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Se allora… provando altrimenti

Controfattualità e digitale

Roberto Masiero

“ l’unico modo per stabilire se una parte del

nostro corpo è nostra è muoverla”

Vallortigara

Era un giorno qualsiasi di un tempo senza tempo che


gli antichi chiamavano Aion. Era il loro modo di tenere
assieme la vita e l’eternità. Theut, dio degli egizi,
inventore dei numeri, del calcolo, della geometria,
dell’astronomia, per non parlare di svariati giochi
come, ad esempio, i dadi, e creatore delle lettere
dell’alfabeto, si recò dal re Thamus a Tebe per
invitarlo a di ondere queste arti per il bene di tutti gli
abitanti del suo regno.

Ce lo racconta Platone nel Fedro.

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Ragionarono molto assieme sul potere delle tecniche
e quando arrivarono all’alfabeto Theut si ritrovò ad
a ermare che questa invenzione

“ …renderà gli egiziani più sapienti e arricchirà la loro


memoria perché questa scoperta è una medicina per
la sapienza e la memoria”.

Il re era in disaccordo e così disse:

“ O ingegnosissimo Theuth, c'è chi è capace di


creare le arti e chi è invece capace di giudicare quale
danno o quale vantaggio ne ricaveranno coloro che le
adopereranno. Ora tu, essendo padre della scrittura,
per a etto hai detto proprio il contrario di quello che
essa vale. Infatti, la scoperta della scrittura avrà per
e etto di produrre la dimenticanza nelle anime di
coloro che la impareranno, perché dandosi della
scrittura si abitueranno a ricordare dal di fuori
mediante segni estranei, e non dal di dentro e da se
medesimi: dunque, tu hai trovato non il farmaco della
memoria, del richiamare alla memoria. Della sapienza,
poi, tu procuri ai tuoi discepoli l'apparenza e non la
verità: infatti essi, divenendo per mezzo tuo uditori di
molte cose senza insegnamento, crederanno di
essere conoscitori di molte cose, mentre come
accade per lo più, in realtà, non le sapranno; e sarà
ben di cile discorrere con essi, perché sono diventati
portatori di opinioni invece che sapienti”.
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Ma cosa c’era prima dell’invenzione della scrittura? Si
comunicava? Certo con parole e con gesti. Il mondo
era, come ora, pieno di suoni, forme, colori, tracce.

Tracce che formavano, e formano, comunque insiemi


di senso, relazioni tra di loro signi cative, allarmi,
visioni, previsioni, attese, soddisfazioni e speranze,
cioè possibilità e relazioni, meglio, relazioni come
possibilità (Il nostro grande maestro, Platone, le
avrebbe argomentate come modi dell’eros).

Tracce, gesti, insiemi di informazioni e


comunicazioni, cioè linguaggi che vivono di una
qualche simpatetica relazione tra chi emette e chi
riceve e persino tra chi immagina di emettere e di
ricevere. Linguaggi che assimilano forma e
informazione. Nella prima risiede la seconda.

Questo intreccio è fatto di relazioni che si con gurano


come possibilità, come “intrighi” tra soggetti e
soggetti e tra soggetti e oggetti, e questo intreccio
sta alla base di ogni forma di intelligenza naturale e
arti ciale che sia: linguaggi, logiche, argomentazioni,
programmazione/i, computazione/i e algoritmi.

Quelle tracce, quei segni, sono ancora qui con noi,


anzi di più, in modo immane, là dove è risultato
evidente, nell’oggi, il profondo intreccio tra naturale e
arti ciale. Di questo ci dà conto, giorno dopo giorno
la scienza che ci accompagna in svariati modi nel
nostro dialogo con il tutto.

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Il sovrano ri uta il dono della scrittura in quanto
portatrice di una verità apparente visto che il pensiero
verrà con quel dono sradicato dall’uomo e impresso
in un supporto altro; lo ri uta perché separa
conoscenza da sapienza a ermando la superiorità
della seconda, regno dei loso .

L’esito di questo sradicamento per Thamus?


L’impressione - solo una impressione- di conoscere.
In più la perdita del possesso stesso della memoria e
la sua ( per il singolo soggetto) progressiva
atro zzazione che porta al depotenziamento della
sapienza e a un meno di umanità.

Theut pensa alla scrittura come ad un farmaco utile a


guarire; Thamus ritiene che il farmaco sia anche un
veleno e possa uccidere.

La scrittura è un bene o un male? Si sostituisce alla


nostra umanità o la integra? Rende la memoria un
mero arti cio o la espande sino a farla diventare un
patrimonio collettivo? Un in più di umanità? E
conoscenza e sapienza sono forse sorelle nemiche?
Per Teuth la scrittura ci rende più sapienti, per
Thamus ci disumanizza.

Chi sono i personaggi in gioco: Theut, una divinità, e


il potere contrapposto Thamus , la regalità. Il primo
generoso con il futuro; il secondo avaro e rivolto alla
conservazione di qualcosa che non è mai stato. Il
primo così potente da non avere il problema della
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potenza; il secondo destinato ad essere ciò che è
solo avendo il potere.

Uno che gioca con la tecnica; l’altro che la vuole solo


come strumento a propria disposizione. Uno che
a erma che la scrittura aiuterà conoscenza e
sapienza; l’altro che la scrittura produrrà mera
apparenza e non verità.

E poi c’è Socrate che dialoga con Fedro e che


sembra stare dalla parte del re Thamus: la
conoscenza non può che essere sapienza e non mera
abilità tecnica.

Ma c’è anche chi riporta il mito scrivendo il testo,


Platone che, ovviamente, sta anche lui dalla parte di
Thamus e quindi di Socrate, per poi immediatamente
e irrimediabilmente tradirla, visto che per far arrivare
sino a noi il suo pensiero si è a dato , lui e molti molti
altri, alla scrittura, cioè alla tecnica. E di questo suo
tradimento non possiamo che ringraziarlo.

Su questo tradimento ci sarebbe molto da ri ettere,


magari riprendendo l’argomentazione heideggeriana,
che ci porta a pensare che nell’età classica greca, in
particolare in Platone e di seguito in Aristotele, sia
avvenuto quell’evento che caratterizza ancora oggi il
nostro modo di pensare e fare, l’oblio dell’essere, la
separazione dell’umano da ciò che lo trascende.
Oblio che ha consegnato alla tecnica e non all’essere
stesso il dominio sul mondo e sull’uomo; quella
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tecnica che da mezzo per un ne si è fatta ne a se
stessa

Rispetto alle posizioni di Theut e di Thamus da che


parte mi ritrovo?

