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Organizzazione aziendale

Lezione del 28 settembre

Oggi abbiamo cercato di inquadrare l'Organizzazione Aziendale, come disciplina, all'interno


della più ampia disciplina rappresentata dall'Economia Aziendale. Nella prospettiva del suo
fondatore, il Prof. Gino Zappa, che in un celebre saggio del 1927, Tendenze Nuove negli
Studi di Ragioneria (per chi fosse interessato, disponibile nella Biblioteca del Dipartimento
Diritto ed Economia delle Attività Produttive), l'Organizzazione Aziendale è una delle tre
branche in cui l'Economia Aziendale è suddivisa, insieme alla Gestione (Direzione)
Aziendale (oggi "Management") e al Controllo Economico (corrispondente alle materie di
natura ragioneristico-contabile). Coerentemente con questa impostazione, l'Organizzazione
Aziendale non può essere dissociata dalle altre branche dell'Economia Aziendale, rispetto
alle quali ha rapporti di stretta interdipendenza.
Inoltre, abbiamo analizzato la natura multidimensionale (o multi-livello) dell'ambito di studi
dell'Organizzazione Aziendale, che parte dall'Individuo (livello "micro"), sale (di complessità)
verso il Gruppo (livello "meso"), ancora verso l'"Impresa" (nel suo complesso, livello
"macro"), arrivando infine alla Rete (livello "meta"). In questo modo, si identificano i seguenti
campi di indagine dell'Organizzazione Aziendale:
- Comportamento Organizzativo (micro e meso), o "Organizational Behavior";
- Organizzazione del Lavoro (micro, meso e macro), o Work Design;
- Progettazione (della forma) Organizzativa (meso e macro), o Organizational Design.
Esiste, infine, un'ampia area tematica che affronta i temi del Cambiamento Organizzativo
(Organizational Change), trasversale a tutte le precedenti.
L'Organizzazione Aziendale è una disciplina, la cui piena comprensione richiede la
padronanza di tutti i campi di indagine sopra indicati. Lavorare come progettista o come
analista organizzativo, in proprio, presso aziende o società di consulenza, richiede,
ugualmente, la padronanza dei suddetti campi di indagine.
Si consiglia di armonizzare quanto appreso a lezione con il contenuto del primo capitolo del
testo di riferimento, La Progettazione Organizzativa (a cura di Franco Isotta), Cedam, 2011.

Lezione del 29 settembre


Nella lezione odierna, ricollegandoci alle classificazioni della precedente lezione, abbiamo
evidenziato come, al fine di poter padroneggiare gli ambiti di analisi ai vari livelli o
dimensioni, la disciplina dell'Organizzazione Aziendale sia diventata il "crocevia" di una
molteplicità di studi provenienti da tutte le diverse branche del sapere. Dall'architettura, alla
Politica, all'Etica, alla Psicologia, alla Sociologia, all'Economia, ecc., molte teorie si sono
sviluppate proprio con riferimento ai principi dell'Organizzazione, alcune delle quali,
consolidandosi nel tempo, ci consentono di disporre di un'ampia "cassetta degli attrezzi" utile
per poter affrontare, ai vari livelli appunto, le diverse problematiche organizzative che
richiedono l'individuazione di soluzioni razionali (ad esempio, come motivare i collaboratori;
come risolvere la conflittualità tra gruppi; come formare le competenze delle persone; come
garantire l'efficienza delle unità operative; come analizzare il "potere" nelle organizzazioni,
ecc.).
Da ciò può derivare una certa confusione, data la moltitudine di teorie che è necessario
conoscere, e molto spesso è difficile distinguere tra teorie scientifiche e teorie a-scientifiche
(cioè basate su mere opinioni non verificate secondo il metodo scientifico) e, soprattutto, tra
teorie "buone" e teorie "cattive". In ogni caso, le teorie hanno una grande utilità anche per i
professionisti, i quali molto spesso inconsapevolmente ne applicano i principi portanti.
Questa riflessione apre la strada all'analisi delle principali teorie utili ai fini della
Progettazione dell'Organizzazione, ma un buon professionista dell'Organizzazione non può
prescindere dalla loro più ampia conoscenza.
L'analisi delle principali teorie organizzative inizierà la prossima settimana ed avrà come
base di riferimento il capitolo secondo del testo a cura di Franco Isotta

Lezione del 2 ottobre


Nella lezione abbiamo iniziato ad analizzare le principali teorie dell'Organizzazione. Siamo
partiti dalla storica rappresentazione di Adam Smith che, nel suo Saggio sulla Ricchezza
delle Nazioni del 1776, osservava le modificazioni indotte dalla Rivoluzione Industriale sulle
modalità dell'organizzazione del lavoro. L'analisi di Smith si incentrava sui significativi
incrementi di produttività derivanti dalla divisione del lavoro e della specializzazione e, in tal
senso, costituisce il primo studio sul tema dell'organizzazione del lavoro. Il livello di analisi è
tipicamente "micro", incentrato cioè sui compiti e sulle mansioni degli individui, in particolare
gli operai. A tal proposito, si è spiegato il rapporto tra produttività del lavoro ed efficienza,
sottolineando come l'incremento di produttività sia stato anche dovuto alle innovazioni
tecnologiche dell'epoca. Circa un secolo e mezzo dopo, l'impostazione di Smith è stata
ripresa da Frederick Taylor, la cui fama è legata all'aver cercato di dimostrare
scientificamente gli incrementi di produttività derivanti dalla parcellizzazione del lavoro e
dalla specializzazione. La ricerca dell'efficienza nella produzione è stata da Taylor condotta
sulla base di una minuziosa rilevazione di dati, di una meticolosa analisi dei processi
lavorativi e della loro riconfigurazione ottimale ai fini dell'incremento della produttività. Nella
lezione è stato sottolineato il ruolo fondamentale che la conoscenza e la sua gestione
occupa nell'Organizzazione Aziendale.
Il tema oggetto di trattazione nella lezione può essere approfondito nel capitolo 2 del testo di
riferimento a cura di Franco Isotta.

Lezione del 5 ottobre


Prosegue il viaggio nelle principali teorie organizzative. Oggetto della lezione è il Taylorismo
e le modalità con cui i principi dell'Organizzazione Scientifica del Lavoro, in congiunzione
con le innovazioni tecniche e di prodotto/mercato realizzate nell'azienda simbolo dei primi
decenni del novecento, la Ford, hanno contribuito a porre i primi pilastri, teorici e pratici, di
un modello organizzativo che ha dominato la scena per molti decenni (ed è ancora oggi vivo
ed applicato in diverse realtà aziendali).
Insieme ai vantaggi, sotto il profilo dell'efficienza e della produttività del lavoro, che tale
modello organizzativo ha permesso di ottenere, sono stati evidenziati i riflessi negativi e le
critiche all'impostazione taylorista. La visione meccanicistica ed ingegneristica del
funzionamento delle fabbriche evidenzia la tendenza a concepire le organizzazioni (o,
quanto meno, il loro nucleo tecnico-produttivo) come dei sistemi meccanici, facendo leva su
una precisa concezione dell'utilizzo del sapere e del know how.
Tuttavia, l'impatto negativo sui fattori psicologici e sociali dei lavoratori, prodotto dal
taylorismo, apre la via a nuove ed alternative concezioni dell'organizzazione del lavoro.
Gli Studenti possono integrare quanto appreso a lezione con le indicazioni riportate nel
capitolo 2 del testo a cura di Franco Isotta.

Lezione del 9 ottobre


In questa lezione abbiamo iniziato ad approfondire uno dei modelli di riferimento più
importanti degli studi organizzativi, ossia il modello di "Seiler-Rugiadini". Tale modello nasce
nell'ambito della corrente di pensiero definita dei Sistemi Socio-Tecnici, sviluppatasi a partire
dalla seconda metà del novecento. Quest'ultima, oltre a focalizzare l'attenzione sul rapporto
e sull'armonizzazione tra variabili tecniche (e tecnologiche) - già prese in considerazione dal
taylorismo - e variabili umane (individuali) e relazionali (sociali) - tipiche della Scuola delle
Relazioni Umane - mette in evidenza un'altra tipologia di variabili - le variabili ambientali -
che impattano fortemente sui processi di progettazione organizzativa.
Il modello di Seiler-Rugiadini rappresenta lo schema di riferimento, la matrice concettuale, la
mappa cognitiva per poter apprendere e comprendere in maniera compiuta i legami ed i
nessi tra tipologie di variabili che influenzano l'analisi dei problemi organizzativi e le modalità
per dar loro adeguata soluzione.
Il modello di Seiler-Rugiadini parte proprio dalla considerazione e dall'analisi delle variabili
ambientali. L'ambiente esterno può essere oggetto di analisi a vari livelli: generale,
settoriale-industriale, specifico-transazionale. La comprensione dell'ambiente è, dunque,
fondamentale per il progettista e per l'analista organizzativo, e rappresenta (appunto) la
base di partenza per poter realizzare un'adeguata analisi delle caratteristiche e dei problemi
dell'organizzazione. Lo studio delle variabili ambientali si avvale in genere di diversi
strumenti (ad esempio, il "PESTEL", le "5 Forze Competitive" di Porter, l'Analisi della
Concorrenza, ecc.).
Le variabili ambientali forniscono input di vario genere al sistema organizzativo
(finanziamenti, materie prime, forza lavoro, vincoli e regole legislative da rispettare, ecc.).
Tali input sono in genere considerati nella definizione del piano strategico, potendo
rappresentare fonti di opportunità o di minaccia per l'organizzazione considerata.
A tale riguardo, dopo aver discusso le principali variabili ambientali, la nostra attenzione si è
spostata all'interno del sistema organizzativo, dove sono presenti altri cluster di variabili
("interne", appunto). Il primo cluster di variabili interne analizzate è rappresentato dalle
"variabili istituzionali" tra cui, fondamentale, è la strategia d'impresa, che prende forma e dà
forma a quello che abbiamo definito "profilo strategico dell'impresa". Si giunge dunque ad un
primo fondamentale collegamento tra variabili "esterne" (ambientali) e variabili interne al
sistema organizzativo, tra cui - appunto - la strategia d'impresa, tipicamente culminante nella
formulazione del piano di business (business plan).
L'analisi del modello proseguirà nelle prossime lezioni.
Avvertenza: il modello di Seiler-Rugiadini è normalmente poco sviluppato sui testi di
riferimento (vale anche per il capitolo 2 del testo a cura di Franco Isotta), per cui, al fine di
poterlo pienamente comprendere, è fondamentale seguire il più possibile le lezioni.

