Sei sulla pagina 1di 95

lOMoARcPSD|1490669

Appunti

Estetica degli oggetti (Università degli Studi di Milano)

StuDocu non è sponsorizzato o supportato da nessuna università o ateneo.


Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)
lOMoARcPSD|1490669

11.02.2019
ESTETICA DEGLI OGGETTI - 1ª LEZIONE

ESAME ORALE  IMPORTANTE COMPRENSIONE DEL PROBLEMA GENERALE, CIOÈ


CAPIRE BENE QUESTI TRE PUNTI:
1) NECESSARIO UN METODO PER CONOSCERE LE COSE, IL METODO CI ALLONTANA DALLE
NOSTRE PSICOLOGIE INDIVIDUALI, È QUALCOSA CHE CI PORTA VERSO LA RIFLESSIONE,
ESERCITARE L’EPOCHÈ SIGNIFICA ESERCITARE LA RAGIONE;
2) IL MONDO HA UNA SUA STRUTTURA DI SENSO, MASSIMO DEL REALISMO, QUESTO
SENSO È ASSOLUTAMENTE OVVIO, NON C’È BISOGNO DI SPIEGARLO, PERO’ CONOSCERLO
IMPLICA LA PROBLEMATIZZAZIONE DI QUESTO OVVIO; LA FENOMENOLOGIA È
L’INTERROGAZIONE DELL’OVVIO PERCHÉ LA SCIENZA È L’INTERROGAZIONE DELL’OVVIO.
3) L’INTERROGAZIONE DELL’OVVIO DEVE SALVARE IL MONDO E IL SOGGETTO, NON DEVE
SACRIFICARE NÉ LA REALTA’ DEL MONDO, NÉ LE OPERAZIONI DEL SOGGETTO (SE
GUARDIAMO SOLTANTO LE COSE FINIAMO PER AVERE UN MONDO SEMPRE UGUALE A SÉ
STESSO, IMMODIFICABILE, FINIAMO PER ESSERE VITTIME DELLA VIOLENZA DELLE COSE,
FINIAMO PER OBIETTIVARE IL MONDO, PERICOLO CHIAMATO OBIETTIVISMO MODERNO).
LE COSE DOMINANO IL MONDO INDIPENDENTEMENTE DAL SOGGETTO, SE NOI
GUARDIAMO SOLTANTO LE COSE FINIAMO PER REIFICARE IL MONDO, PER RENDERE TUTTO
IL MONDO UNA MERA COSA. HUSSERL DIRÀ POCHI ANNI DOPO CHE NOI FINIAMO PER
OBIETTIVARE IL MONDO, PER SEPARARCI DALLE COSE, PER RITENERE CHE LA STRUTTURA
DELLE COSE È INDIPENDENTE DALLA MIA CONOSCENZA. LUI CHIAMA QUESTO PERICOLO
OBIETTIVISIMO MODERNO. IL PROBLEMA È SALVARE LE COSE SENZA CADERE
NELL’OBIETTIVISMO, SALVARE IL MONDO SENZA CADERE NELLA REIFICAZIONE, SALVARE IL
SENSO DELLE COSE SENZA CHE LE COSE CI DOMININO.
SALVARE IL SOGGETTO, LE OPERAZIONE SOGGETTIVE SENZA CADERE NEL RELATIVISMO E
NELL’IDEALISMO (PER CUI IL MONDO È UNA MIA RAPPRESENTAZIONE). SALVARE IL
SOGGETTO SENZA SACRIFICARE LE COSE, ESALTARE LE COSE SENZA SACRIFICARE IL
SOGGETTO È IL SENSO IN POCHE PAROLE DELL’INTENZIONALITÀ. QUINDI IL MONDO È
UNA MIA RAPPRESENTAZIONE, MA IL MONDO È UNA MIA RAPPRESENTAZIONE COSÌ COME
ESSO È. SOPRATTUTTO IL MONDO NON È SOLO UNA MIA RAPPRESENTAZIONE, MA È UNA
SERIE DI MIE RAPPRESENTAZIONI, PERCHÉ LE COSE SONO COMPLESSE, ABBIAMO BISOGNO
DI PIÙ PROSPETTIVE.
UNITÀ DIDATTICA A – FENOMENOLOGIA DELL’OGGETTO ESTETICO
Il termine fenomenologia non è usato in senso aspecifico, ma in senso specifico, cioè fa
riferimento a uno degli autori filosofici più difficili della storia: Edmund Husserl.
Fenomenologia dell’oggetto estetico vuol dire avere ben chiaro tre concetti:
 Il concetto di cosa
 Come fa una cosa a diventare oggetto
1

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

 Come fa un oggetto a diventare un oggetto estetico.


Sulla cattedra ci sono tante cose, ma non tutte le cose che abbiamo sono oggetti estetici (oggetti di
una fruibilità particolare, quella che ci permette di dare un determinato valore a questi oggetti).
Qual è il processo fenomenologico che ci permette di passare dalla cosa all’oggetto e
dall’oggetto all’oggetto estetico? Il testo di Husserl “La cosa e lo spazio” (lezioni tenute nel 1907)
ci permette di avere delle chiarificazioni su questo punto. È un passaggio che deve essere trattato
con atteggiamento di carattere scientifico e non con atteggiamenti di carattere genericamente di
buon senso. Tra cosa e oggetto vi è una differenza qualitativa, esistono delle qualità che
determinano gli oggetti. Ad esempio, un piatto esposto in un museo è un oggetto estetico, c’è
quindi un percorso di qualificazione e valorizzazione. È un percorso qualificato sul piano
concettuale, non può essere assunto in modo ingenuo, vanno operate delle riflessioni. C’è un
modo ingenuo di vivere il mondo e un mondo non ingenuo di viverlo. Il primo percorso da
compiere va quindi in questa direzione: il pensiero riflessivo della filosofia serve a vivere non
ingenuamente ciò che noi compiamo nella nostra vita, la riflessione serve a riflettere su qualche
cosa e non ad assumerlo nella sua indeterminazione naturale.

Il secondo testo, di Giovanni Piana, “Elementi di una dottrina dell’esperienza”, il cui capitolo
da studiare si chiama “La percezione”, questo titolo perché queste cose, questi oggetti, hanno le
loro qualità formali e materiali, che nella loro specificità sono per qualcuno, si danno, si offrono,
quindi non vanno considerate astrattamente, non vanno considerate come elementi che
sussistono in sé e per sé senza avere una relazione con noi, si danno, si offrono per la nostra
esperienza. La prima modalità della percezione che constata il senso delle cose, degli oggetti e
degli oggetti estetici è la percezione; è ciò che permette di porre gli oggetti sul piano della nostra
esperienza.
Ci sono gli oggetti con le loro qualità e nessuno può cambiarle, le qualità degli oggetti
appartengono alle cose stesse, l’oggetto è ciò che riempie di qualità la cosa. Husserl definisce in
modo tautologico la cosa come il qualcosa in generale, la forma dell’oggetto; la cosa è un
elemento in cerca di determinazione. Questa determinazione di carattere materiale in realtà è la
forma di tutti gli oggetti, tutti gli oggetti sono cose ma la specificità degli oggetti è data dal
riempimento qualitativo di queste cose. Le cose sono dati formali che diventano oggetti nel
momento in cui delle qualità li caratterizzano.
Qual è l’elemento formale comune? Qual è la forma di esistenza comune di tutti quegli oggetti
che sono nel nostro mondo circostante? Uno l’abbiamo già determinato, cioè le qualità, hanno
qualità diverse. Tutti gli oggetti occupano uno spazio, sono quindi spazialmente estesi e noi per
conoscere il mondo partiamo da una dimensione spaziale. Questi oggetti vivono nello spazio?
Questi oggetti non vivono nello spazio, sono lo spazio. Nel linguaggio comune caratterizziamo gli
oggetti in virtù della loro qualificazione spaziale (es. il piatto a destra, il libro sullo scaffale), lo
spazio è connaturato all’idea di cosa e oggetto.
Questi oggetti spaziali divengono per noi, diventano oggetti della nostra esperienza. In che modo?
Venendo percepiti in primo luogo, ma cosa significa percepire? Cosa significa avere una
percezione? Vuol dire afferrarne una seconda ed essenziale determinazione: l’oggetto lo
percepiamo esperienzialmente nel tempo, per percepire gli oggetti dobbiamo constatarne tutte le
qualità, dobbiamo girarvi intorno, e per fare ciò dobbiamo essere nel tempo, l’esperienza della
cosa è essenzialmente un elemento di carattere temporale. La cosa, gli oggetti hanno delle
determinazioni spaziali che si rivelano nel quadro di un’esperienza temporale, il che vuol dire che
2

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

questi oggetti sono nella nostra esperienza non solo delle entità spaziali, ma anche delle entità
temporali, sono qualche cosa che ha una sua essenza spazio-temporale.
Il punto del primo modulo è: come si manifesta questa essenza spazio-temporale? Come si passa
dalla dimensione statica a una dinamica? C’è un altro passaggio prima che richiedete una breve
introduzione: come questi oggetti vengono valorizzati? Il percorso di valorizzazione di questi
oggetti sarà il tema del secondo modulo. Percorso da compiere:
 Come una cosa diventa oggetto
 Come un oggetto diventa oggetto estetico
 Come un oggetto estetico diventa oggetto artistico
Estetica degli oggetti si occupa peraltro di questa valorizzazione degli oggetti.
Estetico  non estetica, aggettivo, deriva dal greco aisthesis (sensazioni), la radice aisth significa
sentire, quindi estetico vuol dire che ci sono degli oggetti sottoposti al nostro sentire. Tutti gli
oggetti che cadono sotto la nostra esperienza sono oggetti estetici. Tutti gli oggetti che vengono
intenzionati (verso cui ci dirigiamo con i nostri atti d’esperienza) sono oggetti estetici. Non è
oggetto estetico il qualcosa in generale, ma nel momento in cui è intenzionato nel mio
percepire, allora diventa oggetto estetico, riguarda il mio sentire. Cosa vuol dire il mio sentire? Il
mio rapporto con il mondo, quindi un approccio sensoriale al mondo (Aristotele: Nulla è
nell’intelletto che prima non sia stato nei sensi). Il primo modo di rapportarsi al mondo è di tipo
sensoriale, estetico, è sottoposto alla mia psicologia.
UNITÀ DIDATTICA B: TRA OGGETTO ESTETICO E OPERA D’ARTE
(DOMANDA ESAME) Tutti gli oggetti estetici sono tema dell’estetica? In un certo senso sì, in un
certo senso no. Se intendo estetica come la scienza che studia gli oggetti sensibili, allora si; se
intendo estetica come disciplina che si è occupata di ulteriori intenzionalizzazioni/valorizzazioni
dell’oggetto estetico, allora no. Questa risposta duplice si riferisce al medesimo autore: nasce tutto
da Alexander Baumgarten, che nel 1750 inventa la parola aesthetica. L’estetico è un
concetto antico che risale alla psicologia empirica di carattere aristotelica, l’estetica è un concetto
moderno, perché fino al 1750 la parola estetica non c’era. Egli definisce l’estetica in due modi:
 da un lato la scienza estetica è la scienza della conoscenza sensibile (il primo modo con cui
noi ci avviciniamo al mondo, cfr Dino Formaggio la definisce estetica generale),
 dall’altro sappiamo che c’è un oggetto specifico dell’estetica, quegli oggetti chiamati belli,
riguarda quindi il bello.

Cosa significa bello? Immanuel Kant parla di estetica solo nel primo senso, come scienza
della conoscenza sensibile, l’estetica è la teoria dell’intuizione, non la usa mai nel secondo senso,
parla di giudizio estetico. Quali sono gli oggetti del bello? Quali sono le caratteristiche qualitative?
C’è un mondo per intenzionalizzare questi oggetti, il passaggio da un oggetto estetico in senso
generico a un oggetto estetico in senso artistico richiede una forma differente di
intenzionalizzazione, io guardo l’oggetto in modo diverso. Che cos’è la bellezza? Ha ancora senso
parlare di bellezza? Bellezza è un nome concettualmente indeterminato che qualifica degli oggetti
estetici, crea una sorta di ontologia (studio dell’essere in quanto tale).

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

Fig. 1. Se questo è il cerchio degli oggetti, vi è un sottoinsieme. Se questo è


l’ontologia dell’oggetto estetico, vi sarà poi l’ontologia dell’oggetto bello, ma nell’ontologia dell’oggetto bello
vi sono almeno altre due ontologie: esistono le bellezze naturali (bello naturale) e le belle costruite dall’uomo
(bello artistico).

Esiste un bello naturale e un bello costruito dall’uomo, un bello artistico. Ma che rapporto c’è tra
l’oggetto estetico e l’oggetto bello? Quali sono le tipologie dell’oggetto bello? Quali sono i processi
di intenzionalizzazione che ci portano dall’oggetto estetico in senso generico all’oggetto estetico
che ha la qualità della bellezza e come si colloca questa qualità della bellezza? Il concetto di
bellezza è abbastanza indeterminato, sicuramente è un modo di intenzionalizzare il mondo, ma il
bello è anche una qualità metafisica (si pensi a quante volte il bello è stato collegato al bene, a Dio,
a oggetti ed enti astratti); il bello non di necessità riguarda la percezione, il bello non di necessità
riguarda il sentire, perché vi è un bello che riguarda il sentire, ma vi è anche un bello che non
riguarda il sentire. (DOMANDA ESAME) Il bello è un oggetto sensibile? Sì e no. È un concetto
estremamente concreto ma anche estremamente astratto. La bellezza serve a tante cose, dalla
riproduzione della specie al godimento assolutamente astratto di fronte a un’opera d’arte. È
evidente che il processo di intenzionalizzazione che ci porta verso l’oggetto “bello” ha una
dimensione di idea e una dimensione d’esperienza.
UNITÀ DIDATTICA C – L’OGGETTO ESTETICO TRA MODERNO E POSTMODERNO
Questa realtà che parla di sensibilità, intenzionalizzazione, valori, qualità, bellezza, di bene, di
metafisica, che ha una tradizione millenaria, esiste ancora? Questo sistema degli oggetti esiste
ancora? Questo sistema degli oggetti fondato sull’esperienza che abbiamo del mondo esiste
ancora? Gli oggetti hanno davvero delle qualità? Gli oggetti estetici sono davvero determinati
qualitativamente dalla nostra esperienza oppure la realtà è scomparsa?

Jean Baudrillard scrive “Il sistema degli oggetti”, che ci fa capire come il sistema degli oggetti
sia cambiato, questo sistema è diverso, perché gli oggetti vanno presi nella loro transitorietà, nella
loro evanescenza, nel loro carattere simulacrale, ora gli oggetti sono solo simulacri, il loro valore
sfuma, si perde all’interno di una frantumazione dei valori caratteristica di una crisi della
postmodernità, l’oggetto non ha più le radici. Nei primi due moduli guarderemo come l’oggetto si
radica all’interno della nostra esperienza, nell’ultimo modulo invece l’oggetto si sradica o rischia di
sradicarsi all’interno della nostra esperienza.
Baudrillard scrive anche “La scomparsa della realtà”, uno degli elementi che caratterizza il
passaggio da un’epoca moderna (epoca in cui nasce l’estetica, 1650) all’epoca postmoderna in cui
l’estetica sfuma. Perché l’estetica sfuma? Non sfuma concettualmente, ma sfuma nei processi
sociali che coinvolgono gli oggetti nel mondo contemporaneo. Cosa vuol dire? Perché l’estetica
cede il passo all’estetizzazione dell’oggetto, perché per esempio un cavatappi diventa un oggetto
da esporre in un museo. La diffusione di principi estetici ha ucciso la bellezza, la bellezza non è più
un’esperienza per pochi. Walter Benjamin diceva che la bellezza ha un’aura; per migliaia di
anni è stata caratterizzata dall’essere qualcosa di irripetibile, di unico, qualcosa che non poteva
essere ripetuto. Ora la bellezza è riproducibile, riproducibile all’infinito, diventa bellezza
industriale. L’estetica diventa estetizzazione e l’oggetto estetico non ha più quella valenza di valore
4

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

che ha avuto per anni. L’esteticità diffusa uccide l’estetica. Il diffondersi dell’estetico uccide
l’estetica. Il postmoderno è l’era dell’esteticità diffusa. Il postmoderno destoricizza gli oggetti, gli fa
assumere una valenza che fuoriesce dai canoni normali del discorso filosofico.
Fenomenologia dell’oggetto estetico.
Che cosa fa diventare una cosa un oggetto? Come si arriva all’oggetto estetico?

Il nostro intenzionare gli oggetti. Dalla dimensione cosale alla dimensione oggettuale il
nostro rivolgerci agli oggetti. Vuol dire gli oggetti divengono tema della nostra esperienza.
Vanno qui posti dei presupposti fenomenologici. «Il mondo dell’esperienza naturale e della teoria
scientifica», titolo del paragrafo 3 del testo di Husserl. Questo è un punto su cui insisteremo,
perché quando viene detto appare banale ma banale non è, in quanto ha una rilevanza
epistemologica generale. Cos’è l’esperienza naturale? Termine ambiguo, Husserl qui usa questo
termine, pochi anni dopo userà il termine che si chiamerà atteggiamento naturale. Questo è il
mondo che è qui, per me, alla mano. Il mondo delle cose che io quotidianamente vivo, il mondo
che non ha bisogno di essere problematizzato, il mondo delle ovvietà irriflesse, il mio mondo
ambiente, un mondo pre scientifico (non perché non vi sia scienza, ma perché non è tematizzato
in una direzione scientifica). È un mondo in cui giudico senza la consapevolezza di farlo, in cui la
differenza delle cose sono ovvie, il mondo delle ovvietà irriflesse, un mondo esperienzialmente
comune.
Vi è verità in questo mondo? Vi è validità in questo mondo? Certo. Il mondo dell’esperienza
naturale è un mondo vero e valido. È necessario che vi siano questi presupposti. Il mondo ha una
sua verità e validità intrinseca.
Dobbiamo riflettere un attimo. Era così anche per Kant? No, perché per Kant le cose in sé non
avevano una validità e una verità, ma solo nel momento in cui venivano sottoposte a una sintesi
intellettuale. Per essere validata la cosa doveva diventare fenomeno. Per manifestare il suo senso
la cosa doveva diventare per me, un qualche cosa che diventava un mio fenomeno. Per Husserl
questo non è vero, perché il mondo ha una sua verità e una sua validità in sé, le cose non sono
validate e vere solo perché io le fenomenizzo. Vi è una vera e propria metafisica della presenza. È
un presupposto realistico. La realtà spazio-temporale è vera anche nell’esperienza naturale.
Questo atteggiamento non è scientifico. Perché? Perché non è consapevole di sé, non ha
consapevolezza del carattere essenziale. Il pensiero fenomenologico è il tentativo di dimostrare la
verità e la validità dell’esperienza naturale. Interrogazione dell’esperienza naturale. Le scienze
nascono da operazioni, non da principi.
Come facciamo a passare da un’esperienza naturale a una teoria scientifica? Quali operazioni
dobbiamo compiere? Come possiamo passare dall’esperienza naturale alla costituzione
dell’oggetto conoscitivo? Come facciamo a passare dai fenomeni empirici ai fenomeni puri?
Dobbiamo mutare il nostro atteggiamento, il che non significa allontanarsi dalla vita, ma è la vita
che diventa oggetto di conoscenza. Il mio atteggiamento muta attraverso operazioni
metodologiche preliminari, abbiamo quindi bisogno di un metodo. Cartesio: il metodo è la
strada verso conoscenza. Il metodo richiede un atteggiamento diverso. Husserl e Cartesio usano la
stessa parola: epochè deriva dalla tradizione scettica, significa messa in dubbio, solo che questa
messa in dubbio può avere dei modi diversi.

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

12.02.2018
ESTETICA DEGLI OGGETTI - 2ª LEZIONE
Qual è il nostro atteggiamento? Quali sono le tipologie di esperienze che mettiamo in atto di
fronte alle cose?
Questi differenti atteggiamenti hanno bisogno di differenti metodi. Non possiamo approcciarci al
mondo in modo ingenuo: l’ingenuità è un problema, quindi non possiamo, nel momento in cui
determiniamo le qualità della cosa, non avere un metodo. Questo è un generale atteggiamento
epistemologico.
Il concetto di metodo vuol dire strada verso ed è per questo che ogni disciplina scientifica ha
bisogno di un metodo, così la filosofia ha bisogno di un metodo (il concetto di metodo disegna la
destinazione epistemologica della filosofia in modo specifico partendo dal discorso sul metodo di
Cartesio).
Perché è necessario partire da Cartesio? Non soltanto per un omaggio, ma anche perché Cartesio
ci dice che perché un metodo possa ragionare sulle cose è necessario partire da quella dimensione
chiamata dubbio. Dubbio in quanto costitutivo del metodo, viene quindi a chiamarsi dubbio
metodico. Se si dubita vuol dire che siamo in presenza di un soggetto giudicante e il concetto di io
è relativamente recente perché prima era un concetto accessorio per il pensiero filosofico. Il
mondo esiste e sussiste di per sé con le sue qualità, ma questo mondo è conosciuto soltanto
attraverso i miei atti conoscitivi. Il mondo esiste nella sua trascendenza. Questa trascendenza del
mondo passa, nel momento in cui voglio conoscere le sue strutture, attraverso i miei atti
conoscitivi. Nel momento in cui voglio conoscere il mondo nelle sue strutture di senso, le cose, le
loro qualità specifiche, io devo dirigere la mia attenzione verso il mondo, devo intenzionarlo, farlo
oggetto del mio interesse tematico. La trascendenza del mondo, per essere conosciuta, deve
essere sottoposta all’attenzione dei miei atti percettivi. L’attenzione vuol dire essere interessati al
mondo e alle cose, non lasciarle sfuggire ma farle proprie, è la condizione di possibilità
dell’esperienza che io voglio fare.
Husserl si chiede: di cosa è fatto il mondo? Il mondo è fatto di cose, il mondo è un qualcosa che
merita la mia attenzione; la filosofia, il pensiero, la scienza, nascono da questa mia attenzione al
mondo e questa attenzione richiede alcune ben precise operazioni metodiche. Noi siamo
assolutamente consapevoli che il nostro atteggiamento quotidiano, quello che Husserl chiama la
nostra esperienza naturale, è disattento, vive ingenuamente senza una tematizzazione. È
sbagliato? No, vuol dire che noi non tematizziamo il mondo nel momento in cui lo viviamo. Per
passare da questo atteggiamento all’atteggiamento che ci permette di far diventare le cose del
mondo cose per me ci vuole un metodo.
Come si articola questo metodo? Attraverso il DUBBIO. La tradizione cartesiana parte dalla parola
greca epochè, che in senso culturale significa sospensione del giudizio.
Due annotazioni storiche per capire meglio il senso in cui lo usa Husserl: il termine epochè nasce
nella tradizione scettica, si mette in dubbio tutto, anche tutta quanta la dimensione di realtà del
mondo. Sostanzialmente l’atteggiamento scettico nella tradizione classica ci porta a due
conclusioni:

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

 la prima è valida nel tempo ed è che il filosofo deve esercitare la ragione, se noi dubitiamo
esercitiamo il pensiero attraverso i discorsi;
 la seconda è meno valida ed è che il dubbio si oppone alle visioni metafisiche del mondo, ci
permette di dire che le cose magari esistono ma non sono fondate.
Lo scetticismo di Cartesio in questo senso non è lo stesso dello scetticismo classico, perché il primo
è un atteggiamento consapevolmente fittizio, cioè non è un atteggiamento che vuole manifestare
una visione del mondo, ma serve per instaurare un metodo, quindi si finge di dubitare. È un
dubbio metodico, un dubbio che ci serve per mettere in atto una determinata visione metodica.
Cartesio dice di provare a dubitare di tutto, rimarrà però un fatto: nel momento in cui io dubito, io
sto pensando, sto esercitando la ragione (cogito ergo sum).
Per arrivare a una realtà di cui io non posso dubitare, io devo esercitare aòfkjaòfjaòk. La realtà
indubitabile è il mio io pensante e qui Cartesio parte dalla considerazione che l’io è il fondamento
di tutte le mie apprensioni del mondo: io posso dubitare dell’esistenza del mondo, non posso
dubitare del fatto che io penso l’esistenza del mondo. Qual è la conseguenza di questo dubbio
metodico? La conseguenza è una dicotomia: una parte che pensa e una parte che non pensa, il
mondo è diviso in una sostanza spirituale pensante il cui scopo è conoscere il mondo in analogia
con Dio che l’ha creato e poi un mondo di fenomeni, un mondo di materia, un mondo che non
pensa, che non segue le leggi del libero arbitrio, un mondo dominato dal determinismo, un mondo
che esiste soltanto sul piano conoscitivo perché vi è un io che lo pensa. Vi è una scissione tra
questi due elementi, ecco allora Husserl rigetta sia lo scetticismo radicale antico sia lo scetticismo
della tradizione classica sia lo scetticismo cartesiano, sottolineando invece che il dubbio (epochè) è
un consapevole atto fittizio per permetterci di superare un atteggiamento psicologico, cioè
naturale, ponendoci di fronte al mondo con occhi nuovi. Questo atteggiamento metodico non
mette in discussione il mondo, neanche le mie credenze sul mondo, ma mette in discussione il
fatto che quell’atteggiamento sia utile per una conoscenza scientifica del mondo.
Che cos’è l’epochè per Husserl? La definisce in molti modi, in particolare:
a) Sospensione del giudizio, dell’atteggiamento naturale (esigenza di cambiare atteggiamento, il
mondo è sempre lo stesso ma lo si guarda da diversi punti di vista)  ex. Orinatoio di Duchamp,
cambiamo atteggiamento e lo guardiamo con occhi diversi perché si trova in un museo. Per
Husserl il cambiamento di atteggiamento deve diventare qualcosa di metodico, non qualcosa che
facciamo empiricamente perché siamo nel mondo. In primo luogo è sospensione di un
atteggiamento ingenuo, di un atteggiamento che mi fa patire il mondo nella sua naturalità
indeterminata. Non mette in discussione, dice solo che il mondo deve essere guardato con plurimi
atteggiamenti.
b) Riduzione fenomenologica (dobbiamo ridurre a qualche cosa che sia un nuovo punto di
partenza, ridurre il nostro sguardo in quanto presupposto di un atteggiamento teoretico ad un
elemento dubitabile che sia un nuovo punto di partenza). Che differenza c’è con Cartesio?
(DOMANDA ESAME) Apparentemente non c’è, ma c’è differenza: Cartesio riduce all’io ma l’io è
una sostanza spirituale, l’io è in analogia con Dio, Dio è uno spirito sostanziale, l’io è una realtà
ontologica, l’io ha un essere separato dalle cose, quindi da una parte c’è il mondo e dall’altra c’è
l’io, è una riduzione che separa ontologicamente le cose dall’io, divisione letteralmente
sostanziale, questo non è per Husserl. La riduzione fenomenologica non è una riduzione a una
sostanza, è una riduzione a un principio nuovo che mi permette di far diventare il mondo in sé un
fenomeno per me. Mutamento di atteggiamento che mi permette di far diventare il mondo in sé
un fenomeno per me. Husserl dice che noi vogliamo lasciarci istruire dalle cose (p. 12), quindi
7

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

guardare il mondo non da un punto di vista realistico, ma attraverso i miei occhi; in seguito parlerà
di riduzione trascendentale (=ricerca delle condizioni di possibilità, condizione di possibilità),
siamo nel 1907, Husserl sta modificando il proprio vocabolario. Non dobbiamo pensare che
l’epochè sia la fenomenologia, l’epochè è un metodo che ci deve insegnare a cambiare
atteggiamento, che ci dice che per poter vedere meglio noi dobbiamo ridurre, dobbiamo passare
da un atteggiamento empirico a un atteggiamento puro, dobbiamo eliminare tutti quegli elementi
che disturbano la nostra soggettività della conoscenza. In un certo modo il metodo che deriva
dall’epochè è un metodo astrattivo che ci permette di astrarci dal mondano per reimmetterci nel
mondano con occhi nuovi.
c) Riduzione eidetica (da eidos, l’essenza), dobbiamo eliminare ogni posizione d’esistenza
psicologica (p. 15), non dobbiamo guardare le cose nella loro singolarità, nella loro specificità
singolare, ma dobbiamo descrivere gli atti attraverso i quali apprendiamo le cose in generale
(come, non perché), cioè quelle operazioni che noi tutti compiamo quando percepiamo
indipendentemente dal nostro atteggiamento soggettivo, dobbiamo cogliere l’essenza del
percepire. L’epochè è una riduzione all’eidos, a un atteggiamento che non sia psicologico, il come
dei nostri atti d’esperienza.
La riduzione degli atti fenomenologici serve a insegnarci a vedere come noi apprendiamo il mondo,
come noi apprendiamo le cose, indipendentemente dalla nostra psicologia individuale. Dobbiamo
cogliere l’essenza del percepire, non descrivere i miei singolari atti percettivi.

La riduzione fenomenologica in realtà è due cose diverse correlate tra di loro:


1) L’ingresso in un nuovo atteggiamento, un atteggiamento teoretico che mette tra
parentesi il mio atteggiamento naturale (sospeso)  l’epochè sospende il mio
giudizio.
2) Riduzione eidetica, cioè nel momento in cui io guardo i miei atti d’apprensione del
mondo con occhi nuovi, questi atti non sono quelli della mia psicologia naturale.
Non dobbiamo chiederci cosa significa percepire, ma dobbiamo capire come noi percepiamo e
quali atti mettiamo in funzione nel momento in cui percepiamo il mondo. Sono atti banali che
come dice Husserl paradossalmente comprendiamo se differenziamo gli atti della percezione dagli
atti dell’immaginario.
Qual è l’essenza degli atti della percezione a partire dagli atti delle percezioni fantastiche? Le
posizioni spazio temporali sono sospese. Nell’immaginazione posso fare quello che voglio, nella
percezione no. L’essenza è il differente rapporto che io ho con lo spazio e con il tempo. Qual è
l’essenza specifica della percezione? Ci deve essere la copresenza mia e dell’oggetto. Percepire è
un semplice constatare? No. Se io voglio entrare in un atteggiamento scientifico, non mi posso
limitare alla constatazione, ma devo percepire (atteggiamento attivo, no passivo). Io devo
dirigermi verso le cose, devo far diventare mie le cose, devo far diventare parte del mio patire le
cose. Far diventare mia la trascendenza del mondo, rendere immanente la trascendenza del
mondo. Husserl dice che devo guardare bene il mondo, devo dirigermi verso, con un
atteggiamento attivo, non posso limitarmi a constatare, ma ci devo girare intorno, mutando
atteggiamento. Questa volontà di avere un atteggiamento attivo nei confronti di un mondo passivo
Husserl la riassume con la parola intenzionalità, atteggiamento intenzionale. L’intenzionalità è il
titolo generale della fenomenologia.

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

13.02.2019
ESTETICA DEGLI OGGETTI - 3ª LEZIONE
L’intenzionalità (non ha nulla a che fare con la volontà) è il titolo generale della fenomenologia.

L’intenzione è un puro atto teoretico, è un puro atto intuitivo. Franz Bretano coniò la parola
intenzionalità, cioè l’attitudine del soggetto ad andare verso il mondo, a guardare il mondo e le
cose. Husserl riprese questo termine per sottolineare il senso dell’attenzione teorica che bisogna
avere verso le cose. L’intenzionalità è un concetto al tempo stesso semplice e complesso: semplice
perché rimane un dirigersi verso; Husserl sottolinea due cose rispetto a Bretano:
1. Il soggetto non è un soggetto psicologico, non sono io, il soggetto che si dirige verso il
mondo non è il mio io, è un puro dirigersi verso, è un principio impersonale, le strutture
della percezione sono sempre le stesse indipendentemente dalla nostra psicologia
individuale, le mie variazioni non cambiano la struttura del vedere, quindi quello che
dobbiamo analizzare è la struttura del dirigersi verso, non le individualità soggettive,
questo è il semplice dell’intenzionalità;
2. Il complesso dell’intenzionalità è il rapporto tra trascendenza e rimanenza.

Il paragrafo 4 del testo di Husserl si intitola L’intenzionalità come determinazione


essenziale della percezione (DOMANDA ESAME: cosa significa? RISPOSTA: vuol dire che
solo attraverso l’intenzionalità noi possiamo cogliere l’essenza della percezione, soltanto
esercitando il principio dell’intenzionalità noi possiamo cogliere l’essenza degli atti
percettivi).

NON DIRE ALL’ESAME CHE L’INTENZIONALITÀ SEGNA IL RAPPORTO TRA SOGGETTO E


OGGETTO, QUESTO È KANT, IN HUSSERL NON C’È SOGGETTO E NON C’È OGGETTO.
L’intenzionalità non è cercare una relazione tra soggetto e oggetto, il soggetto non è
un’entità, l’oggetto non è un’entità, noi siamo partiti dalla constatazione che l’oggetto è
trascendente (dire trascendente significa che vi è un presupposto di mondo), cioè è lì
costituito in quel modo lì, vi è quindi un presupposto di mondo. Possiamo conoscere
l’oggetto nella sua trascendenza? Kant risponde di no, cioè non possiamo conoscere la cosa
in sé, dell’oggetto conosciamo la sua apparizione fenomenica. In Kant vi è una relazione
costitutiva tra il fenomeno e la cosa in sé? Kant dice di no. Per Kant conoscere la
trascendenza del mondo è il male della metafisica che ci allontana dalla scienza. Per
Husserl non è così, il rapporto è più complicato, il presupposto è sempre uguale: non
possiamo conoscere il mondo nella sua trascendenza, considerando questa trascendenza
come separata dagli atti del soggetto.
Ex  Libro sulla scrivania esiste, occupa uno spazio e un tempo, ma come lo conosco? Kant
direbbe che la conosco non in quanto cosa, ma in quanto mia apparizione, quindi
l’apparizione è separata dalla cosa, la cosa appare soltanto perché io la faccio apparire (l’io

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazione, cit. Kant), quindi l’io penso
effettua la sintesi, indipendentemente da un reale interrogativo sull’esistenza dell’oggetto.
Per Husserl nel mio costituire il fenomeno, nel mio intenzionare l’oggetto, nel mio andare
verso, nel costituire questo fenomeno, io costituisco la cosa stessa. Nell’andare verso il
fenomeno io costituisco la cosa stessa. Gli oggetti, le cose, sono sintesi passive e la sintesi
passiva per antonomasia è il tempo. L’impensabile della filosofia è il tempo, è un vincolo da
cui non possiamo prescindere. Sintesi passiva vuol dire qualche cosa per cui il mondo ha
una sua struttura di senso. La chiama struttura passiva perché non possiamo farci nulla, in
senso filosofico passiva perché è il contrario della sintesi kantiana (attiva  l’io penso deve
poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni). La trascendenza del mondo è una
sintesi passiva. Come facciamo a conoscere queste sintesi passive? Qui interviene
l’intenzionalità, dobbiamo far diventare nostro questo vincolo. Dobbiamo imparare a
descrivere le strutture di senso del mondo, in quanto correlate ai miei atti intenzionali.
L’evidenza del mondo si dà attraverso i miei atti intenzionali. Noi indaghiamo le peculiarità
essenziali della percezione nella sfera della pura autodatità, nell’ambito dell’evidenza. Ciò
che noi indaghiamo sono queste peculiarità, non l’oggetto in sé, quindi quando parliamo di
percezione, di fantasia, di memoria, noi indichiamo degli atti, delle operazioni inseparabili
dall’oggetto percepito. La parola chiave dell’intenzionalità è CORRELAZIONE
INTENZIONALE, per cui dobbiamo correlare questi elementi partendo dal presupposto che
percezione e oggetto non sono cose della stessa specie, il che vuol dire che non
indaghiamo gli oggetti, ma indaghiamo gli oggetti in quanto percepiti. La percezione di una
superficie non è la superficie, ma è come la superficie si manifesta alla mia percezione.
Husserl si pone proprio questo problema: cosa ne facciamo del soggetto? Appurato che
non siamo sul piano psicologico, il soggetto di cui parla non è l’io io, questo ego soggettivo
io lo metto tra parentesi, ho esercitato l’epochè, d’altra parte il soggetto rimane. Qual è?
Husserl aveva due strade e sceglie quella meno produttiva: la parola io non è una parola
che gli serve perché l’intenzionalità è analisi e descrizione delle strutture essenziali degli
atti conoscitivi. Husserl usa un termine della tradizione kantiana, io puro, come soggetto
dal quale fuoriescono gli atti intenzionali. Perché lo fa? Voleva andare in cattedra e poi
perché vuole inserirsi in una tradizione, vuole contemperare le accuse di neorealismo con
una bella folata di realismo. (Evitare di usare la parola io, perché vorrebbe dire che vedo il
mondo dal mio punto di vista e invece descrivo le cose per come mi appaiono, non come io
le vedo).
Husserl in una frase a p. 165 scrive: “questo mostrarsi (della cosa) non è qualcosa di
definitivo, non può essere dato adeguatamente in un sol colpo”, il che vuol dire che la cosa
non è immutabile perché descrivere il mondo significa guardarle da diversi punti di vista,
guardare di più e guardare meglio. Husserl usa molto spesso la frase “sempre di nuovo”,
costituire il mondo significa conoscerlo, girare sempre di nuovo intorno, cioè intenzionarlo.
Non conosco le cose, conosco le cose in quanto intenzionate. Non conosco le evidenze in
sé, conosco le evidenze in quanto si danno (DIFFERENZA CON KANT), non sono solo io che
vado verso le cose ma sono anche le cose che si danno a me.
La percezione è sempre percezione di, questo di, cioè un dirigersi verso. Gli atti
esperienziali sono inseparabili dagli oggetti intenzionati. Nel momento in cui descrivo i miei
atti, io descrivo al tempo stesso il correlato dei miei atti. Non è una descrizione statica,
perché io devo girare intorno alle cose per vederle da una varietà di punti di vista.
L’esperienza non è un principio astratto: è sempre esperienza di qualche cosa.
L’esperienza di un libro e l’esperienza di un quadro sono la stessa cosa? Sì e no. Da un
punto di vista fenomenologico la struttura degli atti percettivi è uguale, ma i miei livelli di
10

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

interrogazione sono gli stessi? Chi dà gli stimoli qualitativi ai miei atti percettivi? È il mio
soggetto o le cose? La domanda che deve porsi un fenomenologo è diversa: le qualità
intrinseche sono le stesse? Sono le qualità intrinseche agli oggetti che mi permettono
un’interrogazione più profonda dell’oggetto stesso. L’oggetto è un’autodatità, è passivo, la
sua passività (qualità intrinseche) mi lanciano raggi, questa è una ventata antirealistica e
antiidealistica. Il rapporto tra l’oggetto e chi lo descrive è paritetico, non c’è come in Kant
un oggetto che non mi lancia stimoli e io che trovo in esso stimoli. È l’oggetto stesso che mi
lancia stimoli e io che lo percepisco e che quindi descrivo le, strutture di senso di
quell’oggetto. È un modo diverso per dire che l’intenzionalità è correlazione, è il titolo
generale della fenomenologia!
Husserl non si ferma qui, ma trova altre parole:
 Per non usare soggetto e oggetto usa due termini  (noesi l’atto, l’attività del
soggetto, noema referente oggettuale dell’atto, quindi sintesi passiva) atti noetici
che hanno dei correlati noematici, gli atti che costituiscono il mondo sono atti della
riflessione, implicano l’intervento di un nous, l’epochè ha eliminato tutte le
ingenuità, soggetto e oggetto sono termini che appartengono al nostro
atteggiamento naturale, quindi ogni mio atto è un Erlebniss – vissuto, quindi
l’intenzionalità è un correlato di questo vissuto (io conosco le cose del mondo in
quanto correlanti del mio vivere riflesso). La parola chiave è correlare questi due
aspetti, sono inseparabili l’uno dall’altro.
Il senso dell’esperienza è il dispiegarsi delle cose, la correlazione è importante anche perché
combatte il realismo e l’idealismo essendo il massimo dell’uno e il massimo dell’altro, del primo
perché non c’è conoscenza se non ci sono le cose, del secondo perché non c’è conoscenza se non
c’è l’intenzionare. L’intenzionalità significa rendere il mondo e il soggetto corresponsabili della
conoscenza, significa insegnare un principio di responsabilità conoscitiva. Perché Husserl dice che
la scienza è in crisi? La scienza è in crisi perché ha dimenticato l’intenzionalità. Qual è il modo più
normale di chiamare l’intenzionalità? Interrogazione di un mondo che ha una sua struttura
qualitativa di senso, è il rapporto tra Cézanne e la montagna Sainte-Victoire; Cézanne interroga la
montagna ma la montagna interroga Cézanne, non c’è un rapporto univoco ma il rapporto è
biunivoco tra le qualità delle cose e il mio atto dell’interrogare.
Husserl riassume tutto con la frase “cogito cogitata qua cogitata” (penso i pensati in quanto
pensati, cioè descrivo i vissuti in quanto vissuti), l’esperienza è quindi essenziale. Da dove prende
avvio la descrizione? Dai miei atti di relazione con il mondo. Qual è il primo atto attraverso il quale
io descrivo il mondo? Il primo atto attraverso il quale descrivo il mio mondo è di esperienza.
Quali sono le modalità tipiche dell’esperienza? Va intensa in una direzione generale e gli atti
fondamentali sono tre:
- Percettivi
- Memorativi
- Immaginativi.
Descrivere l’esperienza significa descrivere i miei atti, cioè i modi con cui io mi rivolgo al mondo.
Quali sono le tipicità essenziali, i miei punti di partenza per la descrizione della cosa? Quali sono gli
atti attraverso i quali la cosa diventa oggetto? Gli atti attraverso i quali la cosa diventa oggetto
sono atti percettivi, memorativi e immaginativi.

11

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

La percezione è la mamma di tutti gli atti esperienziali, in quanto immaginazione e memoria sono
modificazioni degli atti percettivi. Da un punto di vista fenomenologico la caratteristica della
percezione è una correlazione, cioè la coesistenza in un medesimo spazio e tempo. La condizione
di possibilità di questo percepire qualcosa è la coesistenza del medesimo orizzonte spazio-
temporale, per cui io sono nel medesimo spazio-tempo. Il secondo elemento sarà la differente
posizionalità che noi assumiamo, cioè il punto di vista. la percezione implica una coesistenza con
variazioni, in quanto percepire significa girare intorno, cioè variare la prospettiva. Percepire
significa apprendere attraverso mutevoli punti di vista. Quale sarà la modificazione che interviene
nella memoria? È un differente rapporto con lo spazio e con il tempo: nella memoria l’oggetto non
è fisicamente presente, è una percezione al passato.

Qual è la differenza tra la percezione e la memoria? La percezione avviene sempre nel presente, lo
spazio è una questione di posizionalità dell’oggetto rispetto all’atto. Ogni oggetto ha una sua
posizionalità nello spazio, ma se essa è descrivibile attraverso una descrizione delle caratteristiche
dell’atteggiamento con cui mi pongo, per cui se io mi sposto l’oggetto viene percepito in maniera
diversa, la caratteristica del tempo è che il tempo nella percezione è sempre presente. L’atto
percettivo implica una compresenza temporale: io mi sposto intorno all’oggetto e spostandomi
cambio il mio punto di vista spaziale, non temporale. Il tempo è la struttura metafisica della
percezione e le modificazioni da un punto di vista essenziale sono temporali della percezione. Che
cosa accade? Ogni vissuto decade e si allontana, quindi il problema della temporalità è ciò che
permette di differenziare la percezione dalla memoria. La memoria è il presente che decade e
viene progressivamente dimenticato. La struttura della memoria che la differenzia dalla percezione
è il differente rapporto con lo spazio, ma è anche un rapporto che riguarda la relazione dell’atto
soggettivo con il tempo. La memoria si differenzia in virtù del differente rapporto che ha con
òfakgjaò.
Un altro gioco hanno le percezioni fantastiche, perché le percezioni fantastiche escono da questo
gioco, perché abbiamo una sospensione delle posizioni d’essere. Nella fantasia non dobbiamo
giustificare il nostro rapporto con lo spazio-tempo dice Husserl. L’immaginazione è una
modificazione radicale. Qual è il problema che ci dà questo schema del tempo? Ogni percezione è
sempre nel presente, ogni percezione è sempre un vissuto immanente, come faccio a dare stabilità
all’oggetto allora? Come faccio a partire da percezioni sempre immanenti a restituire
un’oggettività all’oggetto? Attraverso uno schema oggettivante, la capacità di connettere gli istanti
temporali tra loro, quindi significa sempre esercitare la memoria nella percezione, perché sono
queste frecce che ci danno l’oggettività. La memoria non è soltanto una modificazione della
percezione, la memoria è una parte costitutivamente essenziale per dare stabilità al percepire,
altrimenti questo sarebbe soltanto flusso di coscienza. La percezione ha bisogno delle sue
correlazioni per dare stabilità all’oggetto, perché l’immanenza deve restituirci la trascendenza
delle cose.

