IV sec.): il fatto che l’uomo è
parte della natura e può dunque essere studiato con i metodi delle scienze della natura. Per
quest’ultimo, anzi, l’uomo è un animale e in quanto tale ad altri animali può e deve essere
comparato. Aristotele inoltre tenta anche di costruire, accanto a una psicologia dell’uomo (trattato
Dell’anima è il primo testo di psicologia mai stato scritto), anche una psicologia animale e una
infantile. Insomma, Aristotele fa sì che si affermi decisamente la concezione dell’uomo come
oggetto di studio naturale. E il risultato è ben visibile nella successiva filosofia greca, come nel De
sensu di Teofrasto, successore di Aristotele che ci ha lasciato un’analisi completa delle teorie
percettologiche greche. Da sottolineare però che ci fu anche chi si oppose alla teoria aristotelica,
come Erasistrato con la sua teoria pneumatica (pneuma vitale sede nel cuore, psichico nel cervello).
Facendo un attimo un passo indietro, per quanto riguarda Platone, egli, interrogandosi su come
funzionasse la mente, sostenne l’innatismo. Ovvero una teoria gnoseologica secondo cui certi tipi di
conoscenze sono innate o connaturate (come l’apprendimento del linguaggio), vi sono nozioni e
concetti che non vengono appresi tramite l’esperienza. L'esistenza dell'innatismo, secondo Platone,
era testimoniata dal fatto che le nostre conoscenze del mondo sensibile si basano su forme e
modelli matematici che non trovano riscontro in esso, ma sembrano provenire da un
iperuranio dove il nostro intelletto doveva averli contemplati prima di nascere.
-Dal Medioevo al Rinascimento (Dio e l’uomo, le forze prodigiose)
Se la filosofia greca aveva posto le premesse per il progredire della psicologia, il pensiero romano
non sviluppò però questi temi. Plinio il vecchio, ad es., si interessò dell’uomo solo per segnalare
casi meravigliosi e mostruosi. Rilevante fu tuttavia Galeno, che riprende la teoria pneumatica
aggiungendo lo pneuma fisico (derivato dai vapori del sangue e regolatore delle funzioni corporee),
consolidando così una teoria che si manterrà sino al XVII sec.
Con il Medioevo e la cultura cristiana si assiste a un completo rivolgimento di prospettiva. Il
pensiero medievale infatti è del tutto alieno dallo studio dell’uomo, di cui nega addirittura la
possibilità. Il mondo è concepito secondo una precisa struttura gerarchica con a capo Dio e
immediatamente sotto l’uomo, il quale non fa parte della natura. Quest’ultima, tra l’altro, si studia
in modo puramente descrittivo e senza alcun tentativo di sistematizzazione delle conoscenze (vedi i
bestiari ad es.).
Nel Medioevo vi è però la riscoperta di Aristotele, in poco tempo trasformato nella più grande
autorità a cui fare riferimento. Ma si tratta di un Aristotele stravolto, di cui rimane viva solo la
metafisica, adattata dai medievale ad uso delle dottrine teologiche. Nel mondo della scienza inoltre,
tutto è impregnato di spirito magico, dall’alchimia alla magia, risultando totalmente lontano dal
nostro concetto di scienza.
In queste condizioni una scienza dell’uomo è dunque impensabile nonché empia (si vietano gli studi
anatomici): come si può pensare a uno studio dell’anima, se questa discende direttamente da Dio?
Di studio delle forme di vita sociale, se queste sono su disegno di origine divina?
È solo alla fine del Trecento e nel Rinascimento che sarà possibile un nuovo rivolgimento che
permetterà di costruire le condizioni che rendono possibile una scienza dell’uomo. Ma è un
processo, quello che si sviluppa nel Rinascimento, colmo di contraddizioni e di grande lentezza,
tant’è che si concluderà solo nel Settecento.
In sintesi, nel Rinascimento vi è un improvviso interesse per l’uomo, non più visto in un’ottica
trascendente, in quanto uomo e come membro della natura. Anche quest’ultima viene spogliata
della sua aura divina, cercando di individuarne invece la sua energia naturale. Lo sforzo allora non è
più quello di cercare il soprannaturale, perché esso non esiste: la natura ha forze prodigiose,
magiche certo, ma non soprannaturali. La concezione che si afferma, però, è spesso ancora una
volta deterministica: nel mondo agiscono delle forze prodigiose che determinano tutto quanto
avviene, nulla si muove nell’universo che non abbia una diretta conseguenza su tutte le altre parte di
esso. Di qui, allora l’enorme importanza dell’astrologia: gli astri non esercitano più la loro influenza
come nel Medioevo, visto che fanno parte di un universo animato da forze prodigiose, ma possono
essere letti e studiati per prevedere gli eventi terreni (in modo assolutamente naturale).
-La rivoluzione scientifica e il razionalismo cartesiano (gli scienziati, i tre passi, Cartesio: dualismo
e idee innate)
Galileo (da tolemaico a copernicano), Keplero (leggi di Keplero: moto di rivoluzione e rotazione) e
Bacone (metodo fondato sull’esperienza) sono gli autori della svolta che porta dalla magia naturale
e dall’aristotelismo astratto alla scienza moderna: al legame tra teoria ed esperienza empirica.
Ancora una volta, però, le scienze dell’uomo non possono nascere in forma compiuta, anche se il
Seicento è appunto, soprattutto con Cartesio, nodo fondamentale nell’opera di abbattimento delle
barriere che il cristianesimo aveva poso nel Medioevo attorno allo studio dell’uomo. Tre sono i
passi importanti che si compiono in quest’epoca: il razionalismo cartesiano, il passaggio dallo
studio dell’essenza della mente a quella dei suoi processi, il passaggio da una concezione del corpo
come macchina a una in cui esso è organismo animale fatto di un’unità mente-corpo.
In sintesi, sono due gli aspetti del pensiero cartesiano che ci interessano. Anzitutto, la distinzione tra
res cogitans e res extensa, cioè tra anima pensante e corpo (inteso come macchina). Poi, la sua
dottrina delle idee innate.
Iniziamo dal dualismo cartesiano. Per Cartesio, il corpo è distinto dallo spirito (non lo chiama
anima per non confondere con la filosofia precedente) che pensa. Quest’ultimo è privo di estensione
e interagisce con il corpo a livello della ghiandola pineale (che non è la sede dello spirito, ma solo il
luogo di interazione), scelta motivata dal fatto che il curioso organo è posto all’interno della scatola
cranica e di esso non si conosce alcuna funzione. La cosa importante è soprattutto che il corpo può
essere considerato come un meccanismo perfetto, una macchina idraulica (recenti conquiste della
fisiologia avevano permesso una perfetta rappresentazione della circolazione) che funziona
perfettamente. La res extensa, di fatto, è in grado di funzionare se si esclude il pensiero, dunque i
problemi religiosi che possono porsi sono relativi solo alla res cogitans. Cartesio spazza via così
tutte le ipoteche metafisiche nello studio del corpo umano. D’altro canto, però, il prezzo da pagare è
il perdurare del taboo sulle ricerche scientifiche sul pensiero, indagabile ancora esclusivamente sul
piano filosofico (quindi religioso). Assistiamo allora a una disgiunzione della mente dal corpo: per
entrambi questi elementi vi sono scienze appropriate (filosofia e religione; medicina e fisiologia),
ma mai integrabili a vicenda.
Il secondo aspetto di Cartesio per noi importante è quello della dottrina delle idee innate. Le idee
per Cartesio costituivano il contenuto della mente, ed erano distinguibili in tre tipi. Le prime due, le
idee derivanti dai sensi e quelle dalla memoria o dall’immaginazione, costituiscono un legame tra
mente e oggetti reali. Ma non si vede con gli occhi, bensì con la mente. Vi sono così idee costruite
direttamente dalla mente, sia che si tratti di idee relative a oggetti del tutto immaginari (sogno o
delirio), sia che si tratti di idee derivanti da un’emozione reale.
L’originalità di Cartesio sta però nel postulare un terzo tipo, le idee innate. Esse possono essere
quelle di Dio, di sé, gli assiomi matematici, quelle che sorgono dalla mente come principi
assolutamente basilari. Ora, il fatto che tali idee siano innate non significa che si presentino chiare e
distinte alla coscienza dell’uomo. Egli le deve piuttosto scoprire in sé stesso. In questo senso,
l’esperienza della natura gioca un ruolo fondamentale: in essa possiamo scoprire sia cose che in
realtà possedevamo già a livello implicito (delle relazioni matematiche tra gli oggetti che ci
circondano) sia cadere in errore e vedersi mascherare alcune idee innate.
Benché il concetto di idea innata non sia privo di ambiguità, il punto fondamentale che bisogna
sottolineare è che in tal modo Cartesio può postulare una totale indipendenza tra corpo e mente: a
quest’ultima non è più necessario il corpo (compresi cervello e organi di senso) per esplicare la sua
azione, perché in essa sono compresi, innati, i principi che le consentono di funzionare.
(Vi è poi un ultimo aspetto del pensiero cartesiano, e cioè che, se da una parte il mondo in cui
viviamo potrebbe sempre essere un mondo di apparenze, esistono comunque delle idee indubitabili
perché siamo consapevoli della loro esistenza; la prima di queste è cogito ergo sum, e non posso
dubitare di esistere.)
-La fondazione delle scienze dell’uomo (dagli empiristi agli associazionisti: l’avversione, la
distinzione, associazioni di Hume e Hartley)
Pur con le sue ambiguità, Cartesio fa sì che l’uomo possa finalmente essere studiato come
meccanismo. Restano gli altri due passaggi, dei 3 menzionati all’inizio. Il primo passo, il passaggio
da un’indagine sull’essenza della mente a una sui suoi processi, viene compiuto dagli empiristi
inglesi (Locke e Hume in particolare) e verrà affinato dagli associazionisti. Il secondo passo, il
passaggio da una concezione del corpo come macchina a una sua concezione quale organismo
animale, in moto da poter ricostituire l’unità mente-corpo, sarà compiuto in Francia con gli
ideologues (Cabanis). Alla fine del Settecento, dunque, avremo così una fondazione della scienza
dell’uomo, che troverà il senso con cui la intendiamo oggi un secolo e mezzo dopo.
Al filone filosofico razionalista che prende origine da Cartesio, si contrappone il movimento
empirista (seconda metà del Seicento), i cui principali rappresentanti furono Locke, Berkeley e
Hume. Essenzialmente, gli empiristi rifiutano qualsiasi forma di idee innate: Hume dice che se per
idee si intendono i pensieri, non esiste nessun pensiero che non possa essere fatto risalire se ben
analizzato a qualcosa di precedentemente sentito. Dunque, le idee innate non esistono e l’intelletto
umano è determinato unicamente da fattori ambientali: ciò che l’uomo può conoscere del mondo
deriva unicamente da ciò che l’ambiente consegna alla sua mente, che è in origine una tabula rasa.
Utilizzare il termine intelletto (understanding) anziché mente o anima è fondamentale. Locke per
primo utilizza questo termine riferendosi a una facoltà, più che a una sostanza, perché così ogni
discussione metafisica veniva bandita, indicando la via per indagare empiricamente sui processi e
sugli effetti dell’anima, indipendentemente dalla sua essenza. Dunque, gli empiristi, occupandosi di
intelletto, non negano l’esistenza dell’anima né un’indagine di essa, semplicemente si occupano di
altro, dei prodotti dell’anima (processi ed effetti) e non della sostanza che la compone. Perché i
primi possono essere studiati scientificamente, la seconda solo con la metafisica (riprendono la
distinzione di Wolff ma rivolgono l’interesse alla psicologia empirica e non a quella razionale;
riprendono anche i concetti di Aristotele).
La cosa importante che bisogna sottolineare è che senza questa distinzione non sarebbe potuta
nascere una psicologia scientifica, perché ogni discussione dell’anima avrebbe avuto a che fare con
il problema della sua essenza, e quindi con la metafisica (settore della filosofia che si occupa dei
principi primi, dei valori assoluti della realtà). In questo modo si aprono due vie di indagine: quella
dei processi che si svolgono nell’intelletto in quanto tale; quella relativa allo studio dei rapporti tra
mente e corpo. Chi imboccò la prima via fu Hume, che individuò nelle associazioni – presenti nel
pensiero occidentale sin da Aristotele (secondo cui tra le idee si creano delle associazioni per
contiguità, somiglianza, contrasto) – i processi fondamentali che regolano l’intelletto, divenendo
così il padre dell’Associazionismo (prima metà del Settecento). Secondo Hume, tra le idee si
stabiliscono dei «segreti legami» che fanno sì che la mente le congiunga più frequentemente. In
questo modo avviene che gli argomenti si susseguono gli uni agli altri e le connessioni vengono
facilmente trovate da chi scrive e possono essere comprese da chi legge. Hume distingueva
associazioni: per somiglianza (il ritratto del volto di una persona ci fa pensare per somiglianza alla
persona ritratta); per contiguità (la chiesa di St. Denis ci fa pensare per contiguità a Parigi); per
causazione (un figlio ci fa pensare per causazione al padre).
Agli associazionisti si deve anche l’introduzione, grazie a Thomas Brown (1800), del metodo
dell’introspezione, cioè dell’auto-osservazione sistemica da parte di una persona di quanto avviene
nella sua stessa mente. Un metodo che sarà il principale metodo usato alla nascita della psicologia
scientifica della seconda metà dell’Ottocento (strutturalisti, Wundt).
Il compito però di affrontare i legami tra mente e corpo fu affrontato da un medico, Hartley, che
riprende la teoria di Locke, il quale più volte aveva affermato l’esistenza di un’interazione tra corpo
e intelletto. Hartley pone a fondamento della sua dottrina la teoria delle «vibraziuncole», delle
minime vibrazioni che gli oggetti esterni provocano nel sistema nervoso umano attraverso gli organi
di senso. Il suo programma consiste nel dimostrare che a tali vibraziuncole corrispondono le
associazioni che si sono dimostrate la base delle operazioni dell’intelletto (il ricordo di
un’esperienza passata dovrà suscitare un insieme di vibraziuncole corrispondenti a quella causata da
tale esperienza nel sistema nervoso quando fu percepita).
Le leggi dell’associazione lasciavano abbastanza irrisolto il problema del pensiero complesso: al di
là di idee semplici e concatenazioni di idee, era difficile comprendere eventi di pensiero più
complessi. Il primo tentativo di risolvere questo problema fu quello di James Mill nella prima metà
dell’Ottocento, più precisamente nel 1829 quando formulò il principio dell’«associazione
sincrona». Secondo tale principio, un oggetto per noi è costituito da una somma di sensazioni
diverse (forma, colore, peso, durezza ecc.). Tali sensazioni diverse vengono da noi associate
simultaneamente, formando così un «percetto», da cui deriva un’«idea»: un fiore non è altro che un
composto di idee semplici quali i petali, il gambo ecc. Ognuna di queste idee semplici è a sua volta
un percetto, costituitosi per associazione sincrona di forma, colore ecc. Ed è qui che sta la debolezza
di Mill: ognuna delle idee semplici è un composto di idee più semplici ancora.
Un ulteriore tentativo di spiegare fatti più complessi fu fatto da Stuart Mill, il figlio di James, con la