Di certo alla parte della generosità di Theut, nel suo


donare con le tecniche intelligenza collettiva, e non
certo dalla parte della regalità, che trattiene in sé, su
di sé, la conoscenza, la presuntuosa verità, forse in
ragione del suo stesso potere. Come si sa il potere
non può essere delegato se non perdendo parte della
sua stessa ragione.

E non sto nemmeno dalla parte di Platone che per


così dire ( mi sia concesso, pur sapendo e amando la
sublimità del suo pensiero e della sua scrittura)
predica bene e razzola male.

Si dirà: inevitabile! visto che il distacco uomo/essere/


tecnica è già avvenuto ( così ci dice Heidegger) come
in una sorta di destino. In qualche modo sembriamo
essere costretti con Platone a dubitare della
generosità di Theut, accondiscendenti alla volontà di
potenza di Thamus.

Cosa c’è in gioco in questo mito? Il fatto che


l’alfabeto è una tecnica che aiuta a dare ordine al
sapere ,il quale permette, comunque, di accogliere
l’insieme dei dati che la conoscenza accumula.

Tecnica, sapere, conoscenza, tutto insieme? Vuoi


vedere che c’è una relazione tra queste tre parole e, i
fatti relativi, più cogente di quanto immaginiamo?
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Forse ognuna di queste tre parole non sarebbe senza
le altre? La tecnica è anche un sapere e un modo
della conoscenza e così rimestando?

E noi cosa saremmo senza questo intreccio?

Più che un dono, quello che Theut sembra un invito a


prende atto di ciò che siamo, nella nostra stessa
nitudine, materialità, sicità, identità, temporalità, là
dove biologia e tecnologia si presentano assieme,
senza contraddizione alcuna.

Nel suo mito Platone ci racconta che l’arti cialità -


qualcosa che appare come contrapposto alla natura
(sarà poi vero?)- proprio in quanto pensiero, concetto,
conoscenza, azione può modi care - anzi, modi ca-
il mondo stesso nel quale viviamo. Il modo in cui
sappiamo , conosciamo e applichiamo tecniche fa il
mondo e produce mondi. E non solo questo mondo
ma tutti i mondi pensabili anche al di là
dell’immaginazione. In qualche modo ci fa presente
che forse tutto ciò che è pensabile è anche possibile
anche se non (immediatamente) fattuale. Forse è
questa preoccupazione che lo porta a ritenere che il
potere debba essere dato ai loso perché sapienti o
ai sapienti in quanto loso .

E accaduto solo allora che qualcosa repentinamente


o meno cambi?

Si è di uso il dono della scrittura ed è cambiato il


mondo?

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Certo, eccome! I miti , che non mancano mai di
tornare, non ci raccontano di ciò che sta oltre ai
tempi, ma anche degli eventi che possono cambiare
quel tempo. Il cambiamento assume spesso la forma
dell’evento e alle volte , non sempre, l’esito è un
capovolgimento totale della stessa realtà ( o di ciò
che sino ad allora è stato valutato come realtà)

E oggi?

Cosa succede oggi se Theut si presenta da Thamus


dicendo:

“ Ho un dono per te, per tutto il tuo popolo e persino


-ascolta! ascolta!- per il tuo potere. Questo dono è il
digitale”

E Thamus:

“Ma che cosa è il digitale, una nuova tecnica?”.

“Non solo”

risponde Theut al sovrano

“E’ un modo di pensare”.

“ Ma non avevi contro di me ottenuto con la scrittura


già quello che volevi?”

Riprende il re.

“Certo", incalza Theut , “L’ho fatto per il bene


dell’umanità e contro la tua volontà autarchica.
Comunque il digitale è molto di più della scrittura”.

“Spiegami”

C’è una improbabile umiltà nella voce di Thamus.

Theut fa un lungo respiro ( forse anche gli dei hanno


un’anima?) per dire:

“Con la scrittura l’uomo ( e quindi in qualche modo


anche noi divini) ha conservato e di uso valori saperi
e memorie riportandole in un supporto che può
durare nel tempo ed essere facilmente trasportato.
Con alfabeto, quello cuneiforme, ad esempio, o con i
gerogli ha, in vario modo, provato a identi care
rappresentazione, oggetto rappresentato e parola. Ha
poi imposto con gli alfabeti una corrispondenza tra un
suono e un segno che gli ha permesso di
destrutturare ma anche ricomporre le parole in un
processo astrattivo con importantissime conseguenze
non solo cognitive, ma anche tecnico-pratiche.
Ha con questo insieme addomesticato il pensiero
aiutando l’astrazione, la formalizzazione, la logica,
l’analitica, la capacità di classi cazione ,di sintesi e di
costruzione di ipotesi e quindi la elaborazione
teoretica.
Ha così potuto parlare del mondo, conoscerlo e
pensarlo per farne ciò che gli è più o meno utile. In
fondo vuole solo sopravvivere, come tutto ciò che
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esiste. E devo dire che in questo è decisamente molto
e ciente anche se spericolato. La conoscenza, i
saperi si sono costituiti come linguaggi in analogia al
mondo a partire dalla percezione sensibile . Il proprio
sistema percettivo (inevitabilmente umanissimo) si è
imposto come lo strumento primo per individuare e
concettualmente immaginare il reale, la
modellizzazione alla quale riferirsi per riconoscere la
cosalità dell’esistente, come la sua dimensione
virtuale”.

“E il digitale?”

Intercala Thamus.

“Tutto questo risulta ancora vitale nel digitale, ma


mentre la scrittura rende astratto il rapporto uomo
mondo con il linguaggio che struttura e da senso
( argomenta) questo rapporto, il bit che è l’unità di
misura della in-formazione non è qualcosa che
rappresenta e si sostituisce agli elementi che
con gurano sia le cose che le idee, ciò che è
materiale e immateriale, ma da una parte corrisponde
identitariamente agli elementi che con gurano la
cosa, e grazia alla sua modalità di riduzione
all’identico, cioè nel suo essere solo un bit ( traccia?
segnale? ) non è nella cosa stessa visto che la cosa
stessa materiale e immateriale non è niente altro che
che ciò che si genera nella relazione tra materia ed
energia: scarti e segnali …. In-formazioni”.

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“Vai al dunque, non menare il can per l’aia”

Interviene con aria autoritaria, da par suo, Thamus.