Lezione del 12 ottobre


Proseguendo nella descrizione del modello di Seiler-Rugiadini, abbiamo soffermato
l'attenzione sulla prima categoria di variabili "interne" al sistema organizzativo, ossia le
variabili "istituzionali". Tra queste, oltre alla strategia e al profilo strategico dell'impresa,
abbiamo incluso le variabili inerenti la "governance" dell'impresa (o "corporate governance),
cioè la struttura apicale dell'organo di governo, le regole e i vincoli provenienti dall'ambiente
esterno, le modalità di ripartizione dei poteri e dei controlli al vertice aziendale. La varietà di
"capitalismi" oggi esistente porta a riflettere su come lo specifico modello di governance di
un'impresa risenta del carattere nazionale o internazionale di svolgimento del business
aziendale. Sempre a riguardo delle variabili istituzionali, ci si è soffermati sulla proprietà
dell'impresa, definendo diverse tipologie di proprietà e spiegando come esse possano
riflettersi sull'organizzazione e sull'assetto organizzativo delle imprese.
Successivamente, abbiamo focalizzato l'attenzione su un'altra categoria di variabili interne al
sistema organizzativo, ossia le variabili "tecniche-tecnologiche". Queste fanno riferimento a
due fondamentali dimensioni: le tecniche utilizzate per lo svolgimento dei cicli
operativo-produttivi (seriali, per lotti, su commessa, a flusso continuo, ecc.), e le tecnologie
specifiche utilizzate per lo svolgimento dei vari ambiti di attività, con particolare riguardo alle
tecnologie innovative digitali.
Un primo messaggio importante è che le variabili ambientali influenzano (anche in via
bi-direzionale) le variabili interne esaminate (istituzionali e tecnico-tecnologiche); inoltre, le
variabili interne analizzate, istituzionali e tecnico-tecnologiche, sono tra loro collegate da
rapporti di interdipendenza reciproca (si influenzano, cioè, a vicenda), potendo dar luogo a
problemi organizzativi di corretto e adeguato "allineamento", ad esempio quando
l'implementazione di una determinata strategia non è assistita o supportata da tecniche e
tecnologie adeguate.
L'analisi del modello continuerà nella prossima lezione, analizzando le altre tipologie di
variabili "interne" al sistema organizzativo e le variabili cosiddette "risultanti" (o di "ouput").

Lezione del 13 ottobre


Nella lezione odierna, continuando l'approfondimento del modello di Seiler-Rugiadini,
abbiamo completato il quadro delle variabili interne al sistema organizzativo, rappresentate
ora dalle variabili istituzionali, tecnico-tecnologiche, individuali e sociali. Queste variabili, nel
loro complesso, formano le variabili di contesto (del contesto, appunto, interno al sistema
organizzativo). Sono state individuate le relazioni tra le quattro categorie di variabili interne
(di contesto), focalizzando l'attenzione sulle interdipendenze reciproche che le collegano le
une alle altre. Queste variabili, interagendo le une con le altre e influenzandosi a vicenda (i
loro legami sono, in altri termini, bi-direzionali), danno vita, qualora siano armonicamente
allineate tra loro e, nel complesso, armonicamente allineate alle variabili ambientali, ad un
ordine interno, ad una sorta di equilibrio organizzativo, o, meglio ancora, di coerenza (fit).
Proprio la coerenza rappresenta il concetto-chiave alla base di tutto il modello di
Seiler-Rugiadini: coerenza interna (tra le quattro tipologie di variabili interne (quando esse
sono tra loro allineate) e coerenza esterna (quando, nel complesso, l'insieme delle variabili
interne sono armonicamente allineate con le variabili esterne).
L'equilibrio organizzativo in esame, tuttavia, è sempre estremamente precario. Basta, infatti,
una piccola (o grande) perturbazione nelle variabili esterne (l'esempio fatto a lezione è il
recente shock pandemico) per alterare le relazioni tra tutte le variabili interne e sul loro
allineamento con quelle esterne (ad esempio, lo shock pandemico inevitabilmente si riflette
sulla strategia d'impresa, sulle tecnologie adottate - impulso ed espansione delle tecnologie
digitali - le quali impattano in maniera non indifferente sulle variabili individuali e sulla rete di
relazioni sociali di cui gli individui fanno parte). Allo stesso tempo, a parità di condizioni nelle
variabili esterne, le modificazioni che un cambiamento può determinare su una delle quattro
tipologie di variabili interne trascina con sé cambiamenti rilevanti anche nelle altre tipologie
di variabili interne. In altri termini, il cambiamento costante delle condizioni esterne ed
interne può generare una molteplicità di problemi organizzativi. Il modello di Seiler-Rugiadini
ci aiuta a classificare tali impatti, a meglio concettualizzarli e a comprendere come gli
eventuali interventi per risolvere i problemi organizzativi possono essere produttivi di effetti
collaterali indesiderati qualora non si cogliessero opportunamente le relazioni di concausa
ed effetto molteplice che una potenziale soluzione può determinare.
Nell'ultima parte della lezione abbiamo anticipato quanto si tratterà nella successiva, ossia
che per risolvere i problemi organizzativi, l'analista o il progettista organizzativo ha a
disposizione delle leve essenziali, rappresentate dalle variabili organizzative.
Alla luce di quanto detto in queste ultime lezioni e di quanto ancora diremo per portare a
compimento la spiegazione del modello di Seiler-Rugiadini, si consiglia agli Studenti di
rileggere il capitolo 1 del testo a cura di Franco Isotta. Molti concetti in esso contenuti
dovrebbero, a questo punto, risultare via via più chiari.

Lezione del 16 ottobre


In questa lezione abbiamo analizzato le variabili organizzative, il cuore del modello di
Seiler-Rugiadini, in quanto rappresentano le leve di manovra che l'analista/progettista
organizzativo può utilizzare per la creazione della coerenza interna ed esterna. Le variabili
organizzative sono in genere suddivise in due categorie: quelle "strutturali" (che attengono
alla struttura organizzativa, agli elementi che concorrono a definirla e alle sue dimensioni
fondamentali) ed i "meccanismi operativi" (pianificazione e controllo; rete di comunicazione;
regole, norme e valori fondamentali dell'organizzazione; sistemi di gestione e sviluppo delle
risorse umane).
L'attenzione è stata poi focalizzata sulle variabili di output del modello in esame,
rappresentate da "output di primo livello" (attitudini-motivazione-comportamenti dei
dipendenti; produttività individuale e di gruppo; emozioni-sentimenti-clima organizzativo), e
da "output di secondo livello" (efficacia ed efficienza organizzativa; soddisfazione delle
persone).
In definitiva, la creazione di un "assetto" organizzativo caratterizzato da elevata coerenza -
attraverso l'utilizzo delle leve rappresentate dalle variabili organizzative - consente all'intero
sistema organizzativo di conseguire risultati migliori, di raggiungere i suoi obiettivi strategici
e di generare valore.
Lezione del 19 ottobre
La Teoria dei Sistemi Socio-Tecnici, nel cui ambito si colloca il modello che abbiamo definito
di "Seiler-Rugiadini", evidenzia come l'idea di dar vita ad un assetto organizzativo
"universale", ossia valido per tutte le realtà organizzative, debba essere abbandonato. E'
quello che, in gergo, si definisce come il passaggio dall'One-Best-Way organizzativo
all'approccio Best-Fit. Ciò significa che non esiste un modello organizzativo unico, superiore,
il migliore in assoluto, in grado di garantire la massima efficacia ed efficienza, valido per
qualunque sistema o ente; il progettista organizzativo deve tenere conto di una serie di
variabili, che condizionano l'assetto organizzativo e lo rendono di volta in volta adatto alle
circostanze (esterne e interne) che il sistema organizzativo si trova ad affrontare.
Nasce così la Teoria delle Contingenze (organizzative o strutturali), una teoria che sostiene
come l'assetto organizzativo in grado di garantire la più elevata efficacia ed efficienza
organizzativa sia quello che meglio è in grado di assicurare la coerenza tra le diverse
categorie di variabili (esterne ed interne), agendo sulle variabili organizzative. Questa teoria
domina la scena della progettazione organizzativa sino ai giorni nostri.
Le contingenze sono quei fattori, collegati a variabili interne ed esterne, che indirizzano la
progettazione (e la riprogettazione) organizzativa richiedendo una particolare configurazione
sia della struttura organizzativa sia dei meccanismi operativi. Le contingenze possono
riguardare le caratteristiche dell'ambiente esterno in cui l'organizzazione è immersa e che
possono vincolare le scelte di progettazione organizzativa; le dimensioni aziendali e la fase
del ciclo di vita che un'azienda si trova a vivere; la strategia d'impresa; le tecnologie
adottate; le caratteristiche dell'organico (ad esempio, l'insieme delle competenze delle
persone).

