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Lezione n° 2 – 5 marzo 2021

Il professore chiede se ci sono domande.


Domanda 1: riguardo il “processo costitutivo=realtà” lei ha solo accennato alla questione?
Risposta: Si. Ho detto scrivete processo costitutivo nel senso che intendevo dire che ciò che noi
intendiamo per realtà e in particolare per quanto ci riguarda la realtà storico-sociale (utilizzo di
proposito i due termini insieme, nel titolo del corso di parla di saperi sociali, avrei messo saperi
storico-sociali). La realtà storico-sociale viene troppo spesso intesa (a partire da una certa
concezione della realtà) in termini che sono dati fenomenici, poiché noi non possiamo che
appropriarci della realtà, in termini conoscitivi, attraverso delle categorie astratte che sono i
concetti. I termini che utilizziamo (non parlo solo di scienze storico-sociali, ma anche nella nostra
vita quotidiana) sono concetti, sono dei termini che noi riteniamo che siano in grado di fermare
qualche aspetto significativo della realtà in cui si riferiscono. Quella realtà rispetto alla quale
mostriamo curiosità (un bisogno come elemento che motiva il processo di conoscenza). Nel
formulare concetti, inevitabilmente operiamo un processo di reificazione. Il concetto astratto, che
lo vogliamo o meno, opera in termini di reificazione ferma, rende solida una realtà che invece
secondo il prof. va intesa in termini continuamente processuali.
Non possiamo che parlare attraverso concetti, categorie astratte che portano con sé la conseguenza
della reificazione, dunque attenzione a non dimenticare mai questa cosa. Se c’è una cosa che si
chiama realtà, non è una realtà OGGETTIVA, che si presta essere fermata in termini reificati dalle
categorie che utilizziamo, ma è una realtà IN CONTINUO DIVENIRE, continuamente in
movimento, processuale e tuttavia non in movimento senza una logica che sia identificabile.
Il processo è costitutivo di qualcosa che possiamo (nonostante una serie di prospettive teorico-
intellettuali soprattutto degli ultimi quarant’anni) cogliere ancora in termini di sistema, cioè le
azioni umane ripetute nel tempo finiscono con lo strutturare qualcosa che non opera in termini
casuali ma spinge gli individui/soggetti agenti a operare secondo determinate logiche, cioè si
sottopone a delle pressioni.
Noi non siamo completamente liberi di agire in un qualsiasi modo, quantomeno siamo di fatto
sottoposti ad un insieme di strutture normative (da quelle che definiamo giuridiche a quelle che
abbiamo interiorizzato sottoforma di sistema di norme e valori) che ci spingono ad agire in
determinate direzioni invece che in altre. Possiamo scegliere entro quali limiti e verso quale
direzione spingere il nostro agire e tuttavia siamo consapevoli del fatto che agire in un determinato
modo può produrre determinate conseguenze e agire in un altro modo produrrà altre conseguenze e
se vogliamo raggiungere un determinato obiettivo dobbiamo agire in un certo modo.
Domanda 2: Riguardo i saperi sociali, possono creare una sorta di memoria per organizzare?
Risposta professore: Perché parli di memoria?
Risposta studente: perché ieri parlando dei saperi sociali una collega fece un intervento e chiese se
questi saperi finissero per dare poi spazio ad altri saperi, quindi mi è venuto in mente se potessero
essere organizzati tutti insieme per creare una sorta di memoria.
Risposta professore: Intendiamo cose simili. Uno dei grandi problemi della comunicazione è quella
di mettersi d’accordo sul significato delle parole che si utilizzano e per altro c’è chi sostiene che si
continua a parlare solo perché c’è un malinteso sul significato dei termini che si utilizzano e quando
poi si capisce tutto forse si smette di parlare. Non uso il termine memoria ma quello che si vuol dire
è che i saperi nel loro insieme anch’essi strutturati, sono un aspetto decisivo nel determinare quali
sono le modalità di azione che individualmente o collettivamente noi riteniamo quando vogliamo
agire nel mondo, legittime, efficaci rispetto ad un obiettivo, o al contrario, da scartare per una serie
di ragioni. Se questo è quello che si intende per memoria, sì, altrimenti ti chiederei di dirmi cosa
intendi per memoria.