E così riprende Theut:

“Il digitale è molto di più di una tecnica, molto di più


di un supporto per dare senso alla organizzazione di
segni astratti, per signi care cose di questo mondo: è
non il solo mondo, ma anche i mondi possibili; è una
conoscenza che si fa immediatamente fattuale, cioè
che produce mondo e mondi, che non si fa intralciare
ad esempio la di erenza tra teoria e prassi; il digitale è
memoria di usa contenuta da luoghi che possono
sembrare metaforici visto che li chiamiamo cloud,
nuvole, ma che sono veri e propri laboratori sul reale
diventato un insieme di dati o se volete un insieme di
bit che vanno dall’organico, all’inorganico, dal reale
all’immaginario, da ciò che è plausibile a ciò che non
lo è e , persino dal vero al falso: che considera il tutto,
materiale e immateriale come stati di relazione, che
trovano, posizionandosi in possibilità pressoché
in nite, il loro status, la loro consistenza. Il digitale, il
mondo come dato, è al di là del linguaggio che
inevitabilmente lo parla e ci parla, il fatto che quel
dato può sempre essere altro da sé. E’ innanzitutto
potenziale in ragione delle stesse in nite possibilità di
relazione. Ma pur essendo parte del potenziale in nito
si conforma sempre non nel continuo (nell’in nità) ma
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nel discreto, cioè nelle singolarità che caso per caso
si vengono a con gurare.
Per comprendere Il digitale dobbiamo provare ad
essere così liberi e contriointuitivi da pensare che
tutto è linguaggio/linguaggi, scrittura/scritture, reale e
immaginario, memoria universale, di usa ovunque, e
nel contempo sommamente determinata, singolare.
La conoscenza, il sapere e persino la tecnica non solo
sono il mondo stesso ma producono modi,
condizione di possibilità, cogenti e realissime
astrazioni. Nella scrittura il tutto può essere
calcolabile, nel digitale tutto e logos non inteso come
riduzione alla logica, ma come possibilità
argomentativa, di pensieri e pratiche che possono
muoversi tra il vero e il falso, tra l’astratto e il
concreto, tra il reale e l’immaginario, tra il materiale e
il virtuale.
Il digitale è la noosfera di internet, il mondo
totalmente sensorizzato, sempre nel contempo
controllato e aperto al possibile, l’intelligenza
arti ciale che si sta così di ondendo da costringerci a
pensare che forse sempre il linguaggio, come la
scrittura, sono stati arti ciali e nel contempo naturali.
In fondo, dovremmo ripensare il dualismo tra naturate
e arti ciale: un dualismo che si pone solo in una ben
debole comprensione dell’esistente”.

Thamus è come attonito e interdetto. E così si


esprime:

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“ Tu vieni con un dono e non posso non apprezzare la
tua divina generosità. Quando ci hai regalato
l’alfabeto io ti ho fatto presente i pericoli del tuo dono.
Poi le cose sono andate come volevi tu e i miei
sudditi, compreso Platone, pur rinnegando il loro
stesso credo, hanno trasferito la loro memoria - e
come io, Thamus, credo, la loro anima- in scritti, testi,
libri, archivi biblioteche e quant’altro, dovunque. Tutto
è diventato scrittura. Indubbiamente fantastico. La
mia regalità però è progressivamente venuta meno,
visto che gli uomini si sono, forse anche grazie alla
scrittura, dedicati a qualcosa che chiamano
democrazia. Tant’é! E adesso vieni con un altro dono.
Permettimi che posso essere a dir poco sospettoso?
Puoi dirmi di che natura è questo dono e se sarò
costretto a sopportare qualcosa di analogo a ciò che
è accaduto quando si è di uso l’alfabeto e la scrittura
ha assunto una potenza che ha persino - quando non
sono riuscito ad usarla per me- messo in discussione
il mio potere?”

E Theut:

“Nobile sovrano, l’alfabeto ha permesso con pochi e


semplici segni di leggere e scrivere qualsiasi parola.
Mentre nella scrittura ideogra ca ogni simbolo gra co
rappresenta ogni singolo oggetto o azione e quindi la
scrittura in quel caso cerca di essere tutt’uno con il
mondo, con l’alfabeto abbiamo catturato , ingabbiato
e dominato il mondo stesso scomponendolo e
ricomponendolo a nostro piacimento. E’ stato uno
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straordinario processo di astrazione e
concettualizzazione, per di più incredibilmente
e cace. Da una parte, liberando ogni legame tra la
scrittura e la cosa o l’azione abbiamo sempre di più
potuto dominare il mondo, come se avessimo un
bisturi a disposizione per anatomizzarlo, dall’altra la
nostre stessa intelligenza ha potuto sempre di più
avvicinarsi e comprenderlo meglio quel mondo. E
questo facendo nel contempo sì che la memoria non
fosse più solo un patrimonio personale ma collettivo.
Senza la scrittura non avemmo potuto concepire lo
stato delle cose, ma nemmeno quel nostro modo di
stare assieme che chiamiamo Stato. Dovresti ben
saperlo visto che da questo dipende la tua stessa
regalità.
In sintesi con alfabetò è diventato più facile, molto più
facile, non solo imparare a scrivere, ma anche poter
de-scrivere il mondo.
Bene, il regalo che ti porto adesso viene chiamato il
digitale ma potrei anche riferirmi ad una altra parola, Il
bit, cioè l’unità di misura del contenuto di
informazione di un messaggio, o per dirla in altro
modo la quantità di informazione che risolve
l’incertezza tra due alternative, aperto/chiuso, acceso/
spento, zero/uno, ecc.
E’, in fondo, qualcosa di simile all’alfabeto, ma
immensamente più e cace. Non è un segno, ma un
quanto di informazione, meglio l’unità di base di ogni
informazione. Nota che informazione è un in più della
comunicazione. Basta interpretare bene , la scrittura e
ffi
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la parola. (…a proposito dell’alfabeto) informazione.
Informazione vale per mettere in-forma, cioè
determinare forme, sia in termini di immagini,
rappresentazioni, che di concetti, quindi identità e
singolarità. Non questione di poco conto.
Mentre l’alfabeto costruendo relazioni tra i segni e
formando parole tende a rappresentare il mondo,
l’insieme potenziale di bit tende a corrispondere con il
mondo stesso. La scrittura del mondo appare e si
presenta, in quanto identi cabile nel tutto e per parti
in bit, come il mondo stesso. Se il poeta ci ha che
fatto capire che siamo fatti della stessa materia di cui
sono fatti i sogni, oggi potremmo dirci che siamo fatti
della stessa materia ( e/o energia) di cui sono fatti i bit.
E questo fa sì che oltre a poter rappresentare il
mondo e a costruire linguaggio su linguaggi
(ovviamente grazie all’alfabeto) sia possibile anche
produrre mondi analoghi e anche diversissimi, là dove
si mescola naturale e arti ciale, in ciò che chiamiamo
virtuale.
Da qui il mio regalo si espande e diventa un in più di
mondo, ad esempio con il metaverso, un in più deil'
intelligenza (non distinguendo tra naturale e arti ciale,
appunto) e un in più -io credo- di umanità”.