sua teoria della «chimica mentale». Secondo lui infatti, se il concetto del padre può spiegare
abbastanza bene la formazione per associazione delle idee semplici, quando si passa a quelle
complesse il discorso va modificato. Allora sostenne che le idee semplici, nel costituire quelle
complesse, si comportano come gli elementi della chimica in un composto, per cui l’idea complessa
è e si comporta come un’unità, e per comprenderla non solo non abbiamo bisogno di dividerla nei
suoi componenti, anzi, divisa l’idea complessa in idee semplici, non ci troviamo più di fronte
all’idea originaria.
In ultimo, Alexander Bain (Ottocento), ha una posizione più complessa: pur accettando una teoria
associazionistica analoga a quella della chimica mentale, ammetteva anche l’esistenza di fattori
innati di organizzazione del comportamento. Secondo Bain, la mente è alla mercé delle condizioni
corporee. È Bain quindi il più diretto precursore del comportamentismo: secondo lui il movimento
precede la sensazione che precede il pensiero. Nella soluzione di un problema, allora, l’individuo
opera inizialmente con movimenti casuali, alcuni dei quali saranno premiati dalle loro conseguenze
(quelli che ottengono risultati positivi), diventando così delle abitudini perché tenderanno a
ripetersi. È l’apprendimento che Bain chiama per trials and errors che diventerà d’uso con il
connessionismo.
-Gli ideologi (Condillac e Buffon, sintesi processi e studio biologico, Cabanis)
Resta il terzo passaggio, quello che permette di superare l’essenzialismo nelle ricerche sull’anima
con il passaggio da una concezione del corpo come macchina a una di esso come organismo
animale, in modo da poter ricostituire l’unità mente-corpo. Questo passaggio si compie in Francia
con gli ideologi (Settecento).
Condillac comincia uno studio non della natura dell’uomo, bensì delle sue operazioni intellettuali,
aprendo così la via a uno studio dei suoi processi psicologici. Buffon elabora il concetto di «storia
naturale dell’uomo», col quale indica la necessità di considerare l’uomo come parte integrante
della natura, nelle sue somiglianze e differenze dagli altri animali, da studiare indipendentemente
dalle speculazioni metafisiche sulla sua essenza. In questa necessità di studiare l’uomo in toto c’è in
Buffon anche la critica al meccanicismo, al riduzionismo meccanicista, ovvero a quella prospettiva
di studio dell’uomo che, partendo dal dualismo cartesiano, sviluppava lo studio del corpo come
macchina autosufficiente in grado di funzionare indipendentemente dalla mente.
Gli ideologi insomma sintetizzano sia gli aspetti legati ai processi che quelli legati allo studio del
corpo, mostrando come fosse possibile uno studio scientifico dell’uomo sia sul piano biologico che
mentale. Si rompe così il taboo dell’impossibilità di un’indagine scientifica dell’uomo, vista anche
la maturità dei tempi, il mutato clima culturale, che portava a respingere le speculazioni astratte e a
centrare l’attenzione sui fatti certi, positivi.
Giungiamo così a Cabanis (1800), il più importante degli ideologi. Egli afferma che il pensiero sta
al cervello come il succo gastrico allo stomaco (è cioè il suo principio motore, e dal cervello è
inseparabile), rifiutando qualsiasi riduzionismo meccanicista. Afferma dunque la supremazia del
sistema nervoso, che raggiunge ogni parte del corpo governandola e regolandola, e che nello stesso
tempo, grazie agli organi di senso, raccoglie le impressioni dal mondo in cui agiamo. Una
supremazia che però, benché sostituisca nelle sue funzioni i concetti di anima-mente-spirito della
precedente filosofia, è soggetto ora anch’esso a tutte le leggi che regolano ogni altra parte del corpo,
essendo del corpo parte integrante.
L’unità ontologica dell’uomo è affermata.
-Il pensiero tedesco (Herbart e Fechner)
Legrenzi si sofferma su i due autori che possono essere considerati i più diretti precursori della
psicologia scientifica: Herbart e Fechner. Il primo, ed è il primo a farlo, afferma che la psicologia è
scienza autonoma, non subordinata né alla filosofia né alla fisiologia. Ma non essendo scienza
sperimentale, è scienza metafisica, che sulla metafisica va fondata (come quella sperimentale si
fonda sull’esperienza e sulla matematica).
Il ponte che Fechner getta per unire corpo e anima, spirito e materia, che lui considera facce della
stessa medaglia, di una stessa realtà ontologicamente unitaria, è quello della psicofisica. Attraverso
questa nuova scienza, che studia le relazioni che esistono tra stimoli fisici definiti e la risposta a
essi, è possibile determinare tramite una precisa relazione matematica il rapporto che intercorre tra
questi due aspetti di un’unica realtà. La relazione psicofisica fondamentale è espressa dalla legge
logaritmica di Weber-Fechner: la sensazione è proporzionale al logaritmo dello stimolo.
-Gli apporti delle altre scienze: l’astronomia (Greenwich e i tempi di reazione)
Come si è già avuto modo di osservare, alle origini della psicologia non vi sono stati solo dei
contributi di tipo filosofico, ma anche di altre discipline scientifiche, come, è ovvio, la fisiologia,
ma anche come l’astronomia e la biologia.
Il contributo che gli astronomi danno alla nascita della psicologia scientifica è estremamente
rilevante, ma anche abbastanza occasionale. Essenzialmente esso è legato al metodo con cui veniva
misurata la velocità di spostamento dei corpi celesti: al telescopio veniva applicato un reticolo, e
l’astronomo, osservando il cielo attraverso di esso, udiva contemporaneamente il suono di un
orologio; così, quando il corpo celeste di cui si voleva misurare la velocità entrava nel reticolo,
l’astronomo cominciava a contare i battiti dell’orologio, rilevandone il numero realizzato nel
passaggio del corpo celeste attraverso il reticolo. Tale metodo, mai legato a inconvenienti, ne trova
uno nel 1796, quando l’astronomo capo di Greenwich licenziò il suo assistente Kinnebrook perché
da qualche anno le rilevazioni fatte da quest’ultimo si erano dimostrate errate. L’episodio, annotato
negli annali dell’osservatorio, fu notato anni più tardi dall’astronomo Bessel, il quale, rimasto
sorpreso dall’entità dell’errore, si chiese se in realtà ciò non fosse dovuto a differenze individuali
esistenti tra le persone addette a questo lavoro. Scoprì così, confrontando i propri tempi di reazione
con quelli di altri astronomi, l’esistenza di differenze nei tempi di reazione, ovvero il tempo perché
una persona risponda alla presentazione di uno stimolo. Certamente ben evidenti nel caso
dell’osservazione astronomica perché si doveva compiere un insieme di operazioni tutt’altro che
semplici (rilevare stimoli visivi e uditivi e insieme contare).
-Dalla fisiologia (esperimenti di Helmholtz e Donders, Bell-Magendie, Muller)
La psicologia, così, ricevette in eredità dall’astronomia un metodo, quello dei tempi di reazione, che
consentì, grazie a Donders, di dare una base solida alla nuova scienza. La problematica dei tempi di
reazione venne affrontata da Helmholtz, il quale aveva sviluppato un metodo per rilevare la velocità
di conduzione (di un impulso nervoso) delle fibre nervose: somministrato a un soggetto uno schock
elettrico in un punto particolare di un arto e registrato il tempo di reazione del soggetto (premere un
pulsante), e somministrato un secondo schock in un punto diverso dello stesso arto e dunque
registrato il secondo tempo di reazione, si notava che, se il primo stimolo era alla radice dell’arto e
il secondo all’estremità, quest’ultimo era più lungo. Bastava allora calcolare il rapporto tra la
differenza tra i due punti di applicazione in lunghezza, e la differenza tra i due tempi di reazione,
per determinare la velocità dell’impulso nervoso. (Da sottolineare che lo studio è sorprendente se si
considera che per gli scienziali del XIX sec. si riteneva che i processi mentali avvenissero
istantaneamente).
Nelle sue ricerche il fisiologo Donders fu colpito da quest’esperimento perché fu impiegato il
metodo sottrattivo tra tempi di reazione. Secondo Donders, infatti, ciò che impediva alla
psicologia di diventare scienza era l’impossibilità di dare misurazioni oggettive dei processi
mentali. A suo avviso, però, si potevano invece rilevare i tempi di durata dei processi mentali, e se
c’è un tempo, c’è un processo. Escogitò allora il seguente esperimento. Indicava tre condizioni in
cui rilevare i tempi di reazione: a) uno stimolo a cui doveva essere data una risposta; b) più stimoli,
a ognuno dei quali corrispondeva una risposta diversa; c) più stimoli, ma solo a uno di essi doveva
essere data risposta, mentre agli altri non si doveva rispondere. Donders constatò così che i tempi di
a erano i più brevi, seguiti da c e infine b, i più lunghi. E giunse alla conclusione che la differenza
tra a-c indicava il tempo occorrente al soggetto per discriminare tra gli stimoli, la differenza b-c
invece il tempo necessario per discriminare tra le risposte.
Tali tempi di discriminazione corrispondevano a quei processi psicologici di scelta a cui veniva
finalmente fatto corrispondere un indice di misurazione fisico, ottenendo così il primo corrispettivo
fisico di un processo puramente mentale. Il metodo sottrattivo, non a caso, sarà ampiamente
impiegato da Wundt, che sperava di dimostrare l’esistenza delle fasi dei processi mentali.
Ci sono altri contributi della fisiologia importanti per la psicologia. L’arco riflesso è uno di questi
concetti importanti, che risulterà fondamentale per la psicologia russa del ‘900 e in particolare dalla
scuola riflessologica (Pavlov e gli studi sugli animali): stimolando determinati recettori sensoriali, si
provocano automaticamente, cioè senza la volontà dell’individuo, delle risposte automatiche (si
parla di arco perché il substrato nervoso è composto di una parte afferente, formata dal recettore
sensoriale e dal nervo che dal recettore porta l’impulso nervoso al centro, e di una efferente, formata
dalla fibra motoria che dal centro conduce agli effettori periferici) (un recettore sensoriale è un
dispositivo biologico che converte l’energia nel linguaggio del sistema nervoso; un effettore è
invece è un organo capace di reagire a un impulso nervoso).
Di notevole importanza è inoltre la legge di Bell-Magendie. I due studiosi dimostrarono
l’indipendenza delle vie sensoriali dalle vie motorie: ogni nervo che origina dal midollo spinale
ha due radici; recidendo quella anteriore viene interrotta la possibilità di movimento del segmento
corporeo, mentre si conserva la sensibilità, e il contrario avviene se si recide la radice posteriore. Si
dimostrò così, anche ‘filosoficamente’, che l’unitarietà del sistema nervoso era solo apparente e che
invece in esso erano presenti funzioni distinte. La dicotomia tra componenti sensitive e motorie, tra
l’altro, è ancora valida.
Altra legge fondamentale è quella dell’energia nervosa specifica, attribuita a Muller e ampliata da
Helmholtz. Secondo tale legge uno stesso stimolo produce sensazioni qualitativamente diverse a
seconda dei diversi nervi che stimola (ad es., se esercitiamo una pressione sul nervo ottico, la
sensazione che riceviamo non è pressoria, ma visiva), dunque le sensazioni che riceviamo non
dipendono dal tipo di stimolazione, ma dal tipo di organo di senso che viene eccitato. Tale principio
è fondamentale perché tronca qualsiasi impaccio metafisico nello studio della percezione, ponendo,
con la distinzione tra caratteristica dello stimolo e percezione, le basi rigorosamente scientifiche
della psicologia.
-Dalla biologia (evoluzionismo, allargamenti e ontogenetica)
Lo stesso Darwin si era occupato di problemi che sono oggi al centro degli interessi degli psicologi,
come le emozioni. Riassumendo Darwin: al centro della teoria c’è il concetto di selezione naturale,
secondo cui le specie che non riescono ad adattarsi all’ambiente, spariscono; nel tempo si assiste a
un processo di evoluzione, con una progressiva modificazione delle specie, perché gli individui che
si sono adattati, accoppiandosi, danno vita a una discendenza che presenta in modo più accentuato i
caratteri adattivi (esempio giraffe con collo corto). Tale principio, secondo Darwin, non si applica
solo ai caratteri somatici, ma anche a quelli psichici, ed è questa acquisizione che influenza la
psicologia: in Inghilterra, con Galton (cugino di Darwin), attraverso lo studio delle caratteristiche
psicologiche individuali e della loro trasmissione ereditaria; in America, con il funzionalismo, come
studio dei caratteri psichici in quanto mezzi a disposizione dell’uomo per adattarsi all’ambiente; in
Germania con lo strutturalismo wundtiano.
L’evoluzionismo, inoltre, permise di allargare lo studio alle differenze individuali, al campo
evolutivo e a quello animale. E significò anche far capire che l’uomo era frutto di una duplice
evoluzione: quella filogenetica (linee di discendenza ramificate), e quella ontogenetica (evoluzione
dell’individuo singolo dalla nascita all’età adulta). Una vera comprensione dell’uomo, dunque, non
può aversi se non viene studiata anche la psicologia dell’età evolutiva e delle specie animali.
-Conclusioni
A metà Ottocento ormai ci sono tutte le condizioni necessarie per la nascita della psicologia come
scienza. Il frutto è colto da Wundt che, inaugurando il laboratorio a Lipsia nel 1879, compie il passo
ufficiale. Ma il processo è stato lungo: nel pensiero greco esistevano già le premesse di uno studio
scientifico dei processi psichici, date da una considerazione dei rapporti tra aspetti biologici,
psichici e sociali nella determinazione del comportamento, e dal riconoscimento dell’appartenenza
dell’uomo come animale al mondo della natura. È il pensiero medievale però che nega questi aspetti
del problema. Bisogna allora aspettare Cartesio, che arriva con un certo ritardo rispetto alla
rivoluzione scientifica del XVII sec.
Egli, col suo dualismo, consente di poter studiare il corpo in prospettiva meccanicistica, aprendo la
strada così al materialismo di La Mettrie, ma anche a un reinserimento dell’uomo nella scala
zoologica (Buffon). Rimane aperto tuttavia il problema dell’anima, ma prima Locke e quindi
Condillac consentono di superare l’ostacolo metafisico, mostrando come si possano studiare
processi e funzioni dell’anima senza preoccuparsi della sua essenza. La sintesi sarà ad opera degli
ideologues e di Cabanis soprattutto, i quali mostrano come sia possibile uno studio scientifico
dell’uomo sia sul piano biologico che mentale.
Mentre l’apporto degli ideologues viene un po’ ignorato, i tedeschi (Fechner) mostrano come sia
possibile uno studio matematico e una misurazione dei processi mentali. E contemporaneamente
altre scienze accumulano contributi fondamentali:
-l’astronomia il problema della misurazione e dell’errore soggettivo;
-la fisiologia quello dei tempi di reazione, la dicotomia tra elementi sensitivi e motori, la qualità
delle sensazioni quindi la fondazione scientifica della percezione;
-la biologia il concetto di adattamento, lo studio delle differenze individuali e l’allargamento al
campo evolutivo e animale.

