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Le origini e la Psicologia Cognitiva

Il termine Psicologia viene introdotto nel XVI secolo, in età umanistica. I campi del sapere più
strettamente imparentati, e dai quali la psicologia si è progressivamente affrancata prima di
diventare disciplina autonoma, sono stati principalmente la filosofia e la fisiologia. Bisognerà però
aspettare almeno il XIX secolo perché la psicologia raggiunga quello stato di maturazione
epistemologica e concettuale che le permette di rientrare pienamente nell’alveo delle discipline
scientifiche. Nella sua traiettoria di sviluppo bisogna peraltro considerare che lo studio scientifico
della mente e del corpo viene visto con sospetto almeno fino al XVII secolo, per ragioni
prevalentemente di ordine religioso.
Un passaggio chiave in ambito filosofico è stato sicuramente il dualismo mente/corpo introdotto
dal filosofo e matematico francese Cartesio, nella prima metà del Seicento. Il dualismo cartesiano
distingue nettamente lo studio dell’uomo nella sua componente immateriale o pensante (la res
cogitans), dallo studio della sua componente materiale e fisica (la res extensa). Questa distinzione
ha avuto un duplice effetto: se da un lato il corpo fa parte del mondo fisico e naturale, allora non è
possibile precluderne lo studio scientifico; d’altro canto però, se il pensante è immateriale, lo
studio è possibile solo con i mezzi propri della teologia.
Se l’introduzione della prospettiva dualista ha di fatto frenato l’indagine scientifica sui processi
mentali ha però reso lecito lo studio del corpo e favorito l’indagine scientifica dei processi
fisiologici che oggi consideriamo importanti anche per la comprensione dei processi mentali.
Prima di tale indagine scientifica il corpo umano era in genere considerato come costituito da
elementi indifferenziati, aventi tutti più o meno le medesime funzioni, la cui esistenza era dovuta a
un’energia vitalistica potenzialmente infinita. Non era contemplata la possibilità di misurare e
differenziare funzionalmente le diverse componenti fisiologiche del nostro organismo. Ma le prime
conquiste della fisiologia compiute a partire dalla seconda metà del Settecento iniziarono a
modificare radicalmente lo studio scientifico dell’uomo in quanto organismo vivente.
Tra queste prime conquiste meritano di essere citate quella di Robert Whytt, che dimostra che i
movimenti riflessi coinvolgono il sistema nervoso centrale attraverso i rami afferenti ed efferenti
del midollo spinale, quella di Charles Bell e Francois Megendie che, indipendentemente l’uno
dall’altro, dimostrano che a livello del midollo spinale le vie sensoriali posteriori sono indipendenti
dalle vie motorie anteriori, quella di Hermann von Helmotz che dimostra che un nervo trasmette
impulsi che non dipendono dal tipo di stimolazione ricevuta ma dalla specifica natura del nervo, e
infine quella del torinese Angelo Mosso che per primo dimostra che un compito cognitivo causa un
aumento locale di flusso sanguigno a livello cerebrale e che questo aumento locale può essere
misurato con un’apposita bilancia. Una scoperta quest’ultima sulla quale ancora oggi si fondano le
moderne tecniche di neuroimmagine.
A metà del XIX secolo un altro fisiologo ha introdotto un metodo di indagine che ha molto
influenzato e continua a influenzare lo studio scientifico dei processi mentali. Si tratta del metodo
sottrattivo proposto da Franciscus Donders, che così rifletteva: “Se nel lasso di tempo tra
stimolo e risposta la mente sta lavorando, più complesso sarà il lavoro necessario alla risposta,
più operazioni mentali implicherà, più sarà lungo il tempo di reazione”.