Lezione del 20 ottobre


In questa lezione abbiamo analizzato l'ultimo dei grandi "pilastri" delle teorie organizzative
"classiche": Max Weber e la sua Teoria della Burocrazia. L'opera monumentale del più
grande sociologo del novecento richiama diversi concetti utili ai fini della progettazione
organizzativa, tra i quali il concetto di "potere" e quello, che ne è diretta conseguenza, della
"forma organizzativa burocratica".
Le opere di Weber sono, grosso modo, contemporanee a quelle di Taylor, per cui,
temporalmente, facciamo un passo indietro rispetto alla Teoria dei Sistemi Socio-Tecnici.
Tuttavia, il riferimento alla burocrazia weberiana appare fondamentale in quanto, a
differenza del taylorismo, la teoria della burocrazia ha come dimensione di analisi non più (o
non solo) l'organizzazione (micro) del lavoro, ma abbraccia la forma che assume l'intera
organizzazione (è, dunque, una teoria che si pone a livello "macro").
Abbiamo esaminato come nasce la teoria della burocrazia, le sue proprietà fondamentali, le
sue caratteristiche ed i principi su cui si fonda. Questi aspetti possono essere rintracciati nel
capitolo 2 del testo a cura di Franco Isotta, "La Progettazione Organizzativa".
Due aspetti possono essere ricordati in questa sintesi estrema della teoria in oggetto: 1) la
Burocrazia si pone, allo stesso modo del taylorismo, come un approccio One-Best-Way, a
livello macro-organizzativo; 2) la rigida divisione orizzontale (del lavoro) e verticale
(dell'autorità e del potere) sulla base dei "doveri di ufficio" rappresentano un ulteriore aspetto
della razionalità organizzativa, concorrendo a rafforzare l'idea di un'organizzazione
funzionante in modo simile ad una macchina (concezione "meccanicistica"
dell'organizzazione).
Come per il taylorismo, una simile forma organizzativa funziona piuttosto bene in ambienti
esterni particolarmente stabili, mentre - in caso di ambienti turbolenti - l'eccessiva
regolamentazione e formalizzazione può rappresentare un grave intralcio alla capacità di
adattamento del sistema organizzativo all'ambiente esterno. Per tali motivi, ben presto la
burocrazia (originaria) ha manifestato i suoi limiti.
Unitamente ad alcuni aspetti della Teoria Amministrativa di Henry Fayol (ad esempio,
l'organizzazione funzionale), tuttavia, molti principi della burocrazia weberiana sopravvivono
tutt'oggi in molte aziende.

Lezione del 23 ottobre


L'analisi organizzativa, basata sulle conoscenze acquisite tramite lo studio delle principali
teorie organizzative e sul modello di Seiler-Rugiadini, è propedeutica sia alla progettazione
ex-novo dell'organizzazione (approccio "green-field", applicato in genere per le aziende di
nuova istituzione), sia alla riprogettazione di organizzazioni esistenti (approccio
"brown-field"), sulla base dell'acquisizione di dati relativi a situazioni problematiche che
richiedono interventi di riorganizzazione. In quest'ultimo caso, oggetto di riprogettazione può
essere l'intera azienda o parti di essa.
Riferendoci al caso di un'impresa allo stato nascente, la progettazione organizzativa può
avvenire secondo due logiche: top-down, partendo cioè dalla dimensione "macro"
dell'organizzazione (dalla forma organizzativa complessiva alla micro-organizzazione), o
bottom-up, ossia partendo dalla micro-organizzazione (livello "individuale") per arrivare -
passando per il livello "meso" (gruppi/unità organizzative) - alla forma complessiva
dell'assetto organizzativo aziendale (livello "macro", riferito all'azienda nel suo complesso). Il
percorso che noi affronteremo nel prosieguo del corso è: dal micro al macro. Le tre
dimensioni dell'organizzazione interna (micro-meso-macro) sono, tuttavia, sempre tra loro
interrelate, sia che si parta dal livello micro, sia che si parta dal livello macro).
La micro-organizzazione ha come oggetto l'organizzazione del lavoro, ovvero la ripartizione
del volume complessivo di attività/lavoro che un'azienda deve realizzare per il
conseguimento dei propri obiettivi tra le persone che compongono l'organico. Tuttavia, il
punto di partenza dell'organizzazione del lavoro è sempre rappresentato dalla piena
comprensione del profilo strategico dell'impresa (in particolare, del "modello di business",
utilizzando strumenti quali il "Canvas Business Model" e dal piano strategico, o "Business
Plan").
Dall'analisi del profilo strategico, infatti, dovranno risultare chiari gli obiettivi strategici che
l'azienda intende raggiungere nell'arco temporale cui il piano strategico si riferisce, le
modalità di raggiungimento di tali obiettivi (vie) e le risorse di cui l'azienda potrà disporre in
relazione agli obiettivi da raggiungere. Tali elementi sono di fondamentale importanza, in
quanto da essi traggono origine i processi aziendali, una modalità di scomposizione del
volume complessivo di attività che un'azienda deve realizzare. Tra i processi aziendali, quelli
principali riguardano il collegamento tra azienda e cliente, con riferimento ai prodotti/servizi
principali (ad esempio, l'acquisto di un'automobile) e a quelli accessori (manutenzione
dell'auto, finanziamento per pagamento a rate, ecc.). Sono proprio questi i processi (definiti
in gergo "processi di business", per indicare che il cliente è sempre al centro dell'attenzione)
che trascinano con sé tutti gli altri (processi di approvvigionamento, processi di produzione,
processi di amministrazione, ecc.).
Ciascun processo, inoltre, è scomponibile in fasi e in attività, a livelli di dettaglio anche molto
analitici. La comprensione delle fasi e delle attività è di fondamentale importanza per la
definizione in termini quali-quantitativi dell'organico necessario a svolgere i processi
aziendali e delle competenze necessarie per la realizzazione delle diverse fasi e attività.
Da qui parte la progettazione "micro" che, come vedremo, si riferirà alla individuazione di
compiti e mansioni da assegnare ai singoli individui.

Lezione del 26 ottobre


I processi operativi rappresentano la "catena di trasmissione" che conduce dalla strategia
d'impresa alla progettazione della micro-organizzazione. Tramite l'analisi dei processi, infatti,
il complessivo volume di attività che un'impresa deve realizzare per compiere la propria
"mission" e per raggiungere gli obiettivi strategici si traduce in compiti e mansioni attribuiti ai
singoli individui.
L'analisi dei processi ha come presupposto l'identificazione dei processi stessi, che avviene
per effetto della loro "mappatura". Per rappresentare il passaggio dalla strategia alla
micro-organizzazione abbiamo preso in esame uno dei tanti processi operativi, quello che
riguarda la "Trattativa con i Clienti", tipico delle imprese che operano "su commessa".
Questo processo parte da un input specifico (che è il fattore che dà avvio al processo
stesso, ossia l'acquisizione di un contatto con il cliente) e termina con un output ben preciso,
il contratto di vendita (o, in caso di esito negativo della trattativa, con il mancato accordo). Il
processo, inoltre, viene scomposto in fasi distinte (ad esempio, fase 1: acquisizione di
informazioni utili a profilare il cliente; fase 2: definizione di un piano di negoziazione; fase 3:
trattativa; fase 4: definizione dell'accordo e stipula del contratto); quindi, ciascuna fase viene
a sua volta scomposta in molteplici attività (per la fase 1, le attività potrebbero essere: a)
analisi dei bilanci dell'azienda cliente per verificarne le condizioni di solvibilità; b) acquisire in
altri modi informazioni sulla solvibilità dell'impresa cliente; c) identificazione dei punti di forza
e di debolezza negoziali dell'azienda cliente, ecc.).
In questo modo, ogni processo definisce un flusso di attività che concorre a determinare la
quantità di persone necessarie per la sua realizzazione (fabbisogno di persone che dà luogo
all'organico), nonché la qualità delle persone stesse (competenze).
Quanto detto per il processo in esame vale per tutti gli altri processi operativi. In base ad
essi, dunque, si determinano, a livello micro, tramite l'ulteriore scomposizione delle attività, i
compiti da assegnare a ciascun individuo. Più compiti danno origine alla mansione. Ciascun
individuo, pertanto, al termine di tale procedimento, avrà assegnata una mansione specifica.

Lezione del 27 ottobre


La micro-organizzazione (denominata anche micro-struttura), riguarda l'attribuzione di una
mansione a ciascun individuo appartenente all'impresa. La mansione definisce e racchiude i
compiti che l'individuo deve portare a compimento (task), raggiungendo obiettivi specifici
(goal) che fanno riferimento a prestazioni predeterminate dall'organizzazione stessa
(prestazioni attese, o livelli standard di prestazione).
Nel distinguere il concetto di "compito" da quello di "mansione", abbiamo sottolineato come
lo strumento adeguato per analizzare e definire la micro-organizzazione sia quello della job
analysis, che consta della cosiddetta job description (descrizione della mansione: leggere
attentamente l'esempio riportato nel testo a cura di F. Isotta) e della job (o, meglio, person)
specification. La job description indica i compiti e le responsabilità contenuti nella mansione,
mentre la job (person) specification fa riferimento ai requisiti di competenze che l'individuo
tenuto a svolgere quella particolare mansione deve possedere.
Abbiamo, inoltre, analizzato le caratteristiche della mansione, in riferimento alle tipologie di
compiti in essa contenuti: varietà/ripetitività dei compiti; standardizzazione; formalizzazione;
discrezionalità (autonomia decisionale); contribuzione (senso e significato della mansione
per l'individuo); interazione sociale.
La gradazione di tali elementi deve condurre alla progettazioni che siano non solo coerenti
con le necessità aziendali, ma che siano - al contempo - soddisfacenti per gli individui. Si
presume che una mansione sia soddisfacente quanto più essa è varia (contiene compiti di
natura diversa), quanto più essa concede all'individuo margini di decisione autonoma e livelli
di responsabilità, quanto più elevato il grado di contribuzione e l'interazione sociale che la
caratterizza.
Abbiamo, quindi, specificato che la prestazione dell'individuo (P), con riferimento alla
mansione da svolgere, è caratterizzata da un certo mix di competenze possedute (C) e dal
livello di motivazione che caratterizza l'individuo (M). Dunque, P = C x M, il che significa che
per indurre l'individuo ad ottenere risultati uguali o maggiori rispetto alle prestazioni attese, si
può agire sia sul fronte delle competenze sia su quello della motivazione, o su entrambi. A
tale scopo, si è accennato all'importanza della motivazione quale caratteristica dell'individuo,
ai fini delle sue prestazioni. L'analisi motivazionale dell'individuo (basata su un insieme di
teorie ricomprese nel capitolo 2 del volume a cura di F. Isotta) rappresenta un utile
riferimento per progettare mansioni che tengano conto anche delle preferenze e delle
propensioni manifestate dai singoli individui, in modo da consentire loro di applicare la
dovuta energia lavorativa ed indirizzare i propri sforzi verso il raggiungimento dei livelli di
prestazione attesa.