12

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

18.02.2019
ESTETICA DEGLI OGGETTI - 4ª LEZIONE
Se noi percepiamo le cose, se abbiamo un rapporto con gli oggetti del mondo circostante,
esclusivamente attraverso percezioni che ci permettono di cogliere un lato delle cose, come
potremmo formare la stabilità di un oggetto? Questo significa passare da un discorso generico
sulla percezione a un discorso filosofico sull’esperienza. Per rispondere a questa domanda:
1. Qual è l’oggetto originario del nostro discorso? È cercare di comprendere il nostro rapporto
con lo spazio in modo non statico, bensì a partire dalla relazione con gli oggetti, parlare di
esperienza in senso generale significa parlare del nostro rapporto con gli oggetti che si
trovano nel nostro mondo circostante, quindi parlare di esperienza spaziale significa avere
a che fare con il mondo non in modo passivo, ma attraverso un atteggiamento che
possiamo genetico e costitutivo; quello che noi stiamo studiando non è l’oggetto o la cosa,
perché l’oggetto o la cosa non può essere preso in modo astratto. Noi stiamo studiando la
genesi della cosa. L’esperienza è sempre costituzione di oggetti. Giovanni Piana nei primi
due paragrafi insiste sul fatto che l’esperienza non è constatazione dell’oggetto, non è
constatazione che intorno a noi vi sono determinati oggetti, ma è costituzione di oggetto,
genesi di oggetto. L’atteggiamento fenomenologico è atteggiamento genetico, nel senso
proprio che costituisce, non è un atteggiamento passivo. Come operiamo all’interno di
questo atteggiamento? Descrivendo i modi di apprensione dell’oggetto, così costituiamo il
senso dell’oggetto, cioè le sue strutture qualitative. Piana insiste molto sul fatto che il
termine esperienza non va inteso in senso generico, esperienza è costituzione del mondo, è
descrivere la genesi costitutiva degli oggetti del nostro mondo circostante. Il rapporto con
gli oggetti non è passivo, vuol dire che gli oggetti ci mandano dei messaggi, che sono le
qualità intrinseche degli oggetti a determinare le modalità della nostra visione. Ciò che un
oggetto è, quello che i filosofi chiamano l’ontologia dell’oggetto, è inseparabile dagli atti
con cui l’apprendo.
2. Se l’oggetto occupa uno spazio, l’oggetto esiste nella sua trascendenza (autonomia
dell’oggetto). Cosa significa? Che l’oggetto esiste di per sé, non ha bisogno per esistere del
mio atto apprensivo. Ha lo stesso modo di esistere di Dio (esiste indipendentemente dalla
mia apprensione). Affermare la trascendenza del mondo, significa dire che il mondo ha una
sua specifica e variata struttura ontologica. Il mondo è fatto di tante qualità cosali, le cose
sono le loro stesse qualità e sono le loro stesse qualità indipendentemente dal mio
sguardo. Gli oggetti sono trascendenti, tuttavia possiamo conoscere gli oggetti nella loro
trascendenza? Sì, attraverso una mia intenzione. L’esperienza è sempre una relazione tra
la trascendenza del mondo e l’immanenza dei miei atti apprensivi. Non c’è altro modo di
conoscere il mondo se non all’interno di questa relazione. In senso stretto, tecnico,
fenomenologico, cosa intendiamo con esperienza? L’esperienza è il rapporto tra
immanenza e trascendenza nella costituzione del senso. Si tratta di ricostituire la

13

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

trascendenza del mondo a partire dalle mie esperienze. Tutto ciò per evitare ogni forma di
dualismo (da una parte oggetti e dall’altra soggetti). La conoscenza non parte,
polemizzando con Cartesio e Kant, non parte da una dicotomia che ha bisogno di relazioni
estrinseche, ma parte da una relazione intrinseca.
3. Questa relazione tra trascendenza e immanenza prende il nome di intenzionalità. Termine
tecnico per segnalare che il nostro interesse per il mondo è un interesse che si manifesta
all’interno di un atteggiamento correlativo. Questa correlazione è essenziale per costituire
gli oggetti del nostro mondo circostante. Elemento metodologico che ci accompagnerà:
non analizzeremo la percezione in senso astratto, ma la percezione di qualche cosa, perché
la percezione è inseparabile dall’oggetto percepito. Husserl dice che l’intenzionalità è il
titolo generale della fenomenologia, il senso del mondo si dà soltanto attraverso il mio
sguardo. Rapporto biunivoco: io guardo il mondo ma il mondo guarda me. Carichiamo le
cose di contenuti perché queste cose i contenuti ce li hanno. Le paure sono correlate
all’oggetto ad esempio. Il nostro caricare immaginativamente un oggetto deriva dal fatto
che questo oggetto ha i suoi contenuti specifici.
4. La conoscenza ha in sé un carattere enigmatico e si tratta di sciogliere l’enigma che è
l’unico modo per cogliere come attraverso i fenomeni, le mie apparizioni del mondo, si
costituisca il mondo in sé, cioè il mondo in sé si costituisce soltanto attraverso le mie
apparizione (altro modo per definire la conoscenza). Non c’è distinzione tra fenomeno e
cosa in sé, distinzione che caratterizza Kant, non c’è una scissione ontologica tra il
fenomeno e la cosa, non si dichiara inconoscibile la cosa e conoscibile solo il fenomeno
(come vuole Kant), si afferma invece che la cosa in sé si dà soltanto attraverso le mie
apprensioni fenomeniche. La cosa in sé non è qualcosa di astratto, la cosa in sé è qualcosa
per me. Attraverso i fenomeni si costituisce il mondo in sé.
5. Perché tutto ciò accada, è necessario un metodo, cioè significa imparare a riflettere sulle
cose, non cogliere le cose così come appaiono, guardare il mondo in altro modo. Questo
metodo la tradizione fenomenologica lo chiama epoche, ma meglio chiamarlo
superamento dell’atteggiamento naturale, cioè un metodo che ci pone la necessità di
evitare di rimanere rinchiusi all’interno di un atteggiamento irriflessivo. Per conoscere
bisogna riflettere, per conoscere bisogna descrivere, per conoscere non dobbiamo
rispondere alla domanda perché le cose sono? ma dobbiamo in un atteggiamento di
carattere teorico: l’epochè (sospensione del giudizio). Il superamento dell’atteggiamento
naturale significa capacità di riflettere, capacità di descrivere il mondo a partire da un
atteggiamento intenzionale.
6. Perché questo accade? Perché è necessario un metodo e perché è necessario questo
metodo? Per due motivi: in primo luogo per evitare lo scetticismo (elemento etico della
fenomenologia), per evitare che il dubbio non infici il senso costitutivo dell’esperienza,
Husserl non poteva conoscere la filosofia analitica ma questo è un atteggiamento analitico,
la filosofia non è un gioco autoreferenziale ma è banalmente esercizio della ragione, che si
esplicita esercitando la riflessione, è elogio di un atteggiamento razionale che deve
manifestare la verità dell’atteggiamento naturale, il mondo naturale è vero e valido ma
deve riflettere sulle cose per dimostrare la propria verità e validità; il secondo motivo è
perché Husserl manifesta l’esigenza metodica della filosofia, la filosofia richiede attenzione
al mondo, la condizione di possibilità dell’intenzionalità è l’attenzione al mondo e alle cose.
L’epochè significa che noi dobbiamo essere attenti alla realtà mondana.
DOMANDA CRISTINA: al mondo non importa di noi, a noi importa del mondo.
RISPOSTA: è verissimo, ma è una grande finzione metodologica, in quanto il mondo è
inseparabile dalla nostra apprensione di mondo. Il fatto che il mondo ci sia è un
14

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

presupposto che però confermiamo vivendo nel mondo, tematizzando, girando intorno alle
cose, ecc, in realtà quello che Husserl vuole superare è che il mondo è qui e noi siamo qui,
il nostro atteggiamento nei confronti del mondo che dona l’esistenza del mondo, ci rende
evidente l’esistenza del mondo. Le cose in sé esistono ma per renderle oggetto del mio
mondo ambiente io devo avere esperienza del mondo. La fenomenologia rende la filosofia
una filosofia dell’esperienza, l’unico mondo per far filosofia è esperire, soltanto che
esperire non è un atteggiamento ingenuo. Piana dirà che vi sono due modi per parlare di
esperienza: esperienza ingenua ed esperienza che tematizza.
7. In tutto questo processo la parola chiave è vissuto (Erlebnis), da non intendersi in una
direzione psicologica, ma è il mondo con cui noi intenzioniamo il mondo. Noi descriviamo il
mondo descrivendo le nostre esperienze vissute, sono le evidenze a partire dalle quali noi
apprendiamo il mondo. Cosa sono i vissuti? I singoli punti sulla catena del tempo. Il vissuto
di coscienza è ciò che ci permette di vivere la vita in un atteggiamento diverso
dall’atteggiamento naturale. La vita è direzione verso il mondo. Husserl dice che il vissuto è
un dato assoluto, ogni vissuto è un contenuto di coscienza che ha una sua propria essenza.
Descrivere il mondo significa descrivere i vissuti. Il vissuto non è un dato psicologico, quindi
non è neanche un dato culturale; se noi diciamo che il vissuto ha a che fare con la mia
cultura relativizziamo il vissuto come dato assoluto. Esempio: abbiamo modi di percepire il
mondo a seconda della nostra etnia, ecc? No. La percezione nella sua struttura essenziale
non ha storia. I dati caratteristici degli atti percettivi sono indipendenti dalla psicologia,
dalla cultura, dalla storia. I modi per apprendere il mondo e le cose sono sempre
intenzionali. Questo significa che cultura e storia non hanno rilevanza alcuna nella
percezione? Dipende dall’oggetto. Nell’apprensione di oggetto non vi è alcuna dimensione
culturale, ma gli oggetti lanciano a noi dei messaggi, perché gli oggetti non sono tutti
uguali.
Esempio: una volta in aula c’era il crocifisso; è evidente che chi appartiene ad altra etnia,
ad altra cultura, ad altra religione non riesce a porre in quell’oggetto quelle qualità
simboliche di chi invece ha avuto un’educazione cristiana. L’oggetto è sempre lo stesso e
viene percepito nel medesimo modo. È evidente che la storia, la cultura, le tendenze
soggettive, ci fanno vedere in quell’oggetto qualità che altri non vedono.
L’apprensione intenzionale del mondo non richiede soltanto un atteggiamento, il mondo è
qualcosa al quale bisogna girare intorno per vedere le qualità delle cose. Come faccio a dire
che la mia percezione e i miei vissuti sono anche quelli degli altri? Come faccio a dire che il
colore grigio, per esempio, ha quelle determinate frequenze per tutti? Come faccio a
essere certo che la qualità del mondo per me sono qualità per tutti? Da un punto di vista
logico, cosa dovremmo fare per essere certi che questa percezione sia la percezione di
tutti? Perché c’è una natura dell’oggetto che rende la nostra percezione qualche cosa che
non può limitarsi alla pura e semplice singolarità. Che cosa garantisce l’uniformità delle
percezioni distinte? Il fatto che gli oggetti sono diversi, hanno qualità diverse, cioè che il
mondo è fatto di differenze e non di uguaglianze. In primo luogo l’oggetto costituisce una
garanzia di un’uguaglianza di atti percettivi nella loro singolarità, ma il secondo elemento è
che io riconosco nell’altro una struttura percettiva analoga alla mia. Husserl chiama questo
elemento intersoggettività, la percezione non è mai soggettiva ma intersoggettiva. Il senso
di quello che stiamo facendo è sempre la costituzione dell’altro e che in un mondo come
questo l’altro è la differenza analoga. Io, per dire che il mondo che è così, devo essere che
cosciente che vivo in un mondo nel quale ci sono soggetti analoghi a me. La costituzione
del mondo passa attraverso la costituzione dell’altro. Soltanto costituendo l’altro io posso
avere coscienza di me stesso. L’analogia non è mai uguaglianza, ma è solo attraverso
15

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

l’analogia che io sento il riconoscimento dell’altro, solo attraverso l’empatia io costituisco il


mondo.
8. Il vissuto è un dato assoluto, assolutamente certo. Ogni atto di coscienza è coscienza di
qualche cosa, ogni mio atto è un dato assoluto perché coscienza intenzionale tesa verso
qualche cosa. Ogni vissuto è un carattere essenziale immanente alla coscienza stessa. È
un dato certo e indubitabile, quindi noi descriviamo i dati assoluti della coscienza.
9. Conclusione teorica: tutto il processo che abbiamo descritto si chiama processo di
costituzione del mondo, che parte da un presupposto indubitabile che è l’intenzionalità
della coscienza (descrizione dei vissuti coscienziali, descrizione dei vissuti intenzionali).
Questi vissuti appartengono alla nostra coscienza. Sono questi vissuti che noi dobbiamo
descrivere. Descrivere non la trascendenza in sé ma la trascendenza così come essa si
presenta a noi. L’evidenzia è l’evidenza intenzionale, non l’evidenza dell’oggetto ma
l’evidenza che deriva dal nostro atteggiamento intenzionale.
10. Conclusione ideale o riflessiva: questo processo non nega l’esistenza reale del mondo e
della natura, che il mondo esista, che il mondo si dia come un universo esistente
all’interno dell’esperienza, è perfettamente indubbio; l’unica cosa che dobbiamo fare è
cercare di capire questa indubitabilità.
Il problema è: come noi apprendiamo questa indubitabilità?
In primo luogo attraverso un’operazione di chiarificazione concettuale: noi dobbiamo chiarire che
cosa intendiamo quando parliamo di percezione ed esperienza. Descrivere è in primo luogo
chiarificare i concetti attraverso i quali operiamo. D’ora in avanti no termine intenzionalità, ma
descrizione intenzionale. Dal momento che la filosofia è una filosofia dell’esperienza, noi partiamo
dal primo atto d’esperienza: il nostro rapporto con l’oggetto spaziale.
Che cosa intendiamo quando parliamo di percezione?
La percezione è una fonte di conoscenza, il primo modo con cui noi mettiamo in opera un
atteggiamento di carattere riflessivo, per cui la percezione non è una constatazione, ma ci deve
solo far comprendere cosa sia l’oggetto. La percezione è la condizione di possibilità di ogni
conoscenza reale e possibile. La percezione è il modo attraverso il quale noi comprendiamo, una
dottrina dell’esperienza è il presupposto di una dottrina della scienza. Il punto di avvio di ogni
problematica filosofica è l’interrogarsi sull’esperire.
Cosa significa esperire?
In primo luogo la percezione non è una facoltà, non è come la sensibilità kantiana una facoltà, ma
un modo di operare, una funzione che ci pone in presenza di oggetti. Dobbiamo descrivere che
cosa e come accade nel momento in cui siamo in presenza di oggetti. L’esperienza ha un’ossatura
centrale (la percezione) e delle sue intrinseche modificazioni. L’esperienza prende avvio da un
atteggiamento percettivo, che, a sua volta, si verifica nel momento in cui siamo in copresenza con
gli oggetti, ma l’esperienza nella sua globalità è formata dai rapporti tra la percezione e le sue
modificazioni. Le modificazioni della percezione sono la memoria e la fantasia. L’esperienza è
esperienza del mondo.
La percezione è la condizione di possibilità di ogni esperienza reale o possibile.
La percezione è quello spazio problematico che prende avvio dalla nostra presenza in un comune
mondo circostante. Noi dobbiamo considerare che la percezione è basata in primo luogo sullo
schema (lavagna), implica che noi e il mondo facciamo parte della medesima esperienza

16

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

percettiva. Come noi apprendiamo percettivamente il mondo? In primo luogo la apprendiamo


attraverso i sensi e attraverso una percezione cinestetica, mai statica. Mettere insieme i vari punti
di vista. L’oggetto mi si offre attraverso svariati punti di vista, attraverso delle differenti immagini,
attraverso una costitutiva variazione immaginativa.
19.02.2019
ESTETICA DEGLI OGGETTI - 5ª LEZIONE
Un elemento essenziale è quello di non considerare mai il soggetto come un soggetto individuale
psicologico, non è neppure un soggetto, è una dimensione di assoluta impersonalità. Non
possiamo determinare le caratteristiche della percezione in base alle singole soggettività. Allo
stesso modo non possiamo determinare le caratteristiche della percezione in base alla singolarità
degli oggetti. Le strutture percettive sono strutture indipendenti dalla loro singolarità.
ESEMPIO  Ogni superficie ha un colore. Che rapporto c’è tra la superficie e il colore?
ESEMPIO 2  Quando diciamo che giriamo intorno alle cose, cosa significa? Vedere delle qualità
diverse, indipendentemente dal fatto che sia la Gioconda o che sia un libro.
L’insieme della percezione, il decorso percettivo, prescinde dalla singolarità degli oggetti e ci dà
l’oggetto in generale. Le strutture percettive sono le medesime indipendentemente dalla
singolarità soggettiva e dalla singolarità degli oggetti, altrimenti cadiamo in equivoci. Equivoci
come lo psicologismo, cioè considerare la conoscenza come qualche cosa di connesso alla
psicologia individuale.
DOMANDA: Non posso attribuire un valore storico alla percezione?
RISPOSTA: Questi elementi fanno parte di un decorso percettivo complesso, ma non sono parte
della costituzione oggettiva del senso dei decorsi percettivi. Percepire una persona che mi è cara e
percepire Caio mette in atto esattamente i medesimi decorsi percettivi. Questo in filosofia si
chiama ricerca delle condizioni di possibilità. Noi siamo su una dimensione trascendentale
(trascendentale significa ricerca delle condizioni di possibilità), noi stiamo cercando le condizioni di
possibilità della percezione indipendentemente dalle singolarità psicologiche, storiche, affettive,
emotive che sono connesse alla percezione.
Prospettiva di descrivere i decorsi percettivi: capire le modalità con cui si danno gli atti
dell’esperienza. Una percezione non è soltanto percezione, ma implica la messa in movimento di
altri atti esperienziali. In primo luogo è una genesi percettiva, impossibile parlare di percezione
senza essere coscienti che siamo all’interno di un decorso. Non possiamo parlare di percezione o
di decorso percettivo senza tenere in considerazione che ogni atto percettivo è inseparabile dalla
cosa percepita. Esiste sempre una percezione di qualche cosa, non è un qualcosa di astratto. Ad
ogni atto corrisponde sempre un vissuto intenzionale.
Testo La cosa e lo spazio.
 P. 164-165-166-349-355, il paragrafo si intitola La percezione della cosa come processo di
principio incompiuto.
DOMANDA: Perché la percezione della cosa è un processo incompiuto?
RISPOSTA: la percezione è un processo, non un atto singolare, che si rinnova a ogni atto
percettivo, quindi la percezione del mondo è una percezione che indica il processo
epistemologico della conoscenza, per cogliere il senso delle cose stesse dobbiamo
guardarle di più e guardarle meglio. La percezione è un processo stratificato e la cosa è un
17

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

insieme di percezioni, la cosa ci viene data negli atti della percezione,


contemporaneamente, né prima né dopo. La cosa che apparentemente si presenta nello
spazio come immodificato e immodificabile, non è qualcosa di definitivo, e di conseguenza
non può esser data automaticamente in un solo colpo (Husserl, p. 165). La cosa si dà
attraverso una serie di modificazioni presenti nel decorso percettivo e si dà all’interno di
una serie di prospezioni, quindi ogni cosa, ogni oggetto del nostro mondo circostante non è
qualcosa di fisso, non è qualcosa di modificato, non è qualcosa di immodificabile, ma ogni
cosa è un nucleo di possibilità, una cosa non è il già dato, negli atti della percezione la cosa
è un coagulo di possibili. Appartiene all’essenza della cosalità, ad ogni suo momento, un
flusso di continuità illimitata, un regno illimitato di possibilità aperte. Queste cose hanno
davanti a sé sempre di nuovo l’infinità (immer wieder). Il mondo è una possibilità aperta,
non ha carattere statico. Una cosa, un oggetto, determina le proprie qualità attraverso gli
atti percettivi. Avere una datità assoluta e stabile è qualche cosa di impossibile. Cercare
questo è un compito insensato. Piccola modificazione: la cosa nello spazio sta acquisendo
sempre di più dei connotati di carattere temporale, quindi una cosa nello spazio è
inseparabile dalla dimensione temporale. La percezione in quanto decorso percettivo ha
carattere temporale. L’infinità del processo percettivo non ci deve far perdere la stabilità
dell’oggetto percepito. La cosa è stabile nello spazio, il processo che l’apprende è un
processo che temporalmente si rinnova. L’esperienza è sempre qualche cosa di temporale,
allora conclusione di Husserl a p. 349 all’interno del paragrafo intitolato Esistenza reale e
possibilità reale: all’essenza della cosa appartiene una duplicità che poi è la duplicità
dell’intenzionalità (esistenza reale perché ha le sue intrinseche qualità).

DOMANDA ESAME: perché si insiste tanto sul problema della possibilità?


RISPOSTA: Perché il possibile è una categoria di carattere temporale, è la freccia stessa del
tempo, è una prospezione verso il futuro, non verso il passato. Vi sono due possibilità di
procedere verso il futuro. Esempio  Cade un pannello e questa è una possibilità che quel
pannello cada, è possibile? Sì. L’atto del cadere cosa è? Il pannello, se si stacca, può non
cadere? No, per le leggi sulla gravità. Le leggi delle gravità è qualcosa che noi possiamo
cambiare qui? No. Quindi possibilità e necessità coesistono nel nostro rapporto con il
mondo e una volta che è caduto, possiamo fare qualcosa oppure questo è un effetto sul
quale non possiamo fare nulla? No. La caduta del pannello è effettuale. Tutte queste tre
categorie (possibilità, necessità, fattualità) sono le categorie della modalità. Le categorie
della modalità sono quelle categorie che regolano le relazioni tra il soggetto e il mondo.

Husserl ci sta dicendo, accentuando il problema della possibilità, due elementi: il nostro
rapporto con il mondo non si riduce né alla fattualità, né tantomeno alla necessità.
Questo non vuol dire negare la necessità, la fattualità, quando abbiamo rapporti con il
mondo abbiamo rapporti con il possibile. I decorsi percettivi sono esplorazioni del
possibile. Nel momento in cui questo oggetto si costituisce, questo oggetto si costituisce in
una molteplicità reale o possibile di manifestazioni. Questa cosa, nel suo costituirsi, si
manifesta nel suo essere (= manifesta le sue qualità) secondo una connessione di
manifestazioni regolata e di volta in volta motivata (i rapporti tra le parti che percepisco
devono avere una loro regola). Esempio: che rapporto c’è tra la superficie e il colore? Ci
sono delle regole precise che regolano i rapporti tra le parti in un intero. Percepire significa
creare connessioni. Il mondo si guarda mettendo insieme le parti, connettendo le parti.
Deve essere motivata perché non soltanto l’oggetto si dà per prospezioni e per parti, anche

18

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

io posso mutare atteggiamento rispetto all’oggetto, posso guardare le qualità dell’oggetto


seguendo differenti motivi, che mi danno la possibilità di vedere qualità differenti.
Esempio: l’io posso significa che io posso sempre mutare il mio atteggiamento, che nella
percezione del mondo io posso modificare il mio atteggiamento di apprensione, questo sia
dalla parte dell’oggetto che dalla parte del soggetto.
Esempio: un geologo non guarderà la montagna Sainte-Victoire con gli occhi di Cézanne; la
montagna è sempre la stessa, ma è sempre diversa  esercizio di fenomenologia.
 LE CONNESSIONI CHE NOI CONSIDERIAMO IMPLICANO LE POSSIBILITÀ DELL’OGGETTO
MA ANCHE UN MUTAMENTO DI CARATTERE SOGGETTIVO, QUINDI IL MONDO HA UN
CARATTERE FISSO MA L’APPRENSIONE DEL MONDO È QUALCOSA DI MOBILE.
(Imparare a memoria). Ogni apprensione percettiva è motivata e in tale motivazione ha il
proprio diritto di reclamare l’essere: cogliere nella cosa ogni struttura di senso. Il senso
dell’essere è l’esplicitazione dei sensi dell’esperire.
(Imparare a memoria). Dal momento che questa percezione non è assoluta ma è qualcosa
che si fa, l’esperienza è la forza che garantisce l’esistenza del mondo. Questa esperienza è
una forza, un processo, che attinge continuamente da sé nuova forza.  l’esperienza è
processuale, non è una cosa che si dà una volta per tutte, la si ha guardando il mondo e le
cose.
Come tutto ciò si traduce in specifici decorsi percettivi?

In primo luogo cercando dei nemici: David Hume e Immanuel Kant.


Perché Hume? Posizione rigorosamente scettica, che conduce alla bancarotta della conoscenza
oggettiva (Husserl). In Piana espressione che contrasta, conduce a una posizione fenomenista.
L’apprensione del mondo è connessa alle mie apparizioni fenomeniche ma non vi è alcuna stabilità
in tale connessione. Husserl parte da questo presupposto (il mondo lo conosco tramite le mie
apprensioni fenomeniche) ma il mondo deve avere anche una sua stabilità ontologica, d’essere, le
cose devono avere una loro trascendenza. La fenomenologia non è il fenomenismo, non si riferisce
ai fenomeni nella loro singolarità, ma deve dare un’esistenza reale, bisogna dare un fondamento
alla percezione. Non si dà conoscenza se non attraverso le mie operazioni conoscitive, basate su
nessi abitudinari, non su nessi intrinseci agli oggetti. Chi mi dice che c’è una parete alle mie spalle?
È un nesso abitudinario. Hume non esce dall’atteggiamento naturale, capisce che l’apprensione
del mondo deve essere fatta per apprensioni successive, ma non esce dall’atteggiamento naturale,
che per definizione è scettico, non si pone il problema della conoscenza.
Kant, allievo della tradizione metafisica, grazie a Hume, esce dal sonno dogmatico, quello della
metafisica. Per Kant il discorso humiano è un discorso psicologico, ingenuo, non fondato. Il
problema è dare un fondamento a Hume, in questo Husserl dice che Kant va nella direzione giusta
perché coglie il limite di Hume. Kant coglie i limiti fenomenistici di David Hume. Kant comprende
che la conoscenza dei fenomeni ha bisogno di un fondamento e qui sbaglia. Qual è il fondamento
del discorso kantiano? Il fondamento è la scoperta dell’io penso, che deve poter accompagnare
tutte le mie rappresentazioni. Come faccio a dare unità al molteplice? La risposta di Kant è
chiarissima (ciò che Husserl non sopporta): è data da un atto soggettivo. Non io penso può, ma l’io
penso deve accompagnare tutte le mie apprensioni fenomeniche. Stabilità al molteplice attraverso
un atto sintetico. L’intelletto è la facoltà che permette la sintesi (operazione del soggetto, non
dell’oggetto). La sintesi è il segno dell’attività del soggetto. Kant offre una definizione idealistica al
processo humiano, per cui la sintesi si dà fuori dalla cosa. Husserl si chiede se non sia anche questa
19

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

una forma di fenomenismo? Kant esce davvero da Hume? No. Kant ci permette di avere un punto
di vista sul mondo per cui la sintesi non cambia la natura delle cose, perché la sintesi è fuori dal
mondo, non è nelle cose. Husserl dice che anche questa è una forma di raffinatissimo
psicologismo.
Cosa dobbiamo fare per opporci a Hume e Kant? Accogliere il metodo di Hume e cercare di
fondarlo rovesciando Kant, cioè spostando il luogo della sintesi dal soggetto all’oggetto. Husserl
contesta tre punti:
1. La conoscenza non può essere psicologica, lo psicologismo è un modo di conoscenza non
fondato, sia che esso sia empirico (Hume) o trascendentale (Kant).
2. I fenomeni devono essere connessi da nessi oggettivi. Hume non pensa che essi ci siano.
(riascoltare).
Cosa significa rovesciare Kant?
Cosa è un giudizio? S è P  soggetto è predicato
Il corpo è esteso.
Il corpo è pesante.
7+5=12
Alcuni giudizi sono analitici, altri sono sintetici. Per Kant esiste il giudizio analitico, il giudizio
sintetico e il giudizio sintetico a priori.
20.02.2019
ESTETICA DEGLI OGGETTI - 6ª LEZIONE
Per cogliere i decorsi percettivi all’interno della costituzione della cosa gira tutto intorno a un
concetto centrale: SINTESI. Il concetto di sintesi che di per sé è un termine kantiano, deriva da una
polemica filosofica facilmente inquadrabile sul piano storico. Essa vede la posizione
fenomenologica distanziarsi da due tradizioni: la prima, il fenomenismo (conoscenza come
processo che parte da operazione soggettive ma che non può mai arrivare alla certezza, quindi un
elemento dove la conoscenza non presta attenzione alcuna alla verità delle cose), e il secondo è lo
scetticismo.
Hume permette di dare una giustificazione teorica al fenomenismo. In Hume non c’è divaricazione
alcuna tra esperienza e conoscenza, evidente il risultato  la tradizione fenomenologica della
costituzione del mondo e della cosa si inserisce in questa strada. Cosa vuol dire questo? Vuol dire
che tutta la mia conoscenza ha una matrice di carattere esperienziale, i processi della conoscenza
partono da operazioni di carattere esperico. La conoscenza per Hume la conoscenza è la
descrizione di come, partendo da esperienze sensibili, si formano le idee. Qual è il limite di questa
posizione? Non sono fondati in altro modo se non all’interno del loro stesso operare; non sono
fondati sulla realtà dell’oggetto. La deriva di questa posizione è una deriva di carattere scettico.
L’unico problema che riguarda la filosofia è il come conosco, non il perché. In questo senso tutti i
fenomenologici sono figli della tradizione humiana. Posizione di Hume scettica, psicologista,
fenomenista. È evidente che Kant parte da Hume, dall’assunto humiano che non si danno
conoscenze se non a partire da operazioni soggettive, che sono autoreferenziali. Kant disgiunge
quel che Hume aveva unito, cioè l’esperienza e la conoscenza; per Kant conoscere non è avere

20

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

esperienze. Il punto: Kant disgiunge la conoscenza e l’esperienza (al contrario di Hume).


L’esperienza sensibile è una condizione necessaria ma non sufficiente per la conoscenza.
Che cos’è tutto il percorso kantiano? Andare alla ricerca della condizione necessaria ma anche
sufficiente. Base sensibile, fondamento extra sensibile. I sensi ci danno il molteplice, ma non
riescono a costituire dal molteplice l’unità del fenomeno (non è data attraverso i sensi). Per Hume
la conoscenza è soltanto estetica. Il conoscere passa attraverso i sensi. Per Kant l’estetica è
propedeutica alla conoscenza, con i sensi non si conosce nulla, si raccoglie materiale, è necessaria
un’operazione ulteriore non esperienziale. Per un kantiano la sintesi non è mai una sintesi estetica.
Che cos’è la sintesi per Kant? La sintesi è un’operazione intellettuale, non esperienziale. In Piana vi
è depotenziamento della sintesi, vuol dire unificazione del molteplice sensibile in un fondamento
fenomenico. L’unificazione del materiale offerto dai sensi si traduce nella formulazione di giudizi.
S è P  Si attribuisce delle qualità a un soggetto attraverso una copula, quindi vuol dire che le
qualità sensibili si sintetizzano all’interno di un giudizio. Il risultato della conoscenza è un giudizio;
il libro è verde è un giudizio, è un giudizio non estetico ma è un’operazione extraestetica, è
un’operazione sintetica dell’intelletto, è un’altra facoltà che forma la sintesi, facoltà pura, facoltà
extraestetica. Ogni giudizio è un prodotto intellettuale, l’estetica non giudica (per la tradizione
fenomenologica la prima affermazione è incomprensibile e alla seconda affermazione va tolto il
non). Per capire questo bisogna spiegare cosa è il giudizio e cosa è la sintesi. Quello che ci importa
definire è che l’intelletto non è una facoltà estetica, l’intelletto è una facoltà che riguarda una
dimensione pura e trascendentale. È l’intelletto la condizione di possibilità sufficiente per
effettuare la sintesi. L’intelletto è la facoltà del giudizio, la facoltà che permette di unificare il
molteplice in concetto. L’intelletto è la facoltà del giudizio, il giudizio è un’operazione intellettuale,
non estetica, la conoscenza passa attraverso il giudizio. Kant dice che l’intelletto è una facoltà
spontanea, fa parte delle condizioni di possibilità del conoscere.
NON È L’UOMO CHE GIUDICA, È IL SOGGETTO (AL MASSIMO L’INTELLETTO).
- Il giudizio è analitico (es. il corpo è esteso)  per Kant il giudizio è analitico perché la
proprietà dell’estensione è già data dalla nozione di corpo (non estende la conoscenza). Il
giudizio analitico per definizione è a priori, puramente intellettuale.
- Il giudizio è sintetico (es. il corpo è pesante)  il giudizio di Hume, tramite un atto
d’esperienza attribuisco a un corpo una qualità che deriva necessariamente da un atto
d’esperienza. Questo giudizio è estensivo della conoscenza, una conoscenza puramente
empirica. Il giudizio è totalmente legato all’esperienza (empirico) ma la forma è totalmente
intellettuale. È sintetico ma non è puro, non ci conduce a una conoscenza fondata.
- Il giudizio è sintetico a priori (es. 7+5=12)  l’unico che davvero ci permette di conoscere. I
numeri sono concetti empirici, intervento spontaneo del soggetto, cioè il più e l’uguale.
Intervento spontaneo, prescinde dall’esperienza. Non è vero, teoria dei giudizi di Kant
geniale ma fa acqua da tutte le parti. In realtà questo è il classico giudizio formale analitico,
perché non c’è riferimento diretto a un atto contenutistico. Il contare in una stanza invece
è un giudizio sintetico.
Tutti questi giudici sono conoscitivi.
Husserl rovescia la teoria dei giudizi di Kant. Ciò che è analitico per Kant è sintetico, ciò che è
sintetico è in realtà analitico. La differenza tra giudizio analitico e giudizio sintetico non esiste, e il
giudizio sintetico a priori è il classico esempio di un giudizio formale; questo giudizio formale
estende la nostra conoscenza ma su un piano formale, cioè ci porta al di fuori di una dimensione
21

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

esperienziale. 7+5=12 riguarda il qualcosa in generale, invece 12 oggetti su questa scrivania sono
12 oggetti sinteticamente posti all’interno di un piano che noi descriviamo descrivendo le
operazioni con le quali lo apprendiamo. Il 7+5 è analitica pura, si riferisce al qualcosa in generale e
non al mondo della nostra esperienza. Questo significa un giudizio analitico, come tutti i giudizi
della matematica. Qui Kant vuole affermare che non c’è sintesi dell’empirico se non attraverso un
intervento spontaneo del soggetto, che non è empirico. Il giudizio conoscitivo in senso proprio non
ha a che fare con l’esperienza se non nel fornire il materiale.
Un’altra accusa che viene fatta a Kant è quella di essere formalismo logico puro, cioè non c’è un
riferimento diretto all’esperienza. Esperienza e conoscenza sono disgiunte. La conoscenza è
un’operazione che interviene sull’esperienza, non deriva dall’esperienza. 7 e 5 sono contenitori
vuoti.
Dobbiamo quindi cambiare atteggiamento. Questo concetto di sintesi è valido? Il concetto di
giudizio sintetico a priori è valido? ASSOLUTAMENTE NO. Non solo il giudizio sintetico ma il
concetto di sintesi va assolutamente rovesciato. L’idea di proposizione sintetica è qualche cosa che
va totalmente rimesso in discussione e va proprio rovesciato. Il fatto che la sintesi sia
un’operazione extra sensibile è un errore. Piana aggiunge un ulteriore elemento molto forte: non
sopporta che si parli di soggetto, perché la sintesi è all’interno del materiale sensibile. Bisogna
cambiare il concetto di spontaneità, che appartiene all’oggetto e non al soggetto e dice che i
processi costitutivi partono dalla constatazione che questa spontaneità è passiva nel senso che
l’oggetto è così e non possiamo farci nulla. Quando noi determiniamo questo elemento prendiamo
atto di una sintesi che è già all’interno del materiale sensibile. Le sintesi percettive sono tutte
sintesi passive. Le sintesi per Kant sono tutte attive, implicano un intervento spontaneo del
soggetto. Le cose le qualità ce le hanno già, conoscere significa descrivere i modi con cui l’oggetto
mi si dà con le sue qualità di senso. Quello che Kant chiamava giudizio analitico in realtà per
Husserl è il giudizio sintetico (il giudizio sintetico per eccellenza è: il corpo è esteso, in quanto il
corpo si dà nella sua estensione, il corpo è uno spazio). Il problema della sintesi non è più chi
effettua la sintesi, perché la domanda è mal posta, la sintesi è già nel darsi spontaneo della cosa.
La sintesi è la constatazione che la cosa è lì con le sue qualità. Constatare però non è conoscere,
conoscere significa descrivere le operazioni attraverso le quali io apprendo le qualità sintetiche.
25.02.2019
ESTETICA DEGLI OGGETTI - 7ª LEZIONE
RECAP. Fondamenti storici del discorso che ci hanno portato a differenziare le posizioni storiche della
tradizione fenomenologica dalla tradizione kantiana e ??
• Concetto di sintesi à concetto naturalmente ambiguo. Perché? Perché vuol dire la stessa cosa con due
accezioni diverse, a seconda della tradizione di riferimento. Sintesi è comunque sempre (cfr. paragrafo 6
Piana) un processo di unificazione che avviene diversamente, a seconda delle tradizioni secondo cui il
processo di unificazione si pone.

 Tradizione humiana (empirista): processo di unificazione è intrinseco agli atti percettivi; è un


processo psicologico. “Percepisco il mondo e unifico gli atti della mia percezione sulla base
della descrizione dei miei atti” à Questo è corretto MA io non sto descrivendo le posizioni degli
oggetti nello spazio, ma mi limito a descrivere le mie percezioni completamente scollegate da ciò
che gli oggetti sono. La sintesi, nella tradizione empirista, è solo una sintesi di carattere psicologico.
Psicologismo à “-ismo” è quasi sempre dispregiativo.
 Tradizione kantiana: sintesi è sempre una unificazione, MA tale unificazione è totalmente al di
fuori dagli atti dell’esperienza; fare unificazione è qui un atto intellettuale, che porta Kant a definire

22

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

la sintesi come “pura”, “a priori” o “trascendentale”. La sintesi trascendentale prescinde


totalmente da ciò che gli oggetti sono ed è un puro atto di spontaneità soggettiva.

DOMANDA BASTARDA: Qual è il limite di entrambe queste posizioni? Entrambe si riferiscono in eccesso ad
una dimensione soggettiva: avvengono sulla base di un’attività del soggetto. Nel caso dell’empirismo di
tratta di un soggetto empirico (io-uomo); nel caso di Kant si tratta di un io trascendentale (io-puro). In
entrambi i casi però si tratta di psicologismo, poiché questo tipo di percezione ignora la specificità delle
cose e il fatto che la descrizione dei miei atti percettivi vuole determinare la realtà del mondo.
•QUINDI Nella definizione della sintesi (unificazione) noi dobbiamo prescindere da posizioni soggettiviste,
dobbiamo guardare alla specificità dei materiali. La sintesi in quanto unificazione si riferisce alle cose, e non
al soggetto.
Inoltre, se parliamo di “unificazione” significa che la percezione in senso specifico non è un atto, ma
una sequenza di atti che vengono messi insieme. Si tratta quindi di un decorsopercettivo. Processo di
costituzione, non un processo una tantum. Questo discorso è più vicino a Hume che a Kant.
Questo vuol dire anche che il termine “sintesi” non è soltanto spazio: c’è anche una forte pregnanza di
carattere temporale, poiché ogni sintesi avviene all’interno di un tempo, non si verifica una volta per tutte.
ALTRA DIFFERENZA: nella posizione kantiana il tempo è inseparabile dall’io che effettua la sintesi; anzi, l’io
che effettua la sintesi è temporalità.
Posiz empirista: il tempo non è un atto sintetico del soggetto, ma è quello dell’apprensione esperienziale
del mondo. Girare intorno alle cose implica anche uno “scorrere” del tempo.

1. Questo estremo antisoggettivismo, per cui le sintesi sono soltanto cosali, rischiano di mettere in
secondo piano il problema della corporeità percepiente. Quando si percepisce ci si muove nel
mondo: è sempre un corpo che percepisce. La realtà del corpo non può essere messa da parte.
2. (par. 7-8 Piana) Evidentemente ciò che deve cambiare rispetto alle tradizioni precedenti è il
concetto di sintesi. Noi costituiamo le cose nello spazio e tempo così come le cose sono: noi le
unifichiamo. Ecco tre espressioni letterali citate in Piana:

 “il dato esibisce da sé la propria interpretazione” à espressione che va contro anche alle derive
ermeneutiche della fenomenologia. Il dato può essere interpretato solo mostrandosi, quindi c’è un
senso delle cose che prescinde dalle interpretazioni. Interpretazione significa descrizione della
posizione dell’oggetto nello spazio, a partire da vari punti di vista. Interpretazioneà descrizione. Se
un decorso percettivo è un decorso di scene percettive, allora il dato esibisce da sé la propria
interpretazione.
 “la molteplicità dei fenomeni si auto-organizza” à significa che non vi è un’organizzazione estrinseca
delle apparizioni del mondo. I fenomeni che mi appaiono si organizzano in base a dati intrinseci. La
sintesi è una forma di auto-organizzazione.
 “ogni giustificazione della sintesi si trova all’interno di un processo percettivo” à possiamo
concludere che la sintesi / unificazione è un processo percettivo.

Sorgono dei problemi: qual è la struttura della percezione? (con la premessa che “l’esperienza possiede in
ogni sua forma e manifestazione una struttura, e la ricerca filosofica deve semplicemente rendere evidente
questa struttura, cioè portare alla luce i modi e le articolazioni degli atti percettivi”.)
L’esperienza è la condizione di possibilità di ogni conoscenza. Siamo all’interno di un discorso in cui ciò che
dobbiamo descrivere sono le strutture esperienziali. La parola-chiave non è “soggetto”, ma “struttura”.
L’unificazione ha quindi a che fare con delle strutture di esperienza.
Questa posizione è davvero così lontana dall’empirismo? Da un punto di vista metafisico/filosofico siamo
lontani anni luce dall’empirismo, perché qui l’unificazione è nelle cose stesse; MA da un punto di
vista operativo siamo vicini, in quanto la descrizione di ciò che le cose sono deve necessariamente passare
attraverso la descrizione dei miei atti esperienziali.
Allora qual è la vera differenza? È che nell’empirismo si guarda soltanto ai modi della conoscenza
dell’oggetto – per cui l’esperienza è una descrizione di modi percettivi; per Husserl invece si
23

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

vuole costituire l’oggetto. Il problema qui (terminologico, ma non solo), è quello della costituzione
dell’oggetto: cosa è la costituzione dell’oggetto? Come si fa? Attraverso questi modi noi vogliamo costituire
ciò che le cose sono. Vogliamo uscire dal principio soggettivistico e psicologico per andare sul mondo.
Descrivere significa costituire per l’approccio fenomenologico.
Il termine “costituire” è un termine ambiguo, MA qui non deve richiamare a situazioni soggettive. Dire che
“costituisco il mondo” non significa che io, soggetto, costituisco il mondo; qui il termine implica la
descrizione del senso intrinseco alle cose stesse. Etimologicamente, il termine “costituire” deriva dal
latino constitutio, che significa “disporre, costruire, istituire, ma anche comporre”, nel senso proprio di
“raccogliere insieme”. La fenomenologia mira proprio a quest’ultimo significato, raccogliere insieme, volto
a consolidare qualche cosa.
Inoltre, proprio nel linguaggio di filosofia del diritto “costituire” significa “definire con chiarezza una
questione di diritto”, quindi fissare e circoscrivere i confini/contorni di un concetto.
QUINDI costituire una cosa = raccogliere insieme + chiarificare. Cogliere l’essenza qualitativa delle cose.
Ogni analisi costitutiva è l’esibizione, la descrizione di una genesi di senso = la descrizione di strutture
esperienziali. Costituire un oggetto è quindi un’operazione complessa, poiché ogni oggetto può essere
costituito in modo differente. Da dove dipende questo modo differente? Dalle specificità qualitative
dell’oggetto stesso; non è una mia scelta, è l’oggetto che ha delle qualità che si mostrano.
La definizione concettuale di un oggetto non è un “parto” intellettuale; è il risultato di un’indagine
strutturale, cioè di una esibizione di qualità dell’oggetto. L’oggetto ha vari sensi che si mostrano. Ciò
significa che nella costituzione le cose manifestano la loro storia, il divenire delle loro qualità. Esperire
significa chiarificare la storia delle cose. Le cose non sono semplici: la loro complessità intrinseca si esibisce
nella costituzione del mondo. Di fronte a noi l’oggetto si mostra negli strati di significato che gli sono propri;
più lati di sé esibisce, più è complessa la costituzione.
Che cos’è l’identità? Ogni oggetto ha una serie di identità multiple. Un registratore può essere uguale a
centinaia di oggetti come lui, eppure è diverso, non è identico. La cosa si complica ulteriormente se
parliamo di costituire un’opera d’arte.
Costituire significa cogliere le differenze e la complessità delle strutture di senso dell’oggetto in questione.
Costituire significa fare del mondo un problema, e questo primo nostro problema di rivolgerci al mondo
non è un problema astratto, ma un problema di esperienza.
à Il primo approccio è sempre un approccio esperienziale. Il senso degli oggetti fuoriesce sempre da
un’esperienza. L’esperienza è quindi la condizione di possibilità dell’apprensione del mondo , ma il
processo totale non può ridursi soltanto all’esperienza che facciamo degli oggetti.
Dunque l’esperienza è “descrizione del mio mondo circostante”, descrizione del mio mondo-ambiente.
Questo è un processo razionale: non esiste irrazionalità in tutto ciò, esistono motivi.
“Descrivere non significa spiegare. Le scienze spiegano, la filosofia descrive.” NON SI RISPONDE AI
PERCHÉ, SI DESCRIVE IL COME. Non una descrizione che mira a determinare delle cause, ma che vuole
semplicemente descrivere. Husserl dice che la filosofia è la “scienza delle scienze”. Le scienze cognitive
sono i grandi nemici della tradizione fenomenologica.
Qual è il primo punto da cui partire per analizzare le strutture di carattere percettivo?
Determinare quale sia la struttura della percezione (cfr. par. 9-10 Piana, FONDAMENTALI!). Spiegazione del
cosiddetto diagramma del tempo.
Come funziona il nostro percepire? Con un processo che si dà con 2 conseguenze: l’atto della percezione ha
sempre in sé ritenzione e protenzione. Ogni atto percettivo ha sempre in sé questi due momenti. In ghe
zenzo?
La percezione avviene per immagini e per ricordi, cioè unificando le dimensioni del tempo (passato –
presente – futuro). Usiamo questi due termini perché quando parliamo di immagini o ricordi percettivi non
si tratta in senso proprio né di ricordi, né di immagini.
Qual è la caratteristica del mio rapporto con la percezione? La presenza dell’oggetto, l’hic et nunc.
Dev’esserci compresenza spaziotemporale dell’oggetto e di chi lo guarda.
Qual è la caratteristica dell’immaginazione o della memoria? L’assenza di hic et nunc. L’oggetto non è
fisicamente presente.