Sempre più inquieto così risponde Thamus:

“Caro Theut, ti di troppo degli uomini, forse perché


ritieni di averli creati tu. Io, che sono uno di loro,
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fi
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di do e per questo detengo con forza il potere e mi
terrorizza la possibilità che possano diventare liberi”.

E se fosse…

Lasciamo che il divino e l’umano, troppo umano,


discutano tra loro anche se è interessante il fatto che
siamo riusciti insieme - con te caro lettore, fratello
nella scrittura- a portarli dal senza tempo del mito al
nostro tempo, quello del digitale.

Cerchiamo ora di intrecciare questo racconto con i


temi aperti da questo più che provocatorio incontro,
voluto da Silvano Tagliagambe assieme a tutto il
glorioso gruppo di Kitzanos.

Partiamo dal titolo E se fosse… Consapevolezza è


libertà.

E se fosse… l’ho subito interpretato come un


proviamo a pensare in altro modo, rivedendo magari
le nostre certezze, a dandoci al dubbio, provando a
pensare ciò che è controintuitivo o, come è diventato
usuale nella sica quantistica, a ragionare in modo
controfattuale. Avendo così il coraggio di a rontare a
mente aperta anche i fatti nella loro ossessiva
evidenza. Provando magari a pensare e a dire cose
scandalose come che lo spazio e il tempo
indubbiamente ci riguardano, non possiamo sfuggire
né all’uno né all’altro, ma nel contempo possono
esistere mondi, universi ( o chiamateli come volete)
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dove lo spazio e il tempo non esistono. Non è anche
questo che ci racconta la sica quantistica? E non è
controintuitivo l’empowerment? E questo cosa
comporta rispetto alla stessa possibilità di pensare gli
universali e/o i trascendentali così da che loso e è
loso a tranquillizzanti?

Provo un argomento che mi sta a cuore e che apre al


E se fosse…e che credo ci possa aiutare a pensare
in modo controfattuale, senza per questo illuderci di
poter fare a meno dei fatti.

E’ sentire implicito comune ritenere che il digitale non


sia altro che un insieme di macchine e tecnologie per
fare calcoli e che i calcoli siano in sé portatori di verità
e oggettività e che tutto prima o dopo sia calcolabile,
si tratta semplicemente di attrezzarci, oppure che il
calcolo ci avvicini o consegni alla ragione e che ciò
che non è calcolabile -una volta accettato che esista
qualcosa di ontologicamente non calcolabile- questo
appartenga ad una dimensione della imperfezione, di
ciò che non è controllabile, cioè che tendiamo a
de nire come irrazionale o un errore. So bene che la
questione razionale/irrazionale è più che ambigua e
che ha molto a che vedere con il problema del
conoscere e del pensare e quindi so bene che mi sto
mettendo in un pantano, vi chiedo per ora di seguirmi
nel ragionamento inevitabilmente schematico che
segue.

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La questione di fondo sta attorno alla parola
incalcolabile e alla argomentazione in qualche modo
conseguente: ciò che è calcolabile è razionale, cioè
che non lo è è irrazionale. Ad esempio i sentimenti
non sono di certo calcolabili anche se sono valutabili.
Quanto posso voler bene a qualcuno non è di certo
computabile, ma è indubbiamente valutabile e senza
dubbio argomentatile, magari con l’uso di metafore.
Non essendo calcolabili sembrano appartenere nella
vulgata all’ambito dell’irrazionale, o, in altro modo, al
sentimentale, che corrisponderebbe di seguito a ciò
che caratterizza la nostra stessa umanità, o se volete
alla nostra debolezza rispetto alla perfezione.

Sempre nella vulgata il digitale interpretato come


l’estensione delle macchine sembra essere una
estensione/di usione della potenza del calcolo che
può indubbiamente espandersi sino alle soglie
dell’irrazionale, ma non darne conto. Non può
nemmeno sognassi di diventare umano, cioè di aver
sentimenti. Non può occupare nemmeno il quantum
dell’intelligenza che viene de nita come istintiva e
tanto meno entrare nei meandri di ciò che chiamiamo
anima. Si sa le macchine non hanno anima.

Ma se provassimo a vedere il tutto da un’altro punto


di vista, ad esempio partendo da una banale
considerazione: un algoritmo è indubbiamente anche
un sistema che può agire con il numerabile e quindi
con logiche di calcolo comprovato, ma l’algoritmo è
di fatto anche una logica argomentativa: fare il
numero di passi ( sicamente reali o solo logici)
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minore per risolvere un determinato problema e
quindi il digitale non ha solo in sé l’obbiettivo della
calcolabilità numerale, ma quello di poter
argomentare e quindi di mettere in gioco ( cosa che
avviene sempre nel dialogo tra di noi) vero e falso,
razionale e irrazionale, possibile e impossibile. Per
questo attiva ra natissime logiche probabilistiche
senza presupporre che esse siano una diminutio
dovuto al fatto che non abbiamo ancora a
disposizione strumenti adatti a catturare l’irrazionale
che il problema ( o il fatto) nasconde; così come è
signi cativo che il digitale attivi logiche fuzzy verso
quello che è di fatto il riconoscimento di settori di
ide nibilità, di imprecisione .

Se così è ( e me sembra che sia così) il digitale è un


costante e aperto dialogo con la nostra stessa
umanità, con il razionale e l’irrazionale, e per quanto
mi riguarda , con la vita stessa che non mi sembra
proprio che sia risolvibile e comprensibile con il
calcolemus leibniziano.

