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Nicola Perullo

Piedi, linee, tempo, labirinto

L’ecologia della vita come corrispondenza a partire da Tim Ingold

Interaction is between; correspondence in-between

T.Ingold

In this paper I present some crucial aspects of Tim Ingold’s recent works that are particularly important for a ecological
approach to philosophy and life. According to Ingold, ecology has to do with inhabiting a world of lines. This is to say
that, rather than an interaction between organism and environment, we should change our perspective and think of
organism and environment as a single unit, a complete entity differenciates in the midst of the occuring and flowing
experience. The world has not object, instead fluid intertwoven lines. Ecology then is not something abstract, or a mere
field of study: it is the ongoing process of continous transformation and evolution of life, and it has to be understood as
a movement of lines, a mashwork of lines. To understand that, we need to achieve an education to perception and
imagination free from the logic of any fixed ontology.

Key Words: Lines, Ecology, Perception, Movement, Education, Correspondence.

Non c’è ecologia senza percezione. Bisogna dunque innanzitutto comprendere di quale percezione
parliamo e quale approccio percettivo adottiamo per poi, di rimando, modellare un’ecologia. Occorre
capire, prima formalmente, su un piano descrittivo, quel che (ci) accade mentre percepiamo, quando,
dove e naturalmente che cosa percepiamo. Del resto, lo aveva già mostrato James Gibson: la
percezione è sempre intimamente ecologica, perché immersa in un ambiente nel quale e attraverso il
quale nasce, vive e si sviluppa. Basta esserne consapevoli e trarne le conseguenze. Ma come si
guadagna questa consapevolezza? È sufficiente una teoria della percezione? Gibson inventò il
concetto di affordance, che è ancora uno spunto molto utile per cominciare a pensare l’interazione tra
organismi percettivi e ambiente: un mondo di possibilità che si aprono, di informazioni e di inviti che
si costruiscono di continuo. Nella frase “interazione tra percezione e ambiente”, tuttavia, c’è già il
problema dal quale prenderò le mosse: in Gibson (come in buona parte del pensiero filosofico
successivo) l’ambiente resta “qualcosa” di separato e, almeno in linea di diritto, differente da chi lo
vive e lo percepisce, una sorta di contenitore. Uno spazio occupato da varie entità viventi, soprattutto
esseri umani. Da una parte quindi i percettori, dall’altra l’ambiente percepito, per quanto
inestricabilmente intrecciati. Questo modello, così dato per scontato, è quello che intende la relazione
come inter-azione, come rapporto attivo tra enti di diritto isolati. Questo modello, dunque,
presuppone l’idea che esistano, e siano concepibili nella loro essenzialità, entità discrete, individuali,
prima del loro legame. È possibile un approccio diverso all’ecologia della percezione? Se è così,
dovremo comprendere diversamente la percezione e dunque l’ecologia. A questa base dell’edificio,
dovremo però subito aggiungere mura e tetto: se è vero che non c’è ecologia senza percezione,
altrettanto vero è che non c’è percezione senza educazione e formazione, senza un ethos del percepire.
Nessuna epoché, nessuna sospensione neutrale, nessuna descrizione senza partecipazione è possibile;
dunque, nessuna iato tra una presunta dimensione oggettiva del sapere e la sua messa a terra sul piano
delle scelte. Come allevare allora la percezione in modo da guadagnare una comprensione che sia un
vero e proprio modus vivendi?

Ecologia, percezione, educazione saranno i grumi concettuali discussi nel testo presente. Come dire
allora che parlerò non di concetti, ma nientemeno che di esperienza, perché ecologia, percezione ed
educazione sono esperienza. E l’esperienza, che non è mai immediatamente neutrale, rimanda e
richiama modelli epistemici, etici, estetici, educativi. E quindi politici. Nessuna ecologia senza
percezione, nessuna coscienza ecologica senza un approccio percettivo adeguato. Come fare
esperienza, come percepire ecologicamente? Attraverso un costante esercizio di apertura, di
esposizione all’accadere come tale, occorre stupirsi innanzitutto della vita in sé, della vita che a ogni
momento rinasce, come aveva visto già Merlau-Ponty (“La nature est au premier jour”). Questo
esercizio però non si configura come pura remissione passiva nel senso di un ritrarsi a osservare.
Tutt’altro. Ha a che fare con l’immaginazione, perché questa percezione non è solo memoria ma è al
tempo stesso fantasia, creazione.

Nel suo ultimo, straordinario libro, The life of lines, capolavoro che va oltre ogni barriera disciplinare
ma che delinea bene il suo autore come filosofo totale – a mio giudizio il maggiore filosofo vivente
- Tim Ingold accenna nel capitolo finale anche ai concetti di ecologia e economia1. Questo trentesimo
capitolo, intitolato The correspondence of lines, arriva alla fine di una fitta serie di brevi e densi
capitoletti di poche pagine, conclude riannodando la moltitudine di problemi e temi presentati
attraverso alcune parole chiave del lessico delle scienze sociali e dell’antropologia: parentela e
affinità, rito e religione, politica e diritto e, appunto, ecologia e economia. Nella Prefazione del 2011
alla nuova edizione di The Perception of the Environment Ingold chiarisce bene l’evoluzione della
sua ricerca e del suo pensiero rispetto all’opera del 2001, individuando tre punti fermi di sviluppo
del suo percorso e una differenza rispetto ad allora. Essi sono: la dinamica del movimento a piedi
(pedestrian movement); la linearità di fili e tracce; la creatività della pratica2. La differenza riguarda
il passaggio dal concetto di abitare nel mondo (dwelling) a quello di abitare lungo il mondo come
vivere con il mondo (inhabiting). Quale può essere la rilevanza di questi punti rispetto alla questione
dell’ecologia come processo continuo di educazione percettiva che modifica il paradigma
convenzionale di percezione nell’ambiente circostante? Come vedremo, sarà proprio questione di
circostanze e di circolarità, della messa in questione dei cerchi a favore della linearità di tracce e fili.