24

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

•quando noi parliamo di “immagini della percezione” non stiamo parlando di “immaginazione”. Diciamo
immagini ma ci riferiamo ad un decorso di scene percettive.
Si tratta di vedere come queste scene si pongono tra loro à si pongono tra loro in un rapporto di ritenzione
e protenzione, che sono i modi in cui sono percettivamente implicate nella percezione attuale (= atto del
percepire) le scene trascorse e le scene anticipate.
[…] Le prime scene sono ritenzionalmente presenti (nell’atto del mio ritenere), e le altre sono
protenzionalmente presenti (sono anticipazioni della percezione).
SCHEMA DEL TEMPO
Ogni banale percezione ha la FORMA temporale di ritenzione e protenzione. Ogni percezione ritende e
protende: mette insieme le scene percettive secondo questo schema temporale.
“Il tempo è rigido, però fluisce”.
Questo è lo schema del tempo. Le scene percettive permangono nella percezione: decadere ≠ oblio. Noi
continuamente mettiamo insieme ritenzione e protenzione, fa parte della nostra struttura percettiva.
Questa è la forma del tempo percettivo. PROBLEMI:

 problema della percezione e dell’esperienza è quello di una profonda struttura temporale della
percezione. La struttura fondamentale della percezione è tempo. Perché? Perché la percezione
avviene nel tempo, anzi, la percezione è tempo. Non esiste esperienza che non sia temporale. (cfr.
par. 10 Piana) Ma allora questo implica che esistano delle condizioni formali per la percezione = lo
schema del tempo, senza il quale noi non potremmo percepire. La sintesi formale di ogni
percezione possibile e reale è quello schema.

PROBLEMA: questa forma temporale, questa sintesi temporale va riempita di contenuti, di qualità
cosali. Le sintesi estetiche non sono sintesi formali, ma sintesi contenutistiche. Quindi questo
schema, che è uno schema formale, va riempito; la costituzione è riempimento dello schema.

 allora ci sono 2 modi di considerare questi contenuti.

Ma come faccio dal flusso delle due frecce dello schema a costituire un’oggettività?

Il tempo fluisce ma è rigido: che significa? Come faccio a cogliere la rigidità del tempo dal flusso?
Quando costituisco le cose io costituisco sempre degli interi, e gli interi non sono tutti uguali tra
loro. Si tratta quindi di cogliere la differenza tra gli interi che costituisco (continua domani).
26.02.2019
ESTETICA DEGLI OGGETTI - 8ª LEZIONE
Solo grazie alla sintesi temporale un oggetto può giungere a manifestarsi. Come accade?

 Polemica contro il kantismo


 Si vuole sempre sottolineare che l’esperienza non è qualcosa di astratto – è parte del nostro mondo
della vita. La costituzione del tempo è il modello di ogni costituzione possibile.

Recuperare QUESTA PARTE?????


La percezione è un atto intenzionale, ma è temporale – è come una coda di cometa. È un atto articolato che
si sviluppa all’interno di un divenire. Come si svolge?
àConnettendo le parti del decorso percettivo, su base contenutistica. La parola-chiave
è associazione (parola humiana, ma non segue Hume à in Hume l’associazione avviene su base
abitudinaria, sulla base di nessi psicologici ed abitudini soggettive). In Husserl l’associazione avviene in nessi
intrinseci ai contenuti stessi. La mamma di tutte le associazioni è la temporalità. Il tempo è la forma di ogni
associazione percettiva possibile e reale. L’associazione temporale si dà con le cose stesse.

25

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

àCiò avviene attraverso il progetto formato da ritenzione (ritenere: distante, passato) e protenzione (attesa
percettiva – io mi attendo di avere una parete alle mie spalle). Nella percezione si tratta di connettere l’atto
con gli atti immediatamente precedenti e con gli atti immediatamente successivi.
(!) Non confondere la ritenzione, che è parte strutturale dell’atto percettivo, con il ricordo (Husserl chiama
la ritenzione “ricordo primario” e il ricordo “ricordo secondario” o “rimemorazione”), perché nel ricordo le
cose si ripresentano; nella ritenzione le cose si presentano, sono con noi nello spazio-tempo. Il ricordo
implica l’assenza dell’oggetto, mentre la ritenzione è parte integrante dell’atto percettivo.
La protenzione o attesa percettiva è la freccia verso il futuro. L’atto del percepire anticipa il corso futuro
della percezione stessa, la riempie. Anche se un oggetto non ci mostra tutti i suoi lati, noi abbiamo queste
attese percettive nel momento in cui guardiamo tale oggetto da un determinato pdv; la protenzione è
quindi una intenzione anticipatrice / una tendenza verso il futuro. La protenzione ci fa capire molto bene
cosa intenda Husserl quando parla d’intenzionalità, poiché si tratta di un vero e proprio “tendere verso” il
mondo, il nostro scoprire il mondo. In un certo senso la protenzione è l’atto germinale dell’intenzionalità; è
il segno della nostra attenzione attiva verso il mondo. La tensione verso il futuro mostra che noi non siamo
passivi: dobbiamo essere curiosi del mondo. Grazie alla protenzione noi pre-delineamo il decorso
percettivo.
Le attese percettive non sono immagini vuote; sono intrinseche nell’atto del percepire.
àLa temporalità è una forma di ordinamento senza la quale nulla potrebbe apparire. Tuttavia, la
temporalità, pur essendo una condizione formalmente necessaria, non è sufficiente per la costituzione
dell’oggetto. Dobbiamo passare da un orizzonte formale (e il tempo è la forma di tutte le percezioni
possibili reali) ad una forma contenutistica (a delle sintesi di contenuto) à dobbiamo passare al fondamento
contenutistico della sintesi.
Dobbiamo imparare a cogliere l’interdipendenza delle parti nella costituzione degli interi percettivi (cfr. par.
13 Piana). La posizione attraverso le scene percettive di un oggetto fatto così e così viene effettuata non
solo in base alla struttura temporale, ma sulla base dei contenuti che le cose presentano nel loro dispiegarsi
(par. 10); ovvero: perché una sintesi temporale possa effettuarsi, vi deve essere un fondamento
contenutistico per essa. Sono le sintesi contenutistiche a determinare la pienezza dell’oggetto.
L’unificazione temporale deve valere come condizione formale delle sintesi percettive. I contenuti
sono cosali. Per cui – esempio – la percezione della Gioconda avviene sempre nel tempo, ma quelle qualità
che ci fanno apparire la Gioconda come un dipinto unico sono qualità intrinseche alla Gioconda; quindi non
è il tempo a dettare la differenza tra le cose, ma le qualità intrinseche alle cose stesse.
La costituzione delle cose è quindi un processo che sicuramente avviene nel tempo (attraverso ritenzioni e
attese) MA la costituzione del mondo non si limita a questo – pur essenziale – elemento formale: noi
dobbiamo guardare ai contenuti; ovviamente i contenuti dipendono anche dai contesti, dall’atteggiamento
che noi abbiamo nei confronti delle cose stesse. Dipendono molto dagli “stili percettivi” (Husserl) che noi
assumiamo nei confronti del mondo.
Il principio chiave è quello della capacità di associare: la costituzione è associazione intenzionale.
Cosa vuol dire associare? Significa costruire un intero avendone percepito le parti. Il fenomeno
dell’associazione non è un fenomeno abitudinario/psicologico; esso è radicato nelle qualità e nella
posizionalità (=contesti) degli oggetti del nostro mondo circostante.
La prima forma d’associazione, la più immediata, è quella che lega la superficie al colore. La superficie è
separabile dal colore? à no. Questa è una fusione delle due parti.
Costruendo nessi tra le parti è possibile giungere a costruire l’intero. I contenuti sono nessi, associazioni tra
le parti.
Altro esempio: nell’organismo umano il cuore non è separabile dal corpo – la parte è inseparabile
dall’intero à Husserl li chiama interi di prima specie: la parte è fusa con l’intero, vi è fusione dei contenuti.
QUINDI

1. La costituzione è sempre un processo temporale.


2. Per avere gli oggetti bisogna operare sintesi costitutive.
3. Le sintesi costitutive sono sempre sintesi associative.

26

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

L’associazione non lavora in base ad una regola sola, ma secondo diverse regole associative (che sono varie
e complesse, e differenziano i campi percettivi).
à Regola della totalità organica. Superficie e suo colore nero sono inseparabili; esiste il nero? No,
esistono superfici nere. Le qualità esistono se connesse a determinati elementi cosali. Ciò non significa che
nella percezione non vi siano elementi storici e tonalità affettive, ma che all’interno di questa struttura di
apprensione gli oggetti ci lanciano anche messaggi di carattere storico e affettivo.
Si uniscono le parti all’intero senza che esistano momenti sensibili di unità; non tutti gli interi sono fatti in
questo modo: esistono degli “interi di seconda specie” in cui tra le parti esistono momenti sensibili di unità.
Ad esempio, la contiguità (l’essere vicini) è un nesso sensibile di unità.
La totalità organica forma un intero di prima specie, e non richiede molte spiegazioni. Invece qualunque
cosa appaia in una scena percettiva si presenta cosa articolata ed organizzata: noi dobbiamo descrivere
quest’articolazione e quest’organizzazione.
(Piana par. 15) In tutto ciò la soggettività è ai margini.
Le prime regole associative fanno parte di un orientamento spaziale. Nell’orientamento spaziale il
complesso che si auto-organizza, perciò non si può parlare di intervento della soggettività. Due oggetti sono
organizzati nello spazio indipendentemente dal soggetto che li vede. Contiguità e somiglianza sono una
determinazione sintetica.
L’intervento soggettivo nel creare situazioni non cambia le strutture della percezione: se io posiziono due
oggetti in un determinato modo nello spazio sono intervenuta sulla situazione, ma la struttura percettiva
resta quella.
•“ IL , È” è un nonsense, non si può costituire un intero linguistico da queste parti.
• “un quadrato rotondo” è un controsenso, ma comunque l’espressione ha senso, possiamo capire di cosa
si parla.
Un insieme di interi di prima specie (organici, inseparabili) forma un intero di seconda specie (poiché
contigui). Es. una classe di alunni.
IN OGNI CASO IL SOGGETTO NELLE SINTESI PERCETTIVE NON C’ENTRA NIENTE! Due oggetti sono contigui
indipendentemente dalla mia percezione; essi sono contigui perché sonocontigui.
La percezione ha una struttura. Il mondo non è frutto di caos o di caso, ma ha una sua struttura di senso; la
percezione è l’intenzionalizzazione di questa struttura di senso.
Le regole dell’associazione sono dettate dai materiali stessi, che sono però complessi. Il mondo è
complesso, è fatto di tanti strati. Es. concetto di corpo. Cosa intende ciascuno di noi quando percepisce un
corpo? Una realtà organica, ma anche spirituale. Noi siamo corpi, ma anche una penna è un corpo. Siamo
allora la stessa cosa?
à il processo che ci pone di fronte a questa realtà mondana complessa implica l’esercizio della ragione. Il
mondo circostante ci invita continuamente ad utilizzare la ragione.
tutto ciò noi l’abbiamo chiamato coi termini di “sintesi associative”, “sintesi estetiche”, “sintesi passive”,
“sintesi percettive”.
Allora forse dovremmo ipotizzare che le sintesi passive generano nell’io un’inclinazione a prendere
attivamente una posizione. Sono le sintesi passive a generare l’attività apprensionale del soggetto, non
viceversa.
27.02.2019
ESTETICA DEGLI OGGETTI - 9ª LEZIONE
La costituzione della cosa sul modello della costituzione temporale nello spazio avviene secondo
principi intrinseci, dove le qualità sono intrinseche alla cosa stessa. Questo processo descritto in
modi diversi: sintesi estetica, sintesi a priori, sintesi materiale, sintesi associativa. Costituire la cosa
è sempre un processo associativo, costituzione di una realtà cosale complessa. Gli interi sono di
diverse specie, questione complessa, non tutti gli interi sono uguali e non tutte le cose sono
ugualmente interessanti, non tutte le parti costituiscono un intero interessante. Le associazioni
sono di due specie:

27

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

- Intero organico (totalità organica), dove le qualità sono inseparabili dalla cosa, sono la cosa
stessa
- Interi in senso proprio, perché si tratta di mettere insieme le parti (creare dei nessi fra le
parti medesime, momenti sensibili di unità che costituiscono un intero). Costituire significa
sempre costruire un insieme (cogliere il senso del mondo significa costruire interi).
Gli interi sono realtà sensibili che si auto-organizzano; i momenti sensibili di unità sono molteplici:
esistono quelli nello spazio che siamo abituati a considerare a partire dalla tradizione empirista;
sono quelli di contiguità e somiglianza.
In senso proprio non tutti gli agglomerati sono interi, non basta mettere vicine delle cose per
costituire un intero di significato; non basta per costituire il senso di un complesso esercitare un
intervento costitutivo sul mondo. In questo entra in gioco il contesto.
Esempio  Su questa superficie ci sono differenti oggetti, che di per sé non costituiscono un intero
come lo costituisce una raffigurazione organica, una sala di un museo, dove trovare dei nessi
spazio-temporale anche di carattere storico è più semplice. In senso proprio, gli oggetti che sono
su questo piano, per la loro difformità, sono un agglomerato di oggetti. Che cosa li rende un
intero? Naturalmente il contesto in cui questi oggetti si pongono. Questo vuol dire che gli oggetti
sono disposti su questo piano così e così, sono loro che si dispongono, posso spostarli, ma quando
li sposto rimangono sempre disposti così e così. Questo vuol dire che la costituzione di un intero,
pur strutturalmente indipendente da un intervento soggettivo, non può fare del tutto a meno nel
momento in cui la cosa ci appare di tale intervento costitutivo.
Il soggetto indipendente è estraneo alle sintesi estetiche e in senso proprio le sintesi costitutive
avviene indipendentemente dal mio percepire l’oggetto, ma sarebbe profondamente
antifenomenologico non considerare che nella costituzione d’oggetto anche la dimensione
oggettiva ha una sua rilevanza. Dimenticare il carattere correlativo dell’intenzionalità
fenomenologica rischierebbe di trasformare tutto il discorso in un edificio realistico. Fermo
restando lo strutturarsi del materiale sensibile (il mondo ha un senso in sé), fermo restando che le
relazioni tra le parti sono relazioni tra le parti, il termine costituire implica l’intervento di
un’intenzionalità soggettiva. I momenti sensibili di unità, associativi, sono intrinseci alle cose (NO
DIRE ALL’ESAME CHE I MOMENTI DI UNITÀ SONO SOLTANTO LA CONTIGUITÀ E LA SOMIGLIANZA,
questi sono elementi ineliminabili nella costituzione degli oggetti spaziali). Le tonalità affettive e la
strutturazione storica possono essere elementi di unità nella costituzione degli oggetti,
semplicemente non hanno quella valenza universale che possono avere la contiguità e la
somiglianza. Costituire un oggetto è una questione assolutamente complessa.
ESEMPIO  La Gioconda di Leonardo è di per sé un intero di prima specie perché inseparabile
dalle cose dipinte sopra, ma se mi metto a descrivere quello che c’è nella Gioconda di Leonardo in
realtà diventa un intero di seconda specie, perché la Gioconda di Leonardo è fatta di tante cose (gli
alberi, le rocce, ecc). È evidente che la Gioconda di Leonardo in quanto intero complesso ha al suo
interno delle relazioni tra le parti che sono esattamente come le relazioni tra le parti poste su una
superficie piana, ma non è la stessa cosa costituire la Gioconda e costituire un intero degli oggetti
sulla scrivania.
DOMANDA: La Gioconda, in quanto dipinto, è un oggetto di prima specie ma in quanto opera
d’arte è un oggetto di seconda specie?
RISPOSTA: In quanto superficie con dei colori non si differenzia dalla superficie con dei colori di un
altro pittore, perché entrambe, dal punto di vista fenomenologico, sono superfici caratterizzate da
28

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

colori e forme. Allo stesso modo una copia della Gioconda è inseparabile dalla Gioconda; è
altrettanto evidente che nel momento in cui mi metto a costituire un intero di seconda specie io
posso che la Gioconda e la copia hanno al loro interno identiche relazioni tra le parti, quindi anche
in questo caso sono entrambi oggetti di seconda specie. È evidente che per determinati oggetti, gli
elementi puramente spaziali, non servono a costituire la complessità della cosa, perché si
introducono nella costituzione della cosa degli elementi intrinseci all’oggetto ma non akgaòg a
strutture di carattere spaziale. Che differenza c’è tra la Gioconda e una copia? In primo luogo la
storicità dell’oggetto, caratteristica intrinseca. Queste caratteristiche storiche appartengono
all’oggetto stesso ma per essere riconosciute vi è bisogno di un intervento costitutivo che non può
essere altro che soggettivo. Per riconoscere queste motivazioni intrinseche alla realtà strutturale
dell’oggetto vi deve essere un intervento del soggetto, un intervento che inserisce questo
determinato oggetto in altri elementi sensibili di unità.

Se noi vogliamo completare la costituzione succede che le sintesi passive/associative/che noi


cogliamo all’interno delle realtà stratificate, hanno due caratteristiche:
1) Costituire il mondo significare esercitare la ragione, la nostra credenza nel reale non è un
fatto irrazionale, ma è interrogare il reale. Descrivere e costituire significa interrogare il
reale, ma soprattutto perché il reale ci risponde, ci comunica, ci manifesta con le sue
qualità questo senso. L’elemento portante della fenomenologia è l’interrogazione del
mondo. La passività non implica una passività del soggetto.
2) Le sintesi passive generano nell’io un’inclinazione a prendere attivamente posizione; nella
misura in cui il soggetto segue tale inclinazione, il soggetto compie atti intenzionali
(prendere posizione nei confronti del mondo, assumere un atteggiamento intenzionale,
avere la capacità di tematizzare il mondo, di cambiare atteggiamento nei confronti del
mondo e di essere indotti a questa capacità di cambiare atteggiamento dalla capacità di
cogliere le differenze complesse). Prendere posizione nei confronti del mondo significa
assumere un punto di vista, cioè esercitare un’attività intenzionale. La passività del mondo
non deve indurci a un atteggiamento passivo, ma alla capacità di guardare attivamente il
mondo. Noi chiamiamo questo processo con il nome di intenzionalità d’atto. riascoltare. il
mondo diventa una serie di temi che io guardo, tematizzare il mondo significa costituire il
mondo con una serie di interi che lo costituiscono. L’intenzionalità d’atto è il soggetto che
accetta gli stimoli, vuole costituire le sintesi passive.
Ci sono altre forme di intenzionalità possibili. Io guardo una persona, la tematizzo, ma sullo sfondo
vedo altre persone che non costituisco. Io pongo il mio interesse tematica nei confronti di un
intero ma sullo sfondo mi rimane anche altro che non tematizzo. Intenzionalità che pur rimanendo
sullo sfondo funziona, opera. C’è un contesto intenzionale. Intenzionalità fungente (che funziona,
non è tematizzante).
Come opera l’intenzionalità d’atto? Come il soggetto si dirige verso un oggetto intenzionale? Quali
sono le modalità con cui si rivolge al mondo circostante? Come l’oggetto intenzionale si trasforma
in oggetto reale? L’oggetto reale si trasforma di fronte a me in un polo teriologico, io devo
coglierlo in tutte le sue possibilità. Una serie di istanze che devo descrivere. Diventa quasi una
prospettiva infinita che devo colmare, come? IL CORPO. Non c’è esperienza se non attraverso un
corpo che esperisce. Per costituire i sensi stratificati dell’esperienza, noi dobbiamo costituire
anche questo oggetto strano che chiamiamo corpo. Se il mondo mi si rivela, io ho bisogno del
corpo. La relazione con il mondo parte da questo punto zero che è il mio corpo. Cosa intendiamo
29

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

per corpo? Come posso costituire il corpo? In primo luogo il corpo è un insieme di sensazioni, il
mio rapporto è un rapporto sensibile.
Nel processo di costituzione della cosa un ruolo essenziale lo giocano le sensazioni cinestetiche
(esteticità in movimento). Le sensazioni di movimento sono quei movimenti soggettivi di necessità
nella costituzione del mondo legate ai modi di manifestazione degli oggetti. Le sensazioni
cinestetiche sono i correlati intenzionali dei modi con cui gli oggetti mi si offrono. Il mio corpo in
primo luogo è il necessario correlato intenzionale dei modi di esistenza intenzionale dell’oggetto.
La costituzione è sempre relazionale e descrittiva e che nella costituzione noi abbiamo bisogno di
un corpo in movimento, di una realtà cinestetica.

Il movimento implica
1. Il fatto che cambiano i punti di vista, perché io giro intorno agli oggetti. La cinestesia mi
permette una variazione del punto di vista, un movimento intorno all’oggetto. La
percezione non è mai statica, dice Husserl, nemmeno quando è ferma, perché se è una
percezione visiva i bulbi oculari si muovono.
2. Il movimento implica che la costituzione è una faccenda che riguarda il tempo. La
cinestesia implica il fatto che io mi muovo, non soltanto nello spazio, ma anche nel tempo,
cioè girare intorno all’oggetto implica di necessità un mutamento di carattere temporale.
Quindi la costituzione di oggetto è una correlazione tra le apparizioni sintetiche del mondo e le
mie sensazioni cinestetiche.
Il corpo è la condizione di possibilità (non sufficiente) per la costituzione del mondo.
Le sintesi sono la condizione necessaria (non sufficiente) per la costituzione del mondo.
L’intenzionalità è la capacità per completare le condizioni per la costituzione del mondo.
Il corpo è possibilità di cambiamento.
DOMANDA: La costituzione è reciproca? La costituzione del corpo passa attraverso la qualità delle
cose?
RISPOSTA: Assolutamente sì. Io costituisco il mio corpo perché vedo, tocco, sento le cose.
Il concetto di corpo è in primo luogo un concetto di carattere cinestetico. Che cos’è il corpo in
quanto sistema cinestetico? È un sistema di possibilità percettive. Il corpo è la cosa vista da una
certa posizione. La percezione è sempre l’unità di un’operazione che per essenza si produce
attraverso il concorso di due funzioni in correlativo riferimento (Husserl).
Il processo percettivo è sempre da parte del soggetto l’esercizio di funzioni di spontaneità (atto
estetico, atto del corpo). Non è l’intelletto a essere attivo, è il corpo a essere attivo e spontaneo.
Leib: il termine vuol dire corpo vivo. Il Leib vuol dire due cose: questo corpo che è mio non è un
corpo astratto, è il mio, quindi il Leib è il mio corpo, al tempo stesso non è statico ma gira intorno
alle cose. Il corpo è un decorso di sensazioni cinestetiche (Husserl). Questi decorsi sono liberi, per
cui il corpo è un decorso di libere sensazioni cinestetiche. Io costituisco gli oggetti nello spazio a
30

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

partire dal mio punto di vista, a partire da un atto di libero arbitrio percettivo. La seconda
conseguenza della libertà del decorso è che io posso cambiare atteggiamento.
Il corpo è un sistema di decorsi cinestetici attraverso i quali avviene la costituzione del mondo e
degli oggetti, il corpo non è una realtà statica, è una realtà libertà, implicita la possibilità di
cambiare punto di vista.
Il corpo è un sistema di decorsi cinestetici, quindi la costituzione del mondo avviene attraverso
questi decorsi cinestetici. Il decorso cinestetico è la capacità di guardare l’oggetto di una pluralità
di punti di vista diversi. Il corpo non è una realtà statica, il corpo è una realtà libera. Nella libertà
del corpo è implicita la possibilità di cambiare atteggiamento.

Conclusioni:
a) Un corpo è tra altri corpi, non è un soggetto isolato, questo significa che quello in cui ci ha
portati nelle prime lezioni è una finzione metodologica, in cui si è sempre posta la
costituzione come un qualcosa che parte da un soggetto, quando in realtà la costituzione
parte da una pluralità di soggetti. È tutto vero ma è una finzione metodologica, perché nel
mondo reale non accade così. La costituzione del mondo non è mai una costituzione
solipsistica; la costituzione del mondo è quindi non oggettiva, non soggettiva, ma sempre
intercorporea e intersoggettiva. Non si dà costituzione del mondo se non a partire da una
pluralità di punti di vista. Il mio mondo – ambiente non costituisce un’isola ma un insieme
con gli altri mondi – ambiente e l’insieme è il nostro comune mondo. L’intersoggettività
non è mistica, ma è il confronto tra sistemi cinestetici. L’esperienza deriva da una pluralità
di punti di vista possibili. È il problema irrisolto di Cartesio, è il problema irrisolto di Kant, è
il problema dell’errore. L’intersoggettività è una tematizzazione del problema dell’errore.
Quando noi percepiamo il mondo esistono delle circostanze apprensionali che fanno parte
dei processi costitutivi.
b) Quando parliamo di corpo, che cosa intendiamo? L’intero corpo, quell’intero che
chiamiamo corpo, che strati di senso ha? È sempre lo stesso corpo ma quali sono gli strati
di questo stesso corpo? La risposta ci dà il quadro completo di cosa è la costituzione della
cosa. Il corpo è esso stesso un intero che va costituito, un intero che va riconosciuto. Chi
riconosce il corpo se non un altro corpo? Cosa significa riconoscere l’analogo?
04.03.2019
ESTETICA DEGLI OGGETTI - 10ª LEZIONE (SISTEMARE FORMATTAZIONE)
Non si può pensare una costituzione di oggetto se non a partire da una soggettività corporea.
Ma cosa significa percepire tramite un corpo?
Il corpo è una realtà stratificata complessa. Come tutti gli altri oggetti del nostro mondo
circostante, nella sua unitarietà ha comunque una stratificazione.
Husserl in questo testo utilizza un termine fondamentale per ogni filosofia dell’esperienza: leib,
corpo vivo (da pag. 193), al quale è legata la costituzione degli oggetti. Parola importante perché
richiama al termine vita (Leben) e al verbo erleben, che fornisce il concetto di “esperienza vissuta”.

31

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

Perché Husserl non usa il termine körper? Perché vuole sottolineare il carattere di corpo vivo, in
movimento. Un corpo può naturalmente stare fermo ed assumere una sola posizione nello spazio,
ma nell’ambito fenomenologico il corpo è sempre una realtà cinestetica. Il movimento è
fondamentale ed è intrinseco alla costituzione corporea; la stabilità dei corpi è un processo
astratto. Invece di mantenere “in quiete” il nostro corpo vivo, noi, per costituire il mondo
dobbiamo muoverlo (p. 193).
La corporeità è il punto terminale della costituzione esperienziale. Senza corpi in movimento non
possiamo avere un’esperienza del mondo: solo muovendoci possiamo cogliere che la costituzione
è una serie di modificazioni. L’esperienza non rimane mai a sé stessa, si modifica; ha le sue
strutture di senso immodificabili, che vivono però in un contesto di modificazione.
La costituzione è una serie di modificazioni intenzionali che devono essere sinteticamente colte
all’interno della costituzione dell’oggetto.
Non soltanto il soggetto può modificare la propria posizione, ma esso può sempre modificare il
proprio atteggiamento nei confronti del mondo – ovvero, non solo un determinato oggetto del
mondo può essere visto/esperito/colto attraverso un differente punto di vista, ma può essere
esperito con un diverso atteggiamento. Pag. 193: a queste modificazioni si connettono differenti
serie di mutazioni, che possono essere corporee/visive/tattili, ma anche di atteggiamento. Cit.
Husserl: “i movimenti dell’io che interessano le manifestazioni cosali si ripartiscono in molteplici
sistemi in movimento”.
- Muoversi ≠ essere mosso. Il primo è un fatto soggettivo, il secondo oggettivo.
Fenomenologicamente vanno descritti in modo diverso
- Esistono sensazioni presentative e sensazioni cinestetiche: la percezione di un albero fatta
quando sia io sia l’albero siamo “in quiete” è diversa dalla percezione fatta quando ci si
trova su un treno/su un aereo/ l’albero è mosso dal vento ecc.
Costituire un corpo implica una serie stratificata di sensazioni che possono e devono essere messe
insieme nell’atto costitutivo dell’oggetto. naturalmente queste sensazioni possono riguardare il
corpo o il corpo in relazione all’oggetto ecc.
I decorsi cinestetici sono decorsi stratificati e sicuramente modificabili.
(Risposta alla mia domanda) p.199: il corpo vivo è a sua volta una cosa fisica e si costituisce come
ogni cosa fisica; tuttavia si distingue da tutte le altre cose fisiche nel mondo di manifestarsi.
È evidente che le sensazioni hanno una funzione diversa a seconda del contesto apprensionale in
cui sono inserite. Esse, nella loro potenzialità costituente, non sono astratte ma sono sempre
“sensazioni di”, sono sempre il correlato di qualcosa.
Questo induce noi tutti a cogliere la centralità del corpo, ad avere la prima consapevolezza che
esista una costituzione statica dell’oggetto (cioè strutturale, in cui noi analizziamo la/le struttura/e
della dinamica esperienziale) e una costituzione dinamica (cioè genetica: la costituzione è sempre
genesi di mondo. In questa costituzione genetica il corpo è protagonista).
Quando parliamo di corpo (p. 199) bisogna –per passare da una costituzione statica ad una
dinamica– cercare di capire come costituire il corpo, cogliendone la specificità. Il corpo è ciò da cui
passa ogni esperienza, è il punto 0.
Ci chiediamo: quando dico corpo, che cosa intendo? Che significa costituire un corpo? Quali sono
gli strati di senso attraverso cui il corpo si manifesta?
Il corpo è una realtà stratificata, e nel suo essere tale non può essere descritto con accenti mistici.
Descrivere un corpo in quanto condizione possibile e reale di ogni esperienza significa far salire
all’evidenza i modi di manifestazione del corpo = descriverli.
Ogni oggetto dello spazio ha è un corpo. Ogni oggetto spaziale ha la caratteristica fenomenologica
di essere un corpo.

32

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

1) Il 1° elemento di stratificazione fenomenologica è il körper, ciò che possiamo chiamare “corpo


inanimato, statico”. In molte lingue il termine “corpo” identifica un oggetto spazialmente inteso,
anche se statico. Questo corpo ha la caratteristica fenomenologica che connette in ciascuno di noi
il senso dell’inanimato, un senso meramente rappresentativo. Il körper è un corpo che è oggetto di
descrizione, ma non può essere soggetto di descrizione, in quanto “qualcosa di irrelato” (per
quanto sia sbagliato utilizzare i termini oggetto e soggetto in Husserl).
2) La seconda dimensione fenomenologica che ci fa cogliere il senso della corporeità è il termine leib.
Nell’ontologia dei corpi vi sono dei corpi che sono vivi, animati; non sono solo degli oggetti passivi
della costituzione, ma sono soggetti attivi. Il leib è un soggetto attivo: non solo il corpo vivo, ma
anche il corpo vivente. Però nel suo essere un corpo vivo con le sue determinate caratteristiche
(“si distingue da tutte le altre cose fisiche”) è un soggetto che percepisce. Il leib è un corpo
relazionale, un soggetto di carattere intenzionale.
Quali sono i corpi vivi, che percepiscono? Un qualsiasi animale percepisce la realtà attraverso i suoi
organi di senso, esattamente come noi. Ma allora, nei corpi vivi, quale sarà la
caratteristica apprensionale che ci permette di fare un passo avanti?
La capacità di avere coscienza del proprio movimento all’interno del mondo.
3) Per costituire il mondo non basta essere vivi; è necessario avere anima, animazione: la capacità di
cogliere i livelli di sensazione presenti nel nostro mondo circostante.
Husserl: il soggetto costituente è un corpo dotato di vita e movimento.
Quindi la condizione di possibilità implica che la costituzione sia possibile soltanto se fatta da un
corpo vivo e che si muove. Il corpo ha questi modi di manifestarsi (Kant direbbe che è dotato di
funzioni); il corpo-soggetto ha la funzione di costituire il mondo partendo da una realtà vivente ed
animata.
Corpo, corpo vivo, corpo vivo ed animato. Cosa manca?
4) Atteggiamento motivazionale che ci porta verso il mondo e verso la realtà delle cose. Non
reagiamo solo in base a fattori di carattere fisico/in base a principi meccanici, ma anche in base a
dei motivi che ci spingono verso il mondo. La filosofia utilizza un termine ambiguo: Geist, spirito.
Lo spirito non è fuori dal corpo: esso è una funzione corporea; è la capacità di cambiare
atteggiamento, di vedere il mondo in base a motivi e non solo in base ad una catena
consequenziale causa-effetto. A partire da questo strato di senso motivazionale, che mi permette
di cogliere il mondo come un insieme di motivi, io posso modificare il mio atteggiamento.
È chiaro che a partire da questa realtà stratificata io devo cambiare il mio atteggiamento e cogliere
il mondo nelle sue stratificazioni di senso ulteriori. Inoltre, sul piano storico, l’inserzione della
corporeità nelle dinamiche esistenziali ha permesso di cambiare prospettive nel discorso
fenomenologico, e di dare al corpo una valenza differente nella costituzione del mondo.
Finora noi abbiamo costituito una struttura esperienziale senza mai parlare del corpo (Piana lo fa
nel suo libro, non considera il problema del corpo come essenziale per la costituzione
dell’oggetto).
L’inserzione che fa Husserl stesso delle sensazioni cinestetiche corporee nella costituzione
d’oggetto rischia di portare ad un soggettivizzazione della costituzione. Si rischia di enfatizzare
troppo il corpo rispetto alle sintesi costitutive del soggetto. Rischia di cogliere il corpo come una
realtà non ipotizzabile, che non può essere messa tra parentesi. Una realtà strutturalmente
inseparabile dalla costituzione d’oggetto. Quindi rischia di mettere al centro della costituzione
oggettuale non la sintesi passiva, bensì il corpo. È evidente che se per H. questi due livelli sono
intenzionalmente inseparabili, la tradizione fenomenologica li abbia separati. Se intenzionalmente
non possiamo avere esperienza se non attraverso il corpo, la tradizione fenomenologica ha
separato questi due concetti. Piana all’inizio del suo libro dice che “ovunque vi sia enfatizzazione
della soggettività non c’è fenomenologia”. Enfatizzando troppo la soggettività si rischia di cadere
33

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

nello psicologismo à pericolo di non cogliere il mondo con una struttura di senso indipendente
dalle dinamiche soggettive.
Merleau-Ponty non sceglie questa strada: considera il corpo come centrale nella filosofia
dell’esperienza. Da un punto di vista quantitativo: Husserl non dedica alla corporeità tantissime
pagine.
La fenomenologia della percezione di Merleau-Ponty, che parte da un manoscritto tutto incentrato
sulla corporeità, è basato sulla convinzione che il corpo sia al centro della percezione. ≠ libro di
Piana, in cui abbiamo visto il dato strutturale. Nel libro di Husserl vediamo invece entrambi i lati
del problema. Per M-P il corpo è una realtà non ipotizzabile; perciò una fenomenologia puramente
strutturale, oggettivante e puramente eidetica (=che vuole cogliere solo le essenze strutturali del
mondo) non può darsi. Perché? Perché Husserl ha rilevato questa nozione fondamentale – il corpo
– dalla quale non possiamo prescindere. A parere di M-P non esiste solo un’intenzionalità
strutturante (la chiama i. d’atto), ma esiste anche una i. corporea, attiva.
Riassunto 1° modulo e intro 2°: premessa della Fenomenologia della percezione (1945):
<<La fenomenologia è lo studio delle essenze, e per essa tutti i problemi consistono nel definire
delle essenze – per esempio: l’essenza della percezione, l’essenza della coscienza. Ma la
fenomenologia è anche (non sta negando che sia studio strutturale delle essenze) una filosofia che
ricolloca le essenze nell’esistenza (intervento di Heidegger) e pensa che non si possa
comprendere l’uomo e il mondo se non sulla base della loro “fatticità”. Allora la fenomenologia è
una filosofia trascendentale che pone tra parentesi, per comprenderle, le affermazioni
dell’atteggiamento naturale. Ma è anche una filosofia per la quale il mondo è sempre “già là”,
prima di ogni riflessione, come presenza inalienabile. Una filosofia tutta tesa a ritrovare quel
contatto ingenuo con il mondo per dargli, infine, uno statuto filosofico. Quindi è una filosofia che
da un lato è “scienza esatta” (che mette tra parentesi gli psicologismi), ma è anche un resoconto
dello spazio, del tempo, del mondo dei vissuti.>> Protagonista di questa “scienza non esatta” è il
corpo: esso è una esperienza diretta. <<La fenomenologia diventa fenomenologia costruttiva.
Ma il soggetto che costituisce il mondo, è nel mondo anche lui o è fuori dal mondo? È (come
direbbe Heidegger) un da sein? Il corpo stesso può essere posto tra parentesi o è una presenza
inalienabile? Il corpo incide nei processi costitutivi, è un organo presente nel mondo. Il corpo è
irriducibile alla riduzione fenomenologica o ad una dimensione pura. Esso ci fa capire che la
costituzione del mondo è una operazione “sporca”, perché implica la presenza della corporeità. M-
P: “il cogito va ricollocato nell’esperienza. Le strutture pure non ci sono.” In der Welt sein. La
costituzione del senso non può prescindere da questo essere nel mondo del corpo. In termini
fenomenologici il corpo diventa la struttura trainante, non l’oggetto.
05.03.2019
ESTETICA DEGLI OGGETTI - 11ª LEZIONE (SISTEMARE FORMATTAZIONE)
INIZIO SECONDO MODULO. – Merleau-Ponty.
RECAP. La costituzione percettiva dell’oggetto è sempre per essenza l’unità di un’operazione che si
verifica in due funzioni di riferimento correlativo. Da una parte esiste l’oggetto in quanto sintesi
passiva (dimensione di senso auto-strutturata), dall’altro esiste una funzione di spontaneità.
Questa funzione di spontaneità è in prima istanza (anche se non esclusivamente) un insieme di
funzioni cinestetiche che, esercitando il movimento degli organi sensoriali si dirige verso il mondo,
entrando in rapporto esperienziale con esso. Questo insieme di funzioni esperienziali correlative,
questo soggetto 0 della percezione d’oggetto, è chiamato da Husserl col termine leib, corpo vivo (=
l’organo della percezione), che è condizione necessaria, ma non sufficiente per la percezione.
• Problema 1: anche il corpo è un oggetto tra altri oggetti; anche il corpo è un’unità che va
costituita.
34

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

• Problema 2: a questa unità costituita si può dare una differente valenza nella costituzione di
oggetto.
La costituzione del corpo in quanto “oggetto tra altri oggetti”, pur con alcune caratteristiche
specifiche à il corpo, in quanto organo della percezione, è a sua volta un insieme di qualità, come
ogni oggetto mondano. È una stratificazione di senso. Ha delle funzioni differenziate che son
poste, dal pdv terminologico, all’interno di una tradizione linguistica differenziata. Ci appare in
prima istanza il corpo come realtà inanimata, una cosa tra altre cose (Körper). Poi ci appare il
corpo vivente (Leib), caratterizzato dall’avere un’anima, si muove. Infine il corpo è anche spirito
(Geist): non agisce solo seguendo un ordine causale, non è una macchina, ma è anche un soggetto
che agisce secondo motivazioni di ordine motivazionale. È una realtà stratificata e complessa che,
in virtù di questa sua intrinseca costituzione, diventa il soggetto di ogni esperienza reale e
possibile.
Una volta costituito il senso del termine corpo sorgono 2 problemi:
1) Il corpo è il centro del mio mondo-ambiente. Umwelt. Io percepisco il mio mondo-ambiente
attraverso il mio corpo.
Cosa trovo in questo mondo circostante che io percepisco? Innanzitutto altri corpi: il mio mondo
circostante è evidentemente un mondo di comunicazione, il che fa diventare il nostro corpo un
elemento di comunicazione. Il corpo è fonte di conoscenza, e si tratta di una conoscenza
comunicativa. Il corpo è una realtà che comunica, espressiva, non una realtà astratta. M-P: “il
corpo è al centro del mistero del mondo e del mistero della ragione”. All’interno di questo mondo-
ambiente un corpo trova soprattutto corpi analoghi al suo. à il primo orizzonte comunicativo del
corpo vivo è un orizzonte quindi analogico. Il problema della costituzione è sempre il problema
della costituzione dell’altro. Il problema della costituzione implica sempre l’avere a che fare con
un altro da me, ma questo avere a che fare con “l’altro” assume una valenza particolare quando
questo altro è analogo a me.
Il corpo diventa ipso facto centrale
perché è:
2) Problema dell’analogia porta al problema dell’intersoggettività.
La costituzione del mondo è sempre intersoggetiva.
- l’organo di ogni percezione possibile e
reale

I corpi entrano in relazione affettiva, oltre che conoscitiva. Qual è il


- il nucleo a partire da cui io costituisco
problema da cui Hume e gli scettici non riescono ad uscire? Dal
il senso intrinseco della costituzione,
che non è mai solipsistica (=non si
problema dell’errore che può essere corretto solo dall’alterità, dalla
svolge soltanto all’interno della mia
percezione del mondo), ma anzi è
sempre intercorporea. percezione dell’altro. Io posso avere una percezione distorta del
mondo (per qualsiasi motivo, es. sostanze psicotropiche), e l’unico
mondo per correggere i difetti della mia esperienza è confrontarmi con l’altro. Husserl dice che
l’altro è essenziale per la mia percezione “ortoestetica” (=corretta). Senza l’altro c’è sempre
pericolo dell’errore. Questo è il modo per evitare di cadere nel solipsismo.
Io riconosco nel corpo analogo al mio la mia medesima struttura di carattere percettivo. L’altro è
una “struttura di senso” proprio come lo sono io. La percezione è un insieme di sintesi passive e di
“accoppiamento” (Husserl: Paarung) tra sistemi percettivi analoghi. Descrivere significa far
emergere, prima nella finzione solipsistica e poi intersoggettivamente, la struttura del mondo.
• DOMANDA ESAME: Qual è la struttura fondamentale dell’intersoggettività? Da una parte il
mondo stesso: le strutture qualitative del nostro mondo circostante. Dall’altra la costruzione
dell’intersoggettività stessa: i sistemi analogici in virtù dei quali noi entriamo in comunicazione con
l’altro.
Che cosa mi lega all’altro? Le emozioni. La relazione con l’altro è in primo luogo emotiva: è basata
non sull’indifferenza ma su una relazione di carattere emotivo. I filosofi usano il
termine Einfuhlung, empatia. Essa mi consente di riconoscere l’altro come mio simile, analogo.
Questa dimensione “amorosa” ha più livelli: è il sentimento della differenza. Strutturalmente è il
35