Lo strutturalismo e il funzionalismo
-Il grande precursore: Wilhelm Wundt (il padre, l’opera, campi d’indagine, volontarismo, le tre basi
della psicologia)
Wundt non fu un innovatore come Freud, ma seppe sintetizzare tutte le concezioni e tutti i risultati
empirici di carattere psicologico delle epoche passate e della sua contemporanea (pratica
sperimentale), grazie alla sua grande cultura (che non si limitava al mondo tedesco e comprendeva
la tradizione anglosassone), con la quale riuscì a fornire una base concettuale unitaria per la
fondazione della psicologia come scienza (teoria). È quindi, di quest’ultima, il padre fondatore.
L’opera monumentale alla quale affida il suo sapere è Elementi di psicologia fisiologica, la prima
opera sistematica della psicologia scientifica moderna, che ebbe ben sei edizioni (1873 la prima).
La città nella quale operò fu Lipsia, dove aprì il primo laboratorio sperimentale di psicologia, dove
continuarono a essere studiati i medesimi problemi di cui da anni si occupavano i laboratori di
fisiologia, ma la cui importanza stava nella denominazione ufficiale, che contribuiva a stabilire
l’indipendenza istituzionale della psicologia.
In questo laboratorio Wundt e i suoi studenti affrontano sperimentalmente soprattutto quattro campi
di indagine: 1) psicofisiologia dei sensi, in particolare vista e udito (tradizione helmholtziana); 2)
l’attenzione misurata con la tecnica dei tempi di reazione (Helmholtz e Donders); 3) la psicofisica
(Fechner); 4) le associazioni mentali (associazionismo anglosassone).
Le teorie psicologiche wundtiane sono oggi in gran parte improponibili per via di una loro spiccata
componente spiritualistica che si sottrae all’indagine scientifica modernamente intesa; ci riferiamo
soprattutto al «volontarismo» wundtiano, secondo tutti i processi psichici umani passano attraverso
4 fasi: stimolazione, percezione (che rende cosciente l’esperienza psichica), appercezione
(l’esperienza cosciente viene sintetizzata dalla mente), atto di volontà (che suscita la reazione
psichica).
Al di là di ciò, in Wundt c’è molto di ciò che costituisce la psicologia scientifica contemporanea: in
primo luogo la definizione dell’oggetto d’indagine, ovvero l’esperienza umana immediata (e non
mediata, oggetto delle scienze fisiche), in secondo luogo la codificazione del metodo sperimentale
nell’ambito della psicologia, e in terzo luogo il principio che ancora oggi caratterizza le
sistematizzazioni psicologiche, ovvero il principio del «parallelismo psicofisico». Secondo tale
principio i processi mentali e quelli fisici dell’organismo umano sono paralleli: né i primi causano i
secondi, né i secondi causano i primi, ma a ciascun cambiamento dei primi corrisponde un
cambiamento dei secondi.
Successori immediati di Wundt, strutturalismo e funzionalismo sono ambedue debitori dell’opera
del grande precursore: meno direttamente il secondo, assai più direttamente il primo, tanto che
alcuni classificano lo stesso Wundt come strutturalista.
-Lo strutturalismo: uno schizzo storico
Al laboratorio di Lipsia approdarono da ogni parte molti ricercatori, tra cui l’inglese Titchener. Egli
tradusse in inglese l’opera di Wundt, ma solo in parte, nascondendone di proposito le numerose
componenti non sperimentalistiche. La riflessione sull’opera wundtiana fu per lui il punto di
partenza verso l’elaborazione di un sistema personale chiamato «strutturalismo» o
«introspezionismo» e che trova il proprio manifesto in The postulates of a structural psychology,
del 1898.
Tornato negli Stati Uniti, Titchener lavorò nella sua università come in una torre d’avorio,
accerchiato dai suoi allievi (che contrassegna col nome di «sperimentalisti») e lontano dal
pragmatismo della nuova filosofia nordamericana. Con la sua morte, lo strutturalismo conclude la
sua parabola, benché rimasero alcuni allievi, fra cui Boring, padre della moderna storiografia
psicologica.
-La psicologia secondo gli strutturalisti (struttura, mente e coscienza, psicologia e fisica)
Prima di tutto va detto che il termine non ha nulla in comune con lo stesso termine nel suo uso
contemporaneo. Nel linguaggio titcheriano la «struttura» mentale è il complesso risultato della
somma di molteplici elementi coscienti semplici, come in una sorta di mosaico psichico; dunque, lo
scopo dell’indagine psicologica consiste nel descrivere i contenuti elementari della coscienza e
nell’evidenziare le leggi che presiedono al loro combinarsi, scomporre analiticamente i pezzi (cosa
che rende la psicologia di T. molto descrittiva). Importante è anche la distinzione tra «mente», che è
la somma di tutti i processi mentali che hanno luogo nella vita di un individuo, e «coscienza», che è
la somma di tuti i processi mentali che hanno luogo in un determinato momento presente della vita
dell’individuo.
La prima teoria di base che caratterizza questo movimento è l’associazione tra psicologia e fisica.
Secondo T., la psicologia ha per oggetto l’esperienza, come la fisica; e possiede pertanto la stessa
scientificità di quest’ultima. La sola differenza tra fisica e psicologia sta nel fatto che la prima
studia l’esperienza in quando indipendente dal soggetto esperiente, mentre la seconda studia
l’esperienza in quanto dipendente dal soggetto esperiente (il tempo passa lentamente per alcune
persone, psicologicamente).
-Il metodo: l’introspezione
Un’altra differenza che si nota tra psicologia e fisica, sta nel metodo di indagine. Come la fisica, la
psicologia procede mediante osservazione empirica, solo che, nel caso della fisica, quest’ultima è
un’«ispezione» rivolta ai contenuti del mondo esterno; nel caso della psicologia, è
un’«introspezione» rivolta ai contenuti della coscienza individuale. L’introspezione è l’unico
metodo che caratterizza la psicologia rispetto alle altre scienze.
A dispetto del termine, questa introspezione non ha nulla a che vedere con come la intendiamo di
solito: è analitica e disciplinata, sottoposta alle ferree regole del controllo sistematico; e distingue la
psicologia scientifica dalla psicologia prescientifica (per Titchener). Nel proprio procedere, lo
psicologo introspezionista deve seguire due norme fondamentali: adottare il criterio elementistico;
salvaguardarsi dall’incorrere nel cosiddetto «errore dello stimolo».
Il criterio elementistico implica che ogni dato cosciente sottoposto all’introspezione venga
scomposto nei suoi elementi più semplici (elementi non suscettibili di ulteriore scomposizione
psichica): l’esperienza cosciente di un fiore profumato non costituisce un elemento semplice, infatti
l’introspezione analitica rivela la presenza di due componenti irriducibili, cioè una sensazione di
odore e uno stato di piacere.
Per quanto concerne l’errore dello stimolo, esso consiste nell’attribuzione di significati o di valori
ai dati dell’esperienza cosciente, che vanno invece riportati nella loro cruda esistenzialità
(esistenzialismo titcheneriano): il soggetto, allenandosi, deve riferire esclusivamente la propria
esperienza cosciente immediata scindendola dai pesi socioculturali e linguistici in cui essa è
ingabbiata. Così, di fronte a una tavola, l’osservatore profano dice «vedo una tavola»;
l’introspezionista dice «vedo un colore grigio, una luminosità poco intensa», perché non descrive
l’oggetto, ma gli elementi che lo costituiscono.
-I tre elementi della coscienza
Un altro ambito d’interesse dell’esistenzialismo titcheriano è lo studio dei tre elementi della
coscienza. L’interesse analitico dello psicologo è rivolto:
agli elementi semplici delle percezioni, ovvero le sensazioni;
agli elementi semplici delle idee, che sono le immagini mentali;
agli elementi semplici delle emozioni o dei sentimenti, che sono gli stati affettivi.
Dei tre elementi, la sensazione è quello più importante e ricorrente, e corrisponde allo stato di
coscienza concomitante alla stimolazione di un organo sensoriale. Oltre quelle relative ai cinque
sensi, T. sottolinea l’esistenza delle sensazioni cinestetiche, che provengono da muscoli, tendini o
giunture.
L’elemento immagine compare nei processi mentali relativi a esperienze non attuali (ricordi o
anticipazioni del futuro), risultando dunque più «vaporosa» della sensazione. Il rapporto con
quest’ultima è diretto: quando un organo sensoriale è stato stimolato più volte, si instaura nel
cervello uno stato di eccitazione centrale che può sostituire la stimolazione periferica e produrre
l’immagine al posto della sensazione (vediamo il colore blu con la mente dopo che l’abbiamo visto
tante volte).
L’elemento stati affettivi (emozioni e sentimenti come amore, odio, gioia, tristezza ecc.) è, come
l’immagine, simile alla sensazione; in particolare, tanto gli stati affettivi quanto le sensazioni si
stemperano qualora vengano ripetuti (se teniamo la mano immersa in una bacinella di acqua
tiepida, la sensazione di calore inziale pian piano svanisce; se ascoltiamo una canzone che amiamo
più volte, pian piano lo stato affettivo di piacere scompare).
Per quanto semplici, gli elementi della coscienza hanno degli attributi. Quelli della sensazione e
dell’immagine sono quattro: 1) la qualità (freddo, salato, verde); 2) l’intensità (una scampanellata
forte); 3) la durata (una scampanellata lunga); 4) la chiarezza (voce chiara). Quanto agli stati
affettivi, essi possiedono solo i primi tre attributi perché, se concentrandoci sulle sensazioni o sulle
immagini riusciamo a rendere queste più chiare, al contrario se lo facciamo con gli stati otteniamo
l’opposto, li dissolviamo. D’altronde, tra sensazioni e immagini, e stati c’è anche un’altra
differenza: i secondi sono sempre necessariamente o piacevoli o spiacevoli.
-La fine
Alla fine lo strutturalismo ebbe vita breve e finisce con la morte del suo fondatore (1927). Le
ragioni sono molteplici: esso si autolimitava allo studio dell’uomo bianco, adulto, psichicamente
normale, l’uomo generalizzato; l’elementismo titcheneriano fu messo in crisi dal globalismo della
Gestalt; l’elementismo è crollato anche sul piano metodologico perché gli esperimenti condotti
mediante introspezione non sono mai esattamente replicabili con soggetti diversi. Tuttavia, lo
strutturalismo ha dato un contributo prezioso, essendo stato il sistema psicologico più organico e
rigoroso, rappresentando il punto di riferimento obbligatorio di quasi tutte le altre
concettualizzazioni psicologiche. A ciò si aggiunge il marcato rifiuto del metodo filosofico, al fine
di un riconoscimento dell’indipendenza della scienza psicologica.
-Il funzionalismo: uno schizzo storico
Espressione della nuova cultura nordamericana, ha come ispiratore William James, il cui pluriedito
Principi di psicologia rappresenta il simbolo della nascente indipendenza americana nei confronti
della psicologia tedesca, e in cui per la prima volta in modo esplicito veniva fatto riferimento alla
rilevanza per la psicologia delle teorie evoluzionistiche. Rispetto allo strutturalismo, il
funzionalismo si presentò come un sistema assai più composito ed eterogeneo, eclettico e tollerante
nei confronti delle altre prospettive psicologiche.
-La psicologia secondo i funzionalisti (Darwin e l’interrogativo, dualismo, comportamento adattivo,
oggetto della ricerca)
Facendo esplicito riferimento alle concezioni di Darwin, i funzionalisti considerano l’organismo
umano come l’ultimo stadio del processo evolutivo. In questa prospettiva, i processi mentali sono
quelli che sono perché hanno aiutato l’organismo a sopravvivere, gli sono stati utili nel suo adattarsi
all’ambiente circostante. L’interrogativo principale per la psicologia diventa allora non tanto cosa
sono i processi mentali, ma a cosa servano e come funzionino i processi mentali.
L’accento è adesso posto sulle operazioni dell’intero organismo anziché sui contenuti della mente
umana isolata dal corpo. Scompare il tradizionale dualismo mente-corpo del parallelismo
psicofisico: i processi mentali sono direttamente espressi dal medesimo organismo che esprime i
processi biologici.
Oggetto della ricerca psicologica sono le attività fondamentali individuate dai funzionalisti, ovvero
quelle relative all’acquisizione, all’immagazzinamento, all’organizzazione e alla valutazione delle
esperienze, e alla loro successiva utilizzazione nella guida del comportamento. Ciò che è centrale in
questa definizione è il concetto di «comportamento guidato verso», ovvero comportamento
adattivo. Esso è caratterizzato da tre componenti: una stimolazione motivante interna o esterna
all’organismo, una situazione sensoriale, una risposta che soddisfi le condizioni motivanti. Ad es.,
un uomo affamato che si procura del cibo e mangia fino a essere sazio pone in atto un
comportamento adattivo: la fame è la stimolazione motivante, il cibo è una parte della situazione
sensoriale, la fame è la risposta che soddisfa. Naturalmente non tutti i comportamenti sono adattivi:
se mi allontano da un incendio e starnutisco, lo starnuto non è adattivo. È solo il risultato di stimolo-
risposta.
-Il funzionalismo come antielementismo
Il funzionalismo vede ogni attività dell’organismo come un processo globale e continuo, tuttavia è
lecito distinguere fra stimolo e risposta perché l’uno e l’altra svolgono ruoli diversi nella
coordinazione totale relativa al raggiungimento dello scopo. Assolvono cioè funzioni diverse
nell’adattare l’organismo alla situazione: la distinzione stimolo-risposta è funzionale (ciò che essi
fanno), non esistenziale (ciò che essi sono). Dunque, l’antielementismo è in due sensi: da un lato le
funzioni mentali sono attività globali, non scomponibili; dall’altro, esse si distinguono per la loro
funzione e non l’essenza.
-Le funzioni mentali
Oggetto della ricerca funzionalistica sono in parte i processi mentali già studiati da Titchener, ma
ridefiniti in termini di «funzioni», e in parte processi mentali nuovi. I primi sono la sensazione e
l’emozione (in termini globali, non spezzettata in stati affettivi), i secondi la percezione, la
motivazione, l’apprendimento e il pensiero.
La sensazione, oggetto centrale della ricerca strutturalistica, è per i funzionalisti oggetto marginale
della ricerca; tuttavia, ne riconoscono il valore adattivo, in particolare mediante l’abilità spaziale
(localizzare gli oggetti nello spazio e capirne le dimensioni).
Dell’emozione è sottolineato il carattere adattivo. Ad es., quando l’organismo è ostacolato nella
propria libertà di movimento, può manifestarsi l’emozione ‘collera’ che, mediante una
mobilitazione di energie e l’accelerazione di battito e respiro, aiuta l’organismo a reagire più
efficacemente contro l’ostacolo. I funzionalisti tuttavia ammettono l’esistenza di molte emozioni
‘gratuite’, non direttamente funzionali e addirittura antifunzionali alla sopravvivenza.
La percezione, nell’approccio funzionalista, è un processo mentale a sé stante, non una somma di
sensazioni elementari (approccio strutturalista), e sarebbe la cognizione di un oggetto presente.
La motivazione è fondamentale per i funzionalisti ed è definita come qualsivoglia stimolo
persistente (fame, sete, pulsione sessuale, dolore) che domina il comportamento dell’individuo fino
a quando quest’ultimo non reagisce in moto tale da soddisfarlo.
L’apprendimento è l’oggetto principale della ricerca funzionalistica (come la sensazione è per lo
strutturalismo). Funzione adattiva per eccellenza, consiste nell’acquisizione da parte dell’organismo
di appropriate modalità di risposta a situazioni problematiche, ovvero modalità di risposta che
hanno valore di sopravvivenza. La spiegazione dei meccanismi interni dell’apprendimento non è
però originale, e riprende la tradizione associazionistica, in particolare la famosa «legge
dell’effetto» (apprendimento per prove ed errori): ogni atto che in una data situazione produce
soddisfazione finisce con l’essere associato a quella situazione, dunque, quando la situazione si
ripresenta, l’atto ad essa relativo ha maggiori probabilità di ripetersi. Tuttavia, per i funzionalisti
non è così per prove ed errori, perché l’organismo si comporta spesso non già in modo casuale,
bensì in modo selettivo e analitico.
Del pensiero infine si sottolineano gli aspetti adattivi o strumentali: il pensiero di un esame da fare
può indurre nel soggetto una preparazione più adeguata, svolgendo così una funzione adattiva.
-Il metodo del funzionalismo
Sebbene fondamentalmente soggettivistico come lo strutturalismo, il funzionalismo esclude
l’introspezione (funzioni mentali e non contenuti, impossibilità del metodo elementistico). In
generale, si può parlare di eclettismo metodologico dei funzionalisti. Valorizzano la
sperimentazione di laboratorio, ma essa è praticata a differenza di Titchener in modo meno
sistematico e rigoroso, finendo spesso per essere sostituita dal metodo osservazionale puro, più
idoneo a cogliere le funzioni mentali nel loro contesto naturale.
Come Wundt e al contrario di T., i funzionalisti accettano i contributi della filosofia, della storia,
della letteratura, dell’antropologia comparata. E come Wundt e al contrario di T., integrano talvolta
l’osservazione soggettivistica con quella comportamentale.
Infine, i funzionalisti aprono la psicologia allo studio delle differenze individuali, dello sviluppo
infantile, del comportamento animale.
-La polemica fra strutturalisti e funzionalisti
Intorno al 1910 la psicologia americana conobbe un ampio dibattito fra T. e i suoi allievi da un lato,
e i rappresentanti della scuola di Chicago dall’altro. Strutturalisti e funzionalisti, pur polemizzando
fra loro, sanno di appartenere alla medesima grande famiglia soggettivistica. Al funzionalismo T.
rivolge due critiche: 1) contrappone il proprio sperimentalismo sistematico alle componenti
filosofiche dei funzionalisti, le quali tendono secondo lui a riportare la psicologia allo stadio
prescientifico; attaccando dunque il vitalismo teleologistico (le cause finali) che i funzionalisti
vanno applicando alla psicologia; 2) sostiene che non ha senso cercare di capire cosa fanno per
l’organismo i processi mentali, se prima non si è capito cosa sono.
Quanto ai funzionalisti, la loro critica principale allo strutturalismo è quella secondo cui i momenti
di coscienza rilevati mediante introspezione sono transitori e cessano subito dopo, mentre le
funzioni mentali sono persistenti e continuative.
Dalla polemica scaturì inoltre un altro disaccordo problematico ancora oggi, ovvero quello relativo
all’utilità della psicologia. T. si erige a difensore di una scienza psicologica pura, circoscritta al
laboratorio accademico (come la fisica ad es.) e avente per oggetto i fatti della coscienza umana,
conoscere l’uomo generalizzato. Dall’altro i funzionalisti, influenzati dal pragmatismo (vero=utile)
giustificano la scienza psicologica sulla base del valore sociale dei suoi risultati: scoprire le
differenze interindividuali che tanta importanza hanno nella vita di tutti i giorni.
La scuola di Chicago tramonta in coincidenza dell’ascesa del comportamentismo, subito dopo il
celebre manifesto watsoniano del 1913, il quale integra in un sistema unitario e coerente più
suggestivo le tematiche originali del funzionalismo (apprendimento, utilitarismo) e denuncia con
intransigenza le componenti filosofiche del funzionalismo.