Secondo Ingold, che riprende consapevolmente tutta la riflessione filosofica al riguardo (da Klee a
Deleuze e Guattari) l’essere vivente è una linea mobile. Siamo linee, percezioni locomotrici, sempre
su un percorso – intrecci di fili e di altre linee, coaguli di nodi che continuamente si alterano e si
modificano. Non ci muoviamo in un ambiente (environment) già dato, piuttosto lungo di esso,
facendo, partecipandolo nel suo divenire ininterrotto. L’ambiente come mondo-ambiente, più in
generale come contesto, non è mai assolutamente statico, è “fatto”, intessuto, istoriato continuamente.

1
T. Ingold, The Life of Lines, Routledge, London and New York, 2015. Insieme a Being Alive, Routledge, London and
New York, 2011, e a Making, Routledge, London and New York, 2013, questo libro costituisce una sorta di trilogia
solidale e compatta (anticipata parzialmente anche da Lines: A Brief History, Routledge, London and New York, 2007)
che affronta da angolature diverse, con sottolineature e tonalità differenti, gli stessi temi e problemi.
2
T. Ingold, The Perception of the Environment, cit., pp. xv-xviii.
Come enti viventi, ci muoviamo sempre along, lungo la crosta del mondo, facendolo a ogni passo.
Non ci sono soggetti senzienti e oggetti sentiti, perché il mondo stesso sente: noi siamo e produciamo
(pro- ducere) il mondo che sente con noi. Sotto questo profilo, l’animismo acquista una luce nuova:
non oggetti o corpi che hanno il principio vitale dentro (come animus, soffio) ma enti che si muovono
e si incontrano, facendo(si) vita a vicenda. Essere vivi è pertanto sempre nel modo gerundio (being
alive), implicando un movimento; questo movimento avviene lungo sentieri, questi sentieri sono le
linee che produciamo vivendo. Come lo scorrere di un fiume. Il punto è che ce lo dimentichiamo: ci
siamo troppo concentrati sulle sponde del fiume (le solidificazioni, gli argini, gli oggetti "prodotti"),
trascurando che senza fiume non ci sarebbero sponde. Il fiume scorre, secondo una traiettoria
intransitiva, che vale per sé. Come sentire questo fluire di linee e filamenti? I piedi ci aiutano.
Concentrarsi sulla dinamica del movimento a piedi è una strategia filosofica radicale, che Ingold
incastona con esempi tratti dall’antropologia e dalla storia ma che ha un valore fenomenologico ed
esistenziale generale. Molte delle opposizioni gerarchiche della modernità scientifica e filosofica
dipendono dalla subordinazione dei piedi e, più in generale, dalla gerarchia tra parte superiore e parte
inferiore del corpo. La cognizione ha a che fare con lo stare seduti, la locomozione con il camminare
e dunque con i piedi. Quando si discute dell’umano in riferimento all’acquisizione della stazione
eretta, ci si concentra solo sulle mani e molto poco sui piedi, che pure sono il supporto sul quale non
solo tocchiamo terra, ma ci muoviamo. Ridotti a puro mezzo di locomozione, una rimozione che -
come Ingold spiega bene – è connessa allo sviluppo delle calzature (più le scarpe diventano elemento
scontato e necessario del vivere civile, più si perde la percezione della differenza tra i vari tipi di
suolo, così anche l’attrito stesso del terreno e della terra sul nostro corpo e sul nostro movimento
viene allentato), i piedi scompaiono dall’orizzonte cognitivo, intellettuale, culturale e sociale3. I piedi
vengono percepiti solitamente come mero mezzo di locomozione perché, con la loro chiusura dentro
protesi che hanno la funzione di attenuare l’impatto con il suolo, la terra e i suoi materiali, hanno
progressivamente perso la funzione apprensiva. Divengono strumenti di trasporto da un posto
all’altro, apparentemente neutri, senza toccare terra. La mano nuda, prensile, diviene il più profondo
alleato della mente e della creazione dei concetti: com’è noto, la mano comprende (comprendere,
Begreifen, in tedesco significa anche afferrare), appunto manipola, da qui la manifattura e il disegno.
Disegnare idee, poi: design come attività mentale. La connessione tra mano e cervello, connessa alla
stazione eretta, allo sguardo verso il cielo e l’orizzonte produce tutta la gerarchia del sensibile, la
distinzione tra sensi distali e prossimali: vedere lontano è superiore al toccare, e ancora di più
all’introiezione della percezione gustativa e olfattiva4. È chiaro dunque a cosa mira in profondo il
recupero della dimensione del movimento pedestre: non è tanto una “filosofia del camminare”, quanto
la presa in conto del movimento a terra come condizione della vita e dunque del pensiero come tale.
Pensare, leggere, scrivere camminando: sono proposte che anche Ingold fa proprie e che rimandano
a un modello dove l’ecologia non è sapere astratto sull’ambiente e sul mondo quando esperienza in
vivo, abito, modo di vivere. L’ecologia non può che essere “ecologia della vita”, come già nel primo
saggio di The Perception of the Environment risulta chiaro fin dal titolo: “Culture, nature,
environment. Steps to an ecology of life”, dichiara Ingold, con un esplicito rimando anche a un altro
dei suoi fondamentali riferimenti, Gregory Bateson.