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

riconoscimento analogico dell’altro: una volta riconosciuto questo so di poter mettere in comune il
mio pdv e quello dell’altro. Per la fenomenologia l’empatia non è un sentimento
psicologico à Husserl polemizzò con Lipps proprio perché quest’ultimo parlava di sentimento di
simpatia/antipatia verso l’altro. Per Husserl l’empatia è il riconoscimento delle medesime strutture
percettive nell’altro, in riferimento al medesimo mondo.
L’intersoggettività è quindi un centro sia conoscitivo sia emozionale della nostra percezione del
mondo.
I livelli di relazione empatica con l’altro non sono univoci ma stratificati: questa stratificazione è
sempre duplice, e dipende sia dalle qualità dell’oggetto che dalle relazioni che con esso instauro. È
evidente che alcuni oggetti del nostro mondo circostante generano relazioni empatiche più
profonde di altre: si tratta degli oggetti che hanno in sé strutture di senso più profonde e
complesse, che hanno in sé più storia. Addirittura generano reazioni analoghe.
È possibile avere una relazione empatica anche con gli oggetti mondani privi di Geist,
semplicemente è difficile mettere in comune una relazione di questo genere con altri soggetti. Es.
la mia relazione empatica col mio gatto à altre persone possono capire formalmente una relazione
del genere se hanno avuto a loro volta un gatto; ma non possono costituire con me una relazione
empatica, perché il gatto è mio. Altro es. il crocifisso. Non necessariamente chi appartiene a una
religione diversa da quella cattolica comprende il valore del crocifisso; ma ne comprende il
valore dalla posizione che occupa. Non posso obbligare l’altro a sentire allo stesso modo in cui io
sento; è la struttura intrinseca dell’oggetto a determinare una eventuale condivisione dell’empatia
con l’altro.
L’empatia genera delle domande, perché il rapporto con l’altro corpo è un rapporto complesso e
stratificato. Possiamo considerare questo rapporto da almeno 2 punti di vista (Piana & Merleau-
Ponty):
- la psicologia nella costituzione empatica del mondo va messa tra parentesi, perché l’io-psicologico
disturba la percezione. Piana dice proprio questo, si può evitare di utilizzare le parole “io” e
“epoché”. La dimensione strutturale della fenomenologia può fare tranquillamente a meno della
soggettività e del corpo. Anzi, l’enfatizzazione della corporeità porta al rischio di psicologismo. La
fenomenologia strutturale tende a trovare ridondante il problema della corporeità, non ne ha
bisogno.
- Il corpo, così “intriso di mondo”, può davvero essere messo tra parentesi? La fenomenologia può
essere soltanto una fenomenologia d’atto, che analizza i miei atti e finalizza questa descrizione dei
miei atti alla costituzione del mondo? Merleau-Ponty dice NO: la fenomenologia non può limitarsi
ad essere l’analisi descrittiva della intenzionalità d’atto. Questo non significa che la fenomenologia
non sia una intenzionalità d’atto; ma vuol dire che essa non è soltanto questo. M-P dice
chiaramente che la percezione non è soltanto un atto. Davanti a questa corporeità così
ingombrante bisogna evitare di perdere la dimensione mondana della corporeità; non perdere la
consapevolezza che il corpo sia sempre nel mondo, in der Welt. M-P: “da un lato, senza dubbio, il
reale è un tessuto solido, senza dubbio il reale non attende i nostri giudizi per annettersi il mondo.
(la verità è già intrinseca alle cose) Tuttavia la percezione non è una scienza del mondo. Non è
nemmeno un atto, non è neppure una presa di posizione deliberata. Ma è lo sfondo sul quale si
staccano tutti gli atti. Il mondo non è un oggetto di cui io posseggo la legge di costituzione, ma è
l’ambiente naturale di tutte le mie percezioni”.
L’uomo non conosce il mondo: l’uomo, in virtù del suo corpo è del mondo. Non ha col
mondo una asettica relazione conoscitiva, ma è fatto della stessa sostanza del mondo. Vi è
una comunione carnale tra soggetto e mondo. Uomo e mondo sono fatti della stessa carne,
sono parte del medesimo essere. Questa consustanzialità di uomo e mondo non può
essere messa tra parentesi.
36

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

Il punto di vista di M-P ci porta a 2 conclusioni:


1) Abbiamo cambiato piano: siamo passati da un atteggiamento descrittivo (io sono nel mondo e ne
descrivo le strutture di senso) ad un atteggiamento di carattereontologico (io e il mondo facciamo
parte del medesimo essere). Il soggetto in quanto corpo è sempre nel mondo, non è mai un
puro cogito. Qual è il pericolo che M-P vede in un mondo puramente descrittivo? Teme la
dicotomia di uomo e mondo separati (Cartesio).
2) La fenomenologia non può essere limitata ad una descrizione del mondo. M-P dice che abbiamo
bisogno di approfondire il nostro rapporto con il mondo. Per comprendere questa relazione uomo-
mondo noi dobbiamo mutare atteggiamento, cioè il corpo è quell’io-posso a partire dal quale io
cambio il mio atteggiamento nei confronti del mondo. Il corpo diventa una potenzialità di
relazione. Quindi secondo M-P il rapporto con il mondo che abbiamo instancabilmente in noi non
è qualcosa che possa essere reso più chiaro da un’analisi. Io sono sempre nel mondo, anche
quando non lo tematizzo: bisogna cambiare atteggiamento per passare da una intenzionalità
d’atto a una intenzionalità fungente. La fenomenologia è proprio questo.
06.03.2019
ESTETICA DEGLI OGGETTI - 12ª LEZIONE (SISTEMARE FORMATTAZIONE)
Differenza tra oggetto estetico e oggetto artistico è una differenza intrinseca, correlata alle qualità
dell’oggetto. L’oggetto artistico è uno oggetto estetico ma non viceversa. Il problema generale
riguarda quindi la struttura dell’oggetto, poiché l’oggetto artistico ha una struttura particolare che
lo rende tale.
Ricordiamo  centralità del corpo. È centrale in quanto organo in virtù del quale avviene ogni
percezione possibile e reale. È una stratificazione di sensi; il corpo come Körper, Leib e Geist sono
la stessa cosa. Il corpo ha però anche un suo senso specifico, non serve solo a descrivere il mondo
circostante à il corpo ha centralità ontologica.
Cos’è allora il corpo? Da cosa deriva questa sua particolarità pur essendo oggetto tra gli oggetti? à
secondo Merleau-Ponty questo oggetto non può essere posto tra parentesi, è irriducibile
all’epoché. È quindi una realtà di senso autonoma. L’epoché serve esclusivamente a compiere una
operazione metodologica che psicologizzasse il soggetto, ponendolo in una posizione nuova.
Soggetto psicologico puro. Per Merleau-Ponty questa purezza del soggetto è impossibile. Il cogito
non esiste, è sempre una realtà carnale.
Il corpo è prova, testimonianza, realtà pratica che dimostra che noi siamo sempre in una realtà
mondana; non possiamo essere posti fuori da questo mondo.
M-P: l’esistenza del corpo serve a ricollocare la nostra esperienza nel processo costitutivo. Esso è
una realtà comunicativa dalla quale non si può prescindere. Questa non è la negazione di un
approccio teoretico al mondo, ma un voler sottolineare che la fenomenologia non è soltanto
l’applicazione di quella che Husserl chiama “intenzionalità d’atto” (intesa come intenzionalità
tematizzante), bensì anche qualcosa che funziona in modo differente. M-P dice che l’intenzionalità
d’atto si applica solo quando noi la vogliamo applicare, perché serve per tematizzare gli spazi del
mondo: carattere conoscitivo. M-P dice che è sempre possibile per noi cambiare atteggiamento.
Questo “cambiare atteggiamento” è chiamato in Husserl “io-posso”, ed è sostanzialmente il corpo:
grazie ad esso io posso cambiare atteggiamento, è un coagulo di possibilità. Il rapporto col mondo
non puo esaurirsi e concludersi nell’autoanalisi. Il mondo non è puro, è anche lui un essere
carnale. M-P: “noi siamo condannati al senso e alla storia”. L’epoché è una finzione: puo

37

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

funzionare a livello teoretico ma nella realtà non possiamo sospendere il giudizio. Il corpo è
presenza costante.
Bisogna affrontare il problema della costituzione con un nuovo atteggiamento: dobbiamo re-
imparare a vedere il mondo a partire dal nostro corpo.
“Condannati al senso” à il senso c’è anche quando noi non lo tematizziamo. Esso c’è perché noi
esistiamo e siamo un corpo nel mondo.
Fattori nuovi che hanno portato alla teoria di Merleau-Ponty à fattori di carattere storico.
- Corrente di pensatori vicini alla tradizione della fenomenologia di Husserl, che non
concordano con lui a partire dal 1912-13, quando inserisce la parola “io-puro” nel suo pensiero à
vedono questo come una ricaduta nell’idealismo. Husserl in realtà non ha una svolta idealistica,
ma il fatto che inizi ad utilizzare un termine come “io-puro” li fece giustamente sospettare.
- Il primo allievo a “sospettare” di Husserl fu Martin Heidegger. Egli non ne parlò con Husserl
fino al 1926-27, quando i due scrissero insieme la voce “fenomenologia” per l’Enciclopedia
Britannica. Tecnicamente fu Heidegger a scrivere la voce: Husserl si rese conto che questi dava
della fenomenologia un’accezione metodologica, e non costitutiva. Heidegger la vedeva come
metodo, non come filosofia dell’esperienza. Husserl capì che qualcosa non funzionava, ma
comunque nello stesso anno Husserl ospitò nella sua collana l’opera di Heidegger Sein und Zeit,
inizialmente dedicata al suo maestro. I rapporti rimangono circa buoni fino al 1928-29.
in Sein und Zeit ci sono due elementi fondamentali:
1) la considerazione metodologica e non costitutiva della fenomenologia;
2) l’epoché non è sempre possibile. Il soggetto è un da sein (“esserci”): il soggetto è sempre in
situazione mondana. In der Welt sein. Questo essere, che è in situazione mondana, è la nostra
esistenza, a cui non possiamo sottrarci.
Merleau-Ponty lesse solo Sein und Zeit di Heidegger. Egli si riferì solo al primo Heidegger, non a
quello post-svolta (anni ’40), “pastore dell’essere”. M-P assume da Heidegger il fatto che il
principio esistenziale (= noi siamo condannati ad essere al mondo) non sia un qualcosa che
possiamo separare con un atto teoretico. Ma non accetta le conclusioni di Heidegger: in M-P
l’essere esistenziale è un soggetto esperienziale (≠ H.). Il nostro “essere qui” è l’essere qui del
nostro corpo, della nostra realtà.
M-P lesse il 2° volume di Idee per una filosofia fenomenologica e per una fenomenologia pura di
Husserl. Lesse anche un altro testo, che pochi in Europa avevano letto: La crisi delle scienze
europee e la fenomenologia trascendentale.
Lesse dei manoscritti in cui Husserl parla di una “nuova forma d’intenzionalità”, quella appunto
fungente. Lesse anche la risposta di Husserl a Sein und Zeit, intitolato Logica formale e
trascendentale (1929), uno dei pochi testi pubblicati di H. In questo testo egli è consapevole che la
fenomenologia non sia solamente una logica apofantica (= dimostrativa). La fenomenologia è
logica della verità: vuole cogliere il senso del vero. Quindi la filosofia non è solo tematizzazione
teoretica, ma è il tentativo di cogliere la logica della verità; la verità è nelle cose stesse, è (M-P) “il
nostro comune e condiviso mondo della vita” = Lebenswelt.
Lo stesso Husserl dice “l’interrogazione del mondo della vita non è di necessità un’operazione
tematizzante; è qualcosa che è sempre presente nel nostro essere al mondo. Per cui accanto ad

38

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

una intenzionalità d’atto (tematizzante) noi dobbiamo supporre una intenzionalità fungente, che
funziona indipendentemente da una tematizzazione del mondo”. In realtà M-P di questa
intenzionalità fungente ne coglie solo alcuni aspetti.
Conclusione di Merleau-Ponty:
“Husserl distingue l’intenzionalità d’atto (quella dei nostri giudizi e delle nostre prese di posizione
volontarie), la sola di cui abbia parlato la critica della ragion pura, da una intenzionalità fungente”.
Così questa viene definita: “è quella intenzionalità che costituisce l’unità naturale e
antepredicativa del mondo e della nostra vita” = l’intenzionalità immediata che abbiamo
nell’atteggiamento naturale. Antepredicativa à prima del giudizio, quindi ≠ Kant. Noi siamo però
consapevoli di essere condannati al senso, giudichiamo prima di giudicare.

L’intenzionalità fungente significa che io non finisco mai di interrogare il mondo, non mi limito ad
una tematizzazione, ad una sola risposta. È una sorta di “principio illuministico” della
fenomenologia à filosofia come domanda, non come risposta. “Conoscere” non è soltanto fare
scienza, è una serie di operazioni attive che non si traducono di necessità in conoscenze
oggettivate. Pensare > conoscere (qua c’è qualcosa di kantiano). Pensare è una condizione di
possibilità del conoscere.
Come si applica questa intenzionalità fungente? Continua M-P:
“L’intenzionalità fungente appare nei nostri desideri, nelle nostre valutazioni; appare nel nostro
paesaggio più chiaramente che nella conoscenza oggettiva”. Paesaggio = ciò che vediamo coi
nostri occhi, col nostro corpo, un qualcosa che mi appartiene. Insomma, l’intenzionalità fungente
non può essere ricondotta ad un linguaggio esatto. È qualcosa che vuole cogliere dal mio pdv la
profondità del mondo, e in un certo qual modo determina anche l’incompiutezza della
conoscenza. La filosofia interroga il mistero: essa ha il compito di rivelare il mistero del mondo e il
mistero della ragione. M-P: “La filosofia è una meditazione infinita, che non sa dove va”. “La
fenomenologia è un movimento ancor prima di essere una dottrina”.
Qual è allora l’orizzonte tematico della fenomenologia? A cosa possiamo paragonare questo
“mistero”?
• Il nostro corpo. Cosa è la nostra identità? L’intenzionalità fungente riflette la complessità della
nostra vita corporea. La nostra esistenza non è riducibile ai nostri atti: è qualcosa di più stratificato
e complesso.
• Le opere d’arte, che sono l’esplicitarsi del discorso fenomenologico e dell’intenzionalità
fungente. “La fenomenologia intesa come esercizio dell’intenzionalità fungente è laboriosa come
le opere di Balzac, di Proust, di Valèrie, di Cézanne.” Tutti scrittori, tranne Cézanne. Filosofia =
interrogazione del mondo paragonabile a quella esercitata con la pittura. Perché la fenomenologia
è tutto ciò? “È paragonabile all’opera d’arte per la stessa volontà di cogliere il senso del mondo e
della storia allo stato nascente”.
Il nostro corpo coglie il senso allo stato nascente; il primo riferimento sono le opere d’arte
complesse.
Cézanne è un punto di riferimento per Merleau-Ponty ed è il protagonista manifesto de L’occhio e
lo spirito, insieme a Klee. Perché questi due autori? Sono protagonisti insieme per un motivo
storico (domanda esa)
39

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

 Cézanne perché è il rivoluzionario della pittura contemporanea, pur essendo sostanzialmente


un disegnatore non eccelso. È il punto di riferimento ineliminabile della pittura contemporanea.
1906, data di morte di Cézanne, coincide con la nascita della pittura contemporanea. Si ritengono
suoi allievi Paul Klee e Pablo Picasso. Entrambi si ritengono suoi allievi – anche se in modo diverso
– poiché Cézanne ha consapevolmente rotto degli schemi della pittura moderna. Ha rotto 2 canoni
fondamentali: la prospettiva e la figuratività, che costituivano il caposaldo della pittura moderna.
Con lui la pittura non è più rappresentazione del reale, non è più tematizzante. La pittura non è
intenzionalità d’atto ma intenzionalità fungente: è interrogazione del mondo; non si riduce a ciò
che rappresenta esattamente come la filosofia non si riduce a ciò che tematizza. La casa
dell’impiccato di Cézanne: i critici dissero “mi fa vomitare” à stravolgimento della prospettiva.
Spezzare la prospettiva significa (da un punto di vista teorico) abbandonare il cartesianesimo, che
diceva che il mondo andasse guardato da un pdv. Con l’inserimento di plurimi punti di fuga
capiamo che il mondo è correlato ad una pluralità di sguardi, non ad uno solo. Picasso col Cubismo
coglie il messaggio fondamentale di Cézanne: è l’attestazione che il mondo possa essere visto da
più pdv contemporaneamente. La pittura è esercizio della complessità dello sguardo e del corpo.
QUINDI la pittura, per M-P, è interrogazione del reale; la pittura moderna, tramite la prospettiva,
trucca il mondo: Cézanne non lo trucca più, ma al contrario mostra le possibilità del mondo. Klee è
il più alto esempio di artista che ci mostra che il mondo può essere restituito in forme non
rappresentazionali. Il senso del mondo non si dà rappresentandone le forme, ma cogliendone
l’essenza: bisogna scavare la complessità dell’apparire. Noi siamo nel mondo anche senza
riconoscerne le forme che ci vengono presentate. Klee diceva di dipingere per i bambini, per i
morti e per i non nati. La pittura è il mistero del reale.
11.03.2019
ESTETICA DEGLI OGGETTI - 13ª LEZIONE
DOMANDA: Abbiamo parlato della possibilità, del fatto che è duplice, perché abbiamo più modi di
vedere l’oggetto e l’oggetto ha diverse qualità da offrire a noi. È giusto?
RISPOSTA: Assolutamente corretto. L’oggetto è ciò che è, con le sue qualità, che possono o non
possono venire rilevate. Queste qualità sono intrinseche e sono entro certi limiti immutabili nella
costituzione dell’oggetto, cioè sono sempre quelle. Essendo l’oggettività qualche cosa di passivo, le
qualità sono variate secondo gli strati di senso che ciascuno oggetto ha in sé. Il problema della
costituzione di oggetto implica una relazione che può essere o non essere con queste qualità, che
dipende da quelle che possiamo chiamare circostanze apprensionali. Esse sono innumerevoli, e
possono di carattere soggettivo (perché ciascuno di noi ha la propria cultura, la propria vista, la
propria percezione) e oggettivo (perché appunto in una stanza buia, per esempio, io vedrò
l’oggetto peggio che in una stanza illuminata). Questo vuol dire che la relazione intenzionale con
l’oggetto ha in sé una doppia possibilità: di offerenza dell’oggetto (l’oggetto si offre a me) ma
anche di costituzione (ricezione dell’oggetto), fermo restando che vi è un enigma della visione. La
visione non è qualcosa di sempre uguale a sé stessa, la visione è qualcosa di profondamente
enigmatico. MP esiste sul carattere enigmatico della percezione, per sottolineare da un lato
l’ambiguità della relazione tra soggetto e oggetto, che non vuole mai separare l’uno dall’altro (la
separazione è vista come un ritorno alla prospettiva dicotomica) e dall’altro lato per sottolineare
che più l’opera è complessa più è complicato l’atto del vedere. Detto ciò è evidente il passaggio
che gli oggetti estetici sono la totalità degli oggetti, ma non tutti gli oggetti estetici sono artistici
(esistono delle qualità intrinseche all’oggetto che fanno sì che noi cambiamo il nome).

40

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

Cosa intendiamo con oggetto artistico? Arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte (Dino
Formaggio). L’oggetto artistico deriva da un’intenzionalizzazione dell’oggetto. L’oggetto deve avere
determinate qualità ma esistono anche le circostanze apprensionali. L’Orinatoio di Duchamp viene
intenzionalizzato come oggetto artistico nel momento in cui viene musealizzato.
L’intenzionalizzazione artistica non è un’intenzionalizzazione di carattere soggettivo e solipsistico,
ma è una dimensione intersoggettiva, cioè una dimensione che deve determinarsi sulla base di un
confronto. C’è un ulteriore elemento: bisogna sempre distinguere tra una dimensione valutativa e
una assiologica. Kant rimane chiuso all’interno della dimensione valutativa: di fronte a un oggetto
del nostro mondo circostante io dico che mi piace, ma l’atteggiamento valutativo è una condizione
necessaria ma non sufficiente per la costituzione assiologica dell’oggetto (assiologia è la teoria dei
valori). Roman Ingarden (allievo di Husserl) disse che la valutazione serve a dare la scossa emotiva
per la costituzione dell’oggetto. L’oggetto artistico si determina in quanto tale solo nel quadro di
una costituzione assiologica dell’oggetto (quando l’oggetto viene costituito come valore). La
costituzione del valore artistico dell’oggetto deve avvenire se non su base intersoggettiva e storica,
fa parte della costituzione assiologica dell’oggetto artistico. Gli oggetti artistici hanno bisogno di
una costituzione storica (diacronica) e intersoggettiva (comunitaria).
Immagini che sono ricordate da Klee, da Picasso, da MP e da Formaggio: i dipinti parietali di
Lascaux. Sono le pitture più vecchie del mondo. La domanda che si pongono Formaggio, MP e
Picasso è: quelle pitture sono artistiche? Hanno un valore artistico? Vi era un’intenzionalizzazione
artistica alla base della loro costruzione? Probabilmente no, probabilmente erano esclusivamente
dei rituali di carattere magico per propiziare la caccia, ma, come disse Picasso, tutta la storia della
pittura arriva da lì, anzi Picasso scrisse: “La decadenza della pittura inizia da lì”, perché lì, come
dice MP, in quei dipinti c’è tutta la storia della pittura. Il problema della prospettiva se lo ponevano
anche a Lascaux.
Perché la pittura inizia a Lascaux? A p. 23 del testo di Merleau-Ponty, egli scrive: “Da Lascaux ai
giorni nostri, in qualsiasi civiltà nasca, di qualsiasi credenza, di qualsiasi motivazione, di qualsiasi
pensiero, di qualsiasi cerimonia si circondi, pura o impura, figurativa o no, la pittura, anche quando
sembra destinata ad altri scopi, non celebra mai altro enigma che quello della visibilità”.
Cézanne è all’origine di tutto questo discorso perché in lui si raccolgono tutte le contraddizioni
della pittura contemporanea. Cézanne, per primo, spezza alcune regole della pittura moderna: la
prima regola è quella della prospettiva che, come sappiamo, è quella regola pittorica che tende a
dare l’illusione della tridimensionalità del dipinto, portando l’immagine sul piano della verità e
dell’illusione. Nel momento in cui usiamo la prospettiva cerchiamo di truccare la realtà. La storia
della pittura occidentale NON è stata la storia della prospettiva; la prospettiva è un intervento
tecnico all’interno della costruzione del dipinto, si tratta di mettere in atto svariati trucchi
geometrici per poter costruire un’illusione. Dal momento che la prospettiva è un trucco
geometrico che gioca sulle linee e sui volumi, è chiaro che perché la prospettiva funzioni al meglio
vi deve essere un punto di vista privilegiato.
Cosa significa la prospettiva per il filosofo? Almeno tre elementi diversi:
1) Un intervento tecnico nella creazione in quanto soltanto attraverso un preciso calcolo è
possibile costruire un’illusione.
2) La prospettiva indica che quell’immagine è un’immagine manipolatrice, perché ci
restituisce la realtà attraverso un inganno.

41

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

3) Ciò implica una ben specifica visione del mondo, la prospettiva rappresenta non il modo di
vedere ma un modo di vedere.
Questo accade in un testo degli anni Venti di un critico tedesco di nome Panofsky dal titolo La
prospettiva come forma simbolica; la prospettiva non è simbolo dell’errore o dell’inganno, ma è
simbolo di un atteggiamento scientifico che con il Rinascimento si impossessa del mondo e dunque
anche della pittura. La scienza si impossessa dell’arte con un intento manipolatorio.
MP dice che la storia della pittura non è la storia della prospettiva. Prima frase che apre L’occhio e
lo spirito: la scienza manipola le cose e rinuncia ad abitarle. La scienza non si confronta con il
mondo ma ha l’obiettivo di costruire un mondo perfetto e non di abitare il mondo. L’enigma della
visibilità non è l’enigma della costruzione tecnica del dipinto, non si comprende un oggetto
soltanto conoscendo sul piano scientifico; per comprendere l’oggetto bisogna abitarlo (entrare in
un rapporto di consustanzialità con l’oggetto medesimo, noi siamo fatti della stessa carne
dell’oggetto). L’oggetto non va messo a distanza nella pittura, l’enigma della visione non si ha
mettendo a distanza l’oggetto, ma l’enigma è la capacità di abitare il dipinto con il proprio corpo.
La storia della pittura non è la storia scientifica della pittura; prima della pittura legata alla
dimensione dell’ego, vi è una pittura che non conosce la prospettiva o che conosce la prospettiva
naturale. La pittura delle icone è una pittura non prospettica. Esistono forme di pitture non
prospettiche (per scelta, non per ignoranza). Esiste poi una prospettiva non illusoria, la prospettiva
naturale che solitamente usano i bambini e che usavano Cimabue e Giotto (una prospettiva che
pone gli oggetti su piani diversi, ma questi piani non sono illusori e non devono essere guardati da
un punto di vista privilegiato). Qual è la caratteristica della prospettiva naturale? Costruire un
racconto (su più piani), creare il contesto della storia, ma non vuole dirci che quella è la realtà. Non
c’è inganno, c’è la funzione ecfrastica della pittura (carattere emozionale non illusorio).
Dimostrando che la prospettiva non è l’unico modo per rapportarci figurativamente al mondo
abbiamo due risultati:
1) Pittura non prospettica (icone).
2) Storia della pittura con funzione emozionale e non tecnica.
Cézanne, La casa dell’impiccato.
La scienza non considera queste due dimensioni, non considera l’emozione dei corpi, non
considera l’emozione del vedere e ha un rapporto tecnico con la visibilità. Perché è importante
sottolineare il valore della pittura iconica? Perché è una pittura non illusoria, non ci vuole illudere,
che non è scientifica, ma soprattutto non vuole illudere chi guarda, non ci restituisce un’immagine
illusoria del mondo. Florensky disse che Botticelli non gli piaceva, dava l’illusione di una donna che
danzava. Cosa significa questa concezione non scientifica? Esiste una pittura che non mira a dirci
che l’immagine è soltanto visibilità. L’immagine come referente della visibilità non si esaurisce
nell’atto della visione, l’atto della visione non colma l’enigma dell’immagine. L’immagine non è
soltanto una questione di visione, deve restituirmi l’enigma della visione, non il carattere illusorio.
Questo vuol dire che l’immagine non si esaurisce nella visibilità, perché in questa vi è sempre una
dimensione invisibile. La visione non è solo visibile, ma anche visione dell’invisibile. L’immagine
dev’essere qualche cosa che stimola la nostra volontà di scavare il reale. Pittura come
quell’enigma che ci pone nel cuore della relazione tra il visibile e l’invisibile. Nel visibile c’è
l’invisibilità. Nella pittura iconica (fino a Giotto), nel suo essere visibile e invisibile, mistica,
metafisica e religiosa, perché le immagini delle icone sono soltanto dei mezzi sensibili per condurci
verso una realtà trascendente. L’immagine è soltanto un mezzo visibile per portarci verso la verità
invisibile. IMMAGINE COME MEDIUM. L’ispiratore di questa dimensione filosofica è Plotino. È così
42

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

in Meleau-Ponty (dimensione metafisica)? Sì e no, c’è una dimensione metafisica. L’immagine non
si risolve nella visione. Immagine mezzo per esplorare l’enigma della visione. Sicuramente non c’è
l’aspetto religioso e mistico, c’è l’idea che l’immagine ha in sé il carattere metafisico, non
scientifico. Non è legata alla dimensione iconica perché il mistero è tutto nel rapporto percettivo
tra noi e l’oggetto. L’invisibile in MP non trascende il mondo, è intrinseco al visibile. L’invisibile è
la fodera del visibile. L’invisibile si dà tutto nell’immanenza dell’oggetto artistico. L’invisibile indica
in pittura la necessità che il mondo va sempre interrogato. L’invisibile è qualcosa che va scoperto,
l’invisibile è il lato nascosto delle cose, non è soltanto il mistico o il trascendente, è anche ciò che
noi non vediamo e che la pittura ci aiuta a vedere.
La pittura deve problematizzare, deve ricostituire la relazione tra noi e le cose. Cézanne fa questo,
ci permette di problematizzare in modo metafisico ma non trascendente il rapporto esperienziale
tra il visibile e l’invisibile. Ci dice che attraverso la pittura noi possiamo operare un’esperienza
dell’invisibile. Questo significa che per fare ciò bisogna abbandonare una considerazione scientifica
della pittura. È necessario che il pensiero scientifico si ricollochi in un c’è preliminare (definito in
due modi: pensiero di sorvolo, che tiene a distanza le cose, naviga sopra le cose, non entra nelle
cose e pensiero dell’oggetto in generale). Il pensiero va ricollegato all’esserci, non va considerato
in maniera astratta. La scienza va ricollocata nel mondo della vita, in quella stessa dimensione in
cui noi viviamo, nell’erleben, nella nostra esperienza vissuta. L’erleben è il terreno del mondo
sensibile, quel terreno che viene lavorato sensibilmente. Come ci ricollochiamo in questa origine?
Attraverso il nostro corpo, cioè porre la corporeità nel contesto di questo esserci preliminare. Che
cos’è questo corpo? (P. 15) Il corpo non è una macchina informativa, non è qualche cosa che possa
essere definito una volta per tutte, il corpo è un corpo effettuale che chiamo mio. Non è un’entità
astratta, è il mio corpo. La sentinella che vigila silenziosa sotto le mie parole e sotto le mie azioni.
Questo corpo, aggiunge M-P, che è ciò che ci deve portare lontano da una scienza obiettivante,
non è un corpo isolato. Accanto al mio corpo si risvegliano i corpi associati (gli altri). Questi corpi
associati non sono semplicemente una realtà zoologica, abitano il mio stesso mondo, fanno parte
di un medesimo essere, quindi attraverso il mio corpo io entro in comunione esistenziale con le
cose ma anche in comunione sensibile con gli altri. Questo significa che gli oggetti visti in mondo
non scientifico, il mio corpo e i corpi degli altri fanno parte di un medesimo essere.
La pittura, o meglio l’arte, ci deve far entrare in modo enigmatico in quelle che MP chiama
l’intelaiatura dell’Essere, ovvero (p. 16) nel flusso, nella crescita, nell’esplosione, nei vortici
dell’Essere. Il pittore non valuta queste cose, non è uno scienziato, non è il soggetto di un giudizio,
ma abita queste cose. Cézanne entra nell’enigma della visione perché abita l’essere con il suo
corpo. Non evade dalla realtà e non intende rappresentarla, intende abitarla. MP ci dice che la
pittura non è la rappresentazione della realtà, il mondo è l’enigma del mio essere nel mondo.
Perché Cézanne? Non finalizza la pittura alla dimensione situazionale. La pittura è un abitare la
realtà. A questo punto cita una frase del grande poeta Valéry che dice che il pittore si dà con il suo
corpo, sottolinea che uno spirito non può dipingere, che il pittore è colui che porta alle sue
estreme conseguenze l’enigma della visibilità. MP scrive che il pittore è prestando il suo corpo al
mondo che trasforma il mondo in pittura. MP dice che questo discorso vale per tutti. Certi pittori
più di altri perché hanno il coraggio di entrare nelle cose, capacità di farci capire che la pittura non
si esaurisce in una rappresentazione, che Kant ha sbagliato, che conoscere non significa
rappresentare, che conoscere il mio mondo circostante è qualcosa di più profondo che la mia pura
e semplice capacità di rappresentare il mondo. Il mondo è qualcosa che va abitato, non qualcosa
che va rappresentato. L’errore dell’atteggiamento scientifico, cartesiano è quello di ridurre il
mondo a rappresentazione del mondo, di allontanare la conoscenza dall’erleben, di allontanare la
conoscenza dall’esperienza vissuta di mondo.
43

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

Il pittore è colui che ci fa capire che la conoscenza non rappresentativa passa attraverso
un’entità irriducibile alla conoscenza stessa e questa entità necessaria per la conoscenza del
mondo è quel corpo che è mio. La conoscenza non è rappresentativa perché il corpo non si limita
a rappresentare il mondo, il corpo vive nel mondo, è fatto della stessa carne del mondo.
Il corpo del pittore opera sempre una transustanziazione. Ciò pone tutta la questione del discorso
di MP in un’ottica che, se apparentemente si allontana da una dimensione mistica, ovunque vi sia
una dimensione ontologica predominante o rinascente, ritorna in gioco poi la questione del
misticismo.
12.03.2019
ESTETICA DEGLI OGGETTI - 14ª LEZIONE
Il senso delle cose del mondo va avviato su una nuova via, che è tematizzazione del mondo della
vita, che è il mondo «il mondo in cui noi viviamo intuitivamente, con le sue realtà, così come si
danno, dapprima nella semplice esperienza, e anche nei modi in cui spesso queste realtà diventano
oscillanti nella loro validità (oscillanti tra l’essere e l’apparenza)» (Husserl).
Il pittore diventa quasi il corpo simbolico che spiega come il rapporto con il mondo non possa
essere puramente rappresentativo. Il pittore quindi si dà con il suo corpo, entra nel mondo, non ha
con il mondo che lo circonda esclusivamente un rapporto di carattere conoscitivo. Questo significa
che dire che il pittore si dà con il suo corpo ha un rapporto con il mondo circostante non solo
conoscitivo, cerca di entrare nella carne del mondo, delle cose, non giudica, non valuta. Coglie
quei lati visibili e invisibili, scava nelle parti segrete delle cose.
L’oggetto artistico è un oggetto che non può essere ricondotto solamente alla dimensione
rappresentativa, non è solo un fenomeno da rappresentare. Discorso anti kantiano. L’oggetto
artistico è un oggetto la cui profondità non può essere colta solo dal punto di vista gnoseologico.
Vi è una profondità che deve essere scavata in una direzione non solo rappresentazionale.
Chi ha spezzato questa deriva rappresentazionale della pittura moderna? Cézanne. Perché lui? È
un pittore simbolico, in ogni dipinto vi è l’intera storia della pittura. Nessun oggetto artistico è
riducibile, per MP, alla pura dimensione rappresentazionale. È colui che scava, che si giunge a
questo superamento attraverso una costante interrogazione del reale e del mondo che ci circonda.
Ci fa capire un processo che si verifica sempre e comunque all’interno della storia dell’arte.
L’oggetto artistico non è soltanto un oggetto che è rappresentazionalmente efficace, ma è
l’oggetto che deve esprimere, deve comunicare, non deve essere solo un oggetto rappresentativo.
L’oggetto artistico è un oggetto che cambia la nostra percezione del mondo collettivamente, è
capace di arricchire la nostra esperienza del mondo. Se abbiamo visto Cézanne e i suoi dipinti che
raffigurano la montagna, vedremo la montagna con un occhio diverso. L’arte cambia la nostra
percezione, non è solo una dimensione conoscitiva, ma è anche affettiva, comunicativa. L’arte non
ci dà informazioni sul mondo, l’arte scava nel mondo (MP e Formaggio). L’arte coglie il lato
invisibile del mondo.
I concetti dal punto di vista filosofico sono due:
1) È evidente che quello che qui si vuole tematizzare con la pittura è la profondità del mondo
e della vita, che si danno in primo luogo nella semplice esperienza, ma c’è anche una
dimensione più profonda, in cui le cose appaiono oscillanti tra l’essere e l’apparenza. La
pittura ci fa capire le oscillazioni che noi cogliamo all’interno del mondo e della vita; la

44

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

pittura coglie queste cose che sono oscillanti tra l’essere e l’apparenza. Klee dice che
dipinge per i bimbi, i morti e i non nati, cioè dipinge per coloro che hanno un’esperienza
diversa, che non hanno un rapporto di utilizzazione con il mondo. La pittura ci fa entrare
con il nostro corpo nel mondo della vita e il nostro corpo non è una realtà meccanica, è una
realtà complessa, una realtà oscillante.  CAPACITÀ CHE IL CORPO HA DI ENTRARE NEL
MONDO DELLA VITA
2) Il concetto di corpo, beninteso semanticamente ambiguo, anche perché MP e Formaggio
continueranno a insistere sul fatto che si riferiscono al MIO corpo, con una
soggettivizzazione pericolosa. È altrettanto chiaro che questo corpo che è il mio corpo è il
grande escluso del pensiero filosofico, prima della tradizione fenomenologica, quasi come
se il concetto di corpo fosse attraversato dalla maledizione platonica. C’è un nemico chiaro
ed evidente: quando il corpo riappare nella filosofia in quanto tematizzato? Riappare nella
grande passione tormentata e irrisolta di MP con la filosofia di Cartesio.  CONCETTO DI
CORPO
Cosa si intende con corpo? Il corpo che si dà all’interno del mondo della vita non è il corpo
di Cartesio, è una definizione data per esclusione. Cosa è il corpo cartesiano? Il corpo
cartesiano è un corpo meccanico, deterministico, funziona solamente attraverso le leggi di
causa ed effetto. Il corpo soprattutto segue delle leggi che non sono quelle spirituali, anzi
segue delle leggi che sono il contrario delle leggi spirituali, infatti le leggi dello spirito
scelgono il libero arbitrio, Cartesio usa la parola volutas, cioè le leggi dello spirito sono le
leggi della volontà, mentre le leggi che sono seguite dal corpo sono leggi
deterministiche/meccanicistiche, il corpo è una macchina e non ha volontà. L’individualità
del soggetto non deriva dalla sua corporeità. Corpo e fisico sono all’interno di
un’espressione dicotomica. Il corpo è una macchina, non ha volontà, è una cosa tra le cose.
Quindi il corpo si dà è un’affermazione critica verso Cartesio. Per sottolineare questa
valenza organica del corpo MP usa la parola transustanziazione, uso che sta a segnalare
che il rapporto che il pittore ha con le cose non è meccanico, ma il pittore diventa cosa e la
cosa diventa pittore, perché quel corpo che è mio è esso stesso cosa. Il mio corpo non è
soltanto un soggetto che vede, è enigmatico perché è un oggetto che è anche visto, il corpo
quindi è soggetto/oggetto, l’enigma sta nel fatto che il mio corpo è vedente e visibile, al
contrario dell’epochè. Come sciogliere l’enigma? È chiaro che corpo e mondo vedente e
visibile sono uniti da una comunanza di carattere ontologico, sono fatti della medesima
stoffa. Questo enigma implica sempre in noi vi sia una forma di visibilità segreta (MP).
Questa consustanzialità organica del nostro corpo indica una complessità del corpo che
deriva dalla struttura stessa della sua capacità percettiva. Ricorda una frase di Cézanne: “La
natura è all’interno”; la percezione deve cogliere l’essenza di quella stessa carne di cui lo
stesso corpo è fatto. La pittura ha la capacità segreta di scavare questa stoffa, all’interno di
questo essere. Prima definizione anti cartesiana: IL CORPO NON È UNA REALTÀ
DETERMINISTICA, MA UNA PROFONDA UNITÀ ESPERIENZIALE ENIGMATICA, ENIGMA CHE
STA NEL FATTO CHE IL CORPO È SOGGETTO E OGGETTO. Nel corpo si coglie quella stessa
stoffa che è nelle cose. Nel corpo c’è la reale presenza del mondo, non la simbolica, nel
corpo c’è il c’è preliminare. MP, questa consustanzialità profonda, la chiama essere.
 DOMANDE ESAME  Cosa intendiamo con essere? Non ha una definizione, non è una
realtà ontologicamente stabile, è sempre legato allo scavo nel visibile, non si dà in MP se
non attraverso una filosofia dell’esperienza, realtà carnale del mondo che viene sempre di
nuovo interrogata. Non è l’essere di Platone, l’essere è la messa in atto dell’interrogazione
corporea del mondo. L’essere è ciò che noi dobbiamo sempre indagare, è quella realtà
mondana che emerge, è il presupposto del mondo. L’essere è genesi del senso, senso di
45

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

un’esperienza che appare. In che cosa questa concezione di essere si distanzia dal primo
modulo? Evidente che MP si fa ambiguo quando parla di essere. Ambiguità con evidenza è
quest’idea della consustanzialità tra uomo e mondo, cosa che Husserl non avrebbe mai
scritto. Uomo e mondo fatti della stessa sostanza per MP. Per Husserl l’intenzionalità non è
una consustanzialità, cosa che molto spesso si confonde per MP. Per Piana c’è una priorità
ontologica, priorità che ha l’oggetto; per un fenomenologo classico la priorità ontologica è
la sintesi passiva. Questo atto di consustanzialità non è un atto filosofico, soluzione extra
filosofica. È l’arte che ci fa entrare nell’enigma, è l’arte che celebra l’enigma della visibilità,
dimensione di carattere rituale. È l’arte che ci apre “sulla trama dell’essere, che va al di là
dei dati visuali […], la pittura come genitrice, genesi, metamorfosi dell’essere nella visione
del pittore. […] È la montagna che da laggiù si fa vedere da lui. È la montagna che il pittore
interroga a partire dal proprio sguardo”.
L’enigma parte dalle pitture che noi troviamo nelle grotte di Lascaux. Prospettiva naturale
data dalla differente dimensione dei diversi oggetti. L’oggetto viene attraversato da una
dimensione di carattere sacrale. Vi è già una deformazione dell’oggetto, non è
mimeticamente inteso. Esistono elementi di carattere decorativo. In Lascaux (MP e
Formaggio) c’è già tutta la storia della pittura. Il mistero della pittura c’è anche quando non
è in alcun modo presente il problema dell’autorialità della pittura, è quindi qualcosa di
separato dal suo autore.
Il punto di rottura nella tradizione narrativa della pittura occidentale è quando si supera il
mimetismo e la pittura diviene “non rappresentativa”, o meglio, astratta, informale,
concettuale. La domanda è: cambia davvero qualcosa nella vita simbolica delle forme? O
in realtà si manifesta in modo diverso il senso simbolico dell’immagine e della sua forza
di pensiero? Qual è il fine? Per MP la pittura è qualcosa che ci riconduce fuori
dall’elemento rappresentazionale, ecco perché la pittura astratta ci aiuta, perché non ci
permette di concentrarci sulla rappresentazione, sempre una limitazione per l’oggetto
artistico, che non è un oggetto d’uso, definibile, qualche cosa che non deve portarci
semplicemente su ciò che rappresenta. I valori dell’oggetto artistico non sono in ciò che
rappresenta. Klee ci fa capire il superamento dell’aspetto rappresentazionale della pittura,
ciò che c’era già in Lascaux. Il rapporto che il pittore ha tra il proprio corpo e il mondo è un
rapporto profondo. Chiaro allora che la pittura ha in sé una dimensione completamente
diversa, una capacità di farci capire quel fondo segreto delle cose che la filosofia non ci fa
capire, perché la pittura non è comprensione del mondo, ma ingresso nel mondo (punto
chiave di MP). La pittura è consustanzialità con il mondo.
A cosa serve la pittura, qual è la finalità? La finalità non è quella di rappresentare il
mondo, pensiero che Cézanne trae da Baudelaire; di conseguenza la finalità della pittura
non è quella di conoscere il mondo, allora il fine della pittura è quello di interrogare il
visibile. Il fine della pittura è di mettere insieme essenza ed esistenza, immaginario e reale,
visibile e invisibile, la capacità su cui Klee insiste moltissimo di vedere l’interno delle cose.
La pittura ha il fine di “confondere tutte le nostre categorie”, perché è scavo nel mondo
della vita, non nel mondo delle apparenze. MP chiama questo incrocio con un nome tratto
dall’anatomia: chiasma, in questo senso incrocio, mescolamento, simbolo. La pittura è
chiasmatica, è incrocio.
Qual è il protagonista di questa interrogazione? “L’interrogazione della pittura mira a
questa genesi segreta e febbrile delle cose nel nostro corpo […] i grandi artisti dicono
sempre che le cose li guardavano e dice ancora che il pittore usa una tecnica corporea che
amplifica la struttura metafisica della nostra carne”. La pittura è interrogazione del reale.

46

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

La pittura è scavo nell’invisibile. “Essenza ed esistenza, immaginario e reale, visibile e


invisibile (scavo nel visibile, modo di vedere il visibile”.
A che cosa mira questa confusione? Alla vera finalità della pittura, quella di “dispiegare il
suo universo onirico di essenze carnali”, è sogno ma è anche carne, è fantasia ma è anche
realtà, è visibile ma è anche invisibile. Il fine della pittura è quello di scavare l’interiorità
segreta delle cose a partire da un dato visibile.

Le arti non sono più forme di riconoscimento: si rinuncia all’empatica e al naturalismo.