Partendo da questa riflessione, Donders di fatto inaugura un metodo che è ancora oggi
ampiamente utilizzato in psicologia sperimentale, in neuropsicologia cognitiva e nelle
neuroscienze cognitive. Di fatto, il metodo sottrattivo si basa sul principio generale secondo il
quale se misuro i tempi di reazione necessari a svolgere due compiti cognitivi, uno semplice e
l’altro complesso per l’aggiunta di una singola variabile a quello semplice, allora la sottrazione tra i
tempi di reazione ai due compiti permetterà di misurare sperimentalmente i tempi necessari per
elaborare la variabile cognitiva aggiuntiva.
Con questo metodo, per la prima volta a un processo mentale veniva fatta corrispondere una
misurazione oggettiva basata su un parametro fisico misurabile.
Altro snodo storico fondamentale nell’emergere di una psicologia scientifica è stata la collocazione
dell’Uomo, una tra le tante forme di vita, all’interno di una complessa costellazione di organismi
viventi che si sono evoluti all’interno di una storia naturale caratterizzata dall’azione di regole
comuni. Il lavoro di Charles Darwin, naturalista e biologo inglese, che a metà dell’Ottocento
sistematizzò tali regole e introdusse il concetto di selezione naturale ha avuto grande influenza
per tutte le scienze della vita, psicologia compresa.
Le prime acquisizioni scientifiche in ambito fisiologico sui processi sottostanti i fenomeni mentali e
il lavoro di Darwin contribuirono congiuntamente, nella seconda metà del XIX secolo, alla nascita
delle prime indagini empiriche specificamente rivolte allo studio della mente.
Nasce la psicologia scientifica e l’atto fondativo viene convenzionalmente fatto coincidere con la
costituzione nel 1879 del primo Laboratorio di Psicologia sperimentale a Lipsia, in Germania, per
opera del fisiologo e psicologo tedesco Wilhelm Wundt.
Non un laboratorio di fisiologia, non un rimando alla filosofia: la psicologia per la prima volta si
affranca e si rende autonoma e indipendente, con impianti metodologici propri.
Le prime indagini scientifiche vengono condotte prevalentemente negli ambiti della sensazione e
della percezione, ambiti sperimentalmente più facili da controllare in quanto le grandezze fisiche
degli stimoli possono essere più facilmente manipolate da parte dei ricercatori. Può essere, in
sostanza, più facilmente adottato il metodo sperimentale, che consente di determinare come muta
una variabile dipendente (l’esperienza mentale) al mutare di una variabile indipendente (lo stimolo
al quale si è sottoposti).
Wundt e i suoi allievi, tra i quali è giusto ricordare Edward Titchener, utilizzarono ampiamente il
metodo sottrattivo proposto da Donders, ma Wundt introdusse anche un metodo nuovo e diverso,
l’introspezione sperimentale. Durante un compito, prevalentemente di natura percettiva, a
soggetti appositamente addestrati veniva chiesto di descrivere verbalmente la propria attività
mentale associata alla percezione dello stimolo. Ciò veniva fatto però utilizzando una precisa
terminologia e una precisa procedura, che evitasse ricostruzioni retrospettive basate sulla
memoria o su ciò che si sa di quell’oggetto e che si focalizzasse invece solo sugli elementi basilari
dell’esperienza immediata, nel ‘qui ed ora’. L’esperienza percettiva è così accompagnata da
un’attività di analisi introspettiva disciplinatissima e iperanalitica che ha come obiettivo la
ricostruzione della struttura elementare dei processi mentali. Da qui il termine “Strutturalismo”
assegnato a questo approccio.
Ma nello stesso periodo in cui in Europa si forma la prima generazione di psicologi sperimentali
secondo l’impostazione proposta dallo strutturalismo di Wundt, dall’altra parte dell’oceano, negli
Stati Uniti, un altro paradigma domina il panorama in ambito psicologico tra la fine dell’Ottocento e
gli inizi del Novecento. Si tratta del Funzionalismo, che vede in William James il suo più illustre
esponente. È impossibile sottovalutare l’importanza di questo padre nobile della psicologia, il cui
contributo, come quello di Wundt, verrà ripreso in altre parti di questo insegnamento in relazione
alla nascita della psicologia clinica.