Percepire il mondo coi piedi è una mossa necessaria per un’educazione ecologica; superare la logica
di insulti come “pensare coi piedi” o “atteggiamento pedestre” a favore di un modello di movimento

3
T. Ingold, Being Alive. Essays on Movement, Knowledge and Description, cit., pp. 33-50.
4
Cfr. C. Korsmeyer, Il senso del gusto. Cibo e filosofia, a cura di Nicola Perullo, Aesthetica, Palermo, 2015.
non basato sul paradigma del trasporto (transport), il passaggio da un punto all’altro a cui mirano i
turisti viaggiatori (travellers), ma su quello del attraversare una via (wayfaring) proprio dei
camminatori (walkers)5. Tutto ciò ha a che vedere con la scrittura, un tema che Ingold ha trattato in
profondità sin da The Perception of the Environment e che torna incessantemente anche nei lavori
recenti: cosa è una linea se non la scrittura del mondo? Ingold, richiamandosi anche a Vico e a
Derrida, collega la scrittura alla rivalutazione del movimento pedestre, del camminare scalzi, al fine
di proporre un nuovo paradigma scrittorio manuale 6. In una trasmissione radiofonica andata in onda
due anni fa sulla rete della BBC, alla domanda su quale potesse essere “la grande invenzione
necessaria per salvare il pianeta” ha risposto “una nuova forma di scrittura a mano” che, come si legge
nel testo, è profondamente implicata al camminare. Ecco le note lette da Ingold alla radio, da lui
gentilmente inviatemi:

“I would change the world by inventing a new form of writing, the effect of which would be to render all
keyboards and screens obsolete. This writing would have the following properties. First, its graphic elements
would be shaped by expressive movements of the body, especially arms, hands and fingers. Secondly, it its
lines would be made with a simple hand-tool, by causing a dark liquid to flow by gravitational and capillary
force into a light but absorbent surface. And third, it would be readable directly from these surfaces, without
requiring any electrically powered device. This new writing system would have many advantages over the
system to which we are accustomed. It would have a hugely greater expressive range, communicating not just
by choice of words or emoticons, but by subtle nuances of line and texture. The materials it would need – the
liquid used, the tools and writing surfaces – could all be simply and inexpensively made from naturally
renewable resources. And it would involve no consumption of electrical energy. This new system would be
cheap, sustainable and green, perfectly adapted to the demands of life in the 21st century.”

Pensare e percepire la vita come scrittura, come linea, anzi fasci di linee, tracciati di nodi e di intrecci,
che effetti ha sulla nostra comprensione del mondo e di noi stessi? Camminare è tracciare, muoversi
lungo piani che si incrociano producendo altre linee, tracce, fili e ulteriori piani. Questa descrizione
della vita e degli esseri non deve essere intesa metaforicamente, ma in senso proprio letterale: la vita
degli esseri è un flusso che nasce, si sviluppa, si trasforma continuamente tra masse, spirali, grovigli
e linee di attraversamento/scorrimento non sulla superficie del mondo ma in essa, nel senso che è
questo incessante processo a costituirla. In questo senso, Ingold propone di sostituire il paradigma del
network, come reticolo costituito da inter-connessione di punti-monadi, isolati e isolabili di diritto
seppure sempre in relazione, con quello del meshwork quale tessuto di fasci di linee intrecciate, linee
di vita, crescita e movimento. Non un network di punti inter-connessi ma un meshwork di linee
intrecciate ab origine: il meshwork è il mondo che abitiamo, dunque il mondo è un reticolo fluido.
L’ontologia che Ingold ci pone davanti è un’ontologia fluida, di intrecci e di costituzioni evoluzioni
e decadimenti incessanti, dunque è una ontologia che non c’è. Non esistono oggetti o enti individuali,
singoli, ci sono solo sostanze che fluttuano tra cielo e terra per il medium dell’aria, mescolandosi e
intrecciandosi, mutando vicendevolmente. La percezione dell’ambiente è così una percezione senza

5
Uno studioso italiano che lavora nel gruppo di ricerca di Ingold ad Aberdeen, Paolo Maccagno, antropologo e
maratoneta, non a caso ha dedicato alla maratona un libro molto bello dal titolo Lungo lento. Maratona e pratica del
limite (Quodlibet, Macerata, 2015). Questo saggio mira a far comprendere come la maratona rappresenti un’esperienza
liminare in cui i confini della soggettività come identità fissa si perdono, in un’esperienza di fusione con l’intorno del
mondo e il ritmo della vita della terra.
6
Cfr. T. Ingold, Being Alive, cit., p. 50, ma anche The Perception, cit. pp. 392.405, and Making, cit., pp. 125-141
oggetti, perché l’ambiente è senza oggetti: il mondo lungo il quale abitiamo, facendolo, non è un
paesaggio (landscape) da contemplare e neppure nel quale saremmo (noi, io, chi? non c’è identità
ipostatica) immersi, ma un mondo fatto di tempo. Il tempo nel senso del weather, però, non nel senso
del time/Zeit filosofico; il tempo sono i materiali del mondo, solidi, liquidi, fluidificati col medium
dell’aria7. Questa insistenza sugli elementi basici della vita è ciò che fa di Ingold un filosofo totale,
nel senso pre-moderno del termine, e che restituisce al lettore stimoli continui, di pagina in pagina.
Conseguenza ulteriormente radicale: le differenze tra entità, tra persone, cose e luoghi, tra me e altro,
non sono differenze categoriali di essenza. Sono posizionali, funzionali, più o meno brevi
cristallizzazioni dentro campi di forze e di ridefinizioni di forme; un plesso continuo di crescita,
sviluppo e decadimento di relazioni. Così, le identità sono multiple, non esiste alcuna ipostasi di “io”
e di “altro”, di “soggetto” e di “oggetto”. Le cose del mondo, tutte, non sono oggetti, sono nodi,
intrecci.