Se l’intelligenza delle cose ( umana o meno) è


semplicemente una procedura ad accumulare e
confrontare la così detta intelligenza arti ciale non
potrà che esserci di grande aiuto (quindi tanto vale
appro ttarne), se come credo l’intelligenza è anche e
soprattutto introdurre varianti, rotture, in contesti
determinati, anche in questo caso la così detta
intelligenza arti ciale potrà esserci di grande aiuto se
comprendiamo che è possibile introdurre nei sistemi
analitici, anche se meccanici, in modalità ad esempio
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stocastica, il caso. Il nostro cervello funziona così.
Ormai ce lo raccontano (sic!) le neuroscienze. Quindi
se nei processi di accumulazione di dati, relazione tra
dati, linguaggi, modi di conoscenza, sistemi del
sapere è fondamentale il modo della accumulazione
(diciamo la memoria, anche se dovrei, rispetto a
quesa procedura, essere più preciso) è intelligenza
nel contempo tutto ciò che interviene per sottoporre
questorie (vero o presunto) continue veri che sulla
sua “stabilità”, capacità di resistere ad attacchi
sull’episteme, e , se vogliamo, sulla sua stessa verità,
con scarti, mosse imprevedibili, dubbi, ri essioni ,
magari inseguendo l’imprecisione o con
argomentazioni controfattuali empiricamente
improbabili. Ciò che va in gioco è la paratassi ordine/
disordine, precisione/imprecisione, chiuso/aperto.

Questo vuoto/pieno tra ciò che de niamo come


razionale e irrazionale, tra certezza e incertezza e in
fondo tra vero e falso è lo spazio aperto alle
argomentazioni controfattuali, quelle appunto dell’ E
se allora ….

Consideriamo un frammento dai un testo con il quale


più e più volte mi sono misurato, L’inizio dell’in nito
di David Deutsch studioso molto conosciuto in
ambito scienti co soprattutto per i suoi studi
rivoluzionari sulla computazione quantistica.

Scrive:

“Consideriamo ( …) gli impulsi nervosi che giungono


al cervello dagli organi di senso. Lungi dal fornire un
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accesso diretto e puro alla realtà, nemmeno loro sono
sono esperiti per ciò che sono davvero, cioè scariche
elettriche. Nè, in genere, li sentiamo accadere nel
luogo dove avvengono, cioè il cervello: ii collochiamo
invece nella realtà esterna. Non vediamo
semplicemente il colore blu, ma un cielo blu, lontano,
lassù. Non proviamo genericamente dolore, ma mal di
testa e mal di pancia”.

Chiarissimo, ma proprio per questo non dobbiamo


darci più di tanto delle nostre stesse percezioni,
senza per questo scivolare verso il relativismo sino ad
a ermare che la conoscenza stessa non è possibile,
anzi! È proprio questa non corrispondenza tra empira
ed elaborazione concettuale che rende sempre aperta
e necessaria la conoscenza. Magari ricordando
proprio una annotazione di Deutsch: l’unico processo
in grado di produrre conoscenza è l’evoluzione
biologica , facendo da parte mia presente che il
digitale si sta sempre di più rivolgendo ( per mimesi,
ma anche per processi astrattivi logico/formali) alle
procedure del bios.

Suppongo, scusandomi delle mie inevitabili


incompetenze, che le cose procedano in questo
modo. Il nostro cervello riceve , opera, procede
( vedete voi!) per impulsi nervosi, scariche elettriche.
Immagino (chiedo scusa della mia ingenuità
scienti ca) che la mia mano toccando qualcosa di
caldo mandi un segnale al mio cervello che attiva in
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tempo quasi reale le reazioni di tutto il mio corpo. E’
un segnale che nasce dal contatto tra il mio corpo e
una parte dell’ ambiente, magari anche una piccola
parte, ma sempre parte di qualcosa che comunque
percepiamo come un tutto. Il segnale ha a che vedere
in sé con il calore e il pericolo che il calore può
rappresentare? Penso proprio di no. Il segnale è altro
da ciò che segnala. Mi avvisa che ciò che provo è
legato al colore e ai suoi e etti, ma non è detto che il
segnale sia in sé caldo o freddo. É semplicemente ,
diremmo oggi, un bit, o un insieme di bit, una unità di
misura di una informazione che attraverso vari
passaggi, per altro straordinariamente veloci, arriva al
cervello il quale provvede a fare una delle possibili
decodi che. Prima di arrivare ad attivare le reazioni
del mio insieme/corpo passando attraverso il sistema
neuronale il segnale originario, che è - suppongo-
singolare o un insieme di singolarità, procede per
switch successivi estremamente complessi e
rami cati, assumendo così, caso per caso, attimo
per attimo, il modo o dello 0 o dell’1. Assumendo una
posizione. Da una parte o dall’altra, senza per questo
connotare l’una o l’altra come giusta o sbagliata, né
come coerente e incoerente rispetto all’insieme degli
stati di relazione in atto e alle potenzialità in gioco

La rami cazione dei switch, cioè di decisioni,


opportunità, resistenze, uidi cazioni, feedback si
con gura come linguaggio. Il segnale, l’in-formazione,
non è né 0 né 1: nel processo, nell’azione diventa 0 o
fi
fi
fi
fi
fl
ff
fi
1. E’ energia come relazione e relazione come
energia.

Se dovessimo usare l’argomentazione di una


antichissima sica naturale e di una altrettanto
antichissima loso a come meta sica potremmo
riferirci ad un modello atomistico tale da ricondurre la
molteplicità alla singolarità, il complesso al semplice,
il continuo al discreto, la materia allo spirito, grazie ad
un procedimento attrattivo, riduttivo teso a diventare
a-materiale. Così come potremmo anche seguire le
dinamiche che ci o re un pensiero duale: da una
parte la materia e dall’altra lo spirito, il corpo e
l’anima, il relativo e l’assoluta, il tutto e il nulla, il male
e il bene e così di seguito. Ma le considerazioni fatte
in precedenza mi fanno sospettare che sia la logica
atomistica che il modello dualistico siano modi della
nostra possibilità e capacità di interpretare l’esitante,
ma non certo il modo d’essere dell’esistente stesso.

C’è un aneddoto che ha a che vedere con le


dinamiche che riguardano il pensare e ciò che
chiamiamo intelligenza.

Entrata in una stanza in casa di amici, durante una


sontuosa festa, Zelda, moglie di Francis Scott
Fitzgerald, trova un critico letterario che aveva da
poco stroncato un romanzo del marito. Il critico
infastidito, con aria intensa, la prega di richiudere la
porta:

fi
fi
fi
ff
fi
“Mi scusi, sto pensando. Voglio stare solo”.