La riflessologia e la scuola storico-culturale


-La riflessologia e Pavlov
Benché il lascito più rilevante della tradizione russa sia stato la scoperta pavloviana del meccanismo
del condizionamento classico, ci sono altre scuole in Russia. In Russia era infatti attivo anche
Bechterev, che conduceva ricerche analoghe a quelle di Pavlov. In realtà, non c’è una Scuola russa,
è una invenzione dei pavloviani con la quale si è potuto inglobare sul piano storico il retaggio delle
scuole riflessologiche precedenti, tra cui quella originaria di Bechterev che si sviluppa tra 1910 e
1930. Il precursore però è Secenov, padre della fisiologia russa che formò i Europa con Helmholtz.
Secenov sostiene che i processi psichici sono riducibili a riflessi, processi puramente fisiologici ed
elementari; dunque, sia nei processi comportamentali elementari che in quelli più complessi, il
meccanismo di base è sempre lo stesso dell’arco riflesso (stimolo-centro nervoso-reazione). Per i
processi comp elementari, quelli automatici come ritrarre la mano da uno stimolo doloroso, si ha il
riflesso spinale (centro nervoso è il midollo spinale); per quelli più complessi, superiori, si ha il
riflesso cerebrale (centro nervoso è il cervello).
Per quanto riguarda Bechterev, egli fonda una psicologia oggettiva e sperimentale, priva di
riferimenti spiritualistici e introspettivi, con oggetto di indagine i riflessi. La riflessologia, infatti, è
una concezione generale unitaria di tutti i fenomeni fisiologici e psicologici e sociali. Nella
concezione di Bechterev sono privilegiati i riflessi motori (a differenza di Pavlov), in quanto lo
studio dell’attività motoria durante il comportamento, a suo avviso, permette una conoscenza più
approfondita del comportamento. Gli allievi di B. si interessarono inoltre allo studio dello sviluppo
dei riflessi associativi nella prima infanzia (riflessologia genetica).
-Il condizionamento classico
Interessato inizialmente a esaminare la composizione della saliva, Pavlov già nel 1903 aveva
osservato come, mettendo del cibo in bocca a un cane, si producesse un immediato aumento della
salivazione. Questa relazione tra stimolo (cibo) e risposta (salivazione) è la conseguenza di un
riflesso, una risposta automatica e innata, non frutto di un’esperienza passata. Lo studioso notò che
il cane produceva più saliva quando udiva o vedeva qualcosa che, solitamente, precedeva il cibo.
Questi riflessi condizionati, o appresi, non sono innati e destarono la sua curiosità. Pavlov decise di
studiarli in modo sistematico.
L’esperimento che lo rese famoso: cane legato in una stanza insonorizzata, cibo (stimolo
incondizionato) in bocca al cane, aumento della saliva (risposta incondizionata), aumento misurato;
suona una campana nella stanza ma nulla, dopo averla fatta associare al cibo fa suonare ancora
(stimolo condizionato) e aumenta la saliva al suono (risposta condizionata). L’associazione SC
(campanella) e SI (cibo) condiziona alla fine SC a evocare una RC (aumento salivazione) simile alla
RI (incremento spontaneo). In altre parole, Pavlov riuscì a sfruttare un riflesso, cioè una risposta
innata, per insegnare al cane un’associazione tra uno stimolo neutro come il suono della campana e
una risposta come la salivazione.
La scoperta di questo meccanismo consentì di interpretare tutto il comportamento umano come
l’apprendimento di sequenze stimolo-risposta: la dotazione iniziale di riflessi incondizionati si
arricchisce, durante la vita di un animale, con la formazione, per mezzo di condizionamenti, di
nuovi riflessi. Da segnalare, però, è che l’uomo ha l’esclusiva capacità di utilizzare come stimoli
condizionati gli stimoli verbali.
Pavlov si rese anche conto che i condizionamenti s’indeboliscono nel tempo se non vengono
rinforzati. Dimostrò questo meccanismo misurando quello che succede in una sequenza di diverse
fasi, con nomi diversi. 1) acquisizione: si forma l’associazione SC-SI grazie a presentazioni
ripetute del suono che precede immediatamente il cibo; 2) estinzione: si presenta SC senza SI, la RI
scompare gradualmente; 3) recupero spontaneo: dopo una notte di riposo, si presenta SC da solo,
che evoca RC piuttosto forti; 4) riacquisizione: se viene presentato un rinforzo di SC-SI, il
riapprendimento è molto rapido.
-Il paradigma della generalizzazione e discriminazione
Pavlov risolve anche un altro problema: se un cane è stato condizionato ad aspettarsi un suono
prima del cibo, egli emetterà saliva anche quando il suono non è proprio identico a quello usato per
condizionarlo. Dunque, gli stimoli simili allo SC tendono anch’essi a suscitare la RC. Sarebbe
questa la generalizzazione dello stimolo (più è alto il gradiente di generalizzazione, cioè più è
simile lo stimolo, maggiore è la RC). Chiaramente, è possibile anche condizionare un animale a non
rispondere a stimoli simili, cioè imparare che solo una determinata campanella significa ‘cibo’: è
questo l’effetto dell’addestramento alla discriminazione.
Errori di Pavlov sono stati: l’esclusività della passività del soggetto (l’animale è anche attivo
nell’ambiente); generalizzare un paradigma sperimentale per fornire un modello generale dell’agire
umano.
-La scuola storico-culturale (Vygotskij e Lurija)
Esponente principale è Vygotskij, il quale nella sua opera manifesto La coscienza come problema
della psicologia sottolinea l’importanza della coscienza e critica la tendenza della scuola pavloviana
a utilizzare solo lo schema del condizionamento, precludendosi così la comprensione delle attività
cognitive superiori, come il linguaggio e il pensiero.
In tutta la sua vita la preoccupazione principale dello studioso fu lo studio dei meccanismi con cui
la mente viene plasmata da fattori culturali e sociali. Si occupò di molte questioni, ma sempre con
un’impostazione costante sia nel metodo (studio della maturazione cognitiva nelle fasi dello
sviluppo) che nella teoria: la teoria del condizionamento storico-sociale dei processi mentali, che
afferma come lo sviluppo di funzioni complesse come il linguaggio ha come condizione necessaria
l’interazione dell’individuo con l’ambiente sociale. Interessante in merito alle funzioni complesse
del linguaggio e del pensiero, è il fatto che Vygotskij scopra come essi abbiano due radici genetiche
differenti: nel bambino piccolo vi sono forme più o meno evolute di attività intellettiva (soluzione
di problemi ad es.) che possono essere indipendenti dal linguaggio; così come il bambino può usare
forme primitive di linguaggio senza implicare processi di pensiero, bensì solo per comunicare stati
emotivi, richiamare l’attenzione dei genitori ecc.
Vygotskij anticipò dunque l’impostazione della scuola di Ginevra, e più in generale precorse quella
tradizione ecologica attenta ai fattori ambientali. A cui si accompagna il lavoro pionieristico sulle
prestazioni dei gemelli monozigoti, che mise in evidenza l’indipendenza delle funzioni psichiche
superiori rispetto alla dotazione genetica iniziale. Nonché il tentativo (a causa di Stalin, che
procedeva con l’acculturazione panrussa, non ebbero seguito infatti) di spedizioni in Uzbekistan,
con le quali scoprire le prestazioni cognitive in culture diverse (verificare a livello intellettuale in
cosa differissero individui appartenenti a culture primitive rispetto a occidentali istruiti).
Insieme a Vygotskij c’è Lurija, che si specializzò in ricerche neuropsicologiche: disturbi dei
processi psichici conseguenti a lesioni cerebrali (primi tentativi di analisi dell’afasia). Scopre così
che solo la stretta relazione tra cervello e ambiente spiega come le lesioni cerebrali producano
disturbi differenziati da individuo a individuo.

La psicologia della Gestalt


-Le origini e il concetto di Gestalt
Con «Gestalt» o «psicologia della forma» si intende quel corpo di affermazioni teoriche e
impostazioni metodologiche sviluppatesi in Europa a partire dai lavori di Wertheimer, Kolher, e
Koffka. La Gestalt è la risposta tedesca alla psicologia di Wundt (dunque agli strutturalisti), della
quale rifiutano l’impostazione elementistica: la psicologia non è come la chimica, non si può
scomporre ogni fenomeno nei suoi aspetti elementari per ottenere unità semplici irriducibili.
I padri di questa nuova corrente sono: Kant, secondo cui l’atto di conoscere è un’attività unitaria; la
psicologia dell’atto (l’oggetto della psicologia non è ciò che è fornito ai nostri sensi, ciò che
vediamo ecc., ma l’atto di vedere ecc.), antielementistica in quanto il soggetto non attribuisce al
dato sensoriale semplice grande importanza, e altri.
«Il tutto è più della somma delle parti»: questa affermazione, che compare in tutti gli scritti della
Gestalt, viene utilizzata come etichetta distintiva della scuola ed è il primo passo teorico. Lo stadio
successivo è consistito nel determinare leggi secondo le quali gli elementi vanno a formare un tutto.
Ma il passo più determinante è quello di osservare che una stessa parte ha caratteristiche diverse se
presa singolarmente o inserita nel tutto, e che quindi una stessa parte inserita in due diverse totalità
può avere caratteristiche diverse. L’analisi allora non parte dal basso, dall’analisi che frammenta,
ma considera entità globali con una loro intrinseca organizzazione. Il termine «Gestalt»
(«psicologia della forma») vuole proprio indicare questo concetto di unità avente una sua propria
forma: ‘sistema unitario, forma, configurazione’.
-I primi lavori dei gestaltisti e la critica all’empirismo
Il precursore della Psicologia della Gestalt fu un allievo della Scuola di Graz (gruppo di filosofi e
psicologi che si occupavano della percezione dell'oggetto): von Ehrenfels (1890). Egli utilizzò
l'espressione «qualità gestaltica» per indicare le caratteristiche delle configurazioni percettive che
rimangono invariate al variare degli aspetti elementari delle configurazioni stesse. Esempio: una
qualità gestaltica è la melodia di un brano che si mantiene tale anche al variare della tonalità.
Dimostrazione del fatto che una melodia non è costituita dalla somma delle singole note che la
compongono ma dall'insieme dei rapporti tra queste.
La data di nascita è il 1912 indicativamente, anno in cui Wertheimer pubblica il suo lavoro sul
movimento stroboscopico (movimento apparente o fenomeno phi): la rapida successione di
accensione-spegnimento di molti punti luminosi statici (O1 e O2 illuminati da r1 e r2) produce
l’effetto di un unico punto luminoso in movimento, un movimento che non esiste in realtà.
Col fenomeno phi, ovvero il fenomeno della persistenza percettiva dell’oggetto (tendiamo a
integrare gli stimoli come se questi fossero sempre originati da singoli oggetti permanenti) si mette
in crisi la presupposta corrispondenza perfetta tra piano materiale e piano percettivo, dunque la
corrispondenza puntuale tra stimolazione e sensazione, imperante modello di allora. E ciò riprende
chiaramente la legge dell’energia nervosa specifica di Muller.
Altro esperimento che dimostra come l’organizzazione del risultato percettivo segua leggi peculiari
ed è indipendente dalla stimolazione è quello dell’anello di Wetheimer: basta porre una matita sulla
verticale delle frecce che si ha un risultato differente.
La realizzazione di un modello non atomistico, di un atteggiamento che collega unità significanti,
non esenta la Gestalt dal confronto con l’empirismo. Altra critica è dunque quella verso
l’empirismo (associazionismo o comportamentismo), in merito al problema riguardante il peso da
attribuire all’esperienza passata nella formazione di risultati percettivi. Secondo gli empiristi gli
oggetti si formano nella nostra esperienza in base all’apprendimento dovuto alla ripetuta
presentazione, ma la Gestalt, mostrando diverse figure più volte a dei soggetti, ha dimostrato che
l’esperienza passata non è necessariamente l’unico fattore dell’organizzazione percettiva.
Vediamo dunque che la Gestalt si occupa principalmente di percezione e pensiero.
-L’atteggiamento fenomenologico e la teoria del campo (leggi)
Per la Gestalt è fondamentale prendere in considerazione direttamente e con privilegio i fatti così
come ci vengono forniti dai nostri organi di senso. Un atteggiamento, questo, in totale
contrapposizione con l’introspezionismo: il gestaltista accetta il reale e l’esperienza in maniera
diretta, mentre l’introspezionista va al di là dell’oggetto come entità per scoprirne sensazioni
elementari. Più specificamente, il metodo fenomenologico consiste nel definire il campo percettivo
(l’insieme dei percetti) in cui il soggetto si trova e nel rilevare ciò che in esso appare.
Se sul piano metodologico c’è questo, sul piano teorico è cruciale il concetto di teoria di campo,
ovvero il modo con cui spiegare molti aspetti dinamici della psicologia (certo la percezione, ma
anche molte altre cose: il senso di attrazione, il compiacimento di aver trovato una soluzione, lo
sforzo di ricordare un volto noto). Essa essenzialmente si può spiegare col movimento degli astri: il
movimento dipende da un complicato equilibrio generato dall’interazione di molte forze, e la
regolarità del movimento non è prefissata, ma ottenuta come risultato dell’equilibrio delle tensioni
esistenti tra i corpi celesti. Allo stesso modo, la Gestalt afferma come in psicologia le possibilità di
spiegazione vadano attribuite a una teoria che usi concetti quali forze, campo, equilibrio, poiché
l’ordine delle cose è sempre dinamico.
Costruire una teoria di campo significa però individuare le precise regole dell’interazione tra le
parti. Tali regole sono i «principi di unificazione formale», ovvero quelle leggi della Gestalt,
enunciate da Werheimer nel 1923, sottese alla percezione degli stimoli (percepiamo l’intero
piuttosto che la somma delle parti): vicinanza; somiglianza; buona continuazione; pregnanza;
destino comune; chiusura; esperienza precedente. I principi non presumono di essere una copia
fedele ed esaustiva del mondo così come ci appare, ma ci danno delle indicazioni su come si
comporta il campo fenomenico.
La legge della vicinanza. Gli elementi del campo percettivo vengono uniti in forme con tanta
maggiore coesione quanto minore è la distanza tra di loro (esempio di due gruppi di tre macchie).
Somiglianza. Il campo può organizzarsi anche in base al principio di somiglianza: si raggruppano
tra loro quelle parti del campo che hanno maggiore somiglianza (per colore, forma o dimensione)
(esempio serie di cerchi e quadrati).
Continuità. A comparire tra loro raggruppate sono quelle parti che si dispongono secondo una
direzione più uniforme (esempio linea AB verso il basso, AC brusca curvatura).
Pregnanza. Ciò che determina fondamentalmente l’apparire delle forme è la caratteristica di
‘pregnanza’ o ‘buona forma’ da esse posseduta: quanto più regolari, omogenee, semplici esse sono,
tanto maggiore è la probabilità che hanno d’imporsi alla nostra percezione (esempio rettangoli
sovrapposti).
Destino comune. Gli elementi che si muovono nella stessa direzione vengono percepiti come
appartenenti alla stessa figura.
Chiusura. Le parti presenti nel campo tendono a essere percepite come unità chiuse, anche se le
linee non sono continue: riempiamo noi le parti mancanti.
Esperienza precedente. Elementi che per la nostra esperienza passata sono abitualmente associati
tra di loro, tendono a essere uniti in forme («un osservatore che non conosce il nostro alfabeto non
può vedere la lettera E in queste tre linee spezzate»).
C’è poi il principio di separazione figura-sfondo: vaso di Rubin (nel caso di ambiguità della figura
per i suoi margini abbiamo o due visi o un vaso); distinzione per area occupata (la zona di minore
estensione tende a essere colta come figura, quella di maggiore come sfondo); per orientamento
(tendono a essere visti come figure gli elementi i cui assi coincidono con le direzioni principali
dello spazio, verticale e orizzontale, piuttosto che, ad es., obliqui).
A dimostrazione che l’organizzazione della percezione non è data dalla semplice somma delle parti
ma segue leggi peculiari, abbiamo le illusioni: la mente impone sempre un’organizzazione a ciò che
percepisce.
-Il postulato dell’isomorfismo
Rimane da trattare un argomento che per la sua importanza teorica ha suscitato una polemica ancora
da risolvere. Esiste una componente della teoria della Gestalt, il postulato dell’isomorfismo, che si
prefigge di dimostrare che processi così ‘astratti’ come pensiero, memoria e apprendimento hanno
un preciso supporto materiale.
Isomorfismo (‘uguale forma’) sta a indicare un’identità strutturale tra il piano dell’esperienza
diretta, del livello fenomenico, e quello dei processi fisiologici: se il nostro mondo fenomenico
possiede una forma, una struttura, una dinamica, dobbiamo trovare nel sistema nervoso centrale una
forma, una struttura, una dinamica che lo rispecchino. Il concetto è fondamentale perché segna
come, se conosciamo le leggi che organizzano la nostra esperienza fenomenica, necessariamente
conosciamo anche quelle che operano tra fatti che avvengono nel cervello. Fu però aspramente
criticato: è stato visto come un tentativo di voler ridurre l'attività del cervello ai soli fenomeni
fisiologici osservabili con le tecniche sperimentali; è stato interpretato come la ricostruzione di una
duplicazione cerebrale del mondo esterno.
-Psicologia del pensiero e psicologia sociale (Kohler, discontinuo, Werhteimer, Lewin)
Oltre alla percezione, di cui si sono certamente interessati maggiormente, la Gestalt si è occupata
anche di altri campi (intelligenza, memoria, psicologia genetica, animale, della personalità ecc.).
Vale la pena prendere tra questi la psicologia del pensiero, in cui la Gestalt ha prodotto alcuni
concetti molto caratterizzanti il suo modo di procedere.
Kohler ha introdotto il concetto di insight (intuire nel senso di ‘vedere dentro’), una categoria di
spiegazione che scardina quanto creduto dagli psicologi a lui contemporanei in merito
all’apprendimento e al pensiero: apprendere qualcosa o riuscire a risolvere un problema viene
ottenuto solo in seguito a reiterati e casuali tentativi (trials and error di Thorndike). Kohler, invece,
studiando il comportamento di scimpanzè di fronte a situazioni di tipo problematico, ha notato
come la soluzione per prove ed errori viene seguita solo in fasi ridotte per estensione e importanza,
poiché le azioni dell’animale tendono, in realtà, ove possibile a una soluzione studiata con strategia.
Essenzialmente, dopo una lunga esplorazione degli strumenti a propria disposizione e della gabbia,
lo scimpanzé utilizza il bastone per raggiungere il casco di banane: non agisce per tentativi ed
errori, ma perché ha riconfigurato, tramite un atto di insight, i diversi elementi del sistema (gabbia,
banane, distanza, casse che vengono impilate) al fine di raggiungere il suo scopo, rendendo le
scatole non più un elemento di gioco o altro, ma uno strumento utile. L’apprendimento insomma è
l’esito di un processo intelligente, di una ristrutturazione del campo cognitivo.
È sembrato tuttavia che i gestaltisti propendessero per un punto di vista secondo cui
l’apprendimento avviene in maniera subitanea e quindi ha caratteristiche di discontinuità
(illuminazioni-intuizioni). La risposta gestaltista a ciò è insito nella premessa teorica: l’insight non
nega l’importanza dell’esperienza passata; in una situazione che non presenta possibilità di
ristrutturazione, in assenza di altre strategie, il soggetto ricorre a quel repertorio di comportamenti
che gli è già noto.
Un altro approccio alla psicologia del pensiero è quello di Wertheimer, che sviluppa il pensiero
produttivo, in contrapposizione a quella che definisce una «soluzione bruta», ovvero
l’apprendimento mnemonico della successione delle parti, delle regole: bisogna invece guardare
sempre alla struttura globale, osservare la situazione come una totalità significante e non come un
insieme di procedimenti particellari. Duncker ha poi sviluppato questo concetto affermando come
ad allontanare la soluzione di un problema sia la tendenza, insita nei soggetti, a vedere le cose
troppo da vicino e con una mentalità troppo analitica. Ha dunque osservato come raramente si abbia
una totale e completa ristrutturazione del campo cognitivo (insight totale), e che spesso avviene
semmai una serie di progressive ristrutturazioni (insight parziali) che permettono non di risolvere il
problema, ma di formularlo in maniera più adeguata.
Un posto particolare nella psicologia sociale è occupato da Kurt Lewin, allievo di Kohler, che
trasferì i principi della Gestalt allo studio del comportamento umano nella società. Lewin
essenzialmente usa la topologia e i suoi costrutti per descrivere con un linguaggio immediato
situazioni dinamiche concrete: mediante il concetto di regione, ovvero uno spazio chiuso da un
confine (barriera), indica così situazioni psicologiche, tra le quali l’uomo si muove con
spostamenti psicologici (locomozione). Dunque, spostandoci (locomozione) dallo studiare (regione)
al cinema (regione) superiamo diverse barriere, facili da superare se la regione in cui ci dirigiamo
ha valenza positiva, difficili se negativa. Questa valenza Lewin la indica con un vettore.
Con queste caratteristiche, Lewin descrive però non solo l’ambiente psicologico, ma anche le
strutture della persona stessa. La persona è anch’essa un insieme di regioni, in cui vige una
gerarchia (che muta col tempo, col cambiare delle condizioni di salute mentale, dello stato
psicofisico ecc.) e che sono tra loro alcune fortemente connesse e dipendenti, altre meno, altre solo
debolmente (sempre mutevolmente). In questo senso, più cresciamo, più il sistema si fa meno
unitario e dinamicamente meno forte: il bambino è testardo e ha pochi pensieri, l’adulto opera
facilmente una distinzione fra regioni periferiche e centrali.
Infine, Lewin estende le sue considerazioni anche alla psicologia dei gruppi, elaborando la teoria
del campo (il campo è la totalità dei fatti coesistenti nella loro interdipendenza), un approccio che
permette sia di studiare il rapporto tra persona e società, sia le dinamiche del gruppo sociale: al di
fuori di un soggetto, come parte dell’ambiente, sono presenti anche altre persone in grado di
generare un campo attorno a sé, dunque variazioni del campo generato dagli altri (del loro
comportamento ad es.) possono generare variazioni nel comportamento del soggetto. A volte,
inoltre, il gruppo è tanto forte da divenire esso stesso una regione speciale in cui sono
vietati/concessi comportamenti specifici.
-Il periodo americano
Con l’avvento del nazismo e la seconda guerra mondiale c’è un periodo americano della Gestalt, in
cui questa cerca di sopravvivere al comportamentismo. Ma sono agli antipodi: la Gestalt privilegia
la globalità dei fenomeni, utilizza un metodo fenomenologico, si occupa di pensiero e percezione
principalmente; il comportamentismo bandisce ogni indagine che non sia oggettiva (cioè
misurabile), rifiuta l’entità di «coscienza», e studia del comportamento principalmente
l’apprendimento.