Oltre il concetto di intersoggettività, dunque, che vede la relazione come un insieme di unità discrete
e separate, si apre qui il mondo fluido senza oggetti e senza entità fisse dove la soggettività è sempre
in-between. Dall’inter-subjectivity all’in-between; questo essere tra viene espresso anche con la
forma media del mid-, il midstream come “forma” del divenire. Proprio qui (un qui che naturalmente
mai si afferra, essendo sempre già lì) avviene la conoscenza: muovendosi (wayfaring) attraverso linee
continue, che trapassano senza soluzione di continuità le une nelle altre, conosco in quanto mi muovo
partecipando, abitando, integrando il processo che produco8. La conoscenza (e di conseguenza la
cultura) non è un’integrazione verticale o laterale di dati, un’acquisizione successiva di elementi, ma
la continua generazione della pratica di abitare il mondo. Detto in altri termini, ci sono solo storie da
raccontare, perché il movimento stesso è la conoscenza. Ma al tempo stesso, ci sono solo esistenze
come compito da realizzare. In un altro, meraviglioso saggio di The Life of Lines intitolato To human
is a verb, Ingold propone di pensare l’umanità non come dato ma come compito infinito: dal
paradigma secondo cui l’umano è un dato da raggiungere, fisso e identificabile (“becoming human”),
modello che si risolve nell’idea di un processo di umanizzazione già definibile, e che scandisce anche
tutta la retorica del passaggio dai selvaggi ai civili, dagli infanti agli adulti, e così via, si passa al
modello dell’umanificare (“human becoming”), del fare-umanità come compito incessante e mai
definito in partenza. Riprendendo temi e suggestioni da Lullo (che aveva coniato il verbo homificare,
reso da Ingold con “to humanify”) ma soprattutto da Ortega y Gasset e Bergson, Ingold sostiene che
l’essere umano si dà sempre e solo nella forma del gerundio, del da farsi: “life is not; it goes on”9. La
vita è questo incessante processo di movimento, conoscenza e descrizione che produciamo a ogni
istante; la vita si fa e si partecipa, si descrive e si osserva sempre dal di dentro. La narrazione tiene
unito ciò che la classificazione e l’ontologia fittiziamente separano. “Knowing from inside” è anche
un altro modo con cui Ingold ha caratterizzato la sua ricerca recente, che potremmo anche definire
come il tentativo di dire - attraverso una prosa avvincente, che regala a ogni pagina suggestioni nuove,
respiro e luce - quell’unità di pensiero e azione che di fatto nella classificazione del detto si perde.

Come percepire, come sensibilizzare la percezione al muoversi lungo (along) strade e percorsi invece
che allo stare nel mondo, alla vita come compito invece che come dato, alla conoscenza come

7
T. Ingold, The Life of Lines, cit., pp. 69-72.
8
T. Ingold, Being Alive, cit., pp 153-155.
9
T. Ingold, The Life of Lines, cit., p. 117.
osservazione partecipata invece che come separazione ontologica? Possiamo distinguere tra due
approcci percettivi: una percezione laterale, latitudinale, che Ingold definisce “ottica”, e una
percezione longitudinale, “aptica”. In questo caso, la vista e il tatto devono essere intesi in senso
metaforico: si tratta infatti di approcci percettivi generali e trans-sensoriali. L’approccio ottico
percepisce oggetti, riferendosi al risultato, alla “cristallizzazione” dei processi in isole temporanee di
stasi e di funzionalità standard, stabili. L’approccio aptico, invece, percepisce processi. La tattilità
dell’aptico non è la tattilità della mano che comprende afferrando: l’approccio aptico è scorrimento
sulle superfici e sui sentieri lungo cui camminiamo, un attrito continuo che produce il tragitto nel
corso del quale intrecciamo altre linee creando quei nuovi nodi tra elementi solidi, materiali, aerei e
luminosi che chiamiamo “ambienti”. Noi non siamo dentro un ambiente, noi lo abitiamo
attraversandolo. Sulla cresta della superficie che attraversiamo, ne sentiamo la sostanza. D’altra parte,
Merlau-Ponty quando parla della vista del pittore intende proprio riferirsi a questa modalità: vedere
il cielo significa, qui, vedere con il cielo, essere assorbiti dalla sua luce, e dalla sua presenza in una
relazione di reciproca affezione. In un mondo senziente, non ci sono oggetti e soggetti di percezione;
la percezione, invece, inerisce al “movimento creativo dell’emergenza, in cui “le cose diventano cose
e il mondo diventa mondo”10. L’approccio aptico percepisce i materiali attraverso cui qualcosa si fa
prima che l’atteggiamento ottico li solidifichi in oggetti stabili11. Ingold suggerisce di pensare ai
materiali come processi continui e concreti di costituzione delle sostanze (il legno, la pietra, la
terracotta, la plastica, ecc.), anziché alla materia, perché quest’ultima rimanda a un’astrazione mentale
che, fatalmente, produce un’ipostatizzazione rispetto alla quale viene richiamato il concetto di forma
come design/mente, imposizione di un’intenzione sui bruti dati della vita. Se si percepisce
processualmente, emerge la realtà dei materiali (materia viene da mater, la madre che genera e che
ho conosciuto, toccando e toccato, mescolando superfici e sostanze a mia volta io mescolata sostanza)
anticipando il “dato” come prodotto e toccando il prodursi mentre si fa. S’immerge nel flusso,
percepisce i processi che incessantemente realizzano oggetti. In questo approccio, non vi sono
l’esterno e l’interno: è una caratteristica fondamentale delle linee, quella di non avere interno ed
esterno ma appunto di scorrere. Partecipare al flusso non impedisce la solidificazione, che si assesta
come stabilità ottica del movimento. Da un certo punto di vista, questa cristallizzazione è necessaria.
Isole di presenza, momenti di stasi, posizioni e funzioni sulle quali ancoriamo ontologie fluide, di
passaggio. Come il flusso di coscienza, che viene fissato in immagine e poi torna a sua volta
percepibile come un testo: fuori/dentro, dentro/fuori, in un movimento incessante produttivo di vita
e di conoscenza. Una sedia di legno è percepita otticamente come oggetto e come funzione prodotta
quando mi ci siedo. Se la scartavetro o la taglio con una sega, invece, questo fare mi riporta più
facilmente alla vita concreta e al processo del materiale che l’oggetto-sedia lascia in ombra; mentre
agisco sul materiale, l’oggettualità della sedia si ritira ed emerge la sostanza nodosa e processuale che
la renderà tale. Facciamo un altro esempio, legato al gusto del vino. Diversamente da quanto propone
un approccio ottico al gusto, basato su analisi sensoriali e referenziali di tipo oggettivante che mirano
a restituire mappe ontologiche (quali sapori, quali profumi, quali aromi ci sarebbero nel vino),
approcciarsi apticamente al gusto del vino significa accarezzarlo e farsi accarezzare, mescolando le
nostre sostanze alle sue, richiamando i suoi materiali insieme coi nostri, come una reciproca e
continua penetrazione, e percependolo così prima della sua solidificazione in oggetto, prima della sua
analisi come mero bene prodotto. Bevo e sento la roccia, la terra, il cielo, l’aria e l’acqua, il sole e le