E immediatamente Zelda, con un sorriso feroce: “Lei


non può pensare, lei è omogeneo”. Proprio così, ha
ragione Zelda: per pensare bisogna essere
disomogenei, non corrispondere né a se stessi (alle
proprie sensazioni, istinti, convinzioni, abitudini
preconcetti, etc.), né alle cose di questo mondo (nella
loro in nita varietà). Il pensiero separa, distingue,
opera nella di erenza. Il pensiero mette
continuamente in gioco l’esistente. Chi sa perché
siamo invece così attratti dalla omogeneità? Perché
cerchiamo l’assimilazione, Perché sogniamo di
appartenere ad altro, al mondo, a Dio, all’Uno e
persino al nulla? O che conoscere sia appartenere?

Ecco, ritorniamo al … E se fosse… dell’incontro di


Cagliari: il controintuitivo, il controfattuale ci permette
di giocare con il pensare, con la conoscenza e con i
saperi, con l’intelligenza, nostra e del mondo.
Giocare? Proprio così, giocare! Nulla di più serio e
controfattuale. Come i bambini. “Facciamo nta che
io sia” che è un modo di dire E se fosse… Lo fanno i
bambini, ma attenzione è ciò che fa il pensiero delle
rivoluzioni. Qualsiasi sia il vostro modo di
approcciarvi all’idea della rivoluzione, va detto che
queste nascono da un pensiero controfattuale.

Giocare appunto. E il buon dio gioca o no a dadi? Se


si, dobbiamo confrontarci con l’aleatorieta e aprirci al
possibile; se no, accettare il determinismo e
fi
ff
fi
qualcosa che ci trascende e che lo determina: il
necessario.

Il controfattuale, che per altro anima la sica


quantistica (si ricordi che la frase Dio non gioca a
dadi con l’universo è rivolta da Einstein a Niels Bohr
che così rispose: non dire a dio come deve giocare)
che, come il digitale, è potenzialmente la rivoluzione
paci ca. E la sintesi epistemica di questa rivoluzione
può essere la seguente proposizione , appunto
controfattuale: tutto ciò che è pensabile è anche
possibile anche se non (immediatamente) fattuale. Il
possibile è sempre aperto. E’ la questione del virtuale
nel digitale. E’ in nito di cui ci parla David Deutsch in
una visione riassunta in una domanda retorica
“Chiediamoci ora: la creatività, e il divertimento,
possono continuare all’in nito?” Umano troppo
umano! Quella creatività e divertimento che non può
nascere da una intelligenza presuntuosamente certa
di sé, omogenea , direbbe Zelda, che ri uta ogni
teoria che presupponga un dover essere, o un dover
fare, in particolare oggi immersi come siamo nella
noosfera di internet, nel metatarso e in un continuo e
sempre più esteso dialogo con l’intelligenza che
chiamiamo arti ciale solo per sentirci superiori in
territori disraptiv, insieme metaempirici e di
straordinaria potenza epistemica come la quantistica
e il digitale.

fi
fi
fi
fi
fi
fi
Attorno al controfattuale

Molte sono le provocazioni che Silvano Tagliagambe


e Nicola Pirina ci propongono nell’organizzare questo
incontro con domande del tipo: “Come sarebbe il
mondo se le parti opportunità fossero realtà? Come si
modi cherebbe la società se ci fosse uguaglianza tra
donne e uomini?…..” E così di seguito, inseguendo
un mondo totalmente altro. Sono domande che potrei
segnalare appunto come controfattuali, che
contraddicono i fatti così come li percepiamo e quindi
mettono in discussione la nostra stessa esperienza.
Ci costringono a dubitare del modo in cui
conosciamo, di come pensiamo e quindi di come
abbiamo e continuano a determinare il nostro
rapporto con gli altri e con il mondo. Sono domande
tipo : “ E se fosse possibile qualcosa di diverso da ciò
che percepiamo e quindi anche crediamo? E se ciò di
cui siamo convinti non fosse poi vero? E se ciò che
riteniamo necessario non fosse a atto necessario? E
se fosse possibile un altro mondo diverso dal nostro?”
E così di seguito.

Indubbiamente l’interrogazione ci accompagna da


sempre, altrimenti non sapremmo pensare e tra le
poche certezze c’è il fatto che questo è qualcosa che
ci appartiene. Abbiamo persino la presunzione che
sia una caratteristiche solo della nostra specie.
Chissà la ragione di questa nostra convinzione?

fi
ff
Interroghiamo ora la parola controfattualità. E’
signi cativo che oggi venga usata molto in ambiente
scienti co quando ci si trova di fronte a qualcosa che
non sappiamo giusti care e/o contraddice la nostra
esperienza. Ad esempio nella sica quantistica
l’entaglement è semplicemente per noi impensabile,
eppure la nostra stessa capacità di argomentare in
modo rigoroso o scienti co -che dir si voglia- ci
spinge a pensare che siamo noi inadatti a dominare il
fenomeno e non lui che non esiste. L’entaglement ci
segnala che due particelle microscopiche possono
interagire anche quando sono a immane distanza una
dall’altra e che la modi ca che dovesse occorrere allo
stato quantistico di una delle particelle avrebbe
istantaneamente un e etto misurabile sullo stato
quantistico dell’altra particella. Il fenomeno viene
anche chiamato azione fantasma a distanza e si sa noi
preferiamo pensare che i fantasmi siano immaginari e
non reali. In fondo ci fanno un po’ paura. Sta di fatto
che l’entanglement è un fatto.

Certo il mondo della scienza ha sempre lavorato su


ipotesi si è sempre fatto domande da risolvere, ma
ancorato, come doverosamente è, alla nostra
esperienza ha sempre risolto le proprie
argomentazioni con questo adagio: adesso
veri chiamo con la sperimentazione che
inevitabilmente riconduce il tutto ai nostri sensi. Se i
nostri sensi danno conferma, la teoria è valida.

fi
fi
fi
fi
ff
fi
fi
fi
Ci è però capitato e credo che continuerà sempre di
più a capitarci di costruire argomentazioni
scienti camente rigorose attorno a fatti non
veri cabili, sperimentabili sì ma solo ipoteticamente.
Insomma siamo sempre più costretti in ambito
scienti co a darci dell’argomentazione e della
computabilità, piuttosto che della nostra esperienza e
qui compaiono mondi oltre e quindi problemi su
come e perché li possiamo conoscere. E sempre più
operiamo per esperimenti mentali che indubbiamente
simulano anche condizioni reali modellizzate a partire
dalla nostra esperienza empirica, ma introducono
sempre di più logiche controfattuali.