I saperi ricostruiscono una storia di sé, ogni collettività ha bisogno di raccontarsi una storia di
quello che quella collettività è, e dunque opera proiettandosi nel passato. Qui parliamo di processi
di costruzione dell’identità. Un gruppo umano e una collettività più o meno ampia, ha necessità se si
vuole proporre come soggetto collettivo nell’agire all’interno del sistema storico-sociale nel quale
opera, ha bisogno di legittimarsi, di mostrare in qualche modo di esistere. Nessun gruppo così come
lo conosciamo è auto evidente, nessun popolo è dato inequivocabilmente dalla storia, casomai entità
di gruppo: dal popolo, la nazione, la classe, l’etnia, il sesso, una particolare sessualità. Non c’è nulla
che sia definito univocamente dalla storia.
Ogni identità si costruisce e ricostruisce costantemente e nel far questo il processo di costruzione di
questa identità passa attraverso la auto-attribuzione di una serie di caratteristiche, di tratti, qualità e
peculiarità che una collettività attribuisce a sé stessa e attraverso un’opera di ricostruzione della
propria storia nel passato, perché avere una storia è un elemento fondamentale per dare legittimità
alla propria esistenza nel presente. È la ragione per la quale noi a scuola studiamo la storia
dell’Italia, in cui oltretutto l’Italia non viene fatta risalire all’Unità d’Italia ma ci si immagina che
questa comunità (come l’ha definita qualcuno immaginaria o immaginata, faccio riferimento al libro
di Benedict Anderson che si chiama Comunità immaginate) e comunque ha tutte una serie di
riflessioni storiografiche sull’invenzione dei popoli, sull’invenzione della tradizione in cui si
sottolinea appunto come e se ne sottolinea anche il carattere storicamente contingente, infondato e
arbitrario della costruzione, dell’identità e della storia di un popolo. Adesso devo affermare che
questa cosa che chiamo Italia affonda le proprie radici storiche nell’esistenza di un popolo
caratterizzato da una serie di cose (tra cui la lingua) che affonda le proprie radici in tempi che più
antichi sono meglio è. Perché più è lunga la storia di questo popolo, che finalmente riesce a
esprimersi nell’organizzazione collettiva (in questo caso statuale), tanto maggiore è la sua
legittimità ad esistere. Tutto questo è naturalmente contingente, cambia continuamente e quindi in
questo senso “memoria”, per rispondere alla domanda sulla memoria.
Domanda 3: Quando parliamo di processo costitutivo, lei ha detto che il processo è qualcosa che
possiamo cogliere ancora in termini di sistema e che è in continuo movimento e che non opera in
termini casuali ma sottopone a delle pressioni. In questo senso, per fare un quadro più chiaro,
potremmo esemplificare questo concetto facendo riferimento al capitalismo? Cioè il capitalismo è
un processo costitutivo quindi?
Risposta: Sì. Naturalmente è lì che vi avrei portato necessariamente, perché oggi dobbiamo parlare
di che cos’è questo sistema mondo. Il discorso sul processo costitutivo è un discorso generale.
Quando io mi pongo ad analizzare la realtà storico-sociale devo in primo luogo avere un
atteggiamento epistemologico, una mia idea su come questa cosa che chiamiamo realtà possa essere
conosciuta e in primo luogo di come la intendo. Il termine processo-costitutivo dà una risposta a
questa domanda in termini astratti. Intendo questa cosa che chiamo realtà storico-sociale
enfatizzando la sua dimensione processuale, quindi dinamica e però al tempo stesso costitutivo, non
devo dimenticare che non devo cedere alla logica del cambiamento e basta. Dal punto di vista del
modo in cui siamo formati intellettualmente sin dalle elementari, c’è questa tra le tante opposizioni
alle quali siamo esposti: quella tra sincronico e diacronico. Non sono dimensioni separabili. Questa
cosa che chiamiamo realtà e che vogliamo conoscere, c’è una dimensione storica, dunque di
cambiamento, e c’è una dimensione sistemica di continuità, mentre la prima ci richiede
un’attenzione alle dinamiche di mutamento, la seconda ci permette di fissare il nostro sguardo su
ciò che è costante o relativamente costante e che si presta essere reso in termini anche sistemici. I
sistemi e i saperi sono di un sistema mondo nel titolo del nostro corso.