10
Ibid., p. 84.
11
T. Ingold, Making, cit. pp. 17-31 e pp. 109-124.
nuvole, le foglie della pianta e l’uva matura; sento il fermentare dell’uva, il calore alcolico e il lavoro
del vignaiolo, lo stile e il carattere che si sono venuti creando nelle relazioni che mi han preceduto e
che incontro, prolungando l’intreccio di linee e così, in definitiva, vivendo. Questo vino non è mai
solo questo: è me che lo incontro nel flusso d’intorno dove scorrono le cose del mondo. Quando
diciamo: questo vino mi è piaciuto più oggi dell’ultima volta, quello che stiamo dicendo non è che
“il vino” – quello – è cambiato; stiamo dicendo che l’intreccio e dunque l’incontro è cambiato, e che
anche noi siamo cambiati con lui. In questa piccola torsione di senso, nella differenza di questa
sfumatura sta tutto l’enigma della creazione della vita a ogni istante, della natura sempre come il
primo giorno, e il nostro conseguente stupore12.

La percezione aptica è memoriale ma, in quanto sempre processo che si produce, apre il campo della
creatività e dell’immaginazione, chiamando anche a un diverso atteggiamento verso le regole e
l’esattezza. Il tatto pone la questione dell’esattezza, come hanno osservato, tra tanti altri, anche
Jacques Derrida e Jean-Luc Nancy. Cosa è l’esattezza? Quando Baumgarten inventa l’estetica come
disciplina, l’idea è di offrire un ricovero giustificato alle piccole percezioni, alle qualità non
misurabili, al non so che, alle passioni e ai sentimenti. L’estetica, seguendo Leibniz, era la scienza
della sensibilità in quanto conoscenza chiara e confusa. L’approccio aptico accetta fino in fondo la
sfida che tale confusione comporta, la sua irriducibilità alla distinzione e all’analisi nel discreto.
Invece, la percezione ottica, non solo quella della logica e della scienza razionale ma anche quella
dell’estetica oggettuale, desidera chiarezza e distinzione. L’estetica subisce così immediatamente il
suo scacco, tradendosi e risultando perciò irricevibile – tanto per la ragione quanto per
l’immaginazione – quando si consegna all’inattingibile esattezza a cui aspira, sottraendo lo sguardo
dal flusso partecipato dentro i processi. Illudendosi di guadagnare legittimità “scientifica” in quanto
sapere di, finisce per perdere il suo carattere specifico di sapere con: situato, singolare e sempre im-
plicato nel processo che descrive. Semplicemente, nessun disinteresse è possibile. L’estetica
disinteressata è un’illusione prospettica. Non si tratta di opporre a un’estetica razionale un’estetica
sentimentale, perché la vita in quanto meshwork precede ogni ipostasi e classificazione, mente/corpo,
ragione/emozione, interno/esterno, ecc. Il punto, quindi, rispetto all’estetica, sembra quello di
abbandonare il progetto dell’estetica moderna e borghese dell’oggetto, del prodotto, del criterio di
valutazione e dell’unico dio (non è un caso che l’aptico trovi, con l’estetica moderna, difficoltà
nell’arte, e che la scultura perda progressivamente la sua caratteristica tattile per diventare distale e
oggettuale - “si prega di toccare”, ammoniva Duchamp) a favore di un’estetica sciamanica, plurale e
pagana. Queste riflessioni pongono il pensiero di Ingold, che più volte ha rivendicato il valore
dell’alchimia13, dello sciamanesimo e del paganesimo, anche vicino al pensiero taoista e buddista. Si
tratta di sensibilizzare la nostra percezione a una pragmatica dell’esperienza come tale, che non vive
l’assenza di sistemi e di teorie definitive come una mancanza ma come una risorsa. In questo pensiero
della Raccolta della roccia blu, classico del buddismo Zen, risuonano corrispondenze con la
prospettiva che stiamo indicando:

12
N. Perullo, Epistenologia. Il vino e la creatività del tatto, Mimesis, Milano, 2016, pp. 51-58.
13
Cfr. T. Ingold, Making, cit., pp. 28-31.
“Quando i sentimenti di giudizio della coscienza intellettuale terminano, solo allora potete vedere fino in fondo.
E quando vedrete, allora, come nei tempi antichi, il cielo è cielo. La terra è terra. Le montagne sono montagne.
I fiumi sono fiumi.”14