Lezione del 30 ottobre


Per concludere la trattazione della progettazione della micro-organizzazione, abbiamo
esaminato i possibili interventi di ristrutturazione delle mansioni. Alcuni problemi
organizzativi, infatti, possono scaturire da errori pregressi nella progettazione delle mansioni
o nel fatto che esse, una volta progettate e assegnate agli individui, non vengano
manutenute e adattate alle mutate circostanze ambientali, strategiche o tecnologiche
(contingenze), nonché alle relative problematiche che discendono dalla necessità di
ripensare completamente l'organizzazione del lavoro per renderla coerente con i nuovi
scenari competitivi. Tra questi interventi, quelli tipici si riferiscono all'allargamento delle
mansioni (job enlargement), alla rotazione delle mansioni (job rotation) e all'arricchimento
delle mansioni (job enrichment).
In seguito, abbiamo iniziato la progettazione della meso-organizzazione, che concerne la
componente intermedia posta tra le mansioni e posizioni individuali (micro-organizzazione) e
la forma complessiva (assetto) che il sistema organizzativo nel suo complesso assume
(macro-organizzazione). Obiettivo della progettazione "meso" è la costituzione delle unità
organizzative secondo criteri di razionalità, seguendo una logica che parte dal basso
(bottom-up, come nel caso delle mansioni).
Il punto di partenza della progettazione "meso" è dato sempre dalla scomposizione del
complessivo volume di "lavoro" che un'azienda deve compiere in "attività" ("attività di base")
e dalla loro elencazione ("mappatura delle attività"), secondo criteri di dettaglio definiti
dall'analista/progettista dell'organizzazione. Tali attività vengono quindi "clusterizzate" sulla
base, appunto, di criteri logici che mirano a contenere i costi di coordinamento e controllo e
ad esaltare le economie di scala e di specializzazione/apprendimento.
Il tema della progettazione "meso" è affrontato, sul testo a cura di F. Isotta, nei capitoli 5 e 6.

Lezione del 2 novembre


Prosegue la trattazione della progettazione "meso". Per poterla meglio analizzare, abbiamo
introdotto il modello "Zero-Base Review", una tecnica di "clusterizzazione" delle "attività di
base" che si riferisce alla progettazione "meso" partendo, appunto, da zero, e che si fonda
su cinque passaggi successivi, a ciascuno dei quali è associato un principio di
progettazione.
L'analisi è condotta utilizzando una matrice definita "matrice zero-base" (o "matrice delle
attività"), una matrice simmetrica che affronta i vari passaggi del modello "Zero-Base"
confrontando tra loro coppie di attività secondo tutte le varie combinazioni che sono tra loro
possibili. In questa lezione abbiamo trattato tre passaggi fondamentali: l'analisi delle
interdipendenze, l'analisi delle affinità tecniche e l'analisi delle affinità di orientamento.
Questi tre criteri mirano, nello specifico, ad individuare i tipi di legami esistenti tra le attività di
base (e tra coloro che queste attività svolgono). Si nota che le attività, messe tra loro a
confronto, evidenziano elementi che tendono ad attrarle, ad avvicinarle, creando i
presupposti per la loro aggregazione in una stessa unità organizzativa. In altri casi, le attività
confrontate non mostrano alcun elemento di similarità e, dunque, sono destinate ad essere
collocate in unità organizzative diverse.
Per approfondimenti, si rinvia ancora ai capitoli 5 e 6 del testo a cura di F. Isotta.

Lezione del 3 novembre


Proseguendo nella progettazione della meso-organizzazione effettuata utilizzando
l'approccio Zero-Base Review, dopo aver effettuato l'analisi delle interdipendenze, delle
affinità tecniche e delle affinità di orientamento, il passaggio successivo consiste nell'analisi
delle "situazioni critiche", ossia di quelle attività la cui collocazione all'interno di un
cluster/unità organizzativa o di un altro si presenta incerta, in quanto occorre stabilire se
dare più peso al tipo di interdipendenza o alle affinità, tecniche o di orientamento. La scelta
in esame deve rapportarsi alle esigenze strategiche e contingenti dell'azienda in esame,
nonché alle necessità di saturare le risorse scarse a disposizione.
Infine, quale ultimo passaggio, ci si è soffermati sulla necessità di riesaminare tutto il
percorso effettuato al fine di verificare la congruità ed il corretto dimensionamento delle unità
organizzative così ottenute. Tale passaggio rileva in quanto errori di bilanciamento possono
portare ad unità organizzative tra loro squilibrate, alcune con un maggior carico di attività di
base, altre con minore carico. L'"affollamento" eccessivo di attività di base all'interno della
stessa unità organizzativa, infatti, potrebbe comportare livelli subottimali di raggiungimento
di economie di scala e di specializzazione, nonché un aggravio nei costi di coordinamento e
controllo.
Conclusa così la parte sulla progettazione "meso", ci si concentrerà da ora in avanti sulla
progettazione della macro-organizzazione.
Riferimenti a quanto detto possono essere rintracciati negli stessi capitoli del testo a cura di
Franco Isotta evidenziati nella lezione precedente.

Lezione del 6 novembre


Prende oggi avvio la parte del Corso dedicata alla progettazione della
macro-organizzazione.
L'approccio migliore è quello che parte dal collegamento esistente tra tre grandi classi di
variabili, peraltro contenute e già analizzate nel modello di Seiler-Rugiadini: l'ambiente (le
variabili ambientali), la strategia (all'interno delle variabili istituzionali) e l'organizzazione
(intendendo con ciò le variabili organizzative che, nel loro complesso, danno vita all'assetto
o profilo organizzativo dell'azienda).
La progettazione macro riguarda la forma organizzativa complessiva assunta dall'azienda e
la sua analisi viene affrontata in primo luogo considerando le relazioni esistenti tra l'ambiente
e l'organizzazione. Diverse teorie hanno affrontato la tematica relativa al modo in cui
l'ambiente esterno influenza e concorre a "modellare" l'organizzazione di un'azienda. Tra
queste, il modello di analisi principale è quello di Burns e Stalker, elaborato nel 1967. Tale
modello distingue tipologie di ambiente secondo criteri di complessità/predicibilità (alti o
bassi) e rapporta ad essi i diversi modi di organizzare le aziende, secondo caratteristiche
riferite alle componenti/dimensioni strutturali e a quelle relative ai sistemi operativi. Quindi,
attraverso queste categorizzazioni, le diverse modalità di organizzare l'azienda vengono
poste in correlazione con le tipologie di ambiente.
Per approfondimenti si rinvia al capitolo 2 del testo a cura di Franco Isotta.

Lezione del 13 novembre


Oggetto della fase del corso iniziata oggi è il rapporto tra strategia e organizzazione.
Nell'ambito della macro-progettazione, infatti, occorre stabilire il più elevato livello di
coerenza tra la strategia aziendale e l'assetto organizzativo complessivo dell'impresa
(costituito, com'è noto, dalla struttura organizzativa e dai sistemi o meccanismi operativi).
L'approccio tradizionale è quello lineare, definito come modello delle "3 S" (Strategia,
Struttura e Sistemi Operativi, appunto), in base al quale l'Organizzazione viene concepita
come "leva" per il conseguimento degli obiettivi strategici. Dunque, data una certa strategia,
l'azienda definisce (in coerenza con essa) la struttura ed i sistemi operativi più adeguati per
la sua implementazione e per il raggiungimento degli obiettivi strategici. Tuttavia, occorre
ricordare che le relazioni tra Strategia e Organizzazione sono sempre biunivoche: la
realizzazione pratica di una determinata strategia può essere impedita proprio dai vincoli
dell'organizzazione esistente (persone con competenze non adeguate; cultura organizzativa
non adatta al profilo strategico che si intende realizzare; organico sotto-dimensionato e
presenza di rigidità finanziarie che non consentono nuove assunzioni, ecc.).
Il rapporto tra strategia e organizzazione è stato affrontato in chiave storica da Alfred
Chandler, che nel suo famoso libro "Strategy and Structure" (1962), evidenziava come a
diverse fasi dello sviluppo del sistema industriale capitalistico corrispondesse lo sviluppo di
una determinata forma organizzativa, sempre più complessa, in rapporto alla
"complessificazione" del profilo strategico aziendale.
A scopi didattici, l'analisi del rapporto strategia-organizzazione viene in questa sede
affrontato analizzando le diverse fasi del ciclo di vita di un'ipotetica azienda manifatturiera a
gestione familiare "Family Business", dalla fase di start-up a quelle, successive, di crescita e
sviluppo, maturità, ecc.
La prima forma organizzativa identificata è quella "semplice" o "elementare", corrispondente
alla fase di start-up aziendale. Abbiamo pertanto analizzato caratteristiche, vantaggi e
svantaggi di tale forma, rapportandola al tipo di strategia, correlata alla piccolissima
dimensione aziendale, tipica dello stadio nascente dell'azienda.
Per approfondimenti dell'argomento trattato, si rinvia alle prime pagine del capitolo 8 del
testo a cura di Franco Isotta.