Alla base del Funzionalismo vi è l’idea che la mente sia un’entità dinamica che interagisce con
l’ambiente e vi si adatta. Il riferimento alla teoria evoluzionistica di Darwin è esplicito.
Così come esplicito è il rifiuto dell’impostazione strutturalista e il tentativo di scomporre la mente
nei suoi elementi atomici. Ciò che conta è la funzione svolta dalla mente nel favorire l’adattamento
dell’individuo all’ambiente circostante.
Il funzionamento della mente è indagato secondo un approccio ispirato alla filosofia pragmatistica
di John Dewey che identifica il vero con l’utile. Una scienza psicologica è pertanto giustificata solo
in ragione del valore sociale dei suoi risultati. La psicologia deve rispondere a problemi pratici e
proporsi, quindi, quale scienza non puramente descrittiva, ma capace di indagare problemi con
risvolti di natura applicativa. Non a caso, si deve a questa prospettiva l’impulso che ha poi portato
alla nascita dei test per la misurazione della personalità e di altri costrutti psicologici.
Sebbene la parabola del funzionalismo sia andata progressivamente declinando a partire dagli
anni ’20 del Novecento, a causa del progressivo affermarsi del comportamentismo, è giusto
ricordare che il contributo di William James è stato riscoperto e valorizzato un secolo dopo per
opera di ricercatori quali Leda Cosmides e John Tooby, tra i principali esponenti della Psicologia
evoluzionistica.
Al di là delle loro molteplici e profonde differenze, lo strutturalismo di Wundt e il funzionalismo di
James hanno condiviso un approccio soggettivistico allo studio della mente. I fenomeni mentali,
benché indagati secondo prospettive differenti, sono comunque l’oggetto di studio per entrambi i
paradigmi.
Ma nel 1913, con la pubblicazione da parte di John Watson del manifesto comportamentista,
assistiamo ad un radicale capovolgimento di prospettiva nella storia della psicologia, soprattutto
nordamericana. La mente, nella sua intrinseca natura, cessa di essere l’oggetto di studio della
psicologia e viene soppiantata dal comportamento, unica dimensione considerata indagabile
scientificamente perché oggettiva, osservabile e misurabile.
“Sbarazzarsi di ogni riferimento alla coscienza e smettere di coltivare l’illusione di poter sottoporre
ad osservazione gli stati mentali” è una tra le più note affermazioni di Watson. Il rifiuto dei processi
mentali è motivato dalla supposta impossibilità di studiare scientificamente ciò che non può essere
osservato direttamente; in questo senso, solo gli stimoli ambientali e le risposte comportamentali a
tali stimoli diventano legittimi oggetti di studio. È il paradigma della black box, che vede nella
mente una scatola nera di secondaria importanza la cui natura è per definizione non indagabile e
non conoscibile. Contano solo le associazioni più o meno complesse tra gli stimoli dell’ambiente e
le risposte generate dall’organismo a questi stimoli.
Poiché ciò che conta diviene esclusivamente il modo in cui apprendiamo ad associare gli stimoli
con le risposte, uno dei principi centrali dell’approccio comportamentista diviene quello del
condizionamento che in origine si ispira agli studi del russo Ivan Pavlov, premiato nel 1904 con il
Nobel per la medicina e la fisiologia per i suoi studi sul condizionamento classico.
In questa forma di condizionamento si assiste ad un apprendimento associativo tra stimoli e
risposte, senza nessun processo mentale interveniente. Nei famosi esperimenti condotti da Pavlov
sui cani, ad uno stimolo incondizionato, ovvero capace di provocare nell’organismo una risposta
riflessa incondizionata (come ad esempio la salivazione alla vista del cibo), viene associato uno
stimolo neutro, ad esempio il suono di una campanella. La ripetuta associazione tra lo stimolo
incondizionato (il cibo) e lo stimolo inizialmente neutro (il suono della campanella) farà si che con il
tempo lo stimolo neutro diventi uno stimolo condizionato capace di produrre una risposta (la
salivazione) anche in assenza di cibo (una risposta, quindi, condizionata).