A partire da quanto descritto finora, si comprenderà il senso del passaggio terminologico dalla
“dwelling perspective”, la prospettiva dell’abitare nel mondo proposta in The Perception of the
Environment al senso dell’“inhabiting along”, dell’abitare lungo, insieme a, un mondo di linee
presente nei testi recenti. Certamente, la prospettiva dell’abitare veniva già lì contrapposta, pure in
chiave ecologica, economica e politica, alla prospettiva della commodity, dell’oggetto prodotto, del
mercato, dell’individualismo, del tempo misurabile; si legava a una critica del paradigma esternalista
della conoscenza, basato su deleghe e continue protesi tecnologiche. La prospettiva dell’abitare
mirava a proporre la questione del task, dei compiti e delle interdipendenze comunitarie al centro del
progetto antropologico e filosofico di Ingold15. Su tutto questo la linea di ricerca di Ingold corre
continua. Tuttavia, nell’idea di “dwelling” risuonavano ancora echi heideggeriani, “dimoranti”, rischi
e fraintendimenti di localismo e di chiusura. Si potrebbe dire che “inhabiting a world” è una
prospettiva nomadica che, avendo radicalizzato il proprio modello nei termini di un progressivo
processo di desoggettivizzazione, è caratterizzata da apertura al mondo, radicale esposizione
(exposure) e vulnerabilità. La dwelling rimaneva una prospettiva ancora legata alla figura del cerchio,
con un interno e un esterno e forse direzioni precise; la concezione lineare non ha confini e non ha
direzioni e l’improvvisazione come regime della creatività pratica quotidiana gioca un ruolo
importante. Ecco che si chiarisce la diversa tonalità del termine ecologia: l’oikos è il meshwork stesso,
il mondo/vita; l’ambiente senza oggetti non ha confini di sorta. Per comprendere fino in fondo il
portato radicale dell’approccio di Ingold, occorre mettersi nella prospettiva, inizialmente spaesante e
poco rassicurante, secondo la quale organismo e ambiente non sono due entità in relazione una con
l’altra, quanto un’unica entità complessiva, che si differenzia solo in modo funzionale, posizionale,
esperienziale, as we go along. Queste differenze, dunque, non sono mai le “stesse” ma mutano a loro
volta, differenziandosi.

L’educazione alla percezione ecologica come modo di vivere abitando un mondo di linee – e dunque,
ri-creandolo a ogni istante – è un’educazione all’attenzione. L’opera antropologico-filosofica di
Ingold è una paideia peculiare, che mette in questione gli stilemi convenzionali della conoscenza
come integrazione verticale e laterale di sapere e della cultura come acquisizione di dati e conoscenze.
L’idea della conoscenza qui in gioco richiama l’antica nozione di saggezza piuttosto che la sapienza
moderna16. Il seguente estratto è particolarmente icastico e si ricollega, da una parte, all’efficacia del
movimento pedestre, dall’altra all’idea di esperienza diretta come abilità percettiva di “vedere le cose
stesse”. Nulla di più lontano, ormai sarà chiaro, dal naturalismo ingenuo e dall’idea di esperienza
autentica e auto-evidente. Si tratta piuttosto di fare un lungo percorso di allenamento e di disciplina,
al fondo del quale sta un cambiamento complessivo di percezione e di paradigma del mondo, che ho
prima chiarito riportando un importante pensiero buddista. Dice Ingold:

14
Citato in G. Pasqualotto, Estetica del vuoto: arte e meditazione nelle culture d’Oriente, Marsilio, Venezia, 1992, p. 12.
15
Cfr. T. Ingold, The Perception of the Environment, cit., pp. 323-338.
16
Cfr. su questo tema della saggezza, in rapporto a questa concezione, anche il mio Taste as Experience. The Philosophy
and Aesthetics of Food, Columbia University Press, New York, 2016, in particolare il quarto capitolo: “Wisdom of Taste,
Taste of Wisdom”.
“If you are educated to know too much about things, then there is a danger that you see your own knowledge
and not the things themselves. Here I argue that walking offers an alternative model of education that, rather
than instilling knowledge in to the minds of novices, leads them out into the world.” 17

Camminare come pensare, come esercitare il pensiero facendo: non “instillare conoscenza” ma
insegnare a imparare come esposizione lungo la strada. Subito dopo, Ingold propone la distinzione
tra due modalità di movimento lungo il mondo/meshwork, che corrispondono a modalità percettive e
a diverse e per molti aspetti antitetiche modalità di intendere la vita: il maze e il labyrinth, che in
italiano, seguendo la traduzione portoghese, potremmo provare a rendere rispettivamente con il
dedalo e il labirinto. Così Ingold:

“I compare these alternatives to the difference between the maze and the labyrinth. The maze, which presents
a series of choices but predetermines the moves predicated on each, puts all the emphasis on the traveller’s
intentions. In the labyrinth, by contrast, choice is not an issue, but holding to the trail calls for continual
attention. Education along the lines of the labyrinth does not provide novices with standpoints or positions, but
continually pulls them from any positions they might adopt. It is a practice of exposure.”18

Muoversi nel dedalo significa stare nel paradigm assiomatico delle intenzioni e delle scelte: so dove
voglio andare, e decido passo passo in base all’intenzione predeterminata quale incrocio prendere,
quale strada evitare; viceversa, stare nel labirinto significa lasciarsi guidare dall’attenzione, aprirsi
allo stupore dell’accadere e seguire una logica della cura, della sensibilizzazione, dell’affinamento e
della partecipazione più che della scelta. Nel labirinto, si procede dove cura, stupore, esposizione ci
portano. Nella logica del maze, le intenzioni guidano il percorso: è il modello in cui il design, le pre-
determinazioni di una guida o di un “esperto” competente (master) comandano. In questa logica, il
doing predetermina l’undergoing, per usare questa celebre coppia concettuale di origine deweyana
alla quale anche Ingold ha di recente dedicato profonde riflessioni (e più in generale, il tema della
vita sensibile-emotiva, come fascio di nodi creativi, è un punto che lega molto Ingold a Dewey).
Secondo la teoria intenzionale, l’azione modella la passione, la decisione individuale determina la
sottomissione al fluire complessivo della vita. Per intenderci: per spostarci dal punto da dove
partiamo a quello dove vogliamo arrivare, subiremo la fatica del viaggio. Questo subire sarebbe
dunque sottoposto alla scelta intenzionale, ma quanto è vero? Nella logica del labyrinth, viceversa,
la dialettica tra doing e undergoing è ribaltata, per amore di verità e di “realtà”: seppure sempre
reciprocamente richiamantesi, tuttavia è il secondo a determinare il primo termine della coppia. Ciò
che facciamo sta nel flusso della corrente da cui siamo trasportati. Non è una visione remissiva e
passiva, tutt’altro, perché richiama al compito infinito a cui ogni vita è chiamata, ma al tempo stesso
depotenzia ogni pretesa prometeica e individualistica, ogni superfetazione dell’io. La vita non è
subordinata all’agire, piuttosto è l’agire a essere subordinato alla vita. Con un esplicito rimando anche
a Jean Luc Nancy, Ingold parla così di un’azione senza “agente”, senza io intenzionante19. Così, la
filosofia di Ingold è anche una radicale critica delle cultura. Infatti, la cultura risulta essere un effetto
determinato della crescita e dello sviluppo, della formazione, del processo complessivo nel quale
fluttiamo e viviamo. In inglese questo processo di allevamento si dice nurture, termine che rimanda
a nurse, a nursery e dunque al prendersi cura. La cura precede ed è più importante della cultura.