Lezione del 16 novembre


L'assetto organizzativo semplice (o "elementare") si adatta bene ad aziende di piccole
dimensioni, costituite da un numero ristretto di addetti alle dipendenze dell'imprenditore (in
genere il fondatore e/o capo-famiglia). Queste (micro)aziende, le più diffuse del nostro
Paese, sono spesso particolarmente innovative e reattive a fronte di repentini cambiamenti
del mercato grazie anche al consistente accentramento decisionale e alla mancanza di livelli
gerarchici, ma risentono di una molteplicità di limiti tipicamente connessi alla piccola
dimensione. La confusione e sovrapposizione dei ruoli riscontrata in simili realtà
imprenditoriali non determina alcun criterio di specializzazione e la formalizzazione è di
solito assente. Per questo, l'assetto organizzativo elementare è particolarmente adatto a
supportare strategie di aziende di dimensione molto ridotta e con un profilo strategico
concentrato su un unico prodotto (con al limite, poche varianti), un segmento di mercato
estremamente ridotto e focalizzato ("nicchia") e operanti in ambiti geografici limitati.
Nel momento in cui le aziende simili a quelle appena delineate, superata la fase critica dei
primi anni di vita, transitano verso una fase di crescita e sviluppo, grazie ai successi
realizzati da una "formula imprenditoriale" vincente (che si caratterizza, di norma, anche per
l'introduzione di nuovi prodotti sul mercato, per la necessità di investire in nuove tecnologie e
di ampliare la capacità produttiva aziendale), di solito iniziano ad emergere i primi segnali
che attestano la presenza di disfunzioni, generatesi in seguito al mancato adattamento
dell'organizzazione alle mutate condizioni strategiche e operative.
L'incremento della conflittualità, l'abbassamento dei livelli di qualità del prodotto, ritardi nella
produzione e nella commercializzazione dei prodotti, l'offuscamento delle capacità
decisionali del vertice dovuto al sovraccarico derivante dalla necessità/volontà, da parte del
vertice stesso, di voler controllare ogni aspetto dell'operatività aziendale, può causare il
progressivo "scivolamento" dell'azienda verso situazioni di diseconomicità che possono in
breve condurre all'esplosione di crisi inarrestabili.
Un passo necessario è, pertanto, adeguare l'intero assetto organizzativo alle nuove
condizioni ambientali, strategiche e operative, al fine di individuare un nuovo modello
organizzativo più adatto a supportare la fase di crescita che l'azienda si trova ad affrontare.
Abbiamo affrontato tale problematica introducendo l'analisi del cambiamento verso
l'adozione di un modello organizzativo funzionale, che si presenta più adeguato a
supportare la crescita aziendale, caratterizzata da un portafoglio prodotti che presenta un
minimo grado di "diversificazione", un'attenzione all'efficienza e al bilanciamento dei "carichi"
decisionali e più adeguata ad un aumento dimensionale dell'organico (piccole-medie
aziende).
L'assetto organizzativo funzionale si caratterizza per la presenza, ai primi livelli della
struttura organizzativa, dalla presenza di unità organizzative specializzate in base all'input,
alle conoscenze necessarie per svolgere in maniera efficiente ed efficace categorie di
operazioni/attività simili tra loro (criterio di specializzazione economico-tecnica).
Si sono quindi analizzate le caratteristiche di tale assetto organizzativo, con particolare
riguardo alla possibilità che esso offre di operare una più equa ripartizione dei carichi
decisionali tra vertice (decisioni strategiche), funzioni (decisioni direzionali) e base (decisioni
operative) della piramide organizzativa.
L'argomento è trattato nel capitolo 8 del testo a cura di Franco Isotta.

Lezione del 17 novembre


Continua la trattazione dell'assetto organizzativo funzionale. E' stata analizzata la distinzione
tra unità di "line" e unità di "staff" (distinzione che, tuttavia, negli ultimi anni appare molto
sfumata). E' stato anche analizzato il concetto di "span of control" (ampiezza del controllo),
relativo al numero di dipendenti che possono ragionevolmente dipendere dallo stesso capo
e quello dell'"unicità del comando" (un dipendente / un solo capo) elaborato da Henry Fayol
nella sua concezione dell'organizzazione funzionale di fine ottocento.
Dopo aver elencato tutte le caratteristiche dell'assetto organizzativo funzionale (l'assetto più
diffuso nel mondo), abbiamo analizzato i vantaggi che esso consente di ottenere: economie
di specializzazione e di apprendimento; economie di scala; supporto a strategie aziendali
"focalizzate" per aziende di medie dimensioni e in crescita; alleggerimento del sovraccarico
decisionale; spersonalizzazione e maggiore equità percepita dai dipendenti.
Un aspetto fondamentale da ricordare è che il passaggio da un'organizzazione
semplice/elementare non riguarda soltanto il cambiamento della struttura organizzativa.
Anche i sistemi/meccanismi operativi devono essere modificati e adeguati al nuovo
approccio organizzativo. L'inserimento, al primo livello manageriale, di una componente di
manager professionisti alla guida di ciascuna funzione, comporta anche l'introduzione di più
elevati livelli di formalizzazione, specializzazione e standardizzazione delle attività. Per tale
motivo, la presenza di regole e procedure, la ridefinizione dei meccanismi di comunicazione
interna, il maggior grado di "strutturazione" e di "sofisticazione" dei sistemi di pianificazione e
controllo e del sistema di gestione e sviluppo delle Risorse Umane sono elementi essenziali
per il corretto funzionamento della struttura organizzativa funzionale.
Tuttavia, gli stessi elementi che ne determinano il successo (specializzazione,
formalizzazione, standardizzazione, potere dei manager di primo livello, gerarchizzazione)
contengono anche i potenziali germi del suo possibile fallimento. Tra le caratteristiche
negative più importanti di tale assetto organizzativo, infatti, vi è l'effetto-silos, associato al
progressivo ripiegamento e "chiusura" delle funzioni in se stesse, fenomeno attraverso il
quale una funzione tende gradualmente ad isolarsi dalle altre e dal resto dell'organizzazione.
Conseguenza dell'effetto silos è l'incremento dell'entropia (grado di disordine) del sistema
organizzativo, che non raramente conduce a situazioni di crisi organizzative aziendali.

Lezione del 20 novembre


Tra gli aspetti negativi dell'organizzazione per funzioni, oltre all'effetto silos, vi sono quelli, ad
esso collegati, del "parrocchialismo" (tendenza a considerare la propria funzione come
l'"unico mondo" in cui vivere e a perseguire gli interessi della "funzione" prima di tutto, cioè
prima ancora di quelli dell'azienda nel suo complesso) e la creazione di sub-culture
specialistiche, di difficile armonizzazione. Inoltre, l'assetto "per funzioni" non è in grado di
supportare adeguatamente strategie orientate ad una più marcata diversificazione
della produzione, consistente nell'aggiunta al "portafoglio prodotti" di nuove "linee", anche
se tecnicamente vicine a quelle già esistenti (si parla, in questo caso, di "diversificazione
correlata", proprio perché tra le linee di prodotto esistono similitudini nell'impiego di materiali
e componenti, nelle tecniche produttive, nel tipo di segmenti di mercato serviti).
L'elevata conflittualità interna - tra funzioni - che si determina per i suddetti fattori
rappresenta un problema significativo da gestire, nell'ottica di costruire la necessaria
integrazione, appunto, tra le diverse funzioni di cui l'organizzazione si compone.
Per affrontare il tema dell'integrazione (e del coordinamento) tra le unità organizzative
funzionali, facciamo riferimento ad un altro importante "modello" sviluppato dai teorici
dell'Organizzazione Aziendale. Ci riferiamo al modello di Lawrence e Lorsch (1967), che ci
consente anche di fare delle dovute puntualizzazioni sul rapporto tra ambiente e
organizzazione (trattato in precedenza).
Il modello di Lawrence e Lorsch, infatti, rappresenta uno sviluppo di quello di Burns &
Stalker (rapporto tra tipologie di ambiente e di assetto organizzativo, meccanico e organico).
L'avanzamento di Lawrence e Lorsch consiste, sostanzialmente, nell'aver meglio definito il
concetto di "ambiente", da considerare non come un blocco uniforme ma come composto da
molteplici sub-ambienti (finanziario, del mercato di sbocco, del mercato del lavoro, delle
tecnologie e dell'innovazione, ecc.). In breve, ciascuna funzione, oltre ad essere deputata a
ricercare, al proprio interno, l'efficienza operativa, realizzando rilevanti economie, di scala, di
specializzazione/apprendimento, ecc.), ha anche il compito di "presidiare" una parte
importante dei confini tra organizzazione e ambiente esterno. Interagendo con una porzione
specifica dell'ambiente, ogni funzione gestisce - secondo Lawrence e Lorsch - un
"task-environment", cioè un complesso di attività, compiti e processi caratterizzati da ben
specifici obiettivi da raggiungere e da una gestione più o meno complessa di relazioni con
attori, entità ed istituzioni presenti nel sotto-ambiente presidiato.
Ne discende che l'organizzazione di ogni singola unità organizzativa deve corrispondere
anche al tipo di sotto-ambiente esterno che ciascuna presidia, configurando il proprio
assetto interno più come un sistema meccanico o più come un sistema organico). Questo
aspetto, di fondamentale importanza, ci fa capire che "parti" dell'organizzazione di
un'azienda assomiglieranno maggiormente ad un sistema meccanico, altre "parti" ad un
sistema organico. Pertanto, questo aspetto crea una differenziazione nella risposta che
un'organizzazione deve porre in essere rispetto alla multiforme varietà di ciascun
sotto-ambiente.
Le implicazioni, come vedremo, sono di rilevante portata