Watson ritiene che gli studi sul condizionamento classico forniscano al comportamentismo un
principio chiave per la spiegazione del comportamento umano, come detto, inteso come l’unico
legittimo oggetto di studio della psicologia.
Altra forma di apprendimento associativo sulla quale si basa l’impalcatura epistemologica del
paradigma comportamentista è studiata a partire dalla fine degli anni ’30 e fino agli anni ‘60 dallo
psicologo statunitense Burrhus Skinner. Si tratta del condizionamento operante.
In questa forma di condizionamento sono i comportamenti spontanei prodotti da un organismo ad
essere condizionati e modellati in base al rinforzo che ricevono (nei termini di un premio o di una
punizione) ogni qualvolta si manifestano.
In questa slide è rappresentata graficamente la differenza tra condizionamento classico e
condizionamento operante. Mentre quello classico si basa sull’esistenza di riflessi incondizionati
innati che possono essere condizionati, in quello operante qualsiasi comportamento aumenta o
diminuisce la propria frequenza di manifestazione in base al rinforzo o alla punizione che quel
comportamento spontaneamente manifestato riceve dall’ambiente. Quando il topo qui
rappresentato percorre il braccio di sinistra può ricevere un premio (del cibo) o una punizione (una
scossa elettrica). Nel primo caso, la probabilità che il comportamento si manifesti nuovamente è
più alta del secondo caso, che invece indurrà il topo alla manifestazione di un comportamento
alternativo; nell’esempio, percorrere il braccio di destra.
A partire dall’uso di apparecchiature come la Skinner box da lui ideata, Skinner raccoglie
un’enorme quantità di dati empirici che lo portano ad estrapolare regole generali
sull’apprendimento che ritiene possano valere per ogni organismo, Uomo compreso, e per ogni
tipo di comportamento, anche quelli più complessi come il linguaggio.
Sul piano metodologico il modellamento diviene la principale tecnica di apprendimento. Si basa
sul principio generale di associare i comportamenti che si avvicinano a quello desiderato con un
rinforzo positivo. L’idea utopica di Skinner è che tale tecnica possa essere alla base della
programmabilità e modellabilità di tutti i comportamenti della vita quotidiana e dell’educazione e
istruzione dei più piccoli.
Per Skinner, e per ampia parte dei comportamentisti, il comportamento non è il risultato di attività
più fondamentali ma è un fine in sé e per sé. Nessuna spiegazione in termini mentali è necessaria.
Tutto nasce e si esaurisce nella relazione più o meno complessa tra stimoli ambientali e risposte
comportamentali.
Non è facile comprendere come un tale paradigma possa aver dominato per decenni, soprattutto
in nord America (in Europa, come si vedrà nella parte dedicata alla nascita della psicologia clinica
prevalevano altri modelli). Certamente la promessa di una psicologia scientifica, capace di
rientrare nell’alveo delle scienze naturali e di dotarsi di un’epistemologia oggettiva ha contribuito in
modo cruciale al successo del comportamentismo nella prima metà del secolo scorso. Ma come
vedremo nel prossimo modulo, a un certo punto la rinuncia all’indagine sui processi mentali è
parsa un prezzo ingiustificato e troppo alto da pagare, e non è un caso che siano stati proprio
diversi studiosi inizialmente di formazione comportamentista ad iniziare a sviluppare a partire dagli
anni ‘50 modelli sul funzionamento mentale capaci di dare risposte ad evidenze empiriche che
l’approccio comportamentista non era più in grado di dare. Ad esempio, era sempre più evidente
che non è possibile definire la memoria e l’apprendimento semplicemente nei termini della
progressiva accumulazione di associazioni tra stimoli e risposte. Troppe evidenze denunciavano
la semplificazione di processi che per essere compresi richiedevano il ricorso ad ontologie bandite
dal comportamentismo.