Il sistema mondo: il riferimento necessario (perché anche in termini di esplicitazione delle premesse
dalle quali io mi baso) è la riflessione di un formalmente sociologo che è Immanuel Wallerstein è
un autore contemporaneo che è morto un anno e mezzo fa, e che appartiene agli anni ’70, elabora
una prospettiva di analisi a cui lui diede il nome di analisi dei sistemi-mondo. Sistema-mondo, non
è necessariamente il sistema mondiale, ossia come se fosse scritto senza il trattino, ma world system
due parole separate da uno spazio sono traducibili in italiano come sistema mondiale cioè il sistema
del mondo che abitiamo. World-system, unico termine in cui due singoli lemmi vengono uniti da un
trattino vuol dire sistema che è un mondo in sé e che storicamente non deve coincidere
necessariamente con i confini del mondo. Nell’elaborare questa prospettiva di sistemi-mondo, il
problema che veniva posto, a cui si cercava di dare un problema teorico, ma che naturalmente non
era semplicemente un problema teorico, perché parliamo comunque nello specifico di una
riflessione come quella di Wallerstein, ma questo vale a prescindere dalla consapevolezza che ogni
sapere (mettiamola in termine politico) e che quindi anche che i concetti sono concetti che hanno
una carica politica, che i metodi utilizzati sono metodi passibili di una analisi in termini di
conseguenze politiche, e qui uso il termine politiche in termini weberiani (politico perché ha a che
fare con la distribuzione del potere).
I saperi che non sono solo rispecchiamento ma sono elemento di creazione e azione nel mondo. Il
problema che Wallerstein si poneva era l’adeguatezza teorico, metodologica, epistemologica della
unità di analisi che le scienze storico-sociali in tutte le loro declinazioni disciplinari adottavano.
Unità di analisi è lo spazio significativo all’interno del quale riteniamo che avvenga l’agire sociale.
Qui parliamo di spazio geografico. Sostanzialmente se io intendo comprendere o spiegare (a
seconda delle mie preferenze filosofiche) l’agire di determinati soggetti agenti all’interno della mia
analisi nel comprendere o nello spiegare il loro agire, a quale spazio devo fare riferimento per
comprendere perché hanno agito in quel modo?
Esempio 1: un imprenditore capitalista che opera all’interno di un sistema capitalistico, nel
comprendere quali sono le sue strategie imprenditoriali, a quale spazio geografico devo guardare
per avere uno sguardo utile a comprendere le scelte che fa?
Esempio 2: la formazione di una qualsiasi istituzione statuale, economica, o dei gruppi politici che
si muovono in diversi contesti, per comprenderne formazione, significato, senso del loro agire, a
quale spazio devo far riferimento? All’interno di quale spazio quelle istituzioni sono state create? O
meglio all’interno di quale spazio i soggetti agenti che hanno creato quelle istituzioni di fatto
operavano?
Quello di cui si occupava Wallerstein quando forma questa prospettiva era l’analisi del
cambiamento su larga scala e di lungo periodo. Queste considerazioni relative allo spazio rilevante
per l’analisi si pongono anche a livelli molto individuali. Non è la prima volta che racconto quando
un bel po’ di anni fa mi trovai a leggere un libro sugli orientamenti relazionali in psicoanalisi, trovai
una citazione di Braudel che è uno storico francese, e il problema dell’unità di analisi era stato colto
da Braudel che cominciò a parlare di economie-monde, economia mondo del mediterraneo. Ebbene
come epigrafe a questo libro di psicoanalisi c’era Braudel che sottolineava la rilevanza dello spazio
significativo per lo studio dell’agire sociale o dell’analisi dei processi storici. In buona sostanza si
traduceva nel fatto che anche in termini di psicoanalisi non era adeguato avere a che fare
semplicemente con colui che aveva avuto il coraggio, aveva sentito la necessità di andare da uno
psicoanalista ed esporsi a questa impietosa analisi di sé stessi. Perché non era unità di analisi
significativa il singolo soggetto che andava lì, ma dov’era cresciuto, quali erano le relazioni
significative che era necessario comprendere per capire i problemi che aveva in quel momento.
Domanda: Quindi stiamo dicendo che per comprendere l’agire sociale lo devo contestualizzare?
Risposta: certo. In primo luogo, mi devo porre la domanda: quella porzione di processo costitutivo
rispetto alla quale io sto rivolgendo la mia attenzione, voglio studiare la Gran Bretagna del 700/800
o l’Italia dei primi anni 2000, o la zona orientale di Napoli, qualsiasi cosa.
Intervento: Fremont parla di spazio vissuto.
Quale che sia lo spazio occupato dal fenomeno/ porzione di processo costitutivo che vado ad
analizzare, perché posso analizzare su qualcosa che avviene in un determinato luogo circoscritto, in
un determinato tempo, che posso a sua volta circoscrivere in termini di una durata più o meno
ampia. Non è probabilmente sufficiente rivolgere la nostra attenzione a quello spazio e a quel tempo
così come li avevamo definiti nel definire il nostro oggetto di indagine, il nostro problema di
ricerca. Devo fare uno sforzo di comprendere qual è la rete di relazioni e di connessioni (perché se
non ci fossero quelle connessioni le cose sarebbero diverse) che costituiscono nel loro articolarsi
tutte queste connessioni e lo spazio occupato da queste connessioni costituisce lo spazio
significativo al quale devo essere pronto a fare riferimento per comprendere quel fenomeno/
porzione di processo costitutivo che circoscritto nello spazio e nel tempo e che è all’origine della
mia ricerca/problema.