17
Cfr. T. Ingold, The maze and the labyrinth: walking, imagining and the education of attention, trad. portoghese
in Horizòntes antropologicos [online], Porto Alegre, 2015, vol.21, n.44, p. 21.
18
Ibid.
19
T. Ingold, The Life of Lines, cit., pp. 143-146.
Nell’ultima parte dell’estratto citato questa pedagogia viene definita “povera”, utilizzando le parole
del filosofo dell’educazione olandese Jan Masschelein. Povera, perché non ha niente di insegnare in
quanto non ha da insegnare niente. Si tratta di un’esperienza continua e infinita di apprendimento, di
un imparare a imparare. Emergono qui anche i riferimenti a Deleuze (“piano di immanenza”) che
all’ultimo Foucault:

“The attention required by such a practice is one that waits upon things, and that is present at their
appearance. To ‘appear things’ is tantamount to their imagination, on the plane of immanent life.
Human life is temporally stretched between imagination and perception, and education, in the original
sense of the Greek scholè, fills the gap between them. I conclude that the ‘poor pedagogy’ provided
by a mode of education that has no content to transmit, and no methods for doing so, nevertheless
offers and understanding on the way to truth.”20

Dall’intenzione all’attenzione. L’osservazione partecipata non implica oggettivazione. Avere cura e


essere attenti al mondo, ai suoi processi e alle sue cose non significa intenzionarle. “L’osservazione
partecipata è un pratica di corrispondenza” – non nel senso della verità come corrispondenza, della
adaequatio rei et intellectus, naturalmente, ma nel senso della corrispondenza postale: domande e
risposte, azioni e passioni – “un modo di vivere in modo attento e di percepire ciò che incontriamo
lungo il tragitto della vita21. Mi piace vedere il pensiero che nasce e si configura in questo modo
come un’arte della cura (care) e del prendersi cura: un’arte del partecipare, del descrivere e dell’agire
senza voler controllare e dominare, senza intenzionare ma attenzionando, all’interno di una logica di
comunità e di condivisione radicali nella quale l’autonomia individuale (agency) è sempre all’interno
di un fluire più comprensivo, un agencing più che solo individuale che si fa nel processo. Se il
concetto di scelta rimanda all’orizzonte dell’autonomia e della libertà individuale, al tempo stesso
implicando una logica di mercato fortemente caratterizzata in termini moderni capitalistici, dove le
persone sono lasciate a se stesse in quanto “libere” di agire come più dovrebbe conseguire dai loro
bisogni e desideri (che invece sono indotti e sedotti dal marketing), il concetto di cura (care) rimanda
all’orizzonte comunitario della condivisione dei problemi e delle possibili soluzioni, ai legami e
all’interdipendenza sociale, a quel mondo costituito da compiti (tasks) più che di tempo/lavoro
monetizzato22. Nell’economia delle linee, sostiene Ingold, la produzione non deve essere considerata
né dal lato degli umani né da quello della terra/natura; invece, è la continua corrispondenza di passioni
(undergoings) della terra e di azioni (doings) umane. Produrre è perciò corrispondere con cura,
partecipando alle traiettorie delle vite non umane23.

Negli ultimi anni, la mia ricerca si è orientata verso una sempre più netta risoluzione contro ogni
possibilità di filosofare come pensiero di o pensiero su, cioè contro la pura tematizzazione di ambiti
da “comprendere” attraverso concetti. Cerco di proporre un modello filosofico dove non insegno
qualcosa ma insegno a imparare, imparando a imparare ogni volta io stesso. Per motivi contingenti e
biografici che ho sempre voluto esibire in modo disarmato e complessivo, mi è accaduto di sondare
questo progetto attraverso materiali alimentari, il cibo, il vino, ma si sbaglierebbe a intendere questi