È la rivoluzione della Psicologia cognitiva che restituisce al mentale il posto centrale che le spetta.
A questa rivoluzione è dedicato il prossimo modulo.

Neuropsicologia e neuroscienze cognitive


Ai suoi esordi la psicologia cognitiva ha distinto tra funzione e organo in modo netto. Oggi tale
distinzione non è più giustificabile e la maggior parte degli studiosi considera limitante indagare i
processi cognitivi umani ignorando lo specifico ruolo causale del cervello. Vi è una presa di
coscienza del fatto che interessarsi alla funzione (ovvero la mente) senza avere idea dell’organo
(ovvero il cervello) non sia più possibile: sarebbe come studiare la circolazione sanguigna
disinteressandosi del ruolo svolto dal cuore in questa funzione.
Uno dei modi possibili per prendere seriamente in considerazione la relazione tra mente e cervello
è quello di osservare cosa succede nelle persone che a causa di un danno cerebrale mostrano
alterazioni nel proprio funzionamento mentale. Come lucidamente espresso da George
McCloskey e ricordato in questa slide, “i sistemi complessi spesso rivelano più chiaramente il
proprio funzionamento interno quando funzionano male rispetto alle circostanze in cui funzionano
regolarmente”. E il sistema mente/cervello è certamente un sistema complesso.
La disciplina che si articola intorno a questo presupposto è la neuropsicologia cognitiva, ambito di
ricerca che si basa sull’approccio cognitivista e studia le prestazioni cognitive di persone con
lesioni cerebrali allo scopo di comprendere l’organizzazione e il funzionamento generale della
mente.
L’obiettivo della neuropsicologia cognitiva è quello di comprendere la natura dei processi cognitivi
correlandoli con le specifiche aree cerebrali che sottendono tali processi. Per fare questo, indaga
la prestazione di singoli pazienti o gruppi di pazienti con lesioni cerebrali in compiti cognitivi di
varia natura.
Ciò che rende la neuropsicologia cognitiva un potente strumento di ricerca è la possibilità che offre
di proporre modelli esplicativi e di risolvere contrapposizioni teoriche relativamente all’architettura
funzionale dei processi cognitivi umani. Tra i tanti, ne sono un esempio gli studi condotti con
persone caratterizzate da deficit mnestici conseguenti ad alterazioni del funzionamento cerebrale,
studi che hanno rivoluzionato la nostra concezione sui processi di memoria umana, portando forte
evidenza a favore delle teorie multi-componenziali della memoria e confutando invece le teorie
che vedevano in essa un processo unitario.
A titolo di esempio, sul lato destro di questa slide è schematicamente rappresentato il modello di
Atkinson e Shiffrin sul funzionamento e l’organizzazione della memoria. Si tratta di un classico
modello di psicologia cognitiva con un flusso dell’informazione che procede da una parte all’altra
del sistema secondo un ordine seriale suggerito dalle evidenze sperimentali. In particolare,
secondo questo modello non esiste un singolo sistema di memoria ma tre diversi sistemi,
ciascuno con specifiche caratteristiche in relazione alla durata e alla natura della traccia mnestica.
Le evidenze neuropsicologiche accumulate negli anni successivi alla formalizzazione del modello
vanno nella direzione ipotizzata da Atkinson e Shiffrin. Esiste notevole evidenza neuropsicologica
acquisita attraverso l’indagine di persone con deficit mnestici che dimostra come effettivamente la
memoria non sia un sistema unitario ma un sistema costituito da diverse componenti che possono
essere selettivamente danneggiate. In particolare, gli studi neuropsicologici hanno dimostrato
come sia corretto ipotizzare la separazione tra un sistema di memoria a breve termine a capacità
limitata, in cui la traccia mnestica in pochi secondi può andare incontro a rapido oblio, e un
sistema di memoria a lungo termine a capacità virtualmente illimitata in cui la traccia mnestica può
permanere anche per tutta la vita.