Le arti sono strumento di conoscenza e delle tensioni della conoscenza.
Insegnano l’importanza di un sapere simbolico, cioè di un sapere che ha in sé la scissione.
L’arte insegna la capacità di superare il culto della presenza, di vedere al di là della
rappresentazione, di cercare nel visibile, e grazie al visibile, il senso invisibile, fondativo che
è nel mondo.
L’arte fa vedere, nella visione, al di là della visione.

13.03.2019
ESTETICA DEGLI OGGETTI - 15ª LEZIONE
DOMANDA: le diverse rappresentazioni della montagna non sono forse più delle modificazioni del
soggetto che dell’oggetto?
RISPOSTA: MP risponderebbe che gli occhi di Cézanne vedono delle cose diverse, ma le cose
diverse sono sempre riferite al medesimo oggetto, così come le qualità che appaiono sono di
carattere oggettuale. Il pittore si dà con il suo corpo, per cui se una risposta “fenomenologica
classica” direbbe che sicuramente quelle qualità ci sono ma fanno parte di una modificazione
immaginativa (così direbbe Husserl), aggiungono un carattere che prende spunto dal dato
percettivo ma lo modifica, quindi è esattamente come la cappella funeraria di notte che genera
timore nel soggetto e viene descritta con un alone di negatività ma in realtà non ce l’ha. Husserl
risponderebbe che la montagna è caricata di specifici valori immaginativi, tendenzialmente la
risposta di Piana sarebbe la stessa (la percezione è sempre il centro, poi vi è una lettura in cui i dati
passivi vengono caricati di senso). Dal punto di vista di MP tutto quello detto finora è vero, però
qual è la differenza fra i due approcci? Per MP non c’è una vera e propria distinzione tra la
dimensione della sintesi passiva dell’oggetto e la sintesi passiva del soggetto, sono fatti della stessa
carne. È con evidenza chiaro che MP ha profondo sospetto di un’autonomia dell’immagine, il dato
è sempre un dato percettivo e il dato percettivo è sempre un dato mischiato, carne del mondo e
carne del pittore. La domanda è quindi ontologicamente sbagliata perché, facendo parte dello
stesso essere, come possiamo dire cosa è dell’uno e cosa è dell’altro? Quelle cose sono nella
montagna, perché sono nello sguardo che si dirige verso la montagna. C’è questa implicazione
ontologica che muta le due prospettive, al tempo stesso per Husserl il problema dell’ontologia è
diverso, perché l’ontologia si gioca tutta quanta all’interno delle dimensioni delle catene
esperienziali. Qui l’ontologia è il senso consustanziale dell’essere, il carattere metafisico della
pittura. Tutto ciò comporta da parte di questo testo di MP una riconduzione di tutta la filosofia
47

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

dell’esperienza a una percezione. Nel primo modulo abbiamo visto che dal punto di vista
strutturale gli atti percettivi, immaginativi e memorativi sono diversi; MP, all’interno di questa
dimensione, la specificità differenziante degli atti è in secondo piano e sicuramente MP ha un
profondo sospetto per l’immaginazione.
La filosofia di MP è una filosofia dell’ambivalenza (chiamato filosofo dell’ambiguità) tra carne del
mondo e carne del soggetto, tra vedente e visibile, tra toccante e toccato, tra corpi isolati e corpi
associati.
Ambiguo il rapporto con Cartesio, perché Cartesio è al tempo stesso l’origine di tutti i mali e la
risoluzione di tutti i mali. Cartesio sbaglia a tematizzare il corpo.
Amico – nemico di MP mai esplicitamente nominato (litigarono nel 1956): Jean-Paul Sartre. Egli
era un filosofo poco accademico, MP lo era molto di più (gelosia per la notorietà accademica). Fra i
due c’è una distanza incommensurabile dal punto di vista teorico. Il valore dell’immagine, la
valutazione dell’opera d’arte, Sartre fa la sua fortuna attraverso una valutazione dell’immagine
come apertura a una dimensione di senso possibile (che chiama nulla) che indica la libertà del
soggetto. Sartre prosegue la tradizione delle grandi avanguardie storiche francesi, nello specifico
quella del surrealismo per cui l’immaginazione è il segno e il simbolo della libertà. Ha in sé tutte
quelle istanze in cui l’immaginazione è il segno del riscatto dell’io. Sartre protagonista del ’68
parigino. Tutto questo fa sì che in Sartre non si consideri la dimensione della percezione. MP ha
una tesi di fondo che è proprio il contrario: l’immaginazione è un libero delirio che non ci fa capire
le possibilità che ci sono all’interno del reale  filosofia della percezione: l’immaginazione vale
solo se scavo all’interno del reale. In questo MP è più legato a Husserl e alla sintesi passiva rispetto
a Sartre: tutto il senso è nell’evidenza delle cose che si danno. Il problema comune è che non
bisogna mai trasformare la necessità di scavare nel reale ma non bisogna mai trasformare questa
necessità in culto della presenza, quindi la percezione non può mai essere posta in un culto del
dato, dell’oggetto nella sua staticità formale o sostanziale che sia.
L’opera d’arte non è un oggetto immaginario, non è la domenica della vita, non è il riposo di fronte
alla banalità del quotidiano, non è il nulla che trionfa sull’essere, è invece la possibilità di scavare
nell’estetico. Come raggiungiamo l’oggetto artistico? Non attraverso un’operazione nullificante,
ma attraverso un lavoro di scavo di carattere percettivo e qualitativo, attraverso un impegno
ontologico. L’impegno che deve avere il filosofo è un impegno nel reale, è il reale che va scavato e
indagato, che però non può essere staticizzato. Cogliere nella fattualità del reale quelle possibilità
che esso offre. Cézanne ci fa capire come l’oggetto artistico è una modificazione percettiva
dell’oggetto estetico, ci fa capire che l’oggetto d’arte non ha una struttura ontologico differente
rispetto all’oggetto estetico, è un approfondimento. Questa struttura ontologica dell’estetico e il
suo approfondimento ci portano verso l’oggetto artistico, quindi la possibilità di scavare
nell’oggetto estetico. L’oggetto artistico non deve essere né puro oggetto immaginario, né pura
presenza.
 Cadono le leggi della prospettiva e cadono in Cézanne, di conseguenza egli riesce a
presentarci un mondo nuovo, un mondo che è lo stesso mondo che noi viviamo (il mondo
della vita) ma al tempo stesso è un mondo diverso.
 La grandezza di Cézanne sta nel fatto che il pittore che basa tutto sulla presenza, cosa più di
una montagna, è il c’è preliminare. Egli chiama la montagna il motivo, ne produce 120,
necessario per dipingerla vederla. Il senso di questa montagna che ha bisogno di essere
vista non si riduce attraverso la visibilità cui essa appare. Se così non fosse stato Cézanne
non l’avrebbe dipinta 120 volte. Ci torna sempre perché dice che c’è sempre qualcosa che
48

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

lui non ha visto e il compito dell’arte è quello di far emergere il mistero; ciò non significa
sciogliere l’enigma, per cui Cézanne illustra l’elogio della visibilità che però sempre di
nuovo fa riemergere l’enigma della visibilità.
Si interroga l’invisibile attraverso il visibile. Il lato invisibile è il senso che ritorna. Il mondo è
enigmatico perché ha sempre un volto nascosto: evidente il passaggio da Cézanne a Klee (si
riteneva allievo di Cézanne pur non avendolo mai conosciuto). Quando Klee parla dei nostri
antipodi di ieri: qui MP li cita ma non spiega perché; sono gli impressionisti. Perché? Perché gli
impressionisti avevano il culto della visibilità, quello di voler approfondire la visione rimanendo
all’interno dei confini della visione. Al contrario, Klee vuole attraverso la visione approfondire non i
meccanismi, ma la visione, scavare. “il nostro cuore batte per condurci verso le profondità”, frase di
Klee, quasi sintesi del percorso di MP, e aggiunge “la pittura, l’arte, invece di limitarsi alla
riproduzione più o meno intensa del visibile, vi annette anche il versante dell’invisibile percepito
occultamente”. Il problema è quello di scavare nell’invisibile attraverso il visibile. L’enigma della
visione è quello di capire che la visibilità non si riduce a quello che vediamo. Scavare nel visibile
porta alla verità che si trova all’interno, capacità di cogliere il senso intimo delle cose.
Il problema, dal punto di vista teorico, è oltre la sola visione: il senso delle cose ha bisogno della
visione, ma deve andare oltre. Questo significa scavare nel visibile, non cogliere il problema della
visione come capacità di enucleare i dati visibili, compito dell’arte non è quello di restituirci la
realtà, ma quello di approfondire l’occhio nel mondo. Interazione tra occhio e visibile, relazione
che ha bisogno dell’invisibile. Non si tratta più di aggiungere una dimensione alle altre due per
restituire il visibile così come lo vediamo, non si tratta più di organizzare un’illusione, bisogna
scavare all’interno di questa dimensione. Questo è il segreto della visibilità e dell’enigma della
visibilità. È ciò che l’artista deve fare. La montagna di Cézanne segna l’abbandono totale della
prospettiva.
Questo processo riguarda soltanto la visione? Riguarda tutte le volte che un’arte scava nel reale.
Che cos’è l’oggetto artistico? L’oggetto artistico è ciò che deve scavare nell’invisibile attraverso il
visibile.
Come ripete MP citando vari autori del cubismo, la forma esterna è secondario, l’importante è lo
scavo, la capacità di scavare nelle cose, non riguarda soltanto la pittura, anche se la pittura è un
oggetto privilegiato perché mette in gioco l’enigma della visibilità, ma riguarda tutte le arti.
Proust, terzo volume de Alla ricerca del tempo perduto: l’arte è qualcosa che ci fa vedere nel reale,
è qualcosa che ci impone di guardare il reale con occhi diversi, fa questo rendendosi conto,
guardando il dipinto di Vermeer, Veduta di Delft, rendendosi conto che aveva visto in quel dipinto
qualcosa che nessuno aveva visto e che lui stesso di fronte a quel dipinto si era reso conto di
qualcosa che prima non aveva notato; qualcosa di apparentemente invisibile, ma che è nel visibile
e quindi stimola la nostra visione; era la piccola ala di muro giallo su una tettoia, scrive Proust.
L’invisibile è tutto ciò che prima non avevamo visto e che qualcuno ci fa notare, tutto ciò che, pur
inserito nel reale, non riuscivamo a vedere. Definire l’invisibile finiamo in un pericolo che MP
corre: l’ontologia negativa. L’ontologia di MP è un’ontologia del pieno, non del vuoto.
DOMANDA: MP fa tutto questo discorso concentrandosi sulla pittura e sui pittori, ma quindi in un
certo senso la possibilità di scavare nel reale, l’enigma della visibilità è riservato solo ai pittori o a
chiunque?

49

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

RISPOSTA: Sì e no  da un lato è chiaro che il pittore è semplicemente ed esclusivamente simbolo


di una visione che tutti quanti mettiamo in atto, il pittore è il simbolo di un enigma percettivo, che
è il senso strutturale e ontologico della percezione. L’enigma della visione non è un dato che
riguarda la psicologia della creazione, ma riguarda ciascuno di noi, perché mettiamo in atto
l’enigma della visione. L’enigma della visione ci indica la necessità di scavare nell’estetico per
coglierne le qualità, questo è il presupposto di tutto il corso: ogni visibile nasconde un invisibile.
L’artista è colui che ha il compito di farci vedere, non di creare qualcosa di nuovo, ma farci vedere
un punto di vista delle cose che noi non avevamo visto, tematizza l’enigma della visione, è più
bravo di noi nel farci cogliere la profondità del reale. L’arte è capacità di farci vedere qualcosa che
senza l’opera non avremmo visto. L’arte è ciò che ci fa cogliere la qualità percettiva del reale e ci
permette di approfondirlo.
Cartesio tematizza la centralità della percezione ma la banalizza, cioè distingue l’oggetto, lo spazio
e il soggetto, quando invece bisogna capire che oggetto, spazio e soggetto sono fusi all’interno di
una sola dimensione di approfondimento esperienziale. Siamo di fronte a una radicale filosofia
dell’esperienza.
DOMANDA CRISTINA: Come si manifesta il discorso di MP di fronte a opere che non rispondono
alle stesse caratteristiche tecniche e storiche di Cézanne, Klee e Picasso?
RISPOSTA: In primo luogo l’intera storia della pittura è storia dell’enigma della visibilità, da Lascaux
ai giorni nostri. In questo senso ogni opera pittorica racchiude in sé l’intera storia della pittura,
perché la storia della pittura è sempre indagine del rapporto tra il vedente e il visibile. Anche
opere prospettiche nascondono dimensioni di senso che ci permettono di vedere qualcosa che non
avevamo visto. Ogni pittura ha in sé una dimensione di deformazione della realtà, quindi ogni
opera d’arte è elogio della visibilità, ma al tempo stesso elogio dell’invisibilità. A rigore si estende a
tutte le opere d’arte, che permettono di cogliere il limite del cartesianesimo, cioè i limiti di una
visione asettica dello spazio. Ogni opera d’arte è un approfondimento della nostra relazione
estetica con il mondo, cioè il nostro rapporto con lo spazio e il tempo. Detto ciò, la pittura ha una
storia e la storia ha effetti di significato diversi all’interno del suo percorso; la storia dell’arte è
fatta da linguaggi diversi con cui l’arte si esprime, i linguaggi hanno un significato ma anche delle
forme di desemantizzazione, cioè perdono di significato, nel momento in cui le loro possibilità di
significato perdono la loro espressività, la capacità di guardare di più e guardare di meno. Il punto
culminante della rappresentazione pittorica moderna sono gli impressionisti, in quanto,
esercitando in modo raffinato il gioco della visione, dimenticavano il mondo per concentrarsi
sull’occhio. Perché facevano questo? Ce lo spiega con assoluta chiarezza Baudelaire: si erano perse
le possibilità di significare il mondo nel momento in cui si scoprono dei modi più raffinati per
riprodurli: la fotografia. Il pittore scopre nuovi modi di vedere, modi che aveva sempre avuto,
semplicemente non erano stati usati perché non c’era bisogno di quella semantica per l’enigma
della visione. Qual è quindi il senso di chiamare in causa questi autori e non altri? Questi autori
sono quegli autori che sono consapevoli della messa in crisi di uno strumento semantico. Un
simbolo non può essere fissato, la prospettiva è un momento della storia dell’arte, non è il simbolo
del modo di vedere.
L’immagine coglie il suo senso in un tempo che trasfigura la visibilità spaziale eccedendo la
rappresentazione: non è un elogio astratto del valore assoluto della presenza, bensì, al contrario,
un modo per descrivere, a partire dal dato empirico, le possibili e stratificate esperienze
dell’invisibile.
18.03.2019
50

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

ESTETICA DEGLI OGGETTI - 16ª LEZIONE


MP si differenzia rispetto alla tradizione fenomenologica per il ruolo che dà al corpo (non ego
logico, corpo centralità assoluta) e per la differente ontologizzazione del rapporto corpo – mondo.
MP evidenzia due punti della tradizione fenomenologica:
1) Centralità dell’intenzionalità fungente rispetto alla funzionalità d’atto  noi, il soggetto, il
corpo, non costituisce il mondo ma lo abita, il mondo è una realtà interrogante e
interrogata e questo è il mondo con cui MP organizza il discorso sull’intenzionalità
fungente.
2) Importanza del mondo della vita perché è questo che dobbiamo cogliere  MP opera
un’ontologizzazione del mondo della vita.
Per compiere questo percorso prende a modello il formarsi dell’opera d’arte: essa come cartina di
tornasole del rapporto che i corpi instaurano con il mondo circostante. L’opera d’arte non è
qualcosa di distinto dall’oggetto estetico, è un approfondimento dell’oggetto estetico. Prende a
modello quelle dimensioni dell’arte che si allontana dalla rappresentazione; il senso non è un
senso che possa essere ridotto e ricondotto alla rappresentazione. L’opera d’arte mira a uno
sguardo più segreto e più profondo. Per far ciò utilizza quegli artisti che non sono rappresentativi,
cioè abbandonano coscientemente l’orizzonte rappresentativo dell’arte, operano un percorso di
abbandono progressivo dell’arte come orizzonte rappresentativo. La montagna di Cézanne fa
capire come l’abbandono dell’aspetto rappresentativo è un abbandono progressivo. Prende anche
Klee, perché nei suoi scritti (anche docente del Bauhaus) c’è un elemento esplicito: l’arte come
scavo nell’invisibile. Rimane sullo sfondo il terzo artista non rappresentativo: Picasso (pluralità
contemporanea del punto di vista). Il discorso artistico passa attraverso un impegno del corpo del
pittore (Valery: “Il pittore si dà con il suo corpo).
Tutto ciò passa attraverso una ben precisa polemica filosofica, per certi versi infantile, per altri
significativa, con Cartesio; al discorso cartesiano vengono riconosciuti enormi meriti ma anche
enormi misundersting che hanno portato a una frattura del pensiero occidentale. Grande merito:
conquista della corporeità, di una dimensione dello spazio che passa attraverso il corpo che entra
come soggetto filosofico (prima il soggetto non c’era o era una realtà astratta). Il corpo cartesiano
è un’entità spaziale, una realtà fattuale posta all’interno dello spazio. Grande errore (secondo MP):
considerare il corpo esclusivamente come una realtà fattuale, questo perché per Cartesio il corpo
è un pezzo di natura, una realtà meccanica e come tale segue le stesse leggi della natura. Le leggi
della natura sono leggi meccanicistiche, deterministiche. Il corpo è una macchina per Cartesio
(p.30 di MP: il corpo è un manichino). Metafora dell’uomo – macchina avrà fortuna anche nel
secolo successivo. Per capire bene il discorso di MP dà per scontato che il corpo segue leggi
diverse rispetto a quelle dello spirito, il soggetto non è il corpo, il corpo è un pezzo di natura, non il
soggetto, l’ego passa attraverso il corpo, che è un pezzo di spazio. Il corpo c’è ma non è un corpo
soggettivo, è un corpo naturale, quindi il soggetto, per manifestare la sua libertà, deve, sul modello
di Dio, allontanarsi dalla propria corporeità. MP pone questo punto cartesiano come elemento
discriminante: per Cartesio lo spirito non sbaglia, è il corpo che induce all’errore. Come agisce il
corpo nel mondo? Attraverso la sensibilità. Il corpo cartesiano è un corpo sensibile, ma è fonte di
errore, non di conoscenza.
La nostra scienza e la nostra filosofia sono conseguenze fedeli e infedeli del cartesianesimo, due
mostri nati dal suo smembramento.

51

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

Smembramento perché Cartesio capisce la necessità di unire spirito e corpo, ma dicotomizza


perché spirito e corpo seguono leggi diverse: le leggi del corpo sono leggi fallaci, le leggi dello
spirito sono vere. Con ciò MP ci dice che è sia una filosofia materialistica, sia una filosofia
spiritualistica sono mostruose. MP ci dice che sia il determinismo meccanicistico della scienza sia
una visione metafisica della scienza sono due visioni mostruose. Questa concezione cartesiana del
corpo porta con sé una determinata concezione dello spazio. MP copia il paragrafo 9 de La crisi
delle scienze europee di Husserl dedicata a Cartesio. Lo spazio cartesiano è uno spazio idealizzato,
possiamo misurarlo all’interno degli assi cartesiani, spazio oggettivato, non vissuto. Cosa vuol dire
vivere lo spazio? Conoscere la densità (p 35), cioè la visione corretta anticartesiana che bisogna
avere dello spazio. Lo spazio non è misurabile, è lo spazio denso. Noi corpi non occupiamo uno
spazio, noi siamo quello spazio. Spazialità e corporeità sono un’unica e medesima realtà di senso.
Lo spazio è (p. 35) l’essere in sé per eccellenza. Non è uno spazio cartesiano, fuori di me, lo spazio
di cui parla MP è uno spazio di cui bisogna riconoscere l’assoluta densità. Lo spazio è una realtà
originaria, lo spazio è una realtà densa. Lo spazio non è più quello di cui parlava Cartesio nella
diottrica (un reticolo di relazioni fra gli oggetti, il corpo serviva a mappare lo spazio, era soltanto
uno spazio visivo, uno spazio esteriore). Anche per Kant lo spazio è qualche cosa che va misurato.
Cosa è lo spazio come essere in sé per MP? Uno spazio considerato a partire da me come punto o
grado zero della spazialità, parte dal corpo, il corpo è il grado zero della spazialità (p. 42). Lo spazio
non è un involucro esteriore che mi ospita, bensì io lo spazio lo vivo dall’interno, io sono inglobato
nello spazio, per cui io il mondo è intorno a me, non di fronte a me. Questa frase significa uscire
dalla visione prospettica, uscire dalla visione in cui è un soggetto che guarda il mondo, uscire dalla
metafora della finestra, uscire dal discorso su Leon Battista Alberti, non ci sono qua io e fuori dalla
finestra il mondo (metafora originaria della prospettiva), io sono implicato nel mondo, io entro nel
dipinto. Togliere la prospettiva allo spazio significa abitarlo, non vederlo da lontano. Lo spazio non
è qualcosa di distante, è qualcosa in cui sono implicato.
Lo spazio non è di fronte a me, è intorno a me, perché io sono spazio. Non si tratta più di parlare
dello spazio (considerandolo un oggetto distante da me), si tratta di far parlare lo spazio (p. 42). La
pittura è quindi un modo per far parlare lo spazio, per dare voce a ciò che per Cartesio non ce l’ha.
Il rapporto con lo spazio è un rapporto espressivo, non di riconoscimento di una realtà meccanica
esteriore. Lo spazio è il chiasma di visibile e invisibile. Anche noi siamo una dimensione di assoluta
invisibilità (esempio: non vediamo il cuore ma lo sentiamo). L’arte ci fa comprendere come il
visibile sia tramato di invisibile. Cartesio si limita al visibile, alla fattualità dello spazio. Non
dobbiamo parlare dello spazio, ma far parlare lo spazio. Come? Considerando l’intenzionalità, il
nostro rapporto con il mondo circostante, non come qualcosa di teoreticamente astratto del
mondo, ma considerandola come interrogazione. La visione è interrogazione. Tutte le ricerche che
si credevano concluse si riaprono; questa filosofia dell’interrogazione è una filosofia ancora tutta
da fare, ma è questa filosofia che anima il pittore. MP ci sta dando una visione filosofica precisa del
nostro rapporto con il mondo: deve essere interrogazione e non spiegazione. L’intenzionalità è
descrizione del mondo, non spiegazione. Noi non dobbiamo spiegare il mondo, dobbiamo
interrogarlo ed è per questo che, al di là delle variazioni e delle ontologie, MP può essere inserito
all’interno del primo modulo, proprio perché l’intenzionalità è interrogazione del mondo, non
spiegazione. Le scienze spiegano, la filosofia interpreta. La pittura è un’arte dello spazio, non
perché crea lo spazio ma perché lo interroga. La pittura è ciò che permette di interrogare la genesi
segreta e febbricitante delle cose con il nostro corpo. La pittura è il pensiero dell’intenzionalità
fungente, è il pensiero che interroga, che non definisce.

52

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

In questo mondo dove l’oggetto è serializzato, esiste ancora una funzione ontologica dell’arte?
La risposta per Baudrillard sarà (alla fine del terzo modulo) radicale: NO. Il mondo è fatto solo di
simulacri, MP narra invece le ultime ventate della modernità, e non a caso prende come esempi gli
ultimi grandi pittori della modernità.
Esistono ancora degli oggetti sensati attraverso i quali noi interroghiamo il nostro mondo
circostante? Nel mondo dell’esteticità diffusa, che senso ha l’esteticità profonda dell’arte? Come
riconosciamo l’espressione, la bellezza, il senso? Per Baudrillard noi non possiamo, secondo il
titolo del primo saggio del terzo la televisione ha ucciso la realtà, perché non c’è più autenticità.
Esiste ancora l’arte se questa è l’arte? RISPONDEREMO ALLA FINE DEL TERZO MODULO.
Jean Baudrillard: Le immagini (della tv) sono la realtà oppure sono dei simulacri? È un discorso che
può valere anche oggi parlando di Instagram e per Baudrillard le immagini della tv sono solo un
simulacro.
DOMANDA: Secondo Baudrillard noi non abbiamo i mezzi per conoscere noi stessi?
RISPOSTA: Secondo Baudrillard è così, nel mondo del virtuale il corpo è un simulacro tra altri
simulacri, perché il corpo ha perso quell’elemento di identificazione sensata che ancora nella
tradizione fenomenologica aveva. Il primo simulacro è la sessualità, ciò che caratterizza il corpo,
sempre più esibita e meno reale. In un mondo dominato dalla virtualità delle immagini, il mondo
diventa pura astrazione, puro simulacro. Per Baudrillard non c’è soluzione, perché voler uscire
dalla società dei simulacri è esso stesso un simulacro; il postmoderno ha ucciso il pensiero, ha
fatto diventare il mondo un regno di simulacri.
La fenomenologia è l’ultimo grande pensiero della modernità che spera ancora in sé stessa, che
spera nella ricerca del senso, senso che non c’è più perché viviamo in un mondo virtuale.
È davvero l’ultimo grande pensiero della modernità quello della tradizione fenomenologica
oppure ha ragione Baudrillard con il pensiero del simulacro puro? Il corpo qui è una realtà
profonda di senso (MP).
Che cos’è la bellezza ormai? Cosa sono le differenze?
DOMANDA: È possibile considerare la virtualità come l’invisibile del visibile della realtà?
RISPOSTA: È esattamente il punto che ci permette nel terzo modulo di tornare sul problema. Il
virtuale non è forse un modo diverso per considerare il tema ontologico dell’invisibile? Il virtuale
non è inserito anch’esso nella dinamica ontologica della modernità? Di fronte al cataclisma di
Baudrillard, non possiamo considerare il virtuale come una dimensione segreta e nascosta del
reale? Si è perso il concetto di originalità, di unicità, di un mondo che l’artista scava e interpreta. I
grandi interpreti oggi non sono più gli artisti, ma gli stilisti. Al di là della filosofia, è il mondo che
offre nuovi modelli di senso.
Il discorso di MP è un discorso con evidenza ancora di carattere metafisico. MP vuole costituire
una nuova metafisica con al suo centro un essere corporeo e spaziale. La filosofia è il tentativo di
svelare questo essere corporeo e spaziale, farci capire che non esistono nel nostro mondo
circostante problemi distinti, tra loro separabili, progressi per accumulazioni, scelte irrevocabili,
quello che dobbiamo fare è mettere in discussione il senso del mondo e delle cose. Nessuna opera
compie la pittura, non esiste una definitività dell’interrogazione. Nessuna opera d’arte è
pienamente compiuta, definitiva. Ogni creazione cambia, altera, chiarisce, approfondisce, ecc. (p
63). Le creazioni non sono un dato acquisito, non perché passano come tutte le cose, ma perché
53

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

hanno tutta la loro vita dinanzi a sé. Ogni opera d’arte è una visione sul futuro, perché cambia la
nostra percezione del mondo e delle cose. La pittura presenta questo essere che diviene, che è
apertura al possibile, alla differenza, quindi le opere d’arte non sono simulacri del reale, sono
implicate sempre nel reale, sono la storia della nostra realtà, sono il mondo in cui noi dobbiamo
leggere la storia della nostra realtà. La parola chiave è quindi possibilità.
La metafisica di MP è una metafisica della corporeità, quindi è una metafisica estremamente fisica,
legata alla fisicità del corpo. La metafisica è perché questa realtà fisica non può essere limitata al
dato fisico, questa realtà fisica ha in sé una dimensione invisibile, dunque metafisica e va oltre la
sua stessa fisicità.
Quali sono le differenze tra il libro di Formaggio e il libro di MP? La grande analogia: MP ha
cambiato una certa percezione della fenomenologia in Europa. Per Formaggio, ma anche per MP, il
corpo non è un io costituente, il corpo non è un ego logico, non è una realtà astratta, il corpo è una
realtà implicata nel mondo. L’arte è un modo per far emergere questa implicazione tra il corpo e il
mondo. Che cosa è l’arte? Come possiamo definirla? Tutto ciò che gli uomini chiamano arte,
tautologia che però ci dice il senso ontologico dell’opera, cioè l’arte è un valore costruito, non è un
valore a sé, non è un percorso di idealizzazione ma di costruzione. L’arte è prassi progettuale, non
è una realtà che può essere riassunta all’interno di valori universali e stabili. L’arte è tutto ciò che
viene chiamato arte, non qualcosa che viene chiamato tale perché messo nei musei. L’arte ha uno
sviluppo storico e manifesta il suo senso in questo sviluppo storico, l’arte è un modo per leggere la
storia al di là dei fatti e degli eventi storici.

La profonda analogia in questi due testi è riassumibile in due punti:


1) Centralità del corpo come nucleo di possibilità di esplorare il reale, è nel corpo che si legge
il reale, il corpo non è io costituente ma è un io implicato. Corporeità.
2) Il modo che per eccellenza il corpo ha per esplorare il senso del reale è l’arte, quindi l’arte è
un’azione di senso, non è la domenica della vita. È un modo per entrare con astuzia nel
segreto del mondo, nel senso delle cose. Valore conoscitivo dell’arte.
Le differenze sono due:
1) Non c’è nessuna ontologia nel libro di Formaggio, l’arte non manifesta alcun essere, l’arte
manifesta un processo, non un essere, l’arte va considerata nella sua processualità, non
nella sua ontologia; MP era accusato di aver costruito una nuova metafisica, l’arte invece ci
permette di allontanarci dalla metafisica, perché ci fa capire la processualità del reale e non
l’ontologizzazione del reale. Il senso dell’arte è nella descrizione dei processi progettuali
che la descrivono, l’arte è un progetto (questa espressione non c’era in MP). L’arte è ciò
che organizza il possibile all’interno di una forma, di un quadro formale. L’arte è un modo
per scavare nella possibilità progettuale delle cose.
2) Se in MP era completamente assente il pensiero dialettico, in Formaggio il pensiero
dialettico torna a fare capolino, si coglie il potere costituente della negazione. L’arte è un
processo dialettico, non è un processo ontologico, l’arte procede per negazioni. Il primo
rapporto con il mondo è di negazione, ne sono un esempio i bambini, ciò vuol dire che
l’arte ha anche in sé una forza dialettica. Si inserisce nel discorso una lezione di
54

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

fenomenologia che non è soltanto husserliana, ma un altro concetto di fenomenologia che


è quella di Hegel.
19.03.2019
ESTETICA DEGLI OGGETTI - 17ª LEZIONE
Il testo di Formaggio rientra in un quadro generale: cogliere le caratteristiche strutturali
dell’oggetto artistico. La domanda che ci eravamo posti con MP si approfondisce, cercando di
capire non soltanto le caratteristiche ontologiche (MP) ma anche quelle strutturali, o meglio
ancora le caratteristiche artistiche dell’opera d’arte. MP ne guarda la struttura essere dell’opera,
Formaggio vuole capire come. Dimensione ontologica assenta, presente quella progettuale.
Punto di partenza: problema della corporeità. Analizzando come si costituisce l’oggetto artistico vi
è una centralità della dimensione corporea; impossibile parlare di arte senza parlare di corpo, di
quelle prassi progettuali che vivono attraverso il corpo.
Conclusione generale: l’oggetto artistico è una specificità dell’oggetto estetico. Il primo non è
qualche cosa di distinto dal secondo, è anzi un approfondimento e il protagonista è il corpo, cioè la
realtà che ha un senso estetico.
Nel momento in cui cerchiamo di capire il senso dell’oggetto artistico, dobbiamo sempre partire
dall’oggetto estetico (i due sono legati). L’oggetto artistico ha sempre una matrice esperienziale,
esperienza del mio corpo, quindi esperienza vivente; non può essere definito se non attraverso
una prassi. L’oggetto estetico è approfondito nell’oggetto artistico e questo è un qualcosa di
vissuto e non semplicemente fruito a distanza. Con l’oggetto artistico noi siamo coinvolti come
corpo, è una realtà che ha un senso espressivo che non tutti gli oggetti del nostro mondo
circostante hanno.
DOMANDA: Se l’oggetto artistico è un vissuto e non può essere fruito a distanza, per esempio
un’immagine è solo una rappresentazione?
RISPOSTA: MP avrebbe detto di diffidare dalle immagini, perché queste non ci danno la realtà
dell’oggetto, perché l’oggetto deve essere fruito con il nostro corpo, per cui l’arte figurativa in
immagine è soltanto un simulacro dell’opera, non è un’opera. L’opera va vissuta, è un’esperienza.
All’interno dei vari livelli di esperienza noi dobbiamo considerare che quando percepiamo
un’opera d’arte riprodotta per immagine noi percepiamo un’opera d’arte riprodotta per
immagine, non stiamo percependo quell’opera d’arte. L’opera d’arte va vissuta, il pensiero di
sorvolo non va bene per l’arte (MP). Le riproduzioni sono un accrescimento cognitivo, non sono di
necessità un’esperienza corporea, sono uno sforzo cognitivo, non stiamo esperendo un’opera
d’arte.
Qual è la caratteristica? Quando noi parliamo di estetica intendiamo almeno due cose diverse:
1) Estetica generale che riguarda tutti gli oggetti estetici che cadono sotto i nostri sensi.
2) Estetica speciale che riguarda quegli oggetti che vengono intenzionati come oggetti artistici
e che hanno a che fare con una dimensione artistica.
L’intenzionalizzazione è importante, arriva da un processo (no Formaggio, sì MP).
L’intenzionalizzazione deriva da un processo di comprensione della struttura dell’oggetto
medesimo e si cerca di capire cosa sia l’oggetto artistico da un punto di vista strutturale, cosa sia il
suo senso speciale.

55

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

L’arte ci avvicina a un senso che non è il senso generale degli oggetti estetici, l’arte ci allontana dai
simulacri (Formaggio).
Come dobbiamo considerare l’opera d’arte? Il sottotitolo del libro di Formaggio ci aiuta, compare
dalla terza edizione in poi: l’arte come idea e come esperienza. Perché? (DOMANDA ESAME).
L’arte come idea rischia di portarci fuori strada, non è un’idea platonica, non è un’idea distante
dalle cose, separata dalle cose, non è pura, non ha quella dimensione iperuranica, non è un
modello ideale per le cose, l’arte è idea nel senso etimologico del termine, perché sappiamo che
idea deriva dal greco vedere, quindi l’arte, come avrebbe detto MP, è qualcosa da vedere. Husserl,
quando vuole cogliere le caratteristiche strutturali delle cose, usa un termine analogo che deriva
dal greco vedere e questa parola è la parola essenza. Arte come idea perché ha un’essenza che
deriva dalla prassi corporea.
Oltre a deriva da una tradizione MP e husserliana, vediamo una terza dimensione: quella della
tradizione hegeliana. Per Hegel, l’idea non è astratta ma concreta, perché si realizza nella storia
(dimensione storica assente in MP). In Formaggio l’idea è qualcosa che si realizza sul piano storico,
l’idea è storica, è la concretezza della storia. La ragione si incarna nella storia, non è qualcosa di
separata dalla storicità, ma vi è radicata. In questo libro, fin dalle prime pagine, viene alla luce un
altro concetto di fenomenologia che non è husserliano (Husserl neppure sapeva che Hegel aveva
scritto una fenomenologia dello spirito, il termine fenomenologia è settecentesco). L’arte è anche
una fenomenologia dello spirito, o meglio di uno spirito che cerca la sua concretezza, cerca la
sensibilità, uno spirito che deve concretizzarsi. Per Hegel l’arte è un’idea in cerca di esperienza e
un’esperienza che si concretizza in idee. È un qualcosa che si muove, lo spirito non sta fermo, lo
spirito è concreto perché è storico, è nella storia.
ESEMPIO – FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. È un testo di un’incomprensibile bellezza, è un
viaggio verso l’autocoscienza, verso una dimensione di senso che tende ad arrivare alla
consapevolezza del percorso. Alla fine del viaggio si scopre la concretezza dello spirito, è un viaggio
all’interno delle grandi figure storiche dell’identità dello spirito, cioè come lo spirito si è
concretizzato all’interno delle grandi figure storiche. Viaggio dell’arte verso un tentativo di
comprendere il proprio senso oggi, la stratificazione di senso che la storia ha in essa sedimentato.
Quali sono i punti chiave in cui la fenomenologia dello spirito dell’arte si è incarnata? Perché
questo è un viaggio di consapevolezza della coscienza artistica. L’arte, fenomenologicamente, è
inseparabile da una dialettica della coscienza. La fenomenologia in senso hegeliano ci restituisce
un’idea dialettica dell’arte.
Cosa significa idea dialettica dell’arte? Tutto il primo capitolo del libro di Dino Formaggio si
chiama Le grandi figure fenomenologiche della coscienza artistica, cioè è la fenomenologia dello
spirito dell’arte verso la sua autocoscienza. L’arte opera un percorso dialettico, perché nell’arte c’è
la storia e la storia nella tradizione hegeliana ha una sua dialetticità.
Che cos’è la dialettica? Tesi, antitesi e sintesi NO, non vengono mai usati da Hegel perché vuole
distinguersi da Kant. Egli usa posizione, negazione e negazione della negazione. La coscienza
artistica nasce attraverso un percorso dialettico, tramato da processi di nullificazione. La dialettica
è il movimento della storia, movimento che per affermare nega. La storia è un processo
attraversato da una dimensione dove esiste il conflitto e la lotta. La coscienza si manifesta
attraverso conflitto e lotta, cioè attraverso la negazione. Non è soltanto negazione nichilistica, ma
è il rifiuto delle cose che può portare a nuove cose. L’arte ha sempre in sé una volontà di
rivoluzionare il già dato, movimento rivoluzionare perché scava nel possibile. Coscienza e
56

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

consapevolezza sono parole che passano attraverso il negare, non attraverso l’affermarsi. Per
Hegel (non necessariamente per Formaggio) questa negazione intrinseca al formarsi storico
dell’arte procede per contrapposizioni; le gradi figure artistiche dell’arte sono tre, che hanno
attraversato negandosi le dimensioni della storia: arte simbolica, arte classica e arte romantica.
Non necessariamente in Hegel coincidono con precise epoche storiche, ma rappresentano il
viaggio dello spirito verso la propria autocoscienza. L’arte è sempre un incontro di idee e di
esperienze, di dato formale sensibile e contenuto spirituale, fusione tra la forma sensibile e il
contenuto spirituale. È qualche cosa che non può essere disgiunta da questi due elementi
costituitivi che si trovano all’interno dell’opera in continua lotta, in relazione non pacifica.
Formaggio lo ricorda sempre, Hegel ancora di più: la dialettica non è pacificazione.
 Arte simbolica: dimensione formale eccede sul contenuto. È un’arte ricca di forma e
povera di contenuti, dove l’elemento estrinseco è prevalente. È un’arte dove il simulacro
eccede sui contenuti, dove la verità dell’arte è nascosta, dove la coscienza non si evidenzia.
 Arte classica: è l’arte greca, in cui vi è una perfetta commisurazione tra idea ed esperienza,
tra forma e contenuto. Per Hegel l’oggetto dell’arte greca è il corpo che però è anche Dio.
Nell’arte classica si coglie la divinità nella carne, il divino nell’umano.
 Arte romantica: l’armonia è destinata a spezzarsi e il contenuto eccede sulla forma.
L’organismo si spezza, l’armonia statica viene spezzata. Ogni opera d’arte ha in sé il
negativo, è più grande quanta più storia raccoglie, cioè quanti più contenuto di senso
raccoglie. Nell’arte romantica subentra la dimensione aorgico (contrario dell’organico,
l’organico che va in tilt, è l’opera che non sa più contenere in una forma la propria
intrinseca drammaticità, l’arte delle avanguardie è un’arte aorgica, un’arte dove il senso
non è più contenuto all’interno di una forma organica e piacevole, è l’arte che rinuncia alla
piacevolezza, un’arte che affronta il dolore), l’arte romantica è l’arte moderna, è l’arte che
affronta consapevolmente la morte, la contraddizione, la rinuncia alla forma, la rinuncia
alla bellezza.
Hegel si chiede se l’arte ha perso la forma, se il contenuto eccede sulla forma e la forma non sa più
controllare il contenuto, se il museo non sa più raccontare una storia, se l’arte eccede i suoi propri
contenuti di senso, che senso ha l’arte? Hegel parla di morte dell’arte. L’arte muore quando perde
il suo contenuto centrale di senso, cioè quando perde la forma. L’arte diventa altro (lo ritroveremo
in Baudrillard e nel postmoderno), l’arte muore nel filosofo, non muore in assoluto e in astratto
ma muore negandosi in quanto forma, e va verso il pensiero; l’arte rinuncia alla forma, rinuncia
alla tradizione della forma e manifesta sé stesso in quanto atto concettuale, in quanto forma di
pensiero. In ciò è sempre intrinseco quel processo di negazione, quella dimensione di Aufhägung
(superare conservando). L’arte muore come forma, non come istanza.
L’arte di oggi è un’arte che esce da due grandi processi paradossali, che derivano da Kant ed
Hegel: l’arte nasce come sublime e l’arte nasce come morte dell’arte, morte dei valori formali, che
rendono completamente insensata la domanda ingenua riferita alla bellezza dell’opera. La morte
dell’arte per Hegel non è la morte di tutta l’arte, ma è la morte dell’arte bella, la morte di
quell’arte che definisce sé stessa attraverso questo concetto. La bellezza che cosa diventa? Diventa
pensiero, capacità di pensare molto. Per Kant l’arte è un’esperienza capace di farci pensare molto.
La conclusione del discorso artistico è attraversata dalla negazione. Dino Formaggio ci mostra
come la coscienza artistica arriva alla morte dell’arte, ma come la morte dell’arte non sia la morte
dell’artistico; ci fa capire come la morte dell’arte non sia la morte dell’artistico e ci fa capire che al
tempo stesso l’artistico muore perché l’artistico ha una sua struttura di senso, attraversa la storia
con una sua struttura di senso. L’arte passa attraverso i processi di negazione e di nullificazione ma
57

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

mantenendo una sua struttura di senso, una sua forza dialettica, una sua forza propositiva. L’arte
attraversa la storia come qualche cosa che costituisce strutturalmente la storia, come elemento
costitutivo dal punto di vista strutturale della storia. L’arte non è qualche cosa che ci serve a
illustrare la storia, l’arte è la nostra storia. Contro Baudrillard anche l’aspetto simulacrale dell’arte
fa parte della nostra storia. La storia, per giustificarsi, ha bisogno solo di sé stessa, non di cause
estrinseche che gli storiografi aggiungono, è dialetticamente giustificata.
La fenomenologia è questa: oggi la coscienza artistica è una coscienza di una perdita di
determinati valori.
Dino Formaggio:
 Come si sono costituiti questi valori?
 Attraverso quali figure fenomenologiche questi valori si sono costituiti?
 Come è emersa questa coscienza artistica che va verso la sua morte (intendendo la morte
come una nuova forma di consapevolezza, non come una fine)?
 Quali sono le grandi figure che ci portano verso questa morte, verso la forma di
risemantizzazione dell’artistico?
L’arte è fatta di differenze, non bisogna aver paura delle differenze, non è mai omologazione.
Figure fenomenologiche:
1) Le incisioni rupestri di Lascaux (stesso punto di avvio di MP), denota già una prima specifica
funzione dell’arte, che mantiene in sé la negazione, dimensione magico-sacrale-misterico.
Ricordata la distinzione tra arte astratta e arte empatica, l’arte qui è un modo per tenere
sotto controllo le forze magiche della natura, disegnare gli animali è un modo per
controllare la natura, per impossessarsi dell’animale, un modo per impossessarsi
dell’anima della natura. L’arte nasce come modo per impossessarsi dell’aspetto magico
della natura, dell’aspetto sacrale della natura. L’arte nasce sotto l’indice del sacro, è
quell’indice fenomenologicamente importante che deve tenere l’aspetto naturalistico sotto
il controllo del soggetto  disegnare è un modo per controllare la natura. L’arte del
paleolitico non è disegnata per essere vista, non è un’arte per uno spettatore, è un’arte che
deve rendere controllabili le forze nemiche della natura. È un’arte che vuole catturare la
natura, non conquistarne l’essenza. Nasce qui il carattere religioso dell’arte, l’arte nasce
legata alla dimensione del mistero, l’arte nasce proprio come dialettica della coscienza,
coscienza che ha paura della natura ma che al tempo stesso la riproduce. È un’arte che non
conosce il bello, non ha nemmeno concepito l’idea di bellezza.
2) Il mondo della mediazione e della tecnica artistica unita al nome di Hermes. Hermes è un
dio ambiguo sotto differenti punti di vista, è un dio che annuncia Dioniso, l’ultimo degli dei,
è un dio che ha al proprio interno tre caratteristiche che sono quelle dell’arte:
 è un dio che annuncia, è un messaggero, non sta mai fermo, quindi il viaggio;
 è un dio che inganna, usa la mètis (astuzia), un modo per aggirare l’ostacolo, un
modo per cogliere le qualità delle cose che non appaiono a prima vista, l’astuzia è
sottile, è la capacità di cogliere le sottigliezze del reale, è la capacità di cogliere
quella che Hegel chiama astuzia della ragione, non è un elemento negativo;
 è il dio della tecnica, è dalla tecnica che nasce l’arte, è il dio che costruisce.
Prima conclusione di questo libro che torna in tutte le pagine: l’arte passa dalla magia a quella
che noi chiamiamo arte attraverso la parola  téchne .  I greci non hanno la parola arte, i greci
parlano di téchne. La parola ars è latina, non è greca, loro parlano di téchne, l’arte è tecnica.
58