Il comportamentismo
-Le origini (comportamentologia, sperimenti, animali, Thorndike e le leggi)
Movimento nordamericano (1930-1950), nasce ufficialmente nel 1913 quando Watson pubblica un
articolo dal titolo La psicologia così come la vede il comportamentista, ma verrà conosciuto in
Europa solo negli anni ’50 a causa dell’americanizzazione della cultura europea. Essenzialmente,
per più di duemila anni la psicologia era stata intesa nel suo senso etimologico di «studio
dell’anima», ma già con Wolff (distinzione razionale ed empirica) si presupponeva una possibile
diversa analisi, un diverso metodo d’indagine. Il comportamentismo fa ciò, afferma che, poiché la
mente è una black box all’interno della quale non sappiamo e non possiamo osservare cosa accade,
gli psicologi devono limitarsi allo studio scientifico del comportamento oggettivamente osservabile.
Di fatto, esso è quasi una nuova disciplina che propone un differente oggetto di studio, una
comportamentologia, se non ci fosse l’ambizione di spiegare quanto affrontato dalla vecchia
psicologia: i contenuti psicologici (emozione, apprendimento soprattutto ecc.) devono essere adesso
studiati attraverso la loro manifestazione osservabile nei termini dei comportamenti.
Il comportamentismo coincide con un momento di forte cambiamento per la psicologia mondiale:
se fino al 1915 i rapporto fra industria e psicologia erano stati piuttosto fievoli, durante la guerra si
assiste invece a un boom della psicologia, utilizzata per testare i soldati da selezionare, nonché
classificarli in vista dell’assegnazione dei ruoli; gli psicologi delle università, così, finirono
progressivamente col collaborare nella pubblicità, nell’organizzazione industriale, dell’esercito ecc.
indipendentemente dal loro orientamento teorico.
Importante è che i comportamentisti abbiano fatto praticamente la storia della psicologia
sperimentale, in quanto, a causa del fatto che il comportamentismo aspira a dare una fondazione
scientifica alla psicologia in maniera da collocarla fra le scienze biologiche, lo scienziato
comportamentista è sempre prima scienziato che comportamentista.
Watson prende molto dal funzionalismo e dalla teoria darwiniana, come dimostra l’influenza
esercitata sul comportamentismo da parte della sperimentazione sugli animali (l’evoluzionismo
darwiniano aveva chiarito che fra l’uomo e le altre specie non vi era una differenza radicale tale per
cui l’uomo ha l’anima e gli animali no: era dunque plausibile fare ricerca psicologica anche con gli
animali). Su quest’ultimi Watson affermava come se ne dovesse studiare solo il comportamento.
Per spiegare l’approccio comportamentista Legrenzi definisce la legge dell’effetto di Thorndike,
che allo studio degli animali molto si dedicò per capire l’apprendimento: metteva dei gatti in una
gabbia (problem box) e gli fa cercare la maniera di uscire per poter raggiungere il cibo
osservandone trials and error, che è quella di premere una leva; Thorndike nota che le risposte non
corrette tendono a essere abbandonate mentre quelle corrette a essere ripetute. La legge, allora, dice
che «un’azione accompagnata o seguita da uno stato di soddisfazione tenderà a ripresentarsi più
spesso, mentre se seguita da uno stato di insoddisfazione tenderà a ripresentarsi meno spesso».
La legge, oltre che chiaramente rendere necessarie poche ipotesi su cosa succeda dentro l’individuo,
sottolinea il carattere adattivo e utilitaristico dell’azione umana. Inoltre, poiché il tempo necessario
a un gatto per uscire da una gabbia decresceva regolarmente (legge dell’esercizio), indica come
l’apprendimento sia graduale, totalmente al contrario di quanto postulato dai gestaltisti. Infine,
Thorndike ha notato come una risposta acquisita in una situazione verrà effettuata in altre situazioni
nella misura in cui queste ultimi sono simili alla prima (legge del trasferimento). [Skinner
riprenderà Thorndike ampliandolo con il concetto di rinforzo].
-Il comportamentismo watsoniano
Per quanto riguarda Watson, anzitutto egli polemizza fortemente contro l’introspezione, ritenendola
non scientifica: l’osservazione introspettiva era compiuta da una persona che parlava di cose che gli
altri non potevano vedere direttamente, perché i dati introspettivi sono privati e non pubblici come
quelli delle scienze naturali. Contribuisce dunque a segnare la fine della psicologia precedente, visti
anche i fermenti storici (antigermanismo accademico, potenziamento statunitense, diffusione delle
applicazioni della psicologia). Il suo comportamentismo si sviluppa fra il 1913 e il 1930 e non si
presenta come un sistema organico e definito una volta per tutte. È però chiaro che la sua
osservazione psicologia sia centrata sul comportamento nel senso di azione complessa manifestata
dall’organismo. Comportamenti dunque che non si identificano nelle singole reazioni psicologiche
dell’organismo (contrazione di un singolo muscolo), le quali sono però esistenti in quanto reazioni
semplici (vanno studiate da altre scienze quali medicina e fisiologia) e compongono l’unità
complessa.
Il condizionamento comincia a occupare un posto centrale nella teoria comportamentista verso il
1916, in cui Watson appare decisamente influenzato non solo da Pavlov ma anche da Secenov e
Bechterev. Il principio del condizionamento dice che ci sono risposte incondizionate a stimoli
incondizionati, e che altri stimoli che siano stati associati a quest’ultimi provocheranno anch’essi la
reazione incondizionata pur non avendo per sé stessi alcuna relazione con essa. La ricerca sul
condizionamento era di particolare importanza per Watson perché individuava precise unità-stimolo
e precise unità-risposta, e inoltre offriva un principio chiave per spiegare la genesi dei
comportamenti complessi: potevano essere il risultato di una lunga storia di condizionamenti.
Per questo motivo, assunse particolare importanza per Watson lo studio dell’apprendimento a
cominciare dalle prime acquisizioni infantili. Secondo Watson, per quanto riguarda le emozioni,
paura rabbia amore erano le emozioni elementari, definite sulla base degli stimoli ambientali che le
provocavano; e a partire da queste emozioni si costruivano le altre. Un caso famoso di
apprendimento delle emozioni è il caso del piccolo Albert, bimbo di 9 mesi, suddividibile in 4 fasi:
1) il bimbo gioca solitamente con un topolino senza alcun timore; 2) viene associata la
presentazione del topolino con un forte rumore; 3) successivamente all’associazione
(apprendimento per condizionamento) il bambino manifesta una grande paura per i topi; 4) per il
meccanismo di generalizzazione dello stimolo, la paura è generata anche da altri oggetti aventi
simili caratteristiche. Insomma: il rumore è lo SI legato direttamente alla RI di paura; SI+S
(topolino)=SC. Watson tenterà di applicare l’apprendimento emotivo a quello del linguaggio,
anch’esso dunque acquisito per condizionamento: il bambino sente associare a un oggetto il suo
nome e di conseguenza il nome finisce per evocare la stessa risposta evocata dall’oggetto.
-L’esperienza e le grandi teorie dell’apprendimento, ovvero il neocomportamentismo (Tolman,
Hull, Skinner)
Con un’affermazione rimasta famosa, Watson dichiarò che se gli avessero dato una dozzina di
bambini sani, ne avrebbe potuto fare a piacimento buoni dottori, magistrati, artisti
indipendentemente dalle loro ipotizzate ‘tendenze, inclinazioni’. Secondo questa posizione, l’uomo
era dunque totalmente il prodotto delle sue esperienze. Conseguentemente assumeva importanza
centrale lo studio dell’apprendimento, cioè della maniera in cui l’uomo acquisisce attraverso
l’esperienza un repertorio di comportamenti che saranno poi gli elementi costitutivi della sua
personalità complessiva.
Ecco allora che gran parte delle teorie dell’apprendimento elaborate fra il 1920 e il 1960 è
riconducibile al comportamentismo, ma sviluppa, definendosi come neocomportamentista, lo
schema del comportamento classico che era riassunto nella formula S-R, ampliandolo inserendo tra
Stimolo e Risposta l’organismo.
Tra queste c’è quella di Tolman, noto neocomportamentista nonché precursore del cognitivismo,
che si differenzia dalla posizione ‘molecolaristica’ di Watson (che rischiava di identificare il
comportamento con le «contrazioni muscolari» e di rimandarne lo studio alla fisiologia) per il
concetto di specifico psicologico, di natura comportamentale (non psichica) e caratterizzato per la
sua irriducibilità. L’argomentazione di Tolman si spiega meglio se la si intende come un
comportamentismo intenzionale, ovvero lo studio del comportamentismo sulla base degli scopi: il
comportamento rivela intenzionalità, è rivolto a uno scopo (non è meccanico stimolo-risposta di
Watson), dunque non c’è apprendimento se non c’è scopo da realizzare. Egli, con esperimenti sul
comportamento dei ratti, ha descritto la problematica inerente all’intenzionalità del comportamento,
affermando come perché l’individuo sappia che quella risposta porta allo scopo desiderato, la
connessione deve essersi verificato in passato e l’individuo deve averla appresa. Inoltre, lo scopo è
descrittivamente presente quando è presente almeno una delle seguenti condizioni in rapporto allo
scopo dell’azione: la costanza dell’oggetto-meta a dispetto delle variazioni degli ostacoli; la
cessazione dell’attività quando un determinato oggetto-meta è tolto. Tolman, infine, parla di
variabile interveniente, riconoscendo come un metodo oggettivo riconosce solo la variabile
rappresentata dal comportamento quando in realtà ce n’è può essere una mentale che inferisce e
interviene (esperienza precedente, stato pulsionale, stimoli ambientali ecc.).
In ultimo, Tolman sviluppa il concetto di apprendimento latente: si apprende anche senza rinforzi.
Per verificare tale ipotesi seleziona tre gruppi di ratti e osserva i loro comportamenti in un labirinto:
nota così che i topi apprendono nei primi 10 giorni la struttura del labirinto (mappa spaziale) senza
la necessità di alcun rinforzo, ma commettevano molti errori, che si riducono drasticamente all’11
giorno quando c’è il rinforzo; dunque, il rinforzo è utile perché si manifesti un comportamento e
non perché lo si apprenda; e dunque la conoscenza appresa può rimanere latente in mancanza di
motivazione specifica. La mappa cognitiva, infatti, ovvero la rappresentazione mentale dello
spazio e della meta che i topi hanno creato, e che permette di raggiungere la meta col percorso più
semplice (principio del minimo sforzo), è utilizzata sistematicamente quando il rinforzo si palesa,
quando si profila uno scopo da realizzare.
La variabile interveniente è centrale anche in Hull, che la considera un fattore interno (pulsione è
fattore interno per lui) che si colloca tra stimolo e risposta, passando da una visione S-R a una S-
O(organismo: fattore interno)-R. Peccato che Hull costruisce una teoria ipotetico-deduttiva simile
a quella delle scienze fisiche: consta infatti di definizioni, postulati, teoremi ecc. che tentano di fare
previsioni non solo sulla direzione (Federico risponderà al telefono?) ma anche sugli aspetti
quantitativi (quanto tempo ci metterà?) del comportamento. Rimane però, proprio per questo, molto
campata in aria e con poche situazioni sperimentali.
Se Hull credeva nell’utilità della teoria, Skinner si mostra invece contrario. È interessato
all’osservazione del comportamento e alla sua relazione con le contingenze di rinforzo, cioè delle
occasioni in cui a una determinata risposta ha fatto seguito una ricompensa, che è chiaramente una
conseguenza positiva. La sua idea è che questo tipo di analisi possa essere sufficiente a spiegare
ogni forma di apprendimento, incluso quello linguistico – anche perché il riferimento ai processi
che si verificano nella mente sarebbe solo inutile, fuorviante, oltre che difficilmente osservabile
oggettivamente.
Egli estrapola le sue analisi dallo studio del comportamento di ratti e piccioni immessi in una
gabbietta (Skinner-box), tra le cui risposte possibili ne viene scelta una (la pressione di una leva ad
es.) a cui far seguire uno stimolo rinforzante (granello di cibo). Si osserva dunque che la risposta
seguita da rinforzo tenderà a presentarsi con sempre maggiore frequenza, produce un aumento del
comportamento. Questo paradigma è detto condizionamento operante, e si differenzia da quello
studiato da Pavlov (condizionamento classico) per il fatto che la risposta precede piuttosto che
seguire lo stimolo: nel caso del cane di Pavlov, lo stimolo incondizionato (cibo) o condizionato
(campanella associata al cibo) provoca necessariamente la risposta incondizionata; nel caso del ratto
di Skinner, l’organismo emette sempre più spesso quella risposta cui ha fatto seguito un rinforzo, la
ricompensa (stimolo) è sempre successiva al comportamento.
Il paradigma del condizionamento tipo R (così chiama il suo Skinner) è maggiormente adatto a
spiegare apprendimenti complessi, non spiegabili sulla base del condizionamento tipo S (Pavlov).
Infatti, mentre il classico si fondava sull’esistenza di reazioni incondizionate (che sono poche) e
sulla formazione di condizionamenti di second’ordine (cibo-campanella), ebbene la possibilità di
condizionamenti di quarto, quinto ecc. ordine appariva indimostrata. Quello operante invece si
applica a qualsiasi tipo di risposta perché ciascuno di essi può essere seguito da rinforzo.
-L’apprendimento sociale e la formazione della personalità
A partire dai contributi di Miller e Dollard (1941) osserviamo un impulso dei comportamentisti a
studiare le interazioni sociali. Nelle loro elaborazioni teoriche trovano ampio spazio fenomeni come
frustrazione, aggressività, ricompense sociali, si esalta molto il principio d’apprendimento per
imitazione sociale. Secondo loro, infatti, il bambino acquisisce una tendenza a imitare (soprattutto
modelli psicologicamente attraenti) poiché è stato rinforzato nelle prime risposte di carattere
imitativo. Ma i modelli e i rinforzi possono agire anche per inibire le risposte, non solo incentivarle.