Il problema qual era? Parliamo di fine anni ’60, inizio anni ’70, questa unità di analisi, questo
spazio significativo al quale gli scienziati storico-sociali facevano abitualmente riferimento, era lo
Stato-Nazione, gli stati nazionali.
Intervento: Volevo sottolineare un aspetto e semplificare quanto detto. Se per esempio prendiamo il
commerciante di quartiere, il suo spazio relazionale magari è circoscritto al quartiere e la scala
cambia quando poi andiamo ad analizzare invece quelli che fanno gli importatori di merci che
vengono da altre zone. Si può semplificare l’esempio che ha fatto lei prima introducendo l’elemento
della scala, che è un elemento che Braudel mi sembra evidenziasse e che in qualche modo a seconda
della scala in cui osserviamo un fenomeno, emergono queste connessioni che si articolano intorno
ad un determinato fenomeno e ne costituiscono di fatto il processo.
Il problema delle scienze storico-sociali di fine anni ’60, inizio anni ’70 è che l’unità di analisi era
lo stato-nazione, quindi i confini degli stati nazionali, i confini politici, delimitavano qual era lo
spazio al quale sociologi, economistici, storici, erano tenuti a guardare per dare risposte adeguate
alle loro domande di ricerca che esprimevano il bisogno organizzativo di una collettività.
In altri termini, se avessi fatto lo scienziato politico, mi sarei dovuto occupare dello stato (secondo
la divisione disciplinare) e mi occupavo dello stato nazionale. Se avessi fatto il sociologo, mi sarei
occupato della cultura e mi occupavo di una cultura nazionale. Se avessi fatto l’economista mi sarei
occupato del mercato, del mercato nazionale. Se avessi fatto lo storico (come si faceva per lo più
per lungo tempo, a partire dall’Ottocento) facevo la storia della nazione, ancor meglio della mia
nazione, e la facevano assumendo che l’emergere, le caratteristiche che ho assunto, le dinamiche di
funzionamento dello stato da parte dello scienziato politico, potessero essere comprese di fatto
come riferimento a fenomeni/processi in termini di quello stato. Lo stesso dicasi per l’economista, il
sociologo e per lo storico. Lo stato nazione era l’unità di analisi ritenuta di fatto autonoma,
indipendente, passibile di analisi di per sé.
L’analisi dei sistemi-mondo fa parte di una riflessione più ampia che critica questo atteggiamento
metodologico, che viene definito successivamente nazionalismo metodologico, o secondo un
termine più o meno equivalente, fa riferimento a quello che ho appena detto di stato-centrismo. Dal
punto di vista metodologico lo spazio di riferimento è quella parte della superficie terrestre interna
ai confini politici di un determinato stato nazionale.
Queste analisi di fine anni ‘60, inizio anni ‘70, si confrontavano con uno dei grandi problemi dei
decenni successivi, alla fine della guerra dei Trent’anni della prima metà del Novecento, della
Prima e Seconda guerra mondiale come le conosciamo, ossia il problema dello sviluppo o
sottosviluppo (sviluppo di alcuni, sottosviluppo di altri stati nazionali). In buona sostanza le scienze
storico-sociali a partire dall’Ottocento avevano veicolato un’immagine del cambiamento storico che
laddove avveniva, avveniva secondo un processo di tipo progressivo che avveniva a livello di ogni
singolo stato nazionale e che aveva portato o non aveva ancora portato e che magari avrebbe portato
in futuro ciascuno stato nazionale da una condizione tradizionale a una condizione moderna.
Tradizione/modernità è una delle grandi dicotomie del pensiero Otto-novecentesco. Ci sono realtà
moderne e realtà tradizionali.
Le realtà tradizionali sono, oltre che tradizionali, definite come arretrate, perché sono arretrate
secondo questa visione della storia, lungo un percorso di cambiamento di tipo progressivo che
potrebbe portarle ad una condizione moderna in quanto post-tradizionale o avanzata in quanto post
ad arretrata. Si tratta di modi diversi di formulare la dicotomia, per indicare anche il punto di
partenza e di arrivo di una progressione storica. In termini storiografici, di passaggio dal
feudalesimo al capitalismo.