20
Ibid.
21
T. Ingold, The Life of Lines, cit., p. 157.
22
Cfr. su questo tema Annemarie Mol, The Logic of Care. Health and the problem of patient choice, Routledge, London
and New York, 2008. Il caso affrontato qui è quello dei malati di diabete ma il modello ha un grande valore euristico
generale.
23
T. Ingold, The Life of Lines, cit., p. 155.
ambiti come temi studiati da una “prospettiva” filosofica. Sono innanzitutto vissuti. Nel mio ultimo
lavoro, Epistenologia. Il vino e la creatività del tatto, che può essere anche inteso come
un’elaborazione di alcuni dei percorsi dell’opera di Ingold che qui ho ripreso e rielaborato, il vino è
una sostanza/medium con cui realizzo incontri con “le cose stesse”: “Bevo per ricostruire o creare
una fibra, per mettermi in luce le connessioni nascoste tra le cose sfibrate del mondo”24. Potrei dire:
il passaggio da una filosofia del vino a una filosofia col vino oppure, creando una parafrasi che mi
pare efficace: from being expert to being alive. Ingold stesso, d’altra parte, in un saggio dedicato ai
“materiali della vita”, cioè a ciò che un’educazione all’approccio aptico del mondo dovrebbe portare
in luce al posto della sclerosi degli oggetti/prodotti, usa anche l’esempio della cucina. Non sorprende
affatto, perché la “povera” pedagogia che l’imparare a imparare ci propone, non può che riguardare
un’estetica e un’esperienza della vita quotidiana, niente di più alto o di gerarchicamente superiore,
semplicemente perché le gerarchie, qui, non hanno luogo. La nostra ecologia è un continuo esercizio
di presenza al mondo, da realizzarsi come continuo e interminabile affinamento percettivo, cioè come
ritmare continue corrispondenze. Una presenza al mondo, non un mondo di oggetti ma di linee.
Questa capacità produce vulnerabilità, stupore, comprensione, favorendo la creatività immaginativa
che sgorga a ogni momento dall’incontro con la realtà. È un esercizio di askesis che, come ha
insegnato Foucault, ci rende in grado, esponendoci, di fare esperienza 25. Anche i libri di Ingold, pur
essendo saggi accademici, colmi di riferimenti, rimandi e citazioni, sono veri saggi di esperienza:
certamente, si immagina, un’esperienza di scrittura, ma per noi soprattutto una vera e propria
esperienza di lettura, come tale difficile da restituire ex post nella sua compiutezza. Di certo,
leggendoli se ne esce trasformati e stupiti. Il discorso di Ingold è irriducibile – per suo stesso
programma – alla teoria come tale, alla teorizzazione e ai sistemi. Va letto, va praticato, va “fatto”:
ecco perché la cucina, come prassi nella verità del suo farsi:

“Next time you are making soup, pay attention to the way your stirring gesture with the spoon both induces
and responds to viscosities and currents of the mixed ingredients in the pan. What is odd is that studies of the
material culture of kitchens have generally concentrated on pots and pans, and spoons, to the virtual exclusion
of the soup. The focus, in short, has been on objects rather than materials. Yet on second thoughts, this is not
a division between what we find in the kitchen: objects here; materials there. It is rather a difference of
perspective. Householders might think of pots and pans as objects, at least until they start to cook, but for the
dealer in scrap metal, they are lumps of material.”26

La filosofia di Ingold vuole cucinare, non si accontenta e anzi neppure è troppo interessata a pensare
e contemplare il cibo, i materiali alimentari divenuti oggetti, a distanza. Nel fare c’è il pensare. Il fare
deve essere curato, è espressione di un’attenzione costante nei confronti della crescita e dello sviluppo
(undergoing) della vita come continuo processo morfogenetico In questo senso, ancora una volta, al
di là del ricchissimo teatro di riferimenti istituzionali occidentali che l’accompagnano, la sua
convergenza con il modello di pensiero non teorizzante né sistematizzante del taoismo e del buddismo
appare più che fondato. In un celebre testo di Dōgen – monaco giapponese del XIII secolo, fondatore
della scuola buddista Zen Sōtō – dedicato alla cucina e tradotto con Istruzioni a un cuoco zen, la

24
N. Perullo, Epistenologia, cit., p. 28.
25
Cfr. su questo tema Jan Masschelein, “Experience and the Limits of Governmentality”, in The Learning Society from
the Perspective of Governmentality, ed. by J. Masschelein, M. Simons, U. Brockling and L. Pongratz, Blackwell
Publishing, Malden, Oxford, Victoria, 2007, pp. 147-161.
26
T. Ingold, Making, cit., pp. 18-19.
pratica culinaria quotidiana in un monastero rappresenta una possibile via al raggiungimento
dell’illuminazione. Ogni giorno, il cuoco (tenzo) sceglierà il riso, le verdure e gli altri ingredienti e li
dovrà “maneggiare con cura come se fossero i suoi stessi occhi”. È necessario “tenere gli occhi aperti,
affinché non vada perso neppure un chicco di riso” tra quello preparato, dunque “tutta l’attenzione
deve essere concentrata sul lavoro”: il tenzo “dev’essere presente, prestando la massima attenzione al
riso e alla minestra mentre cuociono. Ciò vale sia se egli fa il lavoro di persona sia se ha assistenti
che lo aiutano a cuocere o a badare al fuoco”27. In questa concezione, ogni gesto è allo stesso tempo
mezzo e fine: soltanto considerando ogni passaggio non solo in modo strumentale è possibile avere
la massima cura nella realizzazione dell’opera. Nel taoismo, non c’è differenza tra gesti ordinari e
gesti artistici, perché l’arte consiste innanzitutto in un autoperfezionamento incessante a partire dal
quale, poi, ricadono come esiti finali le opere realizzate, anche un semplice piatto di riso e verdure:
la “cristallizzazione” in oggetti della percezione ottica. In effetti, è questione di atteggiamento: in un
altro passo, Dōgen precisa come l’ordinario possa essere oggetto di due possibili percezioni, quella
dell’incuria e della sciatteria inconsapevole e quella dell’attenzione e della sensibilità. È proprio
quest’ultimo sguardo che ne riscatta il valore:

“Quando preparate il cibo, non considerate mai gli ingredienti da una certa prospettiva ordinaria, né pensate a
essi solo con le vostre emozioni. Mantenete un atteggiamento che cerca di costruire grandi templi con verdure
ordinarie, che espone il buddhadharma con l’attività più insignificante. Quando fate una minestra con verdure
ordinarie, non lasciatevi trasportare da sentimenti d’avversione per esse né stimatele poco; ancora, non saltate
dalla gioia soltanto perché vi hanno dato ingredienti di qualità superiore per fare un piatto speciale.”28

27
Dōgen-Uchiyama Roshi, Istruzioni a un cuoco zen, Ubaldini, Roma, 1986, p. 19. Su questa tematica cfr. anche il
mio La cucina è arte? Filosofia della passione culinaria, Carocci, Roma, 2013, p. 71-72.
28
Ivi, pp. 19-20.

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