Psicoanalisi
-Le origini e il senso della psicoanalisi (clima scientifico e culturale)
Il clima scientifico e culturale in cui nasce la psicoanalisi è particolare. La vicenda la si può far
cominciare quando Freud si iscrive alla facoltà di medicina di Vienna nel 1873, tempo in cui il
clima scientifico s’interessava molto di Darwin. Così, Freud segue due corsi non previsi dal suo
piano di studi, quello di anatomia comparata di Claus, il cui intento era quello di confermare
mediante l’osservazione l’ipotesi della continuità esistente tra le varie specie animali, e quello di
fisiologia di Brucke, principale esponente della Scuola fisica di Berlino (anche Helmholtz).
Quest’ultima si proponeva di abolire qualsiasi tentativo di pensiero non scientifico e di richiamarsi a
una disciplina di base che potesse garantire un rigore sperimentale e teorico: la fisica.
A Freud, dunque, si prospettava un futuro di fisiologo e di neurologo, ma egli rinunciò pian piano
all’impostazione meccanicistica e naturalistica dei suoi maestri. Fondamentale in questo senso è la
frequentazione delle lezioni dello psichiatra Meynert, che molto si occupava del sistema nervoso
centrale, inserendo nelle sue teorie, oltre ai dettami della fisiologia fisica, anche la filosofia di
Herbart. Quest’ultimo credeva che la psicologia fosse preminente sulla fisiologia, e che grande
importanza rivestissero le idee inconsce nei processi psichici.
A queste esperienze personali si sommava il clima culturale: come la spinta all’innovazione della
scienza empirica, ai fatti certi fu protagonista sin dai primi decenni dell’Ottocento, adesso una crisi
delle scienze naturali dava l’avvio a un generale ripensamento – anche se in molti, soprattutto
nell’ambito psicologico, Wundt e Titchener ad es., prediligendo il lavoro in laboratorio non
consideravano tali aspetti oggetto di indagine appropriato per la psicologia scientifica –: i modelli
naturalistici che assegnavano regole immutabili ai fenomeni di tutti i tipi non erano più ritenuti
sufficienti, soprattutto a spiegare fenomeni psichici. Freud fu proprio fra quelli che cominciarono a
dubitare delle certezze basate sulla riduzione della spiegazione di tutti i fenomeni al discorso fisico.
-L’opera di Freud e il suo sviluppo (maestri e Breuer, libìdo)
Egli infatti, grazie all’osservazione dell’isteria, si andò convincendo che alla base di determinate
alterazioni funzionali (cecità temporanea, convulsioni ecc.) non era riscontrabile un’alterazione
organica, e quindi vi doveva essere una causa di origine psichica, non somatica. Questa convinzione
veniva corroborata dalle teorie di Charcot (Janet), un medico francese assai noto al tempo che a
Parigi conduceva ricerche nel campo dell’ipnosi applicata alla cura dell’isteria (perdita temporanea
delle funzioni cognitive o motorie, di solito dopo esperienze emotivamente sconvolgenti). Freud
frequentò a Parigi (1885) le lezioni di Charcot, e, tornato a Vienna l’anno dopo mise in pratica
quanto appreso: che l’isteria fosse originata da determinati traumi psichici che si traducevano in
manifestazioni somatiche, e che l’ipnosi permetteva di far scomparire i sintomi isterici. Freud
intraprese i suoi studi allora, ma si rese conto presto che tale metodo incideva solo sul sintomo
senza interessare le cause di esso. Nei successivi 8 anni, allora, egli, insieme a Breuer, adattò una
variante del metodo ipnotico consistente sempre nel mettere in stato ipnotico il soggetto, ma
invitandolo contemporaneamente a ricordare quelle particolari esperienze dolorose che venivano
ipotizzate come la causa dei sintomi. Era il metodo catartico e consentì ai due studiosi di giungere
a due risultati: che i sintomi isterici sono i sostituti di processi psichici normali non verificatisi
(quelle reazioni emotive che sarebbero state adeguate) e, nel contempo, un ricordo del motivo che
l’ha originata; che i ricordi traumatici rimossi, riattivati nella coscienza (riportare la mente del
paziente all’evento che aveva innescato il tutto), consentivano la scomparsa/attenuazione dei
sintomi.
Curioso è il caso di Anna O., paziente di Breuer che soffriva di sintomi gravi quali paralisi e
disturbi della visione e della parola. Breuer comincia ad applicarle il metodo catartico. Purtroppo il
rapporto fra paziente e terapista si fece più intenso e la conduzione del caso divenne impossibile per
il manifestarsi della passione di transfert, a causa della quale la paziente aveva iniziato a provare
sentimenti d’amore per il medico.
Dal punto di vista pratico, il metodo catartico aveva però dei limiti notevoli: i sintomi scomparivano
per un certo periodo, per poi fare la loro ricomparsa una volta che la cura veniva sospesa; si
verificava una forte dipendenza da parte dei pazienti nei confronti del terapeuta. Non mancarono
inoltre dissidi teorici tra i due psicologi: Freud si convinse sempre più che l’incompatibilità di
determinati pensieri o desideri con la vita cosciente dipendeva dal fatto che essi erano fortemente
associati alla vita sessuale e in particolare con ricordi ed esperienze vissute riconducibili
all’infanzia; Breuer, invece, la pensava come la pensava la scienza ufficiale, rifiutò dunque
l’impostazione freudiana della libìdo, cioè appunto l’energia psichica che presiede gran parte delle
relazioni dell’individuo.
All’inizio del secolo, dunque, Freud formulò la sua celebre concezione dell’attività onirica,
rendendo l’analisi dei sogni il cardine dell’interpretazione psicoanalitica (L’interpretazione dei
sogni). Essenzialmente, la scena onirica è costituita da desideri e tendenze rimossi durante la veglia
che, entrando in contatto con i resti diurni, pongono le condizioni per l’appagamento dei desideri
inconsci. Ciò però avviene in maniera pazzesca perché i pensieri onirici latenti che agiscono al di
sotto della scena manifesta (ciò che il dormiente vede) vengono trasformati con procedimenti
poetici dal lavoro onirico che presiede e manipola i pensieri rimossi, a cui si unisce la censura.
Da qui, Freud si dedica a molteplici trattazioni: il complesso edipico, il narcisismo, principio di
piacere e di realtà, l’estensione dell’indagine psicoanalitica ai vari campi del sapere ecc.

-Tre punti, terapia e teoria


Il termine psicoanalisi compare per la prima volta nel 1896 in L’ereditarietà della nevrosi. Sulla
base dell’osservazione dedicata ai fenomeni psicopatologici, la psicoanalisi si sviluppò
progressivamente nel tentativo di costruire un modello teorico-esplicativo unitario, estendendo il
proprio interesse ai processi psichici normali e anche ai diversi campi del sapere umano (creazione
artistica, antropologia ecc.).
Alla luce di ciò, la psicoanalisi può essere intesa come: 1) un metodo rivolto all’indagine dei
processi psichici che si basa sull’assunto di come la nostra vita psichica sia prevalentemente
caratterizzata da processi inconsci; 2) una tecnica terapeutica che, assumendo come riferimento
quanto appena detto, analizza e scioglie i disturbi del soggetto; 3) un’impostazione teorica.
È chiaro che l’aspetto teorico è fortemente connesso con gli altri e fonda la terapia. Secondo la p.a.
l’inconscio non va considerato come una cieca forza istintuale, ma come un mondo dotato di senso
che si manifesta con una determinata logica, condizionando il comportamento (determinismo
psichico: ogni evento psichico ha una causa ben specifica, come dimostra Freud studiando la
psicopatologia della vita quotidiana); il paziente ha sviluppato disturbi mentali perché in esso
risiede un conflitto tra richieste psichiche contrarie, cioè tendenze perturbanti non accettabili dalla
coscienza del soggetto e forze rimoventi dell’Io; infatti, di questo conflitto il paziente non si rende
conto perché ha un meccanismo difensivo inconscio (di cui il principale strumento è il processo di
rimozione), che allontana dalla coscienza fantasie e desideri ritenuti spiacevoli e pericolosi
(paragone con l’archeologia). La cura consiste allora nella riappropriazione, per mezzo delle analisi
delle associazioni libere e degli atti mancati (manifestazioni dell’inconscio come lapsus o
dimenticanze) e della discussione dei propri sogni, degli elementi rimossi/dimenticati che generano
conflitto, una riappropriazione di senso che è un paradosso: è il soggetto l’unico depositario della
conoscenza, e l’analista può solo aiutare a disvelare per mezzo del processo di ricostruzione (non
interpretazione, che sottende possibili proiezioni di elementi individuali) quella massa che per il
soggetto è traumatica (non c’è sempre un trauma specifico, come invece Freud credeva all’inizio).
Ciò avviene se si verifica il transfert, cioè il ripetersi/riattivarsi di antiche situazioni affettive ed
emotive infantili nella relazione analitica, causando dunque un disturbo del soggetto, l’emergere dei
conflitti. È proprio nella situazione transferale che non solo si può recuperare ciò che è stato
dimenticato, ma si può procedere alla liquidazione di quei sintomi che avevano la funzione di
rappresentare gli elementi rimossi, (quanto significato dall’inconscio non è di norma aggredibile in
modo diretto perché le resistenze del soggetto sono troppo alte).
-Il modello topografico e il modello strutturale
Dal punto di vista prettamente teorico, per la trattazione delle nevrosi (quella sofferenza della
psiche provocata da disturbi psicogeni che si estrinsecano con diversi sintomi e caratteristiche),
l’inconscio è senza dubbio la nozione cardine della psicoanalisi. Freud ne riformulò il concetto da
due punti di vista: descrittivo, per cui l’inconscio rappresenta tutti quei prodotti della psiche che non
raggiungono la coscienza; topico, per cui è un luogo dell’apparato psichico dove si situano i
contenuti della coscienza rimossi.
Freud ripartisce i contenuti della mente umana in due modi diversi: inconscio, preconscio,
coscienza; Es, Io, Super-io. Le due suddivisioni non si escludono a vicenda e, anzi, tra esse c’è una
certa sovrapposizione: l’Es opera dall’inconscio, l’Io e il Super-io sono entrambi ripartibili tra
conscio, preconscio e inconscio.
Nel modello topografico, l’inconscio è la sede di desideri, impulsi e ricordi rimossi, i quali non è
possibile riportare volontariamente alla coscienza, e ‘spinge’ per la realizzazione di tali desideri e
impulsi seguendo il principio di piacere (il soddisfacimento, anche per forme indirette, del desiderio
sessuale).
Il preconscio, tra inconscio e coscienza, contiene anch’esso ricordi di esperienze passate
dell’individuo, ma sono ricordi che possono essere riportati alla coscienza (mediante un certo
sforzo).
La coscienza è dove si trovano i contenuti immediatamente accessibili, e si basa sul principio di
realtà (le azioni e ideazioni sono guidate dal confronto con la realtà esterna e i suoi principi).
Nel modello strutturale, l’Es è una struttura totalmente inconscia che spinge per la soddisfazione
delle pulsioni inconsce dell’individuo. Solo attraverso i sogni o le associazioni mentali ne affiorano
i contenuti, che durante la notte ‘sfuggono’ al controllo delle azioni della coscienza.
Il Super-io è una struttura quasi del tutto inconscia in cui risiedono le regole e i divieti morali
dell’individuo, che traggono origine dall’interiorizzazione delle figure genitoriali durante la prima
fase di vita dell’individuo (la rappresentazione dunque non è il genitore reale, ma una sua immagine
più severa e autoritaria). Il suo compito è di impedire che l’Es soddisfi liberamente le proprie
pulsioni.
L’Io è ciò che più si avvicina alla concezione di sé. È la struttura organizzatrice della personalità e
il suo compito è quello di fare da mediatore tra l’esigenza di soddisfare le pulsioni istintuali dell’Es
e i divieti imposti dal Super-io.
-Sviluppi successivi
Col nascere della psicologia umanistica negli anni ’60, Freud diventa meno influente e se ne
riconoscono i limiti: aveva una visione pessimistica della natura umana che ne poneva in risalto
solo i problemi anziché le potenzialità, e vedeva le persone quali ostaggi delle proprie esperienze
infantili e degli impulsi primitivi. Una visione negativa che non si sposava bene con l’ottimismo
diffuso postbellico (miracolo economico, allunaggio ecc.). Nasce appunto così la psicologia
umanistica ad opera di Rogers, che pone in risalto il potenziale positivo degli esseri umani.
Per quanto riguarda quanto rimane della psicoanalisi, ormai l’esigenza di rapidità ed economicità, la
cura con gli psicofarmaci, la distanza dell’‘accademia’ da teorie che hanno scarse evidenze
empiriche e di cui non si possono controllare le osservazioni, e il distacco tra l’inconscio
psicoanalitico e quello cognitivo, stanno decretando la fine della scuola freudiana.
Piaget e la scuola di Ginevra
-Origini, il metodo
Negli anni in cui in Europa si affermano la psicoanalisi e la Gestalt e, al di là dell’oceano, il
comportamentismo, un singolo ricercatore svizzero inizia una tradizione di ricerca e sviluppa una
teoria che avrà profonde ripercussioni. È Jean Piaget, il quale comincia i suoi studi a Parigi, dove
lavora in un laboratorio dove si cerca di costruire test per misurare l’intelligenza dei bambini. Torna
dunque a Ginevra dove si dedica per vent’anni allo studio dei bambini (1920-1940?).
Per condurre le sue ricerche dovette inventarsi un nuovo metodo, il cosiddetto colloquio clinico.
Infatti, i metodi allora disponibili non erano adatti a scandagliare lo sviluppo dell’intelligenza:
l’introspezione presupponeva un certo addestramento del soggetto a scomporre, il
comportamentismo prevedeva la semplice registrazione delle modalità di risposta, la psicoanalisi
era inutile perché Piaget voleva vedere l’intelligenza alle prese con uno specifico problema (non
nella sua libertà). Inventa così un sistema misto tra il colloquio e l’osservazione che consisteva nel
ricostruire le credenze del bambino facendogli domande mirate mentre risolveva un compito.
C’erano però ovviamente dei limiti: Piaget, benché molto attento a non influenzare con le sue
domande le risposte del bambino, tendeva pericolosamente a interpretare risposte e azioni alla luce
dei suoi presupposti teorici; inoltre, dalle ricerche successive si è scoperto che i bambini avevano
una capacità di pensiero superiore a quella supposta da Piaget a condizione che il compito
acquisisse senso ai loro occhi. Ciononostante, Piaget ha giocato un ruolo fondamentale per molti
aspetti della psicologia e non solo, come per la pedagogia: a questa ha infatti insegnato che bisogna
fare in modo che un bambino apprenda partecipando attivamente all’esperienza di apprendimento,
affrontando i problemi in modo concreto e non astratto.
-La teoria: l’epistemologia genetica (i presupposti teorici, formazione e mezzi quindi
apprendimento e stadi)
Essenzialmente, Piaget cercò di rispondere empiricamente (la sua è infatti una epistemologia
naturale) a domande classiche dell’epistemologia filosofica (la disciplina che si occupa del
problema della relazione tra soggetto agente e gli oggetti della sua esperienza): come facciamo a
conoscere qualcosa? Ci sono delle idee innate? E così via. Chiamò allora il suo approccio
epistemologia genetica, dove il termine genetica si riferisce a genesi (nel senso di sviluppo): egli si
occupa infatti della formazione della conoscenza e dei mezzi attraverso i quali la mente umana
passa da un livello di conoscenza inferiore a uno superiore attraverso diversi stadi. Arrivando a un
approccio evolutivo (esteso poi anche alla conoscenza collettiva) le cui principali acquisizioni sono
che la conoscenza si forma attraverso stadi, lo sviluppo cognitivo è stadiale; e che la conoscenza
avviene attraverso l’adattamento all’ambiente (nozione di derivazione darwiniana che non
sorprende visto l’interesse di Piaget sin da giovane per la biologia).
L’apprendimento avviene per mezzo di due processi: dell’assimilazione, cioè nell’incorporazione
di un evento o un oggetto in uno schema comportamentale o cognitivo già acquisito (il bambino
utilizza un oggetto per effettuare un’attività che conosce già, decodifica un evento in base a
elementi già noti), o dell’accomodamento, cioè nella modifica dello schema comportamentale o
cognitivo per accogliere nuovi oggetti o eventi. I due processi si alternano alla costante ricerca di un
equilibrio detto omeostasi, ovvero di una forma di controllo del mondo esterno; infatti, quando una
nuova informazione non risulta immediatamente interpretabile in base agli schemi esistenti, il
soggetto entra in uno stato di disequilibrio e cerca di trovare sempre un nuovo equilibrio: lo scopo
infatti è sempre l’adattamento. Nei suoi studi Piaget notò inoltre che durante lo sviluppo vi sono:
momenti nei quali prevale l’assimilazione, momenti nei quali prevale l’accomodamento, momenti
nei quali prevale un relativo equilibrio.
Per quanto riguarda lo sviluppo della conoscenza, Piaget definisce lo sviluppo cognitivo come «la
capacità di comprendere il mondo». Esso è un processo continuo, in quanto governato da funzioni
di adattamento ed equilibrio, ma anche discontinuo, in quanto con il crescere dell’età si verificano
modificazioni strutturali chiamate stadi di sviluppo. Essi sono principalmente individuabili per
mezzo delle differenze sostanziali nel modo col quale, nelle diverse età, l’individuo si accosta alla
realtà esterna e ai problemi di adattamento che essa pone. Lo sviluppo cognitivo avviene dunque in
4 fasi (comuni a tutti gli individui e seguenti sempre lo stesso ordine): 1) Stadio senso-motorio; 2)
pre-operatorio; 3) operatorio-concreto; 4) operatorio-formale.
Lo stadio senso-motorio si verifica dalla nascita ai 2 anni circa e, come suggerisce il nome, vede il
bambino utilizzare i senti e le abilità motorie per esplorare e relazionarsi con l’ambiente, compreso
pian piano non più come entità unità a sé (egocentrismo radicale) ma come Altro.
Lo stadio pre-operatorio è dai 2 ai 6 anni ed è quello in cui il bambino è in grado di usare i
simboli, ovvero entità che ne rappresentano altre (gioco simbolico: scatola per rappresentare il
tavolo ecc.), e, superato l’egocentrismo radicale, manifesta un egocentrismo intellettuale (il punto di
vista degli altri non è differenziato dal proprio, il bimbo rappresenta le cose solo dal proprio punto
di vista, come nell’esperimento delle tre montagne). Inoltre, il bambino in questo stadio è
caratterizzato dall’irreversibilità (gli effetti di un’azione non possono essere annullati da una
inversa).
Lo stadio operatorio-concreto è dai 6 agli 11 anni ed è quello in cui il bambino sviluppa il pensiero
operatorio, cioè quello capace di compiere operazioni mentali logiche, ma concrete, basate su dati
tangibili (sottrarre, classificare, confrontare ecc.). Importanti acquisizioni sono dunque il concetto di
reversibilità e la conservazione delle quantità (la quantità rimane tale anche se cambia la forma,
esperimento bicchieri).
Lo stadio operatorio-formale è quello in cui il bimbo riesce a formulare pensieri astratti e
compiere operazioni logiche su premesse puramente ipotetiche, nonché ad assumere prospettive
diverse dalla propria.
-Teorie postpiagetiane e la scuola di Ginevra (no differenze, aspetti sociali)
Nel corso degli ultimi due decenni del Novecento il punto di vista piagetiano ha sempre costituito
un punto di riferimento per chi studiava lo sviluppo cognitivo. Si sono dunque riscontrate
differenze: l’ipotesi della continuità sostiene che i bambini non si differenziano per alcun aspetto
fondamentale dagli adulti. Certo, essi sanno meno e sono meno abili degli adulti in ogni dominio,
ma questo squilibrio non è diverso da quello che differenzia individui adulti tra loro.
Queste ricerche misero in crisi l’approccio stadiale, ma non l’impostazione piagetiana: proprio a
Ginevra, nell’ultimo trentennio c’è stato uno sviluppo originale del suo punto di vista. Ma, più in
generale, la psicologia evolutiva ha cercato di coniugare l’approccio cognitivista con le intuizioni
piagetiane. È chiaro però che è principalmente la scuola di Ginevra a rappresentare l’eredità dello
studioso. Essa riprende molto di Piaget, ma mostra come, se i compiti sono affrontati da più
bambini che si coordinano tra loro, tali coordinamenti agevolano lo sviluppo cognitivo.
L’esperimento della montagna è più facile se al posto della bambola c’è un altro bambino. Insomma
si concentrano sulle dinamiche sociali nello sviluppo cognitivo, scoprendo come Piaget in molte
cose si sbagliava, come il pensiero egocentrico: se si fa emergere l’incoerenza derivante dal
prendere in considerazione la prospettiva dell’altro, si crea nel bambino un conflitto sociocognitivo
che rende esplicite le differenze dei punti di vista e crea le condizioni per una soluzione corretta del
compito. E questo perché in contesti interindividuali non si tratta tanto di risolvere un problema
difficile quanto di impegnarsi in una relazione con un altro.