Le scienze sociali negli anni ’50 e ’60 del Novecento, ragionavano sulla base dell’assunto dello
stato nazione comunità di analisi, e sull’assunto che ciascuno stato nazionale era il protagonista dei
processi di cambiamento e che dunque fosse utile e sufficiente analizzare la storia, il passato il
presente e utilizzare il futuro di ogni singolo stato nazionale. Molte domande erano incentrate sul
perché qualche paese fosse più moderno, avanzato, più sviluppato o se volete capitalistico, mentre
altri paesi arretrati, tradizionali, sottosviluppati secondo alcuni feudali o comunque precapitalistici.
Attraverso la messa in discussione dell’unità di analisi si esprime una contestazione di questo intero
quadro interpretativo, di questa intera grande narrazione che viene considerata come riconducibile
al punto di vista di alcuni dei gruppi che avevano vissuto sulla terra negli ultimi secoli, ossia da
alcuni paesi occidentali, per le scienze sociali così come le abbiamo conosciute a partire
dall’Ottocento, per come sono state diffuse le scienze sociali in termini accademici (quelle che
occupavano un ruolo di primato nella gerarchia dei saperi nell’occidente ma non solo
nell’occidente) erano un prodotto di fatto di alcuni paesi, essenzialmente non più di 5 nel modo in
cui si sono imposte: Gran Bretagna, Francia, Germania, Stati Uniti e ci possiamo aggiungere l’Italia
(sebbene l’Italia viene sempre aggiunta che non si capisce mai se ci sta a pieno titolo in un contesto
del genere o meno) e che si riteneva che portassero con sé in quanto risposta al bisogno
organizzativo essenzialmente di queste collettività che in primo luogo erano state protagoniste di
questi saperi che oramai erano diventati scientifico-sociali, che avevano trovato ospitalità nelle
università, concorsi di laurea, cattedre, riviste, e così via, per questi saperi fossero di fatto una
visione che era una risposta ai bisogni organizzativi dei paesi che abbiamo nominato (che erano i
paesi più ricchi di questo sistema), ma che come accade con tutti i saperi ricevono qualcosa di
plausibile e forse anche utile e però come tutti i saperi in quanto saperi parziali, nascondevano cose
rilevantissime per comprendere le questioni di cui si stava discutendo, in primo luogo le ragioni per
le quali alcune parti del mondo fossero più ricche o molto più povere.
Il modo in cui questi aspetti nascosti di questa narrazione veicolata dalle scienze storico-sociali di
matrice occidentale, il lato oscuro di questa narrazione è che nascondeva appunto attraverso la sua
enfasi metodologica sullo stato-nazione, creazione Sette-ottocentesca (almeno la sua diffusione non
è più recente dell’Ottocento su scala diffusa prima europea, dapprima occidentale e poi che si è
tentato di imporre su scala mondiale) quest’enfasi sullo stato-nazione nascondeva delle connessioni
storiche significative anche di lungo periodo, che rispetto ai termini appunto che erano oggetto del
dibattito del secondo dopoguerra, risalivano senza dubbio al Cinquecento e ai processi che
conosciamo di espansione geografiche, alla scoperta dell’America.

La critica colta dal punto di vista metodologico era relativa allo spazio significativo che gli
scienziati storico sociali prendevano in considerazione nell’analizzare i processi di cambiamento
storico di queste diverse realtà nazionali, sulla base di questa separazione dell’antropologo di
Johannes Fabian chiamava distanziamento spazio-temporale, ossia di allontanare ciò che le
scienze storico-sociali facevano, ossia allontanare parte del mondo (il mondo della tradizione,
dell’arretratezza, del sottosviluppo, codici dell’Ottocento-Novecento), di allontanare
dall’Occidente, una parte del mondo che in realtà era connessa, era stata storicamente connessa
all’Occidente moderno avanzato, sviluppato, capitalistico. Urgeva cogliere queste connessioni, cioè
andare oltre questo distanziamento spazio-temporale.