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

Non c’è arte senza tecnica, è un ossimoro, l’arte è tecnica. Che cos’è la tecnica? La tecnica è
qualche cosa che manipola il mondo, Hermes mette la sua astuzia nella manipolazione della
natura, quindi è il dio che trasforma, dio artistico perché manipolatore. L’arte nasce qui, la
coscienza artistica dell’occidente nasce in questa operazione tecnica, come capacità di
interpretare la natura manipolandola. L’arte è lavoro sulla materia, lavoro sulle cose. La téchne
è quindi un processo che tanto è più trasformativo quanto più afferra con astuzia la possibilità
delle cose. L’arte nasce come manipolazione tecnica. Polemica nei confronti di Benedetto
Croce, il quale riteneva che l’arte fosse una pura idea spirituale e che la tecnica fosse una
dimensione accessoria e che una volta conquistata la purezza della forma l’arte acquisiva una
sua autonomia spirituale. Formaggio ci sta dicendo che l’arte è sempre eteronoma, non è
autonoma, perché ha sempre a che fare con le leggi intrinseche della materia.
3) Idealizzazione del processo tecnico, che non riguarda solo la cultura occidentale. Il
processo tecnico viene idealizzato anche all’interno delle culture orientali. È chiaro che in
cultura occidentale il concetto di bellezza separato dalla tecnica ha un nome ed è quello di
Platone, la bellezza è una virtù dello spirito. È con evidenza una tappa decisiva e di grande
rottura. La bellezza diventa un valore riferito a specifiche qualità armoniche, è un valore
empatico, di comunicazione positiva con l’arte.
20.03.2019
ESTETICA DEGLI OGGETTI - 18ª LEZIONE
Quando parliamo di figure fenomenologiche intendiamo in una direzione non soggettiva, ma
hegeliana, cioè figure del viaggio dello spirito. È chiaro poi che le figure si incarnano all’interno di
figure concrete, cioè nelle figure di artisti. È evidente che non dobbiamo cedere, in generale, a una
sorta di psicologia della creazione: la psicologia dei singoli artisti è in questa dimensione del tutto
irrilevante. Il problema non è che cosa il singolo artista fa o è, ma proprio il viaggio dello spirito
all’interno delle opere. Quello che qui va considerato è la dimensione dell’oggetto e del significato
dell’oggetto. In senso proprio è assolutamente evidente che all’interno di un’epoca vi siano vari
stili e vari correnti, né si vuole banalizzare il tutto nella ricerca dello spirito del tempo. In senso
hegeliano i percorsi con cui si concretizza il senso sono percorsi che non raccontano la storia degli
stili ma raccontano la storia di come lo spirito si incarna negli stili, come il senso trova negli oggetti
la possibilità di esprimersi. Il concetto di bellezza nei suoi elementi strutturali di fondo è un
concetto che rimane pressoché identico per quasi 2000 anni, ancora oggi quando parliamo di
bellezza siamo abituati ad associare alla bellezza determinati parametri oggettivi. Siamo abituati
ad associare determinate parole come armonia, concordanza tra le parti. Il concetto di bellezza è
storicamente legato all’idea di forma che abbia determinate caratteristi che uniformità, una
bellezza che ha un rapporto con il senso in grado di generare una reazione empatica di fronte
all’oggetto. Il paradigma della bellezza ha al suo interno delle forme che generano polemiche, in
particolare:
Il gotico, che spezza la semplicità dello stile, la bellezza prima del gotico è semplicità, dopo il gotico
è complessità. La bellezza accresce nel corso della storia i suoi attributi simbolici. La bellezza nasce
con un elemento platonico di armonia ideale, come la capacità di unire nella forma una
dimensione finita di elementi, in modo tale da raggiungere un effetto empatico, di sintonia con chi
osserva. Questa è la bellezza greca, platonica, che ha in sé una sua necessità, usa del sensibile ma
che non ha una rispondenza nel sensibile, ma nella forma ideale che riesce a far apparire. La
giustificazione della bellezza non è intrinseca all’oggetto stesso ma alla capacità dell’oggetto di
trasmettere un’idea. È una bellezza desensibilizzata, non ha nell’estetico il suo punto di
59

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

riferimento, ha un carattere spirituale, ideale. La bellezza è sempre simbolo di qualcos’altro, è una


struttura di rinvio, l’oggetto bello non è bello in sé e per sé, ma perché è capace di rinviare a
qualcosa che va al di là della sua bellezza esteriore. La bellezza esteriore è necessaria ma non è
sufficiente per la pienezza del concetto di bello, che si ha solo se questa bellezza trascende i sensi.
La bellezza classica non trova il suo senso all’interno di una dimensione di esteticità, ma deve
trovare altrove il suo senso pieno; questo trovare altrove il suo senso di pieno rende il concetto di
bello che per 2000 anni è un concetto simbolico, non concreto. Il bello non è soltanto una parola
ma è una struttura portante dell’estetico, è una categoria culturale, non è qualche cosa che può
essere ricondotta a qualche opera o autore, è una struttura simbolica di riferimento, che ha un
forte afflato di carattere etico e metafisico. Il bello è un valore ma solo se il sensibile è in grado di
portarci verso il trascendimento della dimensione estetica.
La dimensione platonica viene ripresa dal cristianesimo. L’etica è una questione di carattere
metafisico, ovvero un elemento che va oltre la fisicità. Plotino ci dice che è necessaria la bellezza
dei corpi, ma affinché essa venga trascesa, superata nella sua dimensione estetica. La bellezza in
sé è un segno del demonio (il diavolo è il contrario del simbolo, cioè separazione) (Formaggio). Il
bello considerato nella sua autonomia e non nella sua eteronomia è un segno diabolico, perché
separa, perché eccita la materia separandola dalla sua dimensione metafisica.
Ancora una volta lo schema è il rapporto simbolico tra visibile e invisibile, rapporto che ancora una
volta che abbiamo trovato in MP. La bellezza visibile è traccia di qualcosa di invisibile. La cultura
cristiana è una cultura profondamente platonica. Se vogliamo considerare il mondo greco nella sua
complessità dobbiamo distinguere in modo articolato separare kalon (bello) e techné (arte), la cui
connessione è moderna, nasce a fine Seicento, prima non c’è, non esiste. L’arte non è qualificata
in quanto bella ma in virtù del suo substrato metafisico.
Il concetto di bello e il concetto di arte si incontrano fra fine 600 e fine 700, prima erano due storie
diverse; non a caso l’estetica nasce nel 1750, nel momento in cui si coglie che bellezza e arte
possono coincidere. Per secoli chi parla di arte non parla necessariamente di bellezza e viceversa.
Il bello riguarda la nostra capacità di ascendere a una dimensione metafisica. Il bello in sé è frutto
del demonio. La connessione tra bello, arte e capacità costruttiva è un risultato moderno
(Settecento). Già Kant, che non la considera ovvia, ne è imbarazzato e tende a separare il bello
dall’arte (ammette anche che l’arte ha una sua bellezza ma con una serie di giustificazioni). Il
concetto di bellezza entra in crisi quando entra la pluricategorialità dell’estetico. Il brutto ha un
valore estetico, cioè il brutto può generare piacere. Il concetto su tutti che spezza la centralità del
bello è ovviamente il concetto di sublime, è il sublime che uccide il plurisecolare dominio della
bellezza. Il sublime è un concetto violentemente eccessivo, è ciò che non può essere controllato da
una dimensione sensibile. Il senso della bellezza greca (e quindi cristiana) è l’esigenza simbolica di
ricostituire l’ordine armonico delle cose. È necessario comprendere dal punto di visto filosofico
che la bellezza ha sempre un valore simbolico, comprendiamo anche il rapporto tra bellezza e arte,
inserendo MP e Picasso in una medesima storia. La bellezza non è soltanto un senso estetico. Il
problema è duplice:
1) Il valore simbolico della bellezza si può estendere all’arte? La risposta della modernità è
sì, non di tutte le opzioni teoriche della modernità. Tutta la tradizione ortodossa non
ammetterà mai un’estensione della bellezza all’arte in genere, per esempio le icone non
sono opere d’arte, ma scritture divine. L’arte non è un valore in sé, c’è traccia di qualcosa di
superiore. Questa dimensione della bellezza sente l’inserimento di due elementi di
carattere storico: la prima è ovviamente la dimensione del cristianesimo (30).
60

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

La differenza tra gotico e romanico è una scoperta tecnica (arco a sesto acuto). L’arte diventa
scoperta scientifica. (39)
L’arte è interpretatio natura. La pittura serve a far emergere le qualità delle cose. La pittura ha uno
scopo qualitativo attraverso utilizzazioni di carattere propriamente tecnico. (42). Le arti strumento
per interpretare la realtà. (45). MP dice che quando l’arte si concentra su un solo aspetto, l’arte
perde la sua capacità di scavo. L’arte figurativa non è soltanto prospettiva. (47). La bellezza entra
nell’arte tramite la tecnica, tramite la dimensione tecnica. Formaggio parla di nuova
consapevolezza scientifica, segna la differenza nel concetto di bellezza, la fa entrare nell’arte.
Alberti pensa che la metafisica della bellezza si traduce nella bellezza tecnica del manufatto. È la
scoperta tecnica che porta a una nuova consapevolezza dell’oggetto. (57). Si scopre il concetto di
evoluzione del manufatto, l’arte è scoperta di qualche cosa che prima di quel prodotto non c’era
perché non era stata data la possibilità di costruzione tecnica del manufatto stesso. (59-fine).
La transitorietà del manufatto estetico uccide la bellezza. Il punto di svolta per Formaggio è il
Rinascimento, perché nel Rinascimento si ha una nuova consapevolezza dell’artistico.

01.04.2019
ESTETICA DEGLI OGGETTI - 19ª LEZIONE
02.04.2019
ESTETICA DEGLI OGGETTI - 20ª LEZIONE
Il libro di Formaggio è il tentativo di sposare due visioni:
1) Fenomenologica, all’interno della quale le categorie della modalità (nello specifico del
possibile) sono protagoniste
2) Hegeliana, (04.00)
Nel quadro di una visione hegeliana la potenza dissolvente della negazione è fondamentale,
perché senza non vi è possibilità di costruire qualcosa. Il nulla quindi non è qui considerato in una
dimensione ontologica, non è qualcosa che assume una sua paradossale ossimorica pregnanza
ontologica, ma è metodologico: viene usato come metodo all’interno di un quadro dialettico.
Formaggio insiste sul fatto che se non si ha un annullamento sulle posizioni precedenti, non può
aversi il nuovo. (07).
Il nulla è qualche cosa che apre la libertà, Sartre traduce l’epochè nel nulla. In un’ottica non
hegeliana il ragionamento non ha senso, in un’ottica attualizzante serve la potenza rivoluzionale
della nullificazione. Anche il nulla kierkegaardiano è un nulla dialettico. (11).
12-22
Il concetto di Formaggio è molto più vicino di quello di Bloch (ritiene che bisogna rigettare ogni
forma di utopismo e andare verso l’utopia, scavando nel reale per cogliervi quelle possibilità di
costituire il futuro). L’uomo moderno è un uomo scisso, diviso, non è più una realtà unitaria, non
ha più una relazione organica, si è persa. L’uomo contemporaneo è un uomo che vive questa
scissione sia nel lavoro sia nella propria scissione ontologica. (23-27).
Come facciamo scaturire il possibile? Non attraverso la nostalgia, ma attraverso la tecnica.
(33).
61

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

Logica della possibilità progettuale: la possibilità progettuale dell’arte non è un processo astratto
ma segue una logica ben precisa che si organizza in passaggi, non passa avere fantasia, per
costruire arte bisogna organizzare la fantasia (profondamente anticrociano). La possibilità
progettuale è la logica prassistica dell’agire dell’arte nei segni e nella trasformazione del mondo
in geroglifici di significato. Formaggio connette questa definizione a due concetti:
 Alla costituzione husserliana della cosa, processo di costituzione del senso, attualizzazione
di una possibilità progettuale
 All’interno di un quadro in cui il progetto è al tempo stesso diacronico (perché risente della
storia e attraversa il tempo) e sincronico (perché l’opera è attuale)
È quindi un momento di unificazione temporale, di unificazione delle dimensioni del tempo.
Prassistica: l’arte è prassi, prassi corporea, non astratta, traduce le potenzialità della materia
attraverso le potenzialità del corpo.
Agire: l’arte è atto, non è contemplazione, la contemplazione è un momento banale dell’arte.
Come agisce l’arte? Modificando segni. Ma cosa significa modificare segni? L’arte crea significato
manipolando i segni. E come facciamo a determinare che non tutte le modificazioni creano una
semantica? Cosa crea semantica? (40-42). La possibilità progettuale è una trasformazione del
segno in significato. Ha a che fare con la grande tradizione della linguistica, come un segno diventa
significato? Saussure ci dà una risposta: arbitrarietà e differenza. Il rapporto tra segno e significato
è arbitrario, cioè va interpretato, letto in modo diacronico. Il problema è: come avviene il
passaggio tra segno e significato? Come possiamo interpretare i segni per far sorgere il significato?
Trasformazione del mondo in geroglifici di significato: l’arte è questo.
Perché geroglifici di significato? (DOMANDA ESAME)  il significato di un geroglifico è arbitrario, è
al tempo stesso una figura e una lettera, è sia segno sia significato. (48). Il geroglifico è ambiguo,
non può essere letto come una parola, ha un carattere simbolico.
A chi appartiene l’espressione “geroglifici di significato”? GIAN BATTISTA VICO. Il geroglifico è un
universale fantastico. (50-54). Il passaggio dalla certezza alla verità non è un passaggio puramente
razionale, richiede metodi diversi, percorsi diversi, a secondo della varietà di significati. Il sistema
della forma artistica non è un sistema formale, non si limita a tessere una forma. (54). Le forme
che noi consideriamo sono il risultato di un percorso logico, ma questo percorso logico che
operiamo non è un percorso razionale, non può essere definito tramite un apparato categoriale.
La vita dell’arte non è una vita riconducibile sul piano di una forma chiusa. (55-57). L’arte è trionfo
del libero arbitrio, della nostra possibilità di scegliere. (57-58). All’origine di ogni opera c’è sempre
un atto di libertà. Formaggio si chiede su come si liberi il possibile. Il possibile si libera attraverso il
corpo.
(59-1.00).
È il corpo il centro di liberazione della possibilità progettuale. Nella visione del corpo che
Formaggio ci dà vi è molto MP. Elemento in più che Formaggio apprende da Sartre: il corpo è una
struttura di carenza e ulteriorizzazione. Il corpo è quindi mancanza, ma anche possibilità di
crescere (1.02-1.07). Il corpo stesso è struttura di progetto, non soltanto l’opera.
Che cosa è questa corporeità? La corporeità è (si ricollega a Piana) percettiva, immaginativa,
commemorativa. Il corpo progettuale è un corpo che percepisce, che immagina e che ricorda. È un

62

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

corpo che ha un processo, il corpo è un’unità processuale e soltanto questa unità progettuale
fonda il senso dell’oggetto. (1.08-1.12)
C’è un punto che va sottolineato: la differenza valenza rispetto agli scritti precedenti che viene
data all’immaginazione. L’immaginazione ha un ruolo particolarmente forte, centrale. Di che
immaginazione stiamo parlando? Nella prassi dell’arte, di che immaginazione stiamo parlando?
Sicuramente NON stiamo parlando dell’immaginazione che Kant chiamava errabonda creatrice di
sogni e visione, non è soprattutto l’immaginazione di Sartre (l’immaginazione nullificante, 1.17-
fine).
03.04.2019
ESTETICA DEGLI OGGETTI - 21ª LEZIONE
L’oggetto è il risultato di una stratificata esperienza costitutiva. L’oggetto va sempre visto in un
contesto intenzionale o addirittura plurintenzionale. L’oggetto viene intenzionalizzato in diversi
modi, sempre connesso ad altri atti o altre dimensioni. Abbiamo visto l’oggetto connesso a delle
dinamiche percettive, commemorative, immaginative. Queste dinamiche hanno un punto di
riferimento ego logico. (03-04). Questo io è essenzialmente è un corpo proprio, è un corpo vivente
che agisce in modo esperienziale sul mondo e sulle cose.
DOMANDA: Questo sistema degli oggetti in cui l’oggetto non è autoreferenziale ha ancora un
senso? Un autore del postmoderno ha detto con chiarezza che l’estetizzazione ha ucciso l’estetica.
(07-11). La costituzione di oggetto è una forma di narrazione: noi non costituiamo l’oggetto,
narriamo il suo costituirsi.
Formaggio si chiede se esista ancora questa narrazione. Esistono ancora dei segni che hanno un
significato? Dopo Duchamp esiste ancora un segno che abbia un significato oppure c’è il mercato
dei segni? La risposta di Formaggio è positiva, dice che c’è ancora una grande narrazione: l’arte è
la grande narrazione della modernità. L’arte è la possibilità di trovare una possibilità nel mondo e
nelle cose. I dati centrali sono quattro:
1) Esiste una logica dell’arte. L’arte segue un logos, una ratio, una ragione, solo che la ragione
non è in grado di giustificare da sola il percorso. Se l’arte segue una logica progettuale, c’è
una struttura di senso del percorso artistico, ma questa struttura di senso (sincronica, non
diacronica) è una dimensione che non può essere giustificata solo dalla ratio.
2) Il fine dell’arte è la trasformazione del mondo in geroglifici di significato: questo porta
con sé un elemento importante, cioè ogni arte è costruzione di un mondo possibile, l’arte è
un punto di vista interessato sul mondo (contro Kant), cioè instaura un mondo. L’arte è
messa in opera del mondo, è un procedimento di carattere (18). Ogni arte è il tentativo di
far emergere nel tessuto sociale una possibilità nuova. L’arte non è l’arte museale, da
contemplare, ma un’arte che implica, all’interno della quale siamo sempre dei nuovi
implicati. (20-24).
3) Utopia è l’esplicitarsi del possibile, evidente che tutto il discorso di Formaggio si traduce
nella determinazione dell’arte come possibilità progettuale che rinnova i propri processi
di costruzione di senso attraverso una prassi corporea (quella che ci permette di
rinnovare il senso del mondo e delle cose).
Che cos’è la prassi corporea (DOMANDA ESAME)? Noi in realtà abbiamo visto tre concetti
di corpo:
 Husserl: il corpo come sistema cinestetico, come polarità di ogni costituzione
possibile e reale, un corpo stratificato e complesso che costituisce una polarità
63

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

intenzionale. CORPO COME ORGANO DI OGNI PERCEZIONE, è il MIO corpo. È un


corpo che non viene ontologizzato, è funzionale al processo costitutivo, è una
funzione del processo costitutivo. Intenzionale perché è sempre connesso a una
realtà esperienzale.
 MP: un corpo che ha con evidenza un forte significato ontologico, è quello che
potremmo chiamare un corpo-mondo, un corpo-essere, cioè indistinguibile dal
mondo che lo circonda. MP usa la figura retorica e fisiologica del chiasma, cioè il
corpo è un incrocio ontologico, non una potenza funzionale ma ontologica connessa
a una dimensione che è metafisica ma non emotiva (differenza con Formaggio).
 Formaggio: il corpo non è funzionale, non è un corpo che si esercita in base alle sue
funzioni, è un corpo prassistico, è un corpo che lavora, è un corpo che verrà
esplicitato attraverso la tecnica, è un corpo operativo. È quindi un corpo che non
può venire ontologizzato, non può essere ricondotto sul piano metafisico, il corpo è
una progressiva costruzione di segni significativi. Il corpo è una realtà che lavora,
Formaggio dice che si tratta di lavoro vero e proprio, posto tra libertà e necessità.
(36).
Quando Michelangelo si trova di fronte al pezzo di marmo, quel pezzo di marmo gli
impone delle cose. L’artista è libero, i vincoli derivano dalla materia. Il lavoro
artistico non è mai elogio astratto della libertà.
Formaggio: “L’arte ha sempre saputo le direzioni operative della materia”. La
tecnica artistica è sempre una dialettica tra libertà e necessità. Il lavoro dell’artista
ha questa dimensione che vede nel corpo una possibilità di libertà ma anche una
serie di limiti.
Doppio concetto di tecnica: la parola tecnica che caratterizza la modernità (40-55).
L’arte è un elemento prassistico, non è un elemento di pura visione astratta del
reale. La tecnica non è un modo per allontanarsi dall’oggetto, ma è un modo per
possedere l’oggetto.
L’arte è un linguaggio, ma non è solo un linguaggio. L’opera d’arte ha anche fare
con dei segni, è un sistema di segni, ma non tutti i segni diventano opera d’arte. I
segni linguistici messi assieme non bastano a costituire l’opera d’arte.
Per Saussure qual è la relazione tra significato e significante? È di tipo arbitraria.
Nell’arte bisogna andare oltre questa arbitrarietà. Il rapporto tra significato e
significante non può essere arbitrario. Non dobbiamo mai domandarci cosa ci sta a
fare in un’opera un determinato segno. Ogni parte dell’intero deve avere una
relazione con il resto, deve avere un significato. Il segno linguistico deve farsi cosa,
deve essere cosa che parla, il segno non è più quel segno ma è la cosa stessa che
rappresenta. Il giallo di Van Gogh non è un giallo, è il giallo di Van Gogh. Attraverso
l’opera il rapporto tra significato e significante deve superare l’arbitrarietà di
linguaggio. È opera d’arte quell’opera che supera la relazione tra significato e
significante. Formaggio ci spiega bene in 4 punti le caratteristiche dell’opera d’arte
(sottoparagrafo F): organizzazione segnica dell’arte non ha un vocabolario, (57-
fine).
Plurivoci
Plurivalenti
Unisituazionali

Univoco
Monovalente
64

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

Plurisituazionale

08.04.2019
ESTETICA DEGLI OGGETTI - 22ª LEZIONE
06.00
C’è differenza tra possibilità e immaginazione progettuale? Sostanzialmente Formaggio ha un’idea
possibilizzante dell’immaginazione, che può essere intesa in due modi: un’immaginazione
riproduttiva (si limita a riprodurre il dato, rappresentativa) e un’immaginazione che produce
mondi possibili, non che riproduce. Implicitamente riprende la distinzione kantiana tra
un’immaginazione riproduttiva e un’immaginazione produttiva. L’immaginazione, tuttavia, non è
qualche cosa che costruisce senza un progetto, ma nell’arte è adesione profonda a una
dimensione progettuale. Questa è una visione che troviamo in questo libro, non necessariamente
nella storia del pensiero l’immaginazione ha a che fare con la possibilità.
Distinzione tra segni comunicativi e informativi. È una distinzione che viene preceduta da un altro
asse centrale di questo libro: dall’analisi delle funzioni che il linguaggio svolge all’interno delle
dinamiche comunicative. Vi è quindi la messa in crisi del paradigma strutturalistico che ha
dominato la cultura linguistica nella prima parte del Novecento, fondandosi sull’assunto nel corso
di Saussure in virtù del quale il rapporto tra significato e significante è arbitrario. Due sono i
fondamentali assunti filosofici:
- Il carattere arbitrario del rapporto significato/significante;
- Il fatto che le lingue con cui noi ci esprimiamo non conoscono l’uniformità, ma sono una
trama di differenze. I termini significanti sono diversi da lingua a lingua, anche se il
significato è il medesimo.
Formaggio sottolinea il primo, cioè il rapporto arbitrario tra significato e significante. A questo
assunto filosofico ne aggiunge un altro, a opera di Jakobson, che nel 1929 fu il promotore delle
Tesi di Praga. In queste Tesi ispirate dalle ricerche logiche di Husserl, in particolare la quarta, essi
sottolineano il carattere strutturale del linguaggio, sottolineando l’una o l’altra funzione linguistica,
si muta il messaggio. Formaggio, coniugando Saussure e le Tesi di Praga, arriva alla conclusione
che ci sono degli apparati linguistici dove la relazione tra significato e significante non è arbitraria.
L’arbitrarietà implica anche da parte nostra una sorta di (16). Decodifichiamo i segni a seconda
della loro funzione, ovverosia a seconda del contesto referenziale in cui tali segni sono inseriti. La
funzionalità del segno è legata alla situazione. Formaggio sottolinea questi due aspetti e afferma
che esistono contesti in cui i segni assumono valenze differenziate, che specificano il senso
dell’oggetto artistico. Non tutti gli insiemi di segni possono essere interpretati secondo le regole
della linguistica strutturale.
Formaggio distingue tra informazione e comunicazione e ci invita a ricordare sempre che
l’informazione ha un contesto, una funzionalità, un senso molto diverso rispetto a quello della
comunicazione. Perché? Perché i segni sono strutturalmente diversi nell’insieme, accade perché i
segni che sono all’interno dell’opera indirizzano la nostra interpretazione. L’interpretazione non è
un’interpretazione arbitraria, sono i segni, i contesti a indirizzare il senso che gli oggetti ci offrono
nel momento in cui si presentano al nostro sguardo. Gli oggetti artistici hanno una dimensione
segnica, che ha delle caratteristiche precise riassunte nella parola comunicazione e non nella
parola informazione. Comunicazione qui, ma anche in MP, ha a che fare con il nostro corpo, i corpi
65

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

comunicano, hanno una struttura quasi artistica, perché non sono macchine informative, i corpi
non sono macchine, sono realtà espressive, realtà comunicative, realtà dove la dimensione segnica
non può essere letta e interpretata secondo le leggi della linguistica. I segni hanno una loro valenza
comunicativa che non si traduce in definita e definibile. Comunicare con il nostro corpo significa
avere una possibilità di lettura dei segni che non può essere ridotta in una funzione finita di parole.
Quando parliamo di comunicazione, parliamo di una realtà ricca. L’immaginazione ha a che fare
con il corpo. La prima istanza comunicativa che mette in crisi la linguistica strutturale è proprio il
nostro corpo, il corpo vivo, il corpo vivente. Viene quindi quasi naturale che la relazione del
corpo con la realtà espressiva avvenga con un’altra realtà espressiva: l’opera d’arte. I segni
dell’opera d’arte non sono segni astratti, ma sono segni per noi. Questi segni che si traducono in
opera d’arte sono i segni a dominante comunicativa: ciò che domina in questi segni che hanno
nella comunicazione il loro referente nella comunicazione. La comunicazione a dominante
comunicativa è tipica dell’arte. (28). Esattamente come era per la montagna, è la struttura del
segno a generare in noi (29). Messa in rete progettuale di alcuni segni che significativamente sono
chiamati segni intenzionali, perché ci permettono di instaurare una relazione tra il soggetto
corporeo e l’oggetto che si offre. Questi segni hanno la caratteristica di essere segni plurivoci,
plurivalenti e unisituazionali. L’unisituazionalità vuol dire che i segni che costituiscono l’opera
sono qualcosa che appartiene solo a quell’opera, esattamente come accade per noi e per il nostro
corpo, non esistono due corpi uguali. Formaggio sottolinea il giallo di Van Gogh, perché il giallo di
Van Gogh è solo suo, vale solo in quella situazione lì. Ovviamente l’informazione è esattamente il
contrario della comunicazione, dove i segni sono univoci, monovalenti e plurisituazionali.
L’ARTE NON INFORMA, L’ARTE COMUNICA ATTRAVERSO QUESTE CARATTERISTICHE STRUTTURALI.
C’è un però: la struttura segnica comunicativa esattamente come la mercificazione del nostro
corpo può resistere alla contemporaneità, alla postmodernità? Questi valori dell’arte che
caratterizzavano il moderno valgono ancora di fronte ad alcune esperienze dell’arte stessa?
L’esperienza dell’arte stessa ha in sé pericoli di informazione, quindi come ovviare? Qui abbiamo
due linee di pensiero:
 La prima linea di Formaggio riguarda quell’arte che usa il linguaggio perché l’arte è sempre
più nel Novecento arte concettuale. Due grandi artisti concettuali del Novecento che
Formaggio cita sono Kosuth e Lewitt. Viene utilizzata la parola come dimensione artistica. È
evidente che l’arte concettuale rinuncia alla forma. Diversamente, Leon Battista Alberti ci
ricorda che l’arte deve essere amicizia tra le parti e la parte essenziale deve essere il
disegno. Ciò che caratterizza l’artista è la capacità progettuale, nell’arte concettuale le
dimensioni albertiane si frantumano, non hanno più quella valenza che avevano nel
Quattrocento. L’arte concettuale dimostra come la decontestualizzazione degli apparati
informativi può cambiare il senso dell’informazione. È evidente che questa strada che
Formaggio chiama controprassistica o controfunzionale ha in sé delle grandezze ma anche
dei pericoli. Grandezze perché ci ricorda come la nullificazione, come le istanze
controprassistiche siano implicite nella prassi artistica, c’è un valore di rottura. L’arte
concettuale si pone come estremo limite della progettualità, fino al dissolversi della
progettualità stessa. È il sintomo del trionfo dell’informazione, di un eccesso di
informazione che ci cattura, è la messa in crisi dell’informazione. La televisione secondo
Baudrillard ha ucciso la realtà perché l’informazione è eccessiva. L’arte concettuale è un
sintomo degli eccessi di informazione. Questa linea è il limite estremo della progettualità,
cioè il progetto è il progetto di una cosa che vuole essere altro dal contenuto informativo
che veicola. Anche nell’arte concettuale significante e significato non (53). Qual è il limite di
questa posizione? È il fatto che l’arte concettuale può essere usata una volta ma perde la
66

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

sua valenza progettuale, è il limite estremo della comunicazione, questa messa in scacco
della prassi sotto l’indice di nulla è destinata a perdersi nella ripetitività.
 La seconda strada viene indicata da Formaggio attraverso un’esemplificazione di Guernica
di Picasso: la capacità di tradurre i controsegni e la contropassi in segni e prassi
progettuale. Il significato profondo dell’arte è sempre quello di tradurre il segno al di là
della dimensione informativa (59). L’eccesso di informazione di una società tecnocratica
rischia di polverizzare gli estremi frammenti comunicativi, rischia di passivizzare le potenze
(paragrafo 5). Il compito dell’arte è sempre quello di far valere una linea calda della
comunicazione, risalire alle fonti calde della comunicazione. La pittura ci indica le voci del
silenzio per MP. (1.00.00). Si tratta di recuperare la valenza comunicativa del silenzio, il
silenzio non è morte, è senso che si affaccia. Questo come è possibile? Si tratta di
riproporre un segno che si fa carne e corpo e ancora una volta trasgressione liberativa e
rivoluzionaria, in altri termini segno che diventa progetto.
Il percorso del trasformarsi del segno informativo in segno comunicativo è illustrato attraverso il
percorso che segue Picasso in Guernica; non è un’opera come un’altra, ha una valenza simbolica
assolutamente importante, perché è l’illustrazione di un fatto storico. Il pericolo di una caduta
informativa nel dipinto è altissimo. Picasso si trova di fronte alla necessità di restaurare un senso
che ci faccia capire la centralità del corpo, senza perdere la situazionalità ma renderla di carattere
sociale. Come opera? Partendo dalla consapevolezza che l’anti prassi fa parte della prassi, che
l’universo informativo invade sempre di più l’arte. Non possiamo dimenticare che dal punto di
vista sociale il pericolo dell’informazione è sempre presente. L’arte risente dei movimenti
antiprassistici, quindi la controprassi deve subire un processo di vera e propria trasformazione.
L’arte serve allora a liberarci dal controsegno, trasformandolo in segno comunicativo; l’arte serve
a ricordarci che le cose non sono soltanto cose, che gli oggetti non sono soltanto oggetti. Guernica
è un dipinto fatto a caldo, lo conclude nello stesso anno in cui avviene il bombardamento; il
dipinto ha dei protagonisti che noi vediamo all’interno dei cartoni preparatori, pieni di segni che
Picasso disegna e poi cancella perché trasforma quei segni non i segni che denotano il senso della
contingenza storica, ma in segni simbolo dell’umanità spagnola violata. Picasso trasforma questi
segni in valenze di significato che non richiamano contingentemente il bombardamento di
Guernica, ma quei valori violati. (1:13:00). Il minotauro che viene descritto e rappresentato da
Picasso rappresenta l’umanità spagnola violata. (1:15:00).
È chiaro quali sono i pericoli dell’oggetto oggi: la scomparsa del corpo nell’informazione, la perdita
antropologica degli oggetti, i segni tendono a diventare merce. L’importanza della parola merce,
non ci sono più gli oggetti, il soggetto non produce più oggetti, ma merci alle quali viene attribuito
un valore segnico (il denaro). (1:19:00). Qual è il compito dell’arte nel passaggio da una società
metallurgica a una società semiurgica? Il compito dell’arte è la liberazione degli oggetti dalla
prigionia del segno, l’arte deve liberare gli oggetti dalla prigionia che li ha invasi nel momento in
cui il segno ha oggetto la loro valenza comunicativa/dialogica. (1:21 – fine).
09.04.2019
ESTETICA DEGLI OGGETTI - 23ª LEZIONE
Finora siamo stati all’interno della tradizione fenomenologica, con una particolare attenzione per il
senso dell’oggetto.
Abbiamo parlato della liberazione dell’oggetto (Formaggio), qualche cosa che caratterizza
un’epoca nuova, diversa. Cosa dobbiamo fare in questo modulo? Capire se questi sintomi di

67

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

decostruzione dell’oggetto, se questi elementi sintomatici in cui l’oggetto decade sono o non sono
presenti all’interno della modernità. Non si tratta di un mutamento paradigmatico radicale, ma è
un processo di trasformazione progressiva che ha le sue radici all’interno delle categorie della
modernità. Quali elementi controprassistici sono presenti all’interno della costituzione moderna
dell’oggetto è il primo punto da evidenziare, mentre il secondo è l’accadimento, quali di questi
elementi risultano sconvolgenti. È chiaro che ciò che va perduto è proprio il senso di un oggetto
come realtà dotata di senso, qualcosa che ha radici culturali ben precise. La modifica della
concezione dell’oggetto avviene secondo determinati passaggi di carattere storico, tutti radicati
all’interno degli anni Sessanta del Novecento.
Negli anni Sessanta temi che hanno tutti una comune radice, cioè la radice di un certo tipo di
pensiero che ha una valenza di carattere decostruttivo: il ruolo del marxismo. Quale marxismo?
Sicuramente “critico”, polemico anche nei confronti del cosiddetto socialismo reale. È un
marxismo libertario, che da alcuni viene analizzato in modo scientifico, ma è un marxismo che è
essenzialmente una koinè. Scientifico perché parte dall’analisi dello scritto maturo di Marx, per
altri versi un marxismo che si rifà essenzialmente al giovane Marx, o addirittura al marxismo molto
hegeliano che lotta per una sorta di liberazione ancor prima che sociale di carattere antropologico.
Un marxismo che può essere utilizzato per decostruire (08). Un marxismo che viene letto e
recepito anche da chi marxista non è. Se il marxismo è la koinè (recupero di una dimensione
naturale che l’uomo ha perso). (10). Baudrillard è allievo della tradizione marxista.
La prima dimensione ideologica che viene decostruita da questa koinè marxista è il marxismo
stesso. Il marxismo non è una realtà omogena, è una realtà critica. Accanto a questa forma di
koinè (linguaggio generalizzato che non viene analizzato ma corre sotterraneo in tutti gli autori).
Koinè critica dei processi che alienano l’uomo. (12-14). La critica che viene operata da questa
koinè marxista è una critica alla mercificazione della società. Il capitalismo ha creato una società
mercificata, dove dominano non i liberi produttori ma i prodotti stessi. Il soggetto non vende più il
suo lavoro, vende la sua forza-lavoro, non conosce più il prodotto del proprio lavoro, il soggetto si
allontana dal lavoro perché vende il suo corpo come forza-lavoro, non è più un soggetto libero e
autonomo. Koinè marxista grido contro la società industrializzata.
Qual è la funzione dell’arte in un mondo alienato? Quale arte si può salvare? La prima risposta è
data dagli anni Trenta da Walter Benjamin nel saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua
riproducibilità tecnica, saggio che raccoglie e rilancia le tradizioni del moderno. Benjamin arriva
sempre a un passo del successo per poi sfuggirgli. Questo saggio, profondamente ispirato da (18),
si chiede cosa cambia nel discorso artistico nel momento in cui l’arte perde il concetto che l’aveva
caratterizzata per miliardi di anni, cioè autenticità e originalità. L’arte perde quella caratteristica
che ne aveva caratterizzata l’apprensione, l’arte era fruita nell’hinc et nunc. La riproducibilità
tecnica cambia il modo di fruizione dell’arte, ci permette di percepire l’arte in altro modo. Per
Benjamin questo porta alcune conseguenze:
 L’arte perde la sua aura, quell’alone magico-misterico che circondava l’opera, l’arte diventa
un oggetto di consumo, l’arte non diventa un oggetto di attenzione esclusiva e attenta ma
un oggetto di attenzione inclusiva e disattenta.
 Cambia la nostra percezione dell’arte. Benjamin dice che la percezione ha una sua storicità
(24). La riproducibilità tecnica, la perdita dell’aura ci conducono con assoluta evidenza a un
mutamento del carattere percettivo. Questo è il contrario di quanto abbiamo visto fino ad
ora. Cambia la struttura storica della percezione e quindi cambia il senso del nostro
rapporto con l’arte.

68

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

 Sorgono nuove arti, fondate sulla tecnica, che mettono in crisi il concetto di unicità
dell’arte, arti che si adeguano a questa nuova percezione. “Le arti entrano in connessione
con i movimenti di massa dei nostri giorni”, secondo Benjamin. L’arte non è più elitaria,
diventa pop. L’arte entra nella società di massa, nella società in cui l’individuo è perduto.
Gli artisti devono rivolgersi a nuove forme d’arte, nasce la società della comunicazione, dove l’arte
deve cambiare il proprio rapporto con la sensibilità. Accade una liberazione dell’oggetto dal suo
involucro. La tradizione viene spezzata dai mutamenti sensoriali conseguenti ai mutamenti tecnici
della società di massa. Un’arte che sia per tutti, un medium che apre alla totalità. La tecnica entra
nell’arte e l’arte viene veicolata soltanto attraverso strumenti tecnici. Per Benjamin due sono le
arti che uccidono la tradizione modificandone il senso: la fotografia e il cinema.
Conseguenze:
Si annulla la tradizione dell’arte, che perde il suo senso. La fotografia e il cinema perdono il valore
cultuale dell’arte. L’arte non è più oggetto di culto, perde il suo valore di carattere espositivo.
L’arte diventa qualcosa che appartiene al passato, a una tradizione morta. Questo non è di
necessità un bene, qualcosa che va auspicato, ma è un dato di fatto. Usciamo dall’atteggiamento
valutativo. La fotografia ha ucciso la tradizione, perché ha ucciso l’unicità dell’opera. È evidente
che parte una nuova storia e questa nuova storia implica nuove forme percettive, una visione
critica dell’arte tradizionale implica l’avvio di una nuova storia dell’arte che ha in sé una nuova
forma di fruizione. Nasce un’arte che bisogno di un medium tecnico totalmente asettico: la
macchina da presa, l’obiettivo. La tecnica entra nell’arte con la sua tecnicità. Il concetto su cui ci
siamo basati finora di verità dell’arte sfuma. Il cinema rappresenta il declino dell’aura, di questo
“penetrare profondamente nella realtà dello strumento tecnico”. L’arte diventa non qualcosa da
contemplare, ma qualcosa da fruire all’interno di un atteggiamento ludico. (40). L’atteggiamento
critico passa necessariamente attraverso il piacere. (41). Il cinema è un’arte che non guardiamo da
soli, implica una collettività, un corpo sociale, implica una dimensione intersoggettiva, implica una
ricezione di massa. Il cinema è una potenziale aggregazione per le masse, quindi potenzialmente
rivoluzionario. Il cinema non implica una ricezione attenta, a differenza dell’arte auratica. Nel
cinema il soggetto non è attento, la sua attenzione è fluttuale. L’arte non richiede più
quell’attenzione di carattere esclusivo e auratico che l’aveva caratterizzata per millenni.
L’atteggiamento di Benjamin è critico (nel senso etimologico del termine) e implica che si è
spezzata la magia dell’oggetto, dell’arte, e che gli oggetti artistici nuovi non saranno mai più come
gli oggetti che li hanno preceduti, anzi la percezione disattenta implicata dai nuovi oggetti artistici
si riflette della percezione del passato. La riproducibilità implica (45). Le nuove modalità percettive
che la tecnica mette in atto non mutano soltanto l’arte del presente ma mettono in discussione e
in crisi anche la nostra percezione dell’arte del passato. L’arte rischia di diventare soltanto uno dei
tanti orpelli sociali messi in atto dalla società di massa. Perché Benjamin ha un ruolo centrale?
Perché mette per la prima volta in crisi il concetto di centralità programmatica dell’oggetto
artistico. (47). L’oggetto è decostruito. Decostruzione vuol dire che l’oggetto artistico perde la sua
centralità, (48). L’arte è un’espressione sociale, non della verità. Vi è una socializzazione
dell’artistico, un’estetizzazione dell’artistico. La liberazione dell’oggetto passa attraverso una sua
decostruzione. La parola decostruzione è una parola che non esiste, nasce da Martin Heidegger
che nel 1936 scrive Sein Zeit, dove parla di uno dei compiti della filosofia, cioè la distruzione della
metafisica. Cosa vuol dire distruzione della metafisica? Qualcosa culturalmente molto analogo,
semplicemente che la metafisica non è una realtà eterna, quindi che se la metafisica è un modo
per parlare della verità e la metafisica è stata nella storia un modo per parlare della verità, la
metafisica deriva dalla tradizione storica, non coincide con la verità, è solo un modo per parlare
69

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

dell’essere. Il compito della filosofia è quello di distruggere la metafisica, rivelandone il carattere


storico. Per ridare parole alle cose, si tratta di distruggere il modo in cui la metafisica le aveva
presentate. (54). La metafisica è stata la storia della rappresentazione del pensiero filosofico;
distruggere la metafisica significa distruggere un modo di conoscere il mondo, modo mediato dal
logos. La metafisica si riassume in una sola espressione (S è P), la metafisica è giudizio. Il compito
della filosofia è distruggere una tradizione storica, distruggere la metafisica e la metafisica è
fondata sul pensiero della rappresentazione. Quando Sein Zeit viene tradotto in francese, Jacques
Derrida traduce il termine destruktion con il neologismo decostruzione. La traduzione letterale è
sbagliata ma coglie il senso del discorso: la distruzione della metafisica (58). La parola
decostruzione diventerà sempre più una parola chiave del processo di liberazione dell’oggetto. Da
che cosa deve liberarsi l’oggetto? Dalla sua valenza di carattere puramente rappresentazionale.
Cosa significa decostruire l’oggetto? (1:00-fine).
Apocalittici e integrati di Umberto Eco.
Che cosa significa decostruire l’oggetto? In primo luogo rendersi conto che il nostro rapporto con
l’oggetto muta nel momento in cui l’oggetto non è più unico. Tutti quei fenomeni non artistici
vengono come dice Formaggio nuovamente intenzionalizzati. La cultura di massa implica una re-
intenzionalizzazione degli oggetti. Scompare il concetto di falso. Non esiste più il concetto di verità
dell’arte. È cambiato il nostro rapporto metafisico con l’oggetto. La decostruzione dell’oggetto
passa attraverso una serializzazione dell’oggetto, in secondo luogo passa attraverso una
conseguenza della serializzazione dell’oggetto, l’oggetto viene ripetuto e decontestualizzato.
L’oggetto ha sempre in sé un elemento di falsificazione, anche se è un originale (kitsch).
10.04.2019
ESTETICA DEGLI OGGETTI - 24ª LEZIONE
Tre nozioni di tecnica che percorrono tutte le ambiguità del Novecento.
L’importanza della tecnica è centrale. Uno dei modi più caratteristici per definire la modernità è
l’età della tecnica. La crisi della modernità è la crisi della tecnica. In che senso?
A partire dalla rivoluzione industriale inglese, a partire da un autore definito il filosofo della
tecnica, Francis Bacon, che scrive un testo dedicato all’avanzamento del sapere; testo fondato sul
presupposto profondamente anticartesiano, profondamente vichiano. Qual è il presupposto? Il
dovere dell’uomo non è solo quello di conoscere e contemplare la natura, ma il compito specifico
del soggetto è quello di interpretare la natura, cioè modificare la natura in una direzione
pragmatica. L’avanzamento del sapere passa attraverso una manipolazione tecnica della realtà. Da
qui la definizione: l’arte è in primo luogo tecnica. L’arte è qualche cosa che intepretatio naturae.
Non c’è conoscenza senza tecnica, non c’è conoscenza senza elemento manipolatorio. La
concezione della tecnica nasce come concezione positiva, è un movimento di avanzamento del
sapere. Qual è la grande differenza tra l’antichità e la modernità? La scoperta della tecnica. Bacone
insiste molto su questo punto ed è la giustificazione ideologica dell’industria manifatturiera inglese
(Marx considera Bacone iniziatore del capitalismo inglese). La tecnica nasce al tempo stesso con
un carattere estremamente positivo (la tecnica migliora la vita dell’uomo) ma conduce anche a
una dimensione di alienazione. È evidente che tutta la concezione della tecnica nasce costruendo
una nuova figura antropologica: l’uomo fabbro. Nella definizione baconiana l’uomo è ministro e
interprete della natura a partire da apparati di carattere tecnico. La parola arte assume un
significato così ampio nei Seicento e nel Settecento che solo nella prima metà del Settecento si