Oggi la distinzione tra memoria a breve termine (dall’inglese short-term memory) e memoria a
lungo termine (dall’inglese long-term memory) è unanimemente condivisa.
Ma altrettanto importante è il contributo che la neuropsicologia cognitiva può dare alla
falsificazione di un modello teorico, o a una parte di esso, e all’elaborazione di un modello
alternativo. Sempre utilizzando come esempio il modello multi-sistemi della memoria proposto da
Atkinson e Shiffrin, possiamo osservare in questa slide come sebbene l’evidenza neuropsicologica
abbia confermato la distinzione teorica tra la memoria a breve termine e quella a lungo termine, la
stessa evidenza neuropsicologica ha falsificato l’ipotesi seriale di Atkinson e Shiffrin, ipotesi
secondo la quale prima di giungere alla memoria a lungo termine un’informazione deve prima
essere necessariamente elaborata dalla memoria a breve termine.
Famoso è il caso del paziente K.F. (queste le iniziali del suo nome e del suo cognome) studiato
nel 1970 da due eminenti neuropsicologi, Tim Shallice ed Elizabeth Warrington. Questo paziente
mostrava, come esito di una lesione cerebrale dovuta a una caduta dalla moto, gravi danni alla
memoria a breve termine ma una memoria a lungo termine intatta. Un dato questo incompatibile
con l’idea che per poter utilizzare la memoria a lungo termine sia sempre necessario il
coinvolgimento della memoria a breve termine e che ha spinto la ricerca scientifica a proporre
modelli alternativi sul rapporto tra questi due sistemi di memoria.
Questo caso, come moltissimi altri presenti in letteratura, ci mostra l’importanza dello studio del
rapporto tra funzione (in questo caso la memoria) e l’organo (il cervello) per comprendere l’esatta
architettura della mente.
La maggior parte dei neuropsicologi cognitivi condivide una serie di assunti teorici che
costituiscono il nucleo concettuale di base di questa disciplina.
Un primo assunto centrale della neuropsicologia cognitiva è quello della modularità cognitiva.
Secondo questo assunto, inizialmente proposto dal filosofo della mente Jerry Fodor, l’architettura
dei processi mentali è largamente costituita da componenti specializzate, definite moduli cognitivi.
L’idea è che quando gli input sensoriali colpiscono i nostri organi di senso periferici (ad esempio,
vista, udito, tatto) questi organi trasducono l’input sensoriale in un impulso nervoso che viene
trasmesso a livello centrale. Secondo l’ipotesi che stiamo discutendo, prima di giungere a livello
centrale, in cui le informazioni sono integrate, l’informazione viene elaborata da moduli
specializzati. Facciamo un esempio.
Quando la luce riflessa da un oggetto colpisce i fotorecettori della retina, questo impulso
sensoriale viene convertito in una serie di impulsi nervosi che sono trasmessi al cervello. Ma
prima che avvenga il riconoscimento consapevole integrato (“quello che sto vedendo è un cane”)
l’informazione trasmessa al cervello è elaborata da molti moduli specializzati nell’elaborazione di
aspetti specifici dello stimolo: alcuni sono specializzati nell’elaborazione della forma, altri
nell’elaborazione del colore, altri ancora nell’elaborazione della dimensione o del movimento.
Da un punto di vista formale per modulo cognitivo si intende un sistema caratterizzato dal fatto di
essere innato, di essere incapsulato informazionalmente, ovvero di essere indipendente nel suo
funzionamento dal funzionamento degli altri moduli, di essere specifico per dominio, ovvero di
essere specializzato nell’elaborazione di un numero molto limitato e specifico di stimoli, e infine di
essere automatico e soggetto ad attivazione obbligatoria, il che significa che in presenza di uno
stimolo appropriato per la sua attivazione il funzionamento di un modulo non può essere
controllato volontariamente o influenzato dalla coscienza.