Il concetto di sistema-mondo cercava di ovviare a questa separazione spazio-temporale di cui le
scienze storico sociali si erano fatte protagoniste. Uno degli studiosi, protagonisti di questa opera di
ripensamento delle categorie del mondo storico-sociale, Andre Gunder Frank, (il grande
problema del dopoguerra era lo sviluppo e sottosviluppo, intese come condizioni dei singoli stati
nazionali riconducibili a dinamiche interne ai singoli stati nazionali) disse che sviluppo e
sottosviluppo non sono realtà separate, sono le due facce della stessa medaglia. Secondo Frank,
quello che viene chiamato sottosviluppo, cioè la povertà di alcune parti del mondo significative, non
è da ricondurre a caratteristiche interne a questi paesi, al fatto che non posseggono alcuni dei tratti
che sono stati patrimonio delle culture (intese in senso lato) di alcuni paesi occidentali, che grazie a
questi loro aspetti peculiari (perché erano più razionali, più universalistici, perché hanno
organizzato la propria vita economica attraverso il mercato invece che attraverso altre forme della
produzione degli scambi, diverse dal mercato, o perché non hanno ancora capito che lo stato
nazionale è la forma più avanzata dell’organizzazione politica, le democrazie soprattutto), non è
dovuto a questo, non è che questi popoli non hanno avuto quello che altri hanno avuto e che ha
permesso loro di diventare moderni e avanzati. Le ragioni dello sviluppo di parte del mondo e del
sottosviluppo dell’altra parte del mondo è l’esito degli stessi processi storici: sono i processi
storici che sin dal XVI secolo hanno messo in connessione queste connessioni storiche che hanno
caratterizzato l’espansione del capitalismo, tendenzialmente su scala mondiale, e dal momento che
il capitalismo è questa dinamica, logica è inevitabilmente gerarchizzante, ha finito col produrre al
tempo stesso sviluppo e sottosviluppo. Per comprendere il sottosviluppo latinoamericano bisogna
guardare le connessioni storicamente esistite sin dal Cinquecento tra America Latina e altre parti del
mondo, Europa in primis. Al tempo stesso, per comprendere lo sviluppo dei paesi più ricchi, non si
può non tenere in conto queste stesse connessioni. Ricchezza e povertà erano i due esiti ineludibili
del funzionamento di un sistema la cui estensione dello spazio era stata da secoli ben più ampia di
quella dei confini politici in un qualsiasi stato nazionale che, come abbiamo visto, era l’unità di
analisi delle scienze storico-sociali.
L’analisi del sistema-mondo si inserisce a questo e pone come suo primo punto la
problematizzazione del tempo e dello spazio rilevanti. Le unità di analisi appropriate non erano
più gli stati nazionali, ma quelle che Wallerstein definisce sistemi-mondo. Lo stato nazione si
prefigura così come una delle tante istituzioni che sono state create o abbandonate nel corso della
storia, come parte di processi di funzionamento di un sistema. Dal punto di vista analitico, non
aveva alcuna priorità rispetto a qualsiasi altra istituzione, cioè quello che le scienze storico-sociali
avevano fatto era dare una priorità analitica ad una istituzione tra le tante che erano state create
nella storia del mondo negli ultimi secoli. L’unità di analisi proposta è un sistema-mondo, che
non è il mondo, non è necessariamente il mondo, anche se storicamente può coincidere con il
mondo, con il sistema mondiale (e ciò è avvenuto), ma che costituisce un mondo in sé e che
quindi si presta a essere uno spazio significativo di riferimento dell’analisi storico-sociale.
I concetti che utilizziamo, queste astrazioni delle quali non possiamo non servirci per dire qualcosa,
cambiano considerevolmente se partiamo, rimanendo alla questione che stiamo affrontando, da una
prospettiva metodologica stato-centrica a una prospettiva metodologica che assume come rilevante
uno spazio più ampio, cambiano completamente.
Sempre in forma sintetica, dietro quella formula di Frank (sviluppo e sottosviluppo sono le due
facce della stessa medaglia) si nasconde, per quanto lui non ne fosse consapevole, c’è un attacco
complessivo che poi matura e si struttura nei decenni successivi contro tutte le dicotomie che erano
state proposte dalla scienza storico-sociale, a partire da quella di tradizione/modernità: se sviluppo
e sottosviluppo sono le due facce della stessa medaglia, nella misura in cui attraverso questi
concetti sto proponendo in modo diverso una versione della grande dicotomia tradizione/modernità,
modernità e tradizione sono le due facce della stessa medaglia. E così come sviluppo e
sottosviluppo vengono create insieme, tradizione e modernità vengono create insieme. Non
c’era tradizione prima della modernità. Chi viveva in quello che a partire dall’Ottocento è stato
definito come mondo tradizionale (che poteva essere la campagna dei paesi occidentali, o il mondo
altro rispetto all’occidente moderno), non si raccontava che stava vivendo in un mondo tradizionale.
Ha cominciato a raccontarsi che stava vivendo in un mondo tradizionale quando qualcun altro ha
cominciato a dire che lui viveva in un mondo tradizionale perché gli altri vivevano in un mondo
moderno. Il concetto di tradizione, come tutti i concetti è un concetto relazionale che assume
significato in relazione ad un altro termine in opposizione al quale spesso viene formulato. Questo
arriva a mettere in discussione tutto il pensiero dicotomizzante occidentale, che se vogliamo
può essere espresso in termini filosofici nel rifiuto del principio di non contraddizione, ossia del
principio del terzo escluso. A può essere al tempo stesso A e non A? noi ragioniamo come se non
fosse possibile, è una cosa al tempo stesso moderna e tradizionale, e invece una cosa può essere al
tempo stesso, se ragioniamo in termini dicotomici siamo spinti a dire, come primo passo, sì, una
cosa può essere al tempo stesso moderna e tradizionale, ma naturalmente è un passo provvisorio in
direzione del superamento della dicotomia, dell’utilità di quelle categorie espresse a partire da un
pensiero dicotomizzante.