70

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

sente di distinguere la tecnica (l’arte) dalle belle arti. Il termine arte viene usato anche da Hegel
(quando dice che muore l’arte, dice che muore la bella arte).
Tecnica assolutamente centrale nel discorso dell’uomo moderno. Vico ama Bacone perché dice
che l’uomo non ha un’identità di sé perché pensa ma perché fabbrica. Se la tecnica è centrale, è
evidente che la crisi della modernità è essenzialmente una crisi della tecnica, che vede tre
posizioni molto significative:
1. Critica idealistica, quella critica della tecnica che viene operata dalla tradizione del
neoidealismo che ha in Benedetto Croce il suo rappresentante. La tecnica è un utile
orpello, ma sempre orpello è. Non possiamo fare a meno della tecnica nel momento in cui
costruiamo, ma la tecnica è l’elemento transeunte e contingente della costruzione artistica,
è qualcosa che va messo di lato nel momento in cui noi vogliamo cogliere nell’arte un
valore per il nostro pensiero. La tecnica è un mezzo per arrivare al fine, ma nel momento
in cui si arriva al fine il mezzo si annulla.
Formaggio si oppone a Croce, perché dice che la tecnica è parte integrante di quel
processo organico che porta alla costruzione dell’opera. In senso fenomenologico la tecnica
non è un mezzo, è strettamente fusa al processo produttivo organico che conduce al senso
dell’arte. La tecnica non è qualcosa di distante dalla natura, ma ne fa parte. (19-20). La
materia è l’elemento che eteronimo per manifestare l’autonomia dell’arte.
Per Formaggio Croce ha riposto l’arte in una torre in cui non c’è spazio per la natura, non
c’è spazio per il soggetto, non c’è spazio per il corpo. Per Formaggio invece la tecnica è
l’esaltazione della corporeità. (22).
In questa posizione la tecnica è considerata sia positivamente sia negativamente all’interno
di un quadro baconiano-vichiano; la tecnica non è né buona né cattiva, dipende l’uso che
se ne fa.
2. Critica della tecnica (= critica della modernità) da parte dell’asse fenomenologico, che vedo
in Heidegger i Husserl i principali punti di riferimento. Perché? Tutte queste posizioni sono
datate intorno agli anni Trenta del Novecento, molto significativo, intorno a quella che
viene definita l’età della crisi, età in cui dopo la Grande Guerra (27-28). L’asse
fenomenologico fa riferimento a due scritti: lo scritto di Husserl dal titolo La crisi delle
scienze europee e la fenomenologia trascendentale, dove la parola centrale è crisi. La
domanda fondamentale è: come si fa a parlare di crisi nel momento in cui le scienze
disegnano il futuro e il progresso? Crisi e progresso nomi con i quali noi definiamo la
modernità. Progredire a cosa serve se viene cancellato il rapporto organico con la natura, il
senso delle cose? La risposta di Husserl è che la crisi ha un significato ben preciso: in primo
luogo dal punto di vista etimologico deriva da krinomai, separare le parti del grano che
sono commestibili e quelle che non lo sono; il krinomai implica una scelta, quindi significa
scindere, separare, ma anche scegliere. (34-36). Il compito della filosofia è cercare
mediazioni, il compito del sapere è quello di separare le cose, nel caso di Kant separare le
facoltà. Parte da un principio di separazione funzionale, il compito del filosofo è creare
nessi tra le separazioni funzionali, partendo dal presupposto che pensare non è conoscere.
Il termine crisi nasce come interrogazione sul sapere, sulla struttura funzionale del sapere,
non nasce come elemento di negatività. I greci aggiungono un altro significato,
connettendo alla vita o alla morte: la crisi è il momento in cui il malato o vive o muore, è
l’acme della malattia. Husserl ritiene che la crisi della scienza sia una crisi che viene posta in
atto dalla tecnica; cosa è la tecnica per Husserl? La tecnica diventa l’obiettivizzazione del
processo scientifico, non considerato come il portato di un soggetto operativo, ma la
scienza si separa dal produttore di scienza. Nel momento in cui lo scienziato non si
71

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

interroga più su ciò che sta facendo, sul senso dell’episteme, lo scienziato diventa tecnico,
in quanto ritiene che i processi di conoscenza siano indipendenti dalle operazioni
soggettive, la scienza cede alla tecnica. (42). La geometria, la scienza che appare più
astratta, in realtà nasce da un’esigenza pratica, da un’operatività soggettiva, nasce per
misurare i campi. Nel momento in cui la scienza perde la sua identità, essa diventa tecnica,
qualche cosa che pur necessaria costituisce un forte ostacolo epistemologico. È chiaro che
Husserl sta combattendo l’idea dello scienziato neutrale, cosa impossibile, finge di esserlo
perché se neutrale vuol dire che non si interroga su cosa sta facendo. Dal momento in cui ci
si allontana dall’interrogazione, la tecnica ha il predominio sulla scienza.
Pensiero aggravato dal saggio di Heidegger dal titolo L’epoca dell’immagine del mondo, in
cui Heidegger estremizza il discorso di Husserl in una direzione molto molto chiara: la
scienza ha perso la verità, perché non s’interroga sull’essere, la scienza ha ucciso l’essere,
crede di essere verità e invece è soltanto menzogna. Perché? Perché nel mondo moderno
la scienza è diventata tecnica nel mondo moderno, allontanandosi definitivamente dalla
verità, dall’interrogazione ontologica. Nel momento in cui la scienza non interroga più
l’essere ma crede soltanto di dover manipolare l’essere, la scienza non c’è più. Non dice
che non sia necessaria, dice solo che la scienza non ha più nulla a che fare con la verità.
Heidegger usa la parola cosa, è una realtà da manipolare, non è un essere. La filosofia deve
rinunciare a essere epistemologia per diventare ontologia. Evidente che per questa
posizione il fatto che la filosofia sia epistemologia è semplicemente un fatto storico. Questo
saggio si conclude con un apologo che è il senso della critica della scienza: un medico
sbaglia la diagnosi, il malato muore, qualcosa è accaduto; il professore interpreta male una
poesia, non è accaduto nulla. Siamo sicuri che la colpa del medico sia più grave della colpa
del professore? Il professore non si è interrogato sul senso dell’essere. Qui la tecnica non è
che abbia un’accezione negativa, qui la tecnica è proprio qualcosa che segna la
degenerazione dell’episteme, questo vuol dire che la filosofia non può più essere
riflessione sulla conoscenza. La riflessione non è più centrata sulla conoscenza,
l’interrogazione è interrogazione dell’essere, non del logos (c’è anche in MP). MP rifiuta la
continuità platonica tra (1:02:00). Il pensiero non è pensiero sull’essere, è l’essere che
manifesta. Il filosofo deve far emergere l’essere, non deve spiegarlo. La tecnica è una
modalità di spiegazione, quindi il male assoluto.
3. Tutti i grandi postmoderni partono da qui, dall’asse Husserl-Heidegger-MP, partono da
questo concetto di crisi della tecnica, partono dalla concezione che filosofia è crisi della
conoscenza. Baudrillard, quando parla di scomparsa della realtà, critica il pensiero
filosofico contemporaneo, non ha senso interrogarsi su cosa sia la realtà, perché la realtà
non c’è più. La decostruzione è una conseguenza delle crisi tecnica della filosofia. La post-
modernità nasce dalla crisi, che ha al suo centro la critica della tecnica. Questo ci porta a
una conclusione provvisoria: (1:06:00). Husserl credeva ancora fosse possibile il riscatto
della scienza, Heidegger parlava di essere e ontologia; entrambi si rifacevano ancora a una
tradizione. L’ultimo asse si chiede se abbia ancora senso rimanere all’interno della
tradizione. Baudrillard ci dice che la critica non serve a nulla, perché criticare significa già
essere all’interno, totalmente immerso in questa tradizione e si chiede come si spiega il
virtuale con le categorie del pensiero classico. In tutto questo elemento la critica è ancora
parte di quel processo teorico che vuole decostruire, quindi Baudrillard non perde tempo a
criticare perché la tecnica si è autonomizzata e quindi cambia piano, cioè costruisce nuovi
apparati categoriali o come dice Lyotard le regole di legittimazione del sapere che
valevano nella modernità non sono più valide, il sapere ha bisogno di nuove regole e la
filosofia è la ricerca di queste nuove regole di legittimazione del sapere. Questa terza
72

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

linea trova i suoi presupposti nel terzo modo di considerare la tecnica (Benjamin): la Scuola
di Francoforte. È una scuola di sociologia che nasce intorno a due grandi pensatori, Adorno
e Horkheimer. Definiamo la Scuola di Francoforte come un movimento di teoria critica;
chiaramente accusa di ideologismo le posizioni di Husserl e Heidegger. Questa terza linea
parte da presupposti marxisti, la società va criticata nelle sue espressioni sociali più
profonde. La filosofia, secondo Marx, è ideologia come nascondimento della struttura
profonda del reale. (1:16:00). La realtà profonda del reale è sociale, materiale ed
economica, cioè deve analizzare i rapporti di produzione e non le categorie di pensiero, o
meglio queste ultime devono essere utilizzate per spiegare le strutture produttive. Il
compito del filosofo è quello di criticare le strutture produttive. Dietro Baudrillard c’è molta
Scuola di Francoforte, che ritiene antica e tradizionale, ritiene valido il fatto che bisogna
guardare la struttura dei rapporti di produzione.
Che cos’è la modernità? è un percorso critico che mira a far emergere le proprie
contraddizioni per giustificare la propria permanenza. Tutte le posizioni che abbiamo visto
sono questo:

15.04.2019
ESTETICA DEGLI OGGETTI - 25ª LEZIONE
16.04.2019
ESTETICA DEGLI OGGETTI - 26ª LEZIONE

Il Sessantotto e la querelle antichi vs moderni: 06.10 si tratta di mantenere un determinato legame


con la corte reale, prima con Luigi XIV e poi con la Reggenza, è un fenomeno di corte, non è un
fenomeno sociale. La querelle è qualcosa che rimane all’interno di una dimensione ancora più
stretta, riguarda essenzialmente la dimensione della poesia, nasce all’interno di una rivisitazione di
quelle categorie che riguardano le arti poetiche. Segna l’apogeo e la morte progressiva della
retorica. Non è un fenomeno di massa, è un fenomeno assolutamente e rigorosamente elitario. La
querelle tra moderni e postmoderni è un fenomeno di massa, che ha originato un dibattito
mediatico notevole, grazie al quale la filosofia è diventata un discorso pubblico. La querelle è finita
all’interno di una dimensione mediatica forte, dibattito pervasivo. Il postmodernismo è stato la
socializzazione del pensiero, ha cambiato la pubblicità, ha cambiato la moda, ha cambiato molte
cose che riguardano la nostra vita quotidiana. Altro elemento del postmodernismo è il post-
umano. Dibattito sulla post-storia, perché secondo Baudrillard la storia finisce con la modernità, in
realtà si perde il carattere ideologico. Baudrillard non si sente più appartenente alla storia. Il
moderno ha nostalgia della storia, il post-moderno invece no. La querelle tra antichi e moderni
non è cinica, mentre quella tra moderni e postmoderni è cinica. Due grandi differenze: carattere
elitario vs carattere massivo, disputa poetologica e filosofica vs disputa sul quotidiano.
Consci che il concetto di verità non ha più quel senso storico attribuito fino ad oggi, prendiamo
atto che il nostro rapporto con il mondo circostante non è un rapporto che deva basarsi su un atto
21/23.
L’autore di cui stiamo parlando è Roland Barthes, che parla di un sistema semiologico secondo,
che supera la referenzialità. In questa relazione non c’è più possibilità di ridurre la verità come un
rapporto referenziale. 24.

73

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

È evidente che una delle funzioni essenziali di critica intrinseca alla modernità che porta a una
dimensione oltre la modernità è la moda, perché ha carattere transeunte. 25.
Baudrillard è estremo, è il punto estremo a cui può giungere una concezione della postmodernità.
I fenomeni che portano alla postmodernità, i fenomeni intrinseci alle contraddizioni del moderno,
che conducono a nuove strategie di pensiero. Questi elementi non sono elementi nuovi, ma sono
quegli elementi che inducono 31. Sono tutti fenomeni sociali che si traducono immediatamente in
fenomeni di carattere culturale, il fenomeno sociale si culturalizza con maggiore velocità rispetto al
passato. Questo accade per un’evidenza che rende più semplice la comunicazione, anche se in
questo modo la rende più banalizzata, meno reale. La comunicazione cambia i suoi connotati nel
momento in cui città fanno più grandi. L’assenza di autenticità rende più veloce la comunicazione
dove ci sono più città. Se il protagonista filosofico della modernità è Cartesio, il simbolo sociale
culturalizzato della modernità comunicativa è la metropoli, centro culturale, civile e sociale della
modernità. Il concetto di metropoli va inteso in un’accezione in divenire.
La città significa essenzialmente il mutamento del nostro rapporto con la natura, muta quella
relazione organica tra uomo e natura che caratterizzava una società pre-metropolitana (l’uomo si
sentiva parte integrante di un organismo insieme alla natura). Il rapporto con la natura non è più
mediato, ma immediato.
35-36
Il moderno non ha nostalgia nei confronti della natura. Rousseau non è moderno, perché il
moderno vive il suo ambiente, che è quello metropolitano. La grande figura della modernità dalla
quale discendono tutte le altre è Charles Baudelaire, autore di riferimento della modernità, autore
che inventa la parola modernità, neologismo. In lui si assomma la teorizzazione e la critica della
modernità: il concetto di natura, il concetto di metropoli e il concetto di moda. Sono i tre concetti
di critica intrinseca della modernità. Aveva come punto di riferimento Edgar Allan Poe. Elementi di
una modernità che non accetta più la propria dimensione trionfante ma vede anche gli elementi
critici, una modernità che è duplice: non è mai soddisfatta di sé e dei propri saperi, ma riconosce la
propria intrinseca contraddizione. In primo luogo B. non è un estimatore della natura, afferma che
il concetto di natura che è un concetto illuministico, è un concetto cattivo e perverso, è di per sé
profondamente negativa, è qualcosa che dobbiamo respingere, 42, la natura è immediatezza e
l’uomo moderno è l’uomo della mediazione e della rappresentazione invece. La natura induce a
conservare il proprio essere, se seguissimo la natura dovremmo uccidere i nostri genitori anziani,
non curarli, perché dovremmo eliminare tutto ciò che ci disturba. Il pittore della vita moderna è
quella grande immagine del flâneur, il passeggiatore, colui che vaga per la città, dove coglie quella
varietà, quella differenza che la natura non è più in grado di offrirci. 46. Egli dipinge, compone
quando torna nel suo studio e B. ci dice con chiarezza che non dipinge la realtà, ma
quell’elaborazione della realtà che ha tratto dal suo passeggiare. La modernità non è qualche cosa
che si vive e si elabora nell’immediatezza. 48. Si perde il rapporto diretto con la realtà. Il pittore
della metropoli è un pittore che trucca la realtà, quindi la modernità è trucco della realtà. La
modernità trucca la realtà e il trucco diventa un dato positivo, perché accresce. Da qui discendono
i tre elementi fondamentali di questa visione baudelairiana:
- L’eterno femminino come elemento naturalistico, la donna è l’esempio che se vogliamo
giungere alla bellezza non dobbiamo adeguare il concetto di bellezza al concetto di natura.
Il bello non è più un ideale naturalistico. In primo luogo notiamo che l’eterno femminino è
una realtà complessa, per cui B. coglie nelle strade della città la bellezza delle varie forme

74

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

con cui la natura si confonde all’interno della città e quindi la bellezza non è più uno
stereotipo.
La bellezza non è più nulla di ideale e naturalistico. Il bello per antonomasia non è il bello di
natura, ma un bello truccato, interessato, costruito dall’uomo, è una bellezza
antinaturalistica, dove non c’è più spazio per la dimensione della naturalità.
La modernità nasce come naturalistica e tende a morire come antinaturalistica.
Definizione di bellezza secondo B.: la bellezza non è qualcosa di sempre uguale, non è
qualcosa che ha in sé una profonda storicità, la bellezza è qualcosa che è costituita da due
parti non dialettiche (B. contemporaneo di Marx). Marx dice che non esiste più la bellezza
nella metropoli, perché 1.00. La bellezza è qualcosa che si allontana dalla civiltà
metropolitana. La visione di B. è analoga ma priva dell’elemento di dialetticità, qui una
dialettica qualitativa, senza terzo termine, sussistono due elementi ma non c’è l’elemento
sintetico. Bellezza mix straordinario tra un elemento eterno e un elemento contingente.
1.03.37
Carattere contingente e transeunte, bellezza mix tra un elemento eterno e un elemento
contingente.
La modernità è passaggio, non è qualcosa che rimane stabile. La parte contingente della
bellezza è la moda, quindi la bellezza da una parte è idealità, storia, valore museale,
dall’altro il paradigma di evidenza del moderno è il carattere di moda della bellezza. La
bellezza per definizione muta, non può rimanere uguale. La modernità vede al suo interno
il trionfo della moda. Non comprenderemo mai il concetto di bellezza, se non
comprendiamo l’importanza che la moda ha all’interno della sua determinazione. È la
prima volta che il concetto di moda entra nel pensiero filosofico.
1.09
La transitorietà non è negatività, è il sigillo del moderno. Il moderno segue i flussi e i ritmi
della vita metropolitana, flussi in costante mutamento. Il contingente, il transitorio, il
trucco non sono elementi negativi ma fortemente positivi, o meglio sono elementi di
definizione della realtà moderna, una realtà che ha nella moda il suo sigillo.
La moda non è un elemento estrinseco, ma un modo per apparire. B. ritiene che la moda
sia un fatto essenzialmente femminile, ma non solo, da qui la figura del dandy. Moda come
elemento di autorappresentazione dell’umano nel mondo moderno. Uno si manifesta non
per ciò che è, ma per come appare. La moda manifesta il modo in cui siamo. Apparire è un
modo d’essere, non vi è una distinzione ontologica tra l’essere e l’apparire. La moda è il
modo con cui noi manifestiamo la nostra vita metropolitana. La moda è la via attraverso la
quale la bellezza si esibisce per le strade della città. La moda cambia. Il legame complesso
moda-metropoli-bellezza caratterizza socialmente la modernità.
Le osservazioni di B. hanno un prosecutore in Georg Simmel.
(B. diffida della tecnica, in questo elogio della modernità diffida della dimensione tecnica
della modernità, ritiene che la modernità debba rappresentare il fluire della vita, non la
fissazione della vita. Tutto ciò che blocca il movimento della vita è pericoloso, quindi vede
che nell’arte figurativa vi è un pericolo tecnico allo sviluppo della bellezza artistica nella
fotografia. Pericolo di staticizzare il fluire della vita metropolitana. Bisogna diffidare dalla
fotografia, o meglio non bisogna attribuire alla fotografia una dimensione artistica, perché
fissa la realtà ma non la elabora. La fotografia ci dà la realtà, ma è una realtà che non è
passata attraverso la vita, non è passata attraverso quella rappresentazione che l’artista
deve mettere in atto, ci restituisce una realtà obiettivata che ha perso il carattere vivente e
fluente che deve caratterizzare il reale. L’immagine fotografica è una falsificazione della

75

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

realtà perché blocca ciò che non può essere bloccato. B. prevede correttamente che la
fotografia finirà per uccidere l’arte figurativa.
1.22-fine.

17.04.2019
ESTETICA DEGLI OGGETTI - 27ª LEZIONE
Già nel momento in cui compare la parola modernità l’oggetto si indebolisce, non soltanto
qualcosa che caratterizza il postmoderno, ma è già ben presente nel quadro della modernità. Dove
abbiamo colto questa decadenza? Tra la metà dell’Ottocento e primi anni del Novecento, ben
prima delle avanguardie storiche, prima che le dinamiche relative all’oggetto e al senso
dell’oggetto esplodessero.

L’autore simbolico è Charles Baudelaire, il teorico della modernità perché è al tempo stesso
il teorico dove la modernità diventa una realtà concreta, cioè un luogo che nasce e sorge nel
quadro della Rivoluzione Industriale, nel momento in cui si abbandona la campagna per popolare
la città, la metropoli. La metropoli è anche il luogo del conflitto, non è un luogo armonico tra il
soggetto e il creato, ma è luogo di scontri sociali per Marx, scontri tra tipi umani per Baudelaire.
Luogo nel quale muta in profondità il concetto di bellezza, il nostro rapporto estetico con l’oggetto,
con il proprio mondo circostante.
Come viene definito il bello da Baudelaire? Come un mix tra eternità e contingenza. Questo
cambia il concetto di ideale ma anche il rapporto con il bello che per secoli è stato disegnato su
basi teologiche e naturalistiche, come se il bello artistico avesse come ideale una bellezza nella
natura o in Dio. Qui la bellezza si cala nella città, il bello incontra accanto alla sua eternità
concettuale, la contingenza, la transitorietà, un concetto che ha in sé la dimensione della
transitorietà, non è un concetto compatto. Questo bello non è naturalistico, ma anzi trucca la
natura. Il paradigma della bellezza, la donna, la femminilità, sono legati al trucco; la donna è bella
perché si trucca, nei diversi modi di truccarsi. Baudelaire è molto attento ad ammirare le differenti
bellezze femminili, dalla gran dama alla prostituta.
Dove si vede la dimensione caratteristica della contingenza? Nel trucco, ma anche nel paradigma
della transitorietà, riunito nella parola moda. La modernità è il regno della moda:
- moda come trionfo dell’esteriore (non vi è una differenza tra interiore ed esteriore, noi
siamo ciò che appariamo)
- moda come senso di transitorietà del moderno (nella moda i valori non rimangono stabili,
la moda è fatta di oggetti che non sono fatti per essere sempre uguali, sono mutevoli).

Jean Baudrillard sottolinea questo aspetto, ricordando che fino all’epoca della metropoli una
credenza era destinata a sopravvivere a più generazioni, mentre ora non c’è più quel rapporto
affettivo con gli oggetti. Noi abbandoniamo gli oggetti come abbandoniamo i vestiti. I vesti e gli
oggetti diventano status sociali, una dimensione che ci differenzia dagli altri all’interno di un
contesto, quello cittadino, dove tendiamo a essere uniformi. Costruiamo degli universi di
differenziazione all’interno di un contesto in cui per definizione siamo tutti uguali. La moda nasce
all’interno di questo rapporto tra uniformità e volontà di sottrarsi a tale uniformità.

Georg Simmel è il teorico di una modernità inseparabile da concetti di moda e metropoli.


76

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

Se il moderno è il transitorio, se già il moderno è consapevole della frattura tra noi e gli oggetti,
Il mercato mangia gli oggetti, deve sempre avere nuovi oggetti, per questo l’oggetto passa. Se
questo è il legame tra modernità e postmodernità, allora qual è la differenza? Se c’è questa
progressiva smaterializzazione dell’oggetto (già presente in Marx), se già Marx ha compreso come
il mondo moderno sia un mondo della smaterializzazione, allora qual è la differenza che si insinua
tra moderno e postmoderno? Le differenze possono essere probabilmente tante, ma una ci
appare già in Baudelaire, perché è moderno; moderno perché comunque pretende di avere con
l’oggetto un rapporto riflessivo e rappresentativo. L’oggetto è posto ancora sul piano
rappresentazionale, non su un piano di pura e assoluta contingenza, ma qualcosa dotato di una
sua specifica realtà di senso.
Il mondo della metropoli è un mondo dove la realtà va ancora rappresentata, in cui il soggetto ha
ancora, pur indebolito, una funzione cartesiana (funzione specifica di essere costitutivo del
mondo), il mondo è ancora per un soggetto che lo rappresenta. Il rapporto con l’oggetto nella
modernità è anche mediato dall’immaginazione. L’uomo moderno è ancora un uomo ancora
capace di applicare per cui il soggetto è interprete del mondo che lo circonda, è ancora costruttore
di mondi possibili. Ha ancora la capacità di costruire degli universi simbolici, per cogliere lo
spessore simbolico ed emotivo degli oggetti che ci circondano. Baudelaire, in realtà non è un
decadente ma è l’ultimo dei romantici, perché ritiene che nel disastro della modernità (modernità
è conflitto) è ancora possibile significare gli oggetti attraverso un processo di simbolizzazione
immaginativa, è ancora possibile quella che Piana avrebbe chiamato operazione di caricamento
immaginativo delle cose. Le cose non sono solo merci, le cose possono essere raccontate, alcune
cose hanno una forza evocativa maggiore rispetto ad altre. La fotografia, per Baudelaire, non ha
forza evocativa. La forza evocativa è data da quelle cose che la nostra immaginazione può
elaborare, rielaborare, riconsiderare. Questa è la grande differenza tra moderno e postmoderno:
cambia il processo di simbolizzazione del mondo, pur nella tragedia della modernità. Vi è l’avvento
di una nuova possibilità di senso.
Perché la modernità è tragica? Simmel è un flâneur, vive nel quadro della vita berlinese, cogliere
l’oggetto nella sua particolarità formale senza fare su di esso una valutazione di carattere estetico
e artistico. Esempio: del quadro Simmel descrive la cornice. La cultura è tragedia, perché la civiltà è
costruita in modo tragico; influenza di Henri Bergson, Simmel ritiene che la vita sia erleben, che la
via sia transitorietà assoluta, un flusso che non si ferma mai, ma dal momento che la vita richiede
un blocco del transitorio, la vita si deve tradurre in forme, in spazializzazioni direbbe Bergson. Il
divenire deve pur fermarsi in forme, ma queste sono delle oggettivizzazioni della vita, modo per
formare flusso e fluire della nostra temporalità, ma nel momento in cui ciò accade ne tradiscono il
divenire. Vi è un conflitto aperto tra la vita (movimento) e la forma (fissazione del movimento).
Perché è una tragedia? Perché la tragedia è un conflitto che non può essere risolto, un conflitto
dove tutti hanno ragione, esistono differenti modi di avere ragione, un conflitto dove devono
convivere entrambe le istanze in lotta tra di loro (Shakespeare non scrive tragedie per cui, Goethe
invece chiama il Faust tragedia). Nella tragedia classica l’evento in questione non viene risolto,
secondo Sofocle le istanze in lotta sono istanze assolutamente paritetiche perché hanno ragione
entrambe. La modernità è una tragedia dove il rinnovarsi del conflitto tra la vita e le forme è un
rinnovarsi senza un termine di riferimento conciliativo. Non siamo in un’ottica moralistica, la
tragedia è una realtà metropolitana, perché nella metropoli esistono stili di vita diversi e
inconciliabili, i quali convivono spesse volte in modo conflittuale. Il presupposto di Simmel è che la
metropoli è il luogo del conflitto.

77

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

Quali sono le forze tragiche? Prima del Sessantotto non c’era conflitto generazionale, il conflitto è
tra un’istanza conservativa e un’istanza innovativa. Il motore del moderno è il fatto che vi è un
conflitto tra la conservazione e l’innovazione. Conservazione e innovazione dal punto di vista
sociale. Chi vuole conservare ha nei confronti dell’innovazione un rapporto diverso da chi vuole
innovare. La forma è ciò che cerca di fissare il diverso, ma il conflitto tra tradizione e innovazione,
tra osservazione di uno status quo e qualche cosa di innovativo, è qualcosa che genera un
conflitto.
Come si traduce questo conflitto visivamente? Nella moda, nel modo in cui appariamo. La moda,
dopo gli anni Sessanta, è quell’elemento che mostra una varietà generatrice di conflitti irrisolvibili
(Simmel), la moda è l’immagine di questa conflittualità. La moda è per Simmel “la volontà di
essere individui all’interno di una società che sembra aver annullato il principio dell’individualità.
L’individuo vuole preservare l’indipendenza e la particolarità del suo essere determinato all’interno
di una cultura sociale ormai massificata”. Il moderno è per Simmel “l’intensificarsi della vita
nervosa”, aggiunge che è l’aumento vorticoso degli stimoli interiori ed esteriori. Il moderno è
nevrotizzante, è il luogo dove lo stimolo esteriore ed interiore vengono moltiplicati e questo
moltiplicarsi li rende conflittuali.
Ciò porta alla disattenzione, perché stimolati da troppi stimoli (Benjamin).
Che cos’è l’abitante metropolitano? Un abitante nervoso perché ha troppi stimoli, dice Simmel che
le relazioni del cittadino metropolitano sono molteplici e complesse perché ci sono tante persone
che hanno interessi differenziati, persone all’interno di un organismo che a volte appare come un
caos inestricabile.
Perché la moda è centrale? La moda nasce là dove vi sono tanti individui, che in primo luogo
devono distinguersi, quindi la moda nasce come elemento di distinzione, una volontà di
distinzione all’interno di una massa indistinta (la massa metropolitana). La moda nasce come
istinto di mantenere il principio cartesiano dell’individualità. Il dandy di Baudelaire è il tentativo di
mantenere un principio di individualità, un principio di individuazione all’interno della struttura
disorganica del moderno. La moda è un fattore di distinzione nell’uniformità del mondo moderno.
Il mondo moderno è un mondo vario ma i tipi umani sono così tanti e molteplici che sono
uniformi. Nessuno viene considerato un individuo, si crea il principio dell’individuo-massa. La
varietà porta all’uniformità. La moda serve a riaffermare il principio di individualità, è il retaggio
della vita dell’individuo nell’uniformità della vita della metropoli. D’altra parte, la moda impone
l’imitazione, istinto imitativo di un gruppo sociale che vuole distinguersi da altri gruppi di individui.
Al tempo stesso principio di distinzione destinato a costruire un gruppo sociale, gruppo sociale che
poi diventa uniforme però. Ciò che è nato come distinzione, muore come uniformità. Tutto questo
accade attraverso dimensioni conflittuali, che creano differenti stili di vita. È un processo vitale che
si traduce in forme per cui la massa crea l’individuo che si distingue, l’individuo che si distingue si
costituisce in gruppo, il gruppo viene imitato e diventa uniformità. La moda diventa qualcosa di
pervasivo, diventa un elemento di distinzione ma anche di uniformazione. Ancora una volta la
moda significa un mondo di oggetti che vanno al di là del loro valore d’uso (esempio jeans, perde
la sua funzione originaria e diventa il segno di qualcosa d’altro che va al di là della sua funzione
originaria). La moda ci porta a una consapevolezza della transitorietà del valore dell’oggetto,
perché non è qualche cosa destinato a rimanere. L’individualità soggettiva passa attraverso un
principio di mutamento, il soggetto mantiene la propria individualità solo se è capace di cambiar
abito. La metropoli, cioè l’appartenere di ciascuno di noi a un contesto sociale differenziato,
impone a ciascun soggetto differenti stili di vita, differenti abiti. L’abito diventa qualcosa che
moltiplica l’individualità, rende il soggetto multiplo e fa dell’identità un principio di molteplicità. Il
78

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

soggetto, per mantenere la propria identità, deve moltiplicare i propri stili di apparizione. Non
esiste più un solo stile. A parte obietti la moda significa gli oggetti al di là della loro funzionalità,
per cui un vestito non serve soltanto per coprirsi, ma un vestito diventa un sigillo sociale, un segno
di identificazione. In un certo modo la moda ci insegna che gli oggetti possono diventare segni,
non sono più considerati in quanto tali, ma considerati in quanto segni di un gruppo sociale.
L’oggetto perde la propria specificità oggettuale per diventare simbolo, segno di qualcosa d’altro
che prescinde dal suo uso funzionale.
La metropoli, a parere di Baudelaire e soprattutto di Simmel, rompe questo carattere di
autoreferenzialità che l’abito ha sempre avuto nella storia, diventa qualcosa che non riguarda più il
gruppo chiuso, ma riguarda tutti quanti. Al tempo stesso l’abito diventa un principio di
identificazione di gruppi sociali che sempre più restretti che hanno il loro linguaggio (esempio i
sanculotti della Rivoluzione francese). La modernità è il passaggio da una società chiusa basata
sul principio di individualità stabile che non ha bisogno della moda per identificarsi a una società
aperta dove la moda diventa un principio di distinzione. La moda è qualcosa che c’è sempre
stato, ma la moda può verificarsi solo nei gruppi sociali indifferenziati che solo la metropoli può
determinare. La moda diventa oggetto filosofico soltanto all’interno della vita cittadina. Anche
nella contemporaneità la moda si identica con alcune specifiche società metropolitane che sono i
luoghi dove vive il regno della merce: Milano e Parigi. Il vestito non è più quella cosa che serve per
vestirci, ma è segno di qualcos’altro. Che cosa sono i grandi stilisti se non creatori di segni?! Lo
stilista crea uno stile, un gruppo chiuso che poi diventa aperto e quindi nasce il prêt-à-porter. La
moda nasce soltanto in una società fondata sulla merce. Il valore dell’oggettualità ha una sua
rappresentazione all’interno di qualche cosa che materiale non è: il denaro. Il valore dell’oggetto
non è qualitativo in sé, ma il valore dell’oggetto è dato dal denaro, quindi l’oggetto perde
progressivamente il suo valore materiale per acquisire un valore di carattere virtuale (il Rolex d’oro
costa tot non perché un orologio, ma perché è un orologio marchiato Rolex, quindi un segno
distintivo che prescinde dal valore di produzione dell’oggetto stesso).
L’oggetto perde il suo valore percettivo, un oggetto che ora ha un valore di merce, un oggetto che
perde la sua specificità di oggetto per diventare sempre più un segno di distinzione sociale, perde
la sua funzionalità, la sua materialità, il suo valore oggettivo. L’oggetto diventa un simbolo ma nel
significato ignobile del termine, non ci rimanda a dei valori fondati e costitutivi, ma rimanda al
valore di merce. Baudrillard dice che se la modernità ci dice che l’oggetto perde la sua oggettività
diventando merce, nella postmodernità l’oggetto non è più merce ma segno; passiamo da una
società metallurgica a una società semiurgica. Questo passaggio è reso possibile da Roland
Barthes, che in Mito d’oggi, ci dice che il mito non è più qualcosa di fondante, il mito non ha più
la valenza simbolica di costituire un mondo di riferimento. Il mito è una parola, cioè ogni oggetto
può diventare mito.
“Il mito è un sistema di comunicazione, il mito è un messaggio”
“Dal che si vede che il mito non può essere un oggetto, un concetto, un’idea. Il mito è
semplicemente un modo di significare. Il mito è una parola, può essere mito tutto ciò che subisce le
leggi di un discorso”
“Il mito non si definisce dall’oggetto del suo messaggio ma dal modo in cui lo proferisce” 
linguaggio comunicativo con cui la moda lo trasmette.
Il mito annuncia la scomparsa della realtà.

79

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

29.04.2019
ESTETICA DEGLI OGGETTI - 28ª LEZIONE
Le fratture della modernità sono intrinseche alla modernità stesse, cioè non si può ritenere il
problema del moderno esclusivamente un’ottica trionfante. Il moderno, che sicuramente ha avuto
i suoi momenti trionfanti legati alla Rivoluzione industriale, conosce al suo interno una serie di
fratture che si concentrano sulla natura dell’oggetto, in particolare in relazione alla
determinazione dell’oggetto artistico/bello. Di esso si scopre la contingenza e Baudelaire è il
protagonista, l’oggetto non è più qualcosa di stabile, ma qualcosa che ha al suo interno un
elemento che è destinato ad andare. Due elementi di maggiore definizione storica di questo
sviluppo delle considerazioni di Baudelaire:
- Georg Simmel  Prendendo spunto diretto e portando su un piano filosofico, sottolinea
che questo aspetto di contingenza si identifica all’interno di una coppia sociale e
concettuale, riassumibile nei due termini metropoli e moda. Il moderno non si sviluppa
all’interno di un contesto aspecifico, ma si sviluppa all’interno della metropoli, luogo di
lotta di classe, luogo dove sono insieme una quantità di tipi umani ciascuno dei quali fa
storia a sé. La metropoli è il luogo della modernità non trionfante, dove gli oggetti non
hanno più quella stabilità che aveva caratterizzato la loro permanenza. La non stabilità
dell’oggetto si traduce nella parola moda, il segno della transitorietà dell’oggetto, segno
che la bellezza non passa più attraverso (5.50). I gusti mutano e ciò si traduce nel concetto
di moda, che rappresenta al tempo stesso il massimo di originalità e il massimo di
uniformità concesso al mondo della modernità. La moda segna una molteplicità di
messaggi, è qualcosa di transitorio, gli oggetti perdono la loro forza proprio perché
passano. Il moderno assume quindi un aspetto tragico, c’è un conflitto non riassorbile tra la
vita e le forme. Le forme sono travolte dal flusso della vita. Il conflitto tra la vita e le forme
è il conflitto della cultura e della civiltà moderna, che non riesce più a trovare un aspetto di
stabilità assoluta. I linguaggi si moltiplicano e questo crea una serie di comunità
caratterizzate al loro interno da una varietà di moda. Il tessuto sociale viene attraversato
da una serie di variazioni non riassorbili, questo porta ad una modifica della concezione
dell’oggetto.
DOMANDA ESAME: Dov’è il distacco tra moderno e postmoderno? Esiste un postmoderno o è
soltanto una fase della modernità?
RISPOSTA: Se esiste un postmoderno (dal punto di vista storico esiste, questo è un punto di vista
concettuale), la cogliamo nella concezione dell’oggetto.
L’oggetto sfuma, la realtà scompare. Baudrillard dice (p 115) che si profilano altri modi di
intendere le cose. I simulacri si impossessano del reale. Oggi abbiamo una circolazione di flussi più
che di oggetti. In questa circolazione di flussi si perdono tutti gli obiettivi e tutti i valori
dell’illuminismo, scompare l’immaginario della modernità. Tutto ciò scompare con il virtuale, con
la realtà. Le forme di esistenza mediatizzata (dove non è più necessaria la presenza di corpi, dove
la storia è una serie di simulacri), in tutto ciò la realtà è qualche cosa che va avanti per inerzia ma
di cui non sappiamo cogliere la struttura. I valori dell’illuminismo (modernità che si vuole
autodefinire secondo i principi di progresso) diventano un fluire di immagini senza inizio e senza

80

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

fine. “Il moderno ha divorato la propria utopia, cerca di funzionare oltre la propria fine, ma cerca
di funzionare all’interno di una realtà simulacrale, che non è più una realtà reale”. Su questo
sfondo di non evento perpetuo, lo sfondo della modernità che si dissolve, una modernità che non
crede più all’idea di progresso, dove la contingenza ha ucciso il moderno.
Ora che non siamo più certi che l’immagine abbia una referenzialità con il mondo dell’esperienza,
si affacciano di fronte al nostro esperire altri tipi di eventi. Questi altri tipi di eventi non hanno più
un referente oggettuale preciso, sono puri segni, la realtà diventa non qualche cosa da cogliere sul
piano dell’esperienza concreta, ma è fatta di puri segni senza una referenza precisa, si
costruiscono nuovi codici semiotici.
Il passaggio non può essere compreso senza capire l’importanza strategica di Roland Barthes, in
particolare il libro Miti d’oggi. Prende avvio con un’espressione che in realtà copia da Paul Valery,
al quale dà un altro significato: Il mito è una parola. Barthes vuole dire che il mito non ha più
dietro una valenza di carattere fondativo, il mito è solo una parte di sistema di un discorso, il
sistema della comunicazione. La prima conclusione è che ogni oggetto può diventare mito, perché
ogni oggetto può trasformarsi in parola. Ogni oggetto può essere mitizzato, ogni oggetto può
diventare un segno che fa parte di un sistema di comunicazione anche se dietro questo oggetto
non vi è nulla. La pubblicità è un esempio. Il sistema della comunicazione attuale attribuisce un
significato a dei significanti che di per sé non hanno alcun contenuto. Il mito non è qualche cosa
che fonda un senso, il mito è semplicemente una parte, un linguaggio, un discorso, una parola, che
è una parte di un sistema di segni. Il mito gioca il proprio senso all’interno di un rapporto tra
significato e significante, ma se questo rapporto era stato definito da De Saussure come un
rapporto arbitrario, ora nel momento in cui ogni parola, ogni significante può diventare un mito
(esempi la pubblicità francese degli anni Sessanta), parlare di un sistema segnologico primo è
troppo poco. Si crea la necessità di quello che Barthes chiama sistema segnologico secondo: il mito
diventa un significante che non ha bisogno di un significato, un significante non ha il significato in
ciò che rappresenta. Il mito è un metalinguaggio, un linguaggio che parla di un linguaggio che non
è quello che rappresenta. Significante e significato sono distaccati. La differenza, pur sottile, è
importante: non esiste soltanto l’arbitrarietà tra significante e significato, il mito rappresenta
l’arbitrarietà tra segno e significante. Il mito rappresenta l’arbitrarietà tra il segno e il significante,
il significato saussuriano non c’è più. Perché questo punto è importante? Perché si spezza il
legame tra significato e significante e il segno, che Barthes chiama mito, assurge a un’autonomia
che è quella del significante sul significato. L’arbitrarietà dei sistemi segnologici impazzisce. I
significati prescindono dalla realtà, sono contestuali, i miti sono contestuali. I sistemi segnologici
acquisiscono delle dimensioni di senso che non sono più assimilabili dalle dimensioni saussuriane
significato – significante. Avere scoperto che il significante può autonomizzarsi dal significato è
qualcosa che cambia i codici semiotici.
ESEMPIO: pubblicità pre IWW e IIWW. Nel momento in cui il significante acquisisce una sua
autonomia, la pubblicità cambia e i codici semiotici si moltiplicano, quindi si moltiplicano i
linguaggi. Si crea una molteplicità di linguaggi.
Barthes ci dice che possiamo costruire un’autonomia del significante in qualsiasi momento e che
questa si chiama mito. Possiamo mitizzare, all’interno di un adeguato contesto comunicativo, ogni
parola, ogni immagine, e dare un’autonomia di senso, creare dei gerghi (a volte possiamo non
capire un gergo perché ci mancano i miti di quel gergo, manca il substrato comunicativo che non è
referenziale). Il sistema di comunicazione diventa un insieme di significanti correlanti soltanto da
usi, abitudini e costumi e non da strutture di senso vere e proprie. Il mito è soltanto una parola,
un significante senza significato, un significante che si autonomizza e diventa un segno. Dietro al
81

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

mito c’è soltanto un segno, non c’è un percorso di fondazione, non c’è un percorso di
referenzialità, non c’è storia. I miti nascono e muoiono così come la moda e la pubblicità.
La prima definizione del postmoderno: il postmoderno è il rifiuto dell’idea di origine. Non c’è più
un’idea di tradizione, di storia. Ci sono semplicemente linguaggi che si innestano l’uno nell’altro,
che fanno parte di sistemi di comunicazione non fondati.
“La vacca che ride”, espressione di Roland Barthes che non ci dice nulla, era un formaggino con cui
sono cresciuti tutti i francesi durante gli anni Sessanta. Non è una vacca che ride, è un nome per
denotare un formaggino. La vacca che ride è un mito senza fondamento, che diventa espressione
gergale.
Gli oggetti non sono più caratterizzati dalle parole, le parole si autonomizzano dall’oggetto. Il mito
non ha bisogno di un radicamento storico completo. Il mito è qualcosa che sussiste di per sé come
segno. Il postmoderno è non riconoscere l’idea di origine (definizione che deriva da Roland
Barthes).
Prima differenza: non c’è frattura, c’è la costruzione di un nuovo sistema di comunicazione, dove il
problema della referenzialità non è un problema essenziale, dove la domanda “che senso ha?” non
ce la poniamo di fronte ad alcuni sistemi della comunicazione contemporanea. Quando questo
sistema diventa non soltanto transitorio e mutevole a seconda dei contesti, ma diventa anche
virtuale, quando non soltanto si perde il rapporto referenziale con l’oggetto, ma l’oggetto non
esiste più e diventa qualcosa che esiste all’interno della realtà virtuale. I linguaggi entrano in
rapporto di commistione assoluta.
DOMANDA: Quando questo processo (che non nasce nella filosofia ma all’interno di un sistema
sociale) nasce? Quando nasce la parola postmoderno?
RISPOSTA: Probabilmente la parola postmoderno nasce in tempi relativamente recenti, neanche
un secolo fa. Durante il secondo dopoguerra venne introdotta da un architetto americano Joseph
Hudnut, che scrive un articolo dal titolo La casa postmoderna. Il postmoderno nasce
nell’architettura contro il movimento moderno, contro un modello di architettura razionalistica e
funzionalistica.
Il grattacielo Pirelli è moderno vs Torre Velasca anima anticheggiante.
La parola postmoderno nasce contro un’architettura nostalgica ma anche contro un’architettura
razionalistica e funzionalistica, cioè un’architettura fatta per ospitare il lavoro all’interno di una
città che ha spazi sempre più ridotti. Qual è la caratteristica dell’architettura funzionalistica?
Purezza delle linee, uniformità della struttura, tecnologia d’avanguardia. Ogni elemento ha una
ben precisa funzione strutturale nella dinamica dell’edificio.
Non c’è una struttura che non abbia un significato all’interno della costruzione. Non esiste un
supporto che non abbia un valore portante.
Che cos’è la casa postmoderna? Non è costruita sulla base di funzioni, ma sulla base di segni.
Esempio: un capitello greco posto come colonna portante che non ha alcuna funzione portante. È
quindi soltanto un segno, che ha come significato la commistione dei linguaggi. Non ha alcuna
funzione, non ha nessun significato specifico se non quello di dimostrare che i linguaggi possono
tra di loro convivere e che non vi è un legame storico tra i linguaggi che vengono utilizzati
all’interno dell’edificio.