Lezione del 23 novembre


Per meglio analizzare il grado di differenziazione che dovrebbe caratterizzare le unità
organizzative sulla base delle differenze riscontrate nei task-environment, è stato presentato
un modello che consente di valutare quantitativamente la distanza che separa un
task-environment dall'altro. Il modello consiste nell'attribuire un punteggio (su scala da 1 a 4)
a ciascun attributo atto a qualificare la complessità o meno del task-environment in
riferimento alla tipologia di attività che l'unità organizzativa deve realizzare nei confronti del
proprio sub-ambiente, degli obiettivi da realizzare e del network di relazioni con l'esterno da
gestire. Alcuni fondamentali attributi sono rappresentati dal grado di difficoltà del
task-environment (1=semplice; 4=difficile); dalla chiarezza con cui possono essere definiti gli
obiettivi da raggiungere (1=molto chiari; 4=poco chiari); dall'incertezza, relativa alle
"deviazioni" di attività/obiettivi rispetto a quelli pianificati (1=bassa incertezza; 4=elevata
incertezza); criticità del task-environment per i risultati aziendali (1=bassa criticità; 4=elevata
criticità) e tempo di feed-back (1=basso tempo di feed-back; 4=elevato tempo di feed-back).
Sommando i punteggi, ogni task-environment presenterà un punteggio di complessità
relativa. Più elevata è la distanza tra punteggi, più si richiede aumento nel grado di
differenziazione nell'organizzazione delle rispettive unità organizzative: più organizzate
come sistemi meccanici quelle con punteggio relativo basso; più organizzate come sistemi
organici quelle con punteggio relativo elevato.
Il grado di differenziazione, tuttavia, è solo un lato della medaglia del modello di Lawrence e
Lorsch. All'incremento del livello di differenziazione nel modo in cui le unità organizzative
sono organizzate, corrisponde, infatti, un incremento del fabbisogno di integrazione. In
effetti, più sono differenziate le unità organizzative, maggiore sarà la possibilità di uno stato
di disordine interno, generato dalla mancanza di adeguata integrazione. Più elevato il
disordine, maggiore è l'entropia del sistema, con riflessi negativi sull'efficacia e sull'efficienza
organizzativa.
Il secondo principio del modello di Lawrence e Lorsch stabilisce, pertanto, che ove la
differenziazione sia elevata, si predispongano adeguati meccanismi di integrazione,
necessari a realizzare, appunto, la dovuta integrazione delle unità stesse.

Lezione del 24 novembre


I meccanismi di integrazione sono di fondamentale importanza per assicurare la necessaria
coesione tra le unità organizzative. Essi sono molteplici: occorre utilizzare quelli "corretti",
ossia adeguati al fabbisogno di integrazione generato a fronte della differenziazione tra unità
organizzative. Se il fabbisogno di integrazione è elevato, andranno utilizzati meccanismi più
potenti; se il fabbisogno di integrazione è basso, meccanismi meno potenti.
La scelta tra meccanismi più o meno "potenti" è di rilevante portata, in quanto l'utilizzo dei
meccanismi più potenti implica un costo maggiore, mentre quelli meno potenti sono
relativamente meno costosi. La scelta, dunque, deve essere adeguatamente ponderata,
altrimenti ne risentono l'efficacia e l'efficienza complessiva del sistema organizzativo.
I meccanismi di integrazione, dunque, si distinguono in base alla "potenza"-"costo" legati al
loro utilizzo. In ordine di potenza-costo crescente, i meccanismi principali sono: norme e
regole generali; sistemi di comunicazione; autorità gerarchica; contatti laterali tra
capi-funzione; meeting e riunioni; linking pin; gruppi inter-funzionali trasversali; comitati;
task-force; organi di integrazione (product manager, project manager, matrice).
Inoltre, al fine di procedere alla scelta del/dei meccanismi più adeguati, occorre rispettare tre
logiche fondamentali di integrazione: a) le unità da integrare dovrebbero avere rapporti di
potere equilibrati; b) l'integrazione va gestita con il confronto delle posizioni, non con
l'imposizione; c) evitare la "rinuncia" (auto-emarginazione).
Il tema dei meccanismi di integrazione, coordinamento e controllo, è trattato nel capitolo 7
del testo a cura di F. Isotta.
Lezione del 30 novembre
Nella prima parte della lezione si sono analizzati i risultati dell'esercitazione sul Caso
Marzari, focalizzato sul rapporto tra il grado di differenziazione delle unità organizzative e i
meccanismi di integrazione. Ampia soddisfazione espressa per i lavori di tutti i gruppi.
L'attenzione è stata poi posta sui più complessi, potenti e costosi meccanismi di
integrazione, quelli che prevedono una modificazione dell'assetto organizzativo di tipo
"funzionale" mediante l'innesto di organi di integrazione quali i product manager e i project
manager.
L'assetto organizzativo "funzionale modificato per product manager di tipo A (versione
"pesante")" prevede, quali organi di primo livello gerarchico, oltre alle canoniche funzioni,
proprio i product manager, ossia manager che hanno la responsabilità di una linea di
prodotto. Tali organi devono integrare le attività, svolte dalle varie funzioni, che insistono
sulla linea di prodotto presidiata dal product manager.
Sono state così analizzate le caratteristiche di questo nuovo assetto organizzativo, in
particolare la capacità di orientare l'intera organizzazione non solo sullo sviluppo delle
competenze tecniche (sviluppo tipicamente attribuito alle funzioni) ma anche sullo sviluppo
delle linee di prodotto. In altri termini, la Direzione Generale può avere una "vista diretta"
sulle (e tenere sotto controllo le) competenze tecniche e, allo stesso tempo, monitorare
adeguatamente i risultati ottenuti dalle linee di prodotto, attraverso il diretto riporto
gerarchico dei product manager.
Ovviamente, la transizione verso questo nuovo assetto organizzativo porta con sé un
cambiamento rilevante dei meccanismi operativi, con particolare riguardo alla pianificazione
e controllo di gestione, che deve adesso riguardare non solo gli obiettivi e i risultati di
ciascuna funzione, ma anche le diverse linee di prodotto. Il product manager, proprio per
questo, è responsabilizzato sul conseguimento di obiettivi di fatturato di linea di prodotto, di
quota di mercato della linea stessa e del relativo margine di contribuzione (di primo o
secondo livello).
Per svolgere adeguatamente il proprio ruolo di organo di integrazione, il product manager
deve possedere determinate caratteristiche e competenze specifiche, in particolare la
capacità di persuasione o di esercizio di influenza in modo "assertivo", considerando che si
tratta di un manager di pari grado (primo) rispetto ai responsabili delle funzioni.
Abbiamo inoltre soffermato l'attenzione sui principali vantaggi e svantaggi di questo assetto
organizzativo. Tra i vantaggi, quello di riuscire a supportare adeguatamente una strategia di
diversificazione "correlata" della produzione; tra i secondi, il potenziale incremento della
conflittualità tra product manager e responsabili di funzione (ma anche tra product manager
stessi, in caso di risorse scarse da dividersi), qualora gli organi di integrazione non siano
perfettamente "calati" all'interno di una cultura organizzativa in grado di assimilarli.

Lezione del 1 dicembre


In questa lezione abbiamo analizzato l'assetto "funzionale modificato per product
manager di tipo B", con quest'ultimo considerato una "versione leggera" di product
manager. Tale approccio è particolarmente utilizzato da imprese di grandi dimensioni,
tipicamente operanti nei cosiddetti "mass-market" (beni di largo e generale consumo, in
genere caratterizzati da prodotti poco differenziati o differenziabili), imprese caratterizzate da
una elevata "maturità" di marketing (significa che il marketing è una funzione cruciale per il
successo dell'impresa e particolarmente sofisticata, in relazione al know-how impiegato, alle
tecniche e alla strumentazione utilizzate e alla complessità del task environment gestito).
In questa seconda versione, il product manager non è più collocato al primo livello
gerarchico e, dunque, non è più un "pari-grado" rispetto ai responsabili di funzione. Al
contrario, il product manager si trova collocato all'interno della funzione "marketing", cioè alle
dipendenze del Responsabile del Marketing e, talvolta, alle dipendenze di un "brand
manager", per aziende con un "portafoglio" costituito da numerosi brand e linee di prodotto.
In questi casi, il product manager si trova pertanto al secondo (o anche al terzo) livello
gerarchico. In queste ipotesi, il ruolo del product manager è quello di integrare efficacemente
le attività di marketing legate alla specifica linea di prodotto presidiata. Il product manager,
pertanto, ha la delega di definire il piano di marketing per la linea di prodotto assegnata ed è
in genere responsabilizzato sulla quota di mercato e sui risultati commerciali della linea
stessa.
Di fatto, con riferimento alle caratteristiche personali e alle competenze di cui deve essere
dotato il product manager, vale quanto detto a proposito del product manager di tipo A.
Approfondimenti sui temi trattati in questa e nella precedente lezione possono essere trovati
nel capitolo 8 del testo a cura di F. Isotta.