Le implicazioni di questo le vedremo man mano che discutiamo delle singole cose.
Il sistema mondo che è lì nel titolo era il sistema mondo moderno, come viene definito da
Wallerstein. L’unità di analisi è un sistema-mondo, uno spazio più ampio rispetto a quello a cui si
era abituati a pensare. Quali sono i confini di questo sistema mondo? Non li ho, per definizione.
Non c’è più il confine dello stato a dirmi che quello è il nostro spazio. Va definito, cioè quando mi
voglio occupare di qualcosa, di una porzione di processo costitutivo, devo pormi il problema
di quale sia lo spazio significativo. Devo definire storicamente, cioè nel tempo, i confini
spaziali, geografici, del sistema-mondo. Come faccio? Ora l’opzione di Wellerstein è
un’opzione per così dire materialistica che l’ha esposto ad abbondanti critiche di economicismo.
Lui parte dal chiedersi che cos’è che costituisce uno spazio. La sua opzione è quella di guardare,
di volta in volta nel corso della storia, all’estensione geografica della divisione del lavoro.
Che cos’è la divisione del lavoro? (risposta di alcune studentesse): ognuno ha un compito ben
preciso, una catena di montaggio, forse il fordismo. Questi sono esempi di una divisione del lavoro.
Oppure Adam Smith, che nell’opera “La ricchezza delle Nazioni” c’è l’analisi sulla divisione del
lavoro interna alla fabbrica, c’era una suddivisione delle diverse fasi per cui a ciascun operaio
parziale viene assegnato un compito preciso. (Risposta professore) Una divisione del lavoro
rimanda al fatto che tra una varietà di individui, che possono essere quelli che abitano una
stessa casa (fino al mondo del suo insieme), c’è una divisione di compiti. Non è che tutti fanno le
stesse cose, ma ciascuno impiega parte del proprio tempo in termini lavorativi per produrre
qualcosa per compiere un processo produttivo più ampio, più complesso. L’attenzione è quindi
alla divisione del lavoro su ampia scala che lega tra di loro processi produttivi collocati in
diverse parti del mondo, che sono però significativamente, e dunque sistemicamente connessi.
Qui parliamo di divisione del lavoro su una scala globale più ampia, non interna alla fabbrica
o all’unità produttiva, ma tra produttori, tra unità produttive. Queste unità produttive formano
delle catene di merci, le global value chain, le catene globali del valore. Questo concetto deriva
dal concetto formulato da Wallerstein e da altri in quegli anni. Una catena di merci è l’insieme dei
processi produttivi che sono legati tra loro perché costituiscono il modo in cui viene costituito
il lavoro, cioè tutte le diverse fasi lavorative necessarie a produrre un certo bene. Si parte dal
prodotto finito e si va all’indietro, ripercorrendo a retroso tutti i passaggi che quel prodotto finito ha
dovuto percorrere quello che è alla fine quando viene messo sul mercato. A partire da un bene finito
ci sarà una divaricazione, perché nel bene finito confluiranno vari componenti che vengono
assemblati, ciascuna della quali ha utilizzato elementi della produzione, che vanno dalle materie
prime necessarie a produrlo, più la forza lavoro necessario a produrre le materie prime, più quello
che è servito a tutti i soggetti coinvolti in questo processo produttivo a sostentarsi. Quindi metto la
mappa del mondo e comincio a segnarmi dove vengono svolte le diverse fasi del processo
produttivo che concorre alla produzione di un determinato bene. Una divisione del lavoro del
sistema mondo non è composta da un’unica catena di merci, ma da tante catene di merci. La
divisione del lavoro complessiva che mi servirà per definire quali sono i confini di questo sistema
mondo, l’avrò quando avrò tracciato, nello spazio del mondo, tutte quelle catene di merci che io
reputo connesse tra di loro. Sono connesse, come parti spaziali di processi produttivi, oppure sono
connesse perché i soggetti sono parte, al tempo stesso, di più catene di merci, fosse anche come
consumatori finali.