82

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

Qui abbiamo un’idea con evidenza nichilistica, idea che sta alla base del discorso di Barthes; è
evidente che vi è un altro elemento, di crisi della ragione. Se il modello è razionalistico, quello
postmoderno è a-razionalistico. Non c’è bisogno che vi sia una ragione perché le cose siano. Messa
in crisi del principio che aveva fondato la metafisica moderna: se le cose esistono vi deve essere
una ragione. In un sistema semiotico secondo il principio di ragion sufficiente salta. Le cose sono e
convivono, anche senza alcun motivo. La ragione non è più un principio necessario per la
costruzione dell’oggetto, perché la funzionalità d’uso dell’oggetto è messa in crisi. L’oggetto perde
la sua funzionalità e diventa un segno come la colonna dorica all’interno dell’edificio moderno.
DOMANDA: Le strutture di senso di Barthes sono le stesse strutture di senso di Husserl?
RISPOSTA: Parliamo delle sintesi passive, di significati intrinseci alle cose stesse, di significati per
cui i contenuti immaginativi sono connessi ai contenuti di carattere percettivo, connessi a una
dimensione che deriva dalla nostra esperienza. Non abbiamo in un contesto fenomenologico
esperienza di segni, abbiamo esperienza di cose e le cose hanno delle qualità intrinseche che
possono essere tradotte in parole, ma la parola non ha una sua autonomia rispetto ai contenuti
esperienziali. Roland Barthes ci dice che i contenuti esperienziali non hanno alcun senso, perché i
miti sono costituiti da parole e le parole hanno un valore segnico transeunte a seconda dei
contesti. Non c’è un segno che abbia una referenzialità con un oggetto che rimanda a delle qualità
intrinseche, ma il segno ha una sua autonomia totalmente indipendente dai significati
dell’oggetto. Questo crea sistemi di comunicazioni e questi non riguardano la definizione della
realtà, ma la costruzione di un sistema comunicativo finalizzato ad uno specifico scopo, quello di
costruire un gruppo, costruire una moda, una pubblicità, ecc. Tutto l’aspetto esperienziale si
depotenzia mentre il sistema segnico si potenzia.
Chi sono i due grandi nemici della fenomenologia?
- Il primo elemento è proprio la segnologia, perché dà autonomia al segno, quando per un
fenomenologo un segno non sarà mai autonomo. Parlare di un sistema semiotico secondo,
di un significante che acquisisce un valore indipendentemente dal significato a cui fa
riferimento significa costruire un sistema percettivo totalmente sballato privo di ogni
rapporto con la realtà. Il primo elemento di contrario è quindi la perdita dell’oggetto. Per il
fenomenologo l’oggetto esiste, qui gli oggetti possono anche esistere ma possono anche
non esistere e Baudrillard dice che gli oggetti possono anche diventare simulacri. Quindi
abbiamo esperienza di oggetti o di segni? Per Baudrillard abbiamo esperienza soltanto si
segni, che possono avere un legame con l’oggetto, ma che non è un legame costitutivo.
- Il secondo nemico è il cognitivismo. Il senso è che se scompare la realtà scompare la
referenzialità tra l’oggetto e i il reale. Che cosa ha ucciso l’oggetto? Per Baudrillard la
comunicazione, che si moltiplica attraverso i media. Nel momento in cui metto uno
schermo tra me e le cose, io percepisco uno schermo, non la realtà. Di fronte allo
svilupparsi dei sistemi del virtuale, come faccio ad avere il rapporto con la realtà che avevo
prima? L’immagine faceva da medium tra noi e le cose, nel momento in cui i media si
moltiplicano il rapporto si complica. Nel momento in cui i media si smaterializzano, il
sistema salta. Quando il medium è l’icona verso il significato il sistema è un sistema
classico; il rapporto tra il visibile e l’invisibile è un rapporto che ha una precisa
referenzialità. Nel momento in cui i media diventano virtuali, non ha più senso parlare di
realtà; non che la realtà non vi sia, solo non è più il riferimento di quella struttura di eventi
che stabilisce il sistema della comunicazione. La televisione uccide il reale, perché il mito è
diventato segno e il segno è diventato simulacro.

83

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

Il postmoderno nasce tra critica e architettura, come una dimensione di moltiplicazione dei
linguaggi, come constatazione del simulacro, come messa in crisi del principio di ragion sufficiente,
come linguaggio citazionistico, come moltiplicazione dei media, come virtualizzazione dei media.
In termini filosofici, il postmoderno nasce non come messa in crisi (che è una cosa che appartiene
al moderno) come superamento di un sistema di senso fondato sul concetto di fondazione. Il
postmoderno nasce all’interno del nichilismo attivo, che ha la sua origine nel pensiero di Nietsche.
L’idea che non sono messi in crisi dei valori della tradizione (patrimonio della modernità), ma è
necessario costruire dei valori nuovi, cioè è necessario superare due concetti che hanno fondato i
valori della modernità: uomo e storia. La postmodernità nasce come concezione di una post-
umanità e di una post-storia, trasvalutazione dei valori. Per Nietsche è necessario ripartire da un
nuovo orizzonte assiologico. L’oltre-uomo è l’uomo che supera il concetto rinascimentale di
umanità, quindi un’idea di una nuova costruzione assiologica. Gli architetti americani sono tutti
lettori di Nietsche. Fonti filosofiche non unitarie, assolutamente sincretiche, in cui i sistemi
segnologici sono messi insieme ai grandi distruttori della metafisica occidentale.
In tutto ciò non c’è nostalgia, non c’è riferimento a un mondo che non abbiamo più, non vi è la
volontà di tornare indietro, come non vi è la volontà di andare avanti, vi è la volontà di vivere il
presente in tutta la sua molteplicità di segni. Non c’è idea di progresso, ma vivere la molteplicità
dei segni che attraversano il mondo della virtualità. Tutte queste sono definizioni basiche.
- Centralità di Nietsche come dimensione critica che non è nichilismo passivo (nostalgico) ma
attivo, cioè porre in discussione il principio base della modernità, dove al centro c’è l’idea
di ragione. Si mette in crisi la ragione come strumento critico. Il postmoderno è il
superamento del sistema della trascendentalità, del sistema di esistenza di condizioni di
possibilità che le cose siano, non discute più il trascendentale. Le condizioni di possibilità
delle cose non interessano al postmoderno, queste si evidenziano, non si giustificano. Va
superata l’opposizione classica tra razionalismo e irrazionalismo, perché questa è
un’opposizione moderna. Nel momento in cui il riferimento non è il logos, Faust è morto.
Il postmoderno è l’assenza non drammatica di fondamenti.
Benjamin pensava al passato, qui non c’è storia. Se si supera l’opposizione tra razionalismo e
irrazionalismo, se si supera l’idea fenomenologica del fondamento, come può essere definito tutto
questo insieme? Tardi anni Sessanta prima definizione di postmoderno di Jean-François Lyotard in
un breve rapporto sul sapere intitolandolo La condizione postmoderna, per cui il postmoderno è la
condizione dell’uomo contemporaneo, non possiamo fare nulla per sfuggirvi. Siamo di fronte a
un sistema di sapere “in cerca di una sua legittimità”. Il moderno si è autolegittimato, la
condizione in cui noi siamo comunicativa e simulacrale deve legittimarsi, cioè deve trovare
all’interno di un linguaggio che non è il proprio dei sistemi concettuali di riferimento. Per questo
deve moltiplicare i linguaggi: perché non ne ha più uno.
IL POSTMODERNO È L’EPOCA DELLA FINE DELLE GRANDI NARRAZIONI.
Jean-François Lyotard
Il moderno è globale, il postmoderno è locale.
30.04.2019
ESTETICA DEGLI OGGETTI - 29ª LEZIONE
DOMANDA: Il fine di Baudrillard è la sovversione?

84

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

RISPOSTA: Questi autori sono guidati dai maestri del sospetto (Marx, Nietsche, Freud), tutti
guardano all’inconscio ma anche a una dimensione sociale che, nel Novecento, si identifica con
una riscoperta di Marx. Egli aveva fini rivoluzionari, il Novecento vive l’epoca delle rivoluzioni
fallite, per cui il potere rivoluzionario di Marx cade. Se si vede la fine delle rivoluzioni, non c’è più
un’istanza utopica, non c’è più utopia. Dire questo significa dire che non c’è più né speranza né
prassi rivoluzionaria (si prende atto che la distinzione marxiana tra la cultura e la società è errata).
(04). Nel momento in cui guardano la televisione il sabato sera e quello costituisce un modello, la
rivoluzione non è più possibile. La strategia del consumo ha ucciso il marxismo. Baudrillard
(proviene dalla tradizione marxista autentica) usa soltanto categorie marxiste rovesciate. Se la
rivoluzione non è più l’alternativa, allora qual è l’alternativa? Baudrillard non è sovversivo, anche
perché senza il minimo dubbio egli vive gli ultimi anni negli Stati Uniti e vive il consumismo
sentendosi in colpa perché si rende conto che le sue teorie sono prese a modello di atteggiamenti
di carattere sovversivo. (07).
DOMANDA: Come mai ha parlato del postmoderno come di un qualcosa di locale?
RISPOSTA: Il postmoderno è senza dubbio uno dei primi movimenti globali. Il termine
postmoderno segna non soltanto la globalizzazione della cultura ma anche il fatto che un modello
consumistico è diventato pervasivo, segna lo spostamento dell’asse dall’Europa agli Stati Uniti.
Tutti gli autori che stiamo analizzando nascono e si formano in Europa ma trovano il successo negli
USA. Il suo scopo è la decontestualizzazione dei linguaggi, il postmoderno non vuole crearsi un
linguaggio, vuole utilizzare i linguaggi antichi decontestualizzandoli, nella convinzione che questo
risemantizza l’oggetto stesso. Grazie a Barthes, il significato nuovo non è denso di senso ma è un
puro segno. Mettere il ponte di Rialto in un casinò di Las Vegas è un consapevole atto kitsch che fa
diventare Venezia stessa kitsch, un oggetto puramente decontestualizzato. Questo è l’aspetto
globale. L’aspetto locale è che non esiste un linguaggio unitario all’interno del postmoderno, così
come c’era nel moderno (la parola ragione); negare la valenza costruttiva del logos significa essere
totalmente all’interno della modernità. Il postmoderno rinuncia all’unitarietà di un linguaggio, non
ne ha uno solo, ha una pluralità di linguaggi che sono tutti sullo stesso piano, c’è la moltiplicazione
dei linguaggi. Questo fa sì che si ha necessità di un linguaggio locale (20), non è l’unico stile
comunicativo del postmoderno. Il postmoderno è una pluralità di stili comunicativi che possono
entrare in contrasto tra di loro e possono anche non comunicare tra di loro. La cultura della
postmodernità è una cultura alla continua ricerca della legittimazione. Il postmoderno americano
esalta la pluralità dei linguaggi della minoranza. (23). Le minoranze, e in particolare il movimento
femminista, è uno dei movimenti che maggiormente porta il postmoderno negli USA; (24-32).
Il postmoderno è l’epoca della fine delle grandi narrazioni, definizione di Lyotard. Questo ha un
significato ben preciso, che implica che noi definiamo bene quelle che sono le grandi narrazioni.
Esse sono le narrazioni della modernità e sono quelle possibilità culturali che creano i miti della
fondazione: la cultura dell’oggetto, il progresso, la ragione, la possibilità di un riscatto
dell’oppresso nei confronti dell’oppressore. La modernità è un sapiente connubio di discorsi
progressivi e progressisti con discorsi di carattere utopico, che vedono la possibilità di un futuro.
Essi sono uniti da una comune volontà: è possibile cambiare il nostro destino. Esistono delle forme
in cui la modernità incarna la propria narrazione, in primo luogo artistiche, sono forme di
autolegittimazione della modernità (attraverso forme artistiche e simboliche). I grandi oggetti
d’arte dotati di una valenza simbolica hanno un particolare significato di autolegittimazione.
La modernità matura ottocentesca ha una privilegiata forma di autolegittimazione, che si traduce
in una forma politica e un’artistica: il riscatto sociale di matrice marxista (politica) e i grandi
romanzi (artistica). I grandi romanzi sono la forma privilegiata con cui la modernità racconta la
85

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

propria Bildung, il che significa autolegittimare la propria realtà, il proprio essere, la propria
cultura. La modernità ha costruito un genere specifico: i romanzi di formazione, che sono
l’autocoscienza di che riscatta (38).
I grandi romanzi della modernità si traducono in Balzac e Mann. Il romanzo e le ideologie
costituiscono il simbolo di una modernità autocosciente; una forma di riconoscimento sociale.
Il postmoderno segna la fine del valore performativo delle grandi narrazioni. Esse perdono il loro
significato di riconoscimento, non ci si identifica più all’interno delle opere dell’arte e all’interno
delle prassi e delle teorie ideologiche. Questo perché? Perché le ideologie perdono la loro valenza
rivoluzionaria e utopica, sfumano e si uccidono all’interno della realtà, e le grandi narrazioni
romanzesche perdono il quadro sociale di riferimento. Sfumano quegli elementi di riconoscimento
e quei linguaggi totalmente nuovi, non ci riconosciamo più in queste grandi narrazioni. Si tratta di
rendersi conto che le circostanze sociali hanno cambiato le modalità di comunicazione: la storia ha
ucciso le grandi ideologie e il sorgere di nuovi linguaggi parcellari ha ucciso il senso di
legittimazione che derivava dalle grandi narrazioni della modernità. Questo comporta una pluralità
dei linguaggi.
Lyotard si chiede se questo nuovo sapere (che non ha più modelli), cioè questo nuovo sapere che
non trova più i modi per riconoscere la propria legittimità, possa essere legittimato o no. (44). Qui
le risposte sono diverse.
La riposta di Baudrillard è che la domanda è insensata perché non è compito del filosofo cercare
legittimazione, ma deve (44). Nel momento in cui cerca l’autolegittimazione, questo sapere
distrugge il proprio senso.
Lyotard dà una risposta da fenomenologo (allievo anche di MP) e dice che il sapere della
frammentazione, che non è più moderno ma postmoderno, deve cercare nuovi strumenti di
legittimazione. Nel momento in cui scopre che la società postmoderna ha una pluralità di linguaggi
deve cercare dei meccanismi di autolegittimazione. Per far ciò usa due categorie:
- Tratta da Wittegstein, scopre l’espressione di gioco linguistico, una dimensione de
linguaggio che non descrive ma si adatta perfettamente a una specifica forma di vita, per
cui il gioco linguistico descrive quella che è una forma di vita. Il linguaggio non ha una
valenza universale, ma locale e descrittiva di una forma di vita. Per Wittegstein non esiste
la fenomenologia, ma esistono problemi fenomenologi. La filosofia non deve fare grandi
discorsi fondativi, la filosofia è descrizione di specifici giochi linguistici; il gioco linguistico è
descrizione di una forma di vita e la forma di vita è usi e costumi linguistici. Esiste
esclusivamente un esercizio di pensiero che si adatta alla molteplicità delle forme di vita.
Questo esercizio di pensiero si traduce in un linguaggio che si adatta a quella forma di vita
lì. La descrizione delle forme di vita non ha un’utilità. Il segno di Sraffa è una forma di vita
che vale soltanto in quel contesto lì, locale, dove la forma di vita si traduce in un linguaggio,
cioè in un segno. Questa teoria viene assimilata da Lyotard e anche decontestualizzata
facendo diventare il gioco linguistico il nuovo asse portante della comunicazione
postmoderna. Che cos’è la comunicazione postmoderna? Non è più una grande narrazione,
ma è il susseguirsi di piccole narrazioni (giochi linguistici che aderiscono a determinate
forme di vita che non necessariamente comunicano tra di loro). (52). I giochi linguistici
creano quelli che Lyotard chiama una nuova pragmatica del sapere narrativo che ha un
duplice scopo: quello di delegittimare il modo precedente, quindi per delegittimare il
sapere della Bildung, la cultura non ha più valenza formativa. Il discorso di Cartesio sul

86

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

metodo indica una Bildung, Lyotard dice che non è più possibile (54). Il pensiero della
postmodernità è quella di costruire, descrivere, manifestare una pragmatica dei giochi
linguistici, che annulli i linguaggi della modernità.
La postmodernità è anche la sostituzione di un antico modello comunicativo con nuovi modelli di
comunicazione. Che cosa è successo alla comunicazione? La comunicazione si è atomizzata. (55). È
morta l’idea di una narrazione legittimante, non esistono più narrazioni legittimanti.
(57).
RISPOSTA: Ogni tentavi di ricostruire un linguaggio unitario, cioè un linguaggio che esca dalla
performatività, che voglia permanere e non rimanere performativo, ogni linguaggio che voglia
vivere al di là del suo uso, è un tentativo di ricostruire il moderno. È il segno di una nostalgia, che
segna la volontà di porre un modello che ricostituisca dei valori che la cultura stessa ha ucciso. (59-
1.05). Il trionfo del postmoderno non è in questi autori che provengono dalla tradizione critica del
moderno, ma è la filosofia che rinuncia al concetto di metafisica. Lyotard non si rende conto che
cercare una legittimazione del postmoderno significa essere profondamente moderno. Quale
autore usa per mostrare la fine del trascendentale? Il filosofo del trascendentale. È tutto un
tentativo per cogliere i meccanismi critici della postmodernità. Rischia di enfatizzarsi l’altro modo
con cui definiamo il postmoderno, decostruzione, vuole decostruire i saperi legittimati della
modernità. Lyotard cerca un metodo disgiunto da un’idea di formazione, il metodo non è
formativo ma descrittivo. Non esiste un uomo postmoderno, esiste un uomo che usa un metodo
che spezza la sua identità, connessa alla pluralità di linguaggi che usa. La delegittimazione
postmoderna è una delegittimazione di quei linguaggi che possono creare una Bildung unitaria.
Il postmoderno è la fine dell’Aufklärung (illuminismo) e si traduce in una disseminazione dei
giochi linguistici. “Noi oggi dobbiamo essere consapevoli che fjkalaògj, che siamo usciti dalla
nostalgia della narrazione e che siamo entrati inconsapevolmente in una nuova epoca, l’epoca
della performatività. Il criterio della performatività riguarda sia la trasmissione del sapere che” .
(1.08).
Il sapere si dematerializza, la trasmissione del sapere si dematerializza. Questo significa che non
c’è più bisogno della relazione corporea per trasmettere il sapere. Il sapere non si legittima più
sulla copresenza ma sull’immateriale. L’università è l’esempio di una smaterializzazione della
trasmissione del sapere. Se questo è il moderno, qual è la prima conclusione? Lyotard ci porta
verso Baudrillard. Se il sistema postmoderno è instabile, è evidente che alcuni atteggiamenti non
sono più accettabili e alcuni modi di comunicazione considerati coerenti non sono più modi di
legittimazione della modernità. Come si legittima il postmoderno? È possibile per paralogia:
“libera invenzione di nuove mosse del sapere e di nuove regole di giochi linguistici”. Queste
invenzioni, questi giochi linguistici devono avere un consenso soltanto locale, dove l’accordo è
soltanto temporaneo e non è un consenso universale e necessario. “La paralogia è un insieme di
pratiche concettuali che hanno l’obiettivo di scardinare continuamente le regole, unico modo per
garantire la possibilità di produrre ulteriore conoscenza, altro sapere, generare nuove idee”, di
conseguenza il sapere postmoderno non è quello moderno, è un sapere paralogico, è un sapere
che ancora è sempre un sistema in via di sistemazione, un sapere che si cerca, spostando
continuamente l’oggetto della propria ricerca attraverso il reperimento di nuove regole, che non si
traducono mai in paradigmi e in forme stabili.
Il consenso è locale, non universale e la paralogia non è un ragionamento che abbiamo nella
coerenza, nella chiarezza, nella legittimazione la propria (1.22). Che cosa è quindi la paralogia? In

87

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

prima istanza il linguaggio paralogico continua a creare nuovi giochi linguistici, quindi costruire
universi rappresentativi che non si traducono in leggi già stabilite. Il problema interessante è da
dove deriva questo termine; è un’espressione psichiatrica, è il linguaggio degli schizofrenici. “La
paralogia è espressione verbale senza senso o disturbo della struttura sintattico-grammaticale. In
altri termini il discorso paralogico è anche detto parlare di traverso.” “Un’espressione verbale
incoerente e illogico, perlopiù dovuta a un’alterata concatenazione di pensieri.” “Disturbo del
pensiero in cui i contenuti hanno sì un significato determinato, ma vengono espressi in modo non
chiaro, disordinato, senza un nesso logico.”
La legittimazione del postmoderno è la legittimazione di un discorso schizofrenico che non può
essere legittimato. (1.26-fine). Il postmoderno vive nel quadro di una dimensione funzionale, che
non è più una dimensione logica. Conclusione non disperata, ma che può portare fkaòlòglkgja.
06.05.2019
ESTETICA DEGLI OGGETTI - 30ª LEZIONE
05.20
Il nostro mondo non vive più nel quadro di un linguaggio unitario, i linguaggi sono molteplici e
frammentanti. Una forma di vita che si adatta a una sola modalità di espressione che non ha una
validità al di fuori di tale modalità. Non esiste una strutturazione unitaria del senso di significato
del senso e delle cose, (06). Questo conduce a chiamare questi giochi linguistici connessi a
determinate forme di vita con il nome di paralogia (il linguaggio degli schizofrenici). È un
linguaggio che non deve avere un senso solo perché ha un’espressione comprensibile, questa
paralogia è una forma linguistica che ha un senso parcellare, locale, non vale in assoluto e in
astratto, ma vale per una determinata comunità di persone. Vive al suo interno una scissione,
termine chiave per denotare la personalità schizoide. Il soggetto, l’uomo non ha più una
personalità unitaria, non vi è il riassorbimento del senso in un quadro unitario. Questo riferimento
alla paralogia (08). L’unitarietà del soggetto viene meno di fronte a queste frammentazioni delle
forme di vita. (09-10). L’esempio dello schizofrenico non è scelto a caso, infatti è un esempio che
torna con frequenza nell’ambito della cultura postmoderna, e torna all’interno di un altro autore
di nome Deleuze, il quale, insieme a una psichiatra italiana, scrive uno straordinario volume
coevo ai libri di Lyotard, dal titolo L’antiedipo, cui segue Mille piani, nell’ambito del progetto
comune dal nome Capitalismo e schizofrenia, sulla base dell’idea che la cultura postmoderna
(Deleuze non la chiama così) è caratterizzata da queste parole. Permette di introdurre tre orizzonti
importanti che ci conducono verso Baudrillard, costitutivi di un discorso culturale e filosofico della
postmodernità:
- Il violento intervento di Nietsche, grande protagonista, esplicito in Deleuze, nascosto in
Baudrillard, sempre in primo piano per delineare la fine della modernità (14-18).
- Di una dimensione egologica non cartesiana, una dimensione dell’io non connessa al libero
arbitrio, non legata all’identità del soggetto con sé stesso, una dimensione in cui il soggetto
non si è ancora strutturato in figure ahahfasòk; si tratta di far venire alla luce una
dimensione fakòajòa, tutte quelle dimensioni che non sono consce nel soggetto, cioè
l’inconscio. Dobbiamo far emergere una dimensione più profonda, anzi, non la dimensione
dell’inconscio generale, ma la dimensione più nascosta, più segreta, a-razionale
dell’inconscio, quella che Freud chiama es, la zona più oscura della nostra coscienza, la
zona totalmente non razionale, quella zona che la tradizione psicanalitica chiama la
dimensione pulsionale, non la dimensione intenzionale del desiderio, ma la dimensione a-
88

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

razionale della pulsione. Se la tradizione moderna ha guardato al soggetto come realtà


intenzionale, il frantumarsi di quest’idea di soggettività porta alla luce le zone pulsionali, le
zone profonde, le zone “neutre” del soggetto, l’es è neutro, è ciò che non ha un’identità.
Che cosa è l’inconscio? È una zona pulsionale, e le zone pulsionali si traducono in desiderio,
ma un desiderio non intenzionale, un desiderio legato a una dimensione pulsionale (21).
Vengono fuori quelle pulsioni quando il soggetto non è cosciente di sé. Si tratta di far
riemergere questa zona pulsionale, che il moderno ha sempre scotolizzato, ha sempre
tentato di ingabbiare in forme interpretative coerenti (21). Quella zona che Cartesio
considerava automatica e che veniva in un certo modo controllata dal libero arbitrio. (22-
25).
La soggettività è un insieme funzionale, cioè contraddittorio, libidico, che non può essere
riassorbito. Il pensiero moderno ha sempre guardato a araba ed eros, ma non ha mai
guardato a libido (25). La pulsione non è identitaria, è un elemento che il pensiero non
vuole far emergere, e se emerge, vuole controllare. Le dinamiche della postmodernità sono
desiderative (nel senso di pulsione, non di intenzione). Ciò comporta incoerenza, spirito
non dialettico, tutte dimensioni che sono presenti nelle varie tradizioni del postmoderno.
(27)
- Appare un quadro che può essere riassunto in una parola molto significativa in Deleuze. Il
moderno è una cultura dell’oggetto, della materialità, del senso, il principio di ragion
sufficiente (se le cose accadono vi è sempre una ragione). Il compito del filosofo è quello di
cercare il principio di ragion sufficiente, anche lì dove non appare con assoluta evidenza.
Una cultura basata su questo principio è una cultura che cerca delle radici, che cerca un
fondamento, un radicamento (MP cercava le radici e trovare la parola essere per capire
radice del senso 31). Se la parola-chiave del moderno è fondamento e radicamento, cioè
espfòkaòfja, il postmoderno è recupero di tutte quelle dimensioni su cui il moderno si
basava. Il modello epistemologico della modernità è un sapere che cerca le sue radici, la
sua storia, le sue tradizioni, un pensiero che va dal basso verso l’altro. Il modello della
modernità è quello che su cui sono fondate le università: saperi di base che si specializzano
e vanno verso l’alto. La storicità del sapere deve avere un radicamento non (33). Con
evidenza questo è il modello di un sapere che abbiamo chiamato modello delle sintesi
passive.
Dove sta il senso di queste cose? Nelle cose stesse.
Qual è l’elemento unitario della fenomenologia? Un principio unico: un senso c’è, un
presupposto di senso del mondo. La tradizione fenomenologica parla di un pre-categoriale,
un senso che viene prima delle categorie, il senso c’è perché è nelle cose stesse, nelle
dinamiche esperienziali con cui viviamo il mondo. Tutto questo è messo in crisi dalla
tradizione postmoderna e questo concetto è il concetto di un pensiero dove la radice non
va in profondità. Deleuze riassume tutto ciò con la parola rizoma, molto semplicemente
una radice che sta in superficie e i cui sviluppi sono assolutamente casuali. Il movimento
rizomatico è il movimento del pensiero postmoderno, rifiuta l’idea di profondità, di
radicamento, la strutturazione ad albero del sapere occidentale, ha radici che si muovono
all’interno di un piano che in realtà sono mille piani, una radice che non ha uno sviluppo
ma che si muove senza alcuno schema prefissato.
I topi sono rizomatici, le formiche no.
La parola rizoma è una parola-chiave, dà l’idea di un sapere non fondato, non radicato, un
sapere che si sparge all’interno di un territorio che apparentemente non ha regole. Si tratta
di cogliere in modo diverso la struttura dell’oggetto, il senso delle cose, che non è più dato
da quei processi di radicamento che avevano caratterizzato il senso delle cose all’interno
89

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

della modernità. Il valore di un oggetto non è più funzionale, d’uso, concreto, ma in una
cultura rizomatica le cose non hanno più un radicamento sensato e noi dobbiamo
considerare delle cose sempre un senso nascosto (le cose non sono ciò che manifestano
d’essere), un significato che non è quello che loro esibiscono, un significato che è una
struttura di rinvio (il simbolo), però se il valore di un oggetto è sempre legato ai suoi
significati simbolici, è il simbolo che ha perso il suo radicamento. (46). Il simbolo si
trasforma in segno e la società contemporanea, una società rizomatica, è formata da un
sistema simbolico ma questo è un sistema diffuso di segni e i segni trovano il loro
riferimento in un nuovo modo di considerare l’oggetto (non più considerato in quanto
valore d’uso ma è un insieme di segni che enfatizzano la sua funzione di merce). I segni
sono merci. Il sistema rizomatico della società contemporanea è un sistema oggettuale
dove gli oggetti non ha un senso in sé ma hanno un senso segnico simbolico, che si traduce
nel loro un essere un sistema di segni sempre più globalizzato e arbitrario.
Prima conclusione del discorso di Baudrillard:
Il soggetto diventa un consumatore pulsionale, non consuma oggetti ma segni,
consumatore di merci che sono segni. Questo indica che la postmodernità segna la fine della
trascendenza. Il segno domina il senso della contemporaneità. Cinismo: noi non operiamo nel
mondo in base ai nostri bisogni, perché il bisogno è una pulsione finalizzata, operiamo nei
confronti del mondo in base a una dimensione legata all’aspetto segnico delle cose e, essendo
conclusa la trascendenza, noi viviamo solo il tempo dell’immanenza. La realtà postmoderna è il
tempo dell’immanenza. Quando indichiamo il tempo della merce come fine del tempo della
trascendenza, intende due concetti:
1) Fine di un principio superiore che guida i nostri atti, non viviamo più
all’interno di un discorso teologico, perché viviamo in un mondo di segni,
segni che vivono solo in quel contesto lì che è immanente.
2) La fine della possibilità di costituire un oggetto come oggetto trascendente.
La costituzione fenomenologica è finalizzata alla trascendenza dell’oggetto.
(54). La costituzione fenomenologica è sì una costituzione immanente, ma
implica che la cosa sia costituita in quanto trascendenza. L’essere rosso
dell’oggetto viene costituito all’interno (55). Vi è nella tradizione
fenomenologica un’autonomia dell’oggetto. Sia Deleuze sia Baudrillard
dicono che l’oggetto nella sua trascendenza non c’è più, perché perde la sua
valenza oggettuale e diventa un segno. Abbiamo trasformato il radicamento
simbolico dell’oggetto in simulacro, sono collezioni di oggetti che vengono
desiderati, considerati indipendentemente dalle loro qualità oggettive e
oggettuali.
Per Baudrillard crediamo non nell’onnipotenza dell’oggetto, ma nel valore segnico dell’oggetto
(58). La società consumistica ha bisogno di distruggere gli oggetti, di trasformare l’oggetto in
simulacro.
Non si consuma più l’oggetto in sé ma si manipolano sempre gli oggetti come segni.
La logica della postmodernità è una logica della produzione e della manipolazione dei significati
sociali degli oggetti.
Questo significa che quando noi consideriamo l’oggetto, non lo consideriamo più nella sua
trascendenza qualitativa, ma nella sua immanenza mercificata, che riduce l’oggetto a un segno, a
90

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

un simulacro. Gli oggetti rivestono una funzione simbolica, che va fuori dalla loro struttura di
senso, solo che questa struttura simbolica che gli oggetti sono non è stabile, è transitoria, è legata
a quelle dimensioni di incoerenza, di transitorietà che caratterizzano il sistema delle merci.
L’oggetto non è più un oggetto d’uso, diventa sempre più un oggetto di consumo e la riduzione
dell’oggetto a segno è l’immagine della postmodernità metropolitana, immagine di una società
che è fatta non per soddisfare i bisogni primari, ma per costruire falsi bisogni, prodotti da sistemi
produttive e non da esigenze. (1.02). Una società basata sulla triade merce, denaro, merce di Marx
per il quale era lo schema costitutivo del capitalismo. Baudrillard dice che (1.04). Nella società
postmoderna mdm diventa minor differenza marginale, cioè la cultura contemporanea dev’essere
basata su differenze che non siano differenze costitutive, quindi in realtà i modelli devono essere
sempre modelli analoghi.
Esempio: trasmissioni televisive costruite in base a dei format che devono essere basati sulla mdm.
(1.06). La bellezza non deve mai essere eccedente. È il contrario del dandy, il dandy è differenza, è
colui che nella massa vuole differenziarsi. Qui la differenza è un modello omologante, sempre
piccole differenza ma marginali. Finalizzato alla costituzione di mcc (minor comune cultura). Il
principio di mcc si fonda la società di massa, su cui si fonda la televisione, è la cultura che crea
identità, quello che Eco chiamava La fenomenologia di Mike Bongiorno. La cultura di massa,
essendo fondata faljaòg, ha bisogno della mcc. (1.11). La cultura dev’essere qualcosa che è
comune e superficiale. È il principio su cui si basa la pubblicità, che deve usare un linguaggio sulla
mdm e sulla mcc, si deve essere certi che il messaggio arrivi a tutti. Questo accade perché il mondo
è diventato un sistema di segni semplici e questi sistemi semplici devono essere ben noti a tutti.
Qual è la prima conclusione? Quando parliamo della scomparsa della realtà, è perché la realtà è
stata sostituita da un sistema di segni. Il filosofo deve cercare quella che B. chiama un’economia
politica dei segni, cioè capire la funzione che il segno all’interno dell’apparato sociale, nella
consapevolezza che l’oggetto scomparso è ormai un oggetto caricato di valenze simboliche ma le
regole di queste valenze simboliche non sono regole stabili, radicate, profonde, bensì sono regole
stabilite dalle strategie del consumo. La vera realtà pervasiva è il mondo del consumo, ma noi non
consumiamo più oggetti, consumiamo esclusivamente segni. Il nostro mondo è un consumo di
segni all’interno di una società consumistica che non si pone la domanda che cos’è una cosa? che
cos’è un oggetto? ma si pone la domanda qual è la funzione di un oggetto?
(1.16-fine).
07.05.2019
ESTETICA DEGLI OGGETTI - 31ª LEZIONE
DOMANDA:
RISPOSTA:
(15)
Che cos’è la scomparsa della realtà? Ci pone di fronte a un problema: cosa fare di fronte a questa
realtà che non c’è più? Cerchiamo questi particolari che stonano e vediamo un possibile recupero
della dimensione oggettuale, anche di quella emozionale connessa alla struttura del nostro
rapporto con l’opera. È evidente che in questo tentativo di trovare l’indizio che ci riporti verso la
dimensione oggettuale, i presupposti di B sono abbastanza chiari: la scomparsa della realtà è il
trionfo della dimensione virtuale. La conclusione del tutto speculare rispetto all’inizio non c’è più
né soggetto né oggetto, che si fondono all’interno di un’interattività dove la realtà si perde, dove il

91

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

corpo non è corpo e l’oggetto non è oggetto. Seconda conclusione: attraverso i media si perde il
principio di realtà e quindi diventa sempre più difficile distinguere il reale dal non reale. Questo
vuol dire (terza conclusione) che la tecnologia porta a quella che B chiama un’accelerazione della
realtà, cioè la realtà vive soltanto negli istanti e non diventa la dimensione bergsoniana della
durata. C’è l’idea che la tecnologia ha ucciso il senso del diacronico, la tecnologia uccide la storia e
ci permette di entrare in una post-storia in cui non c’è più (21). Vivendo nell’istante, distruggendo
il senso del tempo, l’aspirazione della società dei consumi è quella di eliminare lo spettro, cioè la
morte che viene espunta dal reale, la morte è qualcosa che non può essere rappresentata. La
morte è qualcosa che non c’è, perché si vive esclusivamente nell’istante. Muore il concetto di
immagine e di immaginario, perché l’immagine diventa un segno, cioè diventa virtualità, non
referenza al mondo. Le immagini non rappresentano più la realtà, il concetto di immagine
connesso al concetto di rappresentazione progressivamente sfuma. (24). B ci dice in questo libro
che la rappresentazione del mondo sembra ormai arrivata al suo compimento, il mondo sta
scomparendo perché è inghiottito dalle fkaòja (25). B parla di “sterminio della realtà a opera del
suo doppio”, è un apocalittico (U. Eco). Nel momento in cui si scopre che la fotografia può
manipolare le cose, è evidente che la tecnica fòakljgka (27). La tecnica diventa da strumento d’uso
pervasiva e protagonista della realtà medesima, non è più uno strumento per interpretare la realtà
ma uno strumento per manipolare la realtà, fino a interrogarsi sul fatto che non ha il minimo senso
chiedersi cosa sia reale e cosa no.
Se non c’è più la realtà, se non c’è più il senso di referenzialità dell’immagine (28), se le forme non
hanno più una loro stabilità, che fine fa la dinamica del senso delle cose? Anche il passaggio tra il
concetto di cosa e il concetto di oggetto è il passaggio dal qualcosa in generale a qualcosa che ha
delle determinazioni. Questo qualcosa sembra perdere la sua dimensione di oggetto. Che fine fa il
senso e l’interrogazione sul senso? Chiaro che in B il senso non vive più nelle cose, la ricerca nel
senso non vive più negli oggetti, non cerchiamo più un senso nelle dinamiche che portano allo
svelamento del senso qualitativo delle cose. L’unico barlume di senso esiste solo all’interno di una
dimensione critica, il tentativo di seguire (30-33).
Critica non è più il tentativo di trovare delle mediazioni tra il soggetto e il mondo, critica è
descrivere le fratture, considerate non riassorbili perché il trascendentale kantiano è stato ucciso
dalla società dei consumi.
È chiaro che il presupposto di tutto questo discorso è non tanto il pensiero di Nietsche ma la
ricezione novecentesca di Nietsche. Momento folgorante che parte da un presupposto negato
(HeidefkòL): la metafisica occidentale, la filosofia, ha cercato di cogliere il senso definitivo di
mondo, il senso vero del mondo e delle cose. La domanda di H e di N è: è proprio vero che è
questo il senso del pensare? Tramite loro due quello che viene messo in crisi è l’identificazione del
pensare sulla cosa (asse portante della filosofia), ma questo non è l’unico modo di esercitare il
pensiero. Il nemico è un pensiero costitutivo del mondo. Il presupposto è un presupposto di
mondo, di realtà. La metafisica occidentale parte dal presupposto che il mondo c’è e ha un senso,
sta al pensiero coglierlo. Questo viene messo in crisi da H e da N. (37). Nichilismo particolare, non
è un nichilismo distruttivo, scettico, che dice che non esiste più filosofia, è un nichilismo
disincantato, attivo, un nichilismo che vuole sì distruggere i valori della tradizione, decostruire i
valori della metafisica occidentale, ma portarli a una trasvalutazione, una valutazione che metta in
crisi quel presupposto di senso che aveva dominato la tradizione della metafisica occidentale. È
evidente che accettare questo nichilismo disincantato vuol dire per B “portare il gioco della verità
sui sentieri dell’apparenza”; questo viene fatto da B e ci ricorda che dietro le apparenze che si
dispiegano di fronte ai nostri sensi non c’è un senso segreto, quella verità nascosta che la
92

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

metafisica occidentale metteva in atto, dietro le apparenze ci sono altre apparenze. Il desiderio di
credere è un’illusione della metafisica occidentale (41-43). La filosofia come metafisica non ha più
senso, cioè la filosofia occidentale non ha più senso, l’illusione l’ha uccisa.
Perché continuare a fare filosofia allora?
DOMANDA:
RISPOSTA: (49)
Perché seguire queste illusioni? B dice perché se il delitto si è compiuto dobbiamo cercare gli indizi
(la televisione ha ucciso la realtà, la realtà è scomparsa), interrogarsi sul senso delle apparenze che
si affollano nella nostra coscienza. Queste tracce sono l’unica attestazione che qualcosa esiste e
che se qualcuno ha lasciato delle tracce vuol dire che c’è un qualcosa e c’è un qualcuno. B invita a
mettersi sulle tracce di un qualcosa che in realtà non esiste. B dice “fortunatamente viviamo in
base a un’illusione vitale, a un’assenza, a un’irrealtà” che ci permette ancora di cercare le tracce
del reale e di continuare ad illuderci del fatto che una realtà vi sia. In B vive, nascosta, una
segretezza del mondo che non riusciamo a cogliere nel quadro di (51). È evidente che se la realtà è
scomparsa, accanto alla domanda sul senso, sottolineiamo (53). La realtà non riesce più a cogliere
l’aspetto seduttivo della realtà. Il mondo delle merci divenute segni è un mondo basato sul
principio di seduzione.
(56)
La realtà si trasforma in oggetti che manifestano la loro assoluta inutilità. L’illusione diventa un
gioco seduttivo ma anche angoscioso, perché ci fa perdere quel meccanismo corporeo che sta alla
base del processo seduttivo, ci fa perdere il senso del rapporto con il reale come realtà vera.
Perché è importante sottolineare questo? B dice che (critica alla fenomenologia) questa (57-59).
Non c’è più quel senso di relazione con l’alterità, il grande seduttore della modernità era il
dongiovanni, il grande seduttore della postmodernità è il pubblicitario (59).
DOMANDA: Che fine fa il corpo?
RISPOSTA: Per B il corpo diventa un insieme di segni, (1.01-1.15)
DOMANDA:
RISPOSTA:
B se la prende contro “la critica ideologica e moralista ossessionata dal senso e dal contenuto”,
con chi vuol fare ancora della metafisica in un mondo demetafisicizzato. Quello con cui se la
prende è anche l’ossessione della realtà, (1.16). Se la prende con la convinzione che dietro le
apparenze debba esserci sempre qualcosa.
È evidente che tutto questo è reso possibile (il capitalismo stesso nella sua accezione moderna)
non come credeva Marx dai meccanismi intrinseci alla produzione, ma questo meccanismo
pervasivo è reso possibile dal trionfo della tecnica, che ha reso possibile lo sterminio della realtà,
ciò che rende possibile una simulazione di mondo, profusione di immagini in cui non c’è niente da
vedere.
Gli oggetti non sono più l’altro da noi con cui si è confrontata la tradizione filosofica per millenni,
sono solo un niente virtuale con cui noi ci rapportiamo ma che hanno perso il loro status di
esistenza. Al di là di tutte le raffinatezze filosofiche di B (utilizza la tecnica continua del paradosso,
si serve delle metafore, lettura difficile dove l’espressione del paradosso usa continua metafore,
93

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)


lOMoARcPSD|1490669

solo uscendo dalla metafora comprendiamo il senso del discorso) il messaggio ultimo è che il
dominio del virtuale segna il dominio della tecnica, di quei dispositivi tecnologici che hanno
contribuito a uccidere la realtà, quegli strumenti connessi al mondo della riproduzione. Il problema
di B è: se il moderno è il trionfo di una cultura della rappresentazione (la filosofia è il tentativo di
rispondere alla domanda kantiana che cosa significa rappresentare il mondo), il tentativo di B,
come quello di tutti i postmoderni, è quello di decostruire il sistema della rappresentazione,
perché una rappresentazione trascendentale non è più possibile. (1.25), in quei meccanismi dove
la rappresentazione diventa sociale, quindi la decostruzione non può più avvenire sul piano della
ricerca teorica. (1.25-fine).

94

Scaricato da Luca Meloni (ziohomer@live.it)

Potrebbero piacerti anche