Lezione del 4 dicembre


In questa lezione abbiamo analizzato un ulteriore organo di integrazione, il cui innesto in una
preesistente organizzazione "funzionale" produce un nuovo assetto denominato "funzionale
modificato per project manager".
Ci troviamo, in questo caso, all'interno di imprese che operano tipicamente su commessa,
ossia per progetti. Il ruolo del project manager, in tal caso, è simile a quello del product
manager di tipo A e può assumere diverse connotazioni a seconda del tipo di delega e di
responsabilità attribuite al project manager. Si distinguono, pertanto, tre casi: a) la versione
più leggera (in cui il project manager assume semplicemente il ruolo di "integratore"
attraverso il monitoraggio e facendo rispettare procedure e tempi del progetto assegnato,
ma non gestisce persone né può esercitare autorità sui responsabili di funzione); una
versione intermedia, in cui il project manager è supportato da alcune figure di collaboratori
(project cost analyst; project risk evaluator; quality risk assistant, ecc.) ed è in grado di
effettuare una pianificazione, programmazione e controllo delle attività di commessa
assegnandole alle singole funzioni, all'interno delle quali si svolgono tutte le diverse attività
attinenti la realizzazione del bene o dell'opera; c) una versione "pesante" in cui, in aggiunta
alle caratteristiche della versione intermedia, il project leader gestisce anche tutte le persone
che, provenienti dalle diverse funzioni, cessano di rispondere ai propri capi "funzionali" e
costituiscono il project team alle dirette dipendenze del project leader. In tal caso, le persone
appartenenti ai project team si trovano in una condizione di doppia dipendenza
"temporanea": fino a quando lavorano "sul" progetto, dipendono dal project leader; una volta
terminato il progetto, rientrati nelle funzioni di appartenenza, tornano a rispondere al capo di
funzione (viene così preservato il principio della "unicità di comando" definito da Henry Fayol
alla fine dell'800).
Sono stati quindi analizzati vantaggi e svantaggi associati a questo tipo di assetto
organizzativo, che viene tipicamente utilizzato da imprese di medio-grandi dimensioni
operanti in settori particolari (edilizia, softweristica, ingegneria e architettura, produzione di
macchinari e impiantistica, ecc.).
Prima di passare all'analisi del più importante (perché più complesso e costoso) dei
meccanismi di integrazione, ossia l'assetto organizzativo "a matrice", è stato introdotto
l'assetto organizzativo per divisioni, detto anche "forma organizzativa divisionale (o
multi-divisionale)".
La forma divisionale è tipica di imprese di grandi dimensioni (ad esempio, le multinazionali),
operanti con strategie di marcata diversificazione produttiva, basata su combinazioni
prodotto-mercato (le cosiddette "aree strategiche d'affari", o ASA). In questo tipo di assetto
organizzativo, caratterizzato anche da sistemi operativi che si adattino ad esso, al primo
livello organizzativo si trovano le "Divisioni", ciascuna avente un proprio responsabile. Ogni
capo divisione elabora una strategia attinente alla divisione assegnata, dunque può
assumere decisioni strategiche. Le decisioni strategiche non sono più dunque un'esclusiva
dell'Alta Direzione (Consiglio di Amministrazione, Direzione Generale), ma vengono
suddivise, nel senso che ciascuna divisione opera come se fosse una micro-impresa in
un'impresa più grande (e il capo divisione è in genere responsabilizzato su obiettivi misurati
in termini di ROI).
Le funzioni (quelle operative o di linea) si trovano all'interno di ciascuna divisione, venendo
così duplicate. Al contrario, alcune funzioni, in genere di staff, restano alle dipendenze della
Direzione Generale.
Pertanto, una delle decisioni fondamentali relative a questo assetto organizzativo è il grado
di autonomia e di autosufficienza attribuire a ciascuna divisione. Tale scelta deve
considerare quali legami sussistano tra le divisioni stesse, nel senso che se le divisioni sono
completamente scollegate tra loro (nel senso che non vi sono correlazioni di tipo
tecnico-produttivo o mercatistico) dovrà a ciascuna attribuirsi un grado di autonomia e di
autosufficienza maggiore. Maggiori sono le interdipendenze (o correlazioni) tra divisioni,
minore sarà il grado di autonomia e di autosufficienza delle divisioni stesse.
Il tema continuerà ad essere affrontato nella prossima lezione. Per approfondimenti, si veda
il capitolo 8 del testo a cura di F. Isotta.

Lezione del 7 dicembre


La progettazione dell'assetto organizzativo divisionale (o multi-divisionale), come accennato,
richiede la ricerca di un equilibrio tra scelte di accentramento/decentramento (cioè, quale
livello di autonomia decisionale attribuire alle divisioni) e, conseguentemente, la scelta sul
livello di auto-sufficienza delle divisioni stesse (di quali unità funzionali esse debbano essere
dotate e quali attività debbano, invece, essere centralizzate).
In particolare, il grado di autonomia e di indipendenza di ciascuna divisione sarà maggiore
quanto più:
- le divisioni non competono tra loro per l'acquisizione di risorse scarse;
- le divisioni non competono sugli stessi mercati di sbocco;
- le divisioni non attivano tra loro trasferimenti di prodotti intermedi per l’approvvigionamento
e lo sbocco delle proprie produzioni;
- le divisioni possono massimizzare i propri obiettivi e quelli aziendali senza essere
influenzate dagli obiettivi
delle altre divisioni.
In concreto le divisioni sono sempre caratterizzate da relazioni di interdipendenza: emerge
comunque la necessità di meccanismi di parziale accentramento decisionale che limitano
l’autonomia verticale (ruolo di collante delle staff centrali).
Abbiamo poi analizzato i compiti spettanti all'Alta Direzione (Direzione Generale o Consiglio
di Amministrazione e livello "Corporate"), quelli spettanti alle divisioni (ai capi-divisione) e
quelli relativi alle funzioni di staff centralizzate.
L'assetto multi-divisionale si basa su sistemi operativi del tutto peculiari, quali:
- l'omogeneità delle procedure, in specie amministrativo-contabili, applicate alle divisioni
(rilevazioni uniformi consentono il confronto);
- la pianificazione e la programmazione centralizzata dell’attività delle divisioni;
- la responsabilità e il controllo (ROI; market share);
- la determinazione dei prezzi di trasferimento (quando l’output di una divisione è l’input di
un’altra);
- il sistema di ricompense e la sua uniformità a livello di divisioni (rewarding)
In altri termini:
- l'Alta Direzione assume il controllo delle risorse finanziarie;
- le funzioni hanno il controllo delle competenze specialistiche;
- le divisioni hanno il controllo del business.
Infine, si sono evidenziati vantaggi e svantaggi dell'assetto divisionale. Tra i principali
vantaggi abbiamo sottolineato:
- la maggiore focalizzazione su prodotti/mercati/tecnologie;
- la riduzione del rischio operativo (prestazioni non soddisfacenti sono "contenute" a livello di
divisione);
- la maggiore evidenza delle responsabilità dei risultati e la conseguente facilitazione del
processo di controllo;
- il maggiore orientamento all’output e ai risultati;
- il maggiore orientamento strategico (lungo termine) del vertice, liberato da compiti
operativo/gestionali;
- la capacità di addestrare e sviluppare general manager;
- la possibilità di conciliare economie di scala, dovute alla centralizzazione di processi e
servizi comuni a tutte le divisioni (gestione finanziaria, R&D, servizi legali, acquisti) e
economie di specializzazione (sul business);
- la possibilità di creare nuove divisioni ad hoc preposte alla gestione di nuovi
prodotti/servizi;
- la possibilità di eliminare prodotti non redditizi, senza causare eccessivi scompensi
strutturali;
- la facilitazione nell’acquisizione dei finanziamenti, nel caso in cui le divisioni avessero
anche autonomia giuridica (assetto organizzativo di tipo "Holding").
Quanto agli svantaggi, i principali sono:
- maggiori costi di struttura e delle informazioni da gestire;
- perdita di economie di scala e sub-ottimizzazione delle risorse per effetto della
duplicazione degli organi o di differenti carichi di lavoro tra le divisioni;
- potenziali conflitti tra Headquarter e divisioni sul livello di decentramento dei servizi (spinta
delle divisioni alla massima autonomia);
- problemi di coordinamento e integrazione all’aumentare della differenziazione tra divisioni,
con particolare riguardo al trasferimento/rotazione risorse, alla sovrapposizione su
mercati/clienti, alla "not invented here syndrome" (procedure non trasferibili);
- concorrenzialità e rivalità tra le divisioni per l’acquisizione di risorse scarse, che inducono
comportamenti competitivi (es.: ritenzione e mancata condivisione di informazioni
significative all’interno della divisione).
Si è infine ricordato che, data la complessità gestionale e la complessità organizzativa,
l'assetto multi-divisionale è adatto per imprese di grandi dimensioni, complesse sotto il
profilo della molteplicità di linee di prodotto / mercati e delle tecnologie, in genere operanti a
livello globale.
Per ulteriori approfondimenti, si rinvia al testo a cura di F. Isotta.
Lezione dell'11 dicembre
Oggetto della lezione odierna è l'organizzazione a matrice. Si tratta di un assetto
organizzativo estremamente complesso (e costoso) e, per tale ragione, adatto solo ad
imprese (di grandi dimensioni e di elevata complessità tecnico-tecnologica) operanti in
settori particolarmente turbolenti ed incerti, quali l'aereospaziale, la microelettronica, servizi
professionali globali, ecc.).
L'organizzazione a matrice sovverte alcuni principi "classici" dell'organizzazione, come
l'unicità del comando, le linee di riporto solo verticali, ecc.) ed è principalmente mirata a
gestire simultaneamente più dimensioni: lo sviluppo delle competenze professionali, le
economie di scala e di scopo, ampie famiglie di prodotti, mercati globali e portafogli
tecnologici complessi. Pertanto, può essere considerata come un'evoluzione delle
precedenti forme organizzative per progetti e per divisioni.
Sono state analizzate le principali caratteristiche dei ruoli fondamentali di questa forma
organizzativa: il top management (alta direzione), i responsabili di funzione, i responsabili di
progetto/divisione/mercati/tecnologie (la struttura a matrice può dunque essere basata su più
dimensioni, tanto da risultare di difficile rappresentazione attraverso un semplice
organigramma), i cosiddetti "two-boss-manager" (figure professionali di integrazione operanti
all'intersezione delle diverse dimensioni della matrice).
Avendo, inoltre, considerato le caratteristiche che rendono efficace l'impiego di questa forma
organizzativa, si sono infine evidenziati i principali vantaggi e svantaggi connessi al suo
utilizzo.
L'analisi della forma organizzativa a matrice chiude la parte della progettazione dedicata alle
forme cosiddette "tradizionali".
Per approfondimenti, si rinvia al capitolo 8 del testo a cura di F. Isotta.