Il movimento cognitivista
-Lo scenario (il dominio del comportamentismo, Hebb e il realismo logico)
Negli anni ’50 vi era una scuola psicologica che esercitava un assoluto predominio sulla psicologia:
il comportamentismo. Tale predominio era iniziato nel corso degli anni ’30, con lo scomparire delle
varie scuole che potevano contrastarlo: lo strutturalismo si era esaurito con la morte dei suoi capi
storici (Wundt e Titchener), il funzionalismo era proprio confluito nel comportamentismo e la
Gestalt aveva subito un duro colpo con l’avvento del nazismo in Germania. Certo, sfugge a questo
dominio la psicologia dell’età evolutiva, che arriverà in America negli anni ’60. Tutto ciò aveva
determinato il fatto che per molti anni la mente e i processi mentali erano stati ignorati. Arriva così
la rivoluzione cognitivista, pronta a interessarsi dei processi cognitivi (percezione, memoria,
linguaggio, cretività) che erano stati trascurati dai comportamentisti.
Paradossalmente, il cognitivismo è una diretta filiazione del comportamentismo, che rimane, sia
pure per distinguersene, il punto di riferimento. Anche il nome del movimento risente di questa
origine, poiché i primi cognitivisti non esitavano prima della metà degli anni Sessanta a definirsi
comportamentisti, pensando di vivere una nuova fase del comportamentismo, dopo il
neocomportamentismo, detta «cenocomportamentismo». La fase era iniziata con Hebb, il quale si
era posto il problema delle variabili intervenienti, introdotte dai neocomportamentisti come
costrutti ipotetici per spiegare quei fenomeni che non potevano essere interpretati direttamente con
semplice corrispondenza stimolo-risposta. Hebb in particolare era interessato ai processi di
mediazione, cioè a quei processi che consentono all’individuo di non rispondere immediatamente
allo stimolo, ma che, creando delle strutture interne («assembramenti») al suo sistema nervoso,
fanno sì che egli possa comportarsi avendo a disposizione stimoli e risposte interne. Aveva dunque
cominciato a porre le condizioni perché nella cultura psicologica nordamericana si uscisse dalle
angustie dei modelli stimolo-risposta: l’interesse per la prima volta si rivolgeva ai processi che si
svolgono all’interno dell’individuo, ma non più sul piano del puro costrutto ipotetico, bensì su
quello del modello logico dello svolgimento dei processi mentali. Bisogna infine chiarire che con
Hebb si introduce una modalità di concettualizzare i fenomeni che diventerà tipica del cognitivismo,
ovvero la creazione di modelli di idealizzazione del sistema nervoso la cui preoccupazione non è
quella di essere realistici nel descrivere la mente, ma di rappresentare realisticamente le funzioni
svolte dalla mente per mezzo di uno schema valido sul piano logico, e questo perché l’interesse è
sempre rivolto ai processi mentali, questi sì visti con occhio realistico. Insomma, l’autore del
modello non pretende che vi sia nel cervello un organo deputato a una determinata funzione, ma
afferma con esso che la funzione è logicamente necessaria, quale che sia la parte del sistema
nervoso che la svolge.
-Il mentalismo dei cognitivisti
Il cognitivismo può essere considerato sotto molti aspetti una psicologia mentalistica. Non è però un
mentalismo di tipo metafisico, bensì sempre realistico. Inoltre, i modelli che i cognitivisti utilizzano
sono in origine derivati dai modelli cibernetici, cosa che consente l’utilizzo della simulazione
mediante calcolatore elettronico (che però rimane spesso solo a livello di progetto).
Dal punto di vista epistemologico, dunque, esso prende le distanze dai fondamenti epistemologici
del comportamentismo, e, in particolare, dall’empirismo logico. Negli anni ’50, infatti, anche quella
che era stata la prima liberalizzazione dell’empirismo – passaggio da un sistema in cui si riteneva
che di ogni concetto teorico si potesse dare una definizione contestuale, a un sistema in cui si
comprese come vi fossero eventi fisici osservabili solo in determinate circostanze, e se ne poteva
dunque dare solo una definizione per riduzione – mostra le sue angustie e si ha la seconda
liberalizzazione dell’empirismo, cioè la consapevolezza che vi sono termini primitivi nel sistema
teorico che vanno introdotti indipendentemente dall’osservazione.
È in questo momento di crisi che emerge il cognitivismo, quando cioè il comportamentismo non è
più in grado di bollare come ascientifico tutto ciò che non è direttamente osservabile, e si rendono
necessari dei concetti mentalistici.
-Lo sviluppo storico del cognitivismo (Craick, mente e computer, memoria,TOTE)
Fornito un abbozzo dei presupposti del cognitivismo e individuatone il clima culturale, bisogna
adesso delineare le tappe più significative per l’affermazione del movimento. Va però subito detto
che esso non è una scuola e non vi è mai stato un manifesto vero e proprio (c’è Psicologia cognitiva
di Neisser, ma è uscito quando il movimento era già affermato da un decennio).
Mancando una data ufficiale di inizio, la storia del movimento può essere fatta cominciare dalla
seconda guerra mondiale, quando Craick iniziò a Cambridge (città cardine del cognitivismo) delle
ricerche sul comportamento di tracking. Il tracking è un compito in cui vi è un bersaglio mobile
che si sposta su uno schermo e al soggetto viene chiesto di tenere allineato un segnale (spesso una
penna) col bersaglio (spesso una pista che scorre). Craick scopre così che il soggetto umano non
appare in grado di operare più di una correzione ogni mezzo secondo; e ipotizza che all’interno
dell’organismo vi sia un meccanismo decisore che doveva impiegare almeno mezzo secondo per
elaborare le informazioni in arrivo. (Con la riscoperta dell’enorme importanza del tempo impiegato
a compiere le azioni, come indicatore dei processi mentali sottostanti alle azioni stesse) si affermava
per la prima volta che: l’uomo poteva essere concepito come un elaboratore di informazioni, un
servomeccanismo di tipo cibernetico; l’uomo aveva un tipo di funzionamento discreto; il
meccanismo decisore era unico e non potevano essere eseguite più cose alla volta.
Per comprendere ciò, non si deve perdere di vista la situazione generale. Negli anni ’50 infatti la
comparsa del computer ebbe un enorme impatto concettuale sulla psicologia cognitiva, che sviluppò
un’idea generale secondo cui i computer sono sistemi di elaborazione delle informazioni nei cui
circuiti scorre il flusso di informazioni, e gli eventi mentali possono essere pensati come un flusso
di informazioni che percorre la mente, anch’essa appunto elaboratore. Il computer allora poteva
fungere da modello della mente umana, essendo entrambi elaboratori che registrano, memorizzano e
recuperano informazioni. In quest’ottica (modello HIP: human information processing),
cervello=hardware, mente=software, e tra input (stimolo esterno da elaborare) e output
(comportamento) c’era un processo cognitivo interno di elaborazione alquanto complesso e
dinamico, organizzato in stadi in cui entrano in gioco diversi elementi (percezione/linguaggio e
memoria; ragionamento ed emozioni). La mente è dunque concepita come elaboratore di
informazioni di tipo sequenziale che ha una capacità limitata di elaborazione. Inoltre, tutte le attività
che svolgiamo grazie ai processi cognitivi sono per la maggior parte consapevoli e attengono alle
nostre risposte volontarie più che involontarie. Infine, bisogna dire che grazie al modello HIP il
soggetto non è considerato passivo di fronte agli stimoli, ma attivo.
La memoria è un tema studiato dai cognitivisti, e specificamente la memoria a breve termine. Fu
questo, accanto alla vigilanza (abilità che dimostriamo in molte occasioni: prestare attenzione alla
posizione di un ago su un quadrante controllando quando si sposta), ai tempi di reazione e altri
processi mentali, uno dei temi principali di ricerca. La memoria era stata studiata dai
comportamentisti per i suoi stretti legami con il tema dell’apprendimento, ma per loro non aveva
senso distinguere tra diversi tipi di memoria a seconda dei tempi di memorizzazione: il processo era
unico. Ma dopo gli studi di Brown erano sorte fondamentali differenze tra memoria secondaria e
primaria: si dimostrò, ad es., che se la memoria secondaria è suscettibile ai processi di interferenza
sul piano semantico (memorizzando bene una lista di vocaboli, può capitare che si scambino i
significati), ciò non avviene in quella primaria, soggetta invece a interferenze di tipo fonologico.
Tornando all’analogia strutturale e funzionale tra mente e computer, l’opera che ne raccolse meglio
i risultati fu Piani e strutture del comportamento di Miller, psicolinguista, Galanter e Pribram. In
quest’opera gli autori tentarono di dare alla psicologia un’unità di analisi che potesse sostituire il
riflesso (comportamentismo), e ritennero di poterla individuare nell’unità TOTE (test-operate-test-
exit). Essenzialmente, ogni volta che un individuo deve compiere un’azione, in primo luogo verifica
nell’ambiente se la situazione è congruente con gli obiettivi dell’azione che deve svolgere (test): se
è congruente si avrà l’uscita (exit) dall’unità TOTE, se non è congruente dovrà operare (operate) per
modificare l’ambiente, quindi verificare (test) che adesso la situazione sia congruente e in caso di
risposta affermativa uscire, altrimenti continuare a operare e verificare. Supponendo che si debba
appendere un quadro al muro: controllo se il chiodo è già presente nella posizione voluta (test), se
non c’è lo pianto nella posizione (operate), verifico dunque se il chiodo risponde ai requisiti (test: è
dritto ad es.), se sì esco dall’unità per passare a un’altra (exit). Grazie al TOTE, si scoprì come il
comportamento non era l’epifenomeno di un arco riflesso (input-elaborazione-output motorio), ma
il risultato di un processo di continua verifica retroattiva (feedback).
Se gli anni ’50 furono quelli della rottura col comportamentismo, i ’60 e i ’70 non portarono a
risultati sostanzialmente nuovi, ma servirono ai cognitivisti per ‘riconoscersi’ (ricordiamo il non-
manifesto di Neisser). Tuttavia, furono anche gli anni in cui la teoria cominciò a frantumarsi verso
modelli troppo astratti.
-Prospettiva ecologica e scienza cognitiva (Neisser, modularismo e connessionismo)
Nove anni dopo il non-manifesto, nel 1976, Neisser criticò la metafora uomo-computer, resa col
tempo sempre più rigida e lontana dalla realtà, nel suo Conoscenza e realtà. Oltre appunto al
distacco dalla comprensione del funzionamento dell’uomo in nome di una ricerca che si ripiega su
sé stessa, Neisser critica fortemente anche il concetto di elaborazione delle informazioni.
Influenzato da Gibson, egli afferma che le informazioni che l’individuo elabora vanno viste
nell’ambiente, perché è lì che sono, è l’ambiente che le offre. Nasce così l’impostazione ecologica,
uno dei due filoni del cognitivismo tra gi anni ’80 e ’90, che ha maggior interesse per l’uomo e per i
suoi problemi quotidiani, rifiutando l’analogia uomo-calcolatore. L’altro filone è la scienza
cognitiva. Essa, in contrapposizione con la tendenza ecologica, nasce nel 1977 con la rivista
omonima e insiste sull’intelligenza artificiale e sull’utilizzo della simulazione, operando di nuovo
una saldatura tra il mondo dell’intelligenza artificiale e la psicologia dei processi cognitivi. I
paradigmi dominanti della scienza cognitiva sono due: modularismo e connessionismo.
Il modularismo distingue nella mente umana i sistemi di input (o moduli) che analizzano i dati
sensoriali, e i sistemi centrali deputati alle funzioni superiori (problem solving ecc.). Propone
dunque un’architettura cognitiva (struttura della mente) disposta in strutture verticali specializzate
(moduli) adibite all’analisi dell’input che trasformano questi ultimi in rappresentazioni che vengono
offerte ai sistemi centrali, i quali svolgono operazioni lente e sotto controllo volontario e cosciente,
per le elaborazioni più complesse. Fodor dà anche le caratteristiche dei sistemi di analisi di input:
sono scomponibili in sottocomponenti, sono altamente specializzati e differenziati, il loro
funzionamento è obbligato (devono entrare in azione quando si presenta l’input), sono incapsulati
(isolati da info provenienti da altre parti del sistema cognitivo) e indipendenti sebbene cooperino.
Il connessionismo propone un nuovo modello a fronte delle nuove scoperte neuropsicologiche,
grazie alle quali si è scoperto come esista una notevole incongruenza tra l’hardware del sistema
nervoso centrale e quello dei calcolatori: il sistema nervoso opera con elementi relativamente lenti,
ma massivamente interconnessi in parallelo, e non con elementi rapidi operanti serialmente. La
modellistica (interpretazione dell’azione del sistema nervoso) ha dunque elaborato modelli di
funzionamento a parallelismo massivo, in cui ogni attività mentale è vista come l’attivazione di
diversi sistemi posti in rete (rete neurale) che non operano in modo sequenziale/gerarchico, ma
parallelamente e interagendo tra loro.