Filoso camente non possiamo contare sul principio


che presuppone che possiamo a darci alla
corrispondenza tra la realtà ( il famoso Adaequatio rei
et intellectus di aristotelica memoria) e il nostro
intelletto.

Certo è importante chiederci cosa conosciamo, ma


anche perché e come conosciamo e quale relazione
esista tra il modo in cui conosciamo e il cosa
conosciamo e magari farci spesso la domanda : cosa
produco quando conosco? D’altra parte il principio di
indeterminazione di Heisemberg è li per ricordarci
l’orizzonte di queste questioni dal 1927, quasi un
secolo fa.

fi
fi
fi
fi
fi
ffi
La controfattualità argomenta stati e possibilità di casi
alternativi a quelli reali. Ci segnala che qualcosa è,
può essere e potrà diventare, diverso da come è o da
come ci appare. Ci spinge a domandarci: potrebbe
essere altrimenti? O a intitolare un convegno E se
fosse…

Con il controfattuale ci viene da chiederci: possono


esistere mondi che non dipendono dalle stesse leggi
che abbiamo imparato a considerare universali, tipo
la newtoniana legge della caduta dei gravi e che
indubbiamente determinano senza possibilità di
scampo l’esistenza del nostro mondo?. Si dirà
giustamente che questo non è niente altro che una
delle varianti del pensiero ipotetico che ci
accompagna chi sa da quando , forse da sempre. In
fondo anche il pensiero scienti co si evolve si
sviluppa proprio immaginando condizione altre, di
esistenza e di valutazione dei fatti. Diciamo che
procede per scarti e quindi attiva ipotesi a dandosi
al rapporto tra la logica e il comportamento dei
fenomeni. E’ la nostra (forse non solo nostra) capacità
immaginativa che non solo ci permette di elaborare
ipotesi e quindi di elaborare pre-visioni. É
l’immaginazione pre- gura e quindi rappresenta.

Dovremmo quindi stare tranquilli e usare questa


parola controfattualità con la dovuta su cienza. E
invece ho la sensazione che questa parola ci inquieti,
o, per lo meno, questo accade a me. Perché non
fi
fi
ffi
ffi
usare semplicemente la parola immaginazione? E
perché prendersela con i fatti?

Comunque è complicato essere contro i fatti e quindi


contro la realtà. Così come è problematico avere di
mezzo tra la realtà e i fatti una parola per tutti noi
cruciale: verità. Si, perché quando diciamo “E’ un
fatto che …”, stiamo a ermando che ciò che è detto
come fatto è realmente vero. Una parola, la verità,
che ci pesa da tutti i punti di vista.

La controfattualità è l’argomentazione di un
interlocutore dispettoso che dice sempre che il
mondo è diverso da come tu lo stai raccontando?
Evidentemente non è solo così (anche se i dispettosi
esistono , e come , e molto probabilmente sono
anche molto utili). C’è qualcosa di logico o
metalogico o antilogico nell’argomentare qualcosa
contro i fatti?

Come è allora pensabile (sottolineo, pensabile) e


argomentatile la controfattualità? Potremmo dire che
avviene immaginando qualcosa. Proprio così: mentre
stiamo immaginando qualcosa costruiamo una
rappresentazione della cosa che consideriamo
esistente, ma anche qualcosa che potrebbe essere in
qualche modo altro dall’esistente.

Essendo la controfattualità la possibilità di pensare


qualcosa di alternativo a ciò che consideriamo reale,
ff
questo accade perché sappiamo rappresentare con
la nostra mente ciò che non riteniamo reale.

O meglio, sempre ci immaginiamo delle cose che non


corrispondono alla realtà, anzi è proprio il pensiero
che si alimenta di questa immaginazione, di uno
scarto tra la rappresentazione della cosa e la cosa,
diventando non solo quello che è, ma anche e cace.
Vuoi vedere che è proprio il pensiero stesso ad
essere, quando non è omogeneo, controfattuale? E
che il pensiero è attivo non solo per rappresentare,
ma per produrre mondi?

Interroghiamo la parola fatto . Fatto è participio


passato del verbo fare. Rinvia a qualcosa di costruito,
eseguito, realizzato con un certo mezzo o in un
determinato modo. E’ qualcosa di compiuto, portato
a termine e riconoscibile da chiunque in quanto
dotato di una forma speci ca e singolare. Ha a che
vedere con l’oggettività e con la certezza. Dicendo : é
un fatto che …, stiamo a ermando qualcosa che
diamo per certo.

Nella parola fatto è in gioco la verità, la certezza,


l’oggettività, la compiutezza di ciò che è fatto (cioè
prodotto) anche in quanto accaduto, quindi emerso,
immerso, nella temporalità, con una sua determinata
forma, cioè una riconoscibilità condivisibile ( e su
questa condivisione si struttura la semantica e quindi
il linguaggio). Inoltre è inevitabilmente l’esito di una o
più tecniche e di una qualche soggettività o di una
ff
fi
ffi
qualche determinazione, cioè di qualcosa o qualcuno
che ne ha stabilito l’accadere, l’eventualità. Un
bell’intreccio di questioni in questo gioco di parole!

Detto ciò, andare contro i fatti signi ca contrapporsi


alla presunzione di verità, di certezza, di oggettività e
ai valori identitari delle forme e quindi (in fondo) alle
ragioni che tradizionalmente attribuiamo alla tecnica e
al primato del soggetto.

Fatte queste divagazioni sul controfattuale, non


posso che segnalare i dubbi che per quanto mi
riguarda emergono:

-esiste solo il mondo rilevato dal nostro sistema


percettivo e quanto questo sistema determina delle
corrispondenze o una qualche veridicità rispetto a ciò
che chiamiamo realtà?

-la conoscenza del mondo opera solo per analogia o


si danno altre modalità?

-se si danno molteplici mondi esiste una universalità


che li giusti ca o ogni universale è di fatto solo
locale?

-se l’universale è solo locale che ne è del


trascendente. Forse nulla trascende, oppure il
trascendentale é parte della stessa singolarità, cosi
come il discreto implica il continuo, il nito determina
l’in nito e non viceversa?