Lezione del 14 dicembre


Le ultime lezioni, a partire da quella di oggi, sono dedicate alla progettazione dei confini
organizzativi, ossia alle decisioni che riguardano il posizionamento dei confini
dell’organizzazione rispetto all’ambiente di riferimento in cui opera l’azienda (dimensione in
precedenza definita “meta-organizzativa”). Si tratta di un ambito progettuale sviluppatosi in
concomitanza dei rilevanti cambiamenti (tecnologici, geopolitici, informativi, economici,
sociali ecc.) che hanno impresso al sistema capitalistico un rilevante cambiamento a partire
dalla seconda metà degli anni settanta del secolo scorso.
Aspetti quali il decentramento produttivo (ossia l’esternalizzazione o outsourcing di attività,
fasi ed interi processi), l’esigenza di appiattimento delle strutture organizzative al fine di
riguadagnare margini di flessibilità ai fini dell’adattamento alle mutate condizioni ambientali,
l’avvio dei processi di globalizzazione, ecc., hanno indirizzato gli studiosi dell’organizzazione
a porsi domande quali: a) in base a quali elementi si decide che certe attività/processi siano
svolti entro i confini aziendali o siano affidati all’esterno (al mercato, cioè rivolgendosi a
fornitori esterni)?; b) quali conseguenze ha l’esternalizzazione, quale tipo di relazioni si
stabiliscono con l’esterno?; c) una volta decisa l’esternalizzazione, in quale modo dobbiamo
gestire le relazioni con gli attori esterni?
I driver del posizionamento strategico dei confini organizzativi si focalizzano su fattori di
natura strategica (analisi della catena del valore a livello settoriale e scelta degli “anelli” della
catena da occupare), sulle scelte “make-or-buy”, che richiedono un’analisi costi-benefici che
considera i costi di produzione (da comparare con i prezzi pagati a fornitori esterni) e su una
categoria di costi spesso trascurata, i costi di transazione. Questi ultimi sono stati definiti
dai principali esponenti della Teoria dei Costi di Transazione (Coase, Williamson) come i
costi d’uso del mercato, rappresentati dai costi di ricerca (della controparte con cui
instaurare relazioni di scambio), costi di negoziazione, costi di controllo e di
implementazione dell’accordo, costi per la tutela dei propri diritti in caso di controversia con
la controparte e costi dell’eventuale perdita di know-how in caso di esternalizzazione.
L’ampiezza di tali costi determina un fallimento del mercato ed il blocco delle transazioni. A
fronte di tale fallimento, l’”organizzazione” (l’ente gerarchico) può essere in grado di
garantire che transazioni inattuate a causa del fallimento del mercato possano aver luogo se
ricondotte all’interno dei confini organizzativi (l’organizzazione, in questi casi, rappresenta un
meccanismo di coordinamento degli scambi che garantisce una maggiore efficacia ed
efficienza rispetto al mercato).
I costi di transazione hanno origine dalla combinazione di quattro fattori “scatenanti”: la
razionalità limitata, l’opportunismo, l’incertezza e l’ambiguità ambientale, il numero dei
fornitori da cui è possibile “acquistare” un’attività/processo (beni e servizi). La loro entità,
inoltre, dipende dalla frequenza degli scambi (nel caso di esternalizzazione), dalla
complessità dell’oggetto negoziato e dalla presenza di investimenti specifici di transazione.
All’aumentare del livello di questi elementi, i costi di transazione aumentano e, pertanto,
l’internalizzazione risulta maggiormente efficace.
La Teoria dei Costi di Transazione e il tema della progettazione dei confini organizzativi
devono essere approfondite nella seconda parte del Capitolo 2 del testo a cura di F. Isotta

Lezione del 15 dicembre


La Teoria dei Costi di Transazione prevedeva, originariamente, che le relazioni di scambio
potessero determinarsi o attraverso l’utilizzo del mercato o attraverso i meccanismi
gerarchico-normativi delle organizzazioni.
In realtà, questi due meccanismi di coordinamento delle relazioni economiche
rappresentano due estremi di un continuum, all’interno del quale è possibile individuare altre
modalità/meccanismi di regolazione degli scambi e delle relazioni, in relazione al livello
assunto dai costi di transazione.
In effetti, se si utilizza il meccanismo del ricorso al mercato, non è detto che ad alcuni
incrementi dei costi di transazione si determini automaticamente l’utilizzo della gerarchia
(internalizzazione). Attraverso alcuni accorgimenti, il mercato può ancora continuare a
rappresentare il meccanismo dominante, evitando in questo modo all’impresa di
“appesantire” i costi di struttura attraverso l’internalizzazione di processi e attività.
Tra i principali “accorgimenti” sono stati individuati quelli denominati “mercato-B” e
“mercato-C”. Nel caso del “mercato-B” (dove “B” sta per
Burocrazia/Gerarchia/Organizzazione), la possibilità di continuare ad operare attraverso
transazioni esterne o di mercato, quest’ultimo viene supportato da alcuni meccanismi tipici
dell’Organizzazione, quali il ricorso ad arbitri per dirimere una controversia o un conflitto
(meccanismo simile a quello del ricorso all’autorità in caso di conflitto tra “parti” interne
all’organizzazione), o le ispezioni e i controlli (idem), o la condivisione e la messa in comune
con gli attori esterni di sistemi informativi. Nel caso del “mercato-C” (dove “C” sta per Clan),
il mercato è assistito da meccanismi tipici del “clan”, appunto, quali la condivisione di valori
comuni, la fiducia basata sulla conoscenza reciproca e sulle esperienze passate, il controllo
sociale).
Nell’intervallo tra mercato e gerarchia, dunque, sono diverse le formule organizzative che
possono essere progettate per la più efficace ed efficiente gestione delle relazioni con attori
esterni: il franchising, i consorzi, le joint venture, le partnership, il licensing ecc.. Attraverso
queste configurazioni, il fattore di progettazione primario si basa sul concetto di “rete” (rete
“esterna”) una caratteristica che, come vedremo nelle ultime due lezioni, accomuna tutte le
nuove forme organizzative.
La Teoria dei Costi di Transazione e il tema della progettazione dei confini organizzativi
devono essere approfondite nella seconda parte del Capitolo 2 del testo a cura di F. Isotta.
Nello stesso testo, per la progettazione della rete esterna occorre far riferimento al Capitolo
9

Lezione del 21 dicembre


Oggetto dell'ultima lezione del Corso è la forma reticolare, denominata anche N-Form. Non
si tratta di una vera e propria "forma" organizzativa, quanto di un approccio alla
progettazione organizzativa comune oggi a tutte le imprese che, operando in contasti
estremamente turbolenti e ad alta intensità di conoscenza, tecnologica e di capitale,
necessitano di guadagnare consistenti margini di flessibilità operativa e di contenimento del
rischio dovuto agli ingenti investimenti in attività di ricerca e sviluppo.
La nuova divisione del lavoro a livello internazionale, dovuta all'intensificarsi dell'innovazione
tecnologica soprattutto nel campo dell'ICT e della digitalizzazione, ha favorito lo sviluppo di
modelli organizzativi che, all'interno, danno vita ad un contesto organizzativo centrato sulla
costituzione di moduli, cellule, team agili trasversali finalizzati all'abbattimento delle barriere
orizzontali e verticali che impediscono alla conoscenza generata internamente di fluire in
maniera efficace ed efficiente lungo tutti i nodi della rete sociale. Ne deriva un approccio
reticolare in cui la valorizzazione delle competenze e delle conoscenze generate dalle
Risorse Umane avviene attraverso una rappresentazione grafica tipica delle reti sociali
(grafi, appunto), piuttosto che basarsi sulla rappresentazione attraverso gli organigrammi.
All'esterno, invece, l'approccio N-Form determina la formazione di ecosistemi di fornitura, di
produzione, di innovazione e di commercializzazione in cui assume importanza il
"posizionamento" dell'impresa "focale" ed il ruolo che essa svolge all'interno del complesso
reticolo di relazioni con tutte le entità (fornitori, clienti, finanziatori, centri di ricerca,
Università, ecc.) operanti nell'ambiente transazionale.
La N-Form, dunque, si caratterizza per la presenza di una "doppia rete" (interna ed esterna)
sostanzialmente speculare, in quanto fondata e basata sull'utilizzo di un mix di meccanismi
di coordinamento che chiamano in gioco elementi del mercato, della gerarchia, dei clan
(fiducia, controllo sociale, aderenza agli stessi valori condivisi). Della N-Form si sono
descritte le caratteristiche, vantaggi e svantaggi rispetto alle forme organizzative tradizionali,
rispetto alle esigenze del mutato contesto economico. politico, tecnologico, sociale e
culturale.
Per approfondimenti si rinvia ai Capitoli 8 e 9 del testo a cura di Franco Isotta.

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