Alcune di queste proprietà formali possono essere illustrate ricorrendo ad un altro esempio. Nella
nota illusione ottica di Müller-Lyer il segmento (a) e il segmento (b) hanno le stessa lunghezza, ma
il segmento (a) ci appare come più lungo del segmento (b). Ebbene, anche se siamo consapevoli
che la lunghezza dei due segmenti è la stessa non possiamo fare a meno di essere soggetti
all’illusione che ci porta a percepire l’uno come più lungo dell’altro. In altri termini, la nostra
consapevole conoscenza di alto livello non può influenzare il funzionamento automatico dei moduli
percettivi, sensibili solo al dato sensoriale proveniente dallo stimolo e obbligati ad elaborarlo.
Un secondo assunto della neuropsicologia cognitiva è che ogni modulo cognitivo sia implementato
in aree cerebrali anatomicamente identificabili. In questa slide è illustrato il modello anatomo-
funzionale di Wernicke-Geschwind per il linguaggio. Sebbene diversi aspetti di questo modello
siano oggi superati, possiamo usare questo modello a titolo di esempio per illustrare l’idea
generale della neuropsicologia cognitiva secondo la quale ogni funzione mentale ha un suo
specifico correlato neurale. Ad esempio, secondo questo modello ci sono specifiche aree cerebrali
che sottendono i processi legati alla produzione e alla comprensione linguistica.
Come illustrato in questa slide, oggi l’idea della modularità anatomica è intesa dalla moderna
neuropsicologia cognitiva prevalentemente nel senso di circuiti complessi piuttosto che di isolate
aree cerebrali. Rimane ferma l’idea centrale secondo la quale esiste una relazione significativa tra
struttura neurale e organizzazione funzionale.
Peraltro questa assunzione può essere sintetizzata nel concetto di isomorfismo, che discende
dagli assunti della modularità cognitiva e di quella neurale, e sottolinea l’esistenza di una precisa
corrispondenza tra l’organizzazione fisica del cervello e l’organizzazione funzionale della mente.
Un terzo assunto della neuropsicologia cognitiva è più intuitivo ma altrettanto importante ed è
legato all’idea che non vi siano differenze significative tra l’architettura anatomo-funzionale delle
persone, ovvero che siano assenti significative differenze individuali nella disposizione e
organizzazione dei moduli cognitivi e anatomici.
La figura rappresenta le aree cerebrali danneggiate in persone diverse (una per ogni riga) che
mostrano lo stesso deficit cognitivo. Benché ci siano alcune differenze nel tipo di lesione
cerebrale, il coinvolgimento delle medesime aree neurali (in questo caso la corteccia prefrontale
dorsale di sinistra) ha portato tutte queste persone a mostrare i medesimi deficit cognitivi. Quello
che distinguerà una persona dall’altra sarà la gravità del deficit ma non la sua natura. È evidente
che questo assunto è strettamente connesso con l’idea dell’isomorfismo tra organizzazione fisica
del cervello e organizzazione funzionale della mente discusso nella slide precedente.
Un quarto assunto della neuropsicologia cognitiva è quello della costanza, e afferma che il
funzionamento mentale di una persona con danno cerebrale è dato dal funzionamento
dell’insieme dei suoi normali sistemi cognitivi, meno il funzionamento dei sistemi lesi in seguito al
danno cerebrale. Questo assunto rimane valido anche qualora un paziente con danno cerebrale
mostri di utilizzare strategie cognitive prima inespresse, a patto che queste strategie siano
potenzialmente utilizzabili anche da una persona priva di danno. Per la neuropsicologia cognitiva
assumere che in seguito ad un danno cerebrale l’architettura cognitiva, quantomeno quella di un
adulto, non vada incontro ad una generale riorganizzazione funzionale è indispensabile, poiché se
questa condizione non si realizzasse verrebbe meno la possibilità di comprendere il
funzionamento dei normali processi cognitivi a partire dallo studio dei profili di funzionamento delle
persone con lesioni cerebrali.

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