Dubbi, appunto, posti ( e chiaramente non risolti


loso camente , tanto meno logicamente ed
epistemicamente) nei territori aperti sia dalla
quantistica che dal digitale.

fi
fi
fi
fi
fi
fi
Consapevolezza? Quale?

E siamo all’ultima parola in questione o, forse, al


centro della questione, consapevolezza non a caso
coniugata con libertà. E’ ovvio, è eticamente
necessario essere consapevoli di ciò che accade e ci
accade. Chi potrebbe dire altrimenti?

Ma c’è una questione che l’incontro di Cagliari mi ha


fatto riemergere. La consapevolezza di chi? Quella
mia? Chi di noi si ritiene non consapevole? Chi di noi
non prova in tutti i modi a giusti carsi, cioè a sentirsi
consapevolmente nel giusto?

Consapevolezza è questione decisamente intima, o


per lo meno è percepita come tale. E il modo in cui il
sapere diventa parte di noi, è il modo in cui la
conoscenza del mondo si fa corpo e atto.

Anche l’etica che argomenta sul comportamento


pratico dell'uomo di fronte ai concetti del bene e del
male, mette al centro questa dimensione singolare,
questa interiorità che chiamiamo soggetto
-inevitabilmente e giustamente, si dirà- per poi
pre gurare leggi che hanno, altrettanto
inevitabilmente, valenza collettiva. E’ indubbio, le
leggi sono il modo in cui la consapevolezza
soggettiva si fa collettiva. E . comunque non è un
caso che la parola consapevolezza abbia molto a che
vedere con un’altra parola cruciale: autocoscienza, e
fi
fi
che in gioco ci sia il complesso e umanissimo
rapporto tra l’io e il noi. E’ sin dalle origini della nostra
civiltà, con la tragedia greca, la questione sempre in
scena è il rapporto tra l’io e il Nomos , tra le
consuetudini e le leggi degli umani e quelle dei divini,
tra il relativo e l’assoluto.

Consapevolezza è cum-sapio dove cum va inteso


come contemporaneamente, e più precisamente
come unito a , unito a sapio, che a sua volta vale
come ho sapore, ho gusto, emano, ho senso, ma
anche come intelligenza, giudizio, conosco, so,
comprendo, è quindi un sapere, un gustare, un
valutare il come e il perché. Riguarda intimamente
l’io, l’idea di soggetto così radicata e fondante ,
anche se in articolazioni molto diverse tra loro, in
particolare nella nostra cultura. Non ha a caso il
(nostro ?) diritto ha al centro la soggettività e la sua
relazione con la colpa.

Ora, il dono portato ( non solo da oggi) da Theut si


presenta, in questo nostro dunque, con il digitale,
cioè con qualcosa di di usivo, connettivo,
coinvolgente, globalizzante, sostanzialmente sociale.
Il suo mondo siamo noi e l’intera noosfera e tutti gli
universi possibili, visto che possono essere pensati e
concettuali sostanzialmente come sistemi in-
formativi. Forse, allora, dovremmo interpretare quel
cum non solo come una ragione introspettiva, ma
come in e per un insieme, come ciò che ci può
ff
tenere uniti partendo non dall’io, ma dal noi (senza
ovviamente negare , impossibile, la stessa
soggettività), verso una maggiore consapevolezza
collettiva. Usiamo per questo la parola cultura,
ritengo a sproposito. Se è , è un cambio di valori, di
procedure, di tecniche di modi dell’episteme, se
volete anche culturale, ma in termini non solo di
visione o partecipazione empatia ma di diritto, cioè di
potere.

Si dirà comunque : buoni propositi per anime belle. E’


anche così, ma questo oggi ci è imposto - ne va della
nostra stessa sopravvivenza collettiva- dalla stessa
potenza onnivora del digitale che se non governato,
come tutti i farmaci, può essere anche un tremendo
veleno. Ci è imposto dall’urgenza determinata dalla
crisi climatica, cioè dalla possibilità della stessa auto
(etero, visto che la colpa ricade su di noi, ancora il noi
da ripensare) distruzione dell’intero pianeta e, ancora,
dall’urgenza di trovare un rapporto con ciò che
chiamiamo natura o mondo, l’altro, il simile e il
diverso, o con la vita stessa, non più solo in una
logica estrattiva, come se tutto fosse a nostra
disposizione.

E questo non può che costringerci a ripensare non


solo a come facciamo ciò che facciamo e a come
contemporaneamente o meno pensiamo a ciò che
pensiamo e facciamo, cioè all’episteme. Ciò che ci
manca è appunto una episteme (ripeto : la relazione
tra fare e pensare) o una teoria generale degli indotti,
probabilistica e non presuntuosamente esaustiva, una
teoria come elaborazione congetturale, tale da
renderci il più possibile consapevoli degli indotti di
qualsiasi cosa noi facciamo e pensiamo. E quindi un
pensiero disposto al controintuitivo, al controfattuale
al … se fosse.

Si dirà: impossibile, ma le teorie della complessità


non si sono da tempo chieste come sia possibile che
il battito di una farfalla nella foresta dell’ Orinoco
possa determinare una tempesta a Tokyo? Già la
domanda, anche se forse senza una determinata e
determinate risposta, non può che renderci
consapevoli di qualcosa che non siamo abituati a
pensare, ma che possiamo ben provare a pensare.
D’altra parte riusciamo a pensare che ciò che più ci
determina, il tempo e lo spazio non siano degli
assoluti e addirittura non esistano, potremmo anche
provare ad essere intellettualmente più liberi rispetto
all’impossibile, all’inde nito, al non veri cabile?

Accanto all’orgoglio delle perfezione, dovremmo


provare l’elogio della imperfezione. E soprattutto
dovremmo renderci conto che l’elaborazione che
compie il digitale non riguarda solo l’universo della
perfezione, ma anche le molteplici fughe della
imperfezione e da questo punto di vista non è più
solo una macchina ma un modo di pensare che
sempre di più prova ad integrasi con la vita, quella
vita che in n dei conti sa amare anche l’errore.

fi
fi
fi
E comunque l’insieme dei fatti e dei dati da
comprendere ed elaborare per rispondere all’urgenza
radicale di ciò che si presenta con il tema complesso
della sostenibilità, non può essere a rontato se non
mettendo in gioco tutta la potenza del digitale.

Se veramente è necessaria una più cogente


consapevolezza collettiva in una episteme coerente,
non dovremmo più chiederci cosa può fare il digitale
per noi, ma cosa possiamo fare noi per il digitale.

ff

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