La psicologia fra scienza cognitiva e biologia


-La scienza cognitiva (nascita, interdisciplinarità, terreno comune)
Il cambiamento operato dalla nascita della scienza cognitiva è profondo: tutte le grandi scuole si
fondavano su teorie di vasto respiro che abbracciavano i principali ambiti della disciplina
(psicologia sociale, evolutiva, personalità ecc.), con la nascita della scienza cognitiva assistiamo a
una progressiva ma radicale redistribuzione del sapere psicologico. Alcune problematiche classiche
infatti (i processi cognitivi ad es.) non vanno più considerate solo come sviluppi della psicologia,
ma entrano a far parte di quell’intreccio interdisciplinare che è la scienza cognitiva.
Per essa, cruciale è il rapporto con la biologia, in quanto si pone la questione dei rapporti tra analisi
formali e materializzazione biologica dei meccanismi studiati. Ecco perché le neuroscienze sono
così importanti per la scienza cognitiva. Quest’ultima, però, è formata principalmente da altre
quattro discipline oltre che alle neuroscienze (5 in totale): psicologia, linguistica, informatica,
filosofia. Ciascuna di esse mantiene la sua identità e si sviluppa anche autonomamente, ma
converge spesso nell’intreccio della scienza cognitiva dando luogo a un settore di ricerca nuovo. Per
la prima volta la psicologia non viene condizionata dall’esterno, dunque dall’influenza di altre
discipline, ma si intreccia e concorre alla creazione di nuovi saperi. Inoltre, la scienza cognitiva è
diversa anche perché non è più un punto di vista sull’uomo (teoria che spiega tutto), ma terreno
comune di discipline diverse che interagiscono.
-Primo decennio del XXI sec. (ipotesi della ps. evolu., scomposizione del cervello, neuroni spec.)
Il cognitivismo ecologico ha sempre più influenzato quella che oggi è definita come psicologia
evoluzionista, la quale si basa sul fatto che, forgiandosi in forza della storia naturale della specie
umana, il funzionamento dei processi cognitivi è indipendente da quel che sappiamo delle proprietà
fisiche di ciò che stimola. Possiamo così costruire (la ps. evol. Si basa su ipotesi) un modello della
percezione come sistema che prende decisioni, rapide, sulle possibili proprietà degli oggetti e degli
eventi presenti nell’ambiente.
Cervello e scienze cognitive. Quando le scienze cognitive sono nate, ci si è concentrati sui processi
di elaborazione delle informazioni, ma lo sviluppo di raffinate tecnologie per localizzare le attività
del cervello influenza sempre più gli sviluppi contemporanei della psicologia.
Il tentativo di operare il collegamento tra capacità mentali e localizzazioni cerebrali è antico, anche
se siamo diventati operativi soltanto recentemente. Già nel 1861 un neurologo francese, Broca,
descrisse un paziente che, in seguito a una lesione cerebrale, riusciva a dire solo un «tan»,
scoprendo, dopo la sua morte, che aveva una lesione del cervello nel lobo frontale di sinistra, e
rivelando dunque dove nel cervello è localizzata la produzione delle parole. È il cosiddetto
principio di scomposizione, il quale, presupponendo che il funzionamento del cervello sia basato
sull’interazione di aree isolabili, deputate a funzioni diverse e relativamente indipendenti le une
dalle altre, quando una determinata funzione mentale è in atto le aree cerebrali a essa deputate sono
più attive delle altre.
Supponiamo di essere interessati ad accertare quali aree sono coinvolte in una moltiplicazione fatta
a mente. Lo sperimentatore presenta due numeri da moltiplicare (6 x 10). Chi partecipa
all’esperimento pronuncia ad alta voce il risultato della moltiplicazione e il suo compito di controllo
consiste nella semplice ripetizione dei due numeri presentati dallo sperimentatore. Dunque, per
mezzo di una macchina, misuriamo i diversi livelli di attivazione innescati dai due compiti. Come
funziona? Essa rileva l’acqua presente nel sangue che circola nel cervello, e, se un’area è più attiva
di un’altra, allora circolerà più sangue, quindi anche più acqua. Questa tecnica si è affiancata alla
lunga tradizione di studi basati sull’effetto delle lesioni: la neuropsicologia inizialmente
corroborava le proprie scoperte confrontando le capacità di soggetti normali con quelle con lesioni;
adesso però si studiano soggetti normali impegnati in compiti diversi.
Ma la scoperta più importante ottenuta studiando il cervello è quella dei neuroni specchio, grazie ai
lavori del neurofisiologo Giacomo Rizzolatti. I neuroni sono cellule specializzate per trasmettere
impulsi nervosi, cioè per scambiarsi informazioni. Nel 1992 Rizzolatti scoprì che, in alcune aree dei
lobi parietale e frontale (aree che hanno la funzione di programmare i movimenti) di un macaco, vi
sono neuroni che rispondono in modo selettivo a gesti effettuati con un certo scopo. Ad es., un
neurone può rispondere quando la scimmia allunga il braccio per afferrare del cibo e portarlo alla
bocca, ma non risponde quando la scimmia lo allunga per afferrare qualcosa di non commestibile.
Ecco, quello stesso neurone (ecco perché «specchio»), risponde quando osserva un’altra scimmia
che afferra del cibo e se lo porta alla bocca – risponde anche quando il cibo è portato alla bocca con
un utensile. Il neurone dunque non risponde a uno specifico movimento, ma allo scopo di un gesto
(sia questo eseguito od osservato). È stato inoltre dimostrato che non è necessario che l’intera
traiettoria del movimento sia visibile: il neurone risponde anche se la parte finale non si vede, basta
che sia chiaro lo scopo del gesto.
Nel caso di malfunzionamento dei neuroni specchio, una persona ha difficoltà a comprendere lo
scopo del comportamento altrui. Si è così scoperta l’origine delle patologie caratterizzate da limiti
nella gestione dei rapporti sociali. Ad es., nell’autismo, le difficoltà di intrattenere relazioni con gli
altri, di comprendere le loro emozioni e gli scopi delle loro azioni, e di rispondervi coerentemente,
sono attribuibili a malfunzionamento di questi neuroni specchio.
-L’impatto delle nuove tecnologie (mente estesa e Google, psicoterapie e nuove tecnologie)
Nell’ultimo decennio l’impatto delle nuove tecnologie è stato travolgente per noi ed è diventato
luogo comune parlare degli smartphone come di estensioni della mente umana. Se consideriamo
qualsiasi strumento intelligente esterno, qualsiasi protesi del nostro corpo come una forma di mente
estesa, il processo è iniziato non appena l’homo sapiens ha realizzato pitture rupestri o ha costruito
protesi per operazioni altrimenti difficili (armi per cacciare e guerreggiare, poi strumenti per
coltivare la terra ecc.).
In un senso più ristretto, l’esternalizzazione della mente è la creazione di tecnologie che, a un certo
punto, riescono a potenziare non solo i nostri arti, ma anche le capacità mentali. In merito a ciò,
alcuni studiosi accettano solo una definizione ristretta di «attività mentale», ovvero quella che la
identifica nei processi di cui i cervelli sono capaci (menti estese non sarebbero dunque quelle che
fanno molto di più).
Come che sia, l’uso continuo di menti esterne (smartphone collegato alla rete) introduce nuove
strategie nell’uso delle capacità del cervello, accuratamente studiate dalle scienze cognitive.
Consideriamo la ricerca di Sparrow e Liu (2011) in merito agli effetti dell’uso di Google sulle
strategie di memorizzazione. Gli studiosi hanno mostrato come alcune affermazioni, cui si doveva
rispondere ‘vero’ o ‘falso’, richiedevano da parte degli utilizzatori sistematici di Google
(confrontati con persone che non lo usano), tempi più lunghi per la risposta. Si trattava proprio di
domande le cui risposte si possono trovare facilmente su Google. In altre parole, la disponibilità
continua di Google cambia lo stile di stoccaggio e recupero delle informazioni di coloro che lo
usano più spesso perché si tende a non mettere dentro la testa quel che si sa reperibile in questa
«mente esterna». Cosa che è confermata dal fatto che se si dice a un gruppo di persone,
sistematicamente utilizzatrici, che le informazioni non saranno recuperabili su Google, e a un altro
gruppo che ci resteranno indefinitamente, questo secondo gruppo le ricorda peggio. Insomma il
ricorso sistematico a Google conduce a un cambiamento nelle strategie di recupero dei ricordi e
delle conoscenze, integrando la memoria naturale con quella artificiale.
Uno dei campi in cui nell’ultimo decennio sono stati fatti più progressi è il controllo scientifico
dell’efficacia delle diverse terapie psicologiche. Queste ricerche hanno però lasciato sullo sfondo il
quadro globale, cioè il peso complessivo dell’effettuare una terapia, sia in termini sociali che
economici. Negli USA si è cercato di valutare gli effetti della cura delle malattie mentali:
sommando l’assistenza, la gestione dei servizi e la mancata produttività, si giunge a 200 miliardi di
dollari l’anno di costi. Un carico ingente che rappresenta la faccia concreta di quella delle
sofferenze di milioni dovute a forme di depressione, dipendenze di vario tipo, traumi (pensiamo ai
veterani).
Da questo punto di vista i progressi della psicologia non sono riusciti ad alleviare in modo
massiccio né le sofferenze delle popolazioni né i costi per la società che si deve occupare di esse.
Ne consegue che la maggioranza delle persone che soffrono di disturbi mentali non viene curata
adeguatamente, soprattutto se poveri o neri/ispanici. I motivi sono diversi: dalla distribuzione
geografica dei centri che somministrano le cure alle barriere culturali tra chi le offre e chi le
dovrebbe ricevere. Per fortuna, la diffusione di internet offre grandi potenzialità con le terapie a
distanza (ridurre il fumo e le droghe) combinandosi con la nuova tecnologia degli smartphone (una
forma più evoluta lo sfrutta perfino per localizzare il cliente e intervenire in momenti di crisi).
-La conoscenza situata
La psicologia nel XXI sec. sembra collocarsi all’interno di due assi. Immaginando con una metafora
spaziale la mente che sta sopra il cervello: da una parte abbiamo una spinta della mente verso il
basso, volta a collegare i meccanismi psicologici alle loro localizzazioni cerebrali, dall’altro si
aggiunge una spinta verso l’esterno, innescata dal fatto che il cervello viene aiutato sempre più
spesso da protesi intelligente.
Oggi la spinta verso l’esterno ha dato luogo al movimento denominato conoscenza situata, proprio
per indicare, sulla base della scia costruita dalla tradizione ecologica, la rilevanza degli scenari
esterni in cui si svolgono le attività umane. In un certo senso tutta la psicologia applicata alle analisi
di marketing e allo studio del lavoro e delle organizzazioni non è altro, essenzialmente, che un
insieme di metodi usati per analizzare come funziona la mente umana in ambiti specifici in funzione
di possibili miglioramenti (dal punto di vista del committente).
Tuttavia, in questo movimento è presente oggi anche una reazione alle forme più radicali della
scienza cognitiva, seguendo tre punti cruciali: 1) la cognizione non dipende soltanto dai processi
cerebrali, ma anche dal corpo (embodied cognition); 2) l’attività cognitiva si esercita non solo in
laboratorio, ma anche in ambienti sociali (embedded cognition); 3) i confini della mente vanno al
di là dei confini del corpo (extended mind).
Se del 3 punto abbiamo già parlato, per dimostrare il primo punto, cioè l’interrelazione tra attività
motorie del corpo e processi cognitivi, si può fare l’esempio di amore e odio. Se ci viene chiesto di
tirare verso di noi un oggetto pensando al concetto di amore o respingerlo nel caso dell’odio è più
facile compiere le azioni. O ancora: quando le persone descrivono alcune attività che fanno con le
mani, spesso gesticolano, ed è stato dimostrato come questi gesti possono agevolare a comprendere.
Un classico compito è la Torre di Hanoi, in cui si tratta di spostare dei dischi da una pila all’altra
in modo che alla fine siano ordinati dal più grande al più piccolo. Bene, la spiegazione di questo
problema viene facilitata molto se si usano le mani: questo dimostra che il gesticolare aggiunge
informazioni alla rappresentazione mentale di un compito quando le persone lo spiegano ad altre.
Un altro semplice compito consiste nel muovere un solo fiammifero in modo da far sì che delle
equazioni algebriche in numeri romani diventino corrette. Bene: la soluzione del compito è facilitata
se è lecito maneggiare di persona i fiammiferi rispetto a quando non possiamo farlo, dunque la
mente lavora meglio quando si appoggia su artefatti esterni.

La seconda decade del secolo e il sistema computer-rete


-Un nuovo paradigma
L’invenzione del sistema computer-rete si costituisce come un salto qualitativo, un nuovo
paradigma. I motivi sono molti, ecco i più rilevanti.
1) La potenza: la rapidità di calcolo su grandi masse di dati.
2) Controllo: l’assenza, da parte di chi li usa, di conoscenza e controllo degli algoritmi che
fanno funzionare i computer.
3) Esternalizzazione: assistiamo a una nuova forma di inconscio, al di fuori della mente
umana e artificiale, il cui funzionamento sfugge alla maggior parte di coloro che se ne
servono.
4) Calcolo: l’interazione tra questo sistema esterno con il funzionamento del nostro cervello ha
influenzato anche i settori tradizionali della psicologia, dalla percezione al pensiero, i quali
vengono sempre più considerati come frutto di calcoli probabilistici e processi automatici.
5) Automatismi: questi ultimi sono il prodotto di una selezione della specie che ha premiato
risposte veloci e immediate dell’organismo.
6) Simulazioni: con i computer si possono simulare modelli del funzionamento della mente
umana e prevedere nuovi fenomeni possono poi venire verificati con gli esperimenti.
7) Artificiale: con i computer si possono creare ambienti artificiali, in cui agiscono degli agenti
artificiali, e si possono studiare le forme di apprendimento di tali agenti.
Non possiamo ormai che confrontarci, almeno nei paesi economicamente avanzati (ma non solo)
nel mondo del lavoro e della vita sociale in generale con quel nuovo sistema computer-rete, da cui
ci differenziamo ormai solo perché abbiamo coscienza delle azioni e delle scelte, dunque il libero
arbitrio. Non dobbiamo dimenticare che il sistema computer-rete è stato costruito dall’uomo, mentre
il nostro cervello è il prodotto di un lunghissimo processo di cambiamenti e adattamenti darwiniani.
Ciò non toglie che le macchine siano in grado di percepire il modo, apprendere con trials and error e
correggere i propri sbagli in modo da progredire autonomamente, senza l’uomo.
-La rete, una rivoluzione; le sue applicazioni
La rete è un sistema globale che riceve in entrata (input) le informazioni e restituisce in uscita
(output) risposte, saperi e passatempi. È un grande registro alimentato da chi la usa grazie
principalmente a computer super-ridotti che chiamiamo smartphone, e che si ingrandisce sempre di
più. La quantità delle documentazioni registrate infatti aumenta di anno in anno, non perdendosi
nulla nella rete (a differenza della memoria umana). La quale ha ridimensionato tutti gli aspetti della
nostra vita: lavorativa (linkedin), sessuale (tinder), relazionale (social media) ecc.
Concetto fondamentale è quello di inconscio cognitivo, ovvero tutti i processi mentali di cui non
siamo consapevoli (diversi da quei processi dell’inconscio freudiano). Infatti, assistiamo a un
inconscio artificiale: la rete funziona grazie ad algoritmi programmati che le persone non
conoscono, immettiamo informazioni e riceviamo risposte ma non sappiamo cosa succede in
mezzo.
La rete è essenzialmente dotata di tre capacità che ci permettono di considerarla come un cervello
artificiale globale. La prima consiste nella capacità di raccolta organizzata dei documenti lasciati,
anche involontariamente, da chi frequenta la rete; la seconda consiste nella possibilità di specifiche
analisi di documenti o immagini o dati numerici, elaborandoli in modi utili agli utenti; la terza
nell’aggregare in strutture organizzate una folla disordinata di documenti e dati assimilati
separatamente.
Essa diventa dunque una possibilità di produrre il bene, ma anche il male. Nel primo caso, gli
algoritmi ci permettono ad es. di tradurre le lingue, di fare diagnosi mediche, di controllo remoto, di
assisterci intelligentemente nelle abitazioni (domotica). Nel caso del male, la rete frequentemente
alimenta i processi di radicalizzazione della società moderna (dai giudizi sociali a quelli politici),
non aprendoci a critiche, ma chiudendoci, presentando sempre ciò che ha a che fare con le nostre
preferenze, nelle nostre idee. Un altro male può anche essere la convinzione di sapere cose che non
conosciamo ma che crediamo di padroneggiare grazie a informazioni frammentarie e parziali, se
non del tutto infondate, false, che vediamo appartenere anche ad altre persone (gruppi complottisti).
La rete esalta, non filtrando le info con criteri seri e rigorosi, la tendenza a ritenersi esperti con poco
sforzo: le cose più facili sono ciò che rappresentano la verità. Un compito degli scienziati cognitivi
del futuro, dunque, sarà quello di ridurre gli aspetti malefici della rete per dedicarsi invece
all’educazione al suo uso e alle sue applicazioni benefiche. Per rendere la rete una biblioteca
d’Alessandria e non un vaso di Pandora.

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