In termini generali, dal Cinquecento, questa divisione del lavoro era fatta dall’Europa, varie parti
dell’Europa, anche parti dell’Europa orientale, parti dell’Africa costiera, dell’Africa occidentale e
centrale, dove venivano presi gli schiavi per lavorare nelle piantagioni latino americane. Quindi
abbiamo sin dall’inizio l’unità di analisi: voglio comprendere quello che succede in Europa dal
Cinquecento? Non posso farlo se non tengono conto del fatto che quella zona è inserita in un
sistema più ampio i cui sistemi geografici abbracciano parti dell’Europa, dell’Africa, etc.
L’unità di analisi è il sistema-mondo. Il sistema-mondo moderno, che vedremo è un sistema
mondo capitalistico, è un esempio di sistema storico, di sistema mondo storicamente esistito. Prima
il mondo era diviso in sistemi storici, e ha continuato ad essere diviso in sistemi storici. Secondo
Wallerstein, la forma prevalente assunta dai sistemi storici, cioè quella dominante, negli ultimi
millenni, era stata una forma di sistema storico, di sistema mondo, che lui chiama impero-mondo.
Mentre fa riferimento al sistema-mondo moderno, quello che avuto origine nel XVI secolo, come
economia-mondo. Prima del Neolitico la forma prevalente erano i mini-sistemi. Che cosa distingue
questi sistemi? Anche qui, poiché dal punto di vista fenomenico (uso intenzionalmente questo
termine) all’interno di queste ampie divisioni del lavoro che costituiscono un sistema-mondo, trovo
una varietà di espressioni di qualsiasi cosa. Se io sto ricomponendo la dicotomia tradizione-
modernità, sviluppo-sottosviluppo, che sono le due facce della stessa medaglia, vuol dire che dal
punto di vista fenomenico, io ritroverò nella vita di questo sistema, processi che assumono le
sembianze di qualcosa che io ricondurrei a modernità e di qualcosa che ricondurrei alla tradizione,
qualcosa che ricondurrei all’essere avanzato o all’essere arretrato, al capitalismo o a sistemi storici
pre-capitalistici. Non posso definire un sistema sulla base della presenza di certe caratteristiche
fenomeniche. La tradizione marxista ha identificato il capitalismo con l’esistenza del lavoro
salariato. Il problema è che nelle piantagioni latino americane non c’era il lavoro salariato, c’era la
schiavitù, che per Wallerstein è capitalistica: i rapporti di produzione basati sulla schiavitù sono una
delle tante manifestazioni delle forme di organizzazione del lavoro all’interno di un sistema
capitalistico. Non sono meno capitalistiche del lavoro salariato.
A definire questo sistema è una logica organizzativa che diventa dominante. Mutamento e
continuità, sistema storico. La dimensione sistemica si esprime nel fatto che le azioni storiche col
tempo si strutturano in qualche modo, come i saperi. Da espressioni causali dell’agire, o
semplicemente contingenti dell'operare umano, si trasformano in metodi codificati al punto di
vista del sapere, si traducono in norme di vario genere. Il sistema-mondo moderno è un sistema
capitalistico, secondo Wallesrtein, perché il termine capitalistico conferma il fatto che la
strutturazione dei rapporti sociali all’interno di questo sistema sia espresso nell’imporsi di una
logica organizzativa e nella creazione di istituzioni sociali corrispondenti e funzionali a questa
logica organizzativa, che avevano come obiettivo e che premiavano, che ricompensavano, coloro
che agivano secondo la logica dell’incessante accumulazione di capitale. La dimensione sistemica
si esprime nel fatto che si strutturano una serie di norme che premiamo o ricompensano a
seconda che tu sei orientato o meno verso l’accumulazione di capitale. È così che definiamo il
capitalismo, non perché c’è qualcosa, c’è la democrazia, il lavoro salariato, o una particolare
cultura. Non è quello.
Questo sistema mondo che ha avuto origine nel XVI secolo, con il tempo ha avvertito
l’esigenza di allargarsi, di espandersi geograficamente, così da tirare dentro all’interno della
divisione del lavoro di questo sistema ciclicamente quelle altre parti del mondo che nel Cinquecento
ancora non erano parte e che erano altri sistemi storici. La storia di questo sistema-mondo
moderno è anche la storia della sua espansione, fino a coprire (secondo Wallerstein alla fine
dell’Ottocento) tutto il mondo. Alla fine dell’Ottocento c’è un unico sistema mondo sulla
terra, che è un sistema mondo moderno capitalistico, che ha incorporato dentro di sé tutte le altre
parti del mondo che fino a quel momento erano altri sistemi storici.
Questa è una versione di un’unità di analisi che vada oltre lo stato nazione, non è l